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Guarda il video dei Converge che suonano tutto "Jane Doe" al Roadburn Festival

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Il Roadburn si è guadagnato la reputazione di festival in cui i sogni diventano realtà, e l'edizione di quest'anno non ha fatto eccezione: tra set sconvolgenti di gente come Diamanda Galás, Neurosis, G.I.S.M. e una passerella di giovani prodigi del black metal islandese, è stato difficile trovare una band che spiccasse su tutti... a parte le leggende dell'hardcore metal Converge. Loro hanno alzato il livello fino alla stratosfera suonando il fondamentale album del 2001 Jane Doe nella sua interezza. Come era facile aspettarsi, è stato una bomba del cazzo.

Frank Huang di Pit Full of Shit si trovava lì pronto a catturare la performance in tutta la sua intensità e la sua catarsi emotiva (potete vedere altri due milioni di suoi video del Roadburn [e altro] qui e anche qui—cosa che consigliamo fortemente di fare, perché Franco qua è un filmmaker davvero bravo e prolifico). 

Premi play qua sotto e preparati ad affrontare l'Inferno. 


Back & Forth: una conversazione tra Teki Latex e Kiddy Smile

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Su una delle due sedie c'è un artista che non ha bisogno di presentazioni e che negli ultimi anni si è ritagliato il suo spazio nella scena con il nome di Teki Ninja. Sull'altra uno che non si può ignorare, sia che lo si voglia considerare un produttore, un ballerino una figura chiave della scena ballroom o semplicemente uno dei collaboratori più fidati di Alexander Wang e Jean-Paul Gaultier. Abbiamo approfittato della visita di questi due strani figuri al NTS X Carhartt WIP Radio Tour per farli sedere uno di fronte all'altro e discutere di temi sempre attuali come lo zucchero, l'omosessualità, i fumetti, i posti migliori in cui trovare vestiti nuovi, Il Quinto Elemento e, ovviamente, la scena Ballroom.

Il video contiene estratti del film Pigalle Is Burning e del film Paris Is Voguing. Paris Is Voguing è una collaborazione tra Kidam Production e Vice Media France, con la partecipazione di France Télévision.
 

Questa parodia di Giorgio Moroder, Vangelis e Wendy Carlos è semplicemente perfetta

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Sappiamo già quanto i video di gente che suona sintetizzatori possano essere divertenti. Ora Adult Swim ha portato questa forma d'arte a un livello completamente nuovo con uno sketch apparso online questa settimana. Live at the Necropolis: Lords of the Synth è un omaggio perfetto per le improvvisazioni cosmiche di Giorgio Moroder, Vangelis e Wendy Carlos. In questa storia i tre si chiamano Morgio Zoroger, Carla Wendos e Xangelix—tre maestri che hanno il compito di salvare il mondo dall'imminente distruzione grazie alle loro skill synthetiche. 

Potete guardare il "concerto del 1986 recentemente ritrovato" qua sotto: 

Ascolta "Koan" di Victor Kwality, un viaggio spirituale

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Non è passato neanche un mese da quando abbiamo postato in anteprima il video di "Lost Son", primo singolo del nuovo album di Victor Kwality Koan, che ha sconvolto noi quanto il pubblico. Oggi siamo orgogliosissimi di avere per primi e in esclusiva lo streaming dell'album per intero prima della sua uscita prevista per domani, venerdì 6 maggio, su Sugar Music.

Le dodici canzoni mantengono la qualità eclettica e delicata che dimostrava il singolo, ampliando la paletta delle influenze a una varietà di luoghi ed epoche. A tratti la musica "flow[s] like a flake of snow", per citare il testo di "Oracle Bambino". Altre volte le atmosfere si fanno più cupe ed elettroniche, ma sempre cariche di emotività grazie alla voce appassionata di Victor.

Il titolo Koan si riferisce al verbo che indica il gesto di bere con le mani a coppa in un dialetto del Mozambico e anche al concetto buddista del paradosso come mezzo per comprendere meglio la realtà: la suggestione, proprio tramite il paradosso, non è solo viaggio, ma rappresenta anche l'idea di fermarsi in un luogo abbastanza a lungo per assaggiare la sua acqua e apprezzarne le peculiarità. Il disco, interamente prodotto da Frenetik&Orang3, è stato scritto e suonato in giro per il mondo, ma con un sottotesto di intimità, di casa di amico in casa di amico. Victor lo chiama "disco da viaggio, drive music o mistic music", noi abbiamo imparato a chiamarlo Koan

Premi play e goditi lo streaming qua sotto, poi ordina Koan su iTunes.

Seguiteci sulla nostra nuova pagina Facebook per restare aggiornati sulle nostre première, quella vecchia non la useremo più.

I sample di "Views" dalla A alla Z

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In un'intervista del 2015 con FADER, Drake descrive l'evoluzione del suo rapporto con il producer e co-fondatore di OVO Sound Noah "40" Shebib nel corso degli anni, dicendo: "Lui era quello che mi rintracciava negli hotel alle quattro del mattino. Ora non lo fa più—ho un'altra persona per queste cose. Se voglio fare l'album che voglio fare, devo andare da lui. Devo mettermi al lavoro con lui, e impegnarmi sul serio."

I termini della loro collaborazione sono cambiati da quando l'hitmaker ha iniziato a lavorare con Aubrey Graham nel 2005, ma non c'è nessuno che conosca meglio di lui i bisogni del rapper di Toronto. Per questo attesissimo quarto album, Views—uscito la scorsa settimana dopo una lunga intervista con Zane Lowe su Beats 1 di Noisey—Drake ha mantenuto la produzione in casa per larga parte, con contributi di PartyNextDoor, Majid Jordan, Nineteen85 (del duo R&B dvsn) e altri.

Ciononostante la presenza di 40 rimane la più incisiva, accreditata sulla maggior parte delle 19 tracce. Mentre l'atmosfera emotiva e musicale dell'album è a tratti fredda e rarefatta, ci sono anche momenti di vero calore, specialmente su pezzi come "Controlla" e "One Dance", che attingono a una grande varietà di influenze internazionali, compresi dancehall reggae e funky UK. Da Beenie Man a The Winans, vi presentiamo la guida delle canzoni campionate su Views. 

Ma prima, forse dovresti cliccare "Mi piace" sulla nuova (tra poco l'unica) pagina Facebook di Noisey Italia. 

 

Beenie Man, "Tear Off Mi Garment"

Compare in: "Controlla"

 

 

Seguendo i passi del video di Rihanna "Work", che è stato girato al ristorante di Toronto The Real Jerk, il pezzo più catchy dell'album—e probabile futuro inno del Caribana—mette in evidenza il ricco sottostrato culturale giamaicano usando le parole del veterano della dancehall.

 

Brandy, "I Dedicate, Pt. 2"

Compare in: "Fire & Desire"

 

 

Ricordate quando Drake ha fatto uscire quella mezza cagata di canzone postuma di Aaliyah? Questo è un tributo agli anni Novanta molto migliore.

 

DJ Paleface feat. Kyla, "Do You Mind (Crazy Cousinz Remix)"

Compare in: "One Dance"

 

 

L'anglofilia di Drake è ben documentata, dalla sua collabo con Jamie xx alla sua amicizia con Skepta e la sua partecipazione alla crew BBK. La miglior influenza britannica, però, è il remix UK funky fatto dai Crazy Cousinz della hit piano house del 2008 "Do You Mind" di Kyla, che funziona da fondamento per la megahit "One Dance". La reazione della cantante? "Pensavo fosse un pesce d'aprile. Non succede tutti i giorni che ti chiami Drake", ha detto a Noisey in una recente intervista.

 

DMX feat. Faith Evans, "How's It Goin' Down"

Compare in: "U With Me?"

 

 

Nonostante le passate incomprensioni—tipo questa intervista del 2012 a Breakfast Club in cui DMX ha dichiarato "Non c'è niente che mi piaccia di Drake"—le cose sembrano un po' più pacifiche tra X e il rapper di Toronto negli ultimi tempi. Inserire un paio di classici della star dei Ruff Ryders può sembrare una scelta bizzarra per un artista solitamente non considerato esattamente come un duro, ma sembra calzare alla perfezione con le rime arroganti della traccia. 

 

DMX feat. Sisqo, "What They Really Want"

Compare in: "U With Me?"

 

 

Che coincidenza, pare che DMX pubblicherà un nuovo album quest'anno, il primo dopo Disputed del 2012.

 

Ha-Sizzle, "She Rode That Dick Like A Soulja"

Compare in: "Child's Play"

 

 

Come "Formation" di Beyoncé, "Child's Play" attinge alla cultura bounce di New Orleans, questa volta campionando una delle canzoni più famose di Ha-Sizzle. A differenza della hit di Lemonade, che comunica urgenza e carica politica, qui è usato come trampolino per le storie personali di Drake.

 

Ideal, "Get Gone"

Compare in: "Faithful"

 

 

Dall'album omonimo del quartetto R&B di Houston, uscito nel 1999. 

 

Jay Z feat. Pimp C, "Tom Ford (Remix)"

Compare in: "Faithful"

Al di là del suo beat alla Timbaland tutto metallico e incazzato, "Tom Ford" di Jay Z—tratto dal suo album flop del 2013 Magna Carta... Holy Grail—non è certamente una buona canzone, pur se leggermente migliorata da un remix che include una strofa inedita del fu rapper texano di UGK. Ripresa come intro di "Faithful", l'effetto complessivo è piuttosto irritante, ma sottolinea quanto la carriera di Drake sia influenzata dall'hip-hop del Sud e di Houston in particolare. 

 

Malcolm McLaren, "World's Famous"

Compare in: "Feel No Ways"

 

 

Mentre quest'anno si è occupato principalmente di The Life Of Pablo, Kanye West ha prestato i suoi talenti dietro al mixer per "U With Me?" e "Feel No Ways", e per quest'ultima ha preso in prestito la abusatissima batteria di questa traccia di McLaren risalente al 1983. La coincidenza è che Pharrell ha usato lo stesso sample per il suo singolo del 2006 "Number One", anche quello feat. 'Ye.

 

Mary J. Blige, "Mary's Joint"

Compare in: "Weston Road Flows"

 

 

Anche se contiene alcuni dei riferimenti più Toronto-centrici dell'album—tra cui il giocatore dell'NBA Vince Carter, il rapper Jelleestone e il sistema di trasporti pubblici della città—non c'è nulla di più universale di 40 che mette un pezzo da My Life, la bomba di MJB del 1994, con un'assist determinante dal producer francese emergente Stwo.

 

Mavado feat. Serani, "Dying"

Compare in: "9"

 

 

Deve ancora giocarsi tutto e fare un album totalmente dancehall, ma Drake non ha certo paura di pescare da questo genere, questa volta usando un ritornello disperato preso dal debutto di Mavado del 2007, Gangsta for Life: The Symphony of David Brooks. Dal punto di vista tematico, prosegue il discorso di If You're Reading This It's Too Late, in cui il rapper riflette sulle implicazioni personali del successo. "9" è stata co-prodotta da Brian Alexander Morgan, meglio conosciuto per il suo lavoro con il trio newyorkese SVW, che sembra perfetto vista la predilezione del rapper per l'R&B anni Novanta. 

 

Popcaan, "Love Yuh Bad"

Compare in: "Too Good"

 

 

Una strofa di Popcaan in una versione precedentemente leakata di "Controlla" è inspiegabilmente assente dalla versione definitiva, per la delusione di molti fan giamaicani. La speranza è che la traccia vocale originale veda prima o poi la luce, ma, nel frattempo, abbiamo "Too Good", in cui canta anche Rihanna e usa la hit "Love Yuh Bad" firmata da Mixpak nel 2014.

 

Ray J, "One Wish"

Compare in: "Redemption"

 

 

"I bet me and Ray J would be friends."

 

Timmy Thomas, "Why Can't We Live Together"

Compare in: "Hotline Bling"

 

 

Ve la ricordate? La canzone dell'estate scorsa è stata inclusa in Views come bonus track in quella che sembra una mossa furbetta per garantire il disco di platino all'album grazie alla revisione del sistema di certificazione della Recording Industry Association of America. Nonostante il tempo passato, il sample della hit soul del 1972 "Why Can't We Live Together" di Timmy Thomas—che è stata rivisitata in modo fantastico da DJ Dodger Stadium di LA—è ancora la parte migliore di "Hotline Bling".

 

The Winans, "The Question Is"

Compare in: "Views"

 

 

Il meditabondo outro di Views—che ricorda il lavoro solista di Drake "30 For 30 Freestyle", tratto dal suo mixtape insieme a Future del 2015—prende in prestito il ritornello di questa canzone gospel del 1981. È stato usato anche in "Summer Sixteen", che poi non è arrivata a essere inclusa nell'album.

Ho imparato ad amare la drum and bass in un giorno solo

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A cosa pensi quando pensi alla drum and bass? Io pensavo a sudore, bianchi con i dreadlock sporchi, magliette marroni, denti gialli, il vago odore di saliva mescolata a fango, tipi di nome Kevin, la parola "strippo", Chewbecca, tabacco Virginia giallo, muffa, lenzuola impregnate di deodorante, cittadine di campagna, alloggi per studenti, il film Snatch ed erba di pessima qualità. Ora, però, sono un uomo nuovo. 

Qualche tempo fa ho deciso che se devo scrivere di musica elettronica per lavoro, cosa che faccio, allora devo accogliere l'inaccoglibile tra le mie orecchie. Mi sono detto che non avrei potuto permettermi di passare il resto della mia vita con la testa sotto la sabbia, scartando a priori interi generi musicali senza battere ciglio come un quattordicenne rancoroso e vecchio dentro. Ho dovuto imparare ad amare aggrotech, dubstep e neurofunk perché altrimenti scansare il raggacore o l'handbag house o il cybergrind sarebbe stato come un critico culinario a cui non piacciono le melanzane o l'anice stellato, o un critico d'arte che "non capisce tutto l'interesse" per i quadri a olio o le sculture. È per questo che ho deciso di tentare di farmi piacere la drum and bass. 

Abbiamo cambiato pagina Facebook, se non vuoi perderti i nostri aggiornamenti fa' quello che devi fare:

Armato di quattro lattine di Burn, un pacco famiglia di salatini e un enorme senso di apprensione, mi sono approntato ad ascoltare l'intera Top 50 dei dischi drum and bass secondo Jockey Slut. Perché proprio quella classifica? Perché avevo una vecchia copia della rivista di fronte a me e una connessione internet, e la missione che mi ero assegnato era già talmente arbitraria che un ulteriore elemento di arbitrarietà non avrebbe fatto la differenza. E poi sembrava anche abbastanza ben fatta. Ho riconosciuto nomi come DJ Krust e Peshay dagli aggiornamenti di stato su Facebook postati da gente con cui andavo a scuola e che ha subito la trasformazione da normale studente a entità chiamata Spirit Inthesky, e se andava bene per Woody Warlock andava bene anche per me. Ho finito per innamorarmi? Lo scoprirete continuando a leggere. Se volete provarci anche voi, la playlist è qua sotto.

Le cose sono iniziate in modo abbastanza normale con la tranquilla "Pulp Fiction" di Alex Reece, che suona... be', drum and bass. Quel tipo di drum and bass con quei sassofoni super pacchiani—quel tipo di drum and bass che mi fa sempre venire in mente negozi di dischi pessimi e gente che va matta per Spaced. Quello, però, è un problema mio. Non posso incolpare Alex Reece di questa cosa. Non è colpa sua che io mi porti in testa questi paragoni poco lusinghieri, questi schemi limitanti, queste associazioni infelici. Per cui l'ho riascoltata, meglio. L'ho riascoltata cinque volte e, pur non avendo avuto alcuna Grande Epifania, mi sono ritrovato a pensare: "oh, non è niente male, anzi, si ascolta volentieri". E, se esiste un complimento più alto per un disco, io non lo conosco. 

Per un po' le tracce sono andate e venute—"Shadow Boxing" di Nasty Habits è stata molto piacevole, "Acid Track" di Dilinja mi ha spaventato in senso positivo—e seppur parte di me abbia continuato a pensare che sarebbe stato meglio ascoltare disco polacca o una "Behind the Waterfall" di David Lanz & Paul Speer, un'altra piccola, piccolissima parte mi ha suggerito che forse non avevo capito per nulla la drum and bass. Che fosse così? No, impossibile. Non mi posso essere sbagliato. Vero? 

Be', invece sì. Avevo torto. Per anni mi sono detto che la drum and bass era una riserva musicale per quel tipo di persona che non sarei mai voluto diventare. Non appena sentivo le parole "drum and bass" e "party" usate in congiunzione l'una all'altra mi veniva l'orticaria, ero terrorizzato da quello che pensavo sarebbe successo in quei rave—e venivano sempre chiamati "rave", una parola che mi ha sempre dato i brividi. Mi immaginavo stanze che emanavano un odore talmente intenso da essere percepibile dallo spazio, piene di uomini scheletrici in tuta in preda alle convulsioni ballando canzoni della colonna sonora di Ali G in da USAiii. Quando cercavo di immaginarmi il futuro peggiore, mi immaginavo uno stivale Cyberdog che pestava una canna mal rollata per l'eternità. In una serata chiamata SkrewFayce.

 

Che gran mucchio di stronzate. Che modo infantile di vedere il mondo e le altre persone e i loro svaghi e piaceri. Quanto narcisismo e quanta indifferenza. Mentre mi scolavo la mia bella lattina di acqua e zucchero energizzante ("Burn è il carburante per chi vive nel presente e segue le proprie passioni, non importa se grandi o piccole!") ed entravo nel terzo ascolto di fila di "Nico" di Ed Rush, sono quasi scoppiato a piangere grosse e pesanti lacrime di rimorso alla taurina. Mi ero sempre negato così tanto piacere, impedito a me stesso di esplorare nuove profondità musicali, inibendo di fatto la mia stessa crescita artistica per mantenere una supposta reputazione online. Quanto tempo sprecato.

Con il passare delle tracce, questi attacchi veloci e furiosi di devastazione a 160bpm, formule magiche intricate captate da un altro universo, un universo dove il goffo e rigido incedere a 4/4 della house e della techno è visto con sospetto, mi sono sentito cadere sempre più in profondità nella tana del Bianconiglio. Mi sono ritrovato a ingozzarmi di video di vecchie feste su YouTube, a ricercare ossessivamente flyer e poster, a rotolare nei fogli di plastica che avvolgevano i pacchi di cassette comprati d'istinto. All'improvviso indosso un bomber Metalheadz e sto dicendo a Goldie quanto lo ammiro. Vado al pub con LTJ Bukem e i ragazzi di 4 Hero e lì condividiamo un sacchettone di patatine e le nostre opinioni sui dischi Reinforced. 

 

Dall'assalto metallico di "Circles" di Adam F (dal sapore stranamente natalizio) fino alla velocità e leggerezza da colibrì di "Bambaata" di Shy FX, fino all'atmosfera sognante da wine bar di "How You Make Me Feel" di Marcus Intalex e alla pesantezza di "Heat" di Wax Doctor, stavo scoprendo una gemma dopo l'altra, contento come un bambino di vivere in un'epoca dove da una traccia può scaturire un banchetto musicale da sette ore. Essendo abituato al sopramenzionato senso di rigidità su cui si fondano le nicchie a cui sono abituato, è stata una vera delizia ritrovarmi a muovere la testa ascoltando qualcosa di mutante e riflessivo, angolare e spesso profondamente strano. Certo, ci sono stati momenti in cui il pensiero di un'altra linea di basso sporca e sfilacciata mi ha quasi spinto a cercare rifugio in un mix di Marcel Dettmann e sì, magari c'era qualche sassofono di troppo nella lista di Jockey Slut—tutti sanno che il sassofono è lo strumento del diavolo—ma ho resistito e sono arrivato a riconoscere i miei torti passati, come ascoltatore e come persona. 

In un solo giorno sono stato costretto a ripensare tutto quello che credevo di sapere sulla mia relazione con e verso una forma d'arte. E sono anche riuscito a finire tutta quella Burn. Sono andato a letto con un forte mal di stomaco ma molto, molto felice. 

A 360 gradi nella mente di Shablo e Charlie Charles

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Se potete, vi consigliamo di guardare il video dal vostro smartphone utilizzando l'app di YouTube

Se dobbiamo analizzare tutti i pezzi contenuti in Mate Y Espìritu, l'ultimo LP di Shablo, allora forse, dal punto di vista del tema viaggio, il pezzo con Charlie e Mica Ela è uno dei più infiniti, dato che è cominciato in Perù, dove Shablo ha scritto i testi per la cantante per poi registrarlo nella Foresta Amazzonica, durante una permanenza nell'ormai lontanissimo 2009: "È stato un lavoro infinito e accantonato più volte, in cui alla fine mi mancava ancora la batteria e ho deciso di provare a mettere insieme questa suggestione di un brano orchestrale che si incastrasse su una batteria trap". La programmazione di quella batteria viene affidata a Charlie Charles e la traccia finisce di diritto sul disco: "Charlie a volte mi fa morire perché ci mettiamo a parlare e ci sono tutta una serie di artisti e rapper americani, così come italiani, che lui non ha mai mai sentito nominare e che, tanto per specificarlo, restano fondamentali per la mia formazione. Il valore del suo contributo è stato quello di poter includere nel brano una pagina artisticamente bianca, per certi versi. È anche questo il bello di lavorare con lui, che è totalmente libero dai condizionamenti del passato".

Un modo di pensare che si incastra alla perfezione con il mantra di Avantguardia, la factory che Shablo, Pepsy Romanoff e Ok Rocco hanno messo insieme qualche mese fa, ed è proprio di Ok Rocco il video a 360 gradi in cui potete viaggiare qua sopra (il consiglio, in linea di massima, è di farlo con uno smartphone). Ok Rocco è la mente sotto molti dei videoclip che hanno accompagnato le uscite di Avantguardia ed è anche il fondatore dell'agenzia di comunicazione Hello, Savants. Rispetto a Pepsy Romanoff e agli altri registi che hanno collaborato con il collettivo nei mesi passati, il suo lavoro si caratterizza per un forte gusto nei confronti di tutto ciò che è legato alla post-produzione e alla sperimentazione, ma questo è ovvio e tautologico, se avete già premuto play qua sopra.

In occasione di questa uscita ci siamo fatti raccontare come è rimoasto coinvolta con il progetto Avantguardia e quale sia la sua visione creativa, fortemente incentrata sul lato visivo della faccenda: "Conosco Pablo da venticinque anni e si può dire che siamo cresciuti insieme, a Perugia. Io sono un po' più vecchio di lui, ma ci conosciamo perché abbiamo fatto parte della prima generazione legata all'immaginario hip-hop, ai graffiti... Avevamo anche un gruppo rap insieme, ai tempi. Dopo qualche anno ci siamo incontrati di nuovo ad Amsterdam, città in cui vivo ormai da sedici anni e abbiamo iniziato a collaborare a diversi progetti; da quando lui ha cominciato io ho sempre curato la sua immagine, fin da The Second Feeling, il suo primo album.


Uno degli ultimi video realizzati da Ok Rocco

Fin da quel periodo avevamo pensato di fare una piccola etichetta, ma era evidente che non eravamo ancora pronti ed è stato solo l'anno scorso, quando ci siamo incontrati con Giuseppe Romano, anche lui conosciuto tantissimi anni fa a Perugia, che abbiamo deciso di fondare Avantguardia.

Quello che ci sta davvero a cuore è dare lo stesso peso ad audio e video. Per quanto mi riguarda, dato che il mio lavoro a tempo pieno è legato alla mia agenzia Hello, Savants., Avantguardia è un modo per evadere da qualsiasi tipo di limite e sfogare in modo artistico e sperimentale tutte le idee che si accumulano nel corso del tempo. Avevamo la sensazione che in Italia mancasse ancora questo genere di sensibilità, quello legato alla completa libertà decisionale su cosa fare e come farlo, forse è anche per questo che ci sono così tante differenze tra un video e l'altro e, se all'inizio c'era una sorta di uniformità, adesso stiamo cercando di esprimere ognuno le sue diverse caratteristiche. L'idea non è tanto di voler sottolineare le diversità che ci sono, ad esempio, tra me e Pepsy, ma più che altro di offrire una visione completa di tutte le facce che compongono un diamante, che è appunto la nostra idea di Avantguardia. Non è detto che in futuro la cosa non possa ripiegarsi su se stessa, ma al momento stiamo cercando di coinvolgere altri registi all'interno di Avantguardia per avere altri punti di vista e altre sensibilità.

Per quanto riguarda "In Your Mind", il concept del video è la storia del Ratto delle Sabine e il viaggio all'interno della tavola racconta proprio l'atto di accorgersi di quello che si sta verificando. È un climax che si conclude con una rissa e la camera si muove attraverso quella che, per me, è una scultura digitale che descrive questa storia. Alla fine del video si capisce che l'importante non è tanto il racconto del rapimento, ma la possibilità per l'utente di girare intorno alla scena ed essere in qualche modo spettatore attivo. Il valore aggiunto di questa tecnologia, oltre alla curiosità di poter sperimentare con una nuova feature, è quello di fornire una prospettiva nuova e unica a quella scultura digitale che avevo in testa".

Continueremo a seguire i progetti di Avantguardia nelle prossime settimane, dopo una piccola pausa, ma nel frattempo tu segui la loro pagina su Facebook, Twitter e Instagram

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Dopo l'analogico, prima del digitale: la storia di Erased Tapes

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La storia di Erased Tapes Records inizia in quell’ambiente di connessione sociale pre-contemporanea che fu Myspace – quando era ancora normale scrivere messaggi privati pieni di smiley e punti esclamativi ai gruppi, caricare canzoni che parlavano di noi sul nostro profilo e postare a manovella aggiornamenti imbarazzanti che neanche sui blog di MSN. Era il 2007, e Robert Raths – nato a Colonia, allora residente a Berlino e iscritto ad architettura – passava al setaccio profili cercando qualcosa che accompagnasse le sue sfibranti sessioni di studio. Gli capitò sott’occhio quello di Ryan Lee West, che oggi si fa chiamare Rival Consoles e allora aveva appena appeso la chitarra al chiodo per passare ad un’elettronica in 8 bit. Poi sentì i pezzi di un islandese, tale Ólafur Arnalds, che giocava a imbastardire di batterie HC composizioni per violini e pianoforti inserite in concept album sull’esistenza. Si imbattè nel cantautore-mutato-compositore Peter Broderick, nelle sperimentazioni per piano ed elettronica di un allora sbarbato Nils Frahm; nel giro di un paio d’anni, assieme, avrebbero formato quello che tutt’oggi è il cuore pulsante del catalogo Erased Tapes.

Senza quasi averlo fatto apposta, Erased Tapes è oggi una delle principali etichette europee al crocevia tra classica contemporanea, ambient, elettronica e sperimentalismi vari, cresciuta assieme ai suoi artisti. I motivi per cui oggi ha sede a Londra, in un ampio open space a un quarto d’ora a piedi da Elephant & Castle, sono principalmente due. Da un lato il costante incoraggiamento di Robert ai suoi artisti di fare rete, conoscersi e collaborare in un’ottica di sperimentazione delle proprie abitudini creative, dall’altro una conscia disattenzione per il mero lato economico del vendere musica, fortunatamente colmata dalla quantità di orecchie pronte all’ascolto che hanno trovato i pezzi di Broderick, Arnalds, Frahm e compagnia bella.

Oltre a quel nucleo originario di artisti, Robert ha pubblicato una serie impressionante di album in cui il gap tra analogico e digitale si è ridotto in innovative forme di contemplazione sonora particolarmente accessibili. Penso sia una parola chiave: a meno che non possieda un abbonamento a The Wire, il pubblico alternativo più generalista non viene automaticamente esposto a pianoforti suonati con gli scovolini del cesso. Erased Tapes è invece riuscita a ritagliarsi un’intersezione tra alt-mainstream ed effettiva nicchia, stringendo collaborazioni con realtà di estrazione molto, molto diversa: da Boiler Room alla BBC passando per la stazione radio londinese NTS. E ora Ólafur Arnalds se lo può ascoltare l’utente medio di Café OTO così come la vostra amica che fa danza e normalmente si spara in cuffia Kalkbrenner a ogni ora del giorno.

Altri materiali significativi per svolgere l’equazione-Erased Tapes sono stati i due lavori degli A Winged Victory for the Sullen, ibridazione tra le chitarre filtrate di Adam Wiltzie degli Stars of the Lid e il pianoforte del compositore irlandese Dustin O’Halloran; i live set di vitale IDM jazzata del giapponese World’s End Girlfriend; e quel macchinario perfettamente oliato i cui ingranaggi sono basso, batteria e synth composto dai newyorkesi Dawn of Midi. Forse, però, la storia più bella legata all’etichetta è stata l’esperienza assurda del pianista ucraino-canadese Lubomyr Melnyk – auto-dichiarato maestro della “musica continua” malcagato dalle istituzioni classiche per quasi quarant’anni nonostante il suo rivoluzionario approccio ultra-fisico, in cui le falangi diventano quasi estensioni del flusso sonoro proveniente dallo strumento. Ed è stato solo grazie alle snervanti ricerche di Robert e compagni se oggi Melnyk ha firmato per Sony Classical (probabilmente tenendo due diti medi alzati e indossando un paio di Oakley da sole).

La sede di Erased Tapes è vuotissima (se non per qualche portatile, una collezione di 4000 LP, un piano e due chitarre), così come le copertine dei dischi che pubblica. Il soffitto è lontano sopra la mia testa, e appoggiato al muro c’è un dipinto di Gregory Euclide, di cui magari avete visto questa copertina da qualche parte:

Robert mette su un caffè, e iniziamo a parlare. 

Noisey: In un’intervista uscita un paio d’anni fa avevi parlato di come, con Erased Tapes, volevi esplorare il rapporto tra tradizione e contemporaneità, digitale ed analogico. Pensi di esserci riuscito? E ti sei posto altri obiettivi, con il passare del tempo?

“Direi di sì… missione compiuta. La musica è sempre stata la mia passione, ma ancora di più quello a cui mi dedico è il suono. Non credo nei generi musicali. Quando fondi un’etichetta, e specialmente quando non sai che stai per farlo, ti vengono fatte domande. Ti viene chiesta una dichiarazione di intenti: “qual è la tua visione?”. E allora quell’unione di mondi era ciò che effettivamente mi interessava di più. Ora ho cominciato ad apprezzare quando una cosa è quella cosa e basta. Come un disco di musica da camera, ad esempio. Ti rendi conto che c’è bellezza nel lasciare le cose come sono, che non è necessario spingere in un’altra direzione, o aggiungere elementi specificatamente per creare giustapposizioni. Se ne creano da sole: ad esempio ogni volta che pubblichi due dischi nello stesso periodo. Se parliamo di gamma sonora, mi sono interessato ad elementi che non avevamo mai considerato molto. Ad esempio, gli ottoni. È stata una rivelazione: “Dove sono gli ottoni?” (ride, ndr) Mi sono preso bene per IMMIX , l’ensemble di Daniel Thorne. E quando gli A Winged Victory hanno suonato al Barbican per la BBC li ho spinti a inserire degli ottoni live, e hanno suonato parti di Atomos con i London Brass

È naturale che ci sia sempre un’evoluzione, ci mancherebbe. 
Sai, più o meno seguo ancora la stessa visione. Ma è diventata qualcosa di molto più grande. Soprattutto grazie al connubio con altre forme artistiche, come la danza o il cinema. Penso sia sempre interessante fare un passo indietro e dire: “Perché questa cosa è così? Perché dobbiamo presentarla in questo modo?” Un esempio è Spaces, l’album di Nils [Frahm]: solo perché è registrato dal vivo, perché dobbiamo chiamarlo un album dal vivo? Non è molto più veritiero dire “Questo è un album normale, ma registrato in un ambiente live”? In fondo era quasi tutto materiale inedito, e lui improvvisa così tanto che ogni suo concerto è diverso. 

Conta anche Victoria, il film per cui ha scritto la colonna sonora?
Parzialmente sì, ma per quello ha tenuto un approccio diverso. Si è messo assieme ad altri musicisti a suonare mentre guardava il film, in contemporanea. È probabilmente la forma più pura con cui puoi scrivere una colonna sonora. Ti posso anche parlare di Atomos degli A Winged Victory – musica concepita per la danza. Stavo cercando di trovare un modo per ispirarli a scrivere un secondo disco. Adam [Wiltzie, degli Stars of the Lid, ndr] lavora molto lentamente, e mi diceva cose come, “Robert, potremmo metterci sei anni a trovare l’ispirazione per qualcosa di nuovo.” 

Penso sia anche per questo che non abbiamo ancora sentito un nuovo album dei SOTL dopo And Their Refinement of the Decline.
Esattamente. Ma è una cosa che adoro, e rispetto. È bello che qualcuno decida consciamente di agire distaccandosi dall’immediatezza e della velocità dell’epoca in cui viviamo. Allo stesso tempo sarebbe stato un peccato se si fossero fermati, data la risonanza che il loro debutto aveva avuto. Allora passai dei loro pezzi a Wayne [McGregor], e furono i suoi ballerini a dirgli quanto si fossero trovati bene a usarli come basi. Spesso è tutto quello che faccio: do la musica giusta alla persona giusta al momento giusto. Facilito i collegamenti, senza imporli. In quel caso è stato davvero figo: speravo di riuscire a trovare una scusa per farli rimettere a suonare, e loro erano letteralmente in attesa di qualcosa che li ispirasse. Insomma, è stato un calcio in culo (ride, ndr). E così hanno scritto un album esplicitamente pensato per la danza, ma Wayne gli ha dato così tanta libertà creativa che, in fondo, non era altro che un loro nuovo LP. 

La sensazione che si ha a guardare il catalogo Erased Tapes è di una comunità, più che di un gruppo di artisti che fanno musica simile. Gli esempi sono tanti: Peter Broderick ha lavorato con Nils Frahm dandogli istruzioni durante le registrazioni di The Bells. Frahm ha lavorato più volte con Ólafur Arnalds. Arnalds ha fondato poi i Kiasmos, che sono stati reinterpretati da Lubomyr Melnyk, e così via. Qual è il tuo ruolo in tutto questo?
Non conoscevo nessuno dei miei artisti prima di Erased Tapes. L’idea era quella di aiutare artisti che avevo conosciuto su internet, su Myspace più che altro, stampando i loro dischi. Prendevo accordi con loro via mail o via Skype. Sai, non ho incontrato di persona un sacco delle persone con cui ho lavorato se non dopo anni e anni. Un esempio è Katsuhiko, World’s End Girlfriend: sono riuscito a beccarlo cinque mesi fa, e ho pubblicato un suo lavoro nel 2010. Nel primo paio d’anni lavorare in questo modo mi andava bene, ma poi iniziai a provare un certo fastidio dato che stava andando tutto davvero bene a livello di atmosfera e qualità musicale. E ho pensato di incoraggiare le persone con cui lavoravo a conoscersi l’una con l’altra. Non mi aspettavo che nascessero collaborazioni, volevo solo che si dessero una mano. Chi era già andato in tour poteva dare consigli a chi non l’aveva mai fatto, ad esempio. E parlare con i propri compagni di etichetta poteva aiutarli a trovare ispirazione, superare blocchi creativi. Sono poi stati loro a decidere di jammare, o di organizzare concerti assieme. Ad esempio: l’amicizia tra Ólafur e Nils si è sviluppata da sola, con il passare del tempo. Quando Ólafur doveva passare per Berlino stava a casa di Nils, più che altro per risparmiare. Si prendevano una pizza, si bevevano un po’ di vino e si mettevano a suonare. 

Il collegamento classico-contemporaneo si è esplicitato, in Erased Tapes, nell’unione tra classica ed elettronica. Ma quali sono le tue, vostre radici sonore?
La prima cosa che ho pubblicato, il Vemeer EP di Ryan [Lee West, che allora si faceva chiamare Aparatec e ora Rival Consoles, ndr], era pura elettronica. La seconda che ho pubblicato, in realtà – la prima era un mio progetto, di cui non vado così orgoglioso. Comunque: io sono un architetto. Cioè, ho studiato architettura. Non sono arrivato fino in fondo, ma da quando ho iniziato a ri-appassionarmi alla musica l’ho sempre pensata in termini architettonici e di design. Un progetto che avevo era la creazione di un nuovo tipo di sala per concerti – un luogo più discreto, familiare. Una casa pensata per ascoltare musica. Mi ero inventato dei muri viventi, delle strutture semoventi, che avrebbero permesso al suono di scorrere in maniera più naturale. Costruii questo modellino basato su una serie di anelli – l’idea era l’assenza di estremità, e quindi l’assenza di finestre, di buchi, e un continuo scorrere del suono. Così che la fruizione di un concerto sarebbe potuta essere ugualmente interessante in qualsiasi punto della casa si trovasse l’ascoltatore, senza che questo dovesse mettersi a fare scale o a trovarsi in un luogo preciso. 

Sembra qualcosa di piuttosto complicato.
Un po’, ma fu esattamente questa complessità a convincermi che avrei dovuto approcciarmi al suono in maniera minimalista. In quel periodo stavo suonando con altri ragazzi, e la cosa stava iniziando a farsi seria – i primi tour, cose così. Ma fu allora che conobbi Ryan, Aparatec, che si era imposto di lavorare in 8-bit usando un software obsoleto di cui non ricordo neanche il nome. E ne adorai la semplicità e la linearità, ma al contempo l’esuberanza. Lui nasce come chitarrista, può suonarti qualsiasi assolo di Hendrix, ma ogni volta che si era messo a suonare con qualcuno si era scontrato con diverse etiche di lavoro, diversi approcci, e la sua reazione era stata quella di mettersi in proprio e comporre da solo – darsi al minimalismo. Esattamente come stava succedendo a me. E quando lo ascoltai la prima volta mi sentii più convinto di quello che stava facendo lui del mio stesso progetto, delle mie stesse idee. L’etichetta è quindi nata dall’elettronica, in un certo senso.

E invece da dove arriva il vostro lato più classico? 
Da Ólafur, principalmente. Una delle cose che mi colpirono di lui, quando sentii il suo primo album, fu il modo in cui la batteria entrava nell’ultimo pezzo. Sembrava hardcore, doppio pedale e tutto. Fu uno shock, ma nel contesto dell’album aveva senso dato che rappresentava una morte. Un improvviso climax di piano e archi e poi queste percussioni, filtrate come se provenissero da un segnale radio distorto, che scompaiono all’improvviso. Non ci trovai molte differenze con quello che faceva Ryan: Ólafur incorporava nuovi elementi su una base classica, e Ryan decostruiva forme classiche sintetizzandole con l’elettronica. Poi lavorammo assieme al suo primo EP, Variations of Static, e coinvolsi Justin Lockey facendolo lavorare a “Fok” – che è un brano spiccatamente elettronico. La sua IDM glitchata prese il posto della batteria, e fu quell’esperienza a spingere Ólafur a sperimentare in quella direzione e incorporare sempre più elementi digitali nella sua musica. I Kiasmos, il suo progetto con Janus Rasmussen, sono nati più o meno attorno all’uscita di Dyad. All’epoca facevano quasi techno dura e pura. Me la fece sentire mentre lo accompagnavo in tour, senza prendere la cosa minimamente sul serio, ma a me prese benissimo! E aveva senso che li pubblicassi, dato che lavoravo con Ryan da un sacco di tempo. Insomma, sono cresciuto ascoltando techno. Sono tedesco, in fondo (ride, ndr). Anche Nils aveva fatto elettronica prima di firmare con me.

Sì, soprattutto su Streichelfisch.
Esatto. Quando ci conoscemmo mi passò un sacco di pezzi tutti glitchati e clicky-clacky. Prima ancora però fu Chad di Hush Records, in America, a sentire un remix che aveva fatto per Peter e a chiedergli di pubblicare un album con loro, e da lì nacque 7Fingers, con Anne Müller. Sono stato più coinvolto, invece, negli esperimenti di Nils con il Juno. Eravamo assieme in studio, io, Peter e lui, e si mise a usarlo improvvisando e ne uscirono due pezzi.

Che sono diventati For e Peter, penso.
Esattamente, il Juno EP. I due brani si chiamano così perché fu Peter a convincerlo a iniziare a registrare. Non molti sanno che, dopo The Bells, chiesi a Nils di mettere via un album intero che aveva registrato nello stesso modo. Dal vivo, in un solo luogo, in un paio di giorni. Ma sentii due demo che aveva scritto in cui aveva provato a registrare mettendo dei microfoni all’interno del pianoforte, e c’era più bellezza in quei pochi minuti che in quell’intero altro disco. Allora lo spinsi a sperimentare con nuovi strumenti, e il risultato fu Felt

Da ascoltatore, ci sono mai state delle etichette a cui ti sei appassionato e in cui magari rivedi qualcosa di quello che Erased Tapes è oggi?
È strano, ma penso di non essermi mai consciamente sentito legato a un’etichetta. Ascoltavo molto jazz, e mi capitava di comprare dischi solo per la loro copertina – più che altro se c’era un’estetica minimalista di mezzo – e magari scoprivo solo dopo che tutti i dischi che mi piacevano erano su Blue Note, o su ECM. Suonerà strano, ma l’unica etichetta di cui mi sono veramente deciso ad ascoltare tutto il catalogo è la Man’s Ruin, di San Francisco, che pubblicava più che altro stoner. Era impossibile trovare i loro album in Germania e, quando avevo circa vent’anni, andai a vivere là per un periodo. Comprai qualsiasi cosa trovai. Più che l’etichetta in sé ad appassionarmi era lo spirito collettivo che stava dietro ai Kyuss, che portò poi ai Queens of the Stone Age e ai Mondo Generator. Non che ascolti molto stoner, ma c’era qualcosa di unico nel minimalismo e nella purezza di ciò che facevano – nell’unicità della loro proposta, nel loro perfezionare e semplificare una formula pre-codificata dai grandi del genere, come potevano essere i Black Sabbath. E ci riuscivano incontrandosi nel deserto, con qualche lattina di birra, degli amplificatori e dei generatori per farli funzionare. Scordavano le chitarre, suonavano arrivando a frequenze quasi drone. Non penso sia molto diverso da quello che fanno gli Stars of the Lid, e non credo ci sia molta differenza tra quella sensazione di comunanza e quella che si è sviluppata in Erased Tapes.

Ho letto che non avevi alcuna esperienza nel settore prima di fondare Erased Tapes, ma con il passare del tempo hai cercato di seguire dei modelli, a livello organizzativo?
Non sono poi così interessato al lato commerciale. Non penso nemmeno alla musica come a un’industria. Ok, per un artista in fondo è questione di condividere un album tramite una forma fisica: ma il processo deve avvenire innanzitutto perché quell’artista lo sta facendo per sé stesso. Gli affari sono un aspetto secondario. Dargli troppa attenzione significa snaturare l’atto artistico. Chi fa musica lo deve fare senza fregarsene di un cazzo. Ha senso avere un lavoro e usarlo per potersi permettere di fare musica. Farlo con passione, facendo attenzione a non fare entrare i soldi nell’equazione. È quello che voglio e cerco di fare. 


Robert e Sofia Ilyas, ufficio stampa, alla sede di Erased Tapes

Ti va di spiegarmi come funziona l’etichetta a livello pratico?
Il mio team è molto piccolo, se lo paragoniamo al modo in cui veniamo percepiti. Ci sono circa 10 persone che lavorano con me. La maggior parte sono part-time, ma sono io a volerlo: gli uffici mi spaventano. Non voglio essere una di quelle persone che ne mette altre in un ambiente grigio, con un soffitto basso, cinque giorni a settimana e risucchia ogni ispirazione dalla loro vita. Ok, è bello essere a stretto contatto con le persone con cui lavori: ma se esageri, e lo fai ogni giorno, diventa rischioso. Voglio che chi lavora con me si chieda se veramente vuole passare così tanto tempo a farlo. O se preferirebbe mantenere una certa indipendenza, e sviluppare un proprio lato creativo. Ci sono manager, designer, fotografi, registi che lavorano con me, ed è bellissimo. Non mi dà fastidio. Alcuni vivono a Los Angeles, Montreal e Berlino, e mi fido di loro: mi mandano un report settimanale su quello a cui hanno lavorato, e via. Penso che sia questo il futuro dell’industria musicale. Non voglio arrivare mai ad un punto in cui dovremo fare affidamento sulle nostre entrate. È innaturale. 

La gestione del lato finanziario è comunque un male necessario per sopravvivere – o non necessariamente? 
Faccio sempre molta attenzione a fare grossi investimenti. Almeno: li faccio se c’entrano con la musica, ci sto più attento se c’entrano con settori come il marketing, la pubblicità. Ovviamente non voglio mai rischiare di sentirmi come se non avessi fatto abbastanza, ma ci sono cose per cui ha senso spendere e cose per cui non ha senso. Metti che tutti e dieci lavorassimo qua full-time, nello stesso posto, cinque giorni su sette. Se un anno la musica che pubblichiamo non dovesse trovare abbastanza pubblico, come farei a pagare tutti? Mi ritroverei forzato a prendere decisioni drastiche, e sarebbe la fine. Me ne andrei. Sarebbe la morte della musica (ride, ndr). 

Erased Tapes ha contribuito enormemente a lanciare la carriera di Lubomyr Melnyk, che è appena arrivato a firmare per Sony. Come l’hai scoperto?
Ho scoperto la sua musica su Myspace, ormai quasi dieci anni fa. La ascoltavo spesso, ma senza pensare che avrei voluto lavorarci. Sai, non sono uno scout. Spesso è come se fossi in una bolla quando ascolto musica – se qualcosa mi ispira, dopo un po’ diventa parte della mia vita. Magari  un anno dopo inizio a sentire come se dovessi ridare qualcosa a chi l’ha scritta, e così capita che scritturo nuovi artisti. Comunque: il problema di Lubomyr era che il suo Myspace era terribile. Non c’erano indirizzi per contattarlo. Gli avevo scritto per dirgli che adoravo la sua musica, ma non mi rispose. Allora non era così facile stringere contatti, soprattutto dato che viveva a Winnipeg, in Ontario. Il fatto che un artista così grande che non fosse ancora stato scoperto era quasi troppo bello per essere vero. Onestamente, la prima volta che lo ascoltai mi venne il dubbio che fosse musica di un passato lontano caricata a caso su internet a nome “Lubomyr Melnyk”. Comunque: anni dopo, venni a sapere che Hauschka l’avrebbe portato in Europa per farlo suonare all’Ambientfestival di Colonia, che è dove sono nato. E quell’anno ci avrebbero suonato anche Nils [Frahm] e Peter [Broderick]. Una sera eravamo tutti e tre assieme, uno di noi nominò Lubomyr e tutti e tre ci dicemmo contemporaneamente, “Ma lo conosci anche tu?”. Allora decisi che sarei andato al festival assieme a loro per parlargli – e mi venne la febbre più forte che abbia mai avuto. Ci vuole molto per farmi dire di no ad un’opportunità così grossa, ma affidai a Nils e Peter il compito di prendere i suoi contatti. 

Non eri proprio riuscito a contattarlo in alcun modo prima di allora?
No, Lubomyr era irraggiungibile... L’unica persona che mi aveva contattato era un suo vicino che aveva saputo che ero suo fan e voleva aiutarmi a trovarlo, ma non se ne fece mai niente. Ogni tanto lo nominavo a qualcuno – tipo, ne parlai a Richard Reed Parry  degli Arcade Fire, e lo conosceva! Quando aveva quindici anni chiese ai suoi genitori di andare a lezione da lui. Ad ogni modo, Nils e Peter suonarono al festival, e si trovarono Lubomyr in prima fila a vedere il loro concerto. Appena dopo gli fece i complimenti, si misero a parlare e Peter gli disse che voleva fare un disco con lui: non come compositore o esecutore, ma in un ruolo di ispiratore. Un po’ come aveva fatto con The Bells di Nils. Questo perché pensavamo che le migliori cose di Lubomyr, quelle che lo spingevano ad avventurarsi fuori dalla sua zona di conforto, erano quelle in cui suonava assieme ad altri musicisti.

Un po’ come ha fatto in seguito con la chitarra di Jamie Perera su Rivers and Streams.
Esattamente. Morale: Peter organizzò delle sessioni di registrazione a Berlino, Nils offrì il suo studio, Martyn degli Efterklang lavorò agli arrangiamenti e Francesco [“Burro” Donadello, ndr] lo volle registrare. E lì nacque Corollaries. Mi ricordo che ero steso sul pavimento dello studio, e lo ascoltavo suonare – era come se il cielo si stesse aprendo. Fu un’esperienza spirituale, angelica. Sapevamo tutti che era qualcosa di unico, ci guardavamo sorridendo come per dirci, “Cazzo, lo stiamo facendo davvero!” E fin da subito sentii il bisogno di coinvolgerlo, di discuterci. Il primo giorno, in cucina, Nils stava parlando di un software con alcuni suoi amici, e Lubomyr era lì di lato, zitto. Insomma, è un signore anziano, è comprensibile. Dal nulla, poi, se ne uscì dicendo, “Sì, penso che la versione migliore sia la 4.6”. E tutti ebbero un momento “wow” (ride, ndr). 

Si percepiva quel suo modo unico, deciso, di affrontare la realtà? A sentirlo parlare non si capisce mai quanto sia effettivamente convinto delle dichiarazioni altisonanti che fa. Tipo, se guardi il suo sito, la prima cosa che vedi è la scritta “Prima venne Franz Liszt… poi venne LUBOMYR”. 
Francamente, ogni volta che Lubomyr apre la bocca ne esce qualcosa di inaspettato, controverso, ed è una cosa che adoro. Crede enormemente in ciò che dice. Non molti condividono la sua verità, ma non penso ne esista una sola. Ha opinioni interessantissime: ad esempio, che il suono non sia un’onda, o una frequenza. E sostiene che non ci sia bisogno di porsi la questione di cosa sia. E, anche se solo per un secondo, ti dimentichi tutta la scienza che realmente c’è dietro al suono, allora lui è riuscito a farti toccare quella verità. La rende una questione magica, di spirito. Io sono stato come un filtro: alcune delle cose che aveva caricato su internet erano presentate davvero male – e ci chiedevamo quale fosse la ragione per cui non avesse avuto il successo di Reich, Glass o Cage, dato che In fondo è un loro contemporaneo. Era lui il primo a chiederselo. Si sentiva rifiutato dal mondo della classica contemporanea, ma nonostante tutto era andato avanti a fare musica per 35 anni, sempre un po’ più deluso e amareggiato. Allo stesso tempo, però, costruendosi attorno uno scudo sempre più resistente. Un sacco di gente lo liquidava dicendo, “Ah, è solo veloce”, o lo considerava un matto rimasto sotto di anfetamine per cose come la tecnica del kung fu, o il suo parlare del suono come una “quarta dimensione”... Ma non è così, anche se il modo in cui si è sempre presentato facilita il lavoro dei suoi detrattori. E quando scrivemmo il comunicato stampa di Corollaries gli dissi che se ci avessimo inserito tutto quello che voleva avrebbe rischiato di passare per un coglione egocentrico, anche se io sapevo che non era così. 

Quale pensi siano le ragioni di questo suo atteggiamento? 
C’è molta rabbia in lui, e ho sempre fatto il possibile per eliminarla, filtrarla. Un esempio fu quando pensammo di coinvolgere Gregory, che fece la copertina di Corollaries, in alcuni suoi concerti. Pensavo si sarebbero trovati benissimo insieme, entrambi esprimono un senso di ciclicità nei loro lavori, l’alternanza tra vita e morte, e lo stile di Gregory si avvicinava moltissimo al senso di spazio che volevamo esprimere con Lubomyr. Ma la cosa non gli piacque, si sentì come distratto dalla presenza di un’altra persona sul palco, e Gregory se ne rese conto. Quello che auguro a Lubomyr è, prima o poi, di riuscire a liberarsi da questa negatività che ha dentro, e da quel momento mi sono giurato che avrei fatto di tutto per aiutarlo a riuscirci. Ora che ha trovato un pubblico, ora che c’è gente che lo ascolta e lo apprezza, non ne ha davvero più bisogno. È la musica a parlare. 


Angelo Bonanni ci racconta il suono di "Non Essere Cattivo"

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A molti il nome di Angelo Bonanni non dirà nulla, ma è colui che ha vinto il David di Donatello come miglior fonico di presa diretta per Non Essere Cattivo, l’ultimo film di Claudio Caligari: l’unico David che il film abbia ricevuto. Angelo è uno di noi: figlio della suburbia, abita a Roma Est. È uno che ha vissuto in prima persona l’epica della Borgata Boredom, ha fatto parte in qualità di chitarrista di alcuni gruppi fra i più rumorosi della storia della capitale come gli Sfhhh (dalle cui ceneri sono nati gli Heroin In Tahiti) e i Buzzer P mettendo anche mano a molti dischi della scena. In un certo senso la sua è una vittoria del nostro giro, e ovviamente siamo tutti orgogliosi di lui.

Decido quindi di intervistarlo per saperne di più su questo suo trionfo e lo becco all’Acqua Bullicante, già placcato da gente zona Cinema Impero (con tanto di strette di mano con Antonello Fassari). Dopo averlo strappato alle grinfie del "Jet Set", cerco un posto tranquillo in cui poter parlare, ma il pub che avevo scelto era ancora chiuso e nei bar c’era troppo casino, così alla fine decidiamo di prendere due Peroni e sederci nella piazza vicino al mercato della Maranella. Che è come stare, in maniera simbolica, in una situazione da presa diretta—proprio il pane quotidiano di Angelo. Mi sono riproposto, con questa intervista, di farvi sentire bene la voce di Angelo come lui fa con i dialoghi di una pellicola, nonostante il sottofondo di ragazzini che stanno giocando a pallone attorno a noi. E in effetti questa sua vittoria sembra quasi la storia di un film. C’è un unico difetto: Bonanni è della Ladzie.

Noisey: Angelo, non fare il vago sappiamo tutti del tuo passato controversissimo…
Angelo Bonanni: 
Che ero una donna? Però questo non dirlo. [Ride]

Ahaha no non lo diciamo. Volevo dire che sappiamo tutti da dove vieni, poi ne parleremo...
E sì, come no... Dalla provincia, certo. [Ride]

Siamo seri, su. la prima domanda, classica, che ti faccio è: te lo aspettavi?
Ebbe’ ovviamente no. Poi potrebbe sembrare pure finta come risposta, ma per quanto insomma assurda è no. 

Non c’era un sentore di qualcosa rispetto a questa vittoria?
Per niente. A parte che è la seconda volta che partecipo a una candidatura del David e diciamo che forse ci credevo un po’ di più la volta precedente, sai com’è, ero più giovane… Vabe', giovane… Era due anni fa! [Ride] Poi il film ne aveva prese tante di nomination, quindi pensavo che tra tutto...

Che film era?
Smetto Quando Voglio. Una commedia. Insomma, mi sembrava fosse anche plausibile il premio, a un certo punto. In realtà poi lì non abbiamo vinto proprio niente, ce ne siamo andati con le orecchie basse e la coda tra le gambe. Quindi la seconda volta sono andato ai David molto con le molle, senza aspettative. Sicuramente mi rendevo conto che quello di Caligari era un film importante, però nello specifico mi sarei aspettato altri premi, non il mio.

Infatti, strana questa cosa… Come mai secondo te è andata così? Perché Lo Chiamavano Jeeg Robot invece ha fatto incetta di premi?
Io sinceramente non lo so… perché la cosa strana è che poi la votazione dei David, almeno la prima tornata, era coincisa con l’uscita in sala di Jeeg. Io lo immaginavo che almeno per le prime votazioni ci sarebbe stato un po’ l’effetto traino del successo in sala della pellicola di Mainetti, era prevedibile. Ma il film di Claudio, del Maestro, veniva da lontano, da settembre-ottobre, era uscito per il Festival di Venezia. E quindi mi sono detto vabè questi sono voti più sedimentati. Quindi poi immaginavo che una volta uscite le cinquine le votazioni si sarebbero poi un po’ riequilibrate…

Be' il film di Caligari era anche stato proposto per gli Oscar….
Sì però quella è una storia strana, perché poi lì in realtà c’è un comitato italiano che decide qual è il film che deve andare all’Oscar. Non è una roba che dici sai, hanno deciso quelli dell’Academy… Loro visionano i film che le varie commissioni propongono. Poi insomma è un discorso un pochino più complicato credo. Però anche io mi aspettavo… Vista anche poi la natura del film, tutta l’evoluzione produttiva difficile che ha avuto…

Infatti, raccontami un po’ la storia dal tuo punto di vista, da quello che è stato il tuo lavoro…
Allora. Un mio caro amico, che stava anche nel direttivo di Nero, Francesco Tatò, mi parlava di questo sogno che aveva con Valerio Mastandrea di produrre un film di Caligari. Ovviamente usava anche il termine “ultimo”, perché si sapeva che non stava benissimo. E lo vedeva come un obiettivo molto lontano sul quale però valeva la pena lavorare. Quindi iniziò con Valerio e i ragazzi di Chimera a cercare di mettere in piedi questo progetto. E uscì in quel periodo, non so se ti ricordi, la lettera di Mastandrea a Scorsese, in cui gli chiedeva aiuto..

Ah certo, la lettera a “Martino”, che non gli rispose mai.
Mai. Però questa lettera effettivamente ha portato a una strana collaborazione, una cosa assurda se ci pensi, della quale credo nessuno abbia più parlato, che è quella di Valsecchi (il produttore di Checco Zalone) al film. Quindi di fatto si narra di questa conversazione in cui arriva Valsecchi e dice vabè quanti soldi ve mancano pe’ fa sto film? Eccoli qua. Che insomma è assurdo. Questo film nasce da una coproduzione…

Grossa? 
No, più che altro senza senso! [Ride] perché c’era Mastandrea che rappresentava l’amatore che vuole in un certo modo rendere grazie e giustizia a un amico e a un regista che in effetti l’ha lanciato parecchio, con L’Odore della Notte. Che se non è il primo film in cui ha recitato, è certamente uno di quelli più sostanziosi della sua carriera, uno che l’ha segnato parecchio. Poi c'erano i ragazzi di Chimera, giovani, che volevano partire con un film di un autore controverso e comunque importante. E a loro si aggiunge ‘sto Valsecchi, che invece è il re della commedia, dei film da 65 milioni al botteghino… Quindi capirai che già di per sé è nata stramba questa cosa. Alla fine, quando Francesco mi dice "guarda mi sa che ce la facciamo, che è entrato Valsecchi" lo guardo prima con un sorriso poi dico "Daje, da paura! Facciamo il film del Maestro!"

Quindi alla fine tu sei arrivato a lavorare con lui per questo motivo, per amicizia..
Sì io lavoro moltissimo con Francesco, poi Valerio mi conosce. Quindi mi racconta sempre che all’inzio c’era una sorta di preproduzione in cui si cercava di mettere su una potenziale troupe e Francesco diceva “però il fonico deve essere Angelo”. A me questa cosa ha fatto molto piacere ed è il motivo per cui l’ho ringraziato poi, sul palco dei David. Francesco ed io abbiamo cominciato insieme, siamo cresciuti insieme, lui nel suo ruolo ed io nel mio, siamo due appassionati di cinema e mi sembrava giusto dargli riconoscenza.

E poi appunto le difficoltà pratiche sul set quali sono state?
Be' intanto la prima vera difficoltà coincide con una grande gioia: cioè è stato proprio il primo giorno di ripresa, in cui abbiamo messo in scena l’autocitazione della prima scena di Amore TossicoL'inizio è stato cruciale.

Ecco: secondo te a questo proposito Amore Tossico è davvero il capolavoro di Caligari?
Guarda.. io personalmente ho amato di più L’Odore Della Notte, forse perché avevo una maturità diversa quando è uscito. Amore Tossico l’ho visto che ero proprio giovane giovane, è stato uno di quei casi in cui dici "wow questo è un film di culto che non dovrebbero vedere i ragazzini!" Ricordo che vidi Amore Tossico con lo stesso spirito con cui mi sono visto Cannibal Holocaust... [Ride] Per dire, questa è una roba vietata! Quindi l’approccio critico all’inizio è stato così, da novizio. Invece L’Odore Della Notte arrivò in un periodo in cui il (suo) cinema cominciava ad avere un senso anche narrativamente, la storia, la sceneggiatura, gli attori, tutto quanto… Era tra l'altro un film di genere, fortissimo. Ci sono alcune scene memorabili, tipo quella di Little Tony. Che poi m’è capitato su ACAB di lavorare con Giallini e il primo giorno che l’ho incontrato gli ho detto ti prego, raccontami com’è nata la storia di "Cuore Matto"! [Ride]
 

Torniamo al primo giorno di riprese di Non Essere Cattivo
Dunque... Eravamo lì sul set, era una mezza giornata, un venerdì pomeriggio, pontile di Ostia, c’era un’atmosfera strana. Be', loro avevano già girato una cosina, un’inquadratura sul mare giusto per far assaporare un po’ il set a Claudio (lo chiamo così il Maestro, anche se non siamo mai stati amici) Quindi arriviamo lì, metto in piedi la prima inquadratura, prepariamo… Io gli attori non li conoscevo, non avevo lavorato mai né con Alessandro Borghi né con Luca Marinelli, ma si stava bene, ci presentiamo, c’era una bella atmosfera. Dopo un po’ arriva Caligari che passa davanti al carrello mio: non c’eravamo mai visti. Ed io gli vado sotto e dico Maestro mi volevo presentare sono il fonico ...Mi guarda e mi fa con voce cavernosa “Bonanniih” ..Io rispondo . Mi fa un cenno con la testa e se ne va. È stata un’emozione fortissima perché per me era un mezzo idolo, un Maestro, molto più di altri, ancora prima di lavorarci insieme. Chiamano "motore", io parto con la registrazione vedo sta roba e non ci credevo: faccio “incredibile, guarda che cazzo stamo a fa”. Gli attori chiaramente sono stati subito clamorosi. Fiiniamo quella scena, sono ancora emozionato, la sera torno a casa chiamo Francesco e faccio Francè ma ti rendi conto che cazzo abbiamo fatto oggi? Abbiamo girato la prima scena del nuovo film di Caligari! Io non riuscivo a capacitarmi come potesse essere accaduto. Che mo' sembra una cosa normale a parlarne, ma metterlo in piedi è stata una fatica notevole, non tanto per noi che l’abbiamo girato, quanto per loro. E poi da lì abbiamo avuto una serie di difficoltà, più che produttive, umane...

Ah ecco… perché?
Be', perché Caligari non stava bene. Quindi veniva sul set con molta fatica, comunque sotto morfina o sedativi, per cui interagire era abbastanza difficile, quindi c’erano diverse persone di mezzo.

Era come girare con Antonioni in pratica..
Sì, con l’ultimo Antonioni, esatto. Lui poi credo—perché poi non lo so come sia andata—che avesse il film talmente chiaro in testa che poi, avendo dato quelle due o tre nozioni a chi di dovere, sapeva probabilmente che il film in ogni caso avrebbe avuto il suo stampo, perché poi la cosa strana è proprio questa. Tu dici "ok, abbiamo fatto un film con un regista che non stava bene…che non poteva dare più di tanto... Il suo peso sarà stato più morale che effettivo, no?" Invece poi quando vedi il film dici "questo è un film di Caligari." E lo riconosci in tante cose proprio: un grande lavoro lo ha fatto Valerio con gli attori riuscendo a trasmettere le intenzioni di Claudio, e poi Calvesi con la fotografia…

Da fuori, visto che il film non ha preso quello che doveva prendere, uno potrebbe parlare di sabotaggio… Come dobbiamo interpretare il tuo premio? 
Ebbè i premi sai quando non li vinci rosichi, quando li vinci però poi cerchi di difenderli in qualche modo. Io quindi chiaramente da vincitore dico che sì, potrebbe sembrare quasi un premio di consolazione. D'altra parte io sono cosciente di una cosa: che nel film, tecnicamente, (con Davide, il microfonista) avevamo deciso di dare molta libertà agli attori, di non limitarli, cosa che in fin dei conti tendo a fare in tutti i film. Il problema del fonico è un po’ questo: tende a limitare gli attori nei campi, nei controcampi, perché magari si muovono e tu ovviamente hai difficoltà perché il radiomicrofono ti fa rumore oppure, che ne so, passano gli aerei... Cioè, giri a Ostia, passano gli aerei per forza! Abbiamo cercato di essere molto larghi di manica rispetto a questo, però ci siamo armati di attrezzatura di altissimo livello. Adesso non so se sia il primo, ma credo sia tra i primi film girati interamente con microfoni digitali.

Quindi alla fine gli hai dato una certa impronta personale, perché il film ovviamente è una cosa collettiva, ma il sonoro non è un elemento secondario.
Assolutamente sì, ma più che altro il sonoro è un lavoro che quasi sempre riscopri dopo e non sul set, perché sul set c’è uno solo che ascolta, tutti gli altri guardano. Quindi la cosa strana era che spesso mi guardavano e dicevano "ma per te andava bene?" e io dicevo di sì! “Ma non ti dava fastidio quel martello, non te dava fastidio quell’altro..” [Ride] e poi non so. Sai, io ho avuto diverse esperienze come microfonista, però ho lavorato tutto sommato con quattro o cinque fonici, non con tantissimi. Normalmente uno che fa quattro film all’anno becca altrettanti fonici, quindi sicuramente la gente dall’esterno ti vede in maniera diversa da come tu puoi sperare… E poi il lavoro nostro ognuno lo fa a modo suo, c’è chi è più in paranoia per una cosa che per un’altra perché comunque di paranoie si tratta [Ride]. Io sinceramente, in virtù dell’attrezzatura che ho scelto di utilizzare, che poi è mia, so che su molte cose posso stare sereno e posso spingere. Quindi tendo a lasciare molto liberi gli attori sia sui sussurrati che sugli urlati.



Ecco, dall’esterno magari uno che non ci capisce nulla pensa: "ma che premio è? Questo non ha fatto un cazzo, non ha fatto il film". E infatti poi come va a finire? Che è la vittoria di Angelo Bonanni, ma non del film, e quindi si alza il polemicone e bla bla bla. Invece il lavoro che hai fatto con la presa diretta è quello di far emergere la cifra artistica della pellicola. Chiariamo questa cosa.
Facciamo un passo indietro: la presa diretta è il dialogo del film. Io ci tengo a sottolineare questo perché poi spesso, soprattutto in questo periodo, si pensa che la presa diretta siano i suoni, i rumori..NO. È il dialogo del film. Ed io su questo mi sono concentrato. Si dovevano sentire le cose che dicevano gli attori e secondo me questo è stato fondamentale. Perché è un film in cui c’è una sceneggiatura secondo me di livello, in cui i dialoghi sono belli, sono veri, li riconosco perché io non vengo da Ostia ma dalla periferia, comunque da una situazione molto simile.

Esatto, non aveva senso doppiarli, avrebbero perso la loro forza.
Infatti. Bisognava rendere giustizia alla recitazione, alla performance degli attori e renderla il più possibile fruibile dal pubblico in sala. Cosa che tendo a fare sempre, ma questo film si prestava particolarmente. Uno perché ci sono degli attori a mio parere incredibili e due perché i dialoghi erano sentiti, interpretati, quindi sarebbe stato un peccato buttarli. Poi il fatto che tu giri a Ostia, nel posto dove quella roba nasce, dove sta e dove ha senso allora è chiaro che poi ha valore anche il suono che c’è intorno, perché noi spesso combattiamo con questa cosa. Cioè la macchina da presa finge, ok? È la finzione.

Ecco questo è un punto importante.
Sì, perché inquadra, delimita un confine… E insomma tu puoi girare qui contro un albero ed io posso fare finta che stai in una foresta, ma il traffico mi racconterà sempre che stai in città. Quindi è chiaro che il nostro lavoro, quando si può avvalere della realtà circostante, prende colore, prende forma e diventa credibile, bello e verace. Quando poi invece parliamo di altre situazioni, il discorso cambia. Quindi c’è da dire che il film si prestava per la sua verità. Cioè noi giravamo in posti incredibili, abbiamo girato la scena dentro la casa di legno al molo della fiumara a Fiumicino… Mi ricordo che per portare il carrello da quelle parti la fanga, la merda, le siringhe… Però poi arrivi lì e racconti quello che c’è lì. Infatti sono molto legato a quella scena perché c’era un vento pazzesco, cioè la casa tremava. E si sente: poi magari non esce del tutto, ma tu ci credi, tu hai la sensazione di stare lì dentro, quando sei in sala. Poi ripeto: tutto deve essere ricamato dalla performance degli attori che deve essere credibile, sennò è chiaro: tu puoi pure fare il suono più bello del mondo, ma se il film è una merda…



Logico. Il tuo premio è dovuto al fatto che il film valeva. Perché se facevi un film tipo su “zio Paperone frocio tecnologico”, non prendevi un cazzo...
Assolutamente sì. Poi ecco, c’è da dire che io, rispetto ad altri film che ho fatto—e ne ho fatti—nello specifico per Non Essere Cattivo molti colleghi mi hanno fatto un sacco di complimenti per il lavoro svolto.

E tu magari non avevi coscienza vera della portata di quello che hai creato…
Beh lì per lì magari no, ce l’ho nel momento in cui lo sto ascoltando. Però assolutamente non potevo pensare addirittura al David… È assurdo perché nella mia carriera ho fatto anche dei film tecnicamente più difficili—questo lo era, ma tutto sommato neanche troppo, perché comunque hai di fronte un regista classico, quindi non è che s’inventa i mostri, gira in modo abbastanza standard. Forse avevamo un po’ più di difficoltà in alcune location particolarmente scomode o ventose, ma tutto sommato era roba abbastanza gestibile…

Invece altri film magari con registi giovani, più hardcore, girati sulla neve oppure in culonia, insomma dove fai molta fatica e dici CAZZO SE SENTE DA PAURA, BELLO ECCO QUELLO POTREBBE ESSERE UN FILM CHE MAGARI POTREBBE ASPIRA’ AI DAVID e invece puntualmente non succede un cazzo. Poi è chiaro, ci sono anche altre cose che entrano a far parte della votazione. Quando un giurato vota fra una rosa di film voterà sicuramente quello che avrà avuto un po’ più di successo no? Cioè dice: "ok, Angelo ha fatto bene Alaska di Cupellini (anche quello in concorso) e ha fatto bene anche Non Essere Cattivo. Però Non Essere Cattivo l'ho preferito ad Alaska—facendo un’ipotesi eh—quindi da giurato preferisco votare Caligari." Invece il direttore della fotografia con cui sto lavorando adesso mi ha confessato “ah io però devo dire che ti ho votato, ma per Alaska, non per Non essere cattivo”, perché gli era piaciuto tantissimo il suono. Quindi la questione è aperta, può succedere di tutto nelle votazioni.

Però ecco anche il fatto che magari vai su Wikipedia, vai a vedere sulle premiazioni del David e tu stai in rosso… Come mai questa cosa? È uno scandalo!
Che vuol dire in rosso? Non l’ho visto!

In rosso nel senso che non c’è la pagina Wikipedia dedicata a te!
Ahahah è uno scandalo in effetti... 

E questo ci porta alla famosa polemichetta da Facebook sulla “manovalanza”… La post produzione, i rumoristi, il fatto che i premi non sono spesso dati a chi lavora nell’ombra e se li danno la cosa non è riconosciuta dalle masse…
E però oggi mi facevano un esempio che è giustissimo. È come se quando premiano Morricone poi a cascata dovessero premiare pure i musicisti, il fonico che ha registrato la canzone, quello che l’ha missata...

E volendo è pure vero…
Sì, però il premio finale è sicuramente e decisamente rappresentativo dell’insieme. 

Quindi tutte queste polemiche di base sono come dire…
Un po' sterili. Anche se comunque adesso stiamo lavorando tutti insieme per cercare di introdurre un premio dedicato alla post produzione audio. Poi c’è anche un altro problema politico…In Italia, negli anni Settanta, un po’ perché mancavano i soldi un po’ perché si giravano i film action con le macchine da presa buttate alla cazzo di cane, la presa diretta non si faceva più. Si è ricominciato a farla intorno alla metà degli anni Ottanta, se non ricordo male, con qualche regista d’autore. E ci sono stati fonici che hanno sudato veramente dieci camicie per reintrodurre la presa diretta nel film, perché tu vieni da un cinema che non è abituato a farlo, e comunque crea un sacco di disagi in più alle produzioni, insomma devi riabituare tutti quanti. Quando il premio quando fu introdotto alla fine degli Ottanta servì anche a quello, a ridare al fonico di presa diretta un ruolo importante. Sai, se uno prende un premio magari scatta il “se ce dice de sta zitti lo sentiamo”.

Con la statuetta, già nel nuovo film che sto facendo mi ascoltano tutti in maniera diversa, il che è assurdo perché non è che cambia il modo di lavorare, però vedi l’attore che ti dà retta. Poi chiaro, ti fanno pure la battuta tipo “ao a Davidangelo, mo stai a cacà er cazzo prima nun dicevi un cazzo se spostavo una sedia!” però quello fa parte del lato ludico del lavoro, sta di fatto che questo premio ci aiuta tantissimo. 

Ora ti faccio la domanda fatidica sul tuo passato, io lo so perché ti conosco bene; sei un noiser.
Sì e neanche pentito!

Ed è quello che secondo me ti ha affinato le orecchie... Erro?
No, dici benissimo! Sono sempre stato appassionato della parte oscura del suono, cioè il rumore. Però anche del pop, anche dell’indie, quindi è strana sta cosa perché poi io c’ho avuto anche l’etichetta indie, la Vurt. Però quella parte li, non so perché, mi ha sempre affascinato, è una roba di pancia.
Voglio fare l’esempio che facevano quando Zoff venne AD ALLENARE LA LAZIO..

...E qui entriamo in un campo minato.
Una volta gli fecero questa domanda: "la squadra difende molto bene ma in attacco segna poco. Non è che forse, essendo portiere, lei sta più attento alla difesa che all’attacco?" E Zoff rispose: "io ho visto gli attaccanti più forti giocare contro di me." Ed io vorrei riportare questo in termini sonori: conoscendo molto bene il rumore, cioè fruendone, mi spaventa di meno. Lo so gestire, poi riesco a rendermi conto come contrastarlo, perché poi di fatto il nostro lavoro è presentare la colonna sonora del dialogo intelligibile e bella, ma non per questo limitando lo spettro sonoro a quelle frequenze… Per dire che c’è anche una grossa dose di sperimentazione.

Ah ecco, questo ci interessa..
Però lo fai nel tempo, perché quando cominci a fare questo lavoro hai paura. Poi pian piano ingrani per forza, anche perché noi lavoriamo in un ambiente che non è mai lo stesso. Per dirti, settimana scorsa mi sono trovato a dover girare con undici attori che parlano dentro una metro in movimento... Pure lì t’inventi una roba e dici: vediamo che succede.

Tu non hai fatto scuole?
Sì, ho fatto quella che all’epoca era l’Università della Musica, alla Garbatella.

Ah ma dai anch’io! Che corso?
Sound Engineer. Poi sono andato a Londra, ho fatto un po’ il fonico per la musica, e ho fatto molte registrazioni.

Ad esempio il primo degli Hiroshima Rocks Around, e hai fatto il master per vinile dei Maximillian I°…
Sì, quelle sono state sperimentazioni utili, poi vabè con gli Sfhhh ho fatto un boato di esperimenti di registrazione clamorosi… Però ecco, una cosa che forse mi è venuta facendo il microfonista è la passione per i microfoni... io ho una collezione di venti microfoni!

Bonanni in azione con gli Sfhhh, alla chitarra

Ma quando riprenderai a suonare? Tutti ti aspettiamo al varco!
Mai!  L’altra volta mi hanno proposto di suonare con un gruppo ROCK, che merda! Scherzo, mi manca tanto suonare, ma il lavoro che faccio è totalizzante, è per questo che ho lasciato a malincuore gli Sfhhh… Il mio sogno nel cassetto è di vendermi tutto e di farmi uno studio.

Però c’è una cosa che ci tenevo a dire rispetto al discorso del premio di Caligari. Io l’ho vissuta come una sorta di rivalsa. E te la faccio un po’ più chiara. Caligari è uno che ha sempre fatto il cinema degli ultimi, di quelli della periferia, di quelli che non ce la fanno, di quelli che non c’hanno scelta di quelli che non ce l’hanno fatta. E io, di fatto, anche se avevo una famiglia diversa, vengo da là. Cioè io quando andavo a scuola mi ricordo gli amici che mi sono perso per strada. E in un certo senso a me poi quella roba assurda della passione che m’è scattata per il cinema, per il suono, è nata tutta da una serie di coincidenze strane. Mi sono appassionato al cinema grazie a Ciprì e a Caligari, due figure con le quali poi ho lavorato e con le quali mi sono tolto le mie soddisfazioni… Insomma, la vedo come una sorta di rivalsa personale, perché veramente sono legato a quel vissuto. Lo vedo come un segno dall’inferno. Io alla fine Cesare e Vittorio, i protagonisti del film, li conoscevo: non mi sento uno di loro perché non sono mai arrivato a quel livello lì, ma li sento veramente molto vicini. Qundi aver preso un premio per un film così mi ha ridato molto di quello che mi è stato tolto.

E invece Caligari non ha mai ricevuto quello che si meritava…
Assolutamente no. E tra l’altro nella sfiga l’unico premiato sono stato io che non so mettere due parole in fila… Avrei dovuto essere più consapevole, tipo salire sul palco e dire “mortacci vostra!” o “vabè mo' visto che devo essere io a parlare di Caligari, mo non me cacate il cazzo e ‘sti 30 secondi diventano 50 minuti e parliamo del Maestro”. Ma oltre all’emozione, mi aspettavo altri David per il film e questo mi ha frenato.

Sul Maestro ho un aneddoto fichissimo. C’era questa inquadratura dentro la macchina, la scena della visione del pullman… È partito il discorso che ti facevo, che noi poi di fatto non sappiamo mai come raccontare una visione onirica, perché se è una cosa finta che sta nella testa dell’attore, in teoria non ha suono o magari ha un suono strano, distorto, che è la soggettiva dell’attore. Allora mi ricordo che andai con la manina bassa bassa da Caligari a fargli questa domanda assurda no? (Intanto Mastandrea in un angolino rideva sotto i baffi con degli occhi che non riesco a raccontare.) E gli chiesi…”ma è una soggettiva pura che sta nella testa dell’attore, oppure vogliamo fare che è un suono dall’interno della macchina che sentiamo come se fosse reale per non raccontare allo spettatore che è una visione?”…Insomma mi ero fatto un trip incredibile. Lui mi guarda mi fa: ”hai mai letto la Morfologia della Fiaba di Propp”? E no maestro, non l’ho mai letto… “E allora non possiamo parlare”.

E poi l’hai letto?
Non voglio rispondere.. [Ride]

Caligari sul set di Non Essere Cattivo.

E adesso il David dove sta?
Be' tra me e me avevo pensato di non vincerlo, ma nel caso lo avessi vinto avevo adocchiato uno spazietto su una libreria a casa che era mezzo vuoto. Appunto, vinco sta statuetta poi senza che dicessi nulla Camilla, la mia compagna, mi guarda e mi fa: ”vabè ma mo' sta statuetta la mettiamo a studio?” E io mah, pensavo di tenerla a casa… e lei: “Ma non è più fica a studio, dove incontri la gente per lavoro, almeno la vede?” E io: ma veramente avevo già adocchiato un posto… “ma è brutta, è orrenda!” Sì, ma è un David di Donatello cazzo! Ha un valore per me incredibile, come se avessi vinto l’Oscar! Allora ha detto “vabè, un po’ a casa ce pò sta'…” e quindi per un po’ starà in casa. Poi adesso è tappezzata di adesivi tipo “verità per Giulio Regeni”, al collo c’ha attaccato il gagliardetto che ci ha fatto Mastandrea per la troupe con scritto Banda Caligari… Però effettivamente è un oggetto un po’ pacchiano.

Ahah allora meglio che non l’abbia vinto Caligari!
Be' alla fine Caligari era un artigiano, uno al di fuori da certe logiche. A volte magari prendi un premio, e ti dura un secondo e mezzo, invece due personaggi come Vittorio e Cesare rimarranno per sempre. Claudio ha fatto Amore Tossico, che è riconosciuto da tutti come un capolavoro: Caligari rimane nella storia con o senza premi, e nonostante abbia fatto solo tre film. Se ci pensi bene questa è l’unica cosa importante.


Bonanni mi saluta dandomi appuntamento al concerto dei Wolf Eyes, a sottolineare le sue radici forti e indefesse. Alla fine, citando Amore Tossico, “le luci della ribalta, come le ribalti è sempre uguale”. Questo è il senso dell’intervista con Angelo: meglio che abbia vinto una persona marginale come lui, coerentemente con il messaggio di Caligari, che non il regista stesso. È un premio che il Maestro avrebbe benedetto. E poi per lui, visto la strenuante e titanica lotta fino all’ultimo, forse un David sarebbe stato veramente un contentino del cazzo.
 

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Che musica ascoltano le persone che mi matchano su Tinder?

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Non ho mai davvero considerato Tinder un reale strumento di socializzazione e ne è responsabile il profondo senso di disgusto un po' senile che fiorisce in me e colonizza ogni parte del mio cervello, ogni volta che viene nominato. Tutte (ma tutte) le volte in cui mi ritrovavo a riflettere seriamente su come e quanto sarebbe potuta cambiare la mia vita, per ironia e metaironia naturalmente, cioè per ridere della situazione stessa, ecco che il Disgusto si stagliava nitido e puro e dava un senso alla mia confusione. L'idea di affidarmi a un circuito statistico-matematico di selezione di volti a cui mi era consentito reagire con un cuore o con una croce, è rimasta la proiezione di un qualcosa associabile al prossimo, mai alla sottoscritta. Più volte mi sono interrogata su come si possa costituire una coppia con qualcuno e avere calata sulla coscienza come un'ascia giustiziatrice la consapevolezza che: tutto questo è stato possibile grazie a Tinder.

Ho deciso di aspettare il momento più propizio della mia vita, cioè quello in cui godo della compagnia di un fidanzato, per scrollarmi di dosso senilità, ego, e tutte quelle sovrastrutture arroganti che avevano caratterizzato la mia in fondo mediocre vita da persona single. Ok mediocre mai, ma sicuramente era costellata da complessi inutili riguardanti tante cose tra cui appunto, l'umanità che popola Tinder. In fondo se i miei amici intelligenti e dai gusti comunque molto condivisibili ne hanno fatto uso, qualsiasi fosse la reale motivazione, una componente inoffensiva ci deve pur essere. Magari anche divertente. Magari Tinder non è la macchina dello squallore che credevo che fosse. Magari lo squallore è sì il leitmotiv di tutto questo annoso procedimento, ma con un po' di coraggio e determinazione può comunque passare in secondo piano. Se quindi l'elemento Disgusto se ne va, cosa rimane? Potrei mai condividere con qualcuno che mi matcha su Tinder la bellezza di questo podcast di Nkisi e Lexxi per Rinse FM?

Tinder + musica suona interessante. Chissà quali sono gli standard musicali di chi si affida alla garanzia di Tinder per conoscere i potenziali partner. Incurante del precedente tentativo ad opera dei nostri colleghi inglesi con Tastebuds, il "Tinder basato sui gusti musicali," mi sono attrezzata per ottenere il massimo con il minimo sforzo, aka usare Tinder e basta.

Con questa solenne bio, gentilmente suggerita dall'esperto Mattia Costioli, ho dato inizio alla mia missione. Tra le impostazioni ho messo ok sia a maschi che a femmine (21-35) perché sono per la fluidità etc, e perché ero sinceramente curiosa di vedere con quante fanciulle avrei avuto modo di interagire. Mentre già fantasticavo su queste situazioni, ho anche deciso di comunicare en passant la cosa al mio ragazzo, e la sua risposta mi ha prosciugato il buonumore: "Ahahah, ora lo faccio anch'io." Grazie, Marco.

Dopo aver rapidamente intuito che senza mettere cuori per primi le probabilità di interagire sono davvero basse, inizio a rastrellare di like TUTTI i faccioni che mi si presentano davanti. Sì, tutti. Tempo pochi minuti e finalmente, la gente si fa viva. Molte di queste persone, le più scaltre, hanno avuto il buon gusto di presentarsi elencando già i loro gusti. Scelta che ho apprezzato, se non altro per l'onestà intellettuale.

Alcuni sono pure stati soft-porno.

Tra i primi messaggi vagamente umani ad arrivarmi c'è quello di tale Luca, che mi chiede come mai conosco Sonido Tropico, da cui deduco che da Tinder è possibile visualizzare i like su Facebook. Piacevolmente sbigottita da una simile domanda, mi affretto a rispondere.

Naturalmente non ho mai più ricevuto sue notizie.

Mentre continuo a swipare, decido di desistere definitivamente dallo studiare—ero in biblioteca. Il ritmo con cui vengo bombardata di messaggi a partire da una riga di bio obiettivamente da persona svantaggiata, che ci tiene a sottolineare che "giudica in base ai gusti musicali," mi lascia sbigottita. I gusti in sé si iniziano anche a standardizzare, e in media posso dire di imbattermi in fan medi del ROCK e di elettronica alla David Guetta. Alessandro ci aggiunge pure il jazz e la fusion.

Federico mi stupisce sul finale nominando i divini Panic! At The Disco, poi aggiunge qualche nome di gruppi black metal satanisti (Gorgoroth) e mi tocca quindi bypassare.

 

Poi arriva Ferdinando.

Incuriosita dai Jesus, che non sentivo nominare da svariati anni, gli chiedo cosa abbia ascoltato oggi per ultimo. Mi risponde che "'The Cigarette Duet' di Princess Chelsea mi ronza nella testa da un paio di giorni. Forse un po' troppo indie pop, però ha una bella melodia." "Non mi piace molto l'indie pop." "È quel genere leggero che ci sta ogni tanto, troppo zucchero poi fa male." :(

Riprendo a swipare, spedendo gli screen qua sopra ad alcuni miei amici, uno pure al mio ragazzo. Sono lì che me la rido nel silenzio della biblioteca, quando ecco che viene pronunciata la parola magica.

TEKNO. Non ho potuto esimermi dal chiedergli se la k fosse voluta, e la risposta è stata sì. "Ma mi piace anche la techno. Ohm Killer, Mechanika, Teknomotive, tutte le crew underground della zona." Mi ha pure invitato a uno squat party sabato. Punto per lui.

Picchietto i piedi a ritmo della tekno e mi imbatto in Josef, un uomo che in due battute ha saputo farmi passare da stato di divertimento generico a furia assassina.

Chi cazzo sei, Josef? Che ne sai tu dell'anno e mezzo passato a prendere lezioni di tedesco, qui a Milano? Che schifo. In presa alla collera più cieca, mi rimetto a studiare. Dopo venti minuti sono ovviamente di nuovo col telefono in mano che interagisco con Gustavo.

Sul momento leggere "synthwave" mi ha spiazzata. "Chissà come è arrivato ad associare la synthwave con i fattoni, o con gli hipster," mi chiedevo, e intanto swipavo come una pazza. Risultato: mi sono dimenticata di rispondergli. Il giorno dopo, mi ha riscritto tutto impettito: "Non mi hai cagato, quindi vuol dire che sei stronza, ma la mia ragazza dice che ti conosce e che ti legge sempre. E che sei brava." Niente, mi ha fatto ridere.

L'accollo più grande, però, è stato Simone. 

Mi specifica che ama i "Foo Fighters, The Who, Beatles, Bob Dylan, Neil Young, ma anche Chemical Brothers, Fatboy Slim. Conosci?" Aggiunge di essere anche lui selettivo musicalmente, e la cosa tutto sommato mi rassicura. Gli spiego che a me piace "elettronica di vario tipo, quasi sempre sperimentale." Purtroppo però non posso rivelargli che sto conducendo un'indagine sociologica, e che non sono davvero intenzionata a uscire con lui. E per inciso, la sua insistenza è uno dei motivi per cui ho deciso di sbrigarmi a portarla a termine, questa indagine. 

Nulla di ciò che mi ero prefigurata—goliardia che ha la meglio sul disgusto, percentuale di persone umane conosciute superiore al 2%, spensieratezza, TIPE che mi contattano—ha avuto luogo. Mi hanno scritto solo maschi, uno più allupato dell'altro. Sono possibilmente ancora più annientata di prima, e in più ho anche buttato nel cesso ore in cui avrei potuto studiare o comunque guardare Game Of Thrones con il mio ragazzo che intanto se la ride fantasticando di farselo pure lui, Tinder. Che mostro ho appena creato? Decido che la finisco qui. Patriarcato 1 - Sonia 0.

 

Segui Sonia su Twitter, su Tinder no perché si è appena cancellata.

I consigli per il fine settimana (e oltre)

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Se i problemi di sociopatia vi stanno dando una tregua, sarebbe il caso di approfittare di questa bell'aria primaverile e fare un giro fuori casa. Sappiamo che scegliere il porto dove parcheggiare il vostro fegato non è un'esigenza da poco, per voi buoni intenditori, quindi ci siamo adoperati per selezionare alcuni degli eventi che avranno luogo in Italia nei prossimi giorni, quelli in cui siamo quasi sicuri che non dovrete sforzarvi di divertirvi.

 

VENERDì 6 MAGGIO

MILANO
DUDE Club - RØDHÅD / MOVE D. / GERD JANSON

NUL pres FRANCIS INFERNO ORCHESTRA ♪ ♫

MONDO: in un club ristorante Egiziano con NADUVE (Disco Halal)

VENEZIA
Spazio Aereo: LINO CAPRA VACCINA | GIGI MASIN / Aftershow: Cilloman / Team Bandit / Shinoby

TORINO
Astoria: OCÙLTA presenta PANAMA TRAX 

Bunker: DONATO DOZZY (3hrs Hybrid Set)

RAT: NOWOLF (Live) + Sisifo di Gaia Ginevra Giorgi 

Lavanderia a Vapore (Collegno): Teho Teardo & Blixa Bargeld (Live)

ROMA
EX Dogana: Classico RAVE

NAPOLI
Lanificio25: YOMBE + Capibara

MAGLIE (LE)
Francesco Cavaliere & Lieven Martens Moana / Sammartano / Epiro

PUTIGNANO (BA)
Kode_1: Malandra Jr. live + Nigh/T\mare
 

6/7 MAGGIO: 

MONZA
Techno Kultur 2.0 - FOA Boccaccio

I festival di musica elettronica si moltiplicano e si uniformano negli ultimi anni, ma è per questo che c'è questa rubrica settimanale: per aiutarvi a distinguere quelli che sono davvero figate e quelli che non lo sono. Techno Kultur 2.0 a cura di 2ndGround e Circular appartiene alla prima categoria. Due giorni negli spazi liberati del FOA Boccaccio di Monza accompagnati da un ampio ventaglio di arte silicica (silicica?). Questa sera si comincia con esperienze ambient, sperimentali, psichedeliche e noise (Everest Magma, A034, H!U e altri); domani, sabato 7, si fa mattina a botte di techno e industrial con il live di Grayhuman e i DJ set di D. Carbone, Methackus e Alessandro Scalambrino. E l'ingresso costa meno di una birra dal kebabbaro.

 

SABATO 7 MAGGIO

MILANO
DUDE Club - MARCEL DETTMANN / ANSWER CODE REQUEST Live / WRONG COPY: Mdr Label Night

BOLOGNA
CRASH!: Daddy G (MASSIVE ATTACK)

TPO: Cheap - Go Dugong + Machweo

ROMA

The Sound of the Ring - Roma, CSA Spartaco

Non sono uno sportivo, eh, per carità, infatti ci ho l'affanno e mi sento morire ogni volta che devo inseguire un tram. Ma mi piacciono le cose fatte con passione, che se ne sbattono dei soldi, e se dentro c'è anche una sana dose di violenza mi sento proprio a casa. Questo concerto benefit per la palestra popolare Quadraro con quattro band formate da pugili, tra cui i fichissimi Holiday InnLexicon Devils, mi sembra un ottimo modo per passare un sabato sera romano.

 

DOMENICA 8 MAGGIO

MILANO
Santeria Social Club: Teho Teardo e Blixa Bargeld
I due non hanno bisogno di presentazione. Il loro nuovo album insieme, uscito il mese scorso, si chiama Nerissimo, e siamo sicuri che i due maestri delle atmosfere cupe e inquietanti dal vivo supereranno ogni aspettativa. Se non altro siamo curiosi di vedere se Blixa dal vivo assomiglia minimamente a quel ragazzino sui manifesti! 23€ + prevendita.


BOLOGNA
Porta S. Stefano (davanti ad Atlantide) - BOLOGNA BRUCIA
Era ottobre scorso quando la porta di Atlantide è stata murata e Bologna ha perso uno dei pilastri della sua vita queer e antagonista e punk. Dopo sette mesi il cassero di porta Santo Stefano è ancora identico a come lo hanno lasciato le Atlantidee, solo più impolverato e apparentemente morto. Pur essendosi diffusa ovunque, la sede storica di Atlantide resta chiaramente un luogo importante e fondamentale, per questo i punx locali hanno deciso di mettere in piedi il proprio festival annuale nella piazzetta antistante il cassero. Vietato mancare, ça va sans dire, ma se servissero ulteriori motivazioni per esserci, dalle 16 suoneranno: CosaNostra, Overdrive Banzai, Cani dei Portici, Doxie, Marnero e Forty Winks (rarità!). Gratis et amore.
 

VERONA
Centro Avanzi: Pop. 1280 / Caucasoid / Futbolìn / El Conquistador

I Pop. 1280 sono forse il gruppo più violento e spaventoso di casa Sacred Bones, e sarà sicuramente un'esperienza intensa quella di vederli confrontarsi con l'ambiente nichilista veronese. Soprattutto perché prima di loro suonano i Caucasoid, band punk di vecchie glorie locali, devastante e seriamente pericolosa, come non se ne vedono più. Per i cuori più teneri ci saranno anche i giovani screamo Futbolìn, sempre che sopravvivano al set di apertura dell'eroe folk El Conquistador, con le sue vignette decadenti su violenza e alcolismo. Ingresso libero dalle 19.

ROMA
Dal Verme: FUZZ ORCHESTRA live
 

MARTEDì 10 MAGGIO

MILANO
TOM: We Riddim - Dancehall Bashment #15 invites Dinamarca [STAYCORE]
 

MERCOLEDì 11 MAGGIO

ROMA
Ex Dogana: The Sound of Gaudí (LSWHR Soundsystem)


GIOVEDì 12 MAGGIO

TORINO
Astoria: DEATH INDEX + THE SOFT MOON


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Il marketing dei Radiohead si sta ripiegando su se stesso

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In tutta sincerità, quasi mai avevo visto gli animi dell’opinione pubblica intiepidirsi così in fretta come per il nuovo singolo dei Radiohead. Questo, per carità santissima, senza entrare nel merito e senza mettermi in coda per giudicare a mia volta la qualità di “Burn The Witch”, che piaccia o non piaccia è… uhm… un pezzo dei Radiohead, con tutte le dovute variabili stilistiche del caso, perché comunque parliamo di una band che musicalmente ha sempre insistito su un certo livello di mutamento. Comunque be’, è un pezzo dei Radiohead, perché, che vi aspettavate? La domanda non è retorica. Seriamente: che vi aspettavate?

Lo chiedo perché ho visto svolgersi davanti a me uno stunt mediatico che ha fatto tirare il fiato a tutti i fan e quantomeno colpito diversi non-fan: di colpo i Radiohead si sono cancellati da tutti i social media, lasciando come unico indizio una cartolina inviata ad alcuni loro fan che diceva “Burn The Witch”. Il problema di quesa trovata pubblicitaria è che, be’, il modo in cui si è sviluppata ha fatto emergere il fatto che fosse solo una trovata pubblicitaria. Il che non rappresenterebbe neanche chissà quale problema, non fosse che il fan medio dei Radiohead si sente smarrito. Questo perché finora Thom Yorke e soci hanno abituato il loro seguito al sentirsi parte di qualcosa di importante, al fatto che ascoltare e amare i Radiohead, e seguirli nelle loro "imprese" comunicative comportasse un’affermazione sulla realtà, una roba persino.. uhm… politica, anche se in direzione volutamente vaga e fumosa.

La meccanica-base non è nemmeno troppo complessa e si mantiene intatta da parecchio. Capitalizza una genuina attitudine (ci voglio credere) dei membri della band a non sentirsela di “apparire” troppo, un antidivismo che però, vabé, è anche quello economia: di fatto nessuno di loro si potrebbe permettere di essere cool, e la coolness dell’uncool è praticamente il trucco più vecchio dell’indie rock e della musica “alternativa” da quando queste esistono. Lo sforzo dei Radiohead è stato trasformare questa defliatezza dapprima in una specie di austerità critica, poi in una specie di reparto di ricerca e sviluppo sulla comunicazione. Una corporation il cui prodotto principale è la sua stessa brand identity e il suo lascito, molto estetico e un tantino etico. Questo è successo man mano che la presa della band sullo stardom mondiale iniziava a farsi colossale e la scusa dell’alternativismo non teneva più: in pratica, da band di outsider, di “diversi” sono diventati una band di “migliori”. Nel senso che si vendono come persone più avanti di te.

Questo sfrutttando una percezione comune secondo la quale chi  “riesce” ad apparire senza apparire, ad attizzare il fuoco dei media senza esporsi come merce, appare come uno che sta effettivamente vincendo al gioco, molto più di chi ostenta la propria presenza fisica nelle immagini dei media. È un ragionamento che ha pochissimo senso, perché pretende che ci sia meno narcisismo nel non farsi vedere (???) ma talmente radicato nella testa della gente che c’è sempre chi riesce a sfruttarlo, a prescindere che le vittime ne siano consapevoli o meno. Aggiungiamo a questo il fatto che i Radiohead sono artisti, che fanno musica, e che la loro intelligenza culturale gli ha permesso anche di venire a un certo punto riconosciuti come innovatori della musica pop. I migliori. Dei geni. Campioni dello stare al mondo, praticamente degli Steve Jobs della musica: contemporaneamente immersi nel più puro capitalismo globale e attivisti anti-guerra, pro-ambiente e terzomondisti.

Ma ok, vi starete chiedendo, che cosa c’è di male in tutto questo? Parliamo di una pop band, che deve promuoversi e far fruttare economicamente la propria identità artistica. No, ecco, non ci sarebbe nulla di inconsueto né particolarmente scandaloso, se non fosse che i loro sforzi hanno col tempo stabilito una serie di esempi storici per il marketing virale della musica, che hanno in parte stabilito le basi su cui poggia oggi la nostra impossibilità di sfuggirvi. Anche qua, però: non lo avessero fatto loro lo avrebbe probabilmente fatto qualcun altro. Però appunto, da lì a far diventare la musica la specie di accessorio che è ora ce ne passa un po’, ed è a forza di metterla in secondo piano rispetto al resto (tipo al modo in cui il disco viene distribuito/acquistato, o anche al modo mattissimo in cui è stato composto), che, se dopo la prima fase di quella che sembra un’ ennesima campagna di sconvolgenti ideone virali quello che se ne ottiene è solo una nuova traccia e un video tipo Pingu meets The Wicker Man, la reazione del pubblico è più o meno globalmente “meh”. 

Stiamo parlando di un pezzo che, da quanto si legge in giro, i fan non trovano assolutamente brutto, però per renderlo interessante c’è voluto che qualche musicologo spiegasse che Jonny Greenwood è un genio perché ha arrangiato gli archi facendo eseguire la partitura col legno. Ok, bella lì. Poi c'è un testo banalotto ma non pessimo che dice che il potere ci vuole ignoranti e incazzati con quelli diversi da noi. Grazie Thom. Però mi viene da pensare che, se anche fosse stato un pezzone clamoroso, il pubblico avrebbe reagito timidamente. Perché dov’è a sto giro la "rivoluzione-radiohead"? Dov’è il gesto clamoroso, lo statement che dovrebbe aprire il cervello a tutti? Si sono tolti per ventiquattro ore dai social network, ma il giorno dopo era tutto come prima.

Il gesto di levarsi dai social è in realtà l’eco di una mossa compiuta nel 2000, in vista dell’uscita di Kid A: quella di non fare videoclip musicali da distribuire su MTV, che all’epoca erano il veicolo promozionale n.1 per la musica. In realtà non andò proprio come dichiarato: oltre a dei microclip di mezzo minuto con protagoniste varie versioni del loro orsetto-mascotte, fu comunque distribuito il video live in studio di “Idioteque”, senza che ne fosse però tratto un vero e proprio singolo: in questo modo un pezzo che stava comunque ricevendo notevole airplay, più che sostenere se stesso avrebbe sostenuto le vendite di un album musicalmente non facile… Fingendo di starlo facendo senza airplay! Metteteci pure che, per la prima volta nella storia, si fece uso di un leak integrale come strumento di promozione. All’epoca la piattaforma era Napster, praticamente la nascita del file sharing. 

Anche giocare sulla “non-facilità” di fruizione di Kid A fu a sua volta un arma vincente: l’hype attorno a quel disco era incredibile, molto prima della sua uscite si era tutti certi che avrebbe fatto discutere non poco e che avrebbe diviso i fan, le cui reazioni erano per la prima volta nella storia monitorabili in tempo quasi-reale. La narrativa fatta circolare per passaparola alimentò la mitologia di una band (all’epoca reduce dal successo incredibile di Ok Computer) rinchiusa in studio tra mille tensioni a creare il capolavoro che li avrebbe distrutti o avrebbe cambiato il mondo. 

Da un punto di vista strettamente musicale non fece né l’una né l’altra cosa: nessuno nega che fosse effettivamente una svolta per il loro suono, né, di nuovo, voglio discutere della qualità del disco. Non trovo neanche nulla di male nel fatto che, a patto che si frequentasse un certo tipo di underground, si fosse in grado di disegnare perfettamente l’albero genealogico dell’album, che sfiorava l’allora fiorentissima e tutta inglese terra di confine tra ambient e post-rock (quella di Main, Seefeel, Bark Psychosis) e ovviamente l’ultrapotenza IDM che stava già dominando l’isola. Del resto è sempre stato così: quando una rockstar fa “il disco sperimentale” di solito canalizza gli umori dell’underground permettendo che si affermino all’interno del linguaggio centrale. Non c’è nulla di male, e per l’appunto rientra nella più classica delle epopee rock. E come in quei casi, non è solo la musica a costituire il portato di un album “ambizioso”, ma la forza dell’immaginario che vi si costituisce attorno: quello di Kid A era fatto di tutte le paranoie che alimentavano la tensione pre-millennio (OGM, disastri ambientali, tensioni no global, rivoluzione digitale). Allo stesso modo di tante rockstar, inoltre, Thom Yorke stava preparando la sua immagine di filantropo “impegnato” per l’ambiente e la lotta alle diseguaglianze sociali che ovviamente non mette mai davvero in discussione i suoi milioni.

Questo di Kid A fu forse l’ultimo momento in cui la sintesi tra la musica e il suo contorno non abbia generato un qualche tipo di sbilanciamento in favore della band come entità mediatica. Dopo quello, be, mi pare che l’aura dei Radiohead abbia preso pesantemente il sopravvento sul contenuto dei dischi, nonostante le “trovate” si fossero puntualmente rivelate delle “trovate” temporanee, che duravano lo spazio di un disco: i video promozionali ripresero già da Amnesiac, e il suono si rispostò molto presto su territori decisamente meno sperimentali. Un “ritorno alla forma” e una carenza di vere nuove idee che all’epoca di The King Of Limbs tentarono di mascherare raccontando di avere fatto normali canzoni rock, ma di averle assemblate autocampionanodosi e risuonandosi con dei giradischi. Così, giusto per non apparire troppo convenzionali.

Più interessante fu il caso In Rainbows, e la formula “pay as you wish” per un disco pubblicato solo online e senza il supporto di una label, in polemica, teoricamente, sia con gli squilibri economici generati dall’arrivo di internet che con il modo in cui le major se ne sono approfittate. Inutile dire che, come nel caso del leak su Napster ai tempi di Kid A e come la maggior parte dei loro stunt pubblicitari, sono tutte robe che ti riescono solo se sei già strafamoso a livello planetario: provate a chiederlo alle decine di migliaia di poveri cristi che ogni giorno piazzano la loro musica su bandcamp permettendo agli utenti di pagarla quanto vogliono. Questo a eterna dimostrazione che quando i Radiohead si mettono in polemica con un sistema che, a detta loro, non premia la creatività degli artisti, parlano praticamente solo di loro stessi e non della comunità globale degli artisti. Un’appendice di questa vicenda c’è stata poi con Tomorrow’s Modern Boxes di Thom Yorke solista, forse il disco più bello e più ostico a cui il cantante abbia mai lavorato, che si è guadagnato un po’ di spotlight venendo distribuito dapprima via Torrent e poi su Bandcamp: in quel periodo era già accesissima la polemica contro Spotify e i servizi di streaming, ma nuovamente la mossa “sabotatrice” era una che poteva riuscire solo a lui e a quelli già ricchi e di successo come lui. E paradossalmente lo spotlight ha finito per eclissare il vero valore del disco.

Fast forward a oggi: l’operazione “Burn The Witch” non ha neanche avuto la pretesa di ripetere questo genere di pantomima liberal, e il pubblico, trovatosi con in mano “solo” una canzone dei Radiohead, non sa bene che farsene. Certo, è una responsabilità condivisa: da una parte la band ha costruito questa sua immagine tanto meticolosamente da renderla ingombrante, dall’altra chi dovrebbe supportarne il lavoro ha perso troppo del suo tempo a discutere di argomenti da cui stava lentamente purgando via il lavoro artistico vero e proprio. Ho letto un sacco di gente sui social network che gli dava dei “geni” per essere spariti, e che poi non ha scritto due parole sulla canzone in sé. Quello che voglio sapere io è: in cosa sono stati geniali? Nel distrarvi dal loro stesso lavoro?

Segui Francesco su Twitter — @FBirsaNON

 

Gli angeli e i demoni di Uli K

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Artwork di Mica Henry.

Settimana scorsa, anche se per qualche motivo a me ignoto è segnato 2 febbraio, tra gli smiley più entusiasti e sinceri delle nostre beneamate recensioni, c'è stato quello di tale TOMATOMATOMATOMA su Elusivo, primo EP di Uli K uscito sulla sua, e del fratello Kamixlo, Bala Club. In via del tutto eccezionale sono disposta ad ammettere di essere stata io, l'autrice di tale recensione, ma solo per ribadire quanto la sua figura abbia rapidamente monopolizzato i miei ascolti giornalieri, da un paio di settimane a questa parte. Da una crisalide di indifferenza è sbocciata tutta la meraviglia e fascinazione per il suo ballad rap latino, Yung Lean-eggiante, sinuoso e strappalacrime a sufficienza per ambire al titolo di manifesto del Sad America.

Uli ha avuto il grande merito di farmi tornare a credere nelle ballate rap, nella sua veste più fresca e adatta a questo faticoso maggio 2016, cioè in spagnolo—Uli ha origini cilene—e con una solida componente di tristeza con cui empatizzare. Bala Club, etichetta e clubnight londinese di cui è a capo assieme a Kami, è essenzialmente questo; mitraglie post-reggaeton, melodie soffuse, e ancora beat infuocati a ripetizione, a voler ricordare che a questo mondo non esiste solo la grime. I trenta minuti di mix sono l'assaggio che Uli ci ha dato di tutto questo, e parlano del conflitto tra angeli e demoni che lo tormentano, ma allo stesso tempo, lo mantengono vivo. "Avrei potuto farlo più lungo, ma questi trenta minuti sono estremamente personali, e così tutto ha un senso. Se ne aggiungessi degli altri potrei compromettere il tema del mix." 

"I can't feel anything anymore. The angels pick me up and the demons show me love. I'm healing but the wounds won't fade. Every day i decay but I wish I had time to make things better. Time will run out soon but the conflict between the angels + the demons is eternal."

Tracklist:

01 Wisin y yandel - la mata (uli k edit)
02 kamixlo - ??
03 zion y lennox - yo voy (2k's demonico edit)
04 oxhy - burning tories
05 ?? - baby
06 infested blandtress - cv
07 englesia - un angel enamorado
08 niclas - ocie
09 palmistry - sip
10 lunarios - the way she goes (ft. rules)
11 violence - i write you letters every day and burn them in fires of my pride
12 organ tapes - damn thing
13 adamn killa + killavesi - ballin like messi (bala club edit)
14 malibu + uli k - words
15 user2222 - image

Leggi l'intervista che VICE UK ha fatto a Uli e Kami qui.

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Guarda Gwen Stefani che canta "Hollaback Girl" con Julia Roberts e George Clooney

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Il Fato nel 2016 sta facendo succedere una serie di cose che ti portano a chiederti se ci sia qualche intelligenza superiore che si sta prendendo gioco di noi oppure se semplicemente l'umanità sia destinata all'estinzione. Ad esempio, sono morti un sacco di artisti fantastici e il karma mondiale ci ripaga assecondando la rapida, inesorabile e incomprensibile ascesa di Donald Trump verso il ruolo di politico più importante del Pianeta. 

Ma le stramberie non arrivano mai da sole, e tra i fatti assurdi di quest'anno—anche se questo non è tragico ma è semplicemente fuori da ogni logica—c'è questa nuova puntata di Carpool Karaoke, (quello in cui Adele aveva dimostrato di essere un asso pure col rap) in cui la protagonista è la sempre-in-forma Gwen Stefani, che canta in macchina grandi hit dei No Doubt come "Don't Speak" e le sue "The Sweet Escape" e "Rich Girl," oltre a riprodurre una serie di emoji prima che le spieghino che la melanzana solitamente viene utilizzata come metafora del pene.

A quel punto pensi di aver raggiunto l'apice di questo video, ma non è così perché il meglio deve ancora arrivare: senza alcuna apparente spiegazione, saltano in macchina George cazzo Clooney e Julia Roberts, che si mettono a cantare "Hollaback Girl," con tanto di considerazioni semi-intellettuali del dottor Clooney sul senso della canzone: "Se qualche tizio da un ponteggio inizia a fare apprezzamenti su una ragazza che passa, lei non si volta nemmeno, perché non è quel tipo di ragazza."   

Poi questo strano gruppetto si mette a ciarlare su Love, Actually fino a quando si torna a cantare, stavolta "We Are The Champions" dei Queen, aggiungendo l'ultimo mattoncino di assurdità alla composizione.

Non sappiamo nemmeno noi che cosa abbiamo appena visto.

Seguici sulla nostra nuova pagina Facebook—tra poco sarà l'unica che useremo:

 

Che fine hanno fatto i 25 MC pronti per la sfida del 2000 scelti da AL?

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La copertina del numero 46 di  AL Magazine, tutte le foto per gentile concessione di Paola Zukar.

Il futuro è molto importante quando si parla della musica e, chi più chi meno, siamo sempre tutti lì a rincorrerlo. Questo disco è il futuro, ci diciamo ogni volta che esce qualcosa di apparentemente nuovo o fresco e Dio solo sa quante volte è stata pronunciata (e poi smentita) la sentenza tra due anni suoneranno tutti così e ci siamo già interrogati così tante volte sul futuro del rap in Italia che mi viene il mal di stomaco al solo pensiero di inventarmi una nuova riflessione a riguardo.

La verità è che farsi domande sul futuro della musica è sempre un meccanismo molto interessante perché ci permette di pensare che andrà tutto bene, che le cose belle verranno premiate e che quelle di successo diventeranno di qualità. Nessuno si sogna mai di fare l'esperimento al contrario, ad esempio: quale sarebbe stato l'anno giusto per prevedere l'ascesa discografica di Fedez? Nessuno la sa e soprattutto nessuno si preoccupa mai di andare a verificare le previsione che vengono fatte, visto che il vero valore di una previsione è costringerci a ragionare in modo oggettivo sul presente e quindi, in un certo senso, anche sul passato più prossimo.

Immagino che fosse questo lo spirito, più o meno, con cui i redattori di Alleanza Latina, rivista italiana di cultura hip hop pubblicata tra il 1991 al 2001, hanno provato a chiedersi quali fossero i venticinque MC pronti ad affrontare la sfida del 2000, che è solo un altro modo per chiamare il futuro. Il contesto in cui è stata fatta questa previsione non era dei migliori e la stessa Paola Zukar, mentre le fotografo malamente la copertina e le pagine dell'articolo, mi confessa che il clima era quasi di rassegnazione: il rap in Italia non stava vivendo un buon momento e nell'aria c'era molta incertezza attorno alla parola futuro, tant'è che il campo semantico è subito cambiato da futuro a sfida, come se il domani fosse qualcosa da affrontare col coltello tra i denti.

L'articolo di copertina si apriva con un editoriale firmato da Damir Ivic in cui si prendeva atto di come i media istituzionali e le case discografiche avessero esaurito la pazienza e voltato le spalle all'hip hop, da un lato perché le vendita non decollavano mai, dall'altro perché chi non vendeva tendeva a ripiegarsi sempre più su se stesso, con il risultato di creare una scena infinitamente autoreferenziale. Lo scopo della lista era di cercare di superare questi due pregiudizi e fornire ai lettori un'infornata di nomi ancora relativamente sconosciuti che però di skillz ne hanno non poche.

Quindi, senza troppa malizia, vediamo che fine hanno fatto i 25 rapper che, per qualche momento, hanno rappresentato il futuro del rap italiano.

TSU

Il rapper TSU, tutte le prossime foto sono prese da AL, salvo diversa indicazione

Sardo, ma trapiantato a Torino, il rapper TSU non ha alcun legame con tsū, il social network che ti paga, ma è anzi un MC di scuola ATPC. TSU è uno dei pochi dei 25 ad avere, nell'Anno del Signore 2016, una sua pagina Wikipedia. Il suo ultimo album si intitola Il Risveglio ed è uscito nel 2009 e, per usare un eufemismo, non ha lasciato il segno. Se avete un account Apple Music lo potete ascoltare in streaming a questo indirizzo, altrimenti vi serviranno dieci euro. Nonostante una rasatura davvero fuori luogo anche per il 2009, TSU è entrato nella lista dei 25 per altri meriti, cioè la sua grande schiettezza e sincerità (ai limiti dell'autocritica, quando serve) due doti non di poco conto.

NEST

La copertina de Il Coscritto di Nest

Nest era un rapper svizzero di origine camerunense che è finito nella lista dei 25 perché, a quanto pare, aveva una cartella stampa della Madonna. Lo so che ora sembro uno snob di merda, ma immagino che nel 2000 avere una cartella lussuosissima, precisa e piena di informazioni senza perdersi in parole inutili e con dentro foto di ottima qualità e il demo in minidisc fosse davvero una cosa che poteva fare la differenza, senza alcuna ironia.

Per il resto, il disco Il Coscritto di Nest si trova su Discogs ed è probabilmente l'unico disco rap italiano del 2005 a costare meno di 10 euro. Il più alto della sua carriera è la canzone "Scusa Bella (Oh Oh Oh)!!" uscita nel 2006 e raccontata divinamente da Orrore A 33 Giri di cui ci limitiamo a riportare un piccolo capolavoro lirico che probabilmente non era stato allegato alla cartella stampa: Diamoci da fare / Lo vuoi almeno quanto me / Non lo negare / Che c’è di meglio Di amare al mare? Non ho parole / Sei bella come il sole.

QUAGLIANO

Gianluca Quagliano e Alessandro Cattelan ai tempi degli 0131, immagine concessa da Gianluca Quagliano

La canzone "Il Danno" degli 0131 probabilmente ve la ricordate perché aveva un ritornello super catchy che faceva è un gran casino solo un gran casino sono radioattivo sono un danno MÀN che effettivamente mi piace ancora oggi, a molti anni e molta consapevolezza di distanza e rappresenta forse l'apice del successo della carriera di Quagliano come rapper, raggiunto insieme ad Alessandro Cattelan. Il loro disco è scomparso da YouTube, ma si può ancora incredibilmente acquistare su Amazon.

Parliamoci chiaro: farei scambio con la vita di Gianluca Quagliano in questo esatto istante e probabilmente tutto il bene che gli 0131 non sono riusciti a fare all'hip hop l'hanno fatto senza pseudonimi Quagliano e Cattelan alla radiofonia e alla televisione italiana. Oggi Quagliano, dopo aver lavorato per anni ad MTV, collabora (tra gli altri) con Radio 2, RedBull Music e un'altra infinità di canali che in modo più o meno parallelo a quello di Noisey spingono tanta musica valida e per questo gli perdonerò quel ritornello che ora dovrò cantarmi tutto il giorno. Alla fine mica ci si è inserito da solo nella lista dei 25 rapper pronti per la sfida del 2000.

TUNO

Ecco un suo video.

POSI ARGENTO

Posi Argento ad un certo punto era diventata la Peaches italiana ed effettivamente nonostante una carriera non proprio sfavillante e molti anni di inattività riesce ancora a mantenere il suo posto in un'ipotetica Top 5 di mc italiane, il che ci dice più cose sullo stato del rap italiano in generale che sul suo essere pronta per la sfida del 2000, anche se probabilmente lo era.

Oggi Posi Argento fa la sound designer e porta avanti il suo progetto The Sound Of City.

CORVO D'ARGENTO

Sospetto che la cartellina di Corvo D'Argento non sia stata così speciale

[...]talentuoso milanese da battaglia, ovvero Corvo D'argento delle Sacre Scuole (in uscita il loro EP 3 Mc's 3), che mette la sua abilità tecnica al servizio qualche volta di argomenti estremi, altre di puri richiami alla sfida. Del resto, scrive nella sua bio di presentazione: "Mandatemi davanti il migliore dei vostri rappers e lo vedrete tornare a casa con l'incrollabile convinzione di voler abbandonare il difficle mondo del rap".

Sì, Dargen D'Amico era prontissimo alla sfida del 2000, ma probabilmente anche a quella del 3000, 4000 e via così.

MAXI B & KASO
La carriera dei due è iniziata proprio grazie ad un concorso indetto da AL e non sono certo i due nomi più sbagliati di questa lista e Maxi B ad un certo punto ha anche fatto parte della Tempi Duri di Fabri Fibra, ma probabilmente il risultato che ci si aspettava quando è stata redatta questa lista era diverso.

DOPPIA K

Doppia K su un palco, immagine presa dal sito di Doppia K

Doppia K, che nel 2000 doveva essere molto giovane, possedeva una tecnica lineare e fotografica. Doppia K, che nel 2016 è un po' meno giovane, possiede 74 follower su Twitter.

MASTINO

Mastino (il più a destra) oggi, immagine via Facebook

La verità è che senza Google non avrei mai potuto ingannare il mio capo e farmi assumere redigere e commentare questa lista. Sono certo che è una mia colpa, ma sinceramente non conoscevo Mastino, che AL descriveva come un talento naturale, abilissimo nel freestyle e molto fantasioso nei testi scritti. Mastino è in attività ancora oggi e se googlate il suo nome al primo risultato troverete una battle di freestyle contro Mistaman, mentre al secondo risultato Ma come ha fatto a vincere mastino in questo freestyle? | Yahoo Answers.

P.S. Mastino per favore non mi menare, è colpa della filter bubble.

PINNA

Offro un Winner Taco o qualsiasi altro gelato confezionato (no artigianale, non fate i ridicoli) a chiunque mi rimedi informazioni su Pinna e non abbia mai lavorato ad AL negli ultimi vent'anni.

GIANNI AKA SPEIS G.

Boh ragazzi.

Scusatemi, so di avere un umorismo molto basic, ma vi chiedo di fissare la foto qui sopra e ripetere 10 volte Gianni AKA Speis Gianni senza ridere. Se ce la fate purtroppo non potremo mai essere amici.

Comunque, di Gianni AKA Speis Gianni grazie ad AL abbiamo poche, ma precise informazioni: ha fatto il liceo classico, ha studiato filosofia ed era amico di Inoki. Nel migliore dei casi significa che ha fritto le vostre patatine fritte almeno una volta. Nello scenario peggiore il suo cadavere giace putrefatto nella cantina di Inoki. Tertium non datur.

Edit: Abbiamo scoperto che Gianni AKA Speis Gianni ogni anno va in vacanza ad Orbetello con una nostra collega. Purtroppo non sappiamo se si sia laureato in filosofia.

NESLY RICE
HAHAHAHAHA.

FULO
Fulo è un rapper che faceva parte del collettivo Teste Mobili e nel 2014 ha pubblicato un disco autoprodotto che non ho nessuna intenzione né di ascoltare né di linkarvi per colpa di questo thread su Yahoo Answers, palesemente aperto dallo stesso Fulo; sono furibondo.

CINA & GUFO

Cina & Gufo, aka 2 Buoni Motivi aka Amir & Supremo 73. Anche loro non hanno rivoluzionato la storia del rap italiano, ma si può dire che a questa sfida del 2000 hanno saputo tenere botta, via.

JIMMY CHINOTTO

Una foto della miglior foto di Jimmy Chinotto

La cattiva notizia è che la rete non restituisce informazioni riguardo Jimmy Chinotto, di cui sappiamo solo che oggi avrebbe 33 anni mentre la buona notizia è che il moniker Jimmy Chinotto è a tutti gli effetti disponibile, quindi se hai sempre sognato di fare il rapper probabilmente questa è la tua occasione per farcela.

Jimmy Chinotto Jimmy Chinotto Jimmy Chinotto Jimmy Chinotto.

KAJAR

È quello nella foto.

PAURA

Insieme a Dargen forse l'unico di questa lista ad aver pubblicato un disco rilevante nel panorama hip hop italiano durante l'ultimo anno. La foto è per la rubrica Come eravamo.

MODDI & ELLE VOX

A questo punto della lista devo comunicarvi un'informazione molto importante: mio papà è sempre stato un grande collezionista di fumetti e io ho dovuto imparare a leggerli senza stropicciarli troppo. Quando ho fotografato questo antico numero di AL ho usato la stessa accortezza, col terrori di rovinare le rilegature o far cedere la colla, ormai secca da anni.

Mi trovo costretto a raccontarlo perché, nel mio tentativo di usare gentilezza nei confronti dell'antico medium della carta stampata ed elevarmi sopra tutti gli altri millennial come il più rispettoso, non ho piegato abbastanza la rivista e quindi un quarto di pagina è del tutto illeggibile. Comunque non ho mai sentito nominare Moddi & Elle Vox in vita mia. Forse Elle Vox sono un gruppo? Dalla foto sembrerebbe di sì, ma tutto è possibile. Sfida del 2000? Persa.

P.S. Moddi ha una pagina sulla versione tarantina di Wikipedia, quindi potete informarvi direttamente lì e faceva il giudice al 2thebeat, secondo un mio amico che ci ha partecipato.

CASA DEL FICO

I Casa Del Fico, oltre a condividere il loro nome con un numero sorprendentemente alto di Bed & Breakfast, sono (erano?) un gruppo pugliese con molte contaminazioni tra cui "[...] jazz, rock, fusion, drum and bass, reggae ed anche techno". Esattamente così. Questa miriade di generi sciorinati in modo piuttosto casuale li ha portati ad un certo punto a lavorare con CapaRezza. Dopo un po' di tempo sono tornati e hanno fatto questo video (non guardatelo, è disgustoso). La loro foto è sicuramente la più bella di tutto questo elenco e spero vivamente non indossino i pantaloni.

Questa lista (è giusto ripeterlo) è stata redatta in un momento non particolarmente brillante dell'hip hop italiano e, per quanto oggi risulti decisamente strampalata, si chiudeva con questo pensiero: l'hip hop non ha nulla da temere, anzi [...]. Se poi 'là fuori' non sono interessati, beh, peggio per loro... alle nostre jam resteranno un mare di sorrisi e molte, molte vibrazioni positive. Pare poco?

No, non era poco e alla fine in qualche modo ha anche funzionato. Io comunque, se potessi riscrivere subito la storia del rap, sarei pronto a fare fuori chiunque per trovare un posto a JIMMY CHINOTTO, unico vincitore della sfida del 2000.

 

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Giro d'Italia: Bologna state of mind

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 La distruzione di Occupy Mordor, foto via

Quando ho iniziato ad avere una coscienza storica che andasse oltre il Sussidiario o a registrare date ed eventi chiave della mia città, ho chiesto ai miei genitori che senso avesse mettere una bomba alla stazione di Bologna. All’oscuro di motivazioni, strategie e pensieri ben più sottili, pensavo che Bologna non fosse una città grande, con ambasciate e istituzioni da colpire, e non capivo con quale interesse potesse entrare nel mirino di qualunque attentatore. Probabilmente non avevo idea del ruolo fondamentale di una stazione ferroviaria in un capoluogo di regione negli anni Ottanta, o della situazione in atrio e in sala d’attesa durante l’esodo degli universitari fuorisede verso casa a fine Luglio. Uno dei due mi rispose che Bologna non era una città grande, ma era un nodo, un crocevia, forse il più importante d’Italia. Questa cosa del nodo mi è sempre rimasta impressa, e negli anni si è realizzata in un turbine di persone, posti ed esperienze che ti restano legati addosso, se sei cresciuto a Bolo.

"Città a misura d’uomo", dove in centro giri a piedi ovunque e a Marzo tiri già fuori la bici (sempre che tu l’abbia messa via), dove le stesse strade si aggrovigliano tra loro, i portici ti proteggono e tutto questo rosso d’inverno non ti fa sentire poi così freddo. Hai tutto a portata di mano, qualsiasi cosa tu voglia fare, concentrato in uno spazio relativamente piccolo. L’università più antica e la seconda Cineteca più importante in Europa, teatri, musica e spazi di condivisione a non finire, per non parlare del tuo slang (che non ti accorgi di avere finchè resti tra regaz come te). Bologna ti accompagna e ti guida fino alla fine delle superiori, quando arriva il momento di scegliere se restare o partire. Ma perché andarsene, se qui c’è tutto? Bologna non ti vuole mollare e farà di tutto per riaverti, negli anni a venire. Per molte persone che conosco e che se ne sono andate, tornare a Bolo, anche solo per un weekend, è un bisogno fisico prima di tutto. Lo è anche per me, che mi sono spostata per studio a 50 km di distanza.

Purtroppo però, perso un regaz se ne fanno tanti altri. Catturati se non almeno ispirati, oggi, da un’immaginario costruito tra Jack Frusciante, Andrea Pazienza e un concerto dei Clash nel 1980, ogni anno arrivano migliaia di studenti (quasi 85.000 iscrizioni nell’ a.a. 2015/2016), attirati dal simulacro del funk-cazzeggio bolognese, ma anche da una vecchia Università prestigiosa che offre loro più corsi di laurea di quanto le strutture e gli spazi della città si possano effettivamente permettere. Se i grandissimi numeri per il Comune rappresentano una minaccia, per chi investe soldi negli eventi e nella nightlife gli studenti rappresentano una risorsa da sfruttare fino all’ultimo. Inseriti in un sistema universitario che li lascerà ad ammuffire per anni, spillandogli tasse su tasse e affitti in appartamenti ai limiti del vivibile, questi ragazzi spendono e spandono in attività ricreative di ogni sorta. Le masse di soldi che si muovono da una serata/club/associazione all’altra sono così ingenti che sono gli studenti stessi, con i loro portafogli aperti e i loro passaparola, a determinare il successo di un nuovo progetto. Insomma, sono loro che decidono, perché sono tanti e ingestibili.

 Foto di Michele Lapini.  

Per la maggioranza, sono passivi. Sono generalmente guidati dall’alcool e dall’ingresso al prezzo più basso, a ballare, ad agevolare un rientro a casa in compagnia, ma soprattutto si dirigono verso la musica che conoscono e che non li smuove da dove sono. Ed ecco fiorire come piante infestanti una serie, mutevole negli anni, di eventi e locali che promuovono musica vecchia, dalla malsana perversione per le cosiddette “discoteche rock” ai party che rievocano i 50s, gli 80s, i 90s, serate a tema britannico, balcanico, funk-raggae, anarco-cumbia e altri ibridi “divertenti” che attirano le folle come mosche. Denominatore comune, oltre all’evidente retaggio nostalgico, è la mancanza di un substrato culturale, anche sottile, che permetta un’aggregazione di menti piuttosto che di corpi, la costruzione di esperienze condivise piuttosto che di un beneficio economico nelle tasche di promotori. Divertimento cieco, vuoto, fine a se stesso. Gli studenti fanno girare l’economia, ma anche i provvedimenti legislativi, gli appostamenti delle guardie, le scelte funzionali-urbanistiche e il mercato immobiliare, tra un cicchetto a un euro al bar dei cinesi e un “passala” in Piazza Verdi, ignari del loro numero, della loro stessa dimensione e appartenenza sociale.

Esistono tempi e luoghi nella storia di Bologna, tuttavia, nei quali gli studenti erano consci del loro potere, delle loro armi e delle enormi possibilità di creazione e gestione che la città sapeva offrire. Ho chiesto testimonianza di quegli anni ad Alarico Mantovani, cultore di musica a 360° (il suo programma radiofonico Pangea su Radio Città del Capo ve lo confermerà), arrivato a Bologna in qualità di studente universitario ma già fruitore di un sistema underground che ha visto la sua massima espressione nell’ hic et nunc che mi ha raccontato, prendendo atto che ricostruire ma soprattutto sintetizzare in poche righe l’atmosfera, gli spazi e le persone che hanno mobilitato Bologna in quegli anni significa fare una selezione.

 Gorilla Biscuits live @Isola nel kantiere, 1991. foto di Stefano Bertelli


Alarico arriva a Bologna alla fine del 1994, da Verona, con un background noise e post-hardcore, grazie anche all'ottima programmazione musicale di Interzona, all'epoca situata nella storica sede della Stazione Frigorifera Specializzata N.10, nella quale aveva un ruolo chiave Giorgio Giunta, proprietario del negozio di dischi Noise Art. La scelta di spostarsi a Bologna è dettata anche dall’offerta musicale della città, allora documentata quasi esclusivamente attraverso le segnalazioni di concerti su riviste come Rumore e sulle varie fanzine, e tra ’94 e ’95 assiste ai primissimi concerti in città: New Bomb Turks al Covo e Girls Against Boys all'ex Bestial Market, la vecchia sede del Livello 57 in via dello Scalo, Fugazi a Castelmaggiore. Non erano certo le sue prime esperienze: negli anni precedenti aveva già visto all'opera band fondamentali come Sonic Youth, Nirvana, Melvins, No Means No. Insieme cerchiamo di tracciare una mappa, o meglio una psico-topografia, frutto di un percorso diluito e graduale della scoperta della città attraverso la musica, individuando dei cicli politico-culturali all’interno dei quali lo sviluppo (anche) musicale di Bologna può essere inserito.

“Il centro della città era un magma ribollente di luoghi abbastanza vicini tra loro e raggiungibili a piedi, e l’atmosfera che si viveva era molto differente da oggi. In queste strade c’era un viavai di persone che si muovevano da via Zamboni, dove c’era il 25 (sala studio che paragoneremmo al 36, si trovava dove oggi c'è La Scuderia) e Piazza Verdi, all'epoca vero cuore pulsante di Bologna, e passando da via Mascarella, dal bar/club Naked, (dove oggi c'è il bar/libreria Modo Infoshop) si arrivava in via Irnerio, dove c’era il TPO, altro luogo straordinario: era un teatro a pianta quadrata con gradoni discendenti. Anche lì ho visto concerti memorabili, Death In June e Bedhead in primis. Se ci muoviamo verso la stazione, percorriamo tutto il sottopassaggio e sbuchiamo su via Carracci. Poco più in là, in via Fioravanti, c’era il Link.” Parlare del Link e del significato che ha avuto per la città, del simbolo che è divenuto oggi, equivale ad aprire un capitolo molto vasto che in questo frangente toglierebbe spazio a tutte le realtà che, insieme, hanno contribuito allo sviluppo e alla formazione della controcultura bolognese, delle quali invece vi vogliamo raccontare.

 Il vecchio Link di via Fioravanti, foto di Mauro Boris Borella

“Tra primi Novanta e primi Duemila la città ha avuto un ciclo culturale peculiare: in quel momento Bologna era una delle città più vivaci d’Europa dal punto di vista musicale e artistico. E’ un periodo ben preciso che va dall’Isola nel Kantiere e passa per il Livello 57, il Teatro Polivalente Occupato, il Link e molti altri luoghi. Nel corso degli anni molte persone hanno dato un apporto determinante. Impossibile citare tutti ma i primi che mi vengono in mente sono Daniele Gasparinetti e Silvia Fanti (poi fondatori di Xing, da Netmage a Live Arts Week), Enrico Croci, che organizzava straordinari live al Link, Massimiliano Bonini e Daniele Rumori (alla guida del Covo), Valerio Tricoli e i concerti che organizzavamo a CasaLogic (house concerts con artisti internazionali come Taku Sugimoto, Dean Roberts, Thomas Lehn, Giuseppe Ielasi), Giovanni Gandolfi, il John Peel bolognese, e ovviamente il visionario Riccardo Balli, perfetto rappresentante e prototipo culturale di tutto ciò che significava la città nei Novanta. Il portato della cultura DIY originatasi dall’hardcore punk ha creato l’humus necessario perché tutto si sviluppasse. Bologna era crocevia di tante condizioni, frutto dell’amalgamarsi delle esperienze di chi veniva da fuori con chi già operava sul territorio”.

“Nei primi Duemila si stava già perdendo un po' di incisività e lo spartiacque ad ampio raggio è stato Genova 2001. Il post G8 ha rappresentato la sconfitta dei movimenti, e ciò ha inciso profondamente anche sul panorama culturale bolognese negli anni successivi. Tuttavia il periodo Guazzaloca è stato uno strano ibrido nel quale si poteva ancora fare, la città era ancora molto vivace. La morte civile è arrivata con Cofferati, sindaco sceriffo che ha portato una serie di normative e rigidità. Ha spinto fuori, ai margini della citttà, tutto il fermento culturale di cui prima era imbevuto il centro storico. Dal 2004, quando il Link, emblema della Bologna anni Novanta, viene raso al suolo, iniziano gli anni peggiori. Durante e dopo Cofferati c'è stata una riorganizzazione, e possiamo evidenziare l’inizio di un nuovo ciclo che dura tuttora ma ha poco a che fare con quello precedente”.

“All'epoca mi rendevo conto dell’importanza di quello che stava accadendo, ma non del tutto. Le cose magnifiche che avvenivano erano frutto di una sensazione di creatività e grande libertà sotto tutti i punti di vista. Quando entravo al Link, al Livello 57, al TPO, era come se mi sentissi nelle T.A.Z., le zone temporaneamente autonome concepite da Hakim Bey. A posteriori mi rendo conto che le condizioni che si erano create in quegli anni sono irripetibili, sono figlie di un’epoca in cui le cose giravano davvero. L’atmosfera che si respirava era positiva e piena di brio, si viveva pienamente il presente ma al contempo si riusciva ad immaginare un futuro.”

Non credo sia importante valutare cosa sia rimasto di quegli anni, ma in che modo le cose si stiano sviluppando oggi. Se allora il mondo universitario era una partecipazione entusiasta, gente che occupava posti e che organizzava serate ma al contempo supportava quelle degli altri, oggi esiste un’incomunicabilità radicata, una spaccatura profonda. Da un lato gli studenti walking dead che abbruttiscono la loro stessa curiosità e azzerano il livello cognitivo-culturale, annuendo come attendings inconsapevoli a qualunque serata, dall’altro le resistenze, che tentano a braccia di risollevare Bologna con uno spirito di condivisione artistica e comunione musicale, sempre avide di nuovi terreni sui quali proliferare. Stiamo parlando, ad esempio, di B.U.M. (Bologna Underground Movement), Urbanresistdance e il nuovo OZ (il vecchio Senza Filtro), Alivelab all’AtelierSì, Bologna Calibro 7 Pollici, Frigotecniche e i collettivi che si muovono dentro XM24.

Le realtà sono ancora molte, gruppi e associazioni che ruotano attorno a punti e zone ben specifiche, le cui orbite cercano di svilupparsi per poter dare il via a un flusso, a un vortice fisico che possa risollevare la conoscenza e la dimensione musicale della città. Senza dubbio sono situazioni che hanno avuto la possibilità di generarsi sulla scia dei Novanta, raccogliendo quel poco di vigore espressivo che ne è rimasto e facendo tesoro di un breve presente in cui in città si respira ancora un’aria di possibilità. Tuttavia, le nuove costruzioni sociali che poggiano le basi unicamente sui retaggi del passato, illudendosi della loro vecchia sicurezza, sono le prime a fallire dopo qualche scossa di assestamento, progetti e format che sanno di stantio e durano poco meno di un anno. È proprio l’eccessivo attaccamento tipicamente bolognese alle eredità culturali del passato, minestre riscaldate per anni, ad aver assopito e appiattito le idee ma soprattutto le aspettative.

Se la mia generazione ha vissuto finora al posto del passeggero, guidata alla scoperta e all’ascolto da situazioni consolidate e pre-costituite, frutto delle esperienze rodate negli anni, con una libertà di scelta e di espressione personale che solo Bologna può dare, finalmente è arrivato il momento di rischiare. Il ricambio generazionale è ancora acerbo e tentennante, lento nella formazione come nella recezione di un feedback, ma in qualche modo è stato avviato. È un momento cruciale di rielaborazione di contenuti, formulazione di proposte, determinazione di un impatto forte sul suolo senza dimenticare le modalità peculiari con cui l’identità musicale di Bologna è stata costruita. Uno dei collettivi giovani che è riuscito ad agganciarsi meglio e con rapidità alla corda del passato è Bologna Hardcore, attiva non solo nell’ambito concertistico quanto nella destrutturazione di aspetti economici e sociali propri degli eventi universitari standardizzati, riuscendo allo stesso tempo a guardare oltre la staccionata, proponendo le attività ad un pubblico molto più allargato di quanto ci si possa aspettare. Ho chiesto a Tommy, uno dei regaz, di raccontarcene esigenze e ostacoli.

“Bologna Hardcore nasce nel 2011, le ragazze e i ragazzi che hanno lo hanno formato sono individui della realtà bolognese che tra un raduno punk in Montagnola, concerti in spazi autogestiti, assemblee varie si sono aggregati, allargando il gruppo col tempo e trovando sempre più affini. I motivi che ci hanno spinto a unirci erano tanti: la voglia di fare, di mettersi in gioco in prima persona, voglia di conflittualità contro la repressione. Man mano alle serate abbiamo conosciuto sempre più gente, e questo ci ha permesso di avere nuovi contatti con persone di qualsiasi estrazione musicale, conoscere altre realtà di Bologna e non solo.Abbiamo creato così nuove situazioni che vanno al di fuori delle logiche di profitto fine a se stesso, attraverso iniziative portatrici di tematiche come la solidarietà, l’antifascismo, l’anticapitalismo, l’antisessismo, e tanti altri." 

 Un momento dello sgombero di Atlantide, foto di Michele Lapini

"Fin dall’inizio sapevamo che per poter portare avanti il nostro progetto, con le nostre necessità, non avremmo potuto fare affidamento a spazi forniti dal Comune come Estragon e i vari circoli Arci, perché questi locali hanno un solo scopo: creare business  e spacciarlo per cultura (cultura che comunque non ci appartiene). Quindi grazie alla mentalità DIY ci siamo rimboccati le maniche. Le nostre iniziative e i concerti sono stati fatti inizialmente in luoghi di fortuna come parchi e centri sociali per anziani, e con il tempo, allargando il giro all’interno delle università grazie ad occupazioni temporanee,  siamo arrivati anche all’interno di spazi autogestiti come il circolo Iqbal Masih, XM24, Atlantide, Aula C di Scienze Politiche. Negli anni ci siamo impegnati, e proseguiremo ancora per creare nuove iniziative e concerti, per dare continuità a quei percorsi iniziati da quelli prima di noi, con l’intento di contrastare l’apatia sottoculturale ed esistenziale che ha generato il comune di Bologna con sgomberi e norme antidegrado, cercando di dare origine a punti di unione per i tanti che non sono alla ricerca unicamente di un divertimento ludico, ma anche di una comunione di idee, creatività e informazioni.”

Per una città architettonicamente ricca come questa, gli eventi itineranti, alla ricerca di luoghi di fortuna, possono trasformarsi in una caccia al tesoro di posti vuoti e abbandonati che aspettano solo una possibilità di rinascita e riscatto, aggiungendo ogni volta un nuovo tassello nel bel connubio tra l’esperienza urbana e quella musicale. La mancanza di spazi, un’illusione protratta dal Comune stesso, in cui far confluire le idee è una carta che Bologna ha saputo spesso rigiocare a suo vantaggio, ospitando nuovi progetti o allestendo una programmazione estremamente varia dentro situazioni già avviate. E’ il caso di Mint Sound, neonato incrocio tra un negozio di dischi con un’offerta selezionatissima, un home-party e un club che già propone live con una buona fetta di artisti e producer, il tutto all’interno di un magnifico fabbricato industriale in Cirenaica. Gianluca Ridolfi, ideatore del progetto assieme a Edoardo Cutrino, ci racconta il come e il perché di uno spazio polivalente.

 Mint Sound, foto via

“Mint Sound nasce dalla volontà mia e di Edoardo di dar vita ad uno spazio fisico in città specializzato in una selezione vinilica di solo ultime uscite di musica da club, a prezzi accessibili, senza dover ricorrere necessariamente all’acquisto online. Nessun capitale a disposizione, la soluzione è stata una campagna di crowfunding. La campagna ha avuto buon esito e dopo lavori di restauro DIY grazie all’aiuto di diversi soci competenti, a metà febbraio 2016 abbiamo inaugurato lo spazio. È stata una vera fortuna trovare l’appoggio dall’Associazione Culturale Studio SoundLab. È uno di quei gruppi di persone che con passione e lavoro restano fedeli alla natura dell’associazione: facilitare e promuovere la produzione musicale indipendente, tramite sale prove, studio di registrazione e etichetta discografica world music e jazz. Il Mint Sound si lega pienamente a questo scopo, incentrandosi su generi musicali contemporanei e favorendo la contaminazione musicale."

"Abbiamo scelto Bologna principalmente perché qui c’è interesse, seguito e molte persone appassionate come noi. Da qualche anno ci sono diverse realtà musicali che a mio avviso hanno creato una bella scena tramite proposte di qualità. Non perché prima non ci fosse, ma la vera forza di questa “generazione” è l’obiettivo di promuovere in primis qualità artistica, rivolgendosi quasi esclusivamente a chi la cerca. Del tipo: fai una cosa e impegnati a farla bene. La collaborazione nata genuinamente con Habitat è un esempio. Mint Sound, con le adeguate e necessarie tempistiche, punta a dare il giusto valore a questa scena dal punto di vista della produzione musicale locale. Un obiettivo ambizioso, ma ci crediamo, gli strumenti ci sono. Nel weekend siamo chiusi, nell’infrasettimanale puoi passare ad ascoltare le ultime uscite, portare i tuoi dischi e sfruttare il magnifico impianto in quadrifonia, ordinare, informarti sul servizio di stampa, registrarti un mix, leggerti un fumetto dalla simpatica libreria del SoundLab… tutto tramite il contributo associativo di 3 euro l’anno. Ci sono anche due sale prove e uno studio di registrazione, gestiti direttamente dall’associazione.  Ci teniamo sempre a sottolineare che se non fosse stato per il contributo di più di sessanta persone, il Mint Sound non avrebbe avuto luce. Un vinyl shop che nasce dal finanziamento volontario degli interessati… se non a Bologna, dove?”

 Mint Sound

Bologna Hardcore e Mint Sound sono due delle tante realtà under 30 musicalmente molto distanti che tuttavia dimostrano la volontà e la speranza di una rigenerazione culturale basata sulla comunione e lontana dalle logiche di profitto, ma soprattutto consapevoli del fatto che a Bologna siano ancora tangibili i presupposti per potersi buttare e rischiare senza piegarsi di fronte alle tendenze momentanee generate dalle masse. In questo senso, tuttavia, l’apertura a trecentosessanta gradi è una chiave fondamentale per sbloccare il meccanismo che occlude la partecipazione curiosa degli studenti da un lato e ingessa una campagna di following obbligatoria dall’altro, seguendo un sentimento di appartenenza musicale radicale e unidirezionale così obsoleto ma purtroppo così ben radicato nel tessuto bolognese. Quello che a volte manca è proprio una visione ad ampio raggio di ogni singola realtà, una condivisione a ventaglio che smonti le tristi, fossili dinamiche da paese e da parrocchia che bloccano fisicamente la città da troppo tempo.

Se l’unico luogo in cui non si percepiscono distanze tra mondi, squadre e generi musicali, dove si respira ancora quella libertà di cui sopra, è Atlantide, zona franca al confine tra Mordor e la Contea nella visione di Bologna di Blu, la chiusura della stessa, in un continuum post-Cofferati, ha messo il punto alla fine di un ciclo nella nostra spirale. In quello nuovo abbiamo di fronte un bel numero di punti interrogativi, ma altrettante variabili da giocarci. Non abbiamo ancora scelto la sconfitta.

Giulia fa parte della redazione di The New Noise. È nata e cresciuta a Bologna, quartiere Mazzini.

 

 

Pacman XII - Deuteros (Prod. Alan Beez)

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"Quando ho conosciuto Alan Beez - che per me è sempre stato Andrea e prima ancora Ninja - avevamo nemmeno 14 anni: io ero un essere fortemente sovrappeso con gravi problemi di balbuzie e socializzazione, lui era già il musicista che poi sarebbe diventato, un punk senza ancora sapere di esserlo" è la prima cosa che ci tiene a raccontare Pacman XII, rapper romano del collettivo romano Do Your Thang e che meno di un mese fa è uscito con un sorprendente LP in free download che si chiama Delta.

Quello che potete vedere qui sopra è "Deuteros" il secondo singolo estratto dal disco (il primo, "Daimon", è una bella bombetta che fareste meglio a rimediare). Continua poi a raccontare il suo rapporto con il produttore: "Frequentavamo entrambi il Liceo Scientifico e non avevamo nulla da spartire se non la passione adolescenziale per la musica in generale... e per fumare. Tra una boccata e l’altra tra scuola e Villa Pamphili abbiamo fatto della musica il nostro metodo di comunicazione essenziale: lui mi passava i Rancid e io gli facevo ascoltare il Colle, lui replicava con Drunk in Public dei NOFX e io gli passavo 950 di Fritz Da Cat e così via. Poi verso i 17 anni, dopo esserci persi di vista per le solite fluttuazioni che minano le nostre esistenze, è iniziato uno dei periodi più belli della nostra vita: gli Hot Drugs, la nostra formazione Punk Rock. Con Andrea (chitarra e voce), Eric (batteria) e Paolo (basso) abbiamo suonato all’inverosimile: box, sale prova, centri sociali, contest, festival, raccolte fondi, paesi, ovunque. Non ci importava nulla se non fare bella musica che ci divertisse e svoltare la birra (noi, Andrea è astemio) e un pasto caldo."


La copertina di Delta di Pacman, se ci premi sopra voli a scaricartela.

"Avanti veloce. Progetto Mayhem. Dopo 7 anni passati a suonare Punk Rock in ogni sua sfumatura ci siamo bagnati di nero, coperti il volto, aggiunto due componenti (Emanuele e Andrea Hiroki) e abbiamo seguito l’altra strada che ci aveva sempre legato, il nu metal. È stato difficile, soprattutto per me che ancora non avevo una mentalità “imprenditoriale” della musica, stare dietro ad una formazione di 6 individui fortemente intenzionati a produrre in un periodo in cui degli strumenti e delle band non importava quasi più niente a nessuno (almeno dalle nostre parti). 
Il tempo passa, cresciamo e alla fine succede: ci ritroviamo da soli in camera da Andrea con la voglia di continuare a comporre e creare e a me viene in mente un vecchio sogno che avevo nascosto nel cassetto anni e anni prima. "Fra ti va di curarmi le produzioni?" E da lì Red Lights Ent., Do Your Thang, il 2Loud4Crowd Rec Studio ma soprattutto noi due, Porno Pride Pisana Crew e il nostro primo EP puramente Hip-Hop “Porno Pride, Baby!! Vol.1”.
 Ora prendete tutto questo, concentratelo in 2 minuti e 40 secondi circa e affidatelo alla capacità compositiva di Alan, ai miei testi e agli occhi di Matteo Montagna di Alternative Productions.

Non siamo mai riusciti a vincere nulla se non l’approvazione del pubblico palco dopo palco, da quella prima formazione fino ad oggi. Il brano si chiama “Deuteros / I Numeri Due” perché il secondo posto è dove mi sento e - credo - ci sentiamo da una vita: in quella posizione particolare dove non sei ancora nessuno e sei spinto quotidianamente al confronto con tutti gli altri numeri, dall’1 prima e dal 3 in poi."

 

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Delta è disponibile in free download sul sito di Do Your Thang.

Questa rissa tra parlamentari turchi sembra un moshpit hardcore

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Il celebre gruppo hardcore originario del New Jersey Shattered Realm non dà sue notizie da un po' di anni, oramai. Ciononostante, la band rimane sempre molto simpatica sulla sua pagina Facebook, tanto che qualche giorno fa ha pubblicato un video che effettivamente fa riflettere, ma fa anche ridere. Il concetto dietro al video è che quei violentissimi moshpit dei concerti hardcore somigliano veramente tanto al parlamento turco. E c'è da dire che al parlamento turco i moshpit sono quasi all'ordine del giorno, come dimostra questo video del 2014. L'altro giorno però, la violenza è stata un po' più pesante: "Secondo NTV, parecchi parlamentari coinvolti sono stati feriti al labbro o agli occhi e sono usciti sanguinando dalla stanza in cui era riunita la commissione," sappiamo da FranceTVInfo. Come mai il clima è così hardcore? Fatevi un giro in Turchia e ne riparliamo. Fatto sta che con quell'inquadratura fissa e la musica sotto, la scena della rissa al Parlamento acquisisce toni quasi epici, una devastazione apocalittica da antico testamento.

A volte un commento musicale vale più di mille parole:


 

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Cosa sta succedendo al DalVerme di Roma?

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Gli Oneida al DalVerme. Foto via.

A volte dai per scontato che i posti che frequenti, nei quali hai passato metà della tua vita a buttarci sangue e sudore, rimangano lì in eterno proprio in virtù dell’ affetto che hai per loro: poi invece una mattina ti svegli e li trovi chiusi—senza motivo o comunque per motivi risibili—dal potere. Con un provvedimento che ricorda molto l’assurdità del “Processo" di Kafkiana memoria, gli amici e compagni d’avventure soniche del DalVerme si sono ritrovati costretti a smontare la baracca. Sono sette anni che questo circolo Arci è un punto di riferimento musicale a Roma ospitando concerti di indubbio valore, è gente che si fa il mazzo, insieme ne abbiamo passate tante. Questo non vuole essere affatto un articolo agiografico: al contrario. Se ho un problema con loro io vado direttamente dagli individui (perché di quello si tratta) e con una  modalità dialogica mi confronto, se fanno stronzate sono il primo a andargli sotto, se fanno suonare gruppi de merda glielo dico. Ma se uno arriva dall’alto, spegne la luce e sparisce nell’ ombra senza spiegazioni, lanciando accuse infamanti... Eh no, questa cosa riguarda tutti, non solo un buco di circolo. E quindi diamo la parola a Claudia, che da anni è una delle responsabili della programmazione artistica del Dalverme, e capirete che non possiamo più chiudere gli occhi di fronte al continuo latrocinio delle nostre intelligenze da parte di chi potete facilmente immaginare.

Noisey: Allora dimmi un po’ di quest’ordine di chiusura... Da dove proviene?
Claudia:
Be', l’ordine arrriva dalla questura di Roma—che ci imputa non s’è capito cosa... Una serie di reati assurdi. Pare stiano facendo un indagine preliminare su alcune accuse che ci imputano. Tipo che non siamo un’associazione culturale, che siamo un'attività di tipo commerciale travestita da associazione culturale, nonostante ci siano stati due interventi della questura stessa in cui non era stata rivelata in nessun modo questa cosa, perché non è stato trovato nessuno dei nostri soci senza tessera all’interno del circolo e neanche fuori, nessuno è stato trovato con bevande del nostro circolo fuori, mai. Sono state intervistate alcune persone che hanno saputo raccontare vita morte e miracoli del circolo e delle attività—tra l’altro una delle serate in cui sono intervenuti è stata la seconda serata di Thalassa, che è uno dei festival a livello culutrale piu riconosciuti, la gente che è venuta era anche da fuori Roma e sapeva perfettamente che cos’ era il circolo e che tipo di attività svolgeva, quindi questa cosa è surreale. Sono andati via con questi verbali in cui c'era scritto che la nostra è un’ASSOCIAZIONE CULTURALE, quindi non si capisce perché ad un certo punto, da che la questura stessa ha confermato questa cosa, il questore dice che non è un’associazione culturale.

E perché? Come mai?
AH non lo so! Sicuramente è un atto repressivo di tipo politico. Mi sembra ovvio, non vediamo altre ragioni altrimenti.

Ma forse c’erano delle antipatie nei vostri confronti? Che so… I vicini? 
Il discorso è che secondo me c’è stata sempre una strumentalizzazione delle lamentele…Questa cosa è stata sfruttata come strumento, come mezzo di coercizione. Tipo “disturbi il vicinato, ci sono degli esposti,” ma se questi esposti siano di uno, di quattro o di tutta una famiglia, o di tutta una strada, pare non faccia differenza, perché davvero basta che ci siano quattro persone che si lamentano ed è lo stesso. E poi non si sa bene neanche di cosa si lamentino, perché anche là ci sarebbe da discutere. Ci sono stati diversi interventi della polizia, dei vigili, anche dell’ARPA, che ha rilevato un disturbo, non chiedendo nessun tipo di chiusura ma semplici adeguamenti (che sono stati effettuati dopo sospensione della scia da parte del municipio con la nuova ripresentazione approvata dal municipio stesso), ma in nessun modo questo è base o giustificazione all'atto subito successivamente. Nell'ultimo mese c'è da dire che i controlli sono stati sempre più serrati: in 15 serate in cui eravamo aperti abbiamo ricevuto dieci controlli, ma nessuno ha rilevato nulla, nessuna di quelle chiamate ha avuto un esito. Loro stavano davanti a noi, si prendevano il documento e scrivevano chiaramente che non c’era niente di anomalo all’interno del circolo.

Be', io sono testimone dell’ infondatezza di tali lamentele, tanto che una volta proprio a livello dimostrativo ho fatto un dj set da voi solo di dialoghi a bassa voce o di gente che parlava, a volumi ridicoli. Nonostante questo sono riusciti a venire a rompere i coglioni lo stesso, vicinato con l’orecchio appizzato anche se non c’era un cazzo.
Esatto. Una volta sono riusciti addirittura a scendere e dire che c’era la musica a palla anche se il locale era VUOTO, essendo giorno di chiusura. Ma quando ci si inasprisce… cioè tutti abbiamo un vicino di casa anche dove viviamo, che magari ci rompe i coglioni perché facciamo un lavoro notturno, torniamo tardi la notte oppure facciamo una cena a casa con gli amici, teniamo lo stereo alto, teniamo la televisione alta o urliamo quando scopiamo. Io penso che il 90 percento della popolazione italiana abbia questo probelma. Quindi io non penso sia così strano che ci possa essere un vicino accanito, soprattutto quando non sei un vicino qualunque, ma sei un posto che aggrega delle persone, quindi è facile diventare un capro espiatorio della QUIETE DOMESTICA. Un’espiazione di evidenti repressioni personali. Ma da qui a quello che ci è stato detto ne passa, cioè ora ci accusano di non essere un’associazione culturale e di comportare un GRAVISSIMO PERICOLO…

Ma è assurda sta cosa.
 … ma ti dico io perché. Applicano l’ articolo cento del T.U.L.P.S, ovvero una legge degli anni Trenta, dell’ età regia, per dirti come stiamo, per sottolineare...

Be' retromania totale!
Eh sì, assimila la nostra attività quotidiana del circolo—quella di fare concerti, di aggregare, di associare persone, di parlare—ad un problema di ordine pubblico. Chiunque ha frequentato il circolo sa invece che è uno dei posti in cui i concerti finiscono prestissimo, di DJ set se ne fanno pochissimi e a volumi moderati, se non inesistenti. Come anche il nostro bar, che viene segnalato come POSSIBILE attività commerciale e in realtà è un bar e basta…

Spieghiamo meglio questo punto.
È normale che una associazione culturale offra un servizio ai soci come quello del bar. Ok? Il bar, specialmente quello del Verme, (anche qui chiunque l’abbia frequentato può confermare) offre nel nostro caso qualcosa di CULTURALE, perché Andrea, Francesco, Mario, i ragazzi che si occupano di star dietro al bar, sono appassionati di mixology, di birre, di vini, ma anche io e Marzia ...Insomma, ci piace bere bene e quindi abbiamo una scelta, abbiamo prodotti che vengono da microbirrifici, che noi promuoviamo culturalmente, cioè è parte del lavoro culturale anche far conoscere quei prodotti al più possibile numero di persone, di soci. Fortunatamente non esiste solo la birra Peroni: perché dobbiamo berci per forza la merda in un’associazione culturale? Quando sono diventata socia ci siamo incontrati anche su quella scelta lì, avevano dei vini da paura perché spingevano delle realtà particolari, ti spiegavano tutti i dettagli, di come si arrivava a quel vino...

A contributo  del socio.
Be' certo, sai le volte che uno arriva e dice "ao c’ho due euro…" è a contributi di risposta della materia prima alla fine che sono assolutamente quelli, perché io propongo prodotti che magari hanno un costo di materia prima molto più alto, perché sono prodotti particolari, locali, ma quella comunque è fare cultura. Cioè, incontrarsi per bere insieme un vino buono, particolare, e non il Tavernello, conoscerlo, o sapere che in un posto non vai solo a bere un cocktail, ma ti spiegano come viene fatto, la storia, le sue varianti… Tutti lo sanno che al bancone la sera, prima di consumare, minimo passano trenta minuti di chiacchiere.

Poi magari col Marziano che offre a caso!
Si, tra l’altro. Cioè il discorso che ci contestano sul bar commerciale è una fandonia. Perché se io sul sito scrivo la qualità del prodotto è perché sto veicolando cultura …È una scelta molto etica, direi anticommerciale, perché io non sto spingendo un prodotto dicendo “ti faccio lo sconto”, e non capitalizzo, no. Da noi lo puoi approfondire perché te ne parliamo e perché bevi una cosa buona che non conosci. È come la musica. Io spingo il mio concerto perché reputo valido quell’ artista culturalmente. 

Ecco, parliamo della musica, che è il vostro pane... Da quando è nato il Verme, sette anni fa, è diventato il punto di riferimento di certe scene.
Sì, o meglio di alcune scene italiane e internazionali. Questo perché innanzitutto io e Toni [Cutrone, NdR] che siamo quelli che curano poi nella fattività la programmazione musicale, cerchiamo di tenere un po’ insieme i pezzi.

E qui approfondirei un po’ la storia...
Be', come sai meglio di me, il problema nasce perché a Roma noi e i nostri amici—te compreso—non trovavamo un posto in cui suonare e in cui portare le band che ci piacevano. Da anni portavamo comunque queste band a Roma, ma eravamo costretti a farle suonare in situazioni spesso non adeguate, se non imbarazzanti. Si tratta, appunto, di persone che prendono attivamente parte alla costruzione degli eventi e propongono quotidianamente band, promuovono progetti che voglino sviluppare all’interno del circolo. Insomma, il circolo è nato da una necessità. E poi volevamo che fosse un posto con un taglio totalmente nuovo, totalmente nostro, nella nostra ottica e nella nostra modalità, e questo ci è stato abbondantemente riconosciuto.
 


Tu sei arrivata dopo, no?
Io attivamente un paio di anni dopo, ma le cose le ho incominciate ad organizzare anche io appena loro hanno aperto. Però conoscevo gli altri da tantissimo tempo, perché comunque abbiamo tutti sempre suonato, c’è da dire anche questo, siamo sempre stati attivi, da anni, ognuno nella sua modalità, nell’ ambito della scena underground romana, e non solo.

Tu sei la parte più hardcore, giusto?
Io sono quella un po’ più hardcore [Ride] però non è nemmeno troppo così… Più che altro sono quella che tiene insieme i pezzi di quel mondo, del versante HC, che vengono dalla cultura dei centri sociali, di squat e così via… Forse sarà per quello che ci danno dei delinquenti a caso? Però non sono solo legata a politche più "strong", forse perché mi ascolto anche la musica classica. Quindi poi paradossalmente mi trovo a occuparmi di act anche più sperimentali, che magari Toni non conosce, perché mi vengono proposti o perché me li vado a sentire, o perché magari ci collaboravamo con la mia etichetta. Toni si occupa più del versante psic-occulto sperimentale, e tiene i contatti con Blutopia, quindi il filone free jazz, jazz. Blutopia è un’altra associazione culturale al Pigneto in cui c’è Fabrizio Spera, uno dei primi batteristi free jazz che ci sono stati qui a Roma, e lui in particolare ha contatti con musicisti molto importanti. Grazie a lui abbiamo fatto suonare gente come Evan Parker, come Chris Corsano, Colonna, Mike Cooper… Davvero tantissimi.

Ma c'è spazio anche per il pop, tutto sommato, no?
Certo. Be' ad esempio tu facevi il festival Pop (o), ma per dire paradossalmente anche artisti che oggi sbancano, tipo Calcutta—che è un songwriter con una matrice molto pop—si sono fatti le ossa fra le mura del Fanfulla, altro circolo culturale fondamentale di zona, e poi sono arrivati al DalVerme. Calcutta ci cita anche in un pezzo del suo disco, fai te.

Quindi diciamo che coprite la musica a 360 gradi.
Sì certo, anche il post-rock, perché da precedenti esperienze avevo anche contatti più diretti con gruppi che facevano parte di quel filone quando andava un po’ più di moda a Roma. Siamo in contatto anche con band noise rock, di giri di amici, che sono davvero quelli con i quali hai condiviso tanto. E poi c'è tutto il versante post-hardcore, quindi cose più pesanti, un po’ più scure a livello di sonorità, più lente.

Be', ricordiamo anche il grande spazio dato all’ elettronica.
Certo, un altro grande filone che magari può essere noise o sperimentale tipo Tau Ceti, che ha suonato da noi spesso. Anche Alvin Curran è un nostro grande estimatore, doveva suonare da noi, ma con questa situazione abbiamo dovuto cancellare tutta una serie di eventi in programmazione. Ad esempio la Fuzz Orchestra, che fa parte di un altro filone ancora, quello del rock indipendente italiano, è stata costretta a suonare al 30 Formiche, che fortunatamente ci ha messo a disposizione i locali dell'associazione. E i Fuzz sono cresciuti passando appunto per il DalVerme. Bruno Dorella degli Ovo è sempre stato di casa, ha suonato tantissimo da noi. Questo è solo per fare qualche nome, perché facendo 100 e passa concerti l’anno, l’elenco della roba bella che è passata da noi è indescrivibile. Anche tramite l'etichetta Boring Machines sono passati dal Verme alcuni act molte particolari, che non erano per forza psich ma anche folk, ecco. C’è anche gente come Franz Rosati che ha un'etichetta di roba d’avanguardia in cui si costruiscono i programmi da soli. Con i membri della sua label ha addirittura tenuto una serie di seminari qui da noi.

Be', siete stati sostenitori anche della breakcore, dell’ extratone, dell’ 8 bit …
Certo, oltre alle serate fatte da Microma ci sono quelle specifiche di Cervello Meccanico del Dr. Pira, che comunque ci collega anche al mondo del fumetto, al mondo della street art. Sono tutti filoni nati da determinati fermenti culturali. Uno dei nostri soci è Larva 108 che suona con Pira in un progetto black metal, ed è uno street artist fra i piu riconosciuti al mondo. Andrea Co. ci ha decorato la porta gratuitamente per sostegno del Circolo, ed è uno street artist riconosciuto, Simone Tso cura i nostri flyer, la grafica, i dettagli e la storia di Luchino, il personaggio che ha creato apposta per noi. Da poco ci aveva dipinto la nuova porta... Re delle Aringhe e Cristina Marguerita, per le esposizioni del Thalassa, hanno creato alcune opere meravigliose, non solo di arte: di artigianato, quello della minuzia di disegnare a mano... Chi le ha viste ha ben presente. Abbiamo Silvia Sicks e Francesco Niccolai, che tra l’altro è anche un regista riconosciuto in ambito indie, che disegnano le nostre locandine—sempre come volontari. Tutte le persone che hanno reso vivo il DalVerme si sono sempre sbattute senza scopo di lucro, con la volontà di fare delle cose insieme e con la passione e l'entusiasmo, e questo, secondo me, ha reso il Dal Verme quello che è. Cioè non siamo noi che stiamo dentro, in realtà, sono tutti quelli che ci vengono che hanno costruito questo posto. E la risposta che c’è stata dopo la chiusura me l'ha fatto capire ancora di più. Ci sono state mille e passa condivisioni e potevo dire di conoscere tutte le loro facce, di conoscere quasi tutti personalmente. O sono passati per suonare, o sono habitué, o hanno comunque fatto qualcosa per questo circolo. Questo buco alla fine è enorme, è come un transito, è un porto dove la gente lascia il meglio di sé e poi parte per altri lidi. È un approdo sicuro in questo mare de merda, diciamolo.


Ma quale è stata la cosa più “commerciale” che avete ospitato, venendo incontro anche a chi non ce capisce un cazzo, tipo l’assessore? 
Beh a parte Calcutta che già dal nome del disco è uno Mainstream… [Ride] La parola commerciale ci fa venire la tigna, ma abbiamo avuto più che altro grandi maestri, conosciuti a livello nazionale e internazionale. Tipo Lino Capra Vaccina, che ha lavorato con Battiato. Basta leggere i credits dei dischi, ma anche Lori Goldston, la violoncellista dei Nirvana , Massimo Pupillo degli Zu che ha suonato con tutti praticamente, da Mike Patton agli Einsturzende Neubauten, Peter Brotzmann che è conosciutissimo... be', all’interno di Handmades abbiamo fatto Teho Teardo che vuoi o non vuoi conoscono anche i sanpietrini…Insomma da noi hanno suonato alcuni nomi conosciuti, accostati ad altri meno noti ma comunque rilevanti. Appunto in Pigneto Spazio Aperto e Handmades abbiamo ricevuto dei finanziamenti dal comune di Roma, gli stessi che ora dicono che siamo un'associazione a delinquere!

Be', quindi è una situazione nata da una cosa pre-elettorale…
Certo. In questo momento storico a Roma non ci sono regole. Siamo in pieno Far West sociale, culturale, legislativo. C’è una prefettura, un rettorato che al momento fondamentalmente gestisce la città, non c’è un sindaco con cui prendersela. È una scusa per poter portare avanti alcune azioni più o meno redditizie per alcune parti politiche, senza avere problemi di reali e vere ripercussioni gravi, almeno così pensano che sia. Il problema politico c’è, è che non c’è interesse e neanche attenzione a mettere sulla bilancia i due pesi e rendersi conto che abbiamo un circolo che è un fiore all’ occhiello... Ma come è stato per il cinema L’Aquila, nessuno ha fatto nulla.

Be' sì, ci sono dei precedenti inquietanti a Roma…
Mamma mia… Sulla città ce ne sono tantissimi. Sono stati sgomberati centri sociali che erano stati regolarizzati proprio con la scusa paradossale che erano stati regolarizzati! Le palestre popolari sono state sgomberate, Il Grande Cocomero, associazione che da decenni cura in maniera completamente libera ragazzi disabili con problemi pischici, è stato sgomberato. Le azioni sono arrivate a toccare addirittura Viva la Vita Onlus, che si occupa di malati di Sla… Non si guarda in faccia a nessuno! Dici vabè alla fine il circolo nostro è roba culturale, “non serve a un cazzo”, e invece poi non guardi in faccia neanche a problemi comprensibili da chiunque, anzi, li vai a manganellare? Vai a toccare il lavoro quotidiano di volontari e gente che prende degli stipendi da fame per fare lavori difficilissimi che non sono utili, di più?!? Questa gente copre, volontariamente, alcune voragini gestionali del Pubblico… Vienimi a dire che pure quelli hanno scopi commerciali. Li sgomberano come criminali tipo all’Auro e Marco a Spinaceto, hanno sgomberato la biblioteca sociale, in una zona che adesso è praticamente fantasma. Non era solo un posto dove studiare, ma anche un luogo d'incontro, senza che il ragazzetto debba per forza andare al baretto a farsi l’amaro o peggio a buttare la vita sulle macchinette o alle scommesse.

Pare che è questo che stanno promuovendo, più che la cultura.
Certo. Se tu rimani isolato nel tuo mondo, senza avere connessione con gli altri in quartiere già disagiato, dove spostarsi è difficile , dove rimani ingabbiato, tu sei facilmente controllabile dal potere e in teoria crei meno problemi, o comunque darti delle soluzioni facili è molto più semplice perché non poni troppe questioni. Questo è il discorso anche che ci sta dietro la stupidità e l’ignoranza di certe azioni politiche.

Insomma svuotare il cervello alla gente per poi riempirlo di ...Nulla.
Sì, ma i politici mettono in difficoltà questi posti per raccattarsi magari veramente 4, 5 o 10 voti, quelli del vicino che si lamenta per il rumore, perché vede ragazzi sotto casa e non capisce cosa succede, e così via. Spesso dietro non c'è neanche questo grande, nobile, e oscuro disegno politico, ma c’è proprio la stupidità di dire VENDO , SVENDO, DO ALLE ORTICHE UN POSTO, non voglio nemmeno sapere cosa ci fanno dentro, perché mi guadagno dieci voti facilmente.

Che poi è quello che è successo al Pigneto Spazio Aperto, da luogo riqualificato al trionfo dei tossici.
La dinamica è partita anche lì da delle lamentele di alcuni vicini: anche lì sembrano esserci state alcune pressioni politiche, poi il parco è stato lasciato nuovamente allo sbando dopo che noi c’eravamo fatti il culo per renderlo vivibile. Quindi in seguito alla chiusura c’è stata una rivolta popolare al contrario perché gli altri abitanti del quartiere hanno detto “ma come... Non gli avete ridato il parco? È vero, facevano i concerti, ma alla fine quel rumore era tollerabile, soprattutto rispetto alla situazione attuale.” Anche perché noi siamo sempre stati precisi con gli orari, Pigneto Spazio Aperto non era una situazione complicata da gestire, non ci sono mai state risse , nulla di tutto ciò. Mai problemi di ordine pubblico neanche a Handmades, né tantomento al Verme in sette anni: manco uno che ha detto “te do na pizza in faccia”. Perché non è questo il clima che c’è all’interno del Circolo. Quindi a me fa ridere il fatto che tu, potente di turno, decidi di non riapprovare il nostro progetto un po' per paura di perdere voti un po' per volertene accaparrare. Latiti, lasci che le cose vadano da sé e non ti rendi conto che c’è un’altra parte della popolazione, pure più consistente di quella che si lamentava, che ti dice chiaramente che il parco che hai fatto chiudere ora si è trasformato in un covo di spacciatori. E quindi non capisco perché da questi signori mi devo sentir dire in finale, tra le righe,  che lo spacciatore sono io, che io all’interno del mio Circolo promuovo dell’illegalità, che l’attività ricreativo-culturale che svolgiamo è un PROBLEMA SOCIALE (!????!?). A casa mia l'esistenza di un Circolo del genere significa forse che non te vai a fa ‘na pera, ma vieni al Verme perché preferisci ascoltare del drone-noise isolazionista, no? Per loro invece è un problema sociale. Abbiamo scoperto che il drone è peggio dell’ eroina, pensa un po’ in che cazzo di mondo viviamo.

Ok allora  faccio la domanda da avvocato del diavolo. Siete davvero sempre stati in regola?
Certo, perché siamo un associazione. Mai commesse illegalità. L’illegalità è: te sei scordato di mettere il cartello vietato fumare? OK, questo sarebbe un reato passibile di chiusura immediata? Nessuno ha mai fumato all’interno del circolo. Magari possiamo commettere degli errori o abbiamo potuto commetterli, ma questo succede perché le normative cambiano ogni tre secondi e per stare in regola devi sempre correre appresso alle leggi. Però ti assicuro che abbiamo sempre messo tutto assolutamente a norma: l’impianto è completamente in regola, abbiamo un impianto di areazione sia al piano di sotto che a quello di sopra, abbiamo insonorizzato la sala concerti con lavori che sono costati una cosa come 30mila euro, è un lavoro grosso e anche lì chiunque sia stato al Circolo sa che stando al piano di sopra non arriva nessun suono dal piano di sotto, nel quale c’è il gruppo che suona. E l’impianto è anche buono, cristallino. Al gruppo diamo tutta la possibilità di potersi esprimere cercando di non dare fastidio agli altri. Siamo sempre stati attenti, non si può stare fuori con la birra, è così e basta. Certo, forse non abbiamo esposto le tabelle degli alcolici, e vabbè, nessuno è infallibile, ma questo non ha niente a che fare con le ingiunzioni che improvvisamente ci impediscono di somministrare bevande, di fare concerti. 

Abbiamo sempre cercato di stare nella legalità perché nessuno vuole problemi e perché soprattutto ci teniamo al posto in cui stiamo. E vorrei sottolineare, come già sottolineato, che quest'anno abbiamo ricevuto visite continue di polizia, questura, carabinieri, vigili, veramente non lo so... Mancava solo la forestale! Magari dovevano mandarcela per capire come stavano gli alberi di fronte al Verme! [Ride] E nessuno ha mai rilevato alcuna irregolarità. Quindi vorremmo capire, e spero ce lo spiegheranno, se il provvedimento andrà avanti, viste le cose infamanti che ci sono scritte nei verbali. A quanto pare per ora la Questura non ha voglia di risponderci al telefono, chissà come mai.

Quali sono quindi i prossimi appuntamenti per mobilitarsi in tal senso?
In queste ore la moblitazione è stata soprattutto mediatica. In realtà il calore l’ho sentito reale, la gente si è mobilitata proponendo cose da fare, eventi benefit, incontri con gli altri circoli Arci di zona come il Fanfulla e il 30 Formiche che vogliono capire come procedere con un piano d’azione comune. Già ieri con i Fuzz Orchestra abbiamo iniziato i benefit. Poi ci saranno altri eventi in posti occupati come l’ex Snia, il Brancaleone e altri spazi che non conoscevamo, come associazioni di teatro. Insomma, ci stanno dando la disponibilità per recuperare concerti e iniziative. Ma anche, per dire, da tutta Italia e anche fuori dall’Italia ci hanno proposto eventi a favore del Verme, la ToLose LaTrack ci ha proposto di fare delle compilation in cassetta contenenti brani di gruppi romani legati al Verme insieme ad altri gruppi della ToLose legati al circolo, e il ricavato verrà dato alla causa. Onga di Boring Machines ha messo tutto il catalogo in scarico a 49 euro (meno di un euro a disco) e anche lì il ricavato è tutto per sostenere questa situazione. Altri soci singoli come Carlo Cimmino, che riprende da sempre i concerti col suo microfono, volevano sostenerci. Insomma, la risposta è stata incredibile. Se non è associazionismo questo...

E cosa ti aspetti alla fine?
Noi riapriremo: riapriremo e non ci chiuderanno più.

DOMANI MARTEDÌ 10 MAGGIO andremo davanti al Municipio alle 10.30, una manifestazione spontanea per far sì che il Municipio accetti di incontrare una delegazione del Circolo. È importante essere un numero sostanzioso, ovviamente spargete la voce a quanti possano venire, ci rendiamo conto che è mattina e molti di voi lavorano, ma fate mente locale per il supporto. Il Municipio è a VIA DI TORRE ANNUNZIATA, Centocelle, dietro la Rampa Prenestina, vicinissimo alla fermata della metro C TEANO. Vedrete un sacco di macchine della municipale: beh, siete arrivati. Per il resto, andate sul sito del DalVerme.

 

 

Fuori dal TEMPO con Leland Did It

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Foto per concessione di Leland Did It.

Leland Did It è la citazione di Twin Peaks dietro cui si nascondono cinque baresi con un tavolo. Il tavolo è pieno di sintetizzatori, da cui la band tira fuori scheletri di pezzi che sanno un po' di synthwave e un po' di elettronica martellante. I veli che incorniciano gli scheletri arrivano sotto forma di strati di strumentali post rock. Gli inquietanti rubini nelle orbite vuote sono la voce drammatica dalle tinte new wave.

Il loro nuovo album, composto di dieci pezzi con la sopradescritta atmosfera rock su un impianto squisitamente elettronico, si chiama TEMPOCi si può abbandonare al flusso onirico dei pezzi, che sembrano estratti da lunghe improvvisazioni svolte alla luce delle candele e dei led dei sintetizzatori, oppure spararselo in cuffia camminando per la propria città, o un'altra città, e farsi un sacco di viaggi su che cosa è reale e importante e che cosa non lo è, cercare di piegare le travi di ferro dei palazzi con i sentimenti, cose così. 

TEMPO esce per la Piccola Bottega Popolare questa domenica e lo potete ascoltare in anteprima premendo play qua sotto. Da domenica 15 sarà disponibile in tutti i negozi digitali e di materia concreta.

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