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Lo strano mondo dei concerti italiani all'estero

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Ligabue senza photoshop seduto sulla Royal Albert Hall

Sfida: ditemi almeno dieci artisti e/o gruppi italiani che siano effettivamente famosi all’estero. Diciamo, che possano fare sold out in un club di media grandezza, 700 posti, in una grande capitale europea. Avete trenta secondi. Via.

...

Avete detto Afterhours? Verdena? Marlene Kuntz? 99 Posse? Sud Sound System? Vinicio Capossela? Caparezza? Canzoniere Grecanico Salentino? Mi sa che avete detto bene. Sono tutti esempi di artisti nati nella Penisola che, all’estero, fanno vendere biglietti. “Ma Elia”, dice il vostro bambino interiore un editor di Noisey a scelta, pestando i piedi e mettendo su il nuovo LP collaborativo tra i Boris e Merzbow, “fanno tutti cagare!” Be', magari sì, fanno cagare. A voi. E chissà, forse anche a me. Ma non a un sacco di altra gente, che riempie i loro concerti a Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Barcellona. 

“Povero coglione”, ribattete in questo fantastico dialogo che sto usando come espediente narrativo per introdurre l’articolo, “ma tanto a vedere le band italiane all’estero ci vanno solo gli italiani!” E anche qua, nella maggior parte dei casi, non avete affatto torto. Ad esempio: secondo statistiche ufficiali, nel Regno Unito vivono più di 200.000 italiani ufficialmente registrati—tra cui l’autore di questo pezzo, che sta a Londra. Unendo le persone non registrate al totale, si arriva facilmente al mezzo milione di esseri umani, creando un bacino di potenziale utenza non indifferente per un promoter di concerti. 

I macro-ragionamenti che possono scaturire da questo fatto sono due. 1) “Che figo, anche chi vive lontano da casa può andare a sentire la buona musica italian. E il tour è pure un’occasione per i gruppi di confrontarsi con nuove realtà, conoscere nuove persone, magari iniziare ad aprirsi nuove porte. Bene così, ragazzi.” e 2) “È una farloccata clamorosa: una band italiana che suona di fronte a un pubblico di italiani espatriati è solo un’espressione della triste provincialità che abbiamo nel sangue, non un segnale di successo dell'esportazione. È per cose come queste che la musica italiana resta derivativa e non riesce ad essere qualitativamente figa e competitiva a livello internazionale”. 

Ora: è questione di punti di vista, e per oggi sospendiamo il giudizio. Siamo qui riuniti, anzi, per cercare di capire quali siano i motivi di questa polarizzazione dell’opinione riguardo al concetto dell’ italiano all’estero, ugualmente preso per il culo e glorificato ogni volta che lo si tira fuori—durante le conversazioni che facciamo all’aperitivo o in articoli sui siti del cazzo per gli italiani a Londra

“Quando organizziamo il tour di un gruppo italiano non dovremmo guardare la cartina dell’Italia ma dell’Europa”, mi spiega Attilio Perissinotti, ex-Virus Promotion, ora patron di BPM Concerti e—per l’estero—TIJ Events. “A Parigi ci sono 200.000 italiani. A Londra ce ne sono 500.000. È più probabile che Il Teatro degli Orrori faccia sold out qua che in Friuli, no?” Da un punto di vista meramente economico, non fa una piega. Attilio ha iniziato a organizzare concerti all’estero quasi per sbaglio, nel 2008, per divertirsi e togliersi uno sfizio: “Avevo preso il Barfly, a Camden, per due giorni. Un martedì e un mercoledì. Ho fatto tre gruppi e tre gruppi, e l’ho chiamato The Italian Job.”

“C’erano i Casino Royale, i Tre Allegri, gli Hormonauts—che andavano fortissimo, soprattutto all’estero, dato che avevano un cantante scozzese.” Il risultato furono 200 persone a sera, un locale stracolmo e, qualche giorno dopo, una telefonata dal management di Vinicio Capossela. “In quel periodo, un promoter estero non avrebbe organizzato un suo concerto neanche con una pistola puntata contro”, mi dice. Di fronte al Barfly c’era un altro locale oggi defunto, il Dingwalls: Attilio pagò qualche centinaio di sterline, prese il locale, e organizzò la cosa. Sold out, 600 persone. Poi una chiamata dall’entourage di Ligabue: due date al KOKO, altri due successi. “Ma non sarà mica che mi sono trovato un nuovo business?”, mi racconta Attilio sorridendo.

Aprire una società nel Regno Unito non è affatto complesso, e fu così che nacque TIJ Events. Inizialmente, mi spiega Attilio, c’era il pensiero di allargare gli affari: non solo concerti ma magari una distribuzione, un’etichetta. “Poi ho detto, ma chi la compra ‘sta roba? Solo gli italiani. Facciamo solo i concerti, và. E in effetti è vero: facciamo concerti per gli italiani. Ma che male c’è? Ovvio che se Larsen suona a Cafe OTO di fronte a 150 inglesi sono felice, ma questi sono concerti di comunità. Uno dice, “Perché Caparezza fa sold out a Londra?” Perché ci sono 1350 pugliesi che vogliono andare a vederlo, semplicemente. Gli spagnoli fanno la stessa, cosa, come anche i polacchi.” 

Come capita, però, che alcuni artisti riescano effettivamente a sviluppare un seguito oltre confine? Un esempio è il sopracitato Capossela, che ha trovato una chiave nella percezione del suo prodotto come world music: così come noi possiamo trattare i Songhoy Blues in questa chiave, MOJO può dargli il disco del mese e un centro culturale di prim’ordine come il Barbican Centre può prendersi bene e presentarlo sotto una chiave internazionalista. In questa diversità percettiva sta, anche, l’effettiva possibilità di costruzione di una propria dimensione extra-italiana.

I risvolti positivi degli eventi che organizza, mi dice, sono tanti. Da un lato, c’è il classico ma sempre valido angolo della crescita artistica e mentale dei musicisti coinvolti. Ad esempio “un gruppo inglese che suona al Garage di Islington prende l’incasso, non un cachet fisso. Questo, da noi, quasi non esiste.” C’è inoltre un discorso di tempistiche e di professionalità: “Scommetto che vai più a concerti dal lunedì al giovedì che nel weekend”, mi dice. Glielo confermo. “Perché da noi si suona solo il venerdì e il sabato, a partire dalle undici e mezza, mezzanotte. E quindi le band italiane non sono generalmente abituate a fare anche solo cinque concerti di fila, mentre un gruppo inglese ne fa anche trenta in trenta giorni. Poi, iniziare un concerto alle sette e mezza da noi è improponibile. Anche se lo fai iniziare alle nove e mezza la gente arriva incazzata. Però se ne va felice, perché ha tempo di tornare a casa a un orario umano.”

A questo si affianca anche una diversità nei ruoli della promozione musicale: “I locali, qua, non sono promoter. Affittano la sala, non fanno concerti. La Union Chapel costa 2200 sterline, per dire. Che sembra una cifra alta, ma non lo è. Impianto, audio, luci, tecnici, sicurezza, cassa: è tutto compreso nel prezzo.” 

L’approccio di Attilio è quindi sul lato propositivo dello spettro: anche se ammette candidamente di non essere fan di parte della musica che promuove, e che il rock cantato in italiano non lo ha quasi mai convinto, TIJ fa comunità: offre agli espatriati la possibilità di un breve ritorno alle origini, accoglie un bisogno di italianità e lo soddisfa in un’ottica imprenditoriale. Ma lo fa affiancandoci un’enorme lucidità sullo stato di cose della musica italiana in un contesto europeo, declinato nella diversificazione delle proprie promozioni. “Io sono stato uno dei primi italiani a girare le fiere di settore in Europa”, mi spiega Attilio, descrivendo un mondo ambivalente. Eventi come il [defunto, nda] PopKomm di Berlino, il PrimaveraPro di Barcellona, l’Eurosonic di Groeningen o il MAMA  di Parigi sono convention in cui gli addetti ai lavori del settore musicale si incontrano con l’obiettivo esplicito di fare rete. Ovviamente non solo solo le agenzie di booking a presentare i propri stand: sono anche, e soprattutto, i vari Music Export Office europei. Ma che cos’è un Music Export Office

Detto terra terra: un Music Export Office è un ufficio statale che aiuta i gruppi della propria nazione a suonare oltre confine. Ce ne sono una caterva: quello islandese è grossissimo, così come quello austriacotedesco , francese, scandinavo. In Spagna ce ne sono tre: uno centrale, uno in Catalogna e uno in Galizia. Tutti si ritrovano ogni anno in fiere internazionali, in cui avvengono scambi di artisti, si instaurano collaborazioni, vengono fatti affari. Attilio mi racconta di avere organizzato concerti in festival europei per un sacco di artisti italiani in occasioni simili, e come controparte mi porta la testimonianza di uno stand della RAI con annesso concerto dei semi-inesportabili Baustelle a suonare dal vivo e di un epico baraccone della SIAE (“Presente il classico stand da ricchi?”) snobbato da tutti in quanto privo di informazioni effettive sulla promozione di artisti nostrani. E stop, perché in Italia un Music Export Office non è mai esistito. 

Almeno, non è mai esistito a livello nazionale: se consideriamo le regioni, dobbiamo allora necessariamente parlare dell’esperienza di Puglia Sounds. “Fondamentalmente l’obiettivo è quello di creare azioni di sviluppo del sistema musicale pugliese”, mi spiega Antonio Princigalli, coordinatore del progetto, unica realtà italiana di derivazione pubblica atta esclusivamente alla promozione internazionale di un nostro prodotto musicale. “Consideriamo la musica come una filiera complessa fatta di festival, artisti, case discografiche, imprese”, mi dice. Si parla di “valore culturale”, ma anche di “valenza imprenditoriale”: la musica pugliese come comparto produttivo, insomma. E in quest’ottica, l’esportazione diventa fondamentale. 

C’è una preoccupazione legittima che potrebbe venirvi in mente, a questo punto: dato che siamo un paese in cui il ministro della cultura fa gli shoutout a Zalone, chi garantisce che un’agenzia del genere non ricopra di soldi, boh, La scapigliatura? (Fine del dissing, sorry). Qua ritorna il caro vecchio valore della tolleranza: per quanto sia sano e giusto spingere per una cultura, e quindi anche musica e critica, italiana come struttura effettivamente tesa ad un arricchimento dei propri fruitori, nessuno può effettivamente decidere in cosa questo arricchimento consista. Quindi, per quanto potrebbe piacervi, non potrete mai imporre alla gente di non ascoltarsi più la roba di Garrincha, i canti degli alpini o la pizzica dub. E, ugualmente, nessuno impedirebbe a questi di prendersi soldi statali per suonare all’estero: questo non significa però che chi davvero ha un’attrattiva e un pubblico internazionale (un Donato Dozzy, un Teho Teardo) non possa effettivamente goderne lo stesso. 

Mi spiego meglio: così come i Marlene Kuntz suoneranno sempre di fronte a un pubblico quasi interamente italiano, anche in Norvegia ci sarà una band alt-rock famosa che canta in norvegese e quindi con zero possibilità di sviluppare un pubblico estero. Il trick, qua, sta nel modo in cui un Music Export Office (teoricamente) funziona. Antonio me lo racconta nel dettaglio: “Da un lato lavoriamo sulla mobilità artistica, creando relazioni con festival, operatori, associazioni internazionali, creando una situazione a chilometro zero.” In poche parole, Puglia Sounds finanzia i viaggi – ma non con la benda sugli occhi. “Noi non entriamo nel mercato, il mercato si deve fare per conto proprio. Se, anche in virtù delle nostre sollecitazioni, il festival X ritiene utile e interessante programmare artisti pugliesi, questo li sceglie e noi contribuiamo perché la cosa accada”. Un’altra via percorribile sono i bandi pubblici: “Chiediamo agli operatori, alle agenzie italiane ed internazionali che tipo di programmazione di artisti pugliesi intendono fare nei 6 mesi successivi. Loro ci mandano le loro proposte, in cui non ci dicono semplicemente ‘Vogliamo fare 6 date della band x nel luogo y’. Ci devono dire come intendono fare promozione, in quali luoghi, se i musicisti ci sono già stati, quali sono i risultati e le evoluzioni di questi gruppi in questi singoli paesi”. A valutare l’efficacia della proposta è poi una commissione dedicata, e solo dopo parte il sostegno economico.

A quanto mi dice Antonio, i musicisti che dati alla mano – e quindi oggettivamente – hanno più saputo capitalizzare sulle opportunità causate dal loro essere pugliesi sono il Canzoniere Grecanico Salentino (che, zitti zitti quatti quatti, fanno tour americani con biglietti a 15/20 dollari in locali sul migliaio di posti e si beccano le rece sul Guardian, i Kalàscima, i musicisti jazz Nicola Conte e Gianluca Petrella – e Populous. Morale: possono anche farvi cagare la musica tradizionale, la taranta e il jazz, ma se comunque vi prende bene la musica del caro Andrea Mangia (come, personale opinione, dovrebbe essere) ci guadagnate comunque. Perché proprio loro, però? “Usano linguaggi indubbiamente più internazionali”, dice Antonio, “Vale molto quanto sei capace di creare opportunità.” Non molto diversamente dalle logiche del lavoro culturale contemporaneo: se riesci a conoscere gente e continui a proporti, se sei bravo e con un po’ di culo, magari ce la fai anche a lavorare con qualcosa che ti piace. Non è solo meritocrazia, ma nella musica il merito è – fortunatamente o meno – soggettivo. 

Quanti concerti di Bregovic, o dei Daft Punk, hanno solo pubblico serbo o francese?”, mi chiede Antonio quando gli chiedo della nazionalità delle persone che si presentano ai concerti che Puglia Sounds sponsorizza. “Non c’è niente di male se faccio 50 date all’estero e queste sono piene di cittadini italiani. E se sono a Londra è probabile che mi porti il mio amico di casa o di studi che è inglese, pakistano o altro. Ma se io esporto il vino pugliese, che lo comprino gli italiani o che lo comprino i locali, qual è la differenza?” Da un punto di vista imprenditoriale e di guadagno nazionale, nessuno. Da un punto di vista artistico, forse qualcosa cambia: ma, penso, non tanto da minare il senso dell’iniziativa Puglia Sounds. D’altro canto, un prodotto identitario come può essere quello del Canzoniere Grecanico Salentino avrà sempre e comunque la sua audience, fatta di pugliesi e gente interessata alla world music, ovunque si trovi nel mondo, che ci piaccia o no. 

Resta che l’assenza di un Music Export Office danneggia la musica italiana in toto anche solo perché ci abitua a lavorare in modo diverso rispetto allo standard europeo. In un contesto privo di risorse, il cambiamento sta nella volontà del singolo, o dei singoli, di raggiungerlo – e anche da un po’ di casualità, che non fa mai male. Ed esempi virtuosi ci sono: abbiamo quindi parlato con un paio di soggetti italiani che non si pongono come obiettivo i-concerti-per-gli-italiani-all-estero, ma la pura promozione di artisti italiani in un contesto internazionale. Nello specifico Club to Club, tramite il progetto the Italian New Wave, e due agenti indipendenti stazionati a Berlino, Anita Richelli ed Ercole Gentile.

Conoscendo il sistema italiano, e il sistema-musica italiano, non ho molta fiducia sull’utilizzo meritocratico di eventuali fondi”, mi dice Guido Savini di Club To Club al telefono, direttamente da un affollato bus torinese – “Chiaramente fa sempre ridere dover dire a un olandese che, in Italia, non ne abbiamo.” Gli ho appena chiesto che cosa succederebbe secondo lui se esistesse un Music Export Office italiano, e la sua opinione non è delle più speranzose. Ma lo è senza particolari lamentele, anzi: “Ovviamente parliamo con un sacco di altri festival con l’obiettivo di portare a suonarci artisti italiani, e a un certo punto negli scambi di mail arriva sempre la domanda: ‘Ok ottimo, riuscite a trovare dei fondi?’ E ogni volta dobbiamo spiegare che siamo l’unico paese in cui questi fondi non esistono. In questo momento li stiamo mettendo noi.” 

E C2C fa bene a sentirsi il cuor leggero, dato che è una delle pochissime realtà di organizzazione eventi effettivamente internazionale del belpaese. Nello specifico, Guido si occupa del progetto The Italian New Wave (su cui abbiamo appena pubblicato un documentario, piattaforma di promozione dedicata a musicisti elettronici italiani.) “Perché C2C sia quello che vuole essere per la scena italiana, deve per forza pensare al territorio nazionale” mi spiega Guido. Il nome dell’iniziativa viene da un tweet di James Holden che, durante un set di Vaghe Stelle all’edizione 2010 del festival, commentò con un “Qualcosa sta succedendo in Italia: l’Italian New Wave”. E quello fu il punto di partenza di un lavoro costante di promozione, fatto con criterio. Un’esperienza che può servire da esempio perfetto per dimostrare la realtà dietro al luogo comune per cui noi italiani, quando siamo senza risorse, ci sbattiamo e magari qualcosa di (molto) bello lo tiriamo fuori comunque.

Ogni anno il festival porta giornalisti da tutto il mondo a Torino, e una domanda fissa è ‘Parlateci dei vostri artisti locali’. Un sacco di loro, se escono, escono su canali molto underground e non vengono promossi sul territorio nazionale. Abbiamo quindi pensato di promuoverli sia all’estero che in Italia”. Come? Come funziona nel mondo dei media contemporanei, tramite contatti stretti negli anni. A forza di proporre eventi e di invitare artisti sempre un po’ più famosi, C2C è riuscita a stipulare accordi di promozione con realtà coi controcoglioni: “A dicembre 2014 è stata fatta uscire una compilation su Bleep [piattaforma di proprietà Warp Records, nda], con una serie di inediti degli artisti della scena, che è stata poi seguita da una stessa iniziativa per la Germania e la Polonia.” Inoltre, da anni C2C organizza eventi a Londra interfacciandosi con realtà locali come il Field Day Festival, inizialmente affiancando artisti e internazionali culminando, l’anno scorso, con uno showcase di Ninos Du Brasil, Vaghe Stelle e Not Waving sponsorizzato da un centro culturale prestigiosissimo come il Barbican. Risultato? Ce lo dice Guido: “Il Guardian è venuto al festival e, invece di fare la recensione del concerto di Thom Yorke, ha fatto un pezzo proprio sugli artisti italiani”. 

Contatti, dicevamo: oltre a quelli ricavati per via digitale e/o organizzativa, chiedo a Guido che cosa ne pensa degli eventi di networking per gli addetti ai lavori di cui abbiamo parlato sopra. La sua opinione è che questi non siano il punto focale della questione: “Sì, siamo sottorappresentati. Ma lo siamo il giusto per quanto possa essere rilevante il mercato italiano.” D’altro canto un promoter, che “acquista contenuti musicali e li porta nel proprio paese”, deve stare attento a non impelagarsi in situazioni rischiose per fare bene il suo lavoro: e allora un’Italia disabituata al modus operandi europeo si trova inevitabilmente messa da parte. Il contributo di realtà come Club to Club diventa quindi fondamentale per tenerci all’interno di un’ideale mappa della cultura europea: “Negli anni siamo riusciti a metterci al livello dei più grandi festival. Abbiamo agenzie che ci scrivono e ci danno la priorità per certe proposte. Di rimando, noi proponiamo artisti italiani. È questo il nostro gioco.” L’elettronica di casa nostra ringrazia, e chissà cosa sarebbe successo se, 15 anni fa, altre realtà concentrate su altre forme musicali avessero preso forma sul nostro territorio. 

Quando trattano artisti italiani, Anita Richelli ed Ercole Gentile organizzano un concerto ogni due, tre mesi. Entrambi vivono a Berlino e sono semi-indipendenti nelle loro attività: Anita lavora come agente all’interno della tedesca Paper & Iron Booking, che le lascia libertà di selezione riguardo agli artisti che promuove; Ercole, invece, procede in modo indipendente e, tra i suoi vari progetti, gestisce anche le date tedesche di qualche gruppo nostrano. Lei ha lavorato con Any Other, C+C = Maxigross, His Clancyness, Be Forest e Iosonouncane; lui con Verdena, Dente, Zen Circus, Paolo Benvegnù, Lo Stato Sociale e molti altri. Nel primo caso, nomi più particolari – nel secondo, realtà più assimilabili alle logiche concerti-per-espatriati che abbiamo trattato con Attilio di TIJ. Entrambi, mi pare, sono esempi di come la promozione della musica italiana all’estero ricada sulle spalle di singoli, e di come le reti di collaborazione nascano esclusivamente dall’iniziativa personale.

Ercole, ad esempio, mi parla di una nascente partnership tra locali gestiti da italiani tra Berlino, Parigi e Bruxelles: “Organizzando cose simili e con uno stesso target è a favore di tutti riuscire a dare agli artisti l’opportunità di fare più date possibili per cercare di ammortizzare i costi.” Chiaramente questo è fattibile principalmente per proposte in cui non serve un grosso palco, e quindi cantautori. Quando si ampliano le dimensioni dei locali, la situazione è simile a quella londinese: “Spessissimo andiamo a biglietti e non a cachet fisso. È come se facessimo una coproduzione direttamente con la band. A fine serata, tolte un tot di spese, si divide l’utile tra l’organizzazione e il gruppo”. Perché questo abbia senso è necessario un lavoro preparatorio sotto forma di una promozione locale, che a volte Ercole gestisce personalmente e ha visto avere maggior riscontro di publico con gruppi come Calibro 35, Mellow Mood e Julie’s Haircut – proposte non legate ad un cantato in italiano e quindi probabilisticamente più adatte all’esportazione, ma anche supportate da un efficace lavoro di ufficio stampa locale e nato dalle stesse band.

Ma la lingua del cantato, secondo Anita, non è fondamentale quando si parla di esportazione musicale: “L’internazionalità del progetto non esiste, non è legata al prodotto musicale di un artista ma al suo modo di ragionare. Tutti i gruppi italiani che stanno avendo un po’ di successo all’estero ci hanno investito tanto tempo andando a suonare in giro, o hanno gente che ha investito su di loro mettendoci uffici stampa e voglia di portarli ai festival importanti”. Se questo non accade è per una generale disabitudine a logiche organizzative estere: scrivere a un locale tedesco non porterà nulla a una band italiana, mentre un contatto con una band, un promoter o un collettivo locale porterà con sé sicuramente più probabilità di collaborazione – confermando quello che ci diceva Attilio Perissinotti su Londra.

Mi dispiace che ci sia pochissimo scambio tra zone limitrofe, e per l’Italia parlo di Svizzera, sud della Germania, Austria, Slovenia, Croazia, Serbia e Macedonia”, enumera Anita. “Quando mi metto a lavorare con un promoter austriaco, questo magari conosce benissimo i miei amici e conoscenti di Belgrado, ma neanche un italiano. Non è che ho statistiche alla mano, ma in questo ambiente ci si conosce tutti. E quindi è un po’ triste.” La stessa distanza si percepisce agli eventi di settore: Anita mi parla poi del MENT, un semi-neonato incontro a Lubiana, cinque ore di macchina da Milano: “Le uniche due italiane eravamo io e Katia di Estragon, che aveva partecipato un anno prima con i Joycut. Io quest’anno ho portato gli Any Other. Se sei del settore è una figata: conosci tantissima gente che lavora nei locali, nei booking, nei festival. Per una band deve essere invece un’opportunità, una scusa per promuovere un tour, un disco, trovare qualcuno che ti faccia suonare. Non è che un festival ti svolta la vita.” 

In effetti, a pensarci, un’azione di spinta mediatica efficace è oggi molto importante per aumentare la probabilità dell’effettivo successo di un musicista. Pensiamo a Courtney Barnett, passata nel giro di un paio di EP a un esordio lodato in toto dall’intera stampa internazionale: “Dietro a lei c’è stato sicuramente un lavoro colossale di ufficio stampa”, mi dice Anita. Si apre quindi un altro versante della questione: quanto è importante il lavoro di un’etichetta e di un ufficio stampa nel creare richiesta per una proposta musicale italiana? Gli esempi europei non mancano: dalla Spagna vengono le Hinds, passate per Mom + Pop, Burger Records e Lucky Number, e i Mourn su Captured Tracks. I tedeschi Notwist sono usciti su City Slang, lo svedese The Tallest Man On Earth su Dead Oceans: tutte label fortemente internazionali e a stretto contatto con i grandi tastemaker americani alla Pitchfork e Stereogum. 

Se fossi un’etichetta internazionale, che band italiana andrei a scritturare?”, chiede giustamente Anita senza sapersi dare una risposta. E continua: “Torno a dire, se fai il concerto per gli italiani a Berlino solo per gli italiani a Berlino e non cerchi di fare contatti, entrare in nuovi contesti, nessuna etichetta ti troverà mai.” E quindi la capacità di aggancio, la buona conoscenza dell’inglese, l’apertura a una socialità internazionale diventa motivo di merito ed effettiva porta d’ingresso ad un’audience iper-italiana. Basta chiederlo a band più piccole, che spesso fanno emo, HC, punk o math rock, abituate a fare tour in giro per il mondo con la semplice forza della collaborazione: ricordo i Verme in tour Inghilterra con i Well Wisher, ad esempio, o le numerosissime sortite estere dei Valerian Swing culminate nella partecipazione ad ArcTanGent – festival maximo per chiunque ascolti le cose un po’ con le chitarrine tecniche un po’ con le melodie un po’ col casino un po’ con le grida. 

Tutti i ragionamenti che abbiamo fatto finora vanno idealmente accompagnati da una certa onestà intellettuale da parte di tutte le persone coinvolte nel processo. In particolare, mi riferisco a quegli artisti la cui italianità è ragione principale del proprio successo di pubblico. Ma, prima che diate fuoco alle torce e tiriate fuori i picconi in una crociata contro eventuali sboroni internazionali, mi sembra corretto dire che la situazione non è, a mio avviso, affatto tragica. Mi spiego.

Se la band dei vostri amici sfigati che pensano ancora che il primo dei Killers sia un’influenza legittima da avere nel 2016 suonasse gratis allo Shacklewell Arms perché il loro batterista conosce la sorella del tizio che organizza i concerti lì e, tornata, si mettesse a scrivere sul suo Facebook (672 like) cose tipo “Thank you London! We had really fun! All our new fans are amazing!” [nda: scritto male apposta] potete tranquillamente incazzarvi. Ma facendo un po’ di ricerche sugli internets (che, come è sempre giusto ricordare, non sono altro che una serie di tubi), vi renderete conto che eventuali proclami entusiastici riguardo ad eventi simili sono mediamente limitati a testate la cui influenza culturale è (o è stata) praticamente inesistente.

Prendiamo questa recensione di Rockit dell’esordio degli Afterhours a Londra, organizzato da Attilio nel 2007. È un’opinione decisamente positiva, ma contiene frasi come “il numero di inglesi presenti impallidisce di fronte alla rappresentanza italiana” e “L’impressione è un po’ di aver visto un concerto ad Anghiari”. Questo pezzo di Indie for Bunnies sui Verdena del 2008 è praticamente un post da blog adolescenziale, e lo prenderò ad esempio di numerosissimi “articoli” su concerti di italiani all’estero la cui importanza culturale e influenza mediale è tranquillamente trascurabile dato che sono scritti con ‘sta fascinazione per il nulla cosmico da gente che a Londra ci va per farsi le foto al Binario 9 ¾ a King’s Cross, mangiare il Fish & Chips a Leicester Square e magari fermarsi a fare una fotina a Berwick Street e una al negozio delle M&M’s (autore dell’articolo qua sopra: sono sicuro che tu sia cresciuto da allora, non prenderla male se oggi ti ho usato per rappresentare il male).

La cosa cambia quando si parla di media generalisti? Leggermente, ma non abbastanza da gridare alle mani nei capelli. La sezione “cultura” della Repubblica o del Corriere non sono certo paragonabili a quelle del Guardian, e non credo che nessuna persona sotto i 40 anni con un minimo di sale in testa si sia mai detta “Oh, vediamo quali nuovi album da ascoltare mi propone il Corriere”. Che questo sia un problema è indubbio; ma penso che, allo stato attuale delle cose, un’evoluzione in senso effettivamente critico delle terze pagine dei nostri quotidiani e settimanali sia un’utopia – almeno finché un po’ di ‘sta gente non se ne andrà in pensione dalla vita. 

Intanto, se Repubblica fa un’intervista a Caparezza sull’estero è normale aspettarsi una sua narrazione innocua e positiva, ma non mi pare che da nessuna parte – se non con qualche soffice auspicio – si parli di un suo effettivo pubblico estero. “Sono in milleduecento al Koko di Camden Town [...] Tutti paganti, non tutti italiani.” O ancora, “Sa che lì sotto [...] ci sono un venti per cento di inglesi, un trenta di varie nazionalità e un cinquanta di italiani in fuga dallo stivale.” Parliamo anche di pop: TV Sorrisi e Canzoni fa un bell’intervistone al Liga sul suo concerto alla Royal Albert Hall, ma lui liquida la domanda sul pubblico con un generico e onesto “Naturalmente la maggior parte dei presenti sono italiani ma, grazie a Internet, sono sempre di più quelli che ci seguono anche da altre parti d’Europa”. Insomma, niente di trascendentale.

La situazione che abbiamo delineato è in continua evoluzione, e piena tanto di punti problematici quanto di spunti virtuosi da cui imparare. Resta necessaria la presa di coscienza del nostro posto all’interno del contesto europeo: così come le generazioni passate hanno bloccato lo sviluppo di una promozione culturale degna di questo nome tramite decenni di Fininvest, magna magna ed agglomerati editoriali monopolisti, oggi la musica italiana cerca di sopravvivere in un contesto nazionale complesso e, spesso, scoraggiante. La ricerca di una finestra di salvezza nell’estero è quindi più che ragionevole, anzi: può essere la chiave per riuscire, piano piano, a poter ridurre sempre più la distanza che ci ha sempre tenuti qualche anno indietro rispetto a quello che succedeva oltreoceano, oltremanica e oltralpe. Ma è un gesto da fare con criterio – altrimenti possiamo continuare ad accontentarci di questo:

Disclaimer: abbiamo contattato anche DNA Concerti, che ha declinato la partecipazione all’articolo – “Pensiamo che non si abbia l’esperienza necessaria nel booking di italiani all’estero per poter dire qualcosa di davvero ponderato e concreto”. Altri soggetti coinvolti nell’organizzazione di eventi che vogliano dire la loro possono contattarci tranquillamente.

 

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Il reggaeton futurista di Dinamarca

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Artwork di Dinamarca.

Dinamarca è Cristian Dinamarca Farìas, producer svedese di origini cilene che assieme a Ghazal Amin costituisce il cuore fondante di Staycore, collettivo/etichetta queer con base a Stoccolma, di cui a febbraio avevamo già ampiamente parlato dopo lo showcase ad Amsterdam per Sonic Acts. Quella sera mancavano entrambi, ma Toxe e Alx9696 ci hanno tenuto a ribadirmi che era come se fossero lì lo stesso, e i loro set ne sono stati la splendida prova.

Cristian è un veterano di Staycore, nel senso che ne è a capo sin dal principio assieme a Ghazal, e da anni irrora la club scene svedese—ed europea—di dance music sghemba e geneticamente modificata. Un po' come Kamixlo e Bala ClubLechuga Zafiro, Zutzut e tutta NAAFI, prende il reggaeton e ne esaspera gli aspetti più futuristi, in un amalgama di bass schizoide e distorta che a mio avviso, è tutto ciò che la nozione di musica dance dovrebbe incarnare nel 2016. Se non tutto perlomeno la gran parte. Anzi, Staycore fa di questa voluta non-classificabilità la propria forza, musicale e politica. La sua prima release ufficiale per la label risale a due anni fa, si chiama No Hay Break e vede la collaborazione di GNUCCI, Dj New Jersey Drone & Al T4riq, Kassandra e Zutzut, e manco a dirlo è un concentrato di bangeroni caraibici uno più tachicardico dell'altro. Dell'estate scorsa è invece COLLABS 2K15, che invece include tracce con Toxe, Kablam, L-Vis 1990 e Kid Antoine. 

Il mix che ci ha fatto è un'ibridazione di tutti i generi/non generi descritti sopra, da cui traspare la sua particolare attenzione alla componente interculturale; i momenti di foga forsennata si bilanciano infatti con sinuosità quasi sempre latineggianti, o con versioni in spagnolo di hit rap statunitensi. Ecco come ce l'ha definito Cristian stesso: "Una collezione di tracce che in questo momento adoro e qualche mio inedito. In genere faccio finta di essere in un club e di dover suonare per gli altri."

Dinamarca suonerà martedì 10 maggio al Tom di Milano per We Riddim, a breve tutte le info sulla loro pagina Facebook. Ci vediamo là.

Tracklist:

01. Dj BeBeDeRa - Fodencia Taradinha 2 Apito Dourado
02. Beniton aka Jack Frostt - Work Remix
03. Lechuga Zafiro - ???
04. Dinamarca - Mobileboy
05. Zutzut - Métele
06. Dinamarca - ???
07. Dinamarca & KABLAM - DINABLAM
08. Fuego - Un Baile
09. Toxe & Mechatok - ???
10. Tekno Miles - Duro
11. MT - Vai Com A Bunda (DJ RD DA NH)
12. Mobilegirl - ???
13. Byano DJ - Danca
14. Dj Mibi - Dabliuthe E Quiik
15. Dj Epiko feat Dj Estreko - Una Vueltecita (Tribal Rmx Style Costeño)
16. Resla - Cucurrucucu
17. Toxe - ???
18. Future - Drippin (How U Love That)
19. Dj DenyCox - Massacre
20. Dinamarca - Holy
21. Dinamarca -  Resurrection

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Per il potere di Beesus

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Foto di Giuseppe Guglielmino, via fb.

Per la gioia dei rivenditori di amplificatori a valvole, lo stoner rock (anche se forse rock pesante è preferibile come denominazione) è un genere che in Italia ha un pubblico nutrito e affezionato. Ha vissuto momenti di maggiore popolarità, senza dubbio, ma pilastri italiani delle chitarre di ghisa come Stoner Kebab, Black Rainbows e Ufomammut continuano a far dire alla gente "in Italia sanno bene come caricare il bong". A fine 2015 si sono aggiunti a questa squadra i romani Beesus, sfornando un album intitolato The Rise of Beesus che è una bomba atomica di heavy rock schizofrenico che più che "stonarti" ti prende a sberloni finché non ti decidi a lanciarti nel pogo.

Quest'anno, al Roadburn festival curato da Lee Dorrian di Rise Above records, hanno suonato da headliner i GISM, gruppo punk hardcore giapponese, per cui dev'essere proprio vero che il genere è pronto ad aprirsi a influenze che non rientrino nella solita triade dorata Black Sabbath / Melvins / Electric Wizard. Per questo la mia prima curiosità per i Beesus è stata quella di farmi fare una compilation, una sorta di cassetta da ascoltare in macchina, per capire di quale musica si nutrono e che cosa è finito dentro a The Rise Of Beesus. Qui sotto la condivido con voi, insieme al resto della chiacchierata telefonica che ho avuto il 20 aprile scorso con la band al completo (meno il bassista Mutt). 

Noisey: Ciao ragazzi, state festeggiando il 4/20?
Beesus: Perché, che cos’è?

Ma come, la giornata mondiale della marijuana!
Ah, meno male che ce l’hai ricordato! Ora ci organizziamo…

Salvati in corner! Partiamo dalle basi. So che avete iniziato nel 2010, ma avete smesso di suonare per tre o quattro anni dopo il primo demo. Come mai?
Diciamo che siamo partiti con un gran fomento ma poi ci sono stati altri progetti che avevano aspettative più alte e hanno preso la priorità… ma sapevamo che saremmo tornati a suonare assieme perché siamo amici da sempre.

Ho visto che siete spesso in tour. Avete già girato tutta l’Europa e siete anche appena tornati da un tour di qualche giorno in Panda (???).
Sì, a gennaio siamo stati in Germania, Francia, Spagna, Belgio, Svizzera, Austria, per un mese consecutivo. Ultimamente invece abbiamo fatto questo viaggio della speranza di tre giorni con il pandino fino a Copenhagen, Berlino e Amburgo. 

Qual è il motivo della scelta di gestire le vostre date autonomamente?
È più una questione di necessità. Non abbiamo mai avuto proposte serie e allo stesso tempo abbiamo una gran voglia di fare, quindi la soluzione è semplice: organizziamo quello che possiamo con i nostri mezzi. Ci troviamo bene a gestire le cose in modo DIY, ma non è che non siamo aperti a collaborazioni. Se qualcuno vuole portarci a fare un tour non diciamo certo di no!

Però vuoi mettere il divertimento di andare in giro in Panda?
Sì, a parte che quando esci dalla Panda dopo tante ore di guida sembri uno StarTac e ti tocca fare il soundcheck piegato a novanta gradi. Non pensavamo che ci saremmo arrivati in fondo!

Il vostro album mi ha sorpreso. Per essere un disco stoner rock si sente una grande varietà di influenze, non è un banale esercizio di riff lenti e pesanti strasentiti. 
In effetti il problema è che chi legge stoner rock nel 2016 si immagina due cose: o i Fu Manchu o il classico revival anni Settanta con chitarra alla Jimi Hendrix. Noi non c’entriamo nulla, forse anche per limiti tecnici! [risate] Lo stile anni Settanta è davvero inflazionato oggi, il mercato, se vogliamo chiamarlo così, è proprio pieno di band ridondanti. Però è anche vero che ascoltiamo molto stoner, però non ci siamo mai posti limiti di genere quando ci troviamo a suonare. Non ci sentiamo una band strettamente stoner, non ce ne frega niente.

Infatti si sente grande libertà nei vostri pezzi. Non riesco proprio a immaginarmi come potrebbe essere il vostro prossimo album.
Neanche noi! Anche se ci stiamo lavorando. The Rise Of Beesus contiene canzoni anche molto vecchie, risalenti al primo periodo, cinque anni fa, che poi abbiamo riarrangiato dopo aver ricominciato a suonare. Sicuramente è molto spontaneo, ma è anche molto acerbo, soprattutto rispetto alle cose che stiamo cominciando a fare adesso. Crediamo che il prossimo disco sarà più ricercato e più pazzo. Con The Rise Of Beesus abbiamo voluto fare un monumento al peso, ci interessava pestare più duro possibile.

Visto che stiamo parlando di influenze, commentiamo un po’ la playlist che mi avete mandato. 
Abbiamo deciso di scegliere due brani a testa e poi uno tutti insieme, che ci rappresentino sia come ascolti che come influenze stilistiche. Facciamo che ognuno parla dei suoi?

Pootchie (chitarra e voce): Il primo pezzo che ho scelto è “Artillerie Lourde" di Django Reinhardt, un chitarrista jazz degli anni Trenta. È uno dei suoi pezzi più “cattivi”, se vogliamo. L’altro è “War Pigs” dei Black Sabbath. Il motivo della scelta è che a entrambi i chitarristi mancavano alcune falangi alle dita della mano sinistra e me piacciono i chitarristi monchi. [ride] Hanno veramente innovato lo stile, Django Reinhardt con la sua disabilità ha dettato legge sulla chitarra moderna. Questa cosa mi fa impazzire, cerco di imitare il loro stile ma comincio a pensare che tutte queste dita che ho mi siano d’impiccio. E poi mi piace perché questo fatto testimonia la durezza delle vite di questi due chitarristi, Tony Iommi rimasto mutilato in un incidente di fabbrica; Django Reinhardt che invece ha perso le dita in un incendio della sua roulotte quando viveva da nomade. È tutto molto triste e affascinante. 

Mudd (batteria e voce): I miei pezzi invece sono un po’ diversi. Ho messo i Lightning Bolt, “2Morro Morro Land”, perché rappresentano tutta la scena di Rhode Island, e mi piaceva l’idea di rappresentare questa unione; i gruppi non sono più soltanto gruppi, ma espressione di un movimento. Tornando al discorso del DIY, la cosa bella del fare tutto da soli è che non si è mai proprio da soli: si crea un giro di amicizie e di gruppi affini, non mi azzardo a chiamarla scena, è una parola che appena la pronunci si sgretola sempre tutto, però creare una rete tra varie band. Visto che ai Lightning Bolt è riuscito veramente molto bene, li ho messi nella playlist per rappresentare questa cosa. Anche il pezzo che abbiamo scelto tutti insieme è di un side-project del bassista dei LB, Megasus. E poi ho incluso i Jesus Lizard perché sono uno dei gruppi cardine tra le nostre influenze, e hanno uno stile batteristico piuttosto affine al mio. Poi vabbè, li adoriamo tutti, infatti ognuno voleva mettere un loro pezzo!

Touis (voce): Io ho cercato di includere i cantanti che mi hanno ispirato di più. Uno è sicuramente Layne Staley degli Alice in Chains, anche se io, visto che non mi andava di giocarmi gli sputtanatissimi Alice in Chains, ho scelto un brano dei Mad Season, il suo side project… [voce fuori campo: “…eroinomane.”] sì, eroinomane, insomma, più introspettivo e personale. E poi ho scelto un pezzo di questo gruppo che per me era totalmente sconosciuto fino a qualche mese fa, i Leaf Hound, “Drowned in Fear”. Anche loro hanno fatto un album solo, nel 1971, intitolato Growers of Mushrooms, il che spiega già tutto: l’album è un vero trip. Anche in questo caso, è un modo di cantare che mi influenza, ma questo non significa che io cerchi di imitarlo… anche perché è uno stile che oggi è irripetibile. Erano una di quelle band che sono state dimenticate e ripescate soltanto oggi, un po’ come Sixto Rodriguez. Pensa a quante figate c’erano negli anni Settanta se questa era la roba che passava inosservata…

Pootchie: il bassista non c’è, comunque a lui, come a noi, piace la roba abbastanza martellante, lo-fi e punk, per cui ha scelto Pissed Jeans e Soupcans. Alla fine, come dicevamo, se ci vieni a vedere dal vivo non sentirai solo lentezza e pesantezza, infatti tra le varie definizioni che ci vengono affibbiate preferiamo quella di heavy rock, più che stoner. Anche se noi come persone siamo decisamente degli "stoner"...

Foto via fb.

E invece quali sono le vostre influenze extra-musicali? Droga, alieni, arte, film dell’orrore. Che cosa vi stimola a scrivere i pezzi?
I nostri pezzi vengono in modo abbastanza genuino dalla nostra fantasia. Nel senso che ci siamo inventati un po’ per scherzo la figura di Beesus, che sarebbe un mostro nato dalle viscere della Terra che distruggeva tutto quello che l’umanità aveva creato. Poi io sono andato a scavare nella mia fantasia e ho cercato di dargli un senso un po’ più compiuto, collegando questo mostro all’essenza stessa della volontà umana, che crea e distrugge. L’album racconta l’ascesa di questo fantomatico essere, il momento in cui emerge dal sottosuolo e si muove per il mondo… Per quanto riguarda le ispirazioni prese dalle altre arti, abbiamo tutti una certa fascinazione per ciò che è macabro, estremo e sotterraneo. Però ognuno ha gusti fondamentalmente diversi. Poi un’altra delle nostre influenze è il vero e proprio disagio che ci circonda, ti basta passare un sabato sera al Pigneto per renderti conto che Roma è un posto con situazioni abbastanza estreme… Facciamo musica-vérité! 

Volevo interpellarvi sulla questione della morte del rock: ultimamente si legge sempre più in giro che la musica con le chitarre è ormai finalmente passé…
E certo, è morto Lemmy! E Iggy Pop ha registrato un disco con Josh Homme, è morto sì!

Ahahah! Senza dubbio. Ma quello che vorrei sapere è se a voi sembra di fare una cosa ancorata al passato o vi sentite vivi e vitali con le vostre chitarre al collo.
Mudd: Per me non è che il rock sia morto, ha solo smesso di essere mainstream. Perché comunque se vai in giro per locali, le band che suonano rock sono molte di più di quelle di altri generi. 

Pootchie: Secondo me negli anni a venire al rock succederà quello che è successo al jazz, diventerà un genere a sé. Già ultimamente si vede che ci sono molti più musicisti e molto meno pubblico. Però una cosa è certa: se il rock’n’roll è morto, noi siamo già zombie.

Touis: Non è che il rock sia morto, è che si è cristallizzato su certi standard, anche lo stoner una volta non era nemmeno un genere. Anch’io preferisco i gruppi che cercano di evolvere, invece di contare su schemi predefiniti.

Pootchie: Vorrei anche aggiungere che un grande problema della musica rock è che si cerca di spingerla come una questione culturale, quando in realtà un concerto prima di tutto dev’essere una festa. Cioè, se dovemo ubbriaca’! Ma che stamo a dì! La curtura, i critici… la gente deve scopa’ sotto ar palco! Devono esse’ tutti ubbriachi, er panico, capito? Conta che io per lavoro mi occupo di concerti, nel senso che gestisco la sala del Sinister Noise. E secondo me questo è un grande problema: si spinge il concerto come se fosse una mostra d’arte, non una festa. E invece dev’essere una festa.

Quindi immagino che i vostri concerti siano piuttosto divertenti…
Sì, non è che diciamo “veniteci a sentire che abbiamo un pezzo nuovo”… la gente vuole far festa, ma che pezzo nuovo. Anzi, da questo punto di vista cerchiamo anche di tenere il costo del biglietto il più basso possibile, perché questa è un’altra cosa che ha allontanato la gente dai concerti. Perché nell’underground non c’è gente con tanti soldi da potersi permettere un biglietto costoso, la birra e un CD. Preferiamo che la gente abbia i soldi per birra e CD. 

Parliamo di Roma, com’è la situazione lì?
Pootchie: Negli ultimi otto/nove anni la scena romana ha avuto prima una discesa e poi una risalita da due anni a questa parte, a livello di proposta. Come attenzione del pubblico secondo noi deve ancora riprendersi. Ha ancora bisogno di assestamento dopo un grosso cambio generazionale. Quello che mi preoccupa veramente dal punto di vista organizzativo è che non si trovano più gruppi formati da gente davvero giovane, nata dopo il ’93. Nessuno suona più rock o derivati. 

L’unica scena veramente attiva è quella che gira attorno al Fanfulla e al Dal Verme, al Pigneto. Lì si trovano concerti pieni di gente anche il lunedì sera. L’unico problema di quel giro è che certa gente lo identifica come l’unica cosa fica che c’è in giro e non si interessa di quello che succede in altri posti o in altre zone di Roma, poi si creano le fazioni tipo The Warriors. Penso che un cervello veramente attivo dovrebbe seguire la musica a 360 gradi. Se non andassi a vedere i concerti in altri posti mi annoierei tantissimo, nella mia vita ci sarebbero soltanto garage, stoner ed heavy psych. Poi è anche bello confrontarsi con gli altri su come si lavora. 

E per mantenervi lavorate tutti nel campo della musica, o vi tocca faticare davvero?
See, e chi lavora? No, l’unico è Pootchie, noi gli diamo una mano ogni tanto e per il resto facciamo lavoretti occasionali per pagare le bollette quando non siamo in tour. Abbiamo fatto una scelta, abbiamo deciso di suonare e crediamo che se non ci impieghiamo il 100 percento del tempo non riusciremo a ottenere i risultati che vogliamo. 

Infatti si vede che passate molto tempo in sala prove, anche per il fatto che avete altri gruppi e che andate spesso in tour. 
Sì, anche se poco tempo fa siamo stati cacciati dalla nostra ultima sala prove. Però già ieri ne abbiamo inaugurata una nuova costruita con le nostre mani, per cui da adesso ricominceremo a chiuderci sotto terra. Il bassista Mutt suona anche con i Killer Boogie e con i Gram. Mudd suona nei Gram e negli Electric Superfuzz. Pootchie suonava nei Wisdoom, che al momento sono fermi, ma sta tirando su un altro progetto. L’unico rimasto sempre fedele ai Beesus è Touis, il cantante. 

Progetti per il futuro? 
Diciamo che quest’estate prenderemo parte, non si sa dove e non si sa quando, alla festa fricchettona che prende il nome di Duna Jam. E il primo luglio saremo all’Electric Valley Festival in provincia di Sassari. Ora cominciamo a lavorare al materiale per il prossimo disco, poi vorremmo fare un ultimo giro in Europa e tornare in studio, ma non abbiamo ancora programmi definitivi.

Bene, mi fa piacere vedere che avete molta voglia di suonare. 
E certo, altrimenti moriremmo. Vabbè, moriremo comunque, ma almeno torniamo a casa sullo scudo.

Prima di salutarvi ho una curiosità: non ho trovato altre vostre interviste su Internet. È la prima che fate?
Se escludiamo la brevissima intervista con Claudio Sorge uscita su Rumore, sì! Per cui grazie Noisey per il nostro debutto sulla stampa musicale virtuale!

Grazie a voi!

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L'età d'oro dei festival è finita

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 Foto Anis Ali

Gli esseri umani hanno sempre saputo che il festival musicale è una forma di intrattenimento culturale senza rivali. Come la democrazia, gli sport agonistici e l'olio d'oliva, l'avvento di questi eventi si può ricondurre all'antica Grecia. Durante i giochi pitici, i giovani greci dovevano sfidarsi in competizioni canore in onore del dio greco della musica e superfico mitologico Apollo. Con il passare dei secoli, eventi non dissimili si sono materializzati in tutto il mondo, dai festival di musica Hindu dell'India ai primi carnevali a Trinidad. 

Naturalmente il concetto moderno di festival musicale è evoluto nel corso della storia. Non ci sono testimonianze di gente che dormiva in bare di neoprene a forma di tenda, o che indossava costumi di gusto discutibile, o che comprava piadine falafel da veicoli motorizzati modificati in modo da ricordare una nave spaziale psichedelica. Qualcuno dirà che è facile capire perché i festival di oggi siano diversi, i tempi sono cambiati. I greci antichi avevano un uomo poco vestito che suonava il flauto di Pan; noi abbiamo David Guetta con tre paste in corpo al Tomorrowland che cerca di rimanere con i piedi per terra mentre la realtà gli ruota attorno su un'orbita completamente diversa.

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È lecito aspettarsi alcuni cambiamenti nell'ambiente dei festival: vestiario, generi musicali e droghe sono tutte cose soggette a fluttuazioni e mode. Ma a differenza della transizione dai pantaloni a zampa al risvoltino, dall'heavy metal alla deep house, dall'LSD al gas esilarante, il cambio che si è verificato negli ultimi anni è incentrato sulla pura semantica di questi eventi, non su un dettaglio sonoro o estetico. Ed è all'interno di queste deviazioni che diventa evidente che l'età d'oro dei festival è finita. 

 Foto Carys Lavin

Prima di mettere mano ai vostri contorti picchetti da tenda e usarli per minacciare lo schermo del vostro computer, sappiate che già lo so: i festival sono già morti molte volte. La prima, quando la chitarra elettrica di Bob Dylan ha cacato addosso ai fricchettoni del Newport Folk Festival, cambiando per sempre l'atmosfera del loro festival. Poi, quando gli sponsor sono entrati strisciando negli enormi eventi di musica alternativa della Generazione X, sponsorizzando i loro palchi. Poi, ancora, con la nascita dell'EDM, una minaccia per l'idea di festival concepita dai puristi del rock, che ha rimpiazzato le chitarre con download illegali di Traktor e i riff con l'unz-unz della musica dance. Capita di prendere per la morte dei festival una semplice stasi generazionale, per cui qualche vecchio stronzo non riesce ad accettare che il mondo è passato oltre e ha dimenticato i Creedence Clearwater Revival in favore dei Caribou. Ma questa volta è diverso. 

Oggi, le caratteristiche che vengono considerate segnali di un buon festival sono talmente insipide che la cultura da festival si è trasformata in una cosa per nulla strana o diversa. Non un concetto che ancora non riusciamo a capire, ma una nuova conformazione noiosa in maniera ridicola. Una parte di questo cambiamento è da attribuire al fatto che questi eventi si assomigliano sempre di più: dal festival di Reading all'Isle of Wight al Coachella e al Bonnaroo, l'esperienza da festival sembra essersi fusa in un'unica visione commerciabile della stessa idea—in cui puoi guardare un DJ, una band rock e un cantante rap prima di metterti in coda per comprare della vernice fluorescente e del sidro alla fragola. Come ha scritto il New York Times in un recente editorial: "Volete vedere gli LCD Soundsystem? Potete trovarli al Coachella, al Bonnaroo, al Panorama e al Way Home. Major Lazer? Coachella, Sasquatch, Firefly e Panorama. A$AP Rocky? Coachella, Firefly e Panorama. Gary Clark Jr.? Coachella, New Orleans Jazzfest, Governor’s Ball e Way Home".

Anche i festival in Gran Bretagna hanno problemi simili a quelli evidenziati dal New York Times. I nostri festival più grossi si trovano più o meno nello stesso schema, per cui sembra di stare dentro a Ricomincio da Capo con l'aggiunta di burrito tiepidi e un palco piccolo con Jack Garratt come headliner e presentato dall'ultima ruota del carro dei DJ di BBC Radio 1. La topografia di ogni evento è leggermente più varia: Wireless ha più tracolle Nike e rapper di ogni altro festival; Latitude rappresenta la confusione dei fan dei Mogwai e di Paolo Nutini; Bestival è il preferito degli studenti appassionati di amfe. Eppure, pur rimanendo eventi diversi, l'uniformazione dei festival ha trasformato quella che dovrebbe essere un'esperienza unica in una cosa simile a un mobile Ikea, piegato smontato dentro una scatola con il suo palco, il tendone-discoteca, i suoi baracchini per il cibo, i cassonetti colorati, lo stand dei cappellini buffi. Mentre questo aspetto del festival moderno è talmente comune da essere fin troppo facilmente replicabile, è soltanto una parte di quello che è diventato un tutto molto più grande, e vendibile.

 Foto Carys Lavin

Dopo il boom economico dei festival a metà anni Duemila e il crollo conseguente nei primi anni Dieci (con festival come Truck e Big Chill finiti in bancarotta), è diventato fondamentale per ogni evento con grandi ambizioni riuscire ad attirare una varietà di pubblico maggiore per riuscire a vendere abbastanza biglietti. Ecco perché le lineup dei festival tendono a sovrapporsi. In un certo senso, questa sovrapposizione è un bene; ha riportato alcuni festival al passo con i gusti di genere fluido di questa generazione, respingendo le accuse di essere rimasti infettati dall'angoscia esistenziale e di aver perso il contatto con il proprio pubblico. Ma nello sforzo di includere sempre più gente, sono anche diventati più esclusivi. Gli eventi di oggi non hanno più molto a che fare con la cultura, lo stare insieme, l'edonismo e le esperienze imprevedibili (e spesso fangose). Diventano sempre più legate al comfort, al lusso e alla sicurezza: yurte, docce, chef stellati Michelin, aree bevitori, tipì, casette portatili, snoozebox, yoga, e isolamento dalle persone normali.

Guardiamo i maggiori festival del Regno Unito, e constateremo che sono tutti colpevoli di aver ammorbidito la cruda sensazione di unità dell'esperienza da festival. Il festival di Reading di quest'anno offre un biglietto esclusivo per un "sedile di lusso" (un cesso privato, in pratica), che, dicono, sarà condiviso con "pochi privilegiati" (sono le loro parole, non le mie). Al V Festival, si può acquistare un biglietto per un'area VIP di lusso che comprende "un'ampia scelta di stand gastronomici", un parrucchiere e un'estetista. Con 220 sterline potrete godere una "esperienza da club di prim'ordine" al Wireless Festival—un'opzione esclusiva che assicura l'accesso a una zona più vicina al palco. Latitude vende "roulotte-cuccetta Luxury 6" a 4.400 sterline l'una; il villaggio di tipì di Glastonbury costa poco meno di mille sterline; Bestival ha una "area VIP per i clienti più esigenti che vogliono vivere al meglio i quattro giorni della nostra avventura futuristica". E poi c'è Wilderness, un festival costruito sul "rilassamento e la dissolutezza", che offre una suite casa-tenda "davvero opulenta" per 10.320 sterline (ingresso al festival escluso), perché gli ospiti del festival possano rilassarsi dopo aver passato la giornata a cavallo, o a nuotare nel fiume, o a curarsi nella spa in riva al lago. Dovunque si vada, sembra che l'esclusività e il lusso siano le parole chiave per il successo. 

Ora, a tutti fa piacere farsi una doccia calda, espellere il pranzo dà molta più soddisfazione quando puoi eliminare quello che rimane con della carta igienica profumata a quattro veli, e una roulotte di lusso ha più superfici piane di una tenda. Questi apparati esclusivi sono desiderabili, motivo per cui esistono. Un festival è pur sempre un business. All'interno di un festival, però, l'esclusività e il lusso sono caratteristiche intrinsecamente noiose. Sono pregne di pulizia, sicurezza, servono a separarsi dal resto del mondo. Non voglio dire che i festival dovrebbero essere sporchi, pericolosi e pieni di minacce, ma, offrendo un'esperienza protetta che sembra un misto tra Shoreditch House e Greenfields di Glastonbury, una componente fondamentale dei grandi festival musicali è stata rimossa. 

Vedete, i festival sono sempre stati posti dove la gente andava per godere dell'euforia trascendentale offerta dal potere della musica, che pare scatenarsi in maniera ottimale davanti a gruppi numerosi. O, nel caso degli ultimi vent'anni, dopo aver preso un po' di MDMA. E qualche funghetto. È quell'idea di unità che costituisce il fondamento alla base della concezione classica di festival, dagli hippie tette-al-vento di Woodstock ai punk della domenica che si sono trasformati in un'unico idrante di piscio quando Daphne e Celeste sono salite sul palco al festival di Reading nel 2000. Eppure l'implementazione di questi pacchetti VIP e VVIP ha determinato la morte di quel senso di unità che sembrava collocarsi al centro di tutta questa cosa. Ora è stato rimpiazzato da transenne che tengono lontani i meno abbienti dalle poltroncine. O, per essere meno terra-terra, la parte di platea in cui i fan più sfegatati normalmente avrebbero passato l'intera giornata, rischiando un'infezione al tratto urinario per non perdere il posto in prima fila al concerto dell'headliner, è ora riservata a un piccolo gruppo di persone più benestanti delle altre.

 Foto via utente Flickr badjonni

Innegabilmente, i festival offrono questi pacchetti VIP perché fanno guadagnare loro un botto di soldi—anche più di quanto non facciano i prezzi dei biglietti gonfiati notevolmente di più di quanto richiedesse l'inflazione. Hanno spostato il loro punto focale dal fornire un'esperienza aperta a tutti all'accontentare una classe di pubblico senza entusiasmo, senza senso di avventura e senza linfa vitale, che richiede familiarità. Non è difficile tracciare una linea tra l'emergenza del clubbing sui tetti per mediocri—un mondo in cui gli angoli più taglienti e trasgressivi delle serate da club sono stati smussati con brioches, artisti dei cocktail, sponsor multinazionali, sdraio e DJ "taste-maker"—e il cambiamento in corso nella cultura festivaliera britannica.

Mentre la proliferazione di sandwich di sfilacci di maiale sembra non volersi fermare finché su ogni tetto di Londra non si svolgerà festa orribile, non ha ancora completamente rovinato i festival. Ignoratela, e vi sarà comunque possibile imbarcarvi nella missione di ricerca di voi stessi che questi eventi estivi una volta rappresentavano. La musica, dopotutto, è ancora lì—e anche le droghe. Ma nonostante questo, è difficile non pensare che i festival stiano diventando sempre meno connessi all'industria musicale e sempre più connessi all'industria delle "esperienze", che sarebbe quella gente che ti offre di volare su una mongolfiera o ti fa fare un "Tour delle Leggende" allo stadio Etihad. È a causa di questa gente che, anche evitando le aree VIP, l'atmosfera dei festival è cambiata radicalmente. Perpetuando un'idea di divertimento presa direttamente da un catalogo di moda "ispirato ai festival", l'atmosfera di abbandono e di perdita di controllo è persa. In alcuni casi, si tratta di festival costruiti su misura per gente in "abiti sportivi" il cui obiettivo è sedersi da qualche parte e rilassarsi passando una bella giornata con della bella musica. 

Conformandosi a queste esperienze da identikit, i festival hanno perso di vista la componente fondamentale che li rendeva interessanti: il fatto che annunciassero un'esperienza inaspettata. Anche una larga fetta della copertura mediatica a loro dedicata è diventata abitudinaria, noiosa, ripetitiva. Se l'unica differenza tra i festival più grossi è il livello di offerte premium, che cosa ci rimane da dire di loro? Diventa semplicemente la stessa esperienza, anno dopo anno. È uno dei motivi per cui il New York Times ha dichiarato di non avere intenzione di coprire il Coachella e il Bonnaroo quest'anno. E visto che il New York Times ha una forte linea culturale, questo è forse l'indicatore più esplicito che il sipario si sta chiudendo sul periodo d'oro dei festival negli Stati Uniti. 

Prima, ognuno di questi eventi sembrava significare qualcosa, ma sono stati fusi in un unico polpettone amorfo dove è impossibile che succeda qualcosa di unico o di significativo. Le band si annoiano nel suonarci, per cui non gliene frega un cazzo, e nemmeno alla gente che è stata attirata dai pacchetti premium—sembra che la maggior parte di loro sia lì solo per il bene del proprio profilo Instagram. Ma soprattutto, la cosa più importante è che questi servizi VIP hanno sradicato il senso di unità, che metteva sullo stesso piano gente di ogni classe sociale grazie alla musica. I festival ora appaiono tristemente stratificati come la società britannica, esattamente quello da cui speri di scappare quando ti rechi a un festival. 

 Foto via Pixabay

Allora, dove ci porta tutto questo? A essere sinceri, ognuno dei grandi festival inglesi si è assicurato headliner relativamente diversi: Adele a Glastonbury, Justin Bieber al V Festival, Kygo al Wireless, Foals a Reading e Leeds, ecc. Ma se questi eventi giganti hanno perso il loro fascino intrinseco, gli headliner potrebbero sembrare non importanti. 

La nostra cultura ha il vizio di arrivare sempre a un punto in cui bisogna buttare via tutto e ricominciare da capo. E così guardiamo agli eventi più piccoli. Questi posti hanno mantenuto un senso di uguaglianza e line-up meritocratiche che si rivolgono a un gruppo specifico di fan, per cui è possibile che succeda qualcosa di esaltante. Forse l'onere di esplorarli in profondità spetta a noi, invece di percorrere sempre il solito sentiero anno dopo anno. Sono posti che continuano a crescere e che hanno alla propria base il concetto originario di festival. Ogni volta che nasce un nuovo evento, la componente di unità fondamentale è presente e inerodibile—la premessa stessa dell'evento è che le persone si ritrovino insieme. Senza le persone, un festival non è altro che un deserto pieno di furgoncini fast food, pozzi neri senza acque nere, guardie e gelatai.  

I festival musicali non moriranno, perlomeno non tra poco. Finché ci sarà musica e finché la gente l'ascolterà, continueranno a esistere—in forma primitiva, o sponsorizzati da Monster Energy, o con cinque diversi livelli di esclusività. È la natura umana. Quindi mentre gli eventi maggiori sono senza dubbio cambiati, distorcendo le sfaccettature di significato che stanno alla base della loro esistenza e trasformandole in celebrazioni di esclusività e di un'esperienza sciapa, ripetitiva, ci sarà sempre qualcosa d'altro pronto ad esplodere e a spazzare via il male di vivere. L'età d'oro dei grandi festival musicali è finita, ma i cancelli sono aperti, in attesa di una nuova carica che li attraversi. 

La nostra è la prima generazione più noiosa di quella precedente?

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Foto di Adrian Choa.

La storia ci insegna che c'è sembra qualcosa che non va con i giovani d'oggi. Che siano le droghe o la loro passione per rasarsi la crapa si può sempre trovare qualche comportamento che li renda deprecabili agli occhi della generazione che li ha preceduti. Fino ad oggi almeno, in cui c'è stato un cambio di ruoli: là dove l'ordine naturale delle cose impone che i figli siano il disappunto dei padri (troppo alcol, troppe droghe e decisamente troppo sesso) la realtà di oggi ci dice che sta accadendo l'esatto opposto. Semplicemente i giovani d'oggi non sono abbastanza sbarellati, se li paragoniamo ai loro genitori.

L'idea è in giro già da un po', i think piece a proposito si sprecano e ormai i millennials sono comunemente accettati come una generazione noiosa, democristiana, lavoratrice, sensibile, studiosa e spaventata da tutto. È una narrattiva affascinante. Twitter, Tinder e internet in generale ci hanno fatto passare dall'ascoltare la house in un club a starcene semplicemente a casa e il 2014 è stato l'anno in cui il Dipartimento della Salute, in Inghilterra, ha registrato un calo in tutta una seria di attività e abitudini nefaste. Ad esempio il numero di teenager che ammette di fare uso di stupefacenti si è dimezzato e la quantità di alcol e sigarette vendute è diminuita di quasi un terzo. Allo stesso tempo è calato il numero di gravidanze tra teenager (così come quello degli aborti) e molti hanno dedotto che la prima generazione di ragazzini consapevoli è stata infine concepita.

Siamo la generazione che preferisce i ristoranti a chilometro zero ai pub e che non riesce mai ad uscire dalla comfort zone. In quest'ottica recentemente il Guardian ha condotto un sondaggio per rivelare che la maggior parte dei millennial preferisce stare a casa piuttosto che uscire. Le risposte dei partecipanti al sondaggio sono state estremamente dettagliate e una buona fetta ha persino dichiarato di considerare i club come un luogo in alcun modo interessante, ma anzi associarlo a situazioni e sensazioni negative. Tutte le loro dichiarazioni sembravano tirate fuori da un episodio di Love incrociato con una pagina a caso di Tumblr.

Per esempio Lucy, 25 anni e di Londra, ha chiesto a sua volta "Perché mai dovrei infilarmi in un club pieno di gente sudata" quando se ne può stare a casa a fare qualcosa di "culturalmente più appagante e meno stressante?" Più o meno simile la risposta di Harri, che ha risposto "oggi capita di poter fare un viaggetto fuori città allo stesso prezzo di una serata a Londra di cui non ti ricorderesti niente, e i viaggetti valgono molto di più su Instagram." Forse i last minute economici, i filtri di Instagram e quattro episodi di The Tudors sono meglio di una sbronza in un seminterrato con la musica a volume troppo alto. O forse questa gente non ce la racconta giusta.

Foto di Chris Bethell.

Il più grande problema del sondaggio del Guardian era proprio il gruppo di soggetti intervistati. Con un totale di 196 risposte il valore statistico di questo campione è assolutamente irrilevante. Non solo, è stato il Guardian stesso a selezionare i partecipanti e, scusate la malizia, ma non voglio nemmeno sapere quali siano stati i parametri scriteriati di questa selezione. In più il range d'età dei partecipanti (tra i 26 e i 35) mi lascia qualche dubbio su quanto in là i redattori del Guardian siano disposti a spostare l'asticella per continuare a chiamarsi giovani l'un l'altro. Questo non significa che un trentacinquenne debba essere considerato come una cariatide... No, invece sì: significa esattamente questo.

Inoltre tutti questi discorsi su una nuova generazione più sensibile devono partire da presupposti parecchio ingombranti per avere senso, ad esempio bisogna ignorare che il 2015 è stato l'anno con più festival nella storia della musica, che l'MDMA è diventata una droga diffusa allo stesso modo dell'erba, che le pasticche sono più forti che mai e che il giro d'affari della musica elettronica è diventato enorme. Ovviamente nessuno di questi dati ha un valore qualitativo e molte persone sono convinte che i festival non facciano altro che danneggiare la club culture, ma sicuramente sono dati che ci danno qualche indizio su come infilarsi qualcosa di sintetico in corpo e ballare in modo scomposto sotto un qualche tipo di palco oggi sia una prospettiva più allettante che mai nella storia.

I giovani non hanno perso interesse nella vita notturno e il mondo non è diventato un posto più luminoso: il mito del millennial moderno, così come descritto da statistiche e commentatori vaghi, cerca di applicare uno standard a categorie di persone diverse tanto quanto un quindicenne e un ventincinquenne. L'idea che un'intera cultura giovanile possa essere riassunta in un campione statistico di universitari ben educati, lettori del guardian, bevitori di aloe e appassionati di filtri Instagram non è solo limitante, è risibile.

Per citare Hannah Ewens, gli stereotipi legati alla generazione Y sono stati plasmati da e attraverso i media, basandosi su studi e ricerche condotte a partire da giovani universitari che lavorano in aziende giovani e all'avanguardia. Questa narrativa è tenuta in vita da una piccola cerchia di giovani che cercano di legittimarla attraverso i media e dalla sezione commenti dei giornali che, come è risaputo, è il parco giochi dei vegliardi".

Questa incapacità di comprendere la realtà e di vedere il cambiamento tra club culture ed edonismo nella nostra generazione è il risultato degli anni novanta e della miopia di coloro che hanno composto la scena acid-house, e che oggi si sono trasformati nella classe dirigente dei media. Persone che hanno fatto festa fino ai venticinque anni per poi godersi la prosperità di inizio secolo e che ora non riescono a capire perché i giovani "non sappiano più divertirsi". Nel frattempo continuano ad ignorare l'aumento di rave illegali, i quattordicenni con la mascella a puttane, il consumo di azoto a scopi ricreativi e tutta un'altra serie di realtà, semplicemente perché i loro figli, immersi nella middle class, non possono entrarci in contatto.

Detto questo, si è creata una dinamica anomala ed interessante, in cui l'eccesso non è più da condannare, ma al contrario si lamenta la troppa moderazione. In Italia probabilmente il problema non è ancora sentito come all'estero, quantomeno negli organi di informazione di massa, ma non c'è dubbio che la generazione precedente alla nostra viva con la convinzione di aver organizzato e vissuto feste che tutti noi possiamo solo immaginarci. Il modo migliore per legittimare questa convinzione è insistere con questa retorica dei millennial: stupidi bamboccioni appassionati di thè biologici, così che possano tenersi stretto il loro titolo e non mettere mai in discussione l'incapacità di fare cose memorabili.

La questione non dovrebbe nemmeno avere così tanta rilevanza, perché in fondo le culture giovanili non dovrebbero cercare conferme nei media. E invece ce l'ha, perché il mito che questa moderna, moderatissima generazione di millennial esista davvero è qualcosa di falso, o che comunque copre solo una porzione di società limitatissima e benestante. Per salvare la nostra cultura, la nightlife e la club culture bisogna capire che la battaglia più grande è quella contro la scorretta rappresentazione della nostra generazione.

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Il concerto del Primo Maggio ci ricorda che il patchanka è sempre lì, come la morte

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Ogni anno al concerto del Primo Maggio qualcuno ancora ci tiene a rappresentare la musica del Popolo in un modo che esiste ancora semplicemente nella testa degli organizzatori del Concerto del Primo Maggio che, soprattutto in fascia pomeridiana, sembra la versione logorroica di una Festa dell'Unità di una ventina d'anni fa. La ritualità di questo concertone è talmente scontata che nessuno, qui in redazione, aveva più intenzione di occuparsene, anche perché era già successo che inviassimo un martire a soffrire per noi in piazza e la cosa aveva avuto ripercussioni non indifferenti sul suo stato di salute mentale, quindi convincere qualcun altro a subire non sarebbe stato semplice. Ma poi è successo che pioveva e che io ho pure un piede rotto quindi sono costretta all'immobilità, quindi mi son detta che assistere a qualcosa di così carico di inutilità avrebbe alleggerito il mio spirito, quantomeno. Oltretutto l'articolo comparso qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano, in cui si elencavano per filo e per segno i partecipanti con i loro nomi inequivocabilmente caratterizzati come "Orchestra Operaia", "Fanfara Tirana" o "Modena City Ramblers" mi ha convinto definitivamente che sarebbe stato comunque interessante osservare a quanta distanza dal 2016 si sarebbe collocata la totalità di questo evento. Non che fossi impreparata a quello che avrei visto; abbiamo fatto notare più e più volte che quanto a musica di protesta siamo messi ancora come vent’anni fa, e questo concertone non è altro che l'ennesima conferma: persone che sembra non si lavino vestiti e capelli da due mesi, che suonano tendenzialmente patchanka.

Non avevo torto. 

Mi avvicino alla televisione quando hanno appena finito di suonare i Bandabardò, che sul palco, assieme agli strumenti, portano bottiglie e tappi riciclati—finalmente mi spiego che fine hanno fatto tutte quelle iniziative di raccolta tappi di plastica. 
Qualcuno però si aspetterebbe che sul palco di questo Primo Maggio vengano discussi anche temi di attualità, come il famoso gender, ebbene queste aspettative non vengono deluse, dato che Luca Barbarossa presenta la sua co-presentatrice dicendo “Si chiama Mario, è una donna tatuata” e Mario entra sulle note di “Rebel Rebel”, giusto per far capire alla destra chi cazzo siamo. Siamo ribelli e sui vostri nomi cisgender ci scatarriamo su.
Mario immediatamente introduce i finalisti del concorso Primo Maggio Next che dovrebbe fornire al pubblico assetato di novità una finestra sul Primo Maggio del futuro.

Ed ecco che sale sul palco la Banda Rulli Frulli, praticamente cinquecento ragazzini che percuotono cose. Mi viene da pensare che questo sia il reale futuro del Primo Maggio: una sorta di digievoluzione dei bongari da piazza la cui forma di protesta è cagare il cazzo con i tamburini, il dreddino, il diablo e i pantaloni larghi. In futuro si moltiplicheranno e pioveranno dal cielo per sette giorni, prima di iniziare a suonare ininterrottamente i loro bonghini preannunciando con certezza l'apocalissi. 


Disclaimer: non ho guardato il Primo Maggio Taranto perché non ho così tanti occhi e perché temevo di non trovarci nemmeno una fisarmonica. 

Mario chiede di rendere più colorato e 2.0 il concerto del primo maggio e di farlo usando gli hashtag. 
[...]
Ok.
Poi annuncia il vincitore del concorso Next: vince il geometra Mangoni che viene premiato dai sindacati con un premio di amianto.

Subito dopo sul palco la Mad Free Orchestra, e in sovrimpressione passa un cartello che recita così:

“Tra i tanti amici della Mad Free Orchestra c’è lo scrittore Erri De Luca”.

Oltre ad essere allora evidentemente composta da dissidenti, la Mad Free Orchestra è una band in cui suonano musicisti di vari generi ed etnie, l'unica cosa che mi lascia perplessa è questa suddivisione un po' colposa di ruoli all'interno della stessa, laddove i neri suonano i bonghi e le donne i tamburelli. Dopo qualche decina di minuti di lagna patchanka balcanica che da sola basterebbe a far iscrivere al PDL la metà della piazza là sotto, la Mad Free Orchestra lascia il posto a un'altra esibizione.
Trattasi di Eugenio Bennato, che in realtà secondo me è sempre la Mad Free Orchestra, ma con meno musicisti perché durante l’esibizione precedente la metà della band si era rotta i coglioni e ha giustamente ammutinato. Dopo qualche ora che si sente sempre lo stesso giro di note, qualcuno su Twitter si chiede se ci sia qualche direttiva di cui noi non siamo a conoscenza e che proibisce di sperimentare oltre a quegli accordi.  

Segue una band contro la mafia, il Parto delle Nuvole Pesanti, i cui componenti per esprimere il proprio dissenso alla mafia hanno deciso di vestirsi con gli scarti degli abiti di Dolce e Gabbana e suonare una cover di “Don Raffaè” cambiando le parole con qualcosa che finisce in “tutta la mafia si porta via”. Immagino che la mafia dopo averli sentiti si stia un po' cagando sotto. 

"L’hanno chiamato fantautore perché mette insieme passato presente e futuro". Così la presentatrice tatuata con un nome da maschio introduce Bugo, che non porta con sé nemmeno una fisarmonica e per questo la piazza non sa come comportarsi—dalle riprese aeree si vedono ballerini di pizzica adirati ad ogni angolo che per contrasto iniziano a giocare a diablo e tirare le bolas perché rivogliono il patchanka, invece c’è Bugo, che la SIAE, molto partecipe sui social in questa giornata (la SIAE lavora sempre, anche il Primo Maggio, non dimenticatelo) elogia dicendo che "col suo mix di indie e rock porta unicità sul palco".

Rispondiamo alla simpatica SIAE che in effetti Bugo è l'unico musicista che conosciamo in grado di mescolare l'indie al rock, non è una cosa che fanno in tanti al giorno d'oggi, un mix veramente unico!

Dopo Bugo comunque viene ripristinato lo status quo e tocca a BLEBLA, una band vestita da spazzini che canta “Ricicla Riusa”, un pezzo dedicato a chi cura la line-up del concerto del Primo Maggio da qualche decennio.
Poi, direttamente dal secolo scorso, i Mau Mau, segno che il patchanka puoi pure ignorarlo, ma sta sempre lì, come la morte. L’utente Twitter @lautonini si chiede perché a sto punto non riesumare la salma di Craxi. L'utente @accentosvedese si domanda invece se sia già stato estratto dalla teca Enzo Avitabile. Ci chiediamo se sia inavitabile che suoni.
Segue un momento in cui ancora si parla di gender ritornando sullo strano caso della presentatrice che si chiama Mario anche se è una donna. Assurdo!

Ma nessuno era preparato al momento di pura poesia cui stavamo per assistere: vestito da Stefano Accorsi nella parte del crackomane e armato unicamente della sua chitarra, sale sul palco il grandissimo Gianluca Grignani, come fosse un musicista emergente. In questo contesto, finalmente emerge la sua statura artistica: bastava buttarlo tra i vecchi che suonano la fisarmonica per farlo sembrare Bob Dylan. 

Durante la sua performance Grignani raggiunge il momento più alto della sua espressione artistica in una frase che racchiude tutto il suo universo semantico: “Ma insomma, sticazzi”. A parte questo, Gianluca appare consapevole, preciso, addirittura intonato. Manterrà la precisione per tutta la sua performance, salvo a un certo punto tentare di coinvolgere il pubblico in una difficile impresa di doppia voce acappella. Impresa che riesce nel peggiore dei modi, dato che il pubblico intona il pezzo in un'altra tonalità rovinando tutta la buona volontà di Grignani, che aveva dichiarato di cantare "per il popolo", e, caro Gianluca, ecco come ti ripaga il popolo.  
Nonostante il popolo, il resto dell'esibizione del Grigno è stata Poesia pura.

Dopodiché sale sul palco Andrea Mirò con i Perturbazione: mi chiedo perché a lei nessuno le faccia notare che ha un nome da uomo mentre alla povera Mario son due ore che le cagano il cazzo. 

Come reclamato da alcuni fan, arriva il momento di Enzo Avitabile, nei cui capelli sono coltivati i talenti del futuro di Primo Maggio Next. Avitabile, appena de-criogenizzato, porta con sé finalmente di nuovo i tamburelli e le trombe ed esegue un super-mega-mashup di “Fischia il Vento”, “Don Raffaè” e “Bella Ciao”. Un mash-up che dura effettivamente tantissimo: all'incirca dal secondo dopoguerra ad oggi, con un giro d’accordi che oramai si potrebbe definire primomaggico. 

Subito dopo arriva Santino, che nella scorsa edizione del talent X Factor aveva portato un po' di Primo Maggio, cantando addirittura "Don Raffaè" alle audizioni, tanto che i talent scout primomaggici non potevano farselo sfuggire, e infatti eccolo qui a portare altre canzoni che sembrano "Don Raffaè" sul palco del concertone. 

Nel frattempo, la narrazione del concerto del Primo Maggio è punteggiata dalle notizie pazze di Internet a cura del sito Lercio, che arrivano sulla Rai con due/tre anni di ritardo: ricordiamoci che l'inno primomaggico è il pezzo "Ricicla Riusa" e che i dirigenti Rai sono convinti che gli abbonati non siano a conoscenza di quanto accade su internet.

Finalmente, però, arrivano le novità: ricompaiono dal secolo scorso i Modena City Ramblers accompagnati da una band che si chiama Fanfara Tirana. Vi sembra abbastanza? Certo che no! Infatti cantano “Fischia Il Vento” e, sulle prime note del pezzo, la regia stacca su Luca Barbarossa il quale commenta “non è veramente il Primo Maggio se i Modena City Ramblers non cantano “Bella Ciao” provocando un cortocircuito cosmico che apre un varco spazio-temporale resuscitando un centinaio di vecchi gerarchi nazisti che però subito dopo essere arrivati tipo zombie in Piazza San Giovanni armati di mitra hanno deciso di ritornare nel mondo dei morti perché l'esistenza è una sofferenza troppo grossa.
In quel momento rifletto anche su questa possibilità: se mi rapisse un alieno e mi chiedesse il principale motivo dell’insuccesso della lotta di classe credo che gli mostrerei quest'immagine.

Dopo di loro ero convinta di aver raggiunto il climax di sofferenza primomaggica, invece vengo ulteriormente stupita: tocca infatti alla band che aiuta la povertà da 10 anni ossia l’onlus Rezophonic, che se quell'alieno dovesse chiedermi il motivo dell’insuccesso della beneficenza gli mostrerei una loro foto. I Rezophonic stupiscono con la brillante barra “né là né qua, ma nell’acqua” che se la sente qualche rapper di Atlanta chiede subito di collaborare. Alcuni ritengono che i Rezophonic siano una sensata rappresentazione del rock italiano, noi intanto ci documentiamo se esista una onlus che si occupi di denunciare il crimine contro l’umanità rappresentato dall’esistenza dei Rezophonic.

Qualcuno si fa un selfie.

Poi c'è uno che canta con un africano una canzone tipo Youssou N’Dour—ricordandoci che pure queste cose fanno parte dell’inossidabile immaginario primomaggesco. 
Il duo etnico se ne va e sale sul palco Nada con gli A Toys Orchestra. Ci chiediamo se al Concerto del Primo Maggio l’audio faccia così cagare perché fischia il vento e infuria la bufera. 

Un poeta napoletano vestito da africano che canta Gaber.

Noto che nella band di Peppe Barra c’è uno talmente fricchettone che crede che la chitarra si debba suonare come un bongo. 
A questo punto della manifestazione credo di potermi a buon diritto lamentarmi dell’assenza di Fiorella Mannoia, grande amica della fisarmonica. 

Successivamente decido di lanciare un sondaggio su chi sia la band più rappresentativa del concerto del Primo Maggio: Fanfara Tirana o L’Orchestra Operaia? Prometto che il vincitore suonerà “Bella Ciao” (promessa che mi sono inventata senza sapere realmente se queste band la sappiano suonare, non è un pezzo così scontato). 

È il turno di Coez, presentato dalla donna tatuata di nome Mario come un “musicista crossover”—in pratica il nostro Fred Durst. Sono contenta che i numerosi fan di Enzo Avitabile che popolano la piazza del Primo Maggio siano ora a conoscenza della musica di Silvano. Intanto in grafica passano informazioni su di lui, ad esempio che era un WRITER. 

Dopodiché sale sul palco un etnomusicologo che insegna ai giovani musicisti che parteciperanno ai Primi Maggi del futuro come suonare "Fischia Il Vento" e "Bella Ciao". Un servizio che garantisce la continuità di questa manifestazione.

L'utente Twitter Ortiche ci offre un'immagine evocativa di quel genere musicale mostruoso che infesta ogni manifestazione sinistroide da mille anni a questa parte e che per comodità definiamo semplicemente PATCHANKA.

La giornata prosegue nonostante le forze stiano cedendo, ma aspetto a cedere perché arrivano i Marlene Kuntz, che onestamente rispetto a tutto il resto sembrano anche giovani nonostante sappiamo tutti che in Transilvania il tempo non passa mai. 

Loro stranamente non fanno patchanka, non usano fisarmoniche e bonghi e non intonano "Fischia il Vento". Approfitto di questa distrazione dal campo semantico primomaggico per rivolgere un quesito che a me pare legittimo all'account Twitter della SIAE: 

Da questo momento in poi non ho più guardato la trasmissione perché dovevo fare altre cose nella mia vita. Ho chiesto ai miei colleghi della redazione di Noisey se per caso fossero interessati a segnarsi cosa succedeva ma la risposta è stata tendenzialmente derisione/nulla cosmico, però fortunatamente ho trovato un martire, Damiano, che mi ha riassunto così le ultime ore del concertone (abbiamo saltato la parte Skunk Anansie e lo zoccolo duro romano Fabrizio Moro-Tiromancino-Gazzè, se a qualcuno interessa vada a guardarsi dei video dei Primi Maggi degli scorsi anni):

Sul palco Napoli: Raiz e Mesolella (mio padre aveva in ufficio un collega che si chiamava così, faceva colazione a Montenegro, era davvero divertente) continuano ad alimentare il cliché che al Sud esistano solo due generi musicali, e che per essere “contro” il sistema, l'abbigliamento e i denti debbano essere mal ridotti. L'incursione di un Paolo Rossi come al solito alticcio sfiora la vetta nell'improvvisazione su un testo di Gian Maria Testa, roba che neanche dopo due giorni di speed puoi farla peggio. Seduti dietro le spie, Rossi canna tutto, Mesolella la butta sul mood De Andrè, band allo sbando e il “teatro” finisce come al solito nella polvere. L'uno contro tutti con Carmelo Bene brilla come avanguardia. Il Raiz non può che constatare il guano in cui sguazzano tutti e tenersi distante a fare i cori.
 


Salmo viene presentato come novità, (secondo l'account della SIAE pare che abbia alle spalle appena un anno di carriera). In effetti qualche giovincello dalla piazza sembra svegliarsi e caricarsi. Il ragazzo si dà da fare, pulito, dritto, basi decenti e voce roca. Peccato per l'abuso dei “ci siamo Roma” ecc, che ci ricorda come Samuel dei Subsonica sia sempre in agguato, anche nel rap. Siparietto dei conduttori: non si accorgono di essere in onda, e cianciano amabilmente. Purtroppo la Divine della situazione non ci dice di più, e Barbarossa ha lo stesso fascino di Floris o di un Occhipinti a sanremo. Da capire perché se sei fuorionda parli col microfono a mano.

Un momento che ci eravamo persi, ringraziamo Soundsblog per averlo riportato.

Poi tocca a Vinicio con i Calexico. Vorrei sapere perchè i Calexico suonano con Vinicio. Lui sembra sobrio e in forma, sound messicano da matrimonio, ma l'atmosfera da tavernello rimane, e non si capisce dove sia l'apporto reale della band al cantautore. Il solito Vinicio, amico dei circoli ARCI e col faccione peloso a ricordarci che per essere di sinistra in Italia la barba è imprescindibile. Ma dietro l'angolo ci sono altri GIOVANI. Questo dichiarano Mario – Barbarossa. Questi giovani sono i The Giornalisti.

Il cantante Tommaso Paradiso è vestito da maniaco al parco. La band suonicchia, lui non essendo intonato e tentando un crossover indie (…) tra Dalla e Venditti, alla fine ne esce come un Grignani più brutto e meno sfatto. Suona con Francesco Mandelli detto il Nongiovane. Questo era il gettone GIOVANI. La nuova musica italiana. Paradiso si può consolare con i soldi dei diritti presi dopo aver scritto per Luca Carboni. Noi ci consoliamo con? Le bestemmie? Maldestro.

Qui arriva un concetto forte. È un musicista di Scampia, QUINDI deve suonare al concerto del Primo Maggio. Il momento quote rosa del disagio, cioè se nasci in un posto di merda hai diritto a spazi. Ma oltre a Scampia in Italia di posti messi male ce ne sono parecchi, al Sud come al Nord. Quindi attenti a questo ragionamento, è un filino posto male. La canzone è imbarazzante, la festa dell'Unità continua e il pubblico oramai se n'è fatto una ragione. Asian Dub foundation. Sono INGLESI, così ci dicono i conduttori. Momento internazionale. Forse li chiamano perché sembrano sempre un gruppo da centro sociale del 1996? Sound sinistroide per italiani che fa tutti contenti. Ed è questo che irrita, non solo il colon.

Poi non se ne sa più niente, ma a quanto pare il concertone si è concluso con un trascinante dj set:



Ora, capisco che era la festa del Lavoro per tutti, ma mi chiedo da quanto tempo nessuno lavori per togliere almeno l'impressione che i soldi spesi per montare il palco del Primo Maggio a Roma non fossero più utili spesi nell'acquisto di vecchi francobolli, che almeno hanno un valore per gli appassionati di numismatica. L'impressione è sempre quella di ritrovarsi incagliati in una bolla spaziotemporale stantia, che è l'immaginario che ogni Primo Maggio di Roma porta con sé. Non stupisce che una tale rappresentazione della lotta sia uno degli elementi che contribuiscono ad allontanare la gente dalle piazze e a creare un divario incolmabile tra politica e attualità. 
Gli unici apparentemente felici di come è andata la manifestazione sono gli amici di SIAE, il cui live-twitting entusiasta è passato pure in secondo piano, visto quanto è stato agghiacciante tutto il resto.

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Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

 

BABYMETAL - Metal Resistance BMD -Fox / Toy’s Factory

 Il Giappone ha fatto tante cose belle per il nostro svago: Keiji Haino, i Pokémon, la rovesciata di Okazaki contro il Newcastle e Cooking With Dog, ad esempio. Metal Resistance, però, non solo entra in grande stile tra i grandi artefatti culturali nipponici; risolve, finalmente, quelle aspre lotte intestine che hanno impedito finora al metal di diventare IL genere musicale per eccellenza, e conseguentemente a Giuseppe Binetti di entrare a X Factor qualche anno fa. Non ci sono poser e believer, nel mondo di Su-metal, Yuimetal e Moametal – solo la tanto agognata fratellanza sonora che, morta la generazione di aironmeide, giudaspris e colleghi, impedirà al metal di tornare all’underground da cui venne generato quarant’anni fa, evitandogli di finire schiacciato dalla sua stessa incapacità di smarcarsi dalla mera imitazione di uno dei grandi modelli del genere. “Awadama Fever” c’ha un growling occulto che manco Panzer Division Marduk, “Road of Resistance” è praticamente un pezzo dei DragonForce (forse anche perché l’hanno scritta e suonata i chitarristi dei DragonForce), “KARATE” ti spara i breakdown djent tutti brachelarghe e gomiti in faccia, “Meta Taro” suona più epica di un ipotetico figlio bastardo tra i Manilla Road e i Cirith Ungol, “Sis. Anger” è la dimostrazione che gli Slayer avrebbero fatto meglio a sciogliersi dopo Seasons In The Abyss – tanto, qualche anno dopo, tre idol giapponesi sarebbero arrivate a fare quello che avevano sempre fatto, e a farlo meglio. Metal Resistance è il suono della vittoria: un’utopia crollata nella realtà, il ritmo pulsante di un lieto fine, la sicurezza di un futuro migliore. 

GIULIANO PARMA

 

JUAN ATKINS & MORITZ VON OSWALD PRESENT BORDERLAND - Transport - Tresor

 Boh, e dico BOH: sto progetto non lo capirò mai. Se io fossi nel loro, nel senso, se fossi un santo della musica, uno considerato un pioniere del mio genere di riferimento, uno che ha contribuito a crearlo per come è ora e/o ne ha aumentato pesantemente lo spettro di influenza ficcandoci dentro nuove idee rivoluzionarie… Dico, se io fossi uno così e mi mettessi assieme a un altro tipo così a fare un progetto che pure se ci conosciamo da venticinque anni non ne avevamo mai fatto uno assieme, dico, se io fossi così, ecco, se lo fossi, ecco… Direi al mio compare: “mo’ famo il cazzo che ci pare, ci facciamo venire le idee più folli della terra e sperimentiamo con tutto il materiale che abbiamo a disposizione, tanto ci importa na sega a noi, siamo gli dei della techno.” E invece no, cazzo: questo è già il secondo album in cui Juan Atkins e Moritz Von Oswald e dico JUAN ATKINS E MORITZ VON OSWALD ci consegnano una manciata di tracce di techno sì raffinata, sì godibile, sì lambita dalle profondità riverberose dell’uno e graziata dalla classe essenziale dell’altro ma prevedibile e PALLOSISSIMA. C’avessero messo un’idea… Una! Come cacchio facciano due teste così ad incontrarsi e tirare fuori il disco più generico e meno ispirato dell’anno non lo so. Ci sono a malapena due tracce in cui provano a usare ritmiche diverse: una mezza-breakbeat e e l’altra quasi-garage. Non ce la si può sempre prendere con la terza età, però loro potrebbero pure provare a essere meno anziani, diamine.

MARKUS VAN PALLE

 

BUGO - Nessuna Scala da Salire - Carosello

 Quando penso al signor Bugatti mi torna sempre in mente l’immagine di lui al calcetto della Casa 139 di Milano (un locale che ora non c’è più, quindi se siete stalker di Bugo è inutile che ci andate), non so per quale motivo ma lo vedevo sempre lì e giocava sempre a calcetto. Erano gli anni in cui Bugo era UNA COSA, non LA cosa, perché non credo lo sia mai stato, ma non c’era sicuramente nient’altro, in Italia, paragonabile a lui. Ogni sua azione, ogni suo testo, video o brano, riusciva a essere dada ai limiti del situazionismo, completamente fuori contesto rispetto al resto della musica italiana dell’epoca, e non dava nemmeno l’impressione che lo stesse facendo apposta, lui era così e basta. Nemmeno so come potrei definire Bugo, se non usando il termine naïf, come l’arte di chi non studia per farne, ma ci inciampa sopra. Questo suo ritorno è già segnato da un’estetica più curata e da un inserimento discografico a volte forse troppo pettinato per il Bugo dell’aggiornamento precedente. I nuovi brani si avvicinano a strutture Mogol/Battistiane, che comunque mantengono la loro intensità ingenua e diretta e sicuramente funzionano meglio nel suo caso che in altri. Con lui non si ha l’impressione che stia emulando una forma di semplicità mirando in realtà a ben altri fasti: Bugo è semplice davvero, non vuole fregarti, e sono quasi sicura che a quel calcetto non abbia mai rullato.

RECENSIONE POSITIVA SOLO PER VIA DELLE MELE INVIATE IN REDAZIONE INSIEME AL DISCO

 

JAKE LA FURIA -  Fuori Da Qui - Universal

 Quando ho ascoltato la prima volta il nuovo disco di Jake La Furia ho subito sentito questa fastidiosa sensazione intima di dovermi lavare le orecchie col fuoco. Poi l'ho riascoltato ancora una volta e ne sono stato sicurissimo: dovevo assolutamente cucinarmi i timpani a fuoco alto. Al terzo ascolto, invece, Fuori Da Qui era diventato il mio disco preferito (nella storia della musica rap) e "Me Gusta (feat. Alessio La Profunda Melodia)" la mia canzone preferita (nella storia della musica tutta). Al quarto ascolto avrei voluto stracciarmi le vesti e correre in giro per la città e ballare diversi stili di danza a tanti quanti sono i generi che Jake riesce a toccare durante le 14 tracce del disco, mi immaginavo in mutande a eseguire meravigliose dentro una gabbia insieme a Jake come fossimo Shia LaBeouf (io) e la bambina ipersessualizzata dei video di Sia (lui). Al quinto ascolto ho deciso di riporre il CD all'interno della sua coloratissima confezione e di regalarlo a mia sorella.

GOLA PROFUNDA

 

EARTHQUAKE ISLAND - Dandelion To Neon - Anay

 Ogni tanto frugo tra le mie vecchie cose alla ricerca di idee e progetti che ho abbandonato e li riprendo in mano. È divertente farlo perché mi fa capire che il passato non esiste e mi vergogno tantissimo di ogni cosa fatta, detta o prodotta che si sia svolta a distanza uguale o superiore alle 72 ore. Questo disco qui invece è una raccolta di storie ed esperienze lunga due anni e dentro ci sono tantissime idee, alcuni riprese, rielaborate, stravolte. Ogni traccia è accompagnata molto precisamente da un racconto legato direttamente o per vie traverse alla vita a Tokyo, ma per me è soltanto la prova che non sempre bisogna cancellare tutto di se stessi per riuscire a raccontare la propria storia. Anche se spesso è la cosa giusta, e io vorrei cancellare queste recensione, ma invece no.

OTOLIQUORREA CRONICA

 

THE GEROGERIGEGEGE - Moneai Hai - Eskimo

 Dopo la morte di Prince forse la cosa più sconvolgente di questa fine d’aprile è l’uscita del nuovo album dei Gerogerigegege dopo quindici anni di totale silenzio. Silenzio impossibile da credere, giacché i nostri eroi sono stati i capi assoluti del japanoise di ogni era, gente che davvero non aveva paura di nulla. Al confronto GG Allin faceva ridere i polli morti di Richard Benson. Una storia fatta di disastri sonori di pochi secondi al limite dell’ascoltabile, performance pubbliche di mangiare la merda e farsi le pippe con aspirapolveri, e anche di momenti “weirdbient” davvero toccanti: e infatti, il lider maximo Juntaro in questo nuovo capitolo si concentra sopratutto sul proseguimento del discorso sospeso in Endless Humiliation. Vi sono sì momenti di furia vecchio stile ma appunto perché registrazioni inedite del periodo d’oro: il resto è field recordings di roba metallica, di pazzi che parlano di cose a caso, tutto avvolto in droni che vedono un Juntaro preso dalla calma dei serial killer, pronta a esplodere ma che non lo fa mai, come se fosse caduto nella pozione di Obelix sostituita da un pappone di psicofarmaci scaduti. In “Final Tuning” c’è addirittura una regressione allo stadio infantile con campioni di giochi di bambini e melodie innocenti introdotte dal brusio di un centro commerciale: l’incombente pericolo della vita moderna, la lobotomia perenne. Arrivato a questo punto Juntaro però non ha più bisogno di spaccare i cervelli col martello ma diventa l’Eno del noise, come lui abbandonando il rock dei suoi ideali Roxy Music marci per un minimalismo che ai nostri lobi frontali regala iniezioni di alcool. La prossima volta però rivogliamo anche Gero35, possibilmente col cazzo in mano.

PULEDRO ALLAPULEGGIA

 

ULI K -  Elusivo -  Bala Club

 Uli K si legge Uli Que, perché il giovane dietro all'alias è cileno di origini e probabilmente si chiama Ulises. Voglio pensare che sia così perché pure mio padre si chiama Ulises, e non mi era mai capitato in venticinque anni di vita di conoscere un suo omonimo. L’emozione è già incalcolabile e non ho neanche cominciato a parlare di lui. Questo EP è uscito su Bala Club, l’etichetta/collettivo londinese di cui è co-fondatore assieme al fratello Kamixlo e consiste in sei tracce rap super sad americane, mezze in inglese mezze in spagnolo, in cui appare chiaro che la tristeza da cui è afflitto il ragazzo è quasi sempre di natura sentimentale. Piccolo Uli. Di primo impatto, ascoltando Elusivo, ho reagito come con Maruego: smorfie di orrore e intolleranza. Ci ho messo circa due settimane per metabolizzare l’arte di Uli, a partire dal suo vocoder confortante, e l’atmosfera trasognata delle basi, quasi tutte del socio svedese Mechatok. Mi è pure toccato approfondire la figura di Yung Lean, dopo anni di voluta astensione dal giudizio, dopo che TUTTE le persone a cui ho passato questa perla se ne sono uscite con “Mmh, mi ricorda molto Yung Lean.” Miglior scoperta di aprile, definitivamente—Uli, non Yung Lean.

TOMATOMATOMATOMA

 

ROB ZOMBIE - The Electric Warlock Acid Witch Satanic Orgy Celebration Dispenser - UNIVERSAL

 "Lo sapevo che non avremmo mai dovuto entrare qua dentro ragazzi, che cazzo sono questi rumori? È come se qualcuno stesse suonando i dischi tamarri anni Novanta dei Butthole Surfers al contrario usando un mausoleo di pietra come cassa di risonanza. Non la vedo per niente bene. Forse dovremmo tornare indietro. Ah! Che cazzo è? Un calendario di Marilyn Manson del 1999 con gli occhi bruciati dalle sigarette e una strana sostanza densa e rossa spalmata sulle pagine. Sangue finto? Cosa ci fa una motosega accesa su quell’altalena? Oddio, ma quello è uno degli Slipknot impalato su una Flying V? Ok ragazzi, molto divertente, ora smettetela di mangiucchiarmi le orecchie. Merda, chi cazzo è stato a spingermi? Ho sfondato il muro! Ma era di cartone! E dietro c’è una festa totalmente fuori di testa a base di chitarre ultradistorte bestiali, riff megaRUOCK, sangue finto, alieni di plastica, MDMA e vodka da quattro euro."

KLAATU BARADA COSO LÌ 

 

ZUCCHERO - Black Cat -Universal

Lo scorso luglio eravamo a vedere Powell a Brescia e un mio amico, innalzando casualmente il Mein Kampf di Hitler, ha urlato: “Mettete Zucchero Fornaciari!” È stato un bel momento principalmente perché era dal 2005 che non mi ricapitava di pensare alla figura mitologica di Sugar Fornaciari, né di interrogarmi su ciò che ne era stato della sua carriera musicale. In questo 2016 già bello inoltrato, Zucchero ha un merito solo: quello di aver reso reale e mercificabile un’espressione come PARTIGIANO REGGIANO. “Partigiano Reggiano” è il primo estratto, con tanto di video, di Sugar dall'album Black Cat, nome purtroppo rievocante i drink che servono nel bar del mio paesino ai confini del comune di Arezzo, o in Colonne a Milano agli universitari. Non di certo all’altezza di una chicca come “Partigiano Reggiano”. Vorrei fermare qui il mio entusiasmo che si sta rivelando immotivatamente eccessivo, ma temo di non poterlo fare. Mi piace ricordare Sugar anche come colui che incita i propri fan ad “alzare le protesi”, dando loro dei: baracconi, troioni, catamarani, cassonetti, FATISCENTI. Per questo e per molto altro, Zucchero deve resistere.

VAI GIGI

 

Guarda David Chappelle cantare "Creep" dei Radiohead al compleanno di Erykah Badu

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I regali di compleanni più belli sono quelli che non si possono comprare, tipo David Chappelle che ti canta una cover di "Creep" dei Radiohead.

Questo è esattamente quello che è successo ad Erykah Badu per il suo quarantacinquesimo compleanno lo scorso febbraio, e ora un video di quel momento è compraso in tutta la sua gloria sull'internet. Probabilmente è l'ultimo pezzettino di Radiohead che potrete trovare online.

Alcuni pettegolezzi sostengono che David abbia fatto la stessa cosa in uno strip club di Portland qualche mese prima, ma buona fortuna a trovare quel video. Guarda il video qua sotto:


Club Motherfucker era l'isola felice dell'indie rock londinese

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Beck Rosoman e Zena Blackwell hanno iniziato a far suonare gruppi indie nella stanzetta Upstairs at the Garage nel 2003, e per quanto si potessero trovare tante serate indie a Londra a quei tempi, questa era la più queer e divertente. Si spostava tra diversi locali, molti dei quali sono ormai estinti causa gentrificazione, ed è andata avanti per dieci anni prima di venire mandata in pensione nel 2013. Grandi e piccole band sono passate per questi palchi, perciò abbiamo chiesto a Beck di mandarci un po' di foto delle loro serate più memorabili e di raccontarci com'erano i Bloc Party nel 2003.

(Foto Beck Rosoman/Zena Blackwell/Burak Cingi)

Hai già piaciuto la nuova pagina di Noisey Italia? 

The Killers, Upstairs at the Garage, settembre 2003

"Era la prima volta dei Killers a Londra. Penso che avessero suonato al Dublin Castle un paio di giorni prima e forse al Barfly, e si parlava molto di loro. Il concerto filò liscio, anche se troppo patinato e grandioso per la sporca stanzetta Upstairs at the Garage. Pensavamo che se la tirassero perché richiedevano 44 barrette al cioccolato sul rider, ma poi venne fuori che si trattava di un refuso: ne volevano soltanto una a testa."

Charli XCX, Bardens Boudoir, marzo 2009

"Era il sesto compleanno del locale e Charli aveva soltanto sedici anni. Aveva quel tipo di sicurezza presuntuosa che ci si poteva aspettare da una scene queen adolescente con una parrucca rosa e una maglietta di Never Mind The Bollocks."

La saletta di Upstairs at the Garage, 2004

"Questa è una foto fatta a inizio serata. Il locale era sempre pieno dal momento dell'apertura alle 21, e le band iniziavano verso le 21:30. Trovare un tavolo era una lotta—io non ci sono mai riuscita, e il posto lo gestivo."

Grimes, Corsica Studios, agosto 2011

"Eravamo grandi fan della musica di Grimes per cui non vedevamo l'ora di scoprire come sarebbe stata dal vivo. Anche in questo caso, si trattava della prima volta in UK. Anche se la sua performance si è evoluta grandemente, allora era già fantastica e traboccante di idee. Era super carina."

Kim Ann Foxman, Bardens Boudoir, gennaio 2009

"Abbiamo incontrato Kim Ann al suo party Mad Clams al The Hole di New York, e ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo portato lei e un altro DJ resident da noi per una serata unica, all'Infinity di Mayfair, attorno al 2005. L'altro DJ era Andy Butler, che poi avrebbe formato Hercules e Love Affair. Questa foto è stata fatta quando Kimm Ann era la vocalist del progetto."

Soko, Bardens Boudoir, aprile 2008

"Questa è Soko prima che cominciasse a uscire con Kristen Stewart, durante un concerto acustico al Bardens. Penso che fosse appena tornata dal tour con MIA e fosse stata aggiunta alla scaletta all'ultimo momento, perché l'headliner aveva paccato. Non ricordo chi fosse ma sono abbastanza sicura che non fosse affascinante quanto Soko."

Metronomy, Bardens Boudoir, febbraio 2007

"I Metronomy avevano già suonato alla serata sopra al Garage, ma tornarono a Dalston per suonare quello che dovette essere il loro ultimo concerto in un locale piccolo."

Friendly Fires, Bardens Boudoir, aprile 2007

"Questo era prima che firmassero per XL e prima del primo album, ma il concerto fu una bomba. 'Your Love' andava molto nel club, quindi live fu un grande momento. Ovvio che durante quella abbiamo acceso le strobo."

Best Fwends, Upstairs at the Garage, agosto 2005

"I Best Fwends erano due ragazzini del Texas che facevano canzoni anti-pop velocissime che duravano tutte meno di due minuti. Incidevano per Moshi Moshi e suonarono per noi un paio di volte. Questa fu la mia preferita—scesero dal palco e suonarono sul dancefloor, provando con tutte le forze a far pogare la gente. Ci riuscirono."

Matt & Kim, Bardens Boudoir, novembre 2007

"Questo fu un concerto divertente. Matt & Kim hanno energia da vendere e conquistarono totalmente il pubblico. Ci fu un'invasione di palco e qualcuno finì per esaltarsi un po' troppo. Una ragazza fermò Kim mentre suonava la batteria solo per abbracciarla."

Bloc Party, Upstairs at the Garage, ottobre 2003

"Qui era prima che trovassero un agente di booking—Kele mi aveva mandato un demo con un biglietto in cui chiedeva di suonare alla serata (che ho conservato). La conosceva e gli piaceva l'atmosfera da "tutto può succedere". Ricordo che menzionavano Bret Easton Ellis tra le loro influenze, il che era interessante. Il loro concerto fu grandioso ed era evidente che avessero un brillante futuro davanti. Li facemmo suonare un paio di volte dopo questa, anche al White Heat."

Festa per il decimo anniversario, Upstairs at the Garage, maggio 2013

"Questo è il pubblico che dà di matto durante il concerto dei Blue Hawaii, gli headliner della nostra ultima festa ad Upstairs at the Garage tre anni fa. Erano tutti felicissimi di essere tornati al Garage e tutti si sentivano a casa. C'era un misto di frequentatori abituali che c'erano sempre stati e giovani queer che ci dissero che sentivano parlare delle nostre feste fin da quando erano bambini e avevano sempre voluto esserci. Che vecchi che siamo!"

Il Club Motherfucker festeggerà il suo tredicesimo anniversario con una festa a Upstairs at the Garage, dove tutto è iniziato, il 14 maggio. Info qui.

Ascolta due registrazioni clandestine di Axl Rose in sala prove con gli AC/DC

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Fin dove saresti disposto a spingerti per scoprire in anticipo se valga la pena di comprare i biglietti per il prossimo tour degli AC/DC con Axl Rose alla voce? Probabilmente non così lontano quanto questi intrepidi cacciatori di registrazioni clandestine. Leggiamo su Metalsucks che una coppia di superfan sarebbe riuscita a penetrare dentro alla sala prove degli AC/DC a Lisbona (dove il 7 maggio comincerà il tour mondiale) e a registrare alcuni frammenti delle prove della band—per quanto si riesce a sentire attraverso le porte dello studio. Il risultato finale, che naturalmente potete ascoltare qua sotto, è... be', non male. 

Sinceramente, parlando da fan, Axl DC suona mica male, ed è esattamente quello che ci si può aspettare da questa accoppiata tanto sbagliata che potrebbe diventare giusta. Non è Bon Scott, ma il roco ululato di Axl si mescola bene con il tipico sound AC/DC e, considerando anche il volume e la chiarezza relativa di quanto si riesce a sentire dall'altra parte della porta di acciaio, la sua voce sembra abbastanza in forma.

Cosa dite, ci permettiamo di un po' di cauto ottimismo rispetto alle future date degli AC/DC + Axl Rose? 

Pare che Damon Albarn abbia dimenticato il nuovo disco dei Gorillaz in un taxi

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Foto via 

Il povero Damon Albarn sta vivendo un piccolo incubo. Immagina di aver lavorato per mesi e mesi a materiale inedito e immaginati che, per una distrazione, il computer in cui tenevi questo materiale finisca dimenticato in un taxi londinese. Marc Dugdale, amico di Albarn, ha rivelato in un post pubblicato su Save Our Black Taxis che lui e Damon sono in paranoia perché stanno cercando disperatamente di ritrovare quel computer in cui a quanto pare è contenuto il nuovo disco dei Gorillaz, che adesso probabilmente è in possesso di qualcuno che magari non si immaginava nemmeno di avere un piccolo tesoro tra le mani e ha riformattato il computer, o che magari si terrà per qualche anno tutto quel ben di dio, salvo poi farlo pagare caro alla società come cimelio inestimabile della superband a fumetti. Immaginatevi lo smacco di ritrovarsi in un futuro prossimo o remoto a dover pagare un sacco di soldi un tassista che detiene "il disco inedito dei Gorillaz che quel babbo di Damon Albarn aveva scordato in taxi".

Nonostante Mark abbia appena reso pubblico il suo appello, pare che la ricerca sia già avviata da qualche giorno e che siano già stati mobilitati i dirigenti del servizio dei trasporti londinesi per vedere se in qualche modo si riesca a risalire al materiale dimenticato. Né l'autista né i dirigenti, però, hanno saputo dare una risposta a queste richieste. Al momento i fan dei Gorillaz, che ovviamente hanno preso la causa molto a cuore, hanno avviato una mobilitazione online all'insegna dell'hashtag #DamonAlbarn con la speranza di riuscire a smuovere la coscienza di chiunque sia in possesso del prezioso computer, che farebbe un favore al proprio karma, oltre che alla musica e a quel demente di Damon, se restituisse il materiale sano e salvo.

 

Seguici sulla nostra nuova pagina Facebook, tra poco abbandoneremo per sempre quella vecchia:

Storia di Red Ronnie, mistico incompreso della musica italiana

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Red Ronnie, il suo cagnetto Holly e un pacchetto di taralli.

In questi due anni c’è stata una moria tale di rockstar e popstar che uno pensa: forse il pop/rock sta morendo proprio adesso. Ci sono altri segnali sostanziali di malessere del rock, a parte questo, ovvero: il concetto d’icona sta cambiando forma, MTV—che dagli anni Ottanta ha contribuito a creare miti (ricordate "Video Killed the Radio Star"?)—sta evaporando (aggiorniamola con una “Web Killed the Video Star”).

Oggi la videomusica è alla portata di tutti, i programmi musicali stanno sparendo, sostituiti da un nuovo uso domestico, individuale, suscettibile degli umori del pubblico, che dall’iniziale curiosità attiva del primo YouTube si ritrova ora nel baratro mentale del “vediamo un po’ a caso”, essendo l’offerta e la domanda molto squilibrate, come qualità e soprattutto come quantità. Diciamo che l’immagine ha spodestato completamente non solo la musica, ma anche lo stesso supporto che la ospita. Nei Novanta Lucio Dalla, durante un’intervista promozionale del suo live Amen, prevedeva una situazione del genere. All’epoca, quello che diceva sembrava quasi una banalità, perché non ci eravamo resi conto che la cosa si sarebbe estremizzata del doppio. E quindi che alternative abbiamo? Siamo condannati a rimpiangere i cadaveri?  Be', in questa nostra analisi del fenomeno c’è un personaggio che io definirei simpaticamente uno zombie della materia: ovvero l'“evergreen” Red Ronnie (quando i giochi di parole diventano paradossali), che ultimamente sta vivendo un ritorno mediatico che non ci aspettavamo. 

Red Ronnie e Lucio Dalla: fu quest’ultimo a far capire a Red che Prince era un genio. Prima di allora pensava con lungimiranza fosse un semplice emulo di Hendrix.

Appunto perché profeta della morte del settore, in ogni intervista non manca di far notare quanto il periodo storico attuale sia una merda: nello stesso tempo però la sua tv web non rappresenta una vera resistenza a questa cosa, quanto piuttosto un fedele specchio dei tempi che corrono, come abbiamo detto, tempi estremamente alla deriva. E questo in qualche modo funziona, suo malgrado. La morte del rock, dicevamo: se voglio scoprire chi è morto questo mese mi sintonizzo sul Facebook di Red Ronnie e lo scoprirò tramite un "Nooooo (morto di turno) nooo”, oppure a un più epico e misterioso “buon viaggio nell’altra dimensione”.



È una reazione standardizzata ma di presa universale, futuribile, addirittura paragonabile al discorso di un androide in fissa con la metanewage che ci porta a riflettere sul caso Ansaloni in maniera diversa. Se è arrivata a occuparsene anche Virginia (cosa che mi ha sorpreso), vuol dire che Red ha una capacità di bucare la notizia fuori dal comune. È tornato all’attacco con la storia dei talent nell’immediata morte di Prince, proferendo testuali parole: 


Insomma, ci s’intigna. Nonostante questa ossessione insensata non mi trovo molto d’accordo con Virgi, più che altro perché critica Red Ronnie con i metri—per carità, sacrosanti ma non sempre necessari—della realtà. E invece dietro Ansaloni c’è dell’altro, cioè l’assurdo.

Un servizio giornalistico sobrio in linea col personaggio: lucidissimo.

Andiamo per ordine. Virginia si ricorda a malapena, per sua stessa ammissione, il passato di Ronnie: noi invece ce lo ricordiamo bene. Andavamo alle medie col diario di Be Bop a Lula, la trasmissione di Red a base di VHS che negli anni Ottanta ospitava musicisti scottanti mandando servizi su Krisma e Gaznevada, ma anche roba dall’estero mai sentita tipo i Virgin Prunes, i Pere Ubu e le riprese erano di uno spontaneismo naif che superavano il punk di Julien Temple per entrare DIRETTAMENTE nel genere amateur/pornografico. Le interviste in inglese erano formulate in maniera incomprensibile, ciononostante comunque i cantanti riuscivano a rispondere miracolosamente (non senza fatica, nel tentativo di uscirne vivi): con tecniche subliminali Red mandava spesso una sua collaboratrice a Londra per intervistare la gente e poi la DOPPIAVA in postproduzione(!).

Insomma, lo seguivamo perché rispetto agli altri stava fuori, aveva il coraggio (o la faccia tosta) di proporre l’improponibile in una qualità prepotentemente lo-fi che ci faceva sviaggiare. E non è che oggi sia cambiato: pretendere che lui veda le cose con gli occhi della razionalità è come pretendere che un cane vada a lavorare in automobile. La sua televisione è sempre stata basata su un qualcosa che non è improvvisazione come molti e lui stesso dice, ma approssimazione totale: sì, dal punto di vista tecnico Red si fa trovare il piattino tutto perfetto, certo. Dice bene quando tesse le lodi dei suoi entourage, ovvio. Tutto funziona alla grande… Ma poi, forte di questa perfezione, lui smonta la scena come un tarlo che si mangia un pianoforte. Perciò al Roxy Bar, nei lontani anni Novanta, riusciva a far jammare personaggi lontani anni luce fra loro, in modo “cotto e magnato”, ottenendo per il 99 percento dei casi performance penose e per questo memorabili (ricordo se non erro un “bellissimo” duetto 99 Posse-Jovanotti che però fu in qualche modo profetico rispetto a certe virate del mercato). E non è che chiedevamo altro, era il bello di un programma completamente weird: come definire altrimenti le cazziate che faceva in diretta a chi fumava, beveva si drogava? Completamente fuori dal mondo, tanto che quando lo vedevi t’infastidivano non tanto le sue arringhe ma sapere che il giorno prima erano arrivati i Motörhead in studio e fumavano e bevevano come degli stronzi senza che lui dicesse "A". Oppure invitava gli Afa e questi parlavano di prendersi le pasticche e fare i nomadi psichici, poi li metteva a discutere con un prete cercando lo scontro, e il prete magari era pure d’accordo con loro!  

Questa è la nuova pagina Facebook di Noisey Italia, tra poco sarà l'unica su cui potrete vedere i nostri post, quindi seguiteci:

 

Sempre durante una mitologica puntata di Roxy Bar, il nostro invitò i C.C.C.C. e gli Hijokaidan, in sostanza due tra i più violenti act di noise giapponese sulla Terra, col risultato che la gente a casa mandò messaggi di disappunto e le scolaresche in studio (perché ci andavano un sacco di mocciosi) passarono tutta la performance con le orecchie tappate.

Lui cercò di blastare i giapponesi per tutta la loro permanenza in studio (eh, oramai Red era nel pensiero positivo Jovanottiano ao...), uscendone però umiliato e sconfitto dalle loro grandissime risposte (cosa che succedeva praticamente in ogni puntata, senza che lui se ne rendesse conto… Pensava invece di fare la morale e vincere). Ad ogni modo non ho visto mai più i C.C.C.C. in nessun altro programma televisivo italiano da lì in poi, nemmeno in quelli che dicevano di essere “underground”: e non solo gli fa suonare un pezzo, ma gli concede anche il bis!!! Il programma in un certo senso era come quelle cose scrause che fanno nelle TV private in culo al mondo, con l’unica differenza che c’erano i mezzi, e per questo ibrido fra il rustico e il professionale è entrato nella storia: senza dubbio era l’unico che all’epoca comunicava via chat con gli ascoltatori. E ovviamente l’allucinazione mentale di Red faceva la differenza, mischiando tutte queste intuizioni in un magma idrocefalo.

La storia della televisione italiana: i C.C.C.C. rompono il culo a tutto il Roxy Bar e all’Italia intera.

D’altronde  la sua carriera è partita come DJ che mandava principalmente punk e dopo aver prodotto Throbbing Gristle, Rats, e anche la storica raccolta Great Complotto, sulla grandissima e seminale scena no wave di Pordenone, in quanto grande amico di Miss XoX (il capoccia degli Hitler SS e degli Andy Wharol Banana Technicolor per intenderci... Mica no stronzo) tutte le rotelle a posto non doveva averle.

Uno dei primi a sostenere il post-punk in Italia, nel Settantasette asseriva che la polizia aveva rotto le palle e si dichiarava dalla parte degli studenti che sfondavano vetrine: l’ambiente era quello della Bologna di Pazienza. Genesis P-Orridge come sapete gli era tanto amico che voleva regalargli un piercing al cazzo (Red rifiutò con garbo l’offerta, ma non possiamo biasimarlo per questo, volendo essere onesti). Possiamo dire quello che vogliamo ma io sta gentaccia l’ho conosciuta grazie a lui e ai suoi programmi di merda. Che poi voglio dire, neanche troppo di merda considerato che metà della roba anni Ottanta l’ha pensata con Bonvi: se critichiamo Red Ronnie in toto, dobbiamo criticare implicitamente anche l’esimio Maestro, e non è carino.

Onestamente non so quando Red Ronnie abbia preso la piega mistico/moralista/fantaprimitivista che è la cifra attuale della sua opera. E la definirei quanto meno“post oracolare”: Sergio Messina individua questo passaggio con il periodo Live Aid, quando i rocker, da sporchi e cattivi, diventano eroi positivi. Non saprei. Se così fosse non mi spiego ancora la sua fissa per San Patrignano ad esempio: lì quale buonismo può esserci? Sappiamo tutti che è stato un luogo in cui “il fine giustificava i mezzi”. Mettiamo che Red Ronnie sia in buona fede (e considerato il suo scetticismo iniziale, potrebbe essere): in quel caso è stato usato, come un Tom Cruise da Scientology, perché sapevano che si sarebbe bevuto la facciata “solare” della cosa (i drogati che escono puliti dalla comunità come il bucato dalla lavatrice, perdonatemi la battuta).

Voi credete di sapere davvero perché è stato appresso alla Moratti tutto quel tempo?  Per me ancora rimane un mistero che mi fa aggrottare le sopracciglia, secondo me non lo sa neppure lui: forse gli piaceva l’idea di andare in vacanza in Africa. Un po’ come adesso che pubblicizza degli olii essenziali parecchio equivoci e ci tiene a far sapere che li usa davvero, con tanto di video POV in cui è nudo al cesso, anche se poi per lui hanno una valenza curativa quasi MAGICA che appunto… Vogliamo criticare il vodoo? Ok, ma difficile fare un discorso scientifico a chi ci crede e basta.

Enrico Cantelmi: Ciao Red Ronnie,non ho dubbi sul fatto che usi prodotti BeC..ma per quanto riguarda il dentifricio sul sito BeC si enfatizza che nella formula il "Fluoro" viene assorbito benissimo...A tal proposito vorrei che ti documentassi sul fluoro perché risulta dannoso per la salute ed in effetti i pediatri non lo prescrivono più come invece facevano fino a 7/8 anni fa...Studi anche recenti evidenziano la tossicità del fluoro.personalmente uso solo paste dentifricie senza fluoro che compero in erboristeria e costano la metà di quello della BeC.
Red Ronnie: Ti assicuro che il dentifricio è anche un disinfettante. Lo uso per fare gargarismi nella gola
Davide Paolone: Il fluoro è tossico se viene ingerito.

Ecco, a questo proposito veniamo appunto all’uso dei media che Red fa oggi. Partendo proprio dalla promozione degli olii essenziali, che va dalle riprese del bagno a improvvise virate fuori dalla finestra dove “c’è il sole (sic.)” a dialoghi a tu per tu con l’ascoltatore anzi il “visualizzatore”, notiamo uno stile che supera il film The Visit: il suo faccione permea qualsiasi sua trasmissione, girata con webcam e telefonino, con un approccio che è poi quello dei “regazzini” che si sparano selfie e video da soli per cuccare. Non è paragonabile a nulla di visto prima, anche perché le riprese sono storte, pazzoidi, anti-camera a mano e seguono il filo della mente di Red, che passa da palo in frasca senza alcun criterio intelligibile.

La cosa più dirompente sono le dirette via Facebook che avvengono a caso, a orari imprecisati, in maniera totalmente anarchica: legge i messaggi in diretta e commenta in diretta, non ci si capisce un cazzo, ce li fa anche vedere i messaggi, riprendendo il computer con la webcam, l’immagine che mangia se stessa. Cadono i microfoni, a volte fissa un vinile che gira e basta (eh sì, perché spinge il vinile lui! Che è la fissa di tutti gli “intenditori” odierni…); queste cose dovrebbe farle un dilettante qualunque, non un professionista come è Red, no? Per non parlare dell’approccio sulle video-interviste: libero da freni, monta moviole digitali in diretta col computer, svelando l’effetto rewind delle immagini che si arrotolano in modo catartico, sempre riprese come se ci fosse un occhio esterno al di fuori del suo che tutto vede e tutto sente. E poi dice con voce medianica“siamo tutti alla ricerca della verità vi mostro la verità”, registrando le prove degli sparuti gruppi che vanno a suonare da lui, infilandosi in porte e portoni improvvisamente aperte. Il Barone Rosso di Red Ronnie è una trasmissione social, fatta letteralmente in casa (sua) e in qualche modo è la sua ostinazione a fare televisione anche in un contesto che apparentemente l’annullerebbe. E qui sta il bello.

Red Ronnie ci parla dei magici olii essenziali partendo dall’ età della pietra.

Quello che ti fa vedere le dirette di Red Ronnie non è il fatto che presenti qualcosa di nuovo, ma il fatto che ci sia lui a parlare in libertà, rubare la scena, votarsi a quello che è a tutti gli effetti un one man show anche quando ci sono gli invitati. Che non sono certo la crema dell’innovazione o del genio, anzi: sono completamente accessori e in buona parte fanno cacare (e lui se gli segnali qualcosa mica si informa, figurati). In questo senso le sue critiche ai talent non hanno ragione di avere tutta questa risonanza, ma lui in quanto visionario fuori controllo sì. È un altro paio di maniche. Tra l’altro Red non ha mai cambiato il mondo: se caca il cazzo ai carnivori, non per questo diventano vegani, anzi. Ansaloni ha fatto collezione di diti medi quasi quanto i Minor Threat per gli alcolisti. Volendo anche credere a qualche conversione bisognerebbe fare una statistica per capire quant’è durata. Perché l’unica cosa degna di nota è Red in sé, in quanto cellula impazzita del mondo dello spettacolo. 

Red Ronnie parla da solo al cane, capolavoro di realtà deragliata.

Il picco più alto della produzione del presentatore, però, sono senza dubbio i video “messianici”, o “per iniziati”. Sono indefinibili: girati giocando con le possibilità limitate degli effetti presettati della webcam, con approccio totalmente naif senza nessuna pretesa artistica. Nonostante ciò hanno una patina lisergica e lanciano messaggi all’umanità che sembrano uscire dalla bocca uno stregone vecchio stile o di un profeta digitale scoppiato: vediamone un paio.



Qui Red Ronnie in pratica fa il manifesto della sua attuale programmazione: guardare in camera come se si parlasse negli occhi degli spettatore nella pretesa di una verità che appunto è solo “ per pochi eletti” che sanno alzare lo sguardo.



Prima di vendere gli olii essenziali, Ansaloni già aveva capito il trucco per arrivare alle masse: riprenderle, fotografarle, fargli rivedere se stessi come in uno specchio. L’idea dell’apparecchio mediatico che “ruba l’anima”, in un primitivismo di ritorno, è suggestiva perché a costo della “verità” lo stesso Red se la fa rubare dai computer dei suoi fedelissimi.



Realtà che dà speranza vs emozioni drogate: la lotta di Red Ronnie contro i media che non vogliono mostrare la verità l’ha riportato a combattere in un bunker (il sottoscala del Barone Rosso). Da lì parte la ricerca di una trasmissione/ realtà a tutti i costi che diventa quasi iperrealismo.



In questo video Red sembra Aldo Moro in acido che ci dice: la crisi è un’invenzione, tutto passerà. Sarà vero? Allora non dobbiamo preoccuparci più dei talent, saranno presto spazzati via pure loro.



Questa è invece la prima poesia mai ascoltata dalla penna di Red Ronnie: la summa della sua esperienza psichedelica (che c’è, c’è.... Ma mica ce la racconta così...)

Questi video girati nel 2009 contengono il seme di quello che saranno le future incursioni web del nostro Gabriele Ansaloni, votati a un tipo di intrattenimento in cui presentatore e programma sono la stessa cosa. La questione non è quindi che Ronnie faccia discorsi da vecchio (i giovani certe volte ne fanno di peggio, anzi: scoprono spesso l’acqua calda), non è neanche che non sia coerente, perché fondamentale non lo è mai stato (già il passare da Be Bop a Lula all’imbarazzante Una Rotonda sul Mare—per quanto divulgativa dei merdosi anni Sessanta—fu la palesata definitiva), non si tratta neanche di rivalutarlo da coglione a genio (cosa che spesso ci rimproverano; ma se approfondire il cursus honorum di un soggetto scomodo è rivalutazione, allora vattelappesca). Pensate solo alla quantità di filmati inediti che ha e che non tira fuori, e non parlo di Vasco e compagnia, ma di quello che a voi sta più a cuore, magari il gruppo no wave italiano che nei Settanta si cacavano in tre: perché non approfittare per fargli svuotare gli archivi incitandolo via web, invece di snobbarlo facendo per forza gli intelletuali de sta minchia?


Ecco qui una bella polaroid di Red con Vasco che sembra uno dei Killing Joke o Peter Gabriel dopo na cofana di tortellini. (Foto via)

Si tratta solo di immergersi nel suo mondo parallelo evidentemente alterato, lasciando le altre valutazioni a quando spunterà una nuova classe politica, una nuova televisione, una nuova realtà che preveda un minimo di raziocinio. Per ora non è così, e Red Ronnie nonostante tutto rimane “interessante” paladino dell’alla cazzo di cane, del random visuale, del caos, e in definitiva dell’opposto dei “valori” che crede di divulgare. Ma non lo dite alla Moratti, sennò sgama per quale motivo ha perso.


Segui Demented su Twitter: @DementedThement


Matteo Nasini trasforma i sogni in sculture e suoni

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Il mio primo incontro con Matteo Nasini avvenne tra le pagine web di questa testata. Era il 2012, e nel guardare questo Vice Art Talk mi ricordo di aver avuto una sensazione molto specifica: il CentoCordo—uno strumento a corde eolico suonato dai venti provenienti da Est e da Ovest che si infrangono nel porto di Bari costruito da Matteo l’anno prima—era diventato al primo sguardo una delle mie opere d’arte preferite.

Due anni e mezzo fa, peregrinando per Milano tra varie feste di capodanno, mi ritrovai nello studio di alcuni amici a discutere di suoni con un ragazzo dal forte accento romano per qualche ora, finché sostanzialmente fu chiaro a tutti che non essendoci più né persone nè alcolici, la festa era finita. Solo il giorno seguente mi resi conto che la persona in questione era proprio Matteo, e che la mia scarsissima capacità di ricognizione fisiognomica aveva colpito di nuovo. Sono seguiti un coming-out da fan un po’ imbarazzante e un bel flusso di scambi di link, suoni e idee.

Matteo ha una formazione musicale classica ed è stato violoncellista per molti anni, del suo passaggio dalla musica all’arte parla come di un flusso, più che un cambiamento: come spesso accade sono più gli altri ad avere bisogno di etichettare le produzioni altrui che gli artisti stessi. Matteo ha presentato al pubblico a Milano in corrispondenza della settimana di MiArt, il suo ultimo lavoro con una mostra su due location: Marselleria e Clima. Il progetto si chiama Sparkling Matter, e questa è stata la prima delle possibili forme mutevoli che può assumere. Il main core è un esperimento sonoro che unisce l’ascolto collettivo allo studio neuroscientifico del sonno. Il tutto viene performato dal vivo, e quello che si genera diventa l’apparato della mostra sotto forma di sculture di ceramica, registrazioni, coperte, lenzuoli, materassi e pavimenti rivestiti di pvc stampato. 


Disegnino schematico che spiega la genesi del suono e delle sculture, realizzato da me e approvato da Matteo: “figo, ma nel secondo ci devi mettere anche la stampante 3d”.


Come vedete poi ci ho messo anche la stampante 3d.

C’è una persona che dorme con questo in testa. L’Epoc é collegato a un computer e ogni elettrodo manda al computer un segnale, un’onda cerebrale, che sommata alle altre crea il panorama dell’attività cerebrale in quel momento: in questo modo Matteo può capire in quale fase del sonno si trova il soggetto dormiente. Le onde cerebrali sintetizzate per parametri, passano a un programma che le trasforma in segnali midi, che poi vengono inviati a un sequencer che le suona e le distribuisce in uscita su quattro speaker più un subwoofer che le diffondono nell’ambiente. Le stesse onde derivanti dell’attività cerebrale notturna di un dormiente sono state usate come pattern per modellare in 3D una serie di sculture-vaso di ceramica.

 
Foto di Sara Scanderebech

Ho incontrato Matteo qualche giorno dopo la prima performance nello spazio di Marselleria e abbiamo discusso insieme di alcuni aspetti legati all’ascolto di una tipologia di concerto così anomala e specifica e dei risultati del primo esperimento sonoro del suo progetto.

Noisey: Parliamo subito della diffusione del suono: come hai gestito la spazializzazione? Potevi fare un surround, non lo hai fatto ma hai accoppiato le uscite in quattro casse giusto?
Matteo Nasini: Sì, ho diviso in due parti gli output degli elettrodi dell’Epoc, che in totale sono sedici, otto per emisfero, e li ho fatti convergere quattro per ogni speaker più le basse. Questo perché l’attività elettrochimica del cervello effettua continuamente dei movimenti di scambio, le sinapsi e le distanze su cui si muovono gli impulsi sono delle diagonali e di conseguenza con una quadrifonia si riesce abbastanza a restituire questo movimento nello spazio attraverso il suono. Però ecco, farlo diventare un surround vero e proprio sarebbe interessante, in questa sede mi sono reso conto che era giusto procedere per gradi, è stato anche giusto così. Ho lavorato tantissimo sulla qualità e la modulazione dei suoni, su come dovevano uscire...si deve davvero sentire bene.

La relazione con il suono nel tuo lavoro è sempre molto importante, anche quando usi i tessuti o altra materia, è sempre un po’ come se stessi ragionando su dei suoni. Questo progetto come si è inserito nel tuo flusso di scambio tra suono e materia?
Questo è un progetto a cui stavo lavorando da un po’ di tempo, dal 2014, e che è davvero sempre stato nella mia testa come solo un lavoro con il suono. Avevo voglia di fare una cosa del genere, più a lungo termine. Alla fine come capita spesso, si entra in un circuito di piccole produzioni e non si ha più il tempo materiale di prendere le distanze e fermarsi a pensare per un tempo più prolungato. È una cosa dovuta anche a fattori economici, mi rendo conto. In questo caso siamo riusciti a far lavorare insieme due realtà diverse, cioè Marselleria e Clima e abbiamo prodotto insieme questa unica mostra su due ambienti. Senza questa collaborazione la messa in pratica del progetto non credo sarebbe stata possibile.

Infatti quando penso alle relazioni tra il “mondo dell’arte” e il “mondo della musica”, penso abbiano dei punti di congiunzione ma delle regole interne spesso differenti. In questo caso i tempi che sei riuscito a sfruttare sono i “tempi della musica”. Mi spiego meglio: nessuno rompe i coglioni se una band non fa uscire un album all’anno, mentre invece quando fai l’artista, sembra che se non produci di continuo tu non stia lavorando.
Esatto, infatti è stato un processo lungo in cui mi sono interessato di una cosa che volevo approfondire, anche nello studio, da molto tempo. In termini tecnici e tecnologici gli step successivi di questo progetto probabilmente saranno più semplici, perché ora ci sono un metodo e delle competenze che sono state acquisite.

Vedendo alcune caratteristiche dei tuoi ultimi lavori, non posso che notare una certa primordialità analogica: in questo caso invece ti sei spinto molto in là con la tecnologia, anche se l’utilizzo della ceramica nelle sculture ha una sua specificità “primitiva” in termini materici.
Sì, abbiamo lavorato con una stampante 3D per ceramica, una tecnica super nuova. Sostanzialmente abbiamo fatto la prototipazione della stampante: la ditta ce l’ha lasciata per fare delle prove, finché non siamo arrivati molto vicini a quello che volevamo produrre. Nella stampa 3D in genere si utilizza l’ABS: una schifezza, è proprio una plasticaccia, per l’ABS non avrei mai investito tutte queste energie. La ceramica invece è Terra, ti metti lì, impasti una cosa che potenzialmente è ovunque, e crei degli oggetti. Poi tutto questo è entrato in una dimensione digitale spinta: abbiamo applicato i pattern astratti generati dal movimento delle onde cerebrali a un solido pre-esistente e modellato sia fuori che all’interno delle sculture-vaso. Tutto il versante sonoro poi, è digitalissimo: volutamente e fortemente elettronico. Il dato tecnologico nel processo è molto importante, perché è quello che muta il parametro di partenza e lo fa diventare un oggetto ibrido che parla dell’attività umana che si intreccia con la tecnologia. La sua identità viene cambiata, il dato tecnologico in modo un po’ post-umanista lo trasforma, anche se rimane specifico.

 
Foto di Marco Davolio

Ma rimane comunque un mezzo, giusto? Non è il centro del lavoro.
No, è tutto sbilanciato su un piano evocativo, il mio lavoro è stato proprio il ragionamento di che tipo di suono doveva essere, e sicuramente è un suono elettronico. Relazionandoci con il sonno, con i sogni, cercando di capire cosa sono, andiamo a toccare qualcosa di ancora abbastanza sconosciuto. Michele (artista e scrittore, amico di Matteo, che si è prestato come dormiente per il primo live, ndr) ne parla nel testo, (scritto per la fanzine che accompagna la mostra) sono mondi paralleli. E se il sonno ci porta in un mondo diverso, il suono dovrebbe evocare quel luogo, quel passaggio all’altro. Quei luoghi che potevano ricordarti qualcosa e poi non lo erano, altri di pura trasformazione, di rumore bianco, alternati tra di loro. È ancora un discorso aperto, ci sto ragionando ogni giorno, sono sempre lì a provare e riprovare cosa dovrebbe suscitare un tipo di onda piuttosto che un altro.
Nonostante sia una cosa molto studiata, non sappiamo davvero cosa sia, il sogno. C’è una parte, da qualche parte, che è sempre cosciente, anche quando il corpo è in coma: viene chiamato “osservatore nascosto”. Quando si parla di sonno e di sogni si dice quindi che si è incoscienti nello spazio circostante, perchè da qualche altra parte invece si è coscienti, c’è una grande componente spaziale: i sogni sono un modo che il corpo utilizza per comprendere quello che ha intorno, per andare avanti a conoscere lo spazio e, in modo molto primordiale, per difendersi.

Non mi hai mai detto bene il perché hai deciso di iniziare a lavorare sul sonno e sui sogni, è un paio d’anni che mi dici che stai lavorando a questo progetto, ma non ti ho mai sentito veramente dire il perché lo stai facendo.
Premesso che dormo di merda, sto sempre sveglio la notte… Allora mi sono detto: perché non iniziare a farci qualcosa? Mi interessa anche il dato aleatorio della composizione, ma soprattutto mi interessano le possibilità della zona grigia in cui ci muoviamo, è un ritratto acustico della zona misteriosa del sognatore, il quale ha il ricordo visivo di ciò che ha sognato a volte, oppure no. In questo caso c’è una seconda versione di quello che tu ricordi dei tuoi sogni: c’è un’impronta sonora. Volevo creare un suono relazionato a un “oggetto” molto specifico anche attraverso l’intreccio con la tecnologia.
L’altra grande questione in gioco invece è l’ascolto. Tutta la situazione ovviamente non è casuale, ma non è musica di solo intrattenimento, qui volevo rompere un po’ quella dinamica e creare un ambiente in cui semplicemente ti inserisci e stai con il suono.

Ecco, volevo proprio parlare con te dell’aspetto sociale dell’ascolto di una cosa che dura una intera notte.
Standoci molte ore a un certo punto fai un po’ quello che ti pare: dormi, fumi, scrivi, ti copri, abbracci qualcuno, fai tutto questo con il suono che se da un lato non ti intrattiene, d’altro canto non richiede nemmeno un ascolto iperattentivo come quello della musica classica, diventa una strana via di mezzo. Questo lavoro esce del tutto fuori da qualsiasi dinamica musicale commerciale creando una serie di problematiche specificamente nella fruizione, sollevando interrogativi… per esempio dove la vai a mettere una composizione del genere, di sette ore? Che tipo di oggetto, o spazio, può riceverla? L’assetto è fortemente voluto.


Foto di Marco Davolio

Per me è stato molto difficile addormentarmi perché c’era una ricercatezza timbrica dei suoni molto bella, da seguire in tantissimi momenti. Era un racconto prolungato, il modo in cui si muovevano e sviluppavano i suoni era davvero molto narrativo.
È impegnativo anche se ti addormenti. Il giorno dopo senti che hai ascoltato qualcosa per sette ore, sei affaticato, oltre per il sonno mancato, per lo sforzo percettivo, anche se in fin dei conti quando la musica finisce poi ti manca. All’inizio della performance è stato strano, c’erano molte persone e un sacco di casino. Evidentemente quello era il massimo dell’ascolto che potevano dare, forse in quel momento sarebbero riusciti ad recepire di più una cosa molto intensa e concentrata nel tempo, invece lì tanti sono venuti a fare un po’ di contatti, a raccontarsi le mostre che avevano visto durante MiArt, e non c’era niente di abbastanza intenso per portarli da un’altra parte. Ma poi se ne sono andati e sono rimasti solo quelli interessati. Mi va bene anche così.

L’ho pensato anche io all’inizio. Forse c’era un volume di conversazione un po’ sguaiato. C’è una componente di zona grigia e imprevedibile anche in chi fruisce.
Esatto. La dimensione collettiva poi è davvero molto importante, può essere un po’ arrogante da dire, e a tratti è un po’ rischioso, ma mi piace troppo mettere le persone in una condizione d’ascolto aperta, in cui possono decidere cosa fare. Diventa un tempo allungato in cui il suono interviene nella tua vita. Un aspetto che ha a che fare con l’origine del suono…Il suono è uno strumento per cambiare stato, in primis cambia lo stato fisico, e poi in forma rituale, lo stato di coscienza. Questo potere—in effetti il suono ne ha molti, tutti da paura—è molto interessante.
Se ti addormenti con il suono i tuoi sogni cambiano…per esempio la musica medioevale perché è bellissima? Ti parla di una bellezza che esiste ma che non potrai mai toccare. Non è come la musica romantica, è una musica timorata. Una versione contemporanea di quella ricerca mi pare ci sia nella fisica quantistica, nelle teorie sulle dimensioni coesistenti.

In qualche modo tentavi di suonare la parte sublime che emerge da vari elementi sconosciuti.
Eh, ci provo… [segue una digressione che non vi riporto in cui Matteo mi racconta la sua esperienza di ascolto delle lodi cantate secondo l’antico rituale gregoriano da frati incappucciati vestiti di nero in un posto sperduto] Quel tipo di musica è uno strumento con cui la tua testa cambia, è una suggestione potente, che avviene attraverso elementi in qualche modo molto semplici: a volte è solo la voce e una combinazione di suoni. Non ci sono grandi impianti, o strutture, solo lo strumento più primitivo che fa riverberare la sua onda nello spazio.

Avevo mille perplessità sull’ipertecnologizzazione del progetto, ma c’è una bella coerenza di percorso con la tua pratica: è compositivo, c’è tutta la questione primordiale legata a filo doppio sia alla tua ricerca sul suono che a quella sulla materia, e anche l’allestimento è legato al “primitivo”: la tecnologia c’è, in abbondanza, ma sta in un angolo fuori dalla portata dello sguardo, non è centrale né spiattellata, l’aspetto tecnologico non lo racconti, si intuisce e basta.
Se fossimo stati negli anni ‘70 o ‘80 magari l’avremmo fatto. Il computer è uno strumento che usiamo tutti i giorni, non c’è bisogno di celebrarlo, è un oggetto completamente quotidiano. Poi la traduzione delle onde—anche cerebrali—in suono, non l’ho inventata io, e nemmeno la stampa 3D. Negli anni ‘70 ti avrei fatto vedere esattamente quello che stavi sentendo. Questo invece è un lavoro sulla trasformazione della materia sonora. È nella ricerca sonora che sta il mio intervento artistico, nella percezione d’ascolto, nel mettere in scena il tutto, nel lavorare alla materia instabile del pensiero che cambia. La traduzione letterale di un fenomeno—per quanto pieno di zone grigie—non mi interessa per niente.

Infatti, a questo proposito… vogliamo parlare dei suoni pazzi che hai piazzato sul finale del concerto?!
Sono stato dubbioso fino all’ultimo. Ma poi ho deciso di lanciarli. Era un set di campioni anche quello come gli altri, solo che non erano elettronici ma li ho fatti io con la mia voce registrata. Eravamo tutti in una fase di sopore, Michele si stava lentamente risvegliando, venivamo da 400 min. di suono puramente elettronico, era l’alba, e alla fine di questo viaggio in cui tante cose sono andate e tornate e all’alba ritorna il primo strumento, il suono umano, l’elemento primario. Erano dei sussurri, anche se sono un po’ un tradimento della linea sonora che avevo tenuto fino a quel momento, totalmente elettronica, chissenefrega, non siamo più negli anni ‘70.

E cosa mi dici della scelta della dimensione notturna? La notte ha anche un suo panorama sonoro preciso, che, insieme ai tuoi campioni, è mutato al sorgere del sole.
Volevo cercare un momento in cui fosse più facile per il pubblico cadere in uno stato ipnagogica, quello in cui c’è il rilascio. Ti metti giù, e poi forse inizi anche a dormire. Si chiama fase Theta, quella in cui le tue onde cerebrali fanno un movimento specifico: scende tutto. È la fase in cui ci vengono le idee. Quando ti sdrai tutta una parte che era impegnata anche solo banalmente a livello muscolare, è improvvisamente libera da doveri gestionali, quindi può dedicarsi ad altro. Le onde Theta non sono più sormontate dallo stato della veglia. Ti puoi astrarre, ti puoi perdere.

È anche  un bel modo di usare la stanchezza, hai cercato un momento in cui ci fosse un ascolto che cercava il riposo. Una fruizione decelerata.
Sì infatti, questo era il mio modus ideale, ho cercato di creare una situazione in cui ci si potesse anche riposare. Poi sono arrivate mille persone, quindi ovviamente era tutto un po’ meno intimo. Ognuno se l’è vissuta come si sentiva in quel momento e probabilmente il contesto non era del tutto come lo avrei voluto. È stato interessante anche quello però, lo spazio performativo diventa anche generativo e questo mi interessa. Solo, il suono non poteva essere quello del set che avevo preparato per le fasi seguenti all’addormentamento perché Michele non riusciva a entrare nel sonno profondo quando c’era troppo casino.

Parlando degli altri elementi presenti nello spazio... come hai lavorato alle stampe, alle lenzuola e alle coperte? C’è stato un momento in cui eravamo quasi tutti addormentati, mi sono guardata intorno e ho pensato che tu fossi molto contento: eravamo diventati anche noi le tue sculture, tutti avviluppati nelle tue coperte.
Ho voluto formalizzare in oggetti utilizzabili una serie di immagini che creano una dimensione estetica attinente. Mi è dispiaciuto non poterle cucire a mano, tipo corredino, ma non era fattibile in termini di tempo. I pattern stampati sulle lenzuola e sulle coperte sono tutti un po’ differenti ma in qualche modo complementari, mi è piaciuto un sacco vedere anche le persone avvicinarsi e comporre disegni e nuovi pattern in base a come si accoccolavano i corpi avvolti a bozzolo tra di loro. 

Su cosa stai lavorando ora? Quali sono i prossimi step?
Innanzitutto, collegata nello specifico a questo progetto, c’è l’idea di costruire una scheda audio che dilati il flusso delle onde in entrata, facendole uscire completamente streacchate. In quel modo la composizione può andare avanti per molto più tempo, e avvenire solo in parte già dal vivo. Cambia completamente l’ascolto dell’ “osservatore nascosto” nel dormiente, che sente non più una cosa che si muove di continuo, che riporta i movimenti della mente in tempo reale uno a uno, ma una scansione ritmica del tutto diversa. Poi sto andando avanti sulle sculture, vorrei andare in una direzione di forme completamente astratte. C’è ancora una grande differenza tra le forme che il software sviluppa e quelle che poi tecnicamente si riescono a fare in ceramica nella stampa 3D. Vorrei anche lavorare in futuro con più persone addormentate, con più di un Epoc. Diventerebbe ancora più un processo di produzione relazionale, in cui metà della produzione è generata dall’ascolto, in quel caso dei dormienti stessi. Vorrei anche fare un’altra performance in questo contesto, mi piacerebbe lavorare con dei bambini, dopo gli undici anni c’è un dimezzamento delle onde Delta, l’attività cerebrale cambia radicalmente.
Ognuno di noi poi ha un modo di dormire talmente diverso che suona completamente differente. È difficile tracciare i punti comuni, tutto cambia costantemente, però ecco, non è una cosa risolta per me, è tutto in ricerca quindi non mi interessa particolarmente rifare la stessa cosa due volte, voglio andare avanti a sperimentare.

Nei prossimi giorni, seguendo i canali social di Marselleria e Clima scopriremo se Matteo farà un’altra performance prima della chiusura delle mostre. Per ascoltare i suoni del concerto di sette ore realizzato con i sogni di Michele potete invece andare a visitare le due mostre fino al 6 maggio in Marselleria e fino al 12 maggio da Clima e godervi la diffusione sonora.
Qui sotto un piccolo assaggio. 

Ascolta le Carezze di Daniele Sciolla

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Daniele Sciolla è capitato su Noisey la prima volta più di un anno fa, presentato da Claudio Gallo (AKA Mr. Bad Panda Records). Daniele è arrivato a fare il sound designer dopo aver fatto il conservatorio, studiato prima jazz e poi fisica acustica nel dipartimento di matematica. Oltre a questo è anche un terzo degli ANUDO, un progetto che abbiamo già raccontato su Noisey qualche tempo fa e suona in altri progetti, come Elephantides e iLana.

Daniele lavora anche come videomaker e infatti il video che accompagna "Carezze", il brano che vi presentiamo qui sopra, è opera sua, un po' come tutto il resto: "La traccia l'ho composta, registrata, mixata e masterizzata io; la voce è la mia, pitchata giù di 3-4 semitoni, le sonorità e bpm (133) sono vicine alla techno, ma con un utilizzo di campionature molto maggiore rispetto a questo genere. È stata inclusa nella compilation Y.E.A.R. di Panorama Musique con il nome di Flush e ora esce con un nuovo mix, master e il video. 
Rappresenta lo stile che sto sperimentando in questo periodo, che sarà quello delle 5 tracce del mio prossimo EP -
Varietà- in uscita con Betulla Records a giugno. Nell'EP sarà presente anche questa traccia con il nuovo nome: "Carezze", con una interpretazione del brano completamente nuova. È stata scritta nella seconda metà del 2015, durante la cinquantina di date in Italia e Europa che ho fatto con i diversi progetti nei quali suono (Daniele Sciolla, ANUDO, Elephantides, iLana).
La voce e gli altri campioni di percussioni sono stati registrati durante improvvisazioni con il primo microfono disponibile e poi lavorati in studio; non li ho reincisi per mantenere il contesto sonoro e il background della forma melodica iniziale.
Durante la composizione in studio ho aggiunto 2 synth analogici, il Jupiter 6 e il Prophet 6, che sono un po' i protagonisti delle mie sonorità attuale.

Segui Daniele Sciolla su Facebook e Bandcamp.

Biagio Antonacci fa deragliare due tram a Milano

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Immagine via Mammabuttalapasta

Se abitate a Milano di sicuro negli ultimi giorni vi sarà capitato di essere molestati sessualmente da Biagio Antonacci che ammicca e si lecca le labbra. Già da qualche giorno volevamo denunciare questa atrocità, convinti che i cittadini milanesi non meritino di subire questa tortura, ma oggi il Biagio Nazionale ha decisamente superato il segno e ha deciso, con una bella leccatina, di far perdere il controllo a un'auto della polizia, che è stata poi fatta a pezzi da un secondo tram (non sappiamo se anche questo fosse uno di quelli ammicanti) proveniente dalla direzione opposta.

Questo post è il nostro modo di chiedere ufficialmente al Sindaco Giuliano Pisapia di mettere fine a questo scempio, o come minimo di pagarci la terapia per almeno i prossimi cinque anni.

Seguiteci sulla nostra nuova pagina Facebook, quella vecchia non la useremo più.

 


Il concerto dei Marlene Kuntz al Primo Maggio di Roma è stato tagliato

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Al concerto del primo maggio l'esibizione dei Marlene Kuntz è stata introdotta con "SIETE PRONTI PER IL ROOOOOCK?" (risposta del pubblico tiepida ignorata), ma evidentemente era la stessa RAI a non essere PRONTA PER IL ROOOOOOCK perché ai Marlene Kuntz è stato negato di suonare uno dei tre pezzi che si erano preparati, "Nuotando nell'aria".

"A volte in Italia se fai rock in un certo modo sei veramente un marziano", commentano Godano & co. Ma ascoltiamo insieme la canzone tagliata, perché a Noisey c'è sempre posto PER IL ROOOCK:

"Nuotando nell'aria" è un pezzo del primo album dei MK, Catartica, del 1994, anche conosciuto (per la generazione 1978-1982) come "quello bello". Ecco il rock in un certo modo. Non mi dire che ti manca tanto l'odore della sua pelle che stai veramente male e usi la parola "grammo" per creare l'ambiguità con la droga, perché, che coincidenza, cinque persone soltanto nel mio condominio hanno scritto esattamente questo testo nel 1994! 

Ma ascoltiamo il resto del segmento dei Kuntz:

A parte che vorrei rinnovare i complimenti alla nostra Virginia per aver sopportato i conduttori tutto il giorno. Non c'è patchanka che riesca a superare l'imbarazzo creato dai cosi col microfono. E poi è proprio vero: del rock fatto in questo modo non gliene frega proprio un cazzo a nessuno, basta guardare le facce del pubblico.

Ma lamentarsi del fatto che i Marlene Kuntz non vengano trattati con rispetto al Festival del Primo Maggio è un po' come se tuo nonno che fa il pastore in Basilicata si presentasse al Berghain e si lamentasse di non riuscire a entrare. Non è il posto per te. Puoi arrenderti e cercare il posto adatto a te, o continuare a provarci e affrontare umiliazioni sempre peggiori. 

 

La scena elettronica cubana esiste ed è una bomba

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Pauza (Foto via Facebook)

Secondo gli organizzatori ben 400 mila cubani sono andati a vedere Major Lazer che suonavano gratis in centro a L'Avana il mese scorso. Sono numeri che battono i maggiori festival EDM del mondo: EDC Vegas, per esempio, ha ospitato 130 mila persone al giorno nel 2015. Mentre, senza dubbio, molti sono andati attirati dal frutto proibito di vedere un gruppo americano sul territorio dell'isola, numeri di queste proporzioni suggeriscono che i cubani potrebbero essersi presi la fissa della musica elettronica. 

Questa settimana, dal 4 al 6 maggio, la città di Santiago ospiterà Manana—il primo festival internazionale di Cuba a fondere musica elettronica e ritmi afro-cubani. In un Paese con tanto talento musicale nel campo degli strumenti tradizionali, l'idea di "musica elettronica" ha anche a che fare con l'utilizzo di tecniche contemporanee per suonare, registrare e produrre sonorità folkloristiche per mantenerle aggiornate all'era digitale. Abbiamo affrontato l'embargo per scoprire qualcosa di più sui producer e i DJ della frontiera elettronica cubana. Qua sotto potete scoprire otto nomi assolutamente da seguire. 

Sai cos'altro è assolutamente da seguire? La nuova pagina di Noisey Italia!

 

1. Wichy de Vedado

Foto via Facebook

Questo DJ/producer è un pilastro della piccola ma fervente scena elettronica de L'Avana, e dal 2001 va in tour in tutto il Paese. Cresciuto a Michael Jackson e pop americano, si è anche sbafato grunge e rock industrial prima di scoprire roba big beat tipo i Prodigy e i Chemical Brothers nei tardi anni Novanta. Dopo aver suonato all'Atelier usando lettori CD Sony, alcuni DJ techno tedeschi che si trovavano lì lo hanno iniziato a un suono elettronico più subdolo, che ha cominciato a riprodurre nel suo studio casalingo nel quartiere Vedado—da cui prende il nome. Ultimamente lavora spesso con artisti jazz cubani e vocalist come l'adorabile Danay Suarez, che conferiscono alle sue tracce una leggerezza quasi lounge, anche se non disdegna sample hip-hop e breakbeat.

 

2. DJ Jiguë

Nato e cresciuto a Santiago, ma con base a L'Avana, DJ Jiguë (che poi sarebbe lo spelling spagnolo di "jiggy") potrebbe essere il Dr. Dre cubano. Dotato di un arsenale di pattern percussionistici afro-cubani e una riserva permanente di MC che sparano barre in cubano a mitraglietta o un più rilassato flow reggae, incide i suoi pezzi rap latineggianti per Guamapara Music, la prima formazione che si occupa di produzioni hip-hop indipendenti del Paese. Tracce come "Electrotumbao", che riproduce il ritmo di basso alla base della musica Afro-Cubana con sintetizzatori ciccioni, anticipa il futuro della musica elettronica cubana. 

 

3. Pauza

Paula e Zahira (insieme: Pauza) si sono conosciute al primo corso per DJ femmine di Cuba e hanno iniziato a produrre tracce insieme nel 2012. Stanno a cavallo delle linee che separano house, techno e tech-house, ma prendono anche da ritmiche afro (-cubane e non solo). Ascoltate "Samba", che la coppia ha pubblicato il mese scorso, vi sfidiamo a trovare qualcosa di più piccante.

 

4. Obbatuké

Obbatuké, da Santiago, producono una varietà rarefatta e affascinante di rumba e di son—due pilastri della musica tradizionale afro-cubana—dritto dal cuore. Attingono dal potere degli orishás, le divinità della religione afro-cubana, con escursioni nel mondo spirituale sotto forma di botta-e-risposta. Registrati dal co-fondatore del festival Manana Herry Follett, le voci stratificate di Obbatuké provano che le canzoni e i ritmi tradizionali posso fare comunque bella figura anche in studio. 

 

5. El Chacal y Yakarta

Gli ufficiali culturali cubani hanno sempre guardato con sospetto la musica straniera, anche quella delle altre isole caraibiche. Il fenomeno pan-latino del reaggaetón è stato accolto tiepidamente dalla vecchia guardia musicale anche se i teenager vi abboccano velocemente, attratti dalla sua promessa materialista in una terra povera—e dalla promessa di un bel po' di perreo. Il pattern di rullante "boom-ch-boom-chk" del reggaetón è decisamente il risultato di produzione elettronica, anche se i prominenti reggaetoneros cubani El Chacal y Yakarta a quanto pare lo suonano con una band di quindici elementi. 

 

6. DJoy de Cuba

Joyvan Guevara Díaz sa come arrivare lontano. Quando si è messo alla console per un set a tarda notte allo Space Miami durante il WMC del 2014, è stato un momento inusuale per la città più cubana degli Stati Uniti, la cui posizione fortemente anticastrista ha spesso impedito ai musicisti che ancora vivono e lavorano a Cuba di esibirsi nella Florida del Sud. Come molti appassionati di sonorità elettroniche cubani, è onnivoro e cita un'ampia gamma di influenze che comprendono ambient, trip-hop, drum'n'bass, house, techno e dubstep. Come Wichy de Vedado, DJoy ha cominciato ai primi tempi della scena elettronica cubana all'Atelier club. Ora è uno dei grandi vecchi della scena e ha partecipato alla fondazione del primo festival nazionale, Rotilla, e la prima etichetta elettronica, Analógica. 

 

7. DJ Thellus

Ramsés Cruz Quiñones è un professionista del remix che c'è dentro da dieci anni. Ha un debole per reinterpretazioni di grandi successi dei Jackson 5, Bee Gees o Boney M. Con una bella iniezione di electro-swing, le sue tracce non sfigurerebbero a una festa del Burning Man.

 

8. Dvazz Brothers

I Dvazz Brothers fanno parte di una generazione più giovane di musicisti cubani, venuta a galla grazie a recenti iniziative come il festival Proelectrónica. Il loro EP di debutto del 2014 su Speaker Recordings, The Age of Techno, non suonerebbe furoi posto a uno showcase M_nus o passato di mano in mano a Berlino. Ma è al 100 percento Made in Havana. 

Drake non è più quello di una volta

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VIEWS è già un classico”, dice Drake su “Hype”, incensando lo stesso disco su cui sta rappando. Spararla grossa non è certo una pratica nuova se il tuo lavoro è fare il rapper, ed è impossibile biasimare Drizzy per aver usato una frase del genere. D’altro canto, siamo noi ad averlo reso così sicuro e pieno di sé. Siamo noi ad averlo idolatrato, noi ad avergli fatto toccare il cielo più limpido – quella tela azzurra su cui si è ritratto per la copertina di Nothing Was the Same. Era il 2013, ed erano passati due anni da quella che era stata la dimostrazione di come il vecchio Aubrey non fosse solo un attore televisivo quasi-famoso che si atteggiava a rapper ma un effettivo pretendente alle alte sfere della cultura hip-hop: Take Care. Un LP che aveva tutto ciò che un’aspirante superstar deve teoricamente portare sul tavolo per scatenare qualcosa di grosso.

Un’identità, innanzitutto: Drake aveva iniziato a sentire sulla punta della lingua il sapore del vero successo, ma la sua boria era controbilanciata da un approccio fortemente umano alla trattazione delle cose del cuore, le stesse che gli avevano appiccicato l’etichetta di emo-rapper quando se ne usciva con ritornelli più stucchevoli di una Sacher pucciata sotto una fontana di cioccolato. Una frase come “Viviamo in una generazione in cui nessuno si innamora / e nessuno sta con nessuno / ma in cui tutti si sforzano a sembrare assieme a qualcuno / perché abbiamo paura di vederlo assieme a qualcun altro”, da “Doing It Wrong”, era ed è puro spirito del tempo, frase da incidere sulla lapide dell’era di Tinder. Aveva dentro sia un elemento di arroganza che un suggerimento di debolezza – e la stessa benigna ambivalenza stava in molti, molti altri versi.

Poi, le collaborazioni: Take Care era riuscito a trovare il perfetto, giusto mezzo tra il troppo e il poco. Mettici sopra chiunque senza un minimo di visione artistica pregressa e sembrerà un prodotto confezionato dalla major per cui hai appena firmato; rappa tu e solo tu e rischierai di rompere le palle dopo cinque pezzi. Qual era allora la situazione? Un The Weeknd all’apice dell’hype – tra l’altro suo concittadino – gli regalò “Crew Love”; un’amica (o forse qualcosa di più) di lunga data come Nicki Minaj duettava con lui su “Make Me Proud”; Rihanna completava l’adulta tenerezza di “Take Care” con un’interpretazione da lacrime; il suo mentore, Lil Wayne, gli passava la metaforica staffetta dell’influencer apparendo su un pezzo al fulmicotone come “HYFR” e su un classico istantaneo (questo sì) come “The Motto”, fonte di tutti gli YOLO che non avreste mai voluto leggere o sentir pronunciare. Poi c’erano Kendrick Lamar pre-good kid, m.A.A.d. city, Rick Ross, Birdman e André 3000. Otto tracce collaborative, dieci soliste. 

Continuiamo con le sonorità: è con Take Care che 40 si piazza saldamente al fianco di Drake come artefice del suo immaginario auditivo. La patina di conformità che ricopriva Thank Me Later era un lontano ricordo – al suo posto, un Giano bifronte sonoro. Un viso guardava all’interno, al passato, tramite soffici linee melodiche, piogge di pianoforti e un lungimirante uso dei sample come forma creativa (con particolare efficacia nel ri-utilizzo del lavoro di Jamie xx su Gil-Scott Heron in “Take Care”). L’altro guardava all’esterno, al futuro, figlio delle tradizioni più recenti di Houston e New Orleans – chirurgico nelle percussioni, essenziale nella scelta dei synth (la doppietta “Shot for Me”/“Headlines” a fare scuola). 

Infine, la voce: Drake non è mai stato un rapper duro e puro, il cantato sempre presente anche solo a livello subconscio nel suo approccio. Ma un conto è riascoltare oggi i timidi vocalizzi di “Lust for Life”, annata 2009; un altro, lasciarsi cullare dalle montagne russe dei suoi flow su “The Real Her”, “Take Care” e “Marvin’s Room”. È quello che, qualche anno dopo, Drake avrebbe chiamato il suo “momento Wu-Tang”: così come il Clan aveva rivoluzionato l’approccio lirico dell’epoca introducendo ironia e termini scomodi rispettivamente in paradigmi seriamente gangsta e innocentemente soul e funk, Drake si prendeva il merito di aver introdotto nel mainstream un nuovo approccio vocale a metà tra parlato e cantato. Ed effettivamente se oggi tutti escono scemi per Bryson Tiller, se A$AP Ferg ha provato a mettersi a fare i vocalizzi, se per qualche arcano motivo la gente continua ad ascoltare Chris Brown, è anche merito di Drizzy.

Nei cinque anni successivi, Drake ha saturato la cultura hip-hop d’oltreoceano. Se ne è uscito con un buonissimo LP come Nothing Was The Same, ha avuto più pezzi nella Billboard Hot 100 dei Beatles grazie a quello che doveva essere un mixtape, ha contribuito all’affermazione mondiale del grime cementando un legame transatlantico coi Boy Better Know di Skepta, ha demolito Meek Mill resistendo senza sforzo alcuno alle sue fondate accuse di ghostwriting, ha unito le forze con quell’altra forza dominante contemporanea che è Future per un progetto come What A Time To Be Alive, ha contribuito alla creazione di nuove star con diversi – e, a tratti controversi – remix (i Migos, Makonnen, Fetty Wap e D.R.A.M., per dirne alcuni). Il numero 100 di The Fader aveva in copertina il suo faccione, e il titolo era perfetto: “Peak Drake”. La domanda era: è possibile che, accanto al picco della montagna, ci fosse un altopiano da cui Drizzy avrebbe potuto continuare a regnare sul mondo hip-hop?

VIEWS offre due risposte a questa domanda. La prima è positiva: “Sì, l’altopiano è proprio lì. Sarebbe stupido scendere dopo aver fatto così tanta fatica a salire.” Affrontiamola, per poi passare alla sua controparte. Parliamo innanzitutto di numeri: più di 600.000 copie vendute in un giorno, contando ovviamente i dati relativi allo streaming e inserendoci i numeri clamorosi fatti nei mesi scorsi da “Hotline Bling” (tatticamente inserita in fondo al disco come bonus, così come “The Motto” ai tempi di Take Care). Al momento in cui scrivo “One Dance” , primo estratto da VIEWS, è al terzo posto della Billboard Hot 100. Non ci sono dubbi sul fatto che quest’album sia stato e sarà un successo per le tasche di Drizzy, Birdman e compagnia: il ruolo di Drake nell’hip-hop del 2016 era troppo importante perché non fosse così.

Diciamolo: Drake e 40 non sono dei coglioni, e non avrebbero mai potuto essere così autocompiacenti da buttare fuori un album brutto, e si spera che OVO non sia piena di yes men. Di momenti efficaci ed esplorazioni interessanti, in VIEWS, ce ne sono eccome. Prendiamo anche la sola “One Dance”, singolo di punta, collaborazione con Kyla (poi ci arriviamo) e Wizkid – artista dancehall nigeriano presentatogli qualche mese fa da Skepta sotto forma del loro remix collaborativo di un suo brano, “Ojuelegba”. 

“One Dance” dimostra indubbiamente come Drake abbia compreso l’importanza dell’ibridazione nel tenere un’ottica evolutiva rispetto alla perpetuazione di un genere musicale. Suggestioni centroamericane erano già comparse nel linguaggio usato per gli skit di “Energy” e “Know Yourself”; “Hotline Bling” era stata giustificata dalle accuse di plagio nei confronti di D.R.A.M. con la scusa del riddim – quella pratica, tipicamente giamaicana, in cui diversi vocalist si confrontano con la stessa base; la OVO al completo era andata a trovare Popcaan e compagnia a Kingston. D’altro canto, la comunità giamaicana è particolarmente ampia a Toronto, ed era solo naturale che Drake ne abbracciasse gli stilemi in un’ottica narrativa della sua città natale come quella che a questo giro ha voluto tracciare. E i momenti in cui quest’apertura di visione permeano VIEWS (“Controlla”, “Too Good”) sono indubbiamente tra i suoi migliori.

Kyla, invece, è una cantante britannica – voce di “Do You Mind?” di Errol Reid, pezzo UK garage relativamente famoso uscito nel 2007 e remixato l’anno successivo da Reid stesso assieme al fratello a nome Crazy Cousinz. Qualche mese fa le è arrivata una chiamata da Sony e, improvvisamente, si è ritrovata un featuring su un brano da top 3 in America. Il che dice molto sulla velocità come qualità intrinseca del vivere contemporaneo, ma quello che ora ci interessa è il potenziale di questa scelta da parte di OVO. Così come Yeezy ha deciso di lavorare su un pezzo house per “Fade”, pagando al contempo omaggio ad una corrente musicale nata nella sua Chicago e ampliando lo spettro sonoro di The Life of Pablo, così Drake ha strizzato l’occhio ai suoi nuovi, fruttuosi stimoli britannici. 

Un altro grande pregio di VIEWS sta nei momenti di brillante scrittura in cui il Drake contemporaneo – quello dominante, pompato, tatuato – esprime al meglio la sua capacità di suonare presuntuoso e maldestro allo stesso tempo, indelebile traccia degli echi d’imbarazzo che ai tempi dei suoi primi tape facevano storcere il naso ai puristi. “Ho così tante catene che mi chiamano Chaining Tatum” (gioco di parole chains-Channing Tatum), “Ci stai giocando tipo Happy Meal” (i riferimenti al Mac non suoneranno MAI fighi), “Il rapper più famoso tra gli under 35, e suppongo che tutti siano under 35”. Resta che Drake è diventato quello che è oggi anche e soprattutto grazie alla sua capacità di risultare affabile, quasi confessionale in alcuni suoi brani – spesso posizionati all’inizio e alla fine dei suoi album, rispettivamente nitide dichiarazioni d’intenti e lunghi freestyle per tirare le fila di un nuovo capitolo della sua vita. “Per il mio secondo disco ho dato tutto, e tutti l’hanno visto / I prossimi due saranno sempre più cattivi” dichiarava Drizzy alla fine di “The Ride”: e così è stato. “Normalmente mi terrei 'sti pensieri per me ma ho pensato, ‘Fanculo’ / stavolta è il caso di condividerli con tutti” affermava “Paris Morton Music 2”, e proprio quella presa di coscienza era stata la chiave del suo successo. 

Un altro esempio incredibile della capacità comunicativa di Drake è stato “From Time”, in cui parlava candidamente del rapporto con i suoi genitori e delle sue più grandi lasciate in amore. “Mia madre ha 66 anni e la frase che le piace di più dire per colpirmi è, ‘Chi cazzo vuole essere solo a 70 anni?’” E ancora: “È da un po' che passo tempo con mio padre [...] Abbiamo parlato del futuro, e del tempo che abbiamo sprecato / Quando mette giù la bottiglia quel negro è fantastico / Bé, vaffanculo, ci siamo fatti un paio di Corona / Forse abbiamo fatto su, per avere qualcosa che ci tenesse assieme.” Questo solo nella prima strofa: nella seconda, arrivano nomi, cognomi e luoghi. Drake parla di “Courtney, cameriera da Hooters sulla Peachtree” come “il pezzo che mi mancava per essere completo” – e si prende male perché sta per sposarsi; ricorda il suo incontro con la Bria a cui aveva dedicato un pezzo nel 2009; ride di una ragazza che gli aveva detto che non sarebbe mai stato famoso come Trey Songz – “Cazzo, se si sbagliava!”, dice compiaciuto. E compiaciuti noi, per essere stati resi parte di un pezzo della sua vita.

Questi momenti di comunanza autore-fruitore, su VIEWS, sono quasi assenti (meno male che ci sono “Weston Road Flows” e la titletrack) – e la cosa è particolarmente strana, dato che Drizzy aveva dichiarato a Zane Lowe che con quest’album voleva raccontare Toronto “attraverso il passare delle stagioni, da inverno a inverno”. Quella città che lui stesso ha fatto comparire sulla mappa culturale nordamericana, quella fucina di ispirazione e storie di vita che fino ad ora era brillantemente trapelata dalla sua discografia. Ma – e qua torniamo alla domanda di cui sopra – è un po’ triste rendersi conto che Drake, nonostante abbia raggiunto la cima e non rischi di perderla, si sia affidato quasi solo alla sua privilegiata visione piuttosto che a quella del cuore pulsante dell’agglomerato urbano che gli ha dato i natali. Il problema sta nella parola “privilegiata”: Drake è solo, seduto su quella torre per le telecomunicazioni. Vuole vicino solo gli amici di una vita, zero rotture di coglioni. Toronto è presente come riferimento, ma mai come protagonista. Sotto le luci dei riflettori c’è solo un’altra stella del rap, per la prima volta disumana nel suo processo di autocompiacimento.

“Keep the Family Close”, brano d’apertura vuole essere una dichiarazione d’intenti come quelle che delineavo prima: e sfortunatamente ci riesce benissimo. “Chiunque abbia incontrato lungo la via mi si mette davanti / Gli do da mangiare, li servo tutti come se prendessi il minimo” non è certo una frase in cui è facile immedesimarsi. “Mi sento a casa con mio padre in Tennessee / Qua a Los Angeles non so bene cosa stia succedendo” sa più di lamentela che di naturale nostalgia. “Tu resti lì a pregare che le stelle si allineino / Io sto vivendo da Dio, la mia fortuna è roba sicura” è una frasettina da bullo che altri mille MC avrebbero potuto scrivere. Questa stereotipata visione di sé come deus ex machina capace di piombare sulla vita degli altri e migliorarla dal nulla fa solo male a Drake, soprattutto se affiancata a un trito e ritrito risentimento. 


Una corretta rappresentazione della presa bene di Drake su ‘sto album.

 
La cosa si applica anche alle relazioni: quei momenti di intimità che suonavano così vibranti e reali diventano una palla al piede su VIEWS. “Child’s Play” vede Drake tirare le torte a una tipa dicendole che lei “Non vuole innamorarsi”, che prenderle un vestito nuovo è un “Gioco da ragazzi”, che lui è pieno di soldi e lei deve stare attenta a non comportarsi male per non “tornare al quartiere”. Se fossi una tipa e Drake mi sbattesse in faccia il fatto che guida una Bugatti e “Regala Chanel come abbracci” gli tirerei un ceffone e me ne andrei a cercare una persona capace di trattarmi come un essere umano, sinceramente. E ancora: “Sono troppo buono con te” si accusano reciprocamente Drake e Rihanna in “Too Good” – e pensare che qualche anno prima si dicevano “So che qualcuno ti ha fatto male / Lo vedo dal modo in cui ti comporti / Ma lasciamelo fare, e mi prenderò cura di te”. 

Ultimi due problemi di VIEWS sono, detto semplicemente, gli ospiti e i suoni. Se da un lato, almeno, Drake è stato fedele alla sua politica anti-nuovi-amici, dall’altro le sue nuove scelte collaborative sono veramente povere. Rihanna è relegata a cantare due parole e un ritornello (in coro), Future se ne esce con una strofa onesta ma non riesce a rendere “Grammy” niente di particolare, PARTYNEXTDOOR è come se non ci fosse dato il nulla cosmico dell’immaginario champagne-tette-e-culi che rappresenta, Pimp C è morto da qualche anno e la sua strofa è semplicemente ripresa da un pezzo dei suoi Underground Kings, i dvsn non fanno altro che perpetuare i gelidi stilemi produttivi neo-soul di 40. Ma non doveva essere così: “Pop Style” aveva sia Jay Z che Kanye West, il primo a dire assurdamente solo due frasi, il secondo con una strofa di tutto rispetto – ma nella versione definitiva entrambi sono svaniti. Popcaan, che appariva sulla versione leakata di “Controlla”, è stato messo da parte su disco. Stupisce, inoltre, l’assenza del suo nuovo bff Skepta. Peccato che, piuttosto di un’affermazione di forza, questo approccio solitario alla scrittura sembri un rifiuto, un moto d’orgoglio, una questione di principio: “Io non ho bisogno di voi”. 

Infine, dicevamo, i suoni: per quanto il valore delle produzioni di 40 è stato e sarà sempre immortale, la proliferazione di imitatori del suo stile – quell’R&B freddo come la morte, quelle percussioni col contagocce, quei sample stirati e rallentati – rende le sue nuove produzioni paradossalmente uguali a sé stesse. Anche Jordan Ullman, che con Majid Al Maskati se ne era uscito con quel banger pieno di gioia e vita che era “Hold On, We’re Going Home”, suona loffio e stanco in “Feel No Ways”, palese tentativo di ricreare qualcosa di simile. Boi-1da fa sempre il suo, e il tocchi di Southside e Kanye si sentono, rispettivamente, su “Grammy” e “U With Me?” – ma qualche sonorità azzeccata non scagiona certo un approccio sonoro statico, incastonato in quel blocco di ghiaccio che sembra aver avvolto la perfetta, impeccabile, noiosissima nuova vita di Drake. Il fuffa award va però a “Keep the Family Close”, che ha una base tediosamente maestosa – un po’ come se l’idea fosse quella di fare una nuova “Crew Love”, ma con l’orchestra filarmonica di stocazzo al posto di Ableton.


Drake mentre legge questo post.

Sembra che diversa gente non sia poi così soddisfatta da VIEWS. La mia personale palma d’oro dei puns va a Stereogum, che se ne è uscito per primo con il sottilissimo “Snooze From the 6”. Pitchfork ha addolcito la pillola affibbiando un best new music a Feel No Ways e Too Good – ma ha chiuso la faccenda con un gelido 6.8 (e ricordiamo che Thank Me Later si prese 8.2). Pigeons and Planes lo ha chiamato “solo un altro album di Drake”. Rolling Stone l’ha definito “un album a tratti brillante che sa di opportunità sprecata”. Nonostante questo, non penso ci sarà il minimo problema per Drake. I suoi concerti saranno sempre pieni di gente, i singoloni li butterà fuori sicuramente, nuovi meme nasceranno e nuovi talenti verranno accolti sotto la sua ala. Quello che ci resta per adesso, però, è sia desolante che rincuorante. Sarebbe stato sicuramente più bello potersi riappassionare a Drake, come avevamo fatto a ogni sua precedente incarnazione; ma la consapevolezza che nessuno è infallibile a livello artistico, nemmeno il rapper con più cuscini in piuma d’oca su cui cadere, è piacevolmente umana, normale. 

Un po’ me li immagino, Drake, 40, Oliver El-Khatib e compagnia bella ad ascoltarsi il master definitivo del disco, compiaciuti, con una boccia di champagne e mezzo chilo di erba. Proabilmente si scambierebbero uno sguardo d’intesa, un mezzo sorriso, alle ultime parole che Drizzy pronuncia su VIEWS: “Se fossi in voi, anch’io non mi piacerei.” Un ultimo scatto d’orgoglio, una presa di coscienza riguardo al proprio ruolo di novello antagonista, un dito medio agli hater. Ma, proprio ora che la sua fanbase è più grande che mai, non sarebbe stato bello accoglierla in un gesto di comunanza piuttosto che arrampicarsi in alto, sempre più in alto, verso un cielo grigio e privo d’ossigeno? Drake aveva la sua città nel palmo della mano, ma ha deciso di non mostrarla al mondo: l’ha messa in una teca, chiusa in un pugno ed esposta in un attico dalle finestre oscurate – inaccessibile a noi poveri mortali.

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Cospirazione progresso

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Un paio di settimane fa è uscita su Halcyon Veil il 12" Conspiración Progresso, compilation curata da Jim C. Nedd dei Primitive Art (Jimitive) nonché mente organizzatrice di Progresso, clubnight che fino a poco più di un anno fa refrigerava Milano con nomi come Bill Kouligas, SIlkbless, Why Be, M.E.S.H, Lotic e molti altri. "A portare la gente prima degli altri non è che sei più figo... guadagni solo meno," ci tiene a precisare Jim, ridendo. È giovedì pomeriggio, e come arrivo lo trovo che sta preparando il dj set di domenica sera, a C.A. Loose di Ravenna, nonché quello che dovrà portare assieme al socio Pit, Hvad e Vipra, nel minitour di due date il prossimo 13 e 14 maggio, ad Amsterdam e Vienna. "Dormirò qui anche stanotte."

Due anni fa, quando Progresso era appena nato, Milano e il suo pubblico non sospettavano neanche che un giorno, gli stessi guest sarebbero stati portati da Club To Club. Progresso si è preso carico di questo sporco lavoro, e poi ha elegantemente deciso di uscire di scena per un po'. Con ottimo tempismo, fa il suo ritorno affiancato al nome di Halcyon Veil, l'etichetta di Rabit che proprio nell'ultimo anno ha prodotto materiale di Angel-Ho, Chino Amobi, Why Be, Toxe, Scraaatch, e tanti altri, con cui Jim era amico già da tempo. La release consiste in cinque tracce di Hvad, Nigga Fox, Vipra, Draveng, Zutzut e Bekelé Berhanu, tutti naturalmente passati da Progresso, al Roxanne di via Ascanio Sforza, come testimonia il collage di flyer qua sotto. Mi sono fatta raccontare i retroscena, l'idea dietro alla scelta degli artisti, la storia dell'artwork digitale—bellissimo—con i tipi immersi nel fango, e il futuro di Progresso.

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Progresso overview.

Noisey: Come sei entrato in contatto con Rabit e Halcyon Veil?
Jim:
 In realtà è stato molto semplice. Dopo la data dei Janus al Berghain, Rabit mi ha scritto, voleva sapere com'era andata la serata e mi ha chiesto se avessi qualche provino di Primitive Art, È stato il 21 aprile dell’anno scorso, esattamente un anno fa. In quel momento gli ho detto che non avevamo niente di pronto perché era vero,  e che però volevo fare una compilation con una lineup un po’ diversa. La stavo già curando per conto mio, e aspettavo di avere dei soldi per poterla stampare. abbiamo continuato a parlare e scambiarci idee e Lui si è proposto di produrla perché la trovava super interessante, 

Vabe' scusa. Che concept ha la compilation? Mi pare un po' di intuirlo, ma mi piacerebbe me lo spiegassi tu.
Inizialmente il concept era molto vicino a quello di una compila di world music  sarebbe uscito un x2 LP - in cinquecento copie con copertina a colori. il lavoro si è ridotto ad un modesto 12" - black sleeve in 300 copie Il nome iniziale doveva essere Conspiracy International, come il progetto di Chris & Cosey, solo che dopo l'abbiamo cambiato perché rischiavamo di essere denunciati. Un disco in particolare mi era rimasto impresso, si chiama C.T.I., questo qua. 

Alla fine ho optato per Conspiraciòn Progresso, riprendendo la serata Progresso. Sono sei tracce di cui due inedite, quella di Hvad e di Draveng e Bekelé barhanu. Zutzut era già uscito sul suo EP qualche mese prima, e Vipra e Nigga Fox erano già usciti su Internet, ma non ufficialmente, più una hidden track "Unknown - Untitled"

Perché Conspiraciòn? 
Mi piace l'idea di essere sempre in contatto e collaborare in qualche modo con gli artisti all'interno della compila, a suo modo questo 12" è una piccola cospirazione per portare avanti un nostro suono ed estetica. Così come sia essenziale continuare a collaborare e creare combinazioni con chi ammiri e rispetti,  come Hundebiss, la crew di Club Adriatico o Janus. 

Con Rabit quindi come sei rimasto? 
Dobbiamo vedere come vanno le vendite. I feedback sono buoni, quindi potrebbe essere che se ne faccia una seconda, ma non ne abbiamo ancora parlato ufficialmente.

Sì perchè le tracce che hai raccolto sono dell'anno scorso, no? 
Sì. Come dicevo prima, l'idea all'inizio era fare un'unica compilation con il doppio delle tracce, ma sono io alla fine che ho voluto dividere. Così avrei potuto farne una con più coscienza dopo. Questo qua è uscito così infatti, senza copertina. Il disco fisico in sé non ne ha una.

E l'artwork che si vedeva ovunque con i tipi e il fango?
È solo digitale. È preso da un festival, il festival del fango o Mud Fest che fanno in Corea dal 2007. Ci va un sacco di gente da tutto il mondo. La avevo trovato un sacco di immagini, e le trovavo tutte molto sonore. Plastiche, tutte grigie con qualche colore che salta fuori. Molte raffigurano la lotta nel fango, non volevo che diventasse troppo legata all'anatomia umana... non mi piaceva più di tanto. Quella che poi alla fine abbiamo scelto raffigura tre personaggi: una ragazza che si tappa le orecchie, uno che si copre la testa e uno a destra che osserva. Sembrano colpiti da qualcosa di molesto con un volume insopportabile.

Pensi che Progresso diventerà mai un'etichetta? 
Bella domanda. No, Esiste già Hundebiss come "casa", non sento la necessità di fondare un'etichetta. Tre anni fa sentivo la necessità di portare un certo tipo di suono perché in quel momento c'era di farlo. adesso accomuna un po' tutti. Basta guardare come si stanno muovendo le "scene" a Milano; stanno tutte un po' convogliando in sonorità molto simili.

Ci penso un sacco anch'io. Credo che in realtà sia un bene. 
Sì. I punti di partenza magari sono estremamente diversi tra loro, ma si arriva sempre lì, ed è bello. Finalmente adesso il pubblico è davvero esperto. Quando avevo fatto Lotic, nel 2014, c'erano dieci persone. quindi ho capito che esistono delle tempistiche per quanto riguarda il lavoro del promoter, Se hai troppa fretta di proporre un suono che è ancora troppo fresco, rischi di non fare arrivare il messaggio a tutta la comunità.

Vero. Però ben venga che qualcuno lo faccia. 
Ovvio, qualcuno deve pur iniziare e aprire nuovi discorsi, anche se il bug di questa dinamica "proto-trend" è proprio che il messaggio non arriva a tutti ma solo agli addetti ai lavori 

 

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Atlante musicale del "Fortino della Droga" di Milano

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L'autore insieme ai suoi dirimpettai.

Durante i primi mesi che ho passato nel condominio di Viale Bligny 42 (che potete chiamare anche “Palazzo Mondo”, o “Fortino Della Droga”) casa mia era un continuo via-vai di gente: quasi ogni sera una decina di miei coetanei attraversavano il varco del portone per poi voltare a destra verso la scala numero uno, osservati con curiosità antropologica e professionale dagli spacciatori che allora trascorrevano la notte appoggiati al cancello, più puntuali ed instancabili delle guardie di Buckingham Palace. Le prime rampe di scale erano per buona parte occupate da altri liberi professionisti dello spaccio, che tendevano a classificare i miei ospiti in due principali categorie di riferimento: “clienti potenziali” e “belle fighe”. Ci sono volute diverse settimane prima che, messi in pausa i cellulari dai quali ascoltavano senza cuffie tutta la top 20 egiziana, i “sciao bela”/ “zio vuoi coca buonissima” si trasformassero in “tu vai da Francesco, quarto piano destra”. Alle facce interrogative (e a volte un po’ preoccupate) dei miei amici, replicavo divertito che “i miei vicini salutano sempre”. Arrivati in casa diventava però subito chiaro a tutti uno dei vantaggi del vivere in B42, ossia che qui è abbastanza raro che ascoltare musica sia di disturbo a qualcuno: la prima volta che un vicino è venuto a bussare durante una festa non era per chiederci di abbassare il volume, aveva sentito che stavamo suonando, e si è presentato con uno djembe e un po’ d’erba. 

Fino a pochi anni fa sulla scala numero uno gli inquilini italiani si potevano contare sulle dita di una mano, e i suoi muri ignoravano quasi totalmente il panorama mainstream occidentale. Ancora oggi il grosso dei suoi abitanti viene dall’Egitto o dall’Algeria, fatto salvo per qualche famiglia sudamericana al primo piano e per i miei dirimpettai centroafricani (anche se non sono mai riuscito a determinare con certezza il loro Paese d’origine: sono abbastanza sicuro che due di loro siano liberiani, un altro continua a rispondere candidamente che lui è “un Mandingo”). I suoni che escono dai ballatoi di questa scala e dalle finestre degli appartamenti che essa ospita seguono uno schema fisso di poco sensibile a variazioni: gli ascoltatori arabi e nordafricani si dedicano essenzialmente all’ascolto delle hit dei Paesi dai quali provengono (su tutti Amr Diab, che è un po’ il Nek egiziano, ora e sempre in cima alla Egypt iTunes Top 20). È un ascolto quasi privato, fatto per lo più dalle casse dei cellulari in orario notturno.

La playlist è diventata vagamente più varia da quando ho spiegato ai miei vicini come scaricare l’mp3 dai video YouTube. Il mio piano (il quarto) si è invece meritato il titolo di “Piano Giamaica” grazie agli ascolti dei miei dirimpettai: quando le giornate cominciano ad allungarsi, una cassa acustica tiene aperta la porta del loro monolocale senza bagno diffondendo per tutta la scala musica reggae. È (inevitabilmente) un ascolto collettivo, per nulla casuale (sono quasi tutti veri appassionati del genere, quando il Rototom era ancora a Udine ci andavano tutti gli anni) ma anche strettamente stagionale: il reggae—si sa—si sposa malissimo con il freddo, per cui il loro ascolto ha luogo, salvo rarissime eccezioni, solamente da maggio a ottobre. Lo scorso inverno hanno provato Virgin Radio, ma per fortuna non hanno gradito. Mi hanno detto che ascoltano anche Alborosie e che non è vero che (come spesso si sente dire) si sia inserito nella comunità giamaicana al pari degli autoctoni: sarà sempre visto dai locali come “un ragazzo italiano con i dread”.

Le famiglie sudamericane del primo piano invece ascoltano musica ad alto volume solo la domenica pomeriggio o durante i compleanni dei bambini, occasioni per le quali la loro paylist si arricchisce dell’immancabile “Tanti Auguri a Te”. E poi ci siamo io e Michele, dei quali io sono sicuramente il meno interessante: siamo gli unici della scala a possedere strumenti musicali—io un po’ di chitarre e un pianoforte passato a malapena tra gli stretti muri del corridoio, lui una balalaika. Michele merita però qualche riga di approfondimento non strettamente inerente ai suoi ascolti: mi ha raccontato che tanti anni fa era un monaco buddista, che è stato cacciato dal suo tempio dopo aver fatto rissa con un altro monaco per storie di donne. Lo stesso gli è successo poco dopo con gli evangelici. Adesso si dedica ai tarocchi e a cercare abiti che soddisfino la sua passione di impersonare nel quotidiano i suoi personaggi storici preferiti (tra cui: Nostradamus, Rommel, “un monaco pellegrino spagnolo del XVI secolo in missione di evangelizzazione sulla Cordigliera delle Ande”, un pompiere). Michele (purtroppo) non ha un impianto abbastanza potente per condividere con il resto della scala i suoi ascolti. Sopra il mio appartamento c’è poi la mansarda acquistata nel 2008 da Matteo Salvini, dal quale l’unico suono mai provenuto è quello dell’acqua che zampillava fuori delle tubature rotte per mancata manutenzione. 


Gli inquilini di B42 pasteggiano insieme senza invitare Matteo Salvini. Foto via.

Davanti all’oriente c’è l’occidente, davanti alla uno c’è la “Scala Cattelan”, così battezzata in onore dell’artista (Maurizio), che qui aveva il proprio atelier. È abitata per lo più da ragazzi italiani (studenti, artisti, lavoratori) e da anziani, inquilini del palazzo da almeno quarant’anni. Questa è la scala che prima di tutte ha corso il rischio di gentrificazione, fortunatamente disinnescato dallo spirito dei suoi nuovi inquilini, estremamente rispettosi del Geist del palazzo: il fascino di vivere nello stesso luogo che Cattelan ha scelto per il suo atelier scivola via alla prima rissa che scoppia in cortile, se quello era l’unica ragione della tua fascinazione. Perché è così: B42 presenta alle persone che scelgono di trasferirvisi una specie di test attitudinale al quale chi è qui solo per darsi un tono da bohémien non sopravvive. Non aspettatevi quindi lo stereotipo dello studente IED o NABA, fighetto, artistoide, molto informato, ma poco colto, con la congenita tendenza a non capire un cazzo. Gli studenti IED ci sono, ma sono—come tutti i ragazzi che scelgono di trasferirsi qui e che superano il test—persone profondamente appassionate della natura del palazzo, capaci di coglierne gli aspetti più profondi e rispettarli. Molti si sono trasferiti qui perché volevano fare un progetto sul palazzo, gli altri sono finiti per farlo comunque. La scala due più che una scala che suona è una scala che ascolta, che ascolta e rimedia ciò che ascolta. Una specie di ponte con il mondo esterno. E non è solo un’attitudine, ma anche una necessità dettata da un dato strutturale, dato che metà delle finestre si affacciano all’esterno anziché sul cortile (o su viale Bligny, troppo frequentato per far sì che i condomini lascino uscire dalla finestra ciò che ascoltano). Anche questa scala ha i suoi suoni, anche se decisamente meno presenti di quelli della uno: ci sono tanti cinesi che ascoltano soprattutto la radio, un po’ di musica sudamericana e qualche ragazzo che suona (una cantante, un conservatorista). 

Questa scala ha due singolari primati:

-quello della musica a più alto volume mai sentito fra le mura del palazzo per il minor tempo possibile (un ragazzo ha sparato hardcore rap a volume altissimo finché la scala uno ha risposto a dovere: hanno alzato allo stesso volume Amr Diab finché la finestra del ragazzo si è chiusa, e l’hardcore rap è tornato nella sua tana)

-Il rifiuto più difficile da smaltire: qualcuno ha lanciato una pizza (credo quattro stagioni) sul tetto del ripostiglio attrezzi in cortile. È comparsa poco dopo che io mi trasferissi qui (quasi tre anni fa) ed è stata rimossa da pochi mesi.

La scala tre è la scala del mistero, ricordata a livello sonoro soprattutto per Spazio Nour, l’atelier dell’artista iraniano Mahmoud Saleh Mohammadi, che spesso ospita mostre o eventi che comprendono anche musica dal vivo. La numero tre è la scala che ospita un anziano signore che costituisce l’unico vero nemico dei suoni in B42, ma anche dei suono in generale: ogni volta che abbiamo allestito in cortile un evento che comprendesse performance musicali si è presentato puntualissimo ai primi vagiti di soundcheck ribaltando le aste dei microfoni e minacciando di morte e denunce i musicisti (non siamo sicuri se da attuare in questo preciso ordine). È così ligio al proprio dovere di Guardiano del Silenzio che è riuscito a tenere la stessa irremovibile condotta anche la volta che ad esibirsi in cortile era proprio suo nipote. Forse per questa ragione, se la scala due suona poco, la scala tre non suona per niente, ma anzi vive nel terrore di “morte e denunce”. Le volte che i concerti in cortile sono stati portati a termine, questa era la scala con il maggior numero di persone affacciate alle finestre e sui loro volti c'erano gli stessi timidi sorrisi con i quali immagino che i nostri nonni abbiano ringraziato gli americani per le scatolette di tonno nel 1945.

La scala tre è popolata in modo molto simile alla scala uno, anche se mentre noi possiamo suonare e ascoltare ciò che vogliamo al volume che vogliamo, loro si limitano (probabilmente) ad invidiarci. Mi immagino gli egiziani costretti a comprarsi le cuffie per ascoltare Amr Diab, un altro me che mai s’azzarderebbe a suonare e famiglie peruviane che cantano “Tanti Auguri a Te” sussurrando.

Nonostante questo riesco a provare un certo affetto, perché è proprio la scala tre ad avermi offerto l’opportunità di fare lo scherzo forse più divertente che mi sia mai riuscito di fare, mentre stavo ospitando un’amica svizzero-tedesca, per la prima volta in Italia. Era già abbastanza scioccata dal fatto che qui un sacco di gente butti per terra i mozziconi di sigaretta, quindi vi lascio immaginare le sue reazioni a B42. Ebbene, durante una tranquillissima cena a casa mia, proprio da una finestra della scala tre qualcuno ha lanciato un petardo. L’idea geniale: dire impassibile “sì, sai, qui ogni tanto sparano”. Mentre lei si appiattiva contro il muro temendo un proiettile vagante io ho continuato a mangiare il mio piatto di pasta proprio come avrebbe fatto Don Vito (ricordate quello che dicevo sul test attitudinale per venire a vivere qui?).


Bambini fanno il girotondo tra una sparatoria e l'altra.

Se per quasi tutto il resto del palazzo regna la scala Frigia maggiore (altrimenti nota come “scala araba”), niente meglio della sua nemesi musicale potrebbe chiudere il proverbiale cerchio. Quando parlo de “la nemesi” mi riferisco a una persona in carne e ossa, nella fattispecie una cantante lirica, che quasi ogni mattina spande dalla scala quattro i propri gorgheggi per tutta la corte, con un volume che non ha nulla da invidiare a quello di un discreto impianto audio. Così La Traviata, le messe di Bach, Rossini o Verdi si adagiano sullo sfaccettato tappeto sonoro circostante, donando al palazzo il tassello finora mancante per rendere davvero appropriato il titolo di “Palazzo Mondo”. Assieme al “Gran Vals” di Francisco Tárrega, che forse voi conoscete come “la suoneria del Nokia” e si sente uscire spessissimo dagli altoparlanti degli anacronistici telefoni degli inquilini del palazzo, questo è l’unico altro frammento di musica classica che può capitare di sentire in B42. Altro elemento sonoro da segnalare e proveniente dalla scala quattro è l’impianto di uno sconosciuto, grande fan della tech-house, che ha inspiegabilmente eletto come momento preferito per dedicarsi all’ascolto della sua musica preferita quello dell’ora di pranzo.

Visti i notevoli divari fra le inclinazioni musicali di ciascuno e la tendenza abbastanza diffusa ad ascoltare ciò che si vuole al volume che si preferisce e notato infine che nessuno ha mai avuto da ridire sull’attività di ascolto del proprio vicino, potremmo dire che se per “integrazione” intendiamo il raggiungimento di uno stato di quiete nel quale soggetti diversi per provenienza geografica, cultura, religione ed estrazione sociale godono degli stessi diritti e posso esercitare in egual misura le medesime libertà, allora la gestione degli esotici ascolti di Viale Bligny 42 costruisce sicuramente un modello esemplare.

La verità è che in B42, la musica è rimasta, oltre che un fatto artistico e privato, un fatto sociale, di natura pubblica e di rispetto nei confronti di qualcosa che non è solo un prodotto da intrattenimento che incontra il nostro gusto, ma anche il risultato di una cultura specifica, l’espressione di un sentimento che punta ad essere condiviso ancor prima che compreso. Non si può provare ostilità nei confronti di un atteggiamento simile, forse, fastidio, interesse, piacere... Anche indifferenza, ma non ostilità. Questo modo di pensare è molto chiaro a tutti gli abitanti di Viale Bligny 42 e ha permesso che si stabilisse un equilibrio acustico in cui il palazzo fluttua tuttora. L’unico suono ostile che si può ascoltare da queste parti è quello delle gocce d’acqua al piano di sopra, responsabili delle macchie di umidità sul soffitto di camera mia.
 

Francesco scrive e suona. Non ha Twitter. Se sei una sua stalker seguilo su Facebook.
 

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