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Applausi alla Dark Polo Gang per questo bellissimo bacio

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Viviamo, fortunatamente, in un'era in cui l'hip-hop sta diventando una cultura leggermente più inclusiva che in passato. In America, hanno persino appena iniziato a declamare l'inizio dell'era post-gender del rap. Il che però sembra avere senso, dato che Young Thug è apparso sulla copertina del suo nuovo (bellissimo, tra l'altro) tape con un (bellissimo, tra l'altro) vestito di Alessandro Trincone e nessuno è stato sorpreso dalla cosa, anzi: ci siamo tutti esaltati per la qualità estetica della cover e per l'espressione liberatoria che è la sua musica. Ed è appena uscito il nuovo di Frank Ocean, il disco più intimo che il nostro potesse tirar fuori e già una pietra preziosa della narrazione musicale LGBTQ contemporanea. Poi ci sono Mykki Blanco, Le1f, Syd tha Kid; e tutte le ragazze che stanno iniziando a dare manate liriche in faccia ai loro compagni MC maschi: Dej Loaf, Kamaiyah, Lady Leshurr, Nolay e molte, molte altre.

Insomma, nel 2016—per la prima volta dalle origini della cultura hip-hop, oserei dire—fare rap non è quasi più solo una questione di chi ce l'ha più grosso, perché avere un pene non è quasi più una qualità necessaria per essere presi sul serio. Dico quasi perché ovviamente le sacche di resistenza (leggasi: ignoranza) sono ancora vive e vegete, e si moltiplicano sull'internet come la zika. Lo sa bene Achille Lauro, che si è preso nomi su nomi per i vestiti che si mette. E ora lo sa bene anche la Dark Polo Gang, come dimostra la foto che potete vedere là sopra: è Tony che bacia Side. 

"TRAP LOVERS, SONO FROCIO PER MIO FRATELLO" ha scritto Tony, che ha postato l'immagine su Instagram. Il fatto che entrambi non si facciano paranoie sul fatto di essere ritratti mentre si baciano è una cosa molto bella, pensiamo noi. Non sono della stessa opinione, però, molti dei loro follower, che hanno commentato la foto con la stessa tolleranza dimostrata dall'inquisizione spagnola tra il Cinquecento e l'Ottocento. "Avete perso un fan" scrive vn__dope, "che merde" dice ligioss, "personalmente non li ascoltero più" sostiene dajibuh. Poi ci sono quelli particolarmente accorati, come dimostra lo screen qua sotto:

Morale: grazie a Tony e Side per il bacio, continuate così. Anche se volevate solo fare mafia, va bene. Datevene tanti, anche tutti voi che siete sotto l'egida del triplo sette. L'importante è fare incazzare chi, nel 2016, pensa ancora che baciarsi sia solo una questione eterosessuale.


Gli artisti più cercati dagli italiani su YouTube ci rivelano che popolo siamo

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L'Italia, si sa, è il regno del belcanto. C'è stato, infatti, un periodo in cui il nostro bellissimo Paese ha dominato, musicalmente parlando. Quell'età dell'oro va più o meno dal Seicento a Pavarotti&Friends, e ancora riusciamo a sentirne gli echi lontani quando guardiamo dritto negli occhiali uno dei componenti della boyband Il Volo. Uscendo da quella comfort zone da amanti della lirica, però, rimane una distesa desolata di vacuità, popolata da questioni spinose tipo i talent show o le serate in discoteca con Gigi D'Ag e Gabry Ponte. 

Qualche tempo fa notavo, parlando del fenomeno one-hit-wonder che ha animato le nostre classifiche nei gloriosi anni Zero—anni in cui nella nostra discografia c'era spazio per qualche sparuta novità—che, salvo casi unici come il botto sproporzionato di Calcutta o la rinascita dell'hip hop nostrano, la nostra industria discografica è satura dei soliti quattro o cinque nomi grossi, più o meno sempre gli stessi, che non sembrano voler lasciare spazio a qualcosa di non dico più dignitoso, ma quantomeno nato in un'epoca in cui le comunicazioni non erano affidate al telegrafo. 

Un recente thread di Reddit ha confermato, invece, le mie più grosse paure. L'utente baubauciaociao, che ringrazio, ha creato una gif, divisa per regioni, utilizzando i dati raccolti da Google Trend dal 2009 al 2014. Lui stesso ammette che ora Google Trend funziona in maniera un po' diversa, quindi non ha potuto aggiornare la sua ricerca, e di conseguenza la Gif, ma possiamo comunque tirare qualche conclusione a partire dai dati che abbiamo, che evidenziano soltanto il cantante più cercato in assoluto. Se siete in cerca di un'analisi che vada più nel profondo nel tessuto sociologico evidenziando altresì ricerche secondarie, vi rimando a questo articolo di qualche tempo fa ad opera del più bello della linea 74 di Milano, Niccolò Carradori, che dopo quelle sue scottanti scoperte è stato radiato per sempre dal mondo della musica. 

Iniziamo quindi la nostra disamina partendo dal lontano 2009, anno in cui ricordo le classifiche furono dominate dal brano "I Gotta Feeling" dei Black Eyed Peas, seguito da "Domani" di artisti Uniti per l'Abruzzo e "Poker Face" di Lady Gaga.


Dicevamo: nel 2009 le classifiche nazionali erano dominate, al terzo posto, da Lady Gaga, ma questo sembrano averlo capito soltanto in Sardegna e Trentino-Alto Adige, non a caso due tra le regioni in cui Gaga è stata più spesso in concerto (Gaga, ammerda, fai contenti i miei connazionali sardi e trentini e passa a trovarli, ogni tanto, loro hanno creduto in te sin dall'inizio). Colpitissimi dalla morte del mitologico Michael Jackson, invece, i pugliesi, i veneti, i liguri e i piemontesi hanno deciso di ricordarlo ancora e ancora, riguardandosi tutti i suoi videoclip. Ma qualcuno qui dovrà essersi accorto che stavamo diventando un po' troppo esterofili, quindi per fortuna sono intervenute le regioni-spina dorsale d'Italia, Lombardia, Emilia Romagna, Umbria e Abruzzo, a ricordarci che puoi guardarti tutti i video americani che vuoi, ma alla fine tornerai sempre dal Blasco. Più romantiche le regioni Marche, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia che giustamente decidono di rendere giustizia a Re Tiziano che effettivamente, a fine 2008, aveva tirato fuori il capolavorone Alla Mia Età che ha fatto piangere tutti, ma soprattutto gli amici delle regioni sopracitate. A quanto pare gli amici calabresi, valdostani, basilicatesi (basilichesi?) lucani e molisani non hanno aperto YouTube durante tutto l'anno, forse per un'altra forma di lutto per la scomparsa di Michael Jackson. 


Vuoi dirmi che in Italia siamo così masochisti da aver volontariamente cercato su YouTube il "Waka Waka" di Shakira? Ebbene. Tranne Molise e Basilicata che stavano ancora in silenzio stampa, una meravigliosa Calabria che, con un po' di lag, si è unita alle regioni blasche dell'anno precedente, la Sicilia semper fidelis a Tizianone e il Trentino che non abbandona la speranza di vedere, un giorno, la signora Gaga surfare sul lago di Garda—che verrebbe chiaramente per l'occasione ribattezzato Lago di Gaga—tutti gli altri hanno deciso di rovinarsi la vita ancora più del dovuto sottoponendosi a quel brainwash di vuvuzele e sculettamenti dell'inno dei Mondiali di Calcio. Se mi chiedessero di illustrare la tristezza della condizione della musica nel nostro Paese, mostrerei immediatamente questa slide. 


Ma chi vogliamo prendere in giro. Il mondiale l'avremo pure perso, ma non abbiamo certo perso la fede nel nostro unico e vero Dio della musica, il Blasco. Il 2011 è decisamente l'anno della reconquista per Vasco Rossi, il cui potere è talmente omnipervasivo che riesce addirittura a risvegliare regioni fino ad allora sopite come Molise e Basilicata. Per la Valle D'Aosta ancora non è il momento di usare Internet. Dal superpotere di Vasco, però, inspiegabilmente riescono a fuggire alcune regioni, tra cui la sua! L'Emilia Romagna, come altre regioni contigue (tranne i lombardi, che nel frattempo avevano "Vita Spericolata" in repeat) si affrancano dal Blasco a cui preferiscono (come dargli torto) la più fresca Rihanna, che in quell'anno in effetti aveva pubblicato il suo album meglio riuscito, Talk That Talk. Qui poi si presenta un caso particolarissimo, una regione, isolata, che dice di NO. Sorprendentemente in controtendenza, la Campania decide di dedicare i propri ascolti a Don Omar—supponiamo per la sua "Danza Kuduro", una reminiscenza del terrore che l'Italia intera, ma che dico, il Globo Terracqueo, aveva dovuto sopportare l'anno prima col "Waka Waka". Campania, perché ti vuoi male?


Attenzione ribaltone: nel 2012 Rihanna si riprende tutto chill' che è o suo, incluso il Molise che, con un gesto da voltagabbana, anziché portare rispetto a Vasco che, ricordiamo, era stato responsabile dell'ingresso di questa regione nelle classifiche YouTube, si concede a Rihanna. Stessa cosa per Sardegna, Liguria, Lombardia, Toscana, Abruzzo e Calabria. Rimangono fedeli al Blasco Lazio, Umbria, Puglia e Basilicata. La Sicilia, romanticona, invece non si stacca da Tiziano, trascinando con sé i colleghi del Regno delle Due Sicilie, i cugini campani, che finalmente mollano i ritmi kuduro e si dedicano alla loro vita sentimentale. Val D'Aosta ancora non pervenuta. 


Nel 2013 succede però qualcosa di inaspettato: le regioni d'Italia si frammentano in maniera incomprensibile. Vasco scompare dalle vette delle ricerche, lasciando il posto (in ordine di numero di regioni coinvolte) a P!nk, immagino per il pezzo "Just Give Me a Reason", che conquista Molise, Basilicata, Abruzzo, Umbria, Liguria, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige. Secondo classificato Naughty Boy, che ho onestamente dovuto cercare su Internet (allineandomi al trend di queste regioni di tre anni fa, ognuno ha i suoi tempi scusate) scoprendo che in effetti aveva piazzato un bell'asso con la sua "La la la" feat. Sam Smith. Un pezzo che al momento su YouTube conta 736 milioni e passa di visualizzazioni, di cui il 70% credo sia merito degli amici siciliani, stufi una volta per tutto di Tiziano Ferro. Ai tre estremi del triangolo-Italia, Puglia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia, svettano incontrastate le Serebro, le spice girls russe che, semplicemente andando in macchina ed essendo gnocche, hanno spodestato il Blasco dai cuori del popolo pugliese. Cos'avranno le Serebro che Vasco non ha. In controtendenza, il Veneto cerca gli One Direction, il Piemonte Fedez e i campani decidono di darsi al Kilometro Zero, promuovendo giustamente l'artista locale Clementino. 


Vi ricordate di "Happy"? Ve lo ricordate bene? Ve lo ricordate anche voi amici campani, molisani e calabresi? No perché non mi sembravate attenti l'anno in cui TUTTA ITALIA praticamente ha ascoltato all'unisono, da ogni dispositivo, in continuazione, quell'incubo di pezzo. Fedeli alle proprie radici, i campani spingono un altro artista local, Rocco Hunt, emulati dalle regioni Basilicata e Calabria. Come in quella divertente vignetta che ritrae i Browser, l'Abruzzo rimane col cuore e con il browser, appunto, nel 2011, continuando a perpetrare l'italica tradizione di tenere unicamente Vasco in quel bizzarro motore di ricerca chiamato vita. 
 

Ora vi aspettereste che io tiri qualche conclusione generale sui dati che abbiamo appena analizzato. Dato per assodato che Vasco è ancora (grazie all'Abruzzo) il re indiscusso d'Italia, la regione Abruzzo vince il premio Blasco, rubandolo con un colpo di coda all'Emilia Romagna. I sardi dimostrano di avere carattere e gusti variabili, dato che ogni anno si buttano su un big differente, i campani risultano quelli più coerenti col territorio, la trinacria invece è la regione più amante di Tiziano Ferro, che dovrebbe di conseguenza rivedere il suo rapporto con il Lazio, che dal 2009 in poi gli ha voltato le spalle. Il premio coerenza, invece, va alla Valle D'Aosta che, in tutti questi anni, non ha MAI acceso il computer. Bravi, amici valdostani, il vostro stratagemma vi ha permesso di salvarvi da questa valanga di musica infestante che ha colpito più o meno tutti i vostri connazionali. 
 

Segui Virginia su Twitter: @virginia_W_

 

Il nostro personaggio preferito di Stranger Things canta da dio

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Si può dire che Stranger Things sia stato uno dei grandi eventi dell'estate. In questi giorni è arrivata la notizia che la serie con Winona Ryder (bentornata! Ci sei mancata!) e il cast di bambini attori che ci hanno rubato il cuore tornerà per una seconda stagione nel 2017. Il teaser promette bene—usa il font che tutti conosciamo e probabilmente odiamo a causa di questo generatore che ha invaso le nostre timeline. Ma questo non importa. Per quanto sia esaltante la notizia di altre nove puntate di dilemmi preadolescenziali ambientati nel 1984, ciò che importa davvero non ha nulla a che fare con la seconda stagione o la serie in generale. Ha a che fare con Gaten Matarazzo, che interpreta l'adorabile spalla di Mike (Finn Wolfhard) Dustin—forse il miglior personaggio di Stranger Things. Matarazzo è un cantante bravissimo. Anzi, straordinario. Matarazzo ha postato un video sulla sua pagina Instagram—che, se non l'avete ancora fatto, vi consiglio di visitare per riacquistare fiducia nell'umanità—di lui e sua sorella Sabrina che cantano "Chandelier" di Sia in maniera francamente impeccabile.

Approfondiamo.

Qui il nostro si trova con Caleb McLaughlin, che nella serie interpreta Lucas, a cantare sopra all'inquietante tema di Stranger Things. È solo un assaggio della tecnica di questo ragazzino, che a me sembra superiore a quella di molte popstar. 




Nel 2015 ha cantato l'inno nazionale a una partita dei New York Mets insieme a sua sorella. Io non sono statunitense, ma il modo in cui la sua voce raggiunge vette che credevo impensabili per un preadolescente mi rende estremamente patriottica. 


Sapevate che Matarazzo è stato anche a Broadway? Be', ora lo sapete. Matarazzo ha interpretato Gavroche in Les Miserables, e se questo non vi fa pensare di non aver concluso nulla nella vostra vita non so proprio cos'altro dirvi.

Quello che voglio dire è: a) questo ragazzino va protetto a tutti i costi, visto che è di rara purezza e innocenza; b) speriamo che la seconda stagione sfrutti adeguatamente le sue doti vocali. Sarebbe stupido non farlo. Immaginate di sentirlo cantare le vostre canzoni anni Ottanta preferite. Sono già commossa.

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Patti Smith, sua figlia e il Soundwalk Collective hanno composto un tributo sperimentale a Nico

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Foto di Michael Stipe (!)/ Per concessione di Soundwalk Collective

Omaggiare un'icona è sempre una roba complicata. I tribute album e le cover restano sempre soverchiati dall'ombra dell'originale: e non importa quanto ci provate, è sempre dura confrontarsi. Per questo il Soundwalk Collective—la truppa internazionale di sound art formata da Stephan Crasneanscki, Simone Merli e Kamran Sadeghi—ha deciso di realizzare l'album Killer Road, ispirato alla tragica morte di Nico, provando a fare qualcosa di molto più astratto. Il trio, il cui lavoro finora era sempre stato legato a istallazioni site-specific e interventi su natura e paesaggio, ha quindi deciso di evitare le convenzioni e tuffarsi nell'ignoto, usando field recordings, letture, percussioni esotiche e l'harmonium di Nico per ottenerne una palette sonica soffusa ma minacciosa, con lo stesso alone mistico della leggendaria cantante.

L'idea è nata a Ibiza, dove Nico viveva al tempo della sua morte. Crasneanscki è sempre stato molto interessato alla sua storia e al suo lascito, e aveva iniziato una serie di foto ispirate allla sua natura intensa e inquietante. Ma mentre iniziavano a lavorare a Killer Road i tre sono riusciti a coinvolgere un'altra icona: per puro caso Crasneanscki si ritrovò seduto di fianco all'eroina proto-punk Patti Smith su un aereo, e si ritrovò a spiegarle il progetto. Smith era da tempo una grandissima fan di Nico e fu intrigata dall'idea, così tre giorni dopo era già in studio coi Soundwalk. La figlia di Smith, la polistrumentista e artista Jesse Paris, fu a sua volta arruolata per contribuire alla musica e per recitare alcune delle poesie di Nico con sua madre.

Una versione del lavoro ha debuttato alla Biennale Di Venezia del 2013, ma dopo un paio di anni e diverse performance live, ora ne sta finalmente per uscire (il 2 settembre per Sacred Bones/Bella Union) una versione registrata. Noi abbiamo quindi telefonato a Merlie, Sadeghi e Jesse Paris Smith per parlare di questo strano disco. Potete leggerle di seguito, e acoltare "I Will Be Seven", una versione rimaneggiata e oscura di una delle ultime canzoni scritte da nico prima della sua morte nel 1988.

THUMP: Come è nato il concept dell'album? Quando avete deciso di fare qualcosa su Nico?
Simone Merli: Stephan ha vissuto per un po' a Ibiza, e quando era lì aveva pensato a dedicare un lavoro a Nico. Abbiamo iniziato registrando dei Field Recordings dell'isola. Pensavamo che usare il suono dei grilli come sottofondo armonico avrebbe reso l'idea del ciclo della vita e della morte.

Kamran Sadeghi: AInizialmente avevamo pensato a una installazione video per la Biennale di Venezia. Dopodiché Patti è venuta in studio da noi e abbiamo iniziato a registrare, per poi iniziare a provare il live. È stato tutto molto spontaneo.

Per la maggior parte della gente Ibiza è sinonimo di club e musica dance. È interessante che invece voi abbiate registrato nell'isola dei field recordings per lavorare su un artista che non ha niente a che fare con quella cultura.
Merli: Credo l'isola sia un po' cambiata. Ha sempre avuto una club culture, ma ha anche sempre attirato molta gente creativa e gente alla ricerca di non si sa bene cosa. Ultimamente viene molto sfruttata commercialmente, si parla solo dei club, ma l'isola ha ancora un lato molto solitario, spirituale e selvaggio. Molto bello.

Avete sentito una comunione spirituale con Nico più forte a Ibiza che altrove, considerato che è lì che ha passato i suoi ultimi anni?
Sadeghi: Credo di sì, che sia stato più semplice anche grazie allo spazi, al silenzio e a tutti gli elementi che ti permettono di ricevere qualcosa che non ti arriverebbe in città. Ibiza ha molte facce, e oltre a questa energia bella, positiva e solare ce n'è anche una oscura e spaventosa che è propria di Nico stessa. Non è dato di sapere come fosse la sua vita quotidiana, ma in pubblico aveva sicuramente un'immagine molto tetra. Sembrava una persona difficile e intensa.

Che rapporto avete con la sua musica?
Sadeghi: La amiamo, ma siamo sempre stati più ispirati dalle parole dei suoi testi. In studio abbiamo lavorato soprattutto su quelle. Sono state la scintilla dell'album. Sono molto potenti.

Jesse Paris Smith: Non ne avevo uno prima di lavorare a questo progetto. Conoscevo giusto un paio di canzoni, tipo "These Days" che avevo anche suonato live con mia madre. Lei l'ha conosciuta un po' negli anni Settanta.

È molto interessante che abbiate lavorato poco sulla sua musica e molto sulla sua personalità, sulla sua identità artistica.
Sadeghi: Non è tanto la musica in sé che ci interessava, quanto il personaggio profondamente poetico che era, e le immagini create dai suoi testi. Molti dei nostri album e delle nostre performance derivano da delle storie. Facciamo anche molti field recordings, è quasi l'ottanta percento del nostro lavoro. È importante avere una storia da raccontare per usarli bene. È altrettanto importante non rimanere fossilizzati su un unico genere, dato che facciamo molti tipi diversi di musica. Sempre elettronica ma non deep house o techno, non lavoriamo a quel modo: con ogni progetto preferiamo andare più a fondo e nell'intimo.

Jesse, in che modo hai contribuito al progetto? Qual è stata per te la parte più gratificante del lavoro?
Paris Smith: Sono state le performance: ho suonato molti strumenti diversi, che ha reso molto divertente stare sul palco. Dalle registrazioni non si capisce, ma molto del mio lavoro aveva un aspetto anche visivo. Il suono era importante, ma una grossa parte della performance era composta dall'aspetto fisico degli strumenti.

Che strumenti hai suonato?
Paris Smith: Avevo quindici campane di vetro, un synth modulare, dei piccoli metallofoni, un waterfone, che si riempie d'acqua e si suona con un violoncello, una ocean drum, delle campane koshi e non ricordo cos'altro. È stato divertente perché Stephan si occupava soprattutto dei field recordings, e il mio compito era armonizzarmi con i suoni naturali di Ibiza: onde, vento, voci, passi e suoni di biciclette.

Lavorare a questo progetto ha infleunzato il tuo rapporto con il lavoro di Nico?
Paris Smith: Leggere, sia in privato che in pubblico, le sue poesie così tante volte mi ha influenzata tantissimo. Anche discutere della sua sua storia con mia madre, e scoprire quanto a mio padre [Fred "Sonic" Smith, ndr] piacesse la sua musica. Ora, quando ascolto la sua musica, la sento in maniera molto diversa da prima.

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È uscito il video di "Figli di papà" di Sfera Ebbasta

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Sfera Ebbasta sta per pubblicare il suo primo LP: uscirà il 6 settembre per Universal/Def Jam/Roccia Music. Siamo molto esaltati dalla cosa e, per ora, abbiamo già potuto osservarlo seduto su una pantera nel video di "BRNBQ" e chillarsela con il francese SCH in quello di "Cartine Cartier." Ora, ecco arrivare il terzo estratto dall'album: si intitola "Figli di papà" e ha un video ufficiale che ritrae Sfera e Charlie negli Stati Uniti. È praticamente un'ode alle energie rinnovabili che ci ricorda però anche quanto siano fighi, a livello estetico, i pozzi di petrolio nel deserto. Roba che neanche Daniel Day-Lewis. Lo potete guardare qua sotto.

Guarda il cortometraggio di Vince Staples "Prima Donna"

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Si può dire che Prima Donna, il nuovo EP da sette pezzi di Vince Staples, sia la sua migliore uscita, anche se forse si tratta di una frase senza senso perché nessuno è davvero in grado di giudicare l'arte. È una questione di interpretazione, e Vince sarebbe il primo a concordare. "È quello che rende l'arte arte", ha dichiarato in una recente intervista con Noisey. Ma una cosa è certa: Prima Donna rispetto all'ultimo, ottimo album Summertime '06, si addentra in territori molto più profondi. È, per usare un termine tecnico, un cazzo di trip.

Di conseguenza, sarebbe profondamente stupido presentarlo con un tipico, noioso videoclip di Vince che guida la macchina o sta a bordo piscina o robe così. Quello che si merita—e che ha avuto—è una narrazione surreale che rivela le incongruenze più radicate dello show business, che sembrano perseguitare Vince in questo disco. Il cortometraggio di Prima Donna, diretto da Nabil, prende come spunto le tematiche dell'EP e segue Vince in un viaggio onirico attraverso la sua stessa musica e i pericoli della performance. Vince esce da uno studio in cui ha girato un video ed entra in un vecchio taxi trasandato, il che è quasi sempre un segno inequivocabile che qualcosa di strambo stia per accadere. Finisce in un ugualmente trasandato vecchio hotel—altro segnale inequivocabile—chiamato Prima Donna, e qui la realtà comincia davvero a trasformarsi, mentre Vince incontra in corridoio gente come Tupac e Amy Winehouse. 

A emergere, in definitiva, è una inquietante riflessione sulla fama, l'industria musicale, la razza e oltre. Ancora una volta, sarebbe assurdo cercare di spiegarvi che cosa significa in ogni dettaglio, e per di più rischieremmo di far arrabbiare Vince Staples. Per cui guardate il video qua sotto, lasciate che vi fotta il cervello e andate ad ascoltarvi Prima Donna per dieci o quindici volte di seguito. 

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Questa intervista a Povia mi ha aperto gli occhi sulla droga

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Se c'è una cosa che ho imparato parlando con Povia quella volta che lo intervistai (prima che lui stesso decidesse che non ci avrebbe più risposto perché rappresentiamo IL MALE) è che per Povia IL MALE ha mille maschere. Puoi trovare IL MALE nella valuta che utilizziamo tutti i giorni per comprare beni di prima necessità, puoi trovare IL MALE nel cielo, in quelle pericolose scie che si formano nonsisabenecome, puoi trovare IL MALE su Internet, incarnato in commentatori che non assecondano il flusso di coscienza del cantautore capelluto, puoi trovare IL MALE in chi ti fa credere che essere gay è più figo di stare con lei e, soprattutto, puoi trovare IL MALE nella droga. 

Casualmente ieri sera mi trovavo sul divano di casa mia con un modestissimo esemplare di MALE™ acceso e poca voglia di muovermi dal divano stesso, e casualmente la televisione era accesa e sintonizzata su RAI Tre, che stava dando il meglio del servizio pubblico con una puntata della trasmissione di approfondimento Vertigo dedicata interamente alla droga. Sempre casualmente—ma alle coincidenze chi ci crede più—ospite di questa puntata era il sopracitato cantante capelluto Giuseppe Povia, che, armato di chitarra acustica e di qualche storia particolarmente toccante sul tema, è intervenuto per dire la sua, tra una canzone e l'altra. 

Il contesto ricorda più o meno un MTV Unplugged, però senza MTV e soprattutto senza droga, infatti al posto di Cobain c'è Povia e al posto del pubblico il solo Giuseppe Rinaldi che guarda negli occhi Povione durante tutte le sue interpretazioni acustiche, manco fosse una fidanzata delusa che bisogna riconquistare con una bella serenata. Ma tralasciando il quantitativo di inquietudine degli intermezzi canori, il concentrato di assurdità esce dalla bocca di Povia quando, anziché le sue canzoni, parte inanellando perle rare nei suoi canonici sermoni esistenziali. 

ECCO LA PUNTATA. Il nostro Profeta sta al minuto 1.20.23 ma merita tutta, dato che prima c'è Davide di "In Forma Con Davide".

In uno studio popolato di luci al neon che formano le parole ECSTASY e COCAINE e come bonus una foglia di Maria, il nostro Rinaldi introduce l'ospite con queste parole: "Giuseppe ha cominciato con le sigarette, era giovanissimo, poi si è lasciato prendere la mano, ha seguito il gruppo, il "BRANCO", come lo chiama lui. Ha provato le canne fino a diventare consumatore abituale di cocaina. Oggi, dopo aver attraversato questo vortice si racconta con la sua chitarra. La chitarra di Povia."

Ora io non vorrei essere indelicata nei confronti del servizio pubblico, ma qui ci troviamo a cospetto di una trasmissione della TV nazionale che dovrebbe fare, appunto, servizio pubblico, ma già dalle poche parole che vi ho trascritto qui sopra si sente una vaga puzza di asse Gasparri-Lorenzin, ossia di quel numerosissimo gruppo di persone sane™ rimasto affezionato all'etica bossifiniana per cui non esiste distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere ed è un attimo passare dalle Marlboro direttamente all'eroina

Un giro nello studio di Vertigo, in cui purtroppo ecstasy e cocaine sono presenti solo in forma di simulacro.

Giuseppe Povia risponde prontamente alla prima domanda: "Come si arriva a drogarsi?" —ecco, lui ci è arrivato con le sigarette. Le sigarette, scopriremo più avanti, sono quella cosa che il "branco", o meglio la tua volontà di stare nel "branco" ti impone per poterti sentire parte di un tutto. Povia voleva rimanere nel branco, quindi anche se ha tossito è riuscito a resistere, ed è così che inizia a fumare due pacchetti e mezzo di sigarette al giorno. 

Poi le cose non sono più chiare, non si capisce benissimo come sia passato ad altro, ma si sa la data della sua disintossicazione completa dal tabacco, avvenuta nel 2007 presso l'hotel Mozart a Milano (che scopro essere vicino casa di Giacomo Stefanini). Ricordiamo, grazie a Wikipedia, altri highlights del 2007 di Povia: "Il 12 maggio 2007 partecipa alla manifestazione chiamata "Family Day", svoltasi in piazza di Porta San Giovanni a Roma, affermando in quell'occasione che l'approvazione dei DICO avrebbe sottratto fondi alle famiglie tradizionali." Bei tempi quelli dei DICO, ma ancora più belli quelli delle sigarette, finiti troppo presto per Povia, che non si accontenta di quel vizietto e, sempre per stare nel branco, decide che vuole osare di più. 

"Nel famoso branco viene fuori qualcuno che ha trovato una canna di erba rossa che si trova nella Micronesia della situazione". Mi consulto con un'esperta di sostanze chiedendole se sappia dell'esistenza di questa famosa erba rossa della Micronesia. Qui la sua risposta:

A quanto pare ai tempi Povia si circondava di "fighe" attratte non solo dalla sua figura di bello&dannato, ma anche e soprattutto da quella che lui stesso definisce ridendo "aziendina", sottintendendo un'attività di spaccio che immagino sia stata una sorta di impero Narcos, dal momento che gli garantiva questo famigerato harem di "fighe". 

Ma è arrivato il momento dell'intermezzo musicale! Rai Tre, servizio pubblico, permette a Povia di cantare un pezzo non solo fuorviante, ma anche contenente messaggi che alimentano quella confusione di idee di cui Povia è testimonial più che della disintossicazione: "ma le droghe sono droghe tutte / e sono armi del potere / il mondo fuma Marijuana / è il mondo che cambia fumando la ganja / che ce ne frega della moneta sovrana / quando il debito lo risolverà la vendita della marijuana." 

Roba che Ghali scostate, insomma.

Poi il nostro racconta di essere cresciuto in zona Corso Ventidue Marzo / Viale Umbria. Rinaldi chiede una precisazione per chi non è di Milano: quella zona "è in centro o in periferia?" e Povia risponde che è in periferia. Ora io non so bene quale urbanista abbia educato Povia alla catalogazione delle zone della città, probabilmente un parente di quello che gli ha suggerito la storia della Moneta Sovrana o quella dell'indistinzione tra sostanze leggere e pesanti, fatto sta che secondo i miei calcoli quella non si può definire come periferia, dato che sta a dieci minuti dal Duomo. 

Poi chiaramente, al il momento di raccontare il suo lavoro di cameriere, il buon Giuseppe ci tiene a specificare che il cameriere è un lavoro nobile, e che lui continua a fare il cameriere, ma adesso anziché pietanze serve canzoni. Una sorta di parafrasi della storia del Presidente-Operaio. Parla anche di quanto guadagnava: un milione e due delle vecchie lire. Credete che possiamo perderci l'occasione di piazzare un punto? 

"Magaaari tornasse la Lira va'!"


Punto per Povia e per il vecchio conio tutto. 

Chiaramente questi sfasi pindarici che passano dalle canne alla MonetaSovrana™ hanno bisogno di una spiegazione, e qui interviene il momento greve in cui Povia racconta di come ha perso un amico in un incidente per colpa dell'alcol, evento che gli ha fatto scattare una molla. 

Da questo tragico evento, Povia esce con una nuova consapevolezza e soprattutto con la coscienza e la convinzione che la sua missione sia quella di redimere chi si piega al "maledetto idolo di una falsa libertà", cioè l'alcol (e di conseguenza di tutte le altre droghe pesanti). Nel frattempo però fa uso di cocaina per dieci anni, come gli ricorda Rinaldi, e Povia qui coglie la palla al balzo per ribadire e sottolineare che per lui le droghe sono tutte uguali, dalla sigaretta all'eroina: "tutto ciò che inietti nel tuo corpo è comunque veleno e tossico," dice. Di tanto in tanto la regia di Vertigo accompagna le vette apocalittiche della narrazione di Povia con immagini decisamente inquietanti di aquabomber che mette cose strane in un bottiglione da due litri di Ferrarelle.

Fino a qui sembrerebbe quasi un normale racconto di una persona che ha vissuto gli anni ruggenti della gioventù facendo uso di sostanze, invece di punto in bianco Povia fa un'affermazione apparentemente innocua, ma che vedremo nascondere un sinistro retroscena.

"Alla fine non l'abbiamo scelto, non è che tu scegli di drogarti, è la droga che sceglie te."

Assurdo, per qualcuno l'idea di trovare del fumo di qualità decente a Milano è una chimera, mentre Povia e il suo "branco" sono addirittura stati prescelti dalla droga, la quale è risalita dalle viscere dell'inferno per giungere fino a quella brutta zona che è Corso Ventidue Marzo e investire questi inconsapevoli ragazzi di periferia. Tu guarda a volte le disgrazie.

Da questo momento in poi, com'era prevedibile conoscendo le tendenze esplicitamente complottiste del nostro, parte tutta una prosopopea sui mass media, i cantanti degli anni Settanta e la diffusione delle sostanze. 

"Poi mi sono reso conto, negli anni, nel tempo, del PERCHÉ sono state immesse le droghe..."

Il volto della consapoviolezza.

La storia che racconta inizia dalla Commissione Trilaterale, setta di tecnocrati, "un'élite che parte dall'USA, passa per l'Europa e finisce in Giappone" che, nel 1971 e '73 "incaricarono una persona che si chiama Lewis Powell di fare un manuale di undici pagine in cui smontava tutta la democrazia che era stata conquistata", per "portare i popoli all'apatia". Ora io ho provato a fare un po' di ricerche—superficiali, scusatemi—sulla storia di Lewis Powell, e sono capitata sulla pagina a lui dedicata del saggista complottista Paolo Barnard, che è un po' il Casaleggio di Povia. Poi ho interrotto le ricerche perché comunque non vedevo alcun motivo valido per non fidarmi delle loro parole. 

Lo scopo di questa operazione-brainwash sarebbe, secondo Povia e co, di immettere nelle scuole, nel mondo dell'istruzione, ma anche nei media e nell'intrattenimento, "attraverso la sociologia," nella politica e nell'economia questi messaggi profusi dalle grandi élite. 

Con tutta la calma del mondo, Rinaldi che ricordiamo ha consapevolmente portato Povia su RAI Tre, tenta di controbattere dicendo che quello che sta dicendo "è un po' deresponsabilizzante". Non viene nemmeno toccata l'idea di avere di fronte un individuo chiaramente sconvolto dal troppo cospirazionismo assunto. 

Povia e Barnard

Negli anni Settanta-Ottanta-Novanta, sempre secondo Povia, tramite i cantanti "dai Jim Morrison ai vari Bob" è passato il messaggio DROGA/TRASGRESSIONE. "Vuoi perché andavano nudi sul palco, vuoi perché cantavano canzoni di protesta, vuoi perché magari facevano canzoni con messaggi subliminali..." e poi cita l'economista John Maynard Keynes quando dice "Lo sfruttamento degli uomini di spettacolo e di successo è la cosa più brutta più brama [sic] che possono usare i difensori della finta democrazia per portare i popoli all'apatia". Al momento non ho tempo di fare fact-checking anche su questo, ma credo abbia detto esattamente così. 

La trasmissione ovviamente va a nero e riprende con Rinaldi che chiede a Povia come ne sia uscito (dalla droga, non dalle teorie del complotto) e lui afferma che è stato grazie a quelli che chiama i "quattro ricostruttori" o "quattro frati", che scopriamo in realtà non essere frati ma ex tossici "affiliati all'ordine francescano" che "avevano il loro orticello, vivevano nell'elemosina". Grazie a questi ricostruttori (ecco qui il sito dei ricostruttori, fatevi un bel giro) Povia si libera dal demone della droga e ne esce arricchito di un'esperienza che l'ha formato e gli ha piantato nel cuore l'idea che sia giusto diffondere, tramite la sua musica e il suo canale Facebook, informazioni dalle fonti certe e moralmente impeccabili. Grazie ai ricostruttori e a Paolo Barnard, Povia riesce finalmente a dimenticare la droga e a diventare la persona sana e lineare che è oggi.


Virginia dice no alla droga ogni giorno, ma lavorando con la musica poi va a finire che è la droga che sceglie lei. Seguila su Twitter: @virginia_W_ 

 

Perché il Fabric rischia di chiudere e cosa vuol dire per la club culture inglese

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This article appeared originally on THUMP UK.

L'avrete saputo: il Fabric, la principale istituzione del clubbing underground londinese, è in pericolo. Dopo due morti per droga negli ultimi mesi, il consiglio di zona di Islington ha votato per revocargli la licenza. Il club era già finito sotto osservazione da parte delle autorità lo scorso anno, ma aveva vinto un appello contro il tentatico della municipalità di posizionare all'entrata del club, in maniera permanente, cani antidroga e scanner elettronici per le carte di identità. Stavolta le cose paiono più serie: le due recenti fatalità hanno fatto salire a sei il numero di morti dal 2011, e hanno portato a una nuova indagine sulle politiche del club in fatto di droghe, a troppo poco tempo dall'ultimo processo. Per farla breve: la pressione delle autorità sul Fabric è più forte che mai, e le chance che gli vada liscia per la seconda volta in un anno sono molto scarse.

Detto questo, la chiamata alle armi per la salvezza del Fabric è già potente. Una petizione lanciata dal resident di WetYourself Jacob Husley è già a novantacinquemila firme, e manca poco al traguardo di centocinquantamila segnato su change.org. Oltre a questo, la petizione ha anche ricevuto il supporto di molte facce note della musica dance, al punto che faremmo prima a elencare gli artisti che non hanno firmato: da Seth Troxler a Carl Craig, da XOYO a Space Ibiza, da Emily Eavis a Lauren Laverne... Praticamente tutto il mondo del clubbing si è fatto sentire.

Gran parte di questa campagna ha avuto come destinatario Sadiq Kahn, il nuovo sindaco di Londra. Per quanto politicamente siano un po' fuori asse (Khan non avrà molto potere sulla decisione finale) il suo supporto ed eventuale contributo segnerebbero un punto importante. Khan ha già risposto con un paio di dichiarazioni che lo hanno mostrato apparentemente vicino alla causa: in seguito agli appelli social di un paio di DJ, Khan ha risposto twittando: "è importante che il #Fabric, la polizia di Londra e Islington trovino un compromesso per proteggere i clubber e garantire un futuro al locale." Dopodiché, in seguito al successo della petizione, ha rilasciato un comunicato in cui confermava il suo supporto, oltre all'impegno di istituire il ruolo di "Night Czar": una figura istituzionale che si occupi di tutelare e valorizzare la cub culture londinese, oltre che l'industria che la sostiene. Ciononostante, è stato piuttosto inamovibile nell'affermare che "Ci sono stati due tragici decessi al Fabric negli ultimi mesi ed è un problema che va assolutamente risolto".

La dichiarazione di Khan tocca alcune delle questioni più delicate della campagna. Non bisogna essere dei nemici della nightlife per ammettere che due morti sono una cosa seria, e che il sindaco ha ragione a tenerli come punto centrale del discorso. Per quanto le "notti magiche" al Fabric siano importanti per i suoi avventori, questi non devono ignorare che l'abuso di sostanze tra quelle mura è costato la vita a due persone. Certo, la colpa non  tutta del Fabric, anzi: gran parte della responsabilità si può attribuire alla fallace e ingiusta legislazione inglese in fatto di droghe, ma non ci si può comunque aspettare che certi incidenti siano lasciati correre. Sarà disfattista da dire, ma è normale che chi non ha legami con la club culture fatichi a capire il senso culturale di un posto in cui sono morti due ragazzi. Se i clubber di Londra vogliono salvare il Fabric, avranno quindi bisogno di fare qualcosa di più consistente che il ricordo dei "bei momenti": devono provare che il clubbing ha un valore culturale intrinseco e che può essere reso sicuro. 

Il costo simbolico della chiusura potrebbe essere, catastrofico: il Fabric non è, infatti, solo uno dei migliori club di Londra ma uno dei più celebrati in tutto il Regno Unito, e uno dei brand più forti nell'industria internazionale del clubbing. Che lo preferiate o meno alle controparti berlinesi (Berghain, Tresor), a uno scantinato buio di Manchester o a un superclub di Cardiff, il Fabric è la faccia della club culture britannica. Qualunque cosa succeda al Fabric avrà un impatto non indifferente sulla cultura giovanile britannica ed europea, e manderà un forte messaggio internazionale. Non bisogna illudersi: una eventuale chiusura rappresenterebbe un considerevole posizionamento politico contro l'idea stessa di club culture e dance culture, qualcosa che in Inghilterra non si vedeva dal Criminal Justice And Public Order Act del 1994. Potrebbe anci avere un impatto ancora maggiore sulla vita del paese: se infatti la legge anti-rave, che bollava la musica elettronica con la famigerata definizione "ritmi ripetitivi", era volta a contrastare un certo modo di fare festa, la chiusura del fabric implicherebbe una lotta all'idea stessa di fare festa nel Regno Unito.

Un trattamento, questo, che le autorità inglesi non riserverebbero certo ad altre istituzioni culturali come la Royal Albert Hall, il National Theatre o il British Film Institute. Certo, non vi si sono vrificati incidenti legati al consumo di sostanze stupefacenti, e non succederà mai. A parte questo, è innegabile che le istituzioni riconoscano a queste realtà un valore che va al di là del loro peso sul mercato. Sono colonne portanti dell'identità britannica, e della cultura del paese. Questo rende la battaglia per il Fabric eminentemente ideologica: in gioco c'è il riconoscimento del clubbing tutto come non solo l'abitudine a sfasciarsi il sabato sera, ma un viatico di energie creative e una risorsa importante per l'economia artistica nazionale.

Certo, gran parte di questo lavoro spetta al locale stesso, e dipende da quanto preparati sono a lavorare con la polizia e la municipalità, ma il fatto rappresenta un'occasione importante anche per l'autorità di regolamentazione delle licenze. Nel caso che volessero fare del Fabric un caso esemplare, rifiutandosi di lavorare con loro in direzione di una riduzione del danno, bloccando di conseguenza il loro lavoro, allora il messaggio sarà chiaro: il modello proposto di società inglese del ventunesimo secolo rifiuta il clubbing. Di fatto, se neanche il Fabric, che è normalmente il primo nome a venire in mente pensando ai luoghi della musica elettronica in inghilterra, merita di essere protetto, allora nessun club lo merita.

A preoccupare i gestori c'è un dossier della polizia recentemente pubblicato dalla Islington Gazette, il quale suggerisce che l'approccio delle forze dell'ordine finora sia stato fin troppo tenero. Il rapporto, redatto dal sergente Aaron Barnes, include dati approssimativi e vagamente surreali, basati su testimonianze oculari, tra cui una percentuale di avventori del club "sotto l'effetto di sostanze illecite" stimata intorno all ottanta percento. Lo stesso rapporto accusa, ancora senza prove tangibili, la security del Fabric di passare le sostanze confiscate ad "amici dentro al locale". Si tratta di un documento assai preoccupante, perché rivela una volontà da parte della polizia di disseminare voci infondate e infamanti, il che fa pensare che le intenzioni delle autorità siano già molto precise.

Eppure, il presidente dell Night Time Industries Association Alan Miller ci ha detto di essere ottimista: "Siamo sempre stati in contatto con l'ufficio del sindaco, sia durante la precedente amminsitrazione che con quella attuale. Il sindaco ci ha confermato di voler trovare una soluzione, il che è un'ottima notizia. Credo fermamente che i tempi siano maturi per aprire un dialogo sulla riduzione del danno e concentrarsi sull'aspetto sanitario del problema, includendo le autorità ma anche realtà come The Loop e il Secret Garden Party." Miller stesso ci tiene a sottolineare come il Fabric sia vittima di leggi ingiustamente severe. "Non si dovrebbero punire i locali. Se chiudono il Fabric dovrebbero chiudere praticamente tutti i club del paese."  Ha perfettamente ragione: punire il Fabric non vuol dire risolvere i problemi che hanno causato queste due tragiche morti, ed è proprio per questo che salvarlo è invece una priorità. Chiuderlo significherebbe cancellare il clubbing, e per esteso la cultura giovanile, dalla vita della capitale. A prescindere dal valore esperenziale del locale per i singoli londinesi, è oramai chiaro che questo dibattito non riguarda un singolo club, ma li riguarda tutti.

 


Sampha ha annunciato il suo primo album solista

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È dall'inizio dell'anno che Sampha, zitto zitto quatto quatto, sta preparando il mondo a qualcosa. Prima è apparso su "Saint Pablo" di zio Kanye, e poi su "Alabama" di Frank Ocean, uno dei pezzi migliori di Endless. Poi, se ne è uscito con una canzone coi controcazzi come "Timmy's Prayer", che è arrivata lo scorso maggio confermando le sue abilità di scrittore e interprete – ma lo sapevamo almeno già dai tempi delle sue ospitate sulle canzoni di SBTRKT, e da quella gemma semi-dimenticata che fu "Too Much" di Drake.

Bé, è venuto fuori che Sampha era effettivamente al lavoro su quello che abbiamo ora scoperto essere il suo album di debutto. Yay! Si intitolerà Process e uscirà tra qualche tempo—non sappiamo ancora quando—su Young Turks. È arrivato anche il primo estratto ufficiale, "Blood On Me." Lo potete ascoltare qua sotto, ed è una goduria sentire la sua voce fare le piroette sulla base. 

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M.I.A. ha scritto una canzone con Zayn Malik su Whatsapp

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M.I.A. sta per pubblicare il suo nuovo LP A.I.M., da cui abbiamo già potuto sentire un bel po' di estratti: "Birdsong", che è stata pure un'occasione per far pace con Diplo (aka il suo ex con cui si era tirata addosso merda per anni); "Go Off", che è riuscita nell'incredibile impresa di non far sembrare inutile un featuring con Skrillex; e "Borders", da cui è venuta fuori una tempesta di merda non indifferente. 

Ecco ora arrivare un altro estratto dal disco: si intitola "Freedun" e inizia con Maya che sostiene di venire dalla "Repubblica della Gente dello Swagistan", il che può ugualmente pomparvi da Dio o farvi venire un cringe clamoroso. A voi la scelta. Lo potete ascoltare là sopra.

Sul ritornello c'è Zayn Malik (uscito qualche tempo fa dai One Direction e recentemente protagonista di una sbroccata di Azealia Banks), che ha lavorato al brano con M.I.A. via Whatsapp! Immaginateveli che si scambiano le note vocali con lei che dice "Lara Croft is soft when it comes my stuff" e lui che risponde con le frasi strappalacrime e i vocalizzi. Che bello vivere nel futuro. 

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Le Tough Tits sconfiggeranno il patriarcato a colpi di sarcasmo e UK punk

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A parte avere il miglior nome del mondo dopo i Diarrhea Planet, le Tough Tits sono anche uno dei migliori gruppi punk del Regno Unito. Il loro nome traccia un ponte immaginario tra umorismo infantile e una rissa al pub, il che funziona perfettamente anche per descrivere la loro musica. Le tre Tette si chiamano Liz, Ayesha e Hells e suonano insieme da novembre, ma in meno di un anno, tra una battuta a sfondo pettorale e l'altra hanno lavorato sodo, provando che non c'è più bisogno di commentare il fatto che siano una band composta da non-maschi. "Avere una formazione tutta al femminile non dovrebbe essere una novità, vorremmo vedere più donne fare come noi", ci dicono.

Vi facciamo ascoltare in anteprima il loro EP Hairless qua sotto, che contiene tre tracce di punk zozzo e incazzato che prende a schiaffoni il patriarcato a botte di sarcasmo e distorsione—e con il fantastico artwork di Liz.

Dategli un'ascoltata e leggete la nostra intervista di seguito, in cui le ragazze ci dicono la loro sull'accettazione del proprio corpo, i superpoteri e, naturalmente, le tette. 

Noisey: Tough Tits! Come va? Dove vi siete conosciute?
Liz:
 Ho conosciuto Ayesha tramite il suo partner Oliver, con cui lavoro. Lei sapeva che io suono la batteria e voleva formare un gruppo punk in cui suonare la chitarra. Io e il mio coinquilino Hub avevamo già pensato al nome molto tempo fa, così quando lei mi ha contattata ero prontissima e Tough Tits le è piaciuto moltissimo. Dopo qualche mese di scrittura dei pezzi abbiamo deciso che ci serviva una bassista e/o qualcuno che suonasse il synth, per cui abbiamo iniziato a chiedere in giro. Conoscevo Helen da anni e lei era in un periodo di sperimentazione con vari synth, così l'abbiamo portata alle prove e da lì è partito tutto. 

Ayesha: Liz lavora nel pub in cui passo il 70% del mio tempo, e qualcuno mi ha detto che voleva suonare la batteria in una band così sono andata da lei e le ho proposto di formare un gruppo. Abbiamo suonato assieme per due o tre mesi prima di accorgerci che ci servivano altri strumenti per raggiungere il livello di furia ottimale, così è arrivata Hells al basso e synth. 

Hells: Io e Liz ci conosciamo da anni. Ci siamo incontrate a un concerto di Patti Smith, poi è diventata la coinquilina dei miei amici e ha iniziato a sbronzarsi nel pub in cui lavoravo così siamo diventate amiche. Ho conosciuto Ayesha a una festa della birra. Un giorno lei e Liz sono venute al bar dove lavoro e mi hanno chiesto di entrare nelle Tough Tits. Non ho ancora capito bene perché abbiano chiesto a me, ma è una figata! Era da un po' che cazzeggiavo con i synth, per cui avevo davvero voglia di jammare con qualcuno e vedere quanto casino sarei riuscita a fare. Non avevo mai suonato il basso prima però, quindi quella parte mi faceva molta paura!

Descrivi le Tough Tits in tre parole.
Liz: Queer, incazzate, sofferenti. Ma forse quella sono solo io.

Ayesha: Tre grosse tette.

Hells: Un gruppo punk.

L'EP parla molto della percezione del proprio corpo. Che consigli dareste alle ragazze più giovani che si trovano ad affrontare la pressione esterna a vestirsi e presentarsi in un certo modo? 
Liz: Il testo di "Hairless" è stato scritto da Ayesha e parla di cose piuttosto personali, per cui non voglio analizzarlo troppo. Ma per come la vedo io, la canzone è una finestra sulla costante pressione che le donne devono sopportare riguardo ai propri peli. C'è gente che ogni giorno si sottopone a una lunga e dolorosa routine. Penso che valga la pena di tentare di stare meglio con se stesse, di fare quello che si vuole. Io non sono "hairless". "Nipslip" l'ho scritta per rabbia. Non mi piace la censura del capezzolo femminile. Penso che le leggi che riguardano il corpo delle persone con lo scopo di "proteggerle" siano totalmente sbagliate e manchino del tutto il problema. Per cui, voglio dire, se ti senti sotto processo o sotto controllo e cerchi la libertà, agisci. Fatti sentire e vedere, fa' sapere a tutti come ti senti, troverai altre persone che la pensano come te, ed è così che si inizia a cambiare le cose. 

Ayesha: È davvero difficile. Una volta mi consideravo una persona che non subiva pressioni rispetto al proprio corpo, ma mi sono presto resa conto che mi stavo raccontando cazzate. Il nostro subconscio è bombardato da così tanta merda riguardo a come appariamo, a come ci sentiamo, a come viviamo, che è impossibile non confrontarsi con la roba che ti viene propinata. L'unico modo per uscire da questo completo merdaio sociale è, senza voler sembrare troppo "mamma", fare quello che ti fa sentire bene. 

Hells: L'EP esplora la percezione del corpo dal punto di vista di una donna poco più che ventenne, ma la pressione sociale sul look è esercitata su ogni genere. Credo che non sia un problema femminile, ma un problema umano che dobbiamo affrontare tutti insieme. Per non sembrare troppo pesante, consiglierei a chiunque stia avendo problemi con la spinta al conformismo di guardare tutti gli episodi di Ru Paul’s Drag Race

Qual è il tuo superpotere?
Liz:
 Preparo un fantastico guacamole.

Ayesha: Ho una vista perfetta.

Hells: Lavoro con la gente normale.

Se vincessi la lotteria domani, che cosa faresti?
Liz:
 Investirei in tutti i miei amici creativi. Sono tutti geniali e adorabili. I tagli ai fondi per l'arte hanno davvero lasciato il segno. Vorrei creare un'enorme hub creativo non-profit dove dare la possibilità alla gente di far succedere belle cose.

Ayesha: Mi farei male agli occhi e comprerei un botto di occhiali costosi, poi andrei in tour per sempre. 

Hells: Andrei al pub.

Ottimo, grazie!

Hairless EP si può pre-ordinare da Drunken Sailor Records e Frux Tapes.

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Bon Iver ha raccontato il suo nuovo album in una conferenza stampa segreta

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La sera di venerdì 2 settembre Justin Vernon—cioè Bon Iver—ha fatto una cosa che, nel 2016, sta diventando sempre più rara: ha tenuto una conferenza stampa per alcuni giornalisti selezionati. Il motivo è l'uscita del suo nuovo LP 22, A Million; Vernon ha fatto sentire il disco ai presenti e ha risposto a un po' di domande, il tutto nella sua città natale: Eau Claire, in Wisconsin. Fortunatamente, dato che viviamo nell'era della condivisione (come vi hanno insegnato al corso di Teorie e Tecniche dei Nuovi Media), alcune testate (tra cui Pitchfork) hanno già pubblicato alcuni virgolettati del buon Justin; spiegano il contesto in cui il disco è nato, le difficoltà che ha affrontato nella sua scrittura e vanno a spiegare come pronunciare quei cazzo di titoli strambi che ha deciso di dare ai suoi nuovi pezzi. Abbiamo quindi pensato di tradurvele, così da farvi arrivare belli pronti al 30 settembre. 

Innanzitutto: la prima suggestione sonora per il disco è arrivata da BJ Burton, ingegnere del suono e collaboratore di Vernon. Tutto è nato da un loop di batteria creato proprio da lui su una drum machine della Roland. "Stavo vivendo un periodo in cui ero particolarmente ansioso", ha detto Vernon. "Quel beat mi ha fatto alzare il culo dalla sedia e mi ha fatto venire voglia di capire come funzionasse. Nel giro di poco era perfetto, e abbiamo dovuto tenerlo lì per tre anni." Vernon ha poi analizzato più nel profondo le ragioni che l'hanno portato ad abbandonare le sonorità dei suoi precedenti LP:

È stato un po' come quando vuoi un po' spaccare le cose, romperle per guardare cosa c'è dentro. Perché presentassi qualcosa di nuovo al mondo, avevo bisogno di percepirlo come qualcosa di radicale. Non che per me sia imbarazzante, ma i miei vecchi dischi hanno una natura triste, in un certo senso – li usavo per guarire, ecco. È ok essere tristi. Ma crogiolarcisi, entrare in un circolo emotivo, è di una noia mortale. Ci sono ancora momenti più bui su questo album, certo, ma penso che questo sia l'atteggiamento che ho avuto—spaccare le cose, crearne di magniloquenti, eccitanti e innnovative, schiacciarne assieme, l'esplosività, gridare di più. Ecco, è questione di grida. Prima, sussurravo. Ora, invece—[suona una nota di tastiera con un suono pesantemente robotico].

Dovete ringraziare, tra gli altri, Kanye West se 22, A Million esiste. Vernon ha detto di aver quasi abbandonato le lavorazioni sul disco a gennaio 2016. 

Il mio amico Ryan Olson, che suona nei Gayngs, mi ha dato un ceffone metaforico [quando ha capito che stavo mollando]. Dopo che abbiamo finito a lavorare al loro album, mi sono reso conto di quanto mi fossi divertito a fare musica con tutta quella gente. Nello stesso periodo, più o meno, Kanye West mi ha chiesto di andare con lui alle Hawaii per registrare con un po' di persone. E ho provato gli stessi esatti sentimenti. Solo amici, lì per scrivere canzoni. Penso a Ryan, penso a Kanye, e sono persone capaci di farti sentire più te stesso. Sono gentili, e sono capaci di dirti in cosa migliorare. Provate ad entrare nella stessa stanza con tutti gli altri, e vedete che bordello verrà fuori. Ti allunga. Ti fa alzare, e ti fa venire voglia di migliorarti.

L'album è dedicato a due persone: il cantautore Richard Buckner e Bernice Johnson Reagon, fondatrice degli Sweet Honey in the Rock, una gruppo vocale americano. Vernon ha spiegato perché: c'entrano i testi e l'approccio alla scrittura, e c'è anche un dissing a Mike Patton.

Richard Buckner ha scritto tredici album, tutti perfetti. I suoi testi scorrono, sono più impressionisti del normale. Ad ascoltarli, mi sono trovato più che prima come se cadessi a terra, o in sogno, a sospendere la mia incredulità. Ad ascoltare il suono delle parole, e a pensare solo in un secondo momento al loro significato. Il che mi ha fatto venire il coraggio per scrivere esattamente in quel modo. Per quanto riguarda Bernice—il suo modo di cantare mi piace da un sacco di tempo. Ho sentito la sua voce nei documentari di Ken Burns sulla Guerra Civile. L'ho ascoltata cantare uno spiritual nero e, nonostante fosse da sola, sembrava un coro. Il modo in cui internalizza ogni cosa per essere tutti quei cantanti nello stesso momento. È capace di cambiare la sua voce in modo davvero radicale. Mike Patton se lo sogna, di esserne capace.

Poi: i titoli dell'album. "29 #StraffordAPTS" si pronuncia "Twenty-nine Hashtag Strafford Apartments." "666 ʇ" è "Six six six Upside Down Arrow." "_____45_____" è, semplicemente, "Forty-five." Vernon ha poi rivelato la presenza di un sample di Steve Nicks non accreditato in "10 d E A T h b R E a s T ⊠ ⊠". 

Stevie ci ha chiesto di non inserirlo nei crediti. Ho rispettato la sua volontà. Probabilmente non voleva sentire domande su com'era stato collaborare con me quando non avevamo davvero collaborato. E lo capisco, davvero. Comunque, l'ho preso dal mio video di YouTube preferito di sempre. È lei che si scalda la voce, nel 1981, mentre qualcuno le fa i capelli, cantando la sua "Wild Heart", che penso non sia mai stata registrata davvero. E in questo video lei canta benissimo, e c'è qualcuno fuori dal palco che le fa le armonie. È un pezzo bellissimo. 

Trovate altre informazioni a questo link. Noi ci risentiamo più avanti, dopo l'uscita dell'album, per capire un po' com'è veramente. Nel frattempo, però, riascoltate pure per la seicentoquarantatreesima volta "Skinny Love".

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Guarda Drake beccarsi una torta in faccia nel video di "Child's Play"

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"Child's Play" non è uno dei pezzi migliori di VIEWS, quella loffiata del nuovo album di Drizzy Drake che ha dominato le classifiche americane per gli ultimi mesi prima che zio Frank arrivasse a mettere le cose a posto (anche con un po' di complotto, come ha spiegato approfonditamente Stereogum qualche tempo fa). Perché dico questo? Perché è un brano generico il cui messaggio è, "Hey, raga, che palle le donne, eh? EH? Sempre lì a fare shopping e a lamentarsi! Vero? VERO!" E anche, "Stai buona che sennò ti faccio tornare nel quartiere-ghetto da dove sei venuta, perché io ho i soldi e tu no." Il che, mia personale opinione, è un messaggio terribile che mi fa venire voglia di dare a Drake un ceffone in ghigna.

Ora, però, non ne ho più bisogno—dato che posso vedere quando voglio Tyra Banks che gli spiaccica in faccia un pezzo di torta e gli versa in testa un bicchiere di rosso. Il tutto accade nei dodici (DODICI) minuti del video di "Child's Play" in cui Drizzy nostro, come dice nel testo, litiga con la sua ragazza alla Cheesecake Factory. Lui è in bagno, lei gli guarda il cellulare e scopre che si fa un'altra tipa, lui dice che è stato in studio a lavorare, lei si incazza e inizia a fare una scenata—che culmina con la suddetta torta in faccia. Per dimenticare i suoi dolori, Drake va in uno strip club. Fine.

Quand'è che apriamo Broadly Italia? Presto? Speriamo.

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Demon Days dei Gorillaz ha trasformato la crisi globale in un capolavoro pop

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In un'intervista col New York Times, poco prima dell'uscita di Demon Days, il critico musicale Jon Pareles faceva notare due frasi scritte in grossi caratteri neri sul muro dello studio londinese di Damon Albarn. La prima era “Uncertainty Leaves Room For Hope” e la seconda “Dark Is Good”—con una delle due “o” sbarrata. 

“Dark Is God”.

Con questa frase in mente, riascolto l'album undici anni dopo la sua uscita, quando è stato annunciato che "molto presto" arriverà un disco nuovo dei Gorillaz. Demon Days parlava di guerra, violenza, idolatria, brutalità e fuoco. Le super hit di chiaro stampo pop—”Feel Good Inc”, “DARE”, “Kids With Guns”—erano infilate negli interstizi di pezzi più duri e profondi, come la tranquilla “El Manana” o la claustrofobica “Last Living Souls”. La narrativa portante dell'album era complessa e stratificata, e tra le righe raccontava storie distopiche di apocalisse e simulacri. 

In tutto ciò, comunque, Demon Days era un disco pop di una band a cartoni animati, i personaggi di finzione—2D, Russel, Murdoc e Noodle—capitanati da un leader il cui periodo migliore, secondo molti, era stato il 1994. All'uscita del disco fece séguito una serie di recensioni, alcune positive che ne parlavano come di "un pugno di canzoni che fanno divertire più di una maratona di Hong Kong Phooey”, altre decisamente negative che lo descrivevano come un album deludente. Certo, le voci che elogiavano quel disco erano tante, ma per la maggior parte si sottolineava come fosse particolare in termini di "sperimentazione"—o, stando a Pitchfork, di “sci-fi kitsch”. In effetti, Demon Days trattava questioni grosse in una maniera così diretta da farlo sembrare quasi banalizzante, macchiettistico e caricaturale, ai tempi—mentre oggi, undici anni più tardi, assume quasi toni profetici.  

La gimmick dei Gorillaz, a questo punto giunto al secondo album, potrebbe aver ridotto le possibilità di questo disco di raggiungere lo status di classico ai tempi, ma non gli impedì di trovare un pubblico. Entrò nelle top ten di tutto il mondo, in UK addirittura al numero uno, e vendette ampiamente di più del primo album della band, raggiungendo a oggi otto milioni di copie in tutto il mondo. Fu un successo senza precedenti, ma non se ne parlò comunque abbastanza: non solo come disco pop, ma come la probabile miglior dimostrazione dell'intelligenza musicale di Damon Albarn e come una cupa e affascinante testimonianza della recente storia britannica, tanto culturale quanto politica. 

§

Il debutto omonimo dei Gorillaz fu il primo disco che comprai. Da bambino mi divertiva e mi spaventava contemporaneamente. Questi personaggi scheletrici, vacui, che sembrano cantare svogliatamente elenchi di lamenti su cose come "sunshine in a bag" hanno sempre avuto un nonsoché di apocalittico. Ma, come molte persone, mi sembrava che a questo disco mancasse qualcosa. Anche a quell'età ricordo che skippavo tra una canzone e l'altra, senza mai lasciarmi conquistare dall'album nella sua interezza. I Gorillaz sembravano un'ottima idea o meglio, tante ottime idee che non riuscivano a dimostrare il perché della loro esistenza, o il "per chi". 

Tra il primo album e l'uscita di Demon Days nel 2005, Albarn si concentrò di meno sulla creazione di un mondo per i Gorillaz e di più sull'usare il progetto come riflesso di tutto quello che stava succedendo nel mondo attorno a loro. "Praticamente è ciò in cui viviamo", Albarn rivelò a MTV News al momento dell'uscita, "il mondo in uno stato notturno". Il progetto si trasformò in uno specchio deformante, invece che una finestra fantastica. 

È storia talmente recente che non sarebbe nemmeno il caso di ricordarla, ma l'invasione dell'Iraq nel 2003, e in particolare la decisione di Tony Blair di inviare l'esercito britannico in supporto alla campagna guidata dagli Stati Uniti, era ed è ancora una ferita aperta—un esercizio brutale, lento, che non si è mai davvero concluso. Non solo, ma si trattò di una guerra molto "Ventunesimo secolo". Non si trattava più della logica bene-vs-male degli inizi del Ventesimo secolo, o dello spionaggio strategico della Guerra Fredda. Questo moderno conflitto vedeva i governi andare contro il volere del proprio stesso popolo—in tutto il mondo, trenta milioni di persone presero parte a una marcia pacifista, "la più grande protesta della storia" —alla ricerca di ipotetiche armi di distruzione di massa. Naturalmente il vero premio, il vero scopo, come capirono in molti, era il petrolio. 

La nascita del terrorismo su scala mai vista prima, l'atmosfera post 9/11, Abu Ghraib e le immagini di torture ed esecuzioni su tutti i giornali, senza dimenticare la valanga di informazioni derivante dalla diffusione di Internet e dall'avvento di Facebook nel 2004. Il mondo, nei primi anni Zero, era nella morsa del terrore, sopraffatto dal bombardamento di informazioni e di violenza, in conseguenza di battaglie a cui non aveva mai chiesto di prendere parte. Il conflitto divenne un pilastro fondamentale, parte dell'aria che respiravamo e delle immagini che vedevamo. Questi erano i Demon Days.  

La coscienza dell'album si manifesta in varie sfumature di esplicitezza. Le prime campagne di marketing dell'album mettevano in chiaro che l'LP avrebbe puntato a una forma di sovversione più mirata, tramite la frase “REJECT FALSE ICONS”. Il countdown verso l'uscita dell'album fu affidato a un sito (rejectfalseicons.com) che permetteva di replicare il messaggio con adesivi o graffiti. Il concetto delle false icone, in modo simile allo slogan "Dark Is God", indicava la disillusione di Albarn verso l'autorità e il governo. È la stessa disillusione che infettò fatalmente l'album.

Se c'erano false icone da distruggere, con tutta probabilità l'oggetto della critica più severa di Demon Days doveva essere George Bush. Prendiamo "Dirty Harry", in cui Bootie Brown rappa dal punto di vista di un soldato americano (“I’m a peace loving decoy ready for retaliation”). Verso la fine della mitragliata di barre c'è il verso: “The war is over, so said the speaker, with the flight suit on”. Due anni esatti prima dell'uscita dell'album, Bush si trovava sul ponte della USS Abraham Lincoln, in tenuta da pilota, proclamando che pur essendoci ancora del lavoro da concludere, "nella battaglia dell'Iraq, gli Stati Uniti e gli alleati hanno prevalso". Dietro di lui uno striscione recitava "MISSIONE COMPIUTA". La guerra, ovviamente, non era finita. La maggior parte delle vittime militari e civili morirono dopo che quella frase fu pronunciata. 

La violenza è dappertutto nel disco: il video di “El Manana” arrivò addirittura a uccidere Noodle con una mitragliata da un elicottero, anche se si trattava di un falso allarme. Eppure la faccia più impressionante e vivida della guerra in Iraq evocata da Demon Days è la sopracitata ricerca del petrolio. Per i Gorillaz questa si manifesta con un letterale prosciugamento, uno svuotamento del pianeta. Viene risucchiata l'anima della Terra sia moralmente che concretamente. In una intervista con la rivista Notion prima dell'uscita, Albarn dichiarò quanto segue riguardo alle tematiche ambientaliste dell'album: "Viene da un'idea molto naïf, che è: che cosa succederà quando avranno estratto tutto il petrolio dal terreno? Non ci saranno dei buchi enormi? Di certo questi buchi non potranno restare vuoti. Di certo ci sarà un motivo se contenevano queste cose. È come chirurgia plastica fatta male, prima o poi collasserà".

Naïf o meno, come immagine funziona perfettamente per il tipo di posizione politica che i Gorillaz sono stati in grado di costruire in Demon Days. Dopotutto, si tratta di cartoni animati. Questa visione di una Terra vuota, di misteriosi viaggiatori che scavano il terreno, è naturalmente articolata al meglio in “Fire Coming Out of the Monkey’s Head”. La traccia è un monologo di Dennis Hopper letto sopra una strumentale strisciante, che racconta la favola di una piccola comunità montana che viene tenuta sotto assedio da degli stranieri "in mimetica". I viaggiatori scavano la montagna per le ricchezze delle sue grotte, e così facendo disturbano lo spirito onnipotente che risiede nel suo nucleo, una bestia semidivina che fino ad allora aveva convissuto in pace con la comunità locale. Il risultato finale è che cominciano a comparire dei buchi, la scimmia si risveglia e poi si verifica una "castrofonia" così immensa da essere udibile nello spazio. “Only fire, and then nothing”. I Gorillaz poi parleranno di ambiente in modo ancora più esplicito in Plastic Beach, ma in Demon Days la Terra è un'altra vittima della violenza. Una roccia che era onnipotente e che viene ridotta a un mucchio di detriti; un cranio da cui viene estratto il cervello.

In altri punti il disco sembra preoccuparsi del posto che occupano i bambini in questo mondo. Naturalmente, "Kids With Guns" è l'esempio più esplicito—pare che sia stata ispirata da un compagno di classe della figlia di Albarn che aveva innocentemente portato a scuola un coltello—ma l'infantilizzazione della violenza permea ogni lato di questo album. Ripensiamo a "Dirty Harry", canzone che finisce con un coro di bambini che canta “I need a gun, to keep myself from harm”. Poi c'è il concept stesso: un cartone animato che comunica l'inesorabilità del terrore dell'azione militare.

“Last Living Souls” si chiede dove siano finite tutte le persone buone, "Feel Good Inc" evoca il prezzo da pagare in termini di depressione, e titoli come "Every Planet We Reach Is Dead" parlano da soli. La fine del mondo raccontata da Demon Days avviene per mano di finte divinità e infanti, portatori di corruzione e avidità. 

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Certo, nulla di tutto ciò importerebbe se suonasse di merda. Se non ci fosse la musica. Ma la musica c'è. L'album conteneva tre singoli in top ten nel Regno Unito: “Feel Good Inc”, “DARE” e “Dirty Harry”—cosa in un certo senso sorprendente per un disco di canzoni che parlano di sommosse politiche e guerriglia ecologica. Ma è più che altro sorprendente trattandosi di un album che sta all'incrocio tra rap UK, rock alternativo, piano-pop, trip-hop, reggae e psichedelia alla Beach Boys.

Una delle conquiste più notevoli dei Gorillaz è stata quella di fare da piattaforma di lancio verso il successo mainstream per una pletora di artisti di enorme importanza. Roots Manuva, uno degli artisti più influenti della storia musicale inglese, conquistò il suo successo più grande nella classifica degli album grazie al suo featuring su "All Alone". Shaun Ryder ha ottenuto il suo primo singolo al numero uno in UK con "DARE". Lo stesso si può dire di artisti non-inglesi, visto che i De La Soul, Bootie Brown dei Pharcyde e Del Tha Funky Homosapien hanno tutti goduto del riconoscimento delle classifiche britanniche che ai tempi non lasciavano molto spazio all'hip-hop. Si può dire che dietro all'anonimato del progetto Gorillaz, artisti che altrimenti sarebbero stati giudicati inadatti al pubblico mainstream inglese siano stati in grado di raggiungere un pubblico altrimenti inarrivabile. Il successo, ovviamente, non si misura solo in base alle vendite, ma qui bisogna riconoscere un risultato monumentale. Con Demon Days, i Gorillaz si sono dimostrati pronti a rinunciare ai featuring imposti dalla major per portare in primo piano artisti le cui identità ben distinte illustrassero efficacemente il concetto alla base dell'album. 

"Per Demon Days, ogni persona è stata scelta per un particolare attributo o consistenza o aspetto della cultura che rappresentava", spiega il batterista Russel in un fumetto che accompagnava l'album. "Dennis Hopper, leggenda dell'anticonformismo; De la Soul, forza positiva dell'hip-hop; Roots Manuva e Martina Topley-Bird, fratello e sorella eterei... Ike Turner, forza oscura del soul; Shaun Ryder, il figliol prodigo, la voce del funk edonistico e antagonista da pantomima; Bootie Brown, obiettore di coscienza; Neneh Cherry, la B-girl che viene dalla strada. Questi agenti recitano l'uno contro l'altro negli atti di Demon Days".

Albarn inoltre mollò Dan the Automator e reclutò un allora relativamente sconosciuto Danger Mouse, che era appena salito agli onori delle cronache per il suo mash-up tra Jay Z e i Beatles The Grey Album. La decisione rifletteva il desiderio di Albarn di sovvertire la cultura popolare, e il producer trattò ogni elemento organico di Demon Days come un sample da manipolare come gli pareva. Mettere Dennis Hopper su un ritmo reggae, o il ruggito di Shaun Ryder sopra delle vellutate onde di synth... Demon Days, dal punto di vista tematico, parlava di un mondo in declino, reso udibile dal suono di Danger Mouse che metteva insieme mondi diversi. 

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Non sorprende che l'eredità dell'album sia un po' confusa. Sembrava che i Gorillaz non dovessero mai essere nulla di più che il side project autoindulgente, strambo ed eroinomane di Damon Albarn e dell'illustratore Jamie Hewlett. Il successo che ne risultò—un album scritto da un'immaginaria scolaretta giapponese che parla di corruzione morale e guerra al numero uno nelle classifiche UK—è a dir poco sconcertante. Non sorprende quindi che sia stato compreso più facilmente come "più divertente di una maratona di Hong Kong Phooey". In effetti, proprio l'idea-Gorillaz che permise loro di oltrepassare i pregiudizi e di portare in cima alle classifica un suono così eclettico sembra essere stata il fattore che impedì loro di avere un album riconosciuto come classico—è difficile avere per dei cartoni animati la stessa stima che si ha per un gruppo di umani. È difficile affiancare i Gorillaz a, per dire, Pulp, Radiohead o anche i Blur. È difficile essere un fan sfegatato di un'entità immaginaria, il che fu confermato dalla risposta del pubblico quando diventarono i sostituti headliner di Glastonbury nel 2010.

Col senno di poi, è comprensibile che il pubblico non fosse totalmente pronto ad accettare che il mondo descritto in Demon Days fosse una rappresentazione giusta dello stato di cose. La guerra in Iraq durava soltanto da due anni e si diceva fosse "finita", la crisi finanziaria non c'era ancora stata e mancavano ancora cinque anni al governo conservatore che implementò l'austerity. Forse, a quei tempi, l'apocalisse qui rappresentata non sembrava molto più che una serie di "scemenze pretenziose". 

Oggi, possiamo riconsiderarlo più chiaramente per quello che era. Una magica allegoria ambientata sull'orlo del precipizio di un periodo quantomai nero della storia contemporanea. Il disco, ascoltato oggi, è più attuale che mai. In “Kids With Guns” o in “O Green World” risuona un livello di preveggenza quasi compiaciuto. A pensarci bene, non c'è nulla di strano che, in un mondo in cui la terribile realtà delle cose supera la fantasia, ci siano voluti dei cartoni animati per dipingere un quadro realistico. 

Ok, anche Saviano è fan di Calcutta

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Settimana intensa per il cantautore di Latina Calcutta, che si è visto prima santificare dal Pontefice e ora addirittura santificare dal Papa della controcultura, Roberto Saviano. 

Non è la prima volta che lo scrittore si dimostra fan del cantautorato alternativo italiano: qualche anno fa si era espresso entusiasticamente nei confronti de I Cani, ora però ai testi di "Antropologia elettronica"—così li aveva definiti nel 2012—di Contessa, Saviano preferisce le metafore romantiche di Calcutta. 

Sulla sua pagina ufficiale, Saviano ha infatti misteriosamente dedicato a una guagliona speciale il pezzo "Oroscopo", trascrivendone addirittura parte del testo, che a ben pensarci ricorda molto da vicino la storia di Salvatore Conte in Gomorra.

Perché… non mi ricordi nessuna guagliona
Una cassa che suona, una casa che brucia
Tutta la notte.

Che questo sia un segnale che Saviano è innamorato? Oppure dovremmo sospettare che Calcutta abbia un featuring in saccoccia anche con lui? O che Saviano stia progettando una nuova Gomorra, stavolta però ambientata a Latina? 

Ma soprattutto: per quale motivo Saviano ha rippato il video? Non poteva usare un link da YouTube?

Quanti misteri.

 

Non sappiamo nessuna di queste risposte, se ne avete voi contattateci su Facebook e Twitter

 


Nicki Minaj ha buttato fuori una bomba di freestyle da sei minuti

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Foto via Instagram

È passata una settimana dalla sua performance ai VMA assieme ad Ariana Grande, e ora Nicki Minaj è tornata con un nuovo pezzo a sorpresa. "The Pinkprint Freestyle" dura sei minuti, e finalmente ci permette di sentire Nicki rappare come solo lei sa fare sul beat di "OOOUUU" (altro pezzone della rapper di Brooklyn Young M.A., che in Italia non è troppo arrivato).

Nicki saluta M.A. all'inizio del pezzo, definendola "la Jay Z donna" e ringrazia Lil Wayne per l'aiuto che le ha dato mettendola sotto contratto all'inizio della sua carriera. Da lì in poi, parte in quinta. "Trascino 'ste troie in giro come Harambe con quel ragazzino", rappa, "Chiudete il club, c'era una bolgia assurda e siamo scivolati / La mia figa è liquore, zero sorsi." BOOM. 

E poi, a sorpresa, il tutto finisce con una mega-citazione di "Paper Planes" di M.I.A. con annesso sample da "Ting-a-Ling" di Shabba Ranks. È tutto bellissimo. Dateci un ascolto qua sotto.

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NO=FI Recordings: 15 anni di anarchia a Roma Est

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Se siete lettori assidui di Noisey sapete già chi è Toni Cutrone: è quello che, insieme a un manipolo di mattacchioni, ha fatto sì che chiunque dotato di antenne per la musica strana, deviata, sperimentale e vitale imparasse a usare correttamente espressioni come "Roma Est", "Pigneto" e "Metro C". Parole chiave: DalVerme, NO=FI Recordings, Thalassa, Roma La Drona, Hiroshima Rocks Around, Mai Mai Mai, Trouble Vs. Glue, Metro Crowd.

Sembra incredibile, ma sono passati quindici anni dalla prima uscita su NO=FI Recordings. Era il 2001 e NO=FI non era nemmeno un'etichetta, era soltanto un avvertimento per i temerari che avessero osato ascoltare il primo CD degli Hiroshima Rocks Around, Isolation Bus Blues (uscito ufficialmente per Vurt Records): un modo per dire Occhio, qua non c'è tempo per l'alta fedeltà, le scimmie aliene radioattive ci hanno mozzicati e abbiamo solo pochi minuti per sputare fuori tutto il loro veleno sotto forma di no-wave tarantolata e noise rock assassino. 

Nel corso degli anni, il catalogo NO=FI si è arricchito di perle, saltando di sottogenere in sottogenere, di mania in mania, dai Talibam! agli X Mary ai Neptune ai Father Murphy, fino ad arrivare alla pietra miliare che fu la compilation Borgata Boredom: uscita nel 2011, rappresentò in un certo senso l'atto di nascita (perlomeno per chi non frequentava assiduamente la capitale) di quella che conosciamo come scena di Roma Est

Giovedì 15 settembre Toni e la sua NO=FI festeggiano il quindicesimo compleanno, che coincide anche con il quinto di Borgata Boredom, al Monk Club di Roma. Suoneranno Trouble Vs. Glue, Holiday Inn, Mike Cooper, Nastro, The Real Miracolo e Back To Mercurio

Abbiamo chiesto a Toni di regalarci una playlist con i migliori pezzi dall'uscita della compilation a oggi per festeggiare insieme a lui e arrivare preparati all'evento. Potete ascoltarli e leggere i commenti del Ras di Roma Est dopo aver attentamente esaminato il volantino dell'evento—che tra l'altro è molto bello e disegnato da Re Delle Aringhe—qui sotto. 

 

HIROSHIMA ROCKS AROUND - "The Matter of Facts" (Borgata Boredom: Music and Noises from Roma Est)

Cinque anni fa uscì questo disco, considerato il Manifesto della scena di Roma Est, fotografata nel 2011 così com'era. Ovviamente non comprende proprio tutto: ci sono gruppi che adesso non esistono più, altri che ci sono adesso ma non esistevano all'epoca e via dicendo. Credo tutto questo sia specchio della vitalità della scena, fantastica in quegli anni e tuttora in ottima forma (dopo un periodo di "sonnolenza" o di abbandono, a mio parere). 

Forse lo reputo anche una sorta di Manifesto della NO=FI Recordings, che da sempre ha lavorato con amici e compagni di avventure, gente con cui si lavora faccia a faccia, con cui si programmano piani folli di fronte ad una birra e che dal quartier generale del Pigneto si sposta nei meandri dell'Occidente a portare la propria musica malata, senza mai fossilizzarsi nella propria terra e nella propria autoreferenzialità. Come si dice in termini attuali? Glocalità! 

Questa è la prima traccia, dei miei amati Hiroshima Rocks Around.

 

GIANNI GIUBLENA ROSACROCE - "Dogon" (La Mia Africa)

La scena di Roma Est non si ferma all'interno del GRA, ma si allarga a tutta l'Italia e oltre. Stefano Isaia è un altro fratello con cui abbiamo vissuto e condiviso un bel po' di avventure e progetti. Quando, contemporaneamente ai Movie Star Junkies (usciti su NO=FI con una tape nel 2007), inizia un nuovo "viaggio" col nome di Gianni Giublena Rosacroce trova subito casa qui da noi. Dopo il debutto su Yerevan Tapes, è arrivata questa tape fantastica a base di sonorità, ritmi e profumi del Nord Africa più onirico ed ipnotico. Impacchettiamo tutto con un artwork serigrafato da Arrache Toi Un Oeil (atelier di serigrafia di Parigi, altri cari amici con cui siamo cresciuti) e il gioco è fatto.

 

ENSEMBLE ECONOMIQUE - "I Light My Cigarette, I See YOU There" (No Highway)


 

Arriviamo alla West Coast americana, in una California del Nord in cui crescono ottimi luppoli ed erba. Dopo essermi innamorato di un disco di Ensemble Economique (Psychical, Not Not Fun, 2010) e aver passato un po' di serate con lui tra passaggi a DalVerme a suonare e incontri più o meno casuali in tour, gli chiedo un po' di materiale nuovo da ascoltare. Nel frattempo mi arriva per le mani anche una nuova registrazione dei neonati Heroin In Tahiti: è un segno del destino, l'accoppiata perfetta, così nasce l'idea di pubblicare un LP split. Detto, fatto.
 

 

MIKE COOPER - "Patterns of Islands" (New Globe Notes)

Avevo incontrato Mike varie volte e in varie occasioni, anche in quanto assiduo frequentatore del DalVerme (è inglese di nascita ma vive a Roma da più tempo di me). I suoi lavori e la sua ricerca musicale mi sono sempre piaciuti. Conoscerlo di persona non ha potuto che far crescere la mia stima, affetto e amore: per lui, per la sua musica e per la sua collezione di camicie hawaiiane. Ero un po' intimidito e non sapevo bene come chiedergli del materiale, ma mi disturbava il fatto che non ci fosse vinile nella parte più recente della sua discografia sconfinata, così mi sono buttato. Insieme ai ragazzi di NERO Magazine abbiamo concepito un'edizione un po' più complessa e gustosa rispetto a un semplice disco. Ed è cosi che è nata questa release: il disco è accompagnato da un libretto con racconti e disegni fatti da Mike durante i suoi viaggi per le isole del Pacifico. Per non farci mancare niente, c'è anche un'introduzione scritta da David Toop. Indossate la vostra migliore camicia hawaiana prima di premere play.

 

HEROIN IN TAHITI - "Granaglia" (Canicola)

Vicini di casa, di locale e di truffe, con gli HIT siamo spesso a stretto contatto a parlare di stronzate e grandi progetti per il futuro del mondo. Un giorno il Famoso Giornalista e Scrittore Valerio Mattioli mi ha fatto notare che non avevano ancora un'uscita su cassetta e questo era inaccettabile. Abbiamo subito deciso di riparare. Hanno registrato appositamente quello che poi sarà il loro disco migliore: Canicola. Pensando al portafoglio di Onga gonfiato dalle vendite dei loro dischi su Boring Machines, mi sono affrettato a pubblicare questa C40 con copertina stampata in Risograph di cui ho venduto tutte le copie ancora prima di ascoltarla. Da poco è uscita anche la versione in vinile, in occasione del Thalassa IV e decimo anniversario di Boring Machines... ovviamente già esaurita.

 

CADEO - "Side A" (Gran Galà)

Ci sono persone che stanno a Roma Est ma è comunque difficile incontrarle. Cadeo è un duo di magiche figure a noi care: uno di loro è Demented ed è facile vederlo in giro. L'altro non si può neanche nominare e si incontra difficilmente (qualcuno lo conosce come Polysick e altri come TheAwayTeam). Si sono messi insieme per rivivere e rivisitare in chiave musicale l'alba della televisione commerciale italiana. Un viaggio solo andata a cavallo di morbidi synth e voci familiari dall'universo Mediaset e non solo. Essendo un progetto audio/video, a questa cassetta è allegato un libretto di dodici pagine con immagini dei loro sogni televisivi. Ritorno al futuro assicurato!

 

DAN MELCHIOR - "What Happened to the Buffalo" (All At Sea)

Un vecchio amore che risale ai tempi d'oro del garage rock'roll, quando Dan faceva dischi stupendi con Billy Childish o con le sue band Dan Melchior Und Das Menace o Dan Melchior's Broke Revue. Anche lui (come me?) si è (de)evoluto verso panorami più sperimentali, dilatati e concreti. Da grandi hit single garage pop è passato a synth, campionatori e altre macchine. Ho adorato questa sua deviazione che in un momento di facile successo "pop" lo ha mantenuto in ambienti sperimentali e di ricerca. Sfortunatamente ci siamo conosciuti in una situazione non propriamente bella: un crowdfunding fatto a DalVerme per supportare le spese mediche della moglie Letha, in un'America che non sovvenziona le cure degli artisti. Da allora siamo rimasti in contatto e abbiamo avuto molti scambi. Da qui è nata l'idea di un uscita su NO=FI e lentamente ci siamo arrivati. Questo è un disco che io adoro: scurissimo perchè specchio di un momento davvero duro che Dan ha passato, ma profondo, intenso e poetico. Altamente consigliato!

 

OvO - "Abisso" (Abisso/Genesi)

Se c'è una persona che mi ha influenzato fortemente nell'Italia musicale dei primi anni Duemila, questa è Bruno Dorella. L'ho incontrato come booker che portava gruppi americani in giro col suo furgone, come etichettaro che spingeva ottime band sotto il nome Bar La Muerte, come musicista sotto mille nomi e formazioni. Insomma, anno dopo anno, incontro dopo incontro, pranzo dopo pranzo, siamo diventati grandi amici! Se a lui unisci Stefania e tutte le volte che ci siamo incrociati in squat, locali fancy o scantinati, capirai che di esperienze ne abbiamo condivise un bel po'! Probabilmente per suggellare questa fratellanza abbiamo pensato a questa uscita di OvO su NO=FI: serviva una cosa "strana" e in linea con l'etichetta ed ecco che mi presentano le prime registrazioni del loro disco Abisso (uscito per SupernaturalCat), nelle quali avevano sperimentato, testato diverse vie, provato soluzioni meno probabili e fantasiose prima di buttare giù il disco vero e proprio. Roba molto gustosa! 

 

FULKANELLI - "Side A" (Harmonikes Mundi)

Era il periodo in cui l'Italian Occult Psychedelia iniziava a imperversare in tutto il globo. NO=FI ha fatto la sua parte. Oltre a organizzare il festival Thalassa, abbiamo sfornato uscite che riteniamo pilastri del genere. I Fulkanelli sono un ottimo esempio di ciò che la I.O.P. "significa". Un duo d'eccezione con il profeta dei tamburi Paolo Mongardi e il messia delle chitarre Cristian Naldi: un misto di prog, library music, soundtracks e la giusta dose di violenza live che fa sempre piacere (il sudore è necessario). Co-prodotto con la Lemming Records di Gaspare Sammartano (vedi alle voci Cannibal Movie e Sammartano), esce un disco "stellare" fin dal titolo, ispirato a Keplero: Harmonikes Mundi. Le grafiche affidate a Re Delle Aringhe mantengono la vocazione cosmica: vinile trasparente in busta di PVC serigrafata che ci porta mano nella mano a guardare il cielo di notte.

 

LAMUSA - "Mermaid" (Etrūrya)

Il ritmo, i synth, gli anni Ottanta, l'italo disco: unisci tutto questo alla fresca gioventù, alla sperimentazione, all'utilizzo di macchinari analogici e alla voglia di far sculettare ma con stile... ed ecco Lamusa! Avevo fatto uscire su cassetta un brevissimo EP perchè mi gustava. Chiamato a DalVerme a suonare arriva con una macchina stracolma di synth, drum machine, ampli e altri armamentari. Per la serie "ciao laptop". Il live è stato la conferma definitiva della sua bravura e quando è arrivato ad avere il materiale per un'intero LP eravamo pronti per metterlo su vinile. Credo sia una delle uscite più pop di NO=FI (infatti co-prodotta dagli amici di Bomba Dischi, a buon intenditor poche parole). Evitare di diventare noiosi fa parte della nostra missione. 

Il NO=FI Fest si terrà giovedì 15 settembre al Monk Club. Segnatelo sul calendario Metti "parteciperò" su Facebook.

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Una notte al Kit Kat, il sex club più famoso di Berlino

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A Berlino, la capitale europea del divertimento notturno, techno e sesso vanno spesso a braccetto. Abbiamo mandato un nostro inviato a indagare sul Kit Kat Club, la discoteca che unisce queste due passioni dei clubber berlinesi.

"Ti andrebbe una cosa a quattro?"

Jess mi lancia uno sguardo lascivo. Siamo seduti vicini alla piscina esterna, parte integrante del noto locale berlinese Kit Kat Club, con noi ci sono la ragazza di Jess, Tia, e la sua amica Sylwia, che viene da Varsavia ed è qui per il weekend. Jess ha vissuto a Los Angeles, adora il mio accento e sembra non vedere l'ora di approfondire il nostro incontro, in pieno stile Kit Kat. Tia invece non sembra tanto dell'idea, quindi alla fine il nostro bel ménage-à-quatre rimane sul piano platonico. Se così non fosse stato, però, e se l'avessimo messo in atto nel mezzo del locale, nessuno avrebbe battuto ciglio. Mentre a casa mia il massimo che puoi rimediare in discoteca è una pomiciata spinta, nella capitale tedesca, i berlinesi "poveri ma sexy" celebrano il loro amore per la musica anche tramite copulazioni libere.  

Il Kit Kat Club è stato fondato nel 1994 da Simon Thaur—un regista di porno austriaco— e Kirsten Kruger, la sua partner, quando il Berghain era ancora un sogno lontano e Sven Marquardt portava ancora i calzoni corti.

Dave è inglese che vive a Berlino dalla fine degli anni Novanta. Sta vicino al bar e indossa anfibi e un piccolo tanga in PVC, si tira indietro i riccioli biondi mentre mi illustra i lati positivi di sbattersi qualcuno mentre l'house ti sbatte in testa. 
 

"Vengo qui tutte le settimane," mi dice mentre si asciuga il sudore dalla fronte. "C'è gente da tutto il mondo, e tutti sono incredibilmente disponibili. Non mi ricordo di una settimana in cui non mi sia svuotato le palle nella dark room."

Il Kit Kat Club, che sta dall'altra parte del Tresor sulla Brückenstraße nel Mitte, è un posto gigantesco che si snoda in alcune stanze. C'è il dancefloor principale, un secondo spazio più piccolo con un'altalena per bondage e un bar nascosto al piano inferiore a cui si accede tramite tunnel oscuri. C'è anche un disimpegno in cui solitamente la gente va a fumare e chiacchierare, che porta alla piscina, sul cui bordo uomini e donne nudi si accarezzano reciprocamente i genitali mentre ascoltano Goa trance.

L'arredamento è tra l'hippy e l'estetica rave degli anni Novanta: graffiti al neon e grafiche acid. Il pubblico è più variegato rispetto a quello di qualsiasi altro club europeo in cui sono stato. Per iniziare, non c'è alcun limite di età, tutti possono copulare liberamente con gente appena incontrata in pista. C'è una coppia sui sessant'anni che si scatena sulle note di "Yeke Yeke" (Hardfloor mix), lui è completamente nudo, mentre lei fa una specie di spogliarello mentre si toglie la maglietta che indossa a mo' di vestitino. E poi ci sono i più giovani. È estate e fa caldo, quindi gli uomini presenti indossano per la maggior parte slippini in pelle o PVC, le donne invece stanno in mutande e reggiseno oppure topless, molti dei capezzoli che vedo sono adornati da piercing fantasiosi. Vedo anche parecchi tatuaggi, chiaramente.
 

Come succede nella maggior parte delle feste che contano anche il sesso nel proprio menu, le cose iniziano un po' per volta, perché si possa prendere un po' di confidenza. C'è una piccola area spogliatoio, all'ingresso, in cui liberarsi dai panni di ogni giorno. Anche qui si può sentire la tensione sessuale, volano occhiate eloquenti e sguardi intensi mentre ci si spoglia. Una volta dentro, di solito si sta un po' nella zona del bar per caricarsi e chiacchierare. 

"C'è un bel po' di ciccia qui dentro, stasera," mi fa notare Dave mentre si tira indietro i capelli con un gesto felino. "Non devi essere un membro per entrare—anche se io un membro ce l'ho e chiaramente voglio entrare, mi capisci?"

Be', certo. E dato che Berlino è la destinazione più gettonata per il clubbing in Europa, forse seconda solo a Ibiza, è il caso di indagare vagamente anche sulla musica qui. 

"Musica?" Dave mi guarda con aria divertita. "È tutta uguale, quella merda che fa boom-boom-boom, no? Mi basta un po' di bamba e nemmeno mi accorgo che c'è, la musica."
 

Mi addentro nel torbido e mi dirigo al bar del piano di sotto. Nel buio, mi imbatto in Manfred. Qui, lui è famoso perché di solito passa dalle sei alle otto ore a menarselo ossessivamente vicino alla tromba delle scale, mentre la gente gli passa quasi sopra per andarsi a prendere un altro vodka-mate. Gli chiedo come mai passi così tanto tempo a masturbarsi. 

"Vedi tanti di quei corpicini qui," mi dice annaspando mentre continua a segarsi ferocemente. "Li vedi — tutti questi corpi?"

Be', certo che li vedo. È un sex club... Gli chiedo come mai anziché far tutto da solo non tenta di interagire, magari con un po' di fortuna becca pure.

Manfred scuote la testa, mentre la sua mano continua a muoversi rapidamente. "Non ho tempo," mi dice risoluto.
 

Forse, vista la sua parafilia, Manfred si godrebbe di più un altro party qui in città, il "Saturday Night Fuck"—ottimo nome—che si tiene all'Insomnia nell'Alt Tempelhof. Lì sopra al dancefloor vengono proiettati film porno tutti particolari, in cui per esempio ci sono tipe che prendono in bocca giganteschi peni alieni, due aliene si chiavano una strana creatura umanoide fino a farla implodere mentre eiacula una cosa che sembra lava. Tutto questo viene completamente ignorato da quelli che stanno nel grosso letto a centropista, che sembrano più interessati a leccarsi e succhiarsi a vicenda che a guardare film.

Dal Berghain al Kit Kat Klub, e pure in alcuni angoli bui del Tresor, i clubber berlinesi sembrano particolarmente propensi a farsi una bella scopata in pubblico mentre ascoltano la techno. Tornando al Kit Kat, trovo Sandra, una drag queen coi capelli rosa che viene da Amburgo, appena uscita da un incontro sessuale cui hanno preso parte anche Freida, il suo fidanzato e un'altra drag queen. Chiedo loro come funziona qui. 

"È così," mi dice Sandra. "Qui a Berlino ci piace la techno e ci piace scopare, quindi perché non fare le due cose insieme?"

Infatti, perché no? Mentre i primi raggi del sole mattutino illuminano gli angoli bui della piscina e chi ha passato qui la notte si avvia, stanco, verso casa, osservo una coppia gay coi pantaloni in pelle calati, che ci dà dentro romanticamente vicino al bar, mentre la techno pompa più violenta che mai. C'è qualcosa di molto dolce in questa scena, forse la cosa più dolce, però, è sapere che a Berlino, la città più decadente d'Europa, c'è ancora spazio per chi di notte si vuole divertire per davvero.

Tutti i nomi — tranne Simon e Sven — sono di fantasia.

 

Un campeggio di lusso del Burning Man è stato preso d'assalto

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Il White Ocean, foto via

Ieri è finita l'edizione 2016 del Burning Man, cioè il festival più assurdo che l'America ha mai conosciuto: come ogni anno, un sacco di persone si sono radunate nel deserto del Nevada, hanno montato le loro tende e si sono sentiti liberi di drogarsi pesantemente esprimere la loro individualità per qualche giorno, celebrandola bruciando un enorme effige antropomorfa. L'unico problema è che, come tutte le cose fighe e alternative, anche il Burning Man ha iniziato con il passare del tempo a venire frequentato non solo da post-hippie puzzoni ma anche da chiunque volesse semplicemente farsi un'esperienza genericamente "alternativa". Una sorta di gentrificazione festivalesca.

È da qualche anno, infatti, che il festival ha iniziato a diventare progressivamente sempre più istituzionalizzato: se un tempo si trattava solo di arrivare lì e piantare una tenda, ora l'accesso è regolato da biglietti. Inoltre, sono stati organizzati diversi sotto-campeggi di lusso a pagamento, che permettono ai milionari della Silicon Valley—o, semplicemente, a chi ha qualche migliaio di dollari da investire—di partecipare al festival con tutti i lussi necessari: elettricità, acqua corrente, letti comodi, security e così via. In un certo senso, un approccio diametralmente opposto a quello che il festival ha storicamente promosso.

Foto di Benjamin Grant, scattata durante l'edizione 2014 (via)

Nella notte di mercoledì, la questione ha avuto dei risvolti violenti: uno di questi campeggi esclusivi—il White Ocean—è stato infatti attaccato da alcuni partecipanti al festival. "Un gruppo di hooligan ha fatto un raid contro il nostro campeggio", hanno scritto gli organizzatori su Facebook, "ha rubato le nostre cose, ha tagliato i nostri cavi elettrici lasciandoci senza frigoriferi e quindi senza cibo fresco, ha incollato le porte delle nostre roulotte, ha vandalizzato gran parte delle nostre infrastrutture e ha versato 700 litri d'acqua potabile per terra causando un allagamento."

La risposta ai fatti è stata ambivalente: c'è chi ha condannato il gesto, criticando comunque il campeggio per i suoi "privilegi", mentre altri hanno preso la cosa come un esempio di riappropriamento dell'etica originaria del festival "dalla classe parassita e dai turisti EDM." "VOI siete stati scelti SPECIFICAMENTE per questa elaborata performance e, notiziona, queste cose non succedono a caso, ma solo a chi se le merita", ha commentato un utente. Stando ai responsabili del White Ocean, persino un organizzatore del festival gli avrebbe detto che "il sabotaggio aveva senso" data la loro natura di "campeggio chiuso e non accogliente." 

Il White Ocean è stato fondato nel 2013, tra gli altri, dal celebre DJ trance Paul Oakenfold e da Timur Sandarov, figlio di un magnate russo del petrolio. È noto per il suo enorme palco e le sue feste, a cui hanno suonato negli anni diversi celebri DJ. Sarà curioso vedere se e come gli organizzatori del festival rilasceranno un comunicato ufficiale sulla questione. Vi terremo aggiornati.

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C'è un nuovo pezzo di Earl Sweatshirt, molto probabilmente prodotto da King Krule

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 Screen dalla Boiler Room di DJ Earl Fletcher

Ah, la radio! Quando non c'è Carlo Conti di mezzo, sa ancora essere un luogo di bellezza e scoperte musicali. La cosa è piuttosto vera nel Regno Unito, dove nell'ultimo anno sono venute fuori un sacco di stazioni fighe, alcune più istituzionali e altre meno: Beats 1, Radar Radio e RBMA Radio per dirne alcune. Proprio su quest'ultima Knxwledge (produttore di "Momma" di Kendrick Lamar e compagno di Anderson. Paak nei NxWorries) ha un programma la cui terza puntata è andata in onda ieri, 5 settembre. 

Sorpresa sorpresa: Knxwledge ha colto l'occasione per trasmettere un inedito di Earl Sweatshirt intitolato "Death Whistles." Appena prima dell'inizio del pezzo, però, il produttore americano se ne è uscito con un "Shouts out Edgar"—cioè molto probabilmente un saluto a Edgar the Beatmaker, uno degli alias di King Krule. Non sappiamo quando il pezzo è stato registrato, ma forse è un messaggio degli Dei che ci annuncia l'imminente arrivo del risultato di quella stramba sessione di registrazione tra Krule, Earl, i Jagwar Ma e le Warpaint. 

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