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Orrore a 33 Giri presenta: Valentina OK, transessuale neomelodica

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La scena dei neomelodici napoletani è un universo a parte nella storia mondiale della musica, un microcosmo che vive di vita propria e si alimenta secondo le proprie incredibili regole e convenzioni, un ambiente tipicamente maschilista e patriarcale, ancestrale come pochi—roba che se Brian Eno e David Byrne per caso lo scoprissero ci farebbero sopra tonnellate di compilation e documentari.

Questo è il contesto nel quale si inserisce la perla rara dei neomelodici: la transessuale Valentina OK.

Nata Ciro Adorato, Valentina muove i suoi primi passi nello star system partenopeo a metà degli anni Novanta, conquistando tutti con un mix di dance tamarra, testi provocatori e inni LGBT, veicolati tramite gli organi di propaganda neomelodici che rispondono al nome di “Reti Locali”. Il botto vero arriva quando la comica Natalia Porcaro propone una parodia di Valentina con il personaggio di Natasha, quella del tormentone “Sesso Senza Cuore”, resa celebre nella trasmissione L’Ottavo Nano con Serena Dandini, Corrado Guzzanti e il resto della crew. Da quel momento, vari big della TV si accorgono dell’originale e gente come Carlo Freccero e Maurizio Costanzo cominciano a chiamare Valentina OK per portare un po’ di folklore nei loro salotti buoni.

Ma Valentina OK è molto di più: voce baritonale in falsetto, messaggi di speranza in salsa techno dedicati ai giovani che non hanno il coraggio di dichiararsi al mondo e happy music per il pubblico dei più piccoli; a riguardo Valentina ha dichiarato in un’intervista a Pride (che vi consigliamo alla stragrande di leggere): “Moltissimi bambini che non sanno come dire ai loro genitori che sono trans mi scrivono o vogliono parlare con me. Io ho risposto a molti di loro e sono stato anche a telefono. Molti bambini che ho aiutato ora sono diventate certi pezzi di femmine.”

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La sua hit più importante è senza dubbio “OK”,  innanzitutto perché completa il nome d’arte di Valentina un po’ come la canzone dance “Volo” fece con Fabio. Poi perché diventa un vero tormentone grazie al mix di tematiche scomode e testi sgrammaticati come “sarei una pazza se non ci verrei” e “se aspetterai cinque minuti e io non ci sarei”, spingendo infine la già citata Natalia Porcaro a parodiarla. Particolarmente croccante la versione in inglese dall’emblematico titolo “OK (english version)”

Esattamente come a “Vamos A La Playa” dei Righeira seguì il soundlike “No Tengo Dinero” che ne riprendeva tematiche e sonorità, così per Valentina arriva “Me Sento Femmena”, agrodolce melodia che bilancia perfettamente i temi caratteristici della musica neomelodica e l’orgoglio LGBT. 

Tuttavia il capolavoro di Valentina OK rimane a nostro modesto ma indiscusso parere la canzone “Ragazzo Gay”: un vero e proprio inno al coming out sulle note di una sigla TV dei Cavalieri Dello Zodiaco. Il messaggio di Valentina non può essere fermato, e risulta più attuale che mai. “L’anima non ha colore, né sesso, né età”. Quindi, caro ragazzo della Napoli vecchia, esci spensierato dalla cameretta senza più temere niente, che come dice Valentina “ti faranno piangere, bere le tue lacrime” ma “tu non lasciarti andare mai (…) e alla fine vincerai”.

La coraggiosa epopea di Valentina ha purtroppo un esito tragico: nel 2014, a soli 46 anni, si spegne a causa di un tumore al fegato che aveva tenuto nascosto per far sì che il mondo la ricordasse sempre bella e celebre come all’apice del successo. 

Rossana Russomanno è la donna che le è stata più vicina nell'ultimo periodo della sua vita, diventando la sua migliore amica. Per intenderci, nel video del funerale Rossana è la persona che legge per lei una toccante lettera scritta di suo pugno. Le abbiamo chiesto di raccontarci il suo personale ricordo su Valentina:

"Valentina era una donna incredibile (io la considero una donna, sebbene lei avesse ancora tutto da uomo—non si è mai voluta operare). Era allegra, spiritosa, ma soprattutto generosa. È morta in povertà, perché tutto quello che ha guadagnato lo ha speso per il bene di chi le stava attorno. Era una donna che dava tutto. Tutto quello che aveva lo metteva a disposizione degli altri. Questo è stato il suo peccato, forse, perché molti ne hanno approfittato.

Ci siamo conosciute in ospedale, ero ricoverata per dei problemi miei. Un infermiere entrò nel reparto e disse 'c'è Valentina, la famosa cantante, che è ricoverata qui e nessuno la vuole in camera'. Io dissi: 'fatela venire qua, la voglio io, Valentina, sarei contenta, anzi, orgogliosa, di averla in camera con me'. Da lì in poi lei mi fu molto grata, passammo tutto il periodo in ospedale sempre insieme, al punto che quando fu il momento di essere dimesse io uscii un giorno prima e lei mi scrisse un messaggio: 'Rossana mi manchi!'. 

La nostra era un'amicizia sincera, senza secondi fini, e lei lo sapeva. Non a caso mi telefonava spesso, anche due o tre volte al giorno, per avere consigli. 

Quando Valentina ha avuto il malore che poi l'ha portata in coma, mi chiamò al telefono e mi disse 'non mi abbandonare, solo tu mi puoi capire'. Sono stata con lei al telefono finché non l'hanno portata in ospedale. Mi voleva un bene dell'anima e io a lei. 

La notte dopo la morte di Valentina io tornai a casa e andai a letto, a notte fonda mi svegliai ed era come se ci fosse qualcuno lì con me che mi teneva la mano: ho scritto una lettera per Valentina, ma non scrivevo io, era come se qualcuno mi guidasse. Tant'è vero che la mattina dopo la feci leggere a mia figlia: 'Chiara va bene?' Le chiesi. 'Mamma, è perfetta'. E non avevo fatto errori, di notte, alle 3. Il giorno dopo chiesi se potevo leggerla sull'altare. Al suo funerale la chiamavano Ciro, invece la mia lettera era indirizzata a Valentina. Ci fu un applauso incredibile. 

Spesso uscivamo insieme la sera, ci divertivamo, lei ci faceva ridere un sacco perché era simpatica, era divertente, era una donna che ti faceva piacere frequentare. Le piaceva molto mangiare—questo ve lo posso assicurare: quando venne a casa mia portò di tutto e di più. Aveva voglia di vivere, lei, non voleva morire. Quando a volte ho momenti di difficoltà invoco lei. Mi manca molto, come amica. 
 

Valentina merita di essere ricordata, cosa che non molti hanno fatto. È stata la prima, dalle nostre parti, ad aprire una strada che poi altri hanno percorso con maggior successo. All'epoca c'era pudore, ma Valentina è sempre stata bella, aperta, ha messo alla mercè di tutti la sua condizione. Non si vergognava, è stata una persona sincera.

Valentina scherzava molto con gli uomini. Una sera uscimmo insieme, uno volle un passaggio, glielo demmo e alla fine volle il numero di Valentina; il giorno dopo lui telefonò e disse che voleva uscire con lei, al che Valentina mi disse 'io lo mando a quel Paese', proprio come nelle sue canzoni. 

Valentina era unica, era bella. Ho foto artistiche di Valentina, e anche foto naturali, lì in bella mostra nel mio salotto. Per me Valentina fa parte della famiglia."

Di lei rimangono sette album (ne trovate cinque su iTunes) e alcune illustri collaborazioni: Eugenio Bennato la lanciò a teatro nel 1995 con lo spettacolo Gli Angeli Del Sud, Leopoldo Mastelloni pubblicò un album insieme a lei, contenente una splendida cover in napoletano di “Con Il Nastro Rosa” di Lucio Battisti, ma soprattutto John Turturro la volle per un cameo nel suo documentario sulla musica napoletana, Passione, del 2010 (scordatevi i neomelodici veraci che avrebbero fatto la gioia di Eno e Byrne, la pellicola era incentrata su quelli bravi).
 

Seppur tra alti e bassi e con diversi momenti al limite del ridicolo, Valentina OK rappresenta un esempio di speranza e di coraggio non solo per la comunità LGBT ma per l’umanità, un irriverente e fragile fiore cresciuto nel deserto. Il mondo ha bisogno di altre Valentina OK.

 

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Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

 

Antwood - Virtuous.scr - Planet Mu

 Un disco che mi ha disconnesso il tessuto neurale già dagli excerpt usciti sul sito ancora a inizio aprile. Le aspettative erano comprensibilmente altissime, e alla fine di quel primo e parziale ascolto i brividi dissociativi erano esattamente quelli descritti da Tristan—suo vero nome—ai nostri colleghi inglesi in questa intervista. Leggerla mi ha aiutato a dare un senso e una direzione psicologica all’ecosistema di suoni che costellano l’album; in pratica è come trovarsi di fronte un AS di Amnesia Scanner meno paranoico, e più adagiato sulle intersezioni tra club music, design del suono, biotecnologia e robotica. Il racconto al suo interno è narrato in una lingua artificiale, sintetizzata da un’intelligenza che lo è altrettanto e che cerca tramite questo linguaggio di costruirsi un proprio codice etico. Tenta di stabilire un contatto emotivo con il mondo che la circonda tramite il suono, rendendolo melodico e rarefatto a intermittenza, a seconda dell’entusiasmo del momento. Pensare che lo stronzo che mi ha sfilato il telefono di tasca lo scorso sabato, ha avuto il lusso di trovarsi questo disco per intero al suo interno, mi fa tremare fortissimo di rabbia. Non se lo meritava.

BIRS AFFLICTION

 

ANOHNI - HOPELESSNESS - Secretly Canadian/Rough Trade


 Diciamolo una volta per tutte: Anohni è una palla al cazzo. Una poetica, splendida, profonda, sentimentale, commovente palla al cazzo. L’ho vista due volte in concerto ed entrambe le volte (la seconda ero pure su di giri grazie a sostanze non fisiologiche) mi sono addormentata, cullata dalle piacevoli suite ninna-nanna su cui l’angelica voce di Anohni si stendeva leggera come uno strato di morfina. Insomma, appena ho saputo che quest’album lo producevano HudMo e 0PN mi son detta “Daje, finalmente un po’ di movimento!” e invece devo ammettere che rimpiango gli archi e le suite soporifere, perché tutto sommato ci dormivo bene, qui invece c’è qualcosa che stride, che stona e che non si incastra, e io non riesco neanche a contare le pecore in pace.
JAY-ZZZZZZZZZZZZZZZZZZ

 

BIRTHH - Born in the Woods - We Were Never Being Boring

Scommettiamo che qualsiasi recensione scritta in italiano di un album dei Daughter può essere applicata a questo disco cambiando quattro parole? Via: “Tormentato, inquieto, inteso, cupo: si può definire in molti modi l’esordio di BIRTHH. A un primo impatto lo si può far passare come un disco capace di raccontare al meglio quel disagio che, certe volte, si può provare nel corso di una vita. Un disco votato unicamente al pessimismo. L’errore sarebbe proprio quello di fermarsi qui, analizzando Born in the Woods sotto questa unica chiave di lettura. L’esorcismo compiuto attraverso la voce di Alice Bisi è, al contrario, quanto di più vitale ci possa essere: la giovane italiana è capace di scavare nelle zone più recondite dell’animo e affrontare a viso aperto quelle angosce esistenziali con cui spesso si devono fare i conti. Un viaggio interiore tanto coraggioso da intraprendere, quanto liberatorio una volta giunto alla conclusione.” Wink wink.

PEPPINO DI CAPRIO

 

JAMES BLAKE -The Colour in Anything - Polydor/1-800 Dinosaur


 Quando ho saputo dell’uscita del nuovo disco di James Blake ho annunciato ad amici e colleghi che la mia unica priorità sarebbe stata ascoltarlo tutto, senza interruzioni, dall’inizio alla fine. Il primo tentativo non è andato molto bene e subito dopo la traccia con Bon Iver ho sentito l’esigenza di distrarre la mia mente con stimoli più variegati o interessanti come ad esempio stare seduto chiuso dentro il cubicolo del mio cesso preferito in ufficio oppure fissare le macchinette e ragionare ad alta voce sull’assenza di logica nel prezzo di alcune merendine. Siccome sono una persona dai solidi principi quando ho ricominciato ad ascoltare sono partito nuovamente dalla prima traccia, ma sono spiacente di dovervi comunicare, adorati e fidati lettori, che non ce l’ho fatta. Tutto ciò che compone questo disco, dalla sua lagnosissima copertina all’ultimo dei lamenti inserito in post produzione tra una batteria e l’altra è noia pura e mortifera. È come prendere il numerino in Posta e proprio quando è il tuo turno una signora di settant’anni decide di farsi spiegare tutto il ventaglio delle promozioni offerte da Poste Mobile. Ecco sì, James Blake è il corrispettivo musicale di Poste Mobile.

JIMMY CHINOTTO

 

Bromp Treb - Concession Themes - Feeding Tube Records

 “Sounds made with tapes, various electronics, synthesizers, samplers, microphones, and effects”. Questo leggiamo nei credits del nuovo album di Bromp Treb, meglio conosciuto come il folle batterista dei Fat Worm Of Error. La descrizione in un certo senso omette quello che, dal vivo, il nostro riesce a fare: cioè suonare letteralmente “i gesti”. Clamoroso è in questo senso il suo uso del silenzio in un impianto, quello del noise, che chiaramente non consente pause mentali. In questo caso invece tutta una serie di loop, scureggette, e voci spappolate con dei synth che fanno letteralmente cucù. Neil è assurdo già di per se, di cognome fa Young (i genitori non sapevano manco chi fosse il cantante omonimo) e si fa giustamente chiamare Cloaca per gli amici. È un grande personaggio che da batterista immette nella sua musica impulsi e ritmi che ricordano appunto i gloriosi stop and go dei Fat Worm Of Error, e a volte anche la composizione “spastica” rimanda a quel tipo di concezione impro, ma in un contesto totalmente diverso, elettronico. Il disco si pone, infatti, come l’anello mancante fra un arcade rotto e il suono di un hardisk che sta andando in full fino a spaccarsi. Poi ogni tanto c’è un tentativo di danza che suona come una molla impazzita infilata in una lavatrice psichedelica (sapete, quelle che fissate per ore mentre girano). Vocalmente ricorda un Paska che ha deciso di farsi murare in un sintetizzatore vocale di Hawking fissato sul nonsense, dal punto di vista strumentale è rumore che diventa toypop fino al gran finalone atonale, in cui i computer sono liberi di dire come la pensano in un dialogo di sequenze random (ovviamente). Insomma un discone che rilancia il noise, genere ultimamente troppo ripiegato su se stesso: c’è ancora vita nelle discariche, meno male. 
TUPÉ DI CESARE RAGAZZI

 

VINICIO CAPOSSELA- Canzoni della Cupa - La Cupa/Warner


Sarò paranoica, ma ho l’impressione che Vinicio Capossela faccia apposta a impersonare un epigono di De Andrè che dopo essere stato imprigionato per qualche decennio in un minuscolo paesino del Sud Italia ora finalmente è libero di rompere i coglioni. Questo suo nuovo progetto musical-antropologico si presenta quasi già come Patrimonio Unesco e porta con sé un messaggio subliminale per l’ascoltatore: se non lo capisci non capisci l’Italia, non capisci il folklore. Se non apprezzi Vinicio offendi le tue origini, se lo disprezzi disprezzi le radici ca tieni: rinneghi tua mamma, tua nonna, i contadini col sudore sulla fronte, le mondine, i partigiani, Dante Alighieri, Giovanni Verga. Finiremo mai di sentirci in colpa per la nostra ignoranza di fronte a questo Maestro della ricerca filologica? Impossibile. Siamo dei cazzo di ingrati.
ACCADEMIA DELLA CUPA

 

DEATH GRIPS - Bottomless Pit - Third Worlds/Harvest

 Uno dei versi che mi sono rimasti più impressi di questo Bottomless Pit sta in "Bubbles Buried In The Jungle" e dice "Petty formula never amuses me", cioé essenzialmente "mi rompo le palle di fare sempre la stessa cosa", nel contesto di un pezzo in cui essenzialmente MC Ride fa il coatto paranoico... Come sempre! Infatti, per quanto gli possa non piacere ammetterlo, sta cazzo di "petty formula" i Death Grips la seguono praticamente in ogni loro sforzo, dal primo giorno. Se ne sono allontanti solo quando hanno fatto un disco con Björk, che infatti faceva cacare. Possiamo quindi essere contenti che le cose stiano così, in fondo. È pure facile farla passare per una "non-formula", o quantomeno per una che non annoia dal momento che consiste prevalentemente nell'usare alcune doti (sovran)naturali dei membri (il drumming disumano e la voce da hobo col machete) per fare casino in modo assurdo, riuscendo comunque a far quadrare tutto dal punto di vista architettonico-ritmico. L'unica variazione presente in questo disco è una notevole tendenza verso la doppia cassa smetallante in sedicesimi che unita a certi synth volutamente scrausi fa quasi Dragonforce dell'hip-hop. Sul versante "immagine pubblica" invece vale lo stesso discorso dei Radiohead: sta cosa di dovere per forza sorprendere tutti è una roba che distrae e appesantisce inutilmente il discorso di cose inutili, e oramai non regge manco dentro la narrativa nichilista dei testi. Boh, vabé, mi è piaciuto di brutto anche se contiente delle bugie. Che poi è l'unico rapporto che si può avere con i Death Grips in generale.

BRACCO BAUDO BAMA

 

JMSN - It Is - White Doom

 Frulli The Weeknd, Justin Timberlake, Chet Faker e Kendrick e ti immagini che venga fuori un mostro che si mangia il mercato discografico in un boccone solo. Invece ti ritrovi tra le mani JMSN, che per sua stessa ammissione (uno skit nell’album, “Juice Interlude,” lo dichiara apertamente) non è in grado di tirare fuori una hit. Ed è per questo che It Is suona così reale e rilassante: nemmeno adesso che iniziano a cagarselo, il ragazzo del Michigan mostra segni di egomania, anzi, mantiene alta la bandiera dell’Hippie-R&B, e non solo perché odora di capretto (ho delle testimonianze dirette a riguardo), ma perché non gliene frega proprio un cazzo delle hit, e fa bene.
COMPRO UNA VOCALE

 

HATEBREED - THE CONCRETE CONFESSIONAL - NUCLEAR BLAST

 Dopo i primi tre pezzi di The Concrete Confessional succede una cosa incredibile: pensi che in fondo spacca. Alla chitarra adesso c'è Frank Novinec, ex Ringworm e Integrity, e ti sembra di sentirlo, e forse lo senti. I riff sono riff metal/hardcore solidi, di scuola anni Novanta, mega Slayer con i break, la batteria blasta che è un piacere, il disco sembra fare esattamente quello che deve fare: spingerti a scattare in piedi, fare duecento flessioni, inforcare i pantaloncini e andare a spaccare la faccia a qualcuno che ti vuole impedire di realizzare il tuo sano sogno americano. Ammesso e non concesso che ci sia una persona che voglia davvero provare queste sensazioni ed essere così. Ma già dal quarto pezzo la consapevolezza ti attanaglia: è una merda. Hai voglia a paragonare i testi di Jamey Jasta a Kierkegaard se poi la sua voce irritante funziona solo sui palestrati col debito formativo in lettura, come certi fischietti per i cani.

ANAL KANT

 

RADIOHEAD - Moon Shaped Pool - XL

 

SELTON - Loreto Paradiso - Believe 

 Una volta mi ricordo che stavo tornando a casa dopo lavoro, saranno state le sette, e a pochi metri dalla mia via, a inizio Via Porpora a Milano, trovo un nugolo di persone munite di drink riverse sul marciapiede. Penso che è molto strano, dato che in quell’angolo di strada c’è soltanto una lavanderia, un’agenzia di viaggi sudamericana, e un forno carissimo. No, quella volta era pieno di giovani dall’aria soddisfatta, e anche un po’ giudicante. Ignoro la scena e me ne salgo a casa. Dopo dieci minuti mi chiama il mio amico Marco e mi comunica che “in un cortile interno di via Porpora c’è una specie di spiaggia finta, con tanto di sabbia e birre gratis.” Così mi faccio forza, riesco di casa, attraverso la barriera umana di cui sopra e mi trovo immersa in questo scenario in cui a terra era effettivamente cosparsa della sabbia, tutto intorno era disseminato di palme gonfiabili, ombrelloni e banchini con bottiglie di birra vuote. Non c’era musica, per nostra enorme fortuna. A un certo punto facciamo l’incontro di un nostro ex compagno di corso, che una volta ha provato a spiegarci perché il Teatro Degli Orrori fossero una grande band. È lui a informarci placidamente che il tutto è stato ideato dalla band che fino a poco prima stava suonando proprio lì, in mezzo a quel cortile. “Chi sono? Che musica fanno?” “Si chiamano Selton, fanno musica abbastanza solare, d’ispirazione brasiliana e chill.” Ci è bastato e avanzato.

FENTON > SELTON

 

SKEPTA - Konnichiwa - Boy Better Know


 L’ultima volta (ok dai, l’unica volta) che sono stato a un concerto di Skepta ero già ubriaco marcio due ore prima che iniziasse e doveva essere gratis, ma invece ho perso il portafoglio e sono dovuto tornare a casa a piedi. Inutile dire che era la dannatissima festa di VICE (sempre sia maledetta) e che la congiuntura tra una festa open bar e l’unico giorno dell’anno in cui io decido di prelevare una cifra di contanti superiore alle venti euro è probabilmente solo colpa mia. Nonostante questa orrenda esperienza che è culminata in un disastro sono incapace di odiare Skepta e posso anche passare il pezzo con Pharrell, che è ovviamente brutto e insopportabile come la Golden Age del rap italiano.

MATTIA AKA SPEIS M.

 

Addio a Isao Tomita, mago nipponico del synth

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Foto dal sito dell'artista.

Giovedì scorso, 5 maggio, il compositore giapponese Isao Tomita ha lasciato questa Terra. Aveva 84 anni. 

Quando muoveva i suoi primi passi nel mondo dell'elettronica, Tomita iniziò a creare sonorità ambient con strumenti acustici. Li chiamava "tone poems." Utilizzò questa tecnica per sonorizzare lo show giapponese di science fiction Mighty Jack. Dopo aver acquistato un synth modulare Moog III nei primi anni Settanta, però, la sua attenzione si concentrò interamente sull'elettronica. Nel suo disco del 1974 Snowflakes Are Dancing rielaborò dieci partiture per pianoforte di Debussy utilizzando il suo Moog. L'album ottenne un successo internazionale e fu nominato per quattro Grammy Awards nel 1975.

L'allievo di Tomita Hideki Matsutake fu il programmatore della Yellow Magic Orchestra dal 1978-1982. In un'intervista con Resident Advisor, Matsutake racconta quanto fu importante Tomita per lui e per la band, in particolare ebbe un'influenza decisiva sul suo leader Ryuichi Sakamoto: "In studio, la YMO passava un sacco di tempo ad analizzare il modo in cui Tomita creava i suoi suoni. Sakamoto aveva tutti i dischi di Tomita, ogni tanto ne portava uno in studio e ci diceva 'Oggi ascoltiamo questo e studiamo.' Il suono della YMO affonda le sue radici nella musica di Tomita."

Tra gli anni Ottanta e Novanta Tomita ha girato con una serie di concerti conosciuti con il nome di Sound Cloud che avvolgevano gli ascoltatori in strati di suoni provenienti da diverse fonti e direzioni. In un concerto tenuto a Sydney di fronte a uno specchio d'acqua, mentre Tomita suonava sul palco, sull'acqua passava una barca piena di suonatori di tamburo kabuki ed altri suoni venivano da un elicottero cui era attaccato uno speaker, che volava sopra la testa dell'audience.

Nei mesi precedenti alla sua morte, Tomita stava lavorando ad un progetto di musica olografica che avrebbe avuto come protagonista la star virtuale Hatsune Miku. Il progetto, intitolato Dr. Coppelius, era dedicato all'amico di Tomita Hideo Itokawa aka Dr. Rocket, padre della missilistica giapponese. "Vorrei riuscire a definire il mio Dr. Coppelius, più che posso" aveva raccontato Tomita al Japan Times, lo scorso dicembre. "In questo modo, anche se mi succedesse qualcosa, altri potrebbero finirlo." 

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Il museo degli ABBA è la cosa più inquietante del mondo

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Foto di Åke E: son Lindman, per concessione di ABBA: The Museum

Se non siete mai stati a Stoccolma, ve la consiglio caldamente. È una città costruita su una rete di quattordici isole collegate da ponti che sono fantastici da attraversare in bici. Forse la più notevole e la più strana di queste isole è Djurgården, quasi interamente occupata da musei. Lì si trova Skansen, uno spazio aperto che fa da museo dell'architettura e da zoo. C'è anche Thielska Galleriet, una galleria d'arte dedicata a opere del periodo tra fine XIX e inizio XX secolo. C'è il Nordic Museum, che preserva la storia della regione, e il rinomato museo marittimo Vasa. E poi c'è ABBA: The Museum, che è esattamente quello che state pensando che sia.

È significativo che ABBA: The Museum funga anche da Hall of Fame della musica svedese. In Svezia abitano soltanto circa dieci milioni di persone, il che rende la loro capacità di sfornare artisti tanto originali come Robyn, The Knife, Entombed e Refused (i quali sono tutti onorati in qualche modo nel museo) molto più impressionante. Ma a ognuno di questi artisti spetta soltanto qualche centimetro quadro di spazio in una stanza grande circa un quarto del museo degli ABBA a cui è attaccata. In pratica il Governo svedese ci sta dicendo che se si mette insieme ogni buon musicista che il Paese abbia mai prodotto e produrrà, non saranno mai significativi per la storia musicale della nazione come gli ABBA. 

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Foto di Åke E: son Lindman, per concessione di ABBA: The Museum

Da metà anni Settanta ai primi anni Ottanta, la squadra composta da due uomini e due donne ha pubblicato otto album che hanno venduto suppergiù 400 milioni (quattrocento milioni) di copie. Hanno scritto "Dancing Queen", forse la più grande canzone sul ballo mai scritta, e "Waterloo", forse la canzone più orecchiabile a usare Napoleone come metafora centrale. Le loro canzoni sono state trasformate in Mamma Mia!, l'ottavo musical per numero di repliche nella storia di Broadway, e un film da 600 milioni di dollari al botteghino con Meryl Streep nel ruolo di protagonista che dà il merito al musical di averla aiutata a combattere la depressione post-9/11. Axl Rose ne era un fan, che è come se venisse fuori che Rasputin era un grande fan di Wordsworth. Sono come i Fleetwood Mac se oltre a essere i Fleetwood Mac avessero anche avuto un'influenza indelebile sulla propria regione di provenienza. 

Anche con tutta sta storia del museo è difficile spiegare quanto gli ABBA siano importanti per la Svezia. Proviamo con l'analogia: prova a immaginare cosa succederebbe se Nas e Kelis stessero ancora insieme e decidessero di formare un gruppo con Jay Z e Beyoncé. IN PIÙ immagina che oltre a diventare il gruppo musicale più famoso d'America solo per il fatto che esistono, la missione non-detta del gruppo fosse quella di diventare famosi a livello internazionale e rappresentare l'America sui palchi di tutto il mondo perché non c'era letteralmente mai stato un gruppo americano famoso prima di loro. Ora, immaginate che tutto questo succedesse negli anni Settanta, e che questo gruppo realizzasse questa missione folle e praticamente impossibile più di una volta, e che fossero svedesi come la cipolla fritta in barattolo. Ecco gli ABBA. 

Foto di Åke E: son Lindman, per concessione di ABBA: The Museum

Di questi tempi, molti dei più richiesti autori di canzoni nel mondo del pop sono spesso svedesi, ma si tratta di gente che opera dietro le quinte. Esseri umani dotati di talento mostruoso come Max Martin, Shellback e RedOne finiscono tutti per affidare le loro canzoni pop incredibilmente orecchiabili nelle mani di cantanti pop americani di bell'aspetto, perché diventino hit. Gli ABBA sono il simbolo di un tempo più semplice e più glorioso nella storia musicale della nazione, quando familiari cantautori di casa potevano mettersi insieme ai propri coniugi moderatamente attraenti e semplicemente cantare le loro benedette canzoni, e tutti indossavano stivaloni con i tacchi alti e tutine luccicanti e sorridevano come squilibrati non appena incrociavano lo sguardo di un obiettivo fotografico. Anche la vuotezza dei testi degli ABBA si è dimostrata, nel corso degli anni, una loro grande forza. È ciò che ha permesso a "Dancing Queen" di trasformarsi in un inno gay, ed è uno dei motivi per cui Mamma Mia! funziona tanto bene come musical. C'è una sottile differenza tra una canzone che parla di nulla e una canzone che parla di tutto, e gli ABBA lo sapevano bene.

Sono convinto che la storia tratterà bene gli ABBA; anche perché gli ABBA l'hanno già scritta. ABBA: The Museum disegna in modo museale l'arco storico della band—essenzialmente i leader delle due maggiori band svedesi divennero amiconi, ognuno di loro sposò una cantante famosa, poi diventarono una band che sfornò hit dopo hit finché non divorziarono tutti, poi vent'anni dopo arrivò Mamma Mia! e tutti i membri degli ABBA fecero una montagna di soldi. C'è la mostra pre-ABBA, i cui pezzi più notevoli sono i mezzi da tour delle vecchie band di Björn Ulvaeus e Benny Andersson The Hootenanny Singers e The Hep Stars—mezzi nel senso che qualcuno ha tagliato a metà le vecchie auto dei due e le ha attaccate al muro del museo. Poi c'è la mostra sulla conquista della fama, che spiega che Ulvaeus e Andersson, insieme alle rispettive mogli Agnetha Fältskog e Anni-Frid Lyngstad (entrambe già star soliste) continuavano a scrivere canzoni di cui non fregava un cazzo a nessuno, finché il singolo "Waterloo" non vinse il concorso Eurovision nel 1974 e diventarono famosissimi. Poi c'è la stanza degli Anni D'Oro degli ABBA, che comprende il tavolo mixer con cui hanno inciso la maggior parte dei propri album. Ci sono mostre dedicate all'acume affaristico del loro manager, ai loro costumi di scena, alle loro multiple targhe d'oro e platino, ai loro microfoni, al loro setup da studio e al loro rituale scaramantico pre-concerto. 

Il banner promozionale delle bambole ABBA sul sito di ABBA: The Museum

Non c'è bisogno di dire che questo posto contiene più statue degli ABBA di quante se ne possano contare (“THEY WERE GREAT THEN. THEY LOOK GREAT TODAY. – SEE THE LIFE SIZE ABBA DOLLS AT THE MUSEUM!”). Oltre a tutto questo, ci sono un botto di mostre interattive, tutte perlomeno leggermente disorientanti. C'è un finto mixer dove puoi provare, senza successo, a mixare un pezzo degli ABBA, un bel po' di stanzini per il karaoke e una macchina terrificante che ti scansiona la faccia e la mette sul corpo di un membro degli ABBA, chiamandolo "ABBA-tar". C'è anche un display interattivo che spiega la storia dei Watain. Ma è difficile da trovare ed è in svedese, perché è rinchiuso nella Hall of Fame della musica svedese, una zona così poco importante che chi gestisce il posto si è preoccupato di tradurre solo una piccola porzione delle didascalie in inglese. Nel museo degli ABBA, dall'altra parte, praticamente ogni cosa è tradotta in inglese.

Grazie al museo degli ABBA, ora so un botto di stronzate a caso sugli ABBA. So che il loro primo nome doveva essere Björn & Benny, Agnetha & Anni-Frid e che nei primi anni non riuscivano a capire perché non piacessero a nessuno, e poi capirono finalmente che il loro nome faceva schifo. So che il manager degli ABBA Stig Anderson era un uomo molto austero ma caloroso, perché il museo degli ABBA si è assicurato che io lo spaessi. So che Björn e Benny scrissero le più grandi hit degli ABBA al tavolo da cucina, perché il museo degli ABBA contiene una riproduzione esatta della cucina dove composero "Waterloo", "Mamma Mia" e "Dancing Queen". So che gli ABBA furono dei pionieri nel campo nascente della produzione di video musicali e che la loro firma visuale era di mostrare varie combinazioni del viso di ogni membro sullo schermo, perché nel museo degli ABBA si proietta in loop un documentario su video musicali della band. So che l'elicottero sulla copertina di Arrival (quello con "Dancing Queen") è estramemente piccolo, perché qualcuno è riuscito a farlo entrare in una stanza del museo degli ABBA.

Foto di Åke E: son Lindman, per concessione di ABBA: The Museum

Pià che altro, però, il museo degli ABBA è un monumento all'incredibile successo planetario degli ABBA. Da quando si diedero un nome non-brutto-come-la-morte, non solo vendettero un numero di dischi fuori dalla comprensione umana, facendo una quantità di soldi pari al debito pubblico dell'Italia, ma resero la Svezia conosciuta anche come posto da cui viene anche la musica, il che significa che tutti, dagli Ace of Base a Icona Pop ai Watain deve loro un po' di gratitudine (o, nel caso dei Watain, magari un sacrificio di sangue).

Ancora oggi, gli ABBA sono per la musica pop svedese quello che i Beatles sono per il rock, o James Brown per il funk: un gruppo che ha portato avanti una serie di valori musicali rivoluzionari. Se i Beatles hanno inventato la musica moderna e James Brown è stato il pioniere di una posa, di un'atteggiamento e di un'avanguardia che verranno emulate da generazioni dopo di lui, gli ABBA sono stati praticamente l'allunaggio per il pop formato Ikea. La loro musica a un primo approccio poteva sembrare vuota, innocua e priva di significato, ma le loro melodie erano così a prova di proiettile, le canzoni così strutturalmente pure, come un diamante o una bella scrivania Malm, che era impossibile non considerarli geniali. 

E poi c'è la cura maniacale per i dettagli che gli ABBA avevano in qualunque cosa facessero. “S.O.S.” fu scritta in Re minore, che è molto difficile da far funzionare visto che, nelle parole di Nigel Tufne di Spinal Tap, fa "piangere la gente all'istante". Allo stesso modo, il tempo-valzer di “Move On” è molto inusuale—apertamente distante dalle ritmiche in 4/4 dei loro contemporanei. O il fatto che in “Money Money Money” il gruppo tocchi una nuova nota a ogni ripetizione della parola "Money". Di certo, gli ABBA non erano certamente costretti a fare nessuna di queste cose, ma il museo fa capire che, trattandosi degli ABBA, gente il cui lavoro–anzi, la cui responsabilità civile—era di creare hit monumentali a livello mondiale, non sarebbe valsa la pena se non avessero inserito queste piccole fiorettature nella loro musica. 

L'ABBA-tar dell'autore / Foto dell'autore

È questa tendenza a vedere una grande opera d'arte nello stesso modo in cui si potrebbe vedere un prodotto commerciale perfetto, con le stranezze e le personalità dei suoi creatori incorporate nel procedimento della creazione invece che attraverso il suo messaggio diretto, a rendere molta arte nordica estremamente interessante. Per esempio, se non avessi mai sentito parlare dell'autore norvegese Karl Ove Knausgaard, e qualcuno ti dicesse: "Questo tizio scrive libri che parlano solo di se stesso che fa cose normali, gli strumenti letterari che utilizza sono abbastanza stereotipati, i dialoghi sono ingessati, ma è considerato uno dei più grandi scrittori viventi al mondo!", saresti legittimamente stupito. Ma, se ti metti effettivamente a leggere un suo libro, è facile trovare il senso della sua scrittura, che è totalmente diverso dal suo obiettivo esplicito di "scrivere qualcosa di significativo". (Per quelli che si interessano, Knausgaard a quanto pare odia la Svezia eppure ci vive, il che è significativo.) E questa cosa è uguale anche per gli ABBA—una canzone come "Waterloo" o "Dancing Queen" non raggiungerà un livello di profondità tipo Bob Dylan, ma se l'ascolti per una volta, ti rimarrà in testa per sempre. Non è una cosa facile. 

Visto che il museo degli ABBA è stato allestito con un contributo significativo della band stessa, ci sono alcune omissioni evidenti. Menziona solo en passant il divorzio di Agnetha e Björn e di Anni-Frid e Benny, causa della fine della band, e la letteratura insiste che la band sia soltanto in pausa nonostante le ripetute dichiarazioni in cui spiega chiaramente che non registrerà mai nient'altro né si esibirà dal vivo. Nonostante la band abbia la sua bella fetta di detrattori (il leggendario critico rock Robret Christgau li chiamò "il nemico"), il museo liquida gli hater infilando un poster che contiene un paio di mini-saggi dal tono ambiguo che ignorano quasi del tutto la scena prog e di Sinistra svedese in un angolo di una stanzetta. Dentro a ABBA: The Museum devi impegnarti per trovare le prove dell'esistenza di altra musica svedese oltre agli ABBA, e quando ci riesci ti verrà detto che quella musica per la maggior parte faceva cacare. 

Foto di Åke E: son Lindman, per concessione di ABBA: The Museum

Poi c'è la storia del fatto che il museo degli ABBA accetta soltanto carte di credito e di debito, che è una cosa abbastanza normale se si pensa che l'80 percento di tutte le transazioni in Svezia è condotto tramite carte e il Paese è ben indirizzato sulla strada dell'abolizione del denaro contante. Ma ciò che è sospetto è che il portavoce per l'abolizione dei contanti in Svezia è nientepopodimenoché Björn Ulveas degli ABBA, che, sul sito di ABBA: The Museum, ha dichiarato che l'abolizione dei soldi liquidi avrebbe aiutato la lotta al traffico di droga (LOL). Anche ignorando quanto questa mossa sia poco rock'n'roll, c'è qualcosa di inquietante nel modo in cui ABBA: The Museum ignora ogni cosa che non sia al 100 percento rosea nel mondo. 

Proprio nello stesso modo in cui il sorriso permanente rendeva gli ABBA molto più inquietante di qualunque shock rocker—davvero, guardate il video di “Waterloo” e provate a non nascondervi sotto la scrivania—la marcia dei sorrisi forzati di ABBA: The Museum, che presenta gli ABBA come l'unica band svedese dell'universo finché non hanno deciso di smettere di fare musica permettendo ad altre band svedesi di entrare in scena, ha un nonsoché di totalitario. Non lo dico per criticare la band o ABBA: The Museum, assolutamente: è una perfetta rappresentazione degli ABBA come band, anche se è una orribile rappresentazione della realtà. Ma siamo sinceri, chi è che vuole vivere nel mondo reale? La realtà è scomoda e triste. È un posto dove ci tocca affrontare il caos, il conflitto e infine la morte. Tanto il terrore quanto la magia degli ABBA sono frutto della loro capacità di esistere totalmente al di fuori di tali futilità deprimenti, raggiungendo l'immortalità con ordine e allegrezza.

Una groupie di Justin Bieber gli ha inviato il tweet più disgustoso di sempre

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A volte l'umorismo e lo schifo si incontrano e raggiungono il picco della perfezione comica. Come in Jackass o quel video virale del brufolo gigante. Qualche giorno fa è comparso un tweet che è la vera versione social di quel brufolo, grazie a un'utente Twitter di nome Marie. Indizio: c'entrano dei fluidi corporei, un animaletto e Justin Bieber. 

Disclaimer: non giustifichiamo assolutamente le molestie sessuali, anche telematiche, che siano ai danni di donne, uomini o di Justin Bieber. In questo caso facciamo un'eccezione perché la poetica di Marie è davvero speciale, e speriamo che Justin l'abbia presa con leggerezza come abbiamo fatto noi. 

 

 

Per chi non fosse così preparato in inglese, ci sono i potenti mezzi di Noisey Italia, se i potenti mezzi (io) riescono a superare l'imbarazzo di scrivere quanto segue: "Voglio che tu mi venga dentro così posso strisciare la mia fica sul pavimento e far finta di essere una lumaca."

Per ora Justin non ha ancora risposto, ma vi terremo aggiornati. Internet TVB.

Il meglio della settimana

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I piaceri nella vita non sono rari, ma bisogna saperli cogliere altrimenti ci sfuggono velocemente tra le mani. Questa settimana sono successe un sacco di cose incasinatissime nel mondo della musica, e pescarne un tot che ci mettessero semplicemente il sorriso e non ci si fossero piantate prepotentemente in una chiappa è stato duro. Però dai, sù, la vita non fa così schifo ed eccovi qui il perché.

 

Noel Gallagher ha insultato i Radiohead

Non fraintendeteci: da queste parti non abbiamo un cacchio contro i Radiohead. Davvero. Però vedere qualche altro musicista che dà pubblicamente a Thom Yorke del palloso è una bella sensazione: ci fa senitre come se dopotutto non ci fosse niente di sacro nel musicbiz, e di tanto in tanto si possono rimescolare le carte. Fa neinte che lo faccia il tizio che ha scritto "Wonderwall". I due punti principali della sua dichiarazione, rilasciata a Esquire UK hanno comunque molto senso: 1- La critica "ufficiale" è incapace di dire che i Radiohead hanno fatto un brutto album: qualsiasi loro scoreggia si becca un voto altissimo nelle recensioni. 2- La gente si  dovrebbe drogare. Una logica impeccabile a cui noi non possiamo che inchinarci. Fa niente che venga dal tizio che ha scritto "Wonderwall".

 

La mail di Billy Gould al questore di Roma

Ok, la chiusura di DalVerme è una cosa orrenda, e infatti è finita di diritto tra il peggio della settimana. Fa però un immenso piacere e scalda davvero il cuore vedere in quanti si siano accesi a lottare per la difesa di uno dei principali baluardi dell'underground italiano. Uno di questi è stato Billy Gould dei Faith No More, che a quanto pare è passato più volte dal Pigneto e se l'è sempre spassata. Il contenuto della sua missiva è fondamentalmente "Salve, sono una grossa rockstar internazionale e posso dirvi che state facendo fare una grossa figura di merda internazionale alla città di Roma. Ho la tessera arci e prossima volta che passo di lì mi piacerebbe trovarlo aperto." Grazie Bill.

 

DJ Khaled ha fatto delle magliette per la festa della mamma

Per la maggior parte di noi la festa della mamma si risolve in una telefonata. Però quando c'hai BUSINESS tatuato nel cervello le cose prendono una piega diversa. Il dio di snapchat e imprenditore 3.0 DJ Khaled ha pensato che già che c'era poteva farci delle magliette e venderle. E siccome sono delle belle magliette, la gente le ha comprate, perché le mamme sono la chiave per il successo. E se non lo sa lui cos'è il successo... Dico, sto qua si è presentato alla cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca sottobraccio con Arianna Huffington

 

Edgar The Beatmaker ha suonato venti minuti di inediti a Boiler Room

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Il roscio del Peckham preferito da tutti ci ha sorpresi ancora: Archy Masrhall AKA King Krule AKA Edgar The Beatmaker ha condiviso il set suonato live a Boiler Room un paio di settimane fa, finalmente accessibile e godibile da tutti. Trattasi di venti minuti interamente composti di roba completamente inedita, che a quanto pare si intitola Electronic Garbage. La nuova identità di Archy si conferma sempre più instradata su una direzione hip-hop parecchio netta e su umori belli scuri. Per non farsi mancare niente si è anche messo una maschera da pesce, di cui non ci azzardiamo a domandarci il perché.

 

Il peggio della settimana

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Le cose brutte capitano sempre a mucchi, e la nostra vita è troppo breve per sopportarle tutte. Questa settimana pare che il destino si sia accanito particolarmente contro di noi. Nel mondo della musica sono successe parecchie piuttosto imbarazzanti e pure schifose. Come ogni settimana, rimestiamo assieme nel peggio che ci è capitato sotto gli occhi e nelle orecchie negli ultimi sette giorni.

 

La chiusura di DalVerme

Questa non serve che ve la spieghiamo. È tutto qua.

 

Skepta & Pharrell -  Numbers

Questa roba è un vero scandalo. Passerà sicuramente inosservata ai più, e per buonissime ragioni, ma rimane uno scandalo. Possibile che dentro un capolavoro come Konnichiwa ci sia un pezzo così brutto e palloso? Il tocco di Re Mida Pharrell in questo frangente pare veramente in grado di trasformare ciò che tocca in puro sterco di cavallo, ed è una macchia scura che, stagliandosi su un un disco del genere, ci lascia davvero sbigottiti. Ma a che cazzo stavano pensando quando l'hanno inclusa? Capra e cavoli sono salvi giusto perché tutta la gente che si è hypata a mille per questa collaborazione ora si ritrova, SE NON ALTRO, con in mano un album che spacca. Nelle tracce in cui non c'è Pharrell.

 

I Beef sul disco dei Radiohead

Tutti si sono sentiti in dovere di esprimersi sul disco dei Radiohead e su come gli altri si sono espressi sul disco dei Radiohead. Sono nati veri e propri beef tra "critici" di livello meno che infantile. Comportarsi non solo come se il nono disco di una pop band di ragazzi inglesi bianchi, borghesi e istruiti sulla piazza da più di vent'anni fosse un fatto di grande rilievo culturale e soprattutto di grande rilievo personale non fa molto onore a nessuno. Tra tutti vince (per modo di dire) Michele Monina con il suo inspiegabile "alla faccia dei recensori".

 

J-Ax & Fedez - Vorrei Ma Non Posto

Spiace accanirsi su J-Ax, anche perché è uno che la prende molto sportivamente e ti invita pure a pranzo. Non entreremo nel merito della questione qualità, parliamo soltanto di quantità, perché il vero problema è che questo pezzo, approdato nelle nostre vite il giorno 6/5/2016, non ci abbandonerà più o meno per altri 10 mesi, e non è che lo sentiremo ogni quattro, cinque giorni. A tutti noi sembrerà di aver acquistato il singolo, perché da ogni radio, televisione, da ogni dispositivo dotato di speaker, uscirà "Vorrei Ma non Posto" con un'ostinazione pari sola ai riquadri di spam che si aprono quando tenti di scaricare i film. 

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La guida di Noisey ai festival primavera-estate del 2016

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Un'immagine dal Club To Club Festival dello scorso anno. Foto di Luca Massaro.

La sera del 27 luglio 2014 ero a Torino—per la precisione in piazza San Carlo—e sorseggiavo una birra. Particolari del tutto inutili, starete pensando. E come darvi torto, ma aspettate un attimo. Magari della birra vi racconto dopo, promesso, ma quella sera ero a Torino per un motivo preciso: era l’ultima serata del Traffic Festival, allora alla sua undicesima edizione. Quella sera sul palco erano saliti I Litfiba, Il Pan del Diavolo e Fluxsus; quest’ultimi avevano contribuito sostanzialmente alla decisione di spostarmi da Venezia fin su a Torino. Il Traffic era uno degli eventi più attesi della vita culturale cittadina, nonché uno dei momenti più belli in cui vivere il capoluogo piemontese, ma come tutte le cose belle (e illegali) non ha avuto vita facile, tanto che ora non c'è più. Dieci anni di onorato servizio, dal 2004 al 2014, e un pensionamento arrivato troppo presto, complici i costi troppo elevati di gestione (il festival era totalmente gratuito) e gli insuccessi delle ultime edizioni. Si è provato a tenerlo in piedi—ricordo bene i vari “vedremo” del Comune di Torino—ma alla fine è andata come doveva: quella del 27 luglio 2014 sarebbe stata l’ultima serata del Traffic.

Gestire e organizzare un festival musicale in Italia è molto complesso, lo è per le piccole realtà che devono combattere con fondi cassa spesso vuoti—e di conseguenza con difficoltà nel booking degli artisti e nell’affitto degli spazi—e lo è anche per i festival rodati: l’esempio del roBOt di Bologna è lampante. Sappiate che non ho assolutamente intenzione di elencarvi, nelle prossime righe, quali siano o no i festival migliori d’Italia; in quest’ articolo cercherò piuttosto di analizzare più a fondo alcune realtà: un festival big—lo Spring Attitute Festival di Roma—e due festival più piccoli, il Siren Festival di Vasto, alla sua terza edizione, e il Beaches Brew a Marina di Ravenna, oltre a segnalare altri festival di rilievo. Prima di procedere, però, è giusto dilungarmi ancora un attimo in questa prefazione—anche perché le prefazioni danno un tono.

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Prima di scrivere questo articolo, ho provato a stilare una lista dei festival che ogni anno si svolgono in Italia: impossibile. D'altronde non era nemmeno il mio intento quello di fornire una mappa dettagliata ed esaustiva dei festival in cui potete andare a sballarvi. Sapendo bene che l'onniscienza è una dote che non appartiene a nessuno, su questa Terra, ho deciso di concentrare i miei sforzi nel far emergere, tramite la voce di chi i festival li organizza da tempo, alcune tematiche fondamentali: quali sono le maggiori difficoltà nel processo organizzativo? In Italia i festival propongono ciò che è al passo coi tempi o solo ciò che fa fare cassa? È il settore pubblico o il privato a trainare questo business? Cosa manca ai festival italiani? Da assiduo frequentatore di kermesse musicali e sagre enogastronomiche, queste domande mi sono sempre frullate in testa. Per ovvie ragioni, poi, mi sono concentrato sui festival primavera-estate, quelli di cui sappiamo la line-up. La buona notizia è che, nonostante i mille problemi e i pochissimi fondi, questi eventi resistono, crescono e si moltiplicano. Seguitemi in questo viaggio, in ordine cronologico, tra i vari festival che costellano la nostra Penisola.

VENEZIA HARDCORE (Venezia - 14 maggio)

Dovrebbe bastarvi dare un'occhiata al nostro report della scorsa edizione per capire qual è il festival più hardcore d'Italia. Quest'anno il collettivo veneziano si impegna, come ogni anno, a portare più casino, più sudore e più moshpit del precedente. Sconsigliato a chi non è di solida costituzione.
 

Spring Attitute Festival (Roma – 19, 20, 21 maggio)

Mi sposto da Venezia a Roma, manco fossi Giusy Ferreri. Nella Capitale la situazione è complessa: sono diversi i festival che ogni anno si svolgono qui; ci sono più realtà, più associazioni e, di conseguenza, più concorrenza. Ho deciso di concentrarmi sul festival che oramai è diventato un punto di riferimento nel centro-Italia: lo Spring Attitude. Nel 2015 ha chiuso col botto: 12 mila presenze. Prendo il cellulare e chiamo Andrea Esu, art director del festival romano. Andrea si starà chiedendo chi cazzo lo stia chiamando in una mattina di aprile: io. Lo Spring Attitude, quest’anno alla sua settima edizione, può vantare come headliner il duo elettronico francese AIR, che mancano dalla scena pubblica dal lontano 2010. Un bel colpo, bisogna ammetterlo. Anche il resto della programmazione non è da meno, tra gli altri: Matthew Herbert (che poco fa ha pubblicato un video di un suo dj set in cui suonava delle melanzane), Pantha du Prince, il francese Rone, Gold Panda, Red Axes (presenti anche al Sonar di Barcellona), Hunee e Dj Paypal. Inizio chiedendo ad Andrea quanti mesi di lavoro necessitano per realizzare una nuova edizione dello Spring. “Dieci mesi di lavoro, in cui sono coinvolte, inizialmente, quattro persone, per poi diventare una decina a ridosso del festival”, mi dice. Interessanti sono anche le location: il Maxxi (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo), le ex Caserme Guido Reni (che quest’anno sostituiscono il Macro) e lo Spazio 900 all’Eur. E dunque, gli chiedo, come funzionano le sponsorizzazioni?, “Il Maxxi ha immediatamente creduto nel nostro progetto e ci ha affidato gli spazi del museo; con il Comune di Roma, invece, non abbiamo rinnovato la partnership per l’usufrutto degli spazi del Macro.” Bello fare cultura in luoghi della cultura…, “già—mi dice—però non è sempre facile. Ad esempio, non siamo riusciti a stringere un accordo con il Palazzo delle Esposizioni, poiché non c’è stato modo di trovare un punto comune. Sembrava che parlassimo due lingue diverse”. Mi parla poi di “un gioco di equilibri” tra gli artisti che fanno vendere biglietti e quelli con cui si sperimenta. “È necessario portare certezze, artisti che sai che ti fanno vendere biglietti perché così, e solo così, riesci a portare anche i nomi più piccoli, quelli che magari non tutti conoscono, ma poi, dopo aver sentito il big, finiscono anche per apprezzare loro”. Ai fini dell’indagine, è giusto parlare anche dei sistemi economici che fanno girare gli ingranaggi: per questo ho chiesto ad Andrea di spiegarmi come lo Spring si mantiene economicamente. “Principalmente lo Spring Attitude si mantiene tramite autofinanziamento, cioè attraverso i soldi che ricaviamo dai biglietti e dal bar. C’è anche una parte di denaro che arriva da sponsor, circa il 20% del budget totale, ma non ci garantiscono una sicurezza”. Soldi pubblici? “Zero”. E qui entra in gioco un elemento importante, fil rouge che collega—in modo negativo—un po’ tutti i festival in Italia: i finanziamenti pubblici. Ma perché se il business della musica dal vivo tira un sacco, il settore pubblico non vuole infilarci il naso? Secondo Andrea Esu il motivo è “una mentalità obsoleta dell’amministrazione pubblica, che, con i pochi soldi che ci sono da destinare alla cultura, preferisce foraggiare forme di arte più classiche, come mostre, balletti o opere liriche”. Non fa una piega. “Purtroppo—aggiunge—la musica elettronica e le nuove tecnologie, seppur forme d’arte, sono ancora viste con diffidenza dagli amministratori pubblici”. Dunque Spring Attitude, come altri, è un festival che deve contare solo sulle proprie gambe; gambe, però, che vacillano quando arrivano i preventivi delle agenzie intenzionali che gestiscono i tour degli artisti. “Uno dei grossi problemi che affigge tutti i festival italiani (almeno quelli con budget risicati) sono i costi degli artisti”, spiega Esu. “Purtroppo tali agenzie s’interfacciano con economie molto più solide di quella italiana e si ostinano a non capire che non possono spararci questi prezzi. Anche perché in Italia non ci sono le stesse affluenze di persone che si trovano nei festival esteri e questo è uno dei motivi principali per cui, anno dopo anno, siamo costretti ad aumentare il prezzo del biglietto (il biglietto di sabato 21/2016 costa 8 euro in più rispetto a quello di sabato 2015, ndr)”. Hai detto “uno dei grossi problemi”, perché ce ne sono altri? Gli chiedo. “Be' sì, come la difficoltà, come ti dicevo prima, di ottenere finanziamenti pubblici che ti facciano stare tranquillo—e per tranquillo intendo che coprano almeno il 50 percento del budget totale”. Il quadro, almeno a Roma, è questo. Chiudiamo la telefonata con il più tipico degli auspici: speriamo venga tanta gente. “Daje”.  
 

MUSICA NELLE VALLI (San Martino in Spino, 27 - 29 maggio)

La sedicesima edizione di MNV quest'anno arriva in concomitanza con il decennale di Boring Machines, e quindi con Ongapalooza. Parte della lineup è stata già svelata qui, e ovviamente abbonda di nomi affiliati alla label. La località è la più bucolica che potesse essere pensata: immersa nella campagna emiliana, a San Martino in Spino, e se dovesse piovere si sposterebbe al chiuso.
 

Unibeat (Salerno - 27, 28 maggio)

Unibeat esiste da 5 anni e a Salerno è ormai punto di ritrovo per universitari (e non solo quelli dell’Università di Salerno, fautori di ciò insieme all’associazione culturale SalernoInKult) e amanti della buona musica. Quattro appuntamenti, tra dj set, live e workshop, che hanno portato nella città campana Regis, Lena Willikens, Scan7 e Leonardo Martelli e porteranno, nelle date del 27 e 28 maggio, Actress, Lory D, Low Jack e Korridor. Ah, ed è gratis.
 

Mi Ami (Milano – 27 e 28 maggio)

Voliamo a Milano. Il Mi Ami spiazza per ostinazione e resistenza—dodici edizioni non sono certo poche, la gente ci è cresciuta con questo festival. Come il mercato discografico indipendente italiano, il festival si muove tra vecchie certezze e nuovi nomi, tanto che le due serate del 27 e 28 maggio sembrano figlie di genitori diversi. La prima con I Cani e Calcutta (un binomio che a breve surrogherà pane e Nutella) adornati da Tommaso Paradiso (Thegiornalisti), Motta e Cosmo; la seconda con Jolly Mare, SBCR e Iosonouncane. Quel che è certo è che questo festival segna ogni anno, come un orologio, l'ora esatta della musica italiana. Il Mi Ami piace perché per molti significa l’arrivo dell’estate, per altri l’arrivo dei Ministri, ad alcuni fortunati ricorda la perdita della verginità. 
 

Beaches Brew (Marina di Ravenna – 6, 7, 8, 9, 10 giugno)

Ci spostiamo in Emilia Romagna. In un panorama di festival musicali a pagamento, il Beaches Brew rappresenta un unicum. La prima edizione risale al 2012 e cinque anni più tardi è ancora lì, fresco come il primo giorno. La filosofia del Beaches Brew (che d’ora in poi chiamerò BB per convenzione internazionale) non è lontana da quella del Siren Festival—come quest’ultimo si svolge in riva al mare, nel locale che ha preso il nome da un film culto di Takeshi Kitano: Hana-bi. Quest’anno la line-up (come sempre d'impronta indie-rock) ci offre Ty Segall & The Muggers, i Suuns, Beak>, White Fence, ma anche i beat degli italianissimi Go Dugong e Ninos du Brasil. Per farmi raccontare come nasce e si articola il BB, mi metto in contatto Chris Angiolini, co-art director del festival e proprietario della Bronson Produzioni. Gli chiedo subito come il festival riesce a mantenere la gratuità dell’accesso. “Vogliamo che sia gratis. Per anni ci sono stati concerti gratuiti all’Hana-bi prima di valutare l’idea di un festival in spiaggia a ingresso inevitabilmente gratuito (poiché si svolge su demanio pubblico)”. Tutto qui? “Poi c’è stata la ricerca di un partner internazionale—mi spiega—che condividesse con noi la passione per la musica che ci piace. E questo partner è Belmont Bookings i cui artisti passano spesso dalle nostre parti e adorano suonare in spiaggia [ci sono artisti che scelgono di inaugurare il proprio tour all'Hana-Bi per amore del locale, NdR]. Il tutto attraverso il controllo dei costi, la ricerca di fondi e una certa dose di follia”. Poiché i concerti gratis piacciono a tutti perché si può spendere di più in alcol, è possibile replicare questo format altrove? Dimmi di sì e dimmi come. “Onestamente la gratuità non credo sia il punto fondamentale per la riuscita di un festival come Beaches Brew, quantomeno non l’unico”. E aggiunge: “Credo che la location sia la componente principale; la location non intesa come spiaggia, ma come Hana-bi. Beaches Brew è l’appuntamento a cui non si può mancare, almeno per una comunità di persone sparse per tutta Italia, in Europa e un po’ di mondo. È come la grande tradizione della festa di famiglia, tutta unita intorno all’idea di musica che ci piace”. E quanto sarebbe grande questa famiglia? Chris mi dice che “ogni anno il pubblico aumenta considerevolmente. L’anno scorso lo abbiamo quantificato in circa 10mila persone, con una % tra il 15 e il 20 proveniente da fuori Italia”. Un buon risultato, immagino sia anche il frutto di un grosso lavoro di produzione, vero? “Sì, lavoriamo al festival 12 mesi, un flusso continuo di cose”. Cioè lavorate all'edizione successiva dal giorno in cui finisce il festival? “Esattamente, facciamo i primi bilanci e condividiamo le prime impressioni a caldo. Poi d'estate c'è una fase di brainstorming, da ottobre, invece, iniziano le grandi manovre. Tutto ciò realizzato da un piccolo team: 7/8 persone per Bronson Produzioni e 4/5 per Belmont Bookings”. Mi hai parlato di un partner interazionale, mi spieghi come funziona questa partnership e se ne avete altre? “Come ti dicevo, lavoriamo continuamente sulla ricerca di fondi, istituzionali, privati e del pubblico stesso. Siamo supportati dalla Regione Emilia Romagna e dal Comune di Ravenna, ma queste convenzioni coprono ‘solamente’  il 35% (circa) dei costi complessivi”. E i privati? “Sì anche privati, che fortunatamente aumentano dopo ogni edizione, fino a formule di finanziamento del pubblico stesso attraverso la vendita di sottoscrizioni online che danno accesso ad alcuni servizi. Tutto il resto deriva da food & beverage”. Capisco. Se, per caso, un assessore al Turismo ci stesse leggendo, adesso vorrebbe sapere quali benefici, anche in termini economici, ci sarebbero per il territorio che ospita un festival come il BB… “I benefici sono davvero tanti, c’è un indotto economico diretto difficilmente quantificabile con i mezzi a nostra disposizione, ma sicuramente in crescita continua: un indotto indiretto di promozione del territorio”. Capito assessore?
 

ASTRO Festival (Ferrara - 16 Giugno) / roBOt Festival (Bologna) 

Lasciamo la terra degli arrosticini e saliamo verso l’Emilia Romagna. La mattina del 22 dicembre 2015 sull’edizione bolognese de La Repubblica compare un articolo il cui titolo recita ‘Bologna, buco di bilancio: Il roBot Festival rischia di chiudere’. La notizia raggiunge anche l’ultima enoteca e a parlarne, quel giorno e le settimane a seguire, sono molti, soprattutto nell’area emiliana. Il fatto è grave: l’edizione del 2015 avrebbe generato un buco di 300mila euro (secondo il calcolo di Radio Città del Capo) e le sorti del festival—almeno stando a ciò che Antonio Puglisi, capo della comunicazione del roBot, aveva detto a Radio Città del Capo—sono incerte. Cerco di contattare Marco Ligurgo (alias Marco Unzip), direttore artistico del roBOt, proprio per capire come stanno le cose e se il festival si farà. Purtroppo, però, non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul futuro del roBOt: se si farà o no, lo capiremo più avanti. Un indizio però c’è: il roBOt è partner del neonato Astro Festival (16 giugno a Ferrara) che in un sol colpo porta, in piazza del castello, Caribou, Four Tet e Floating Points. Chi al roBOt c’è stato, sa quanto il festival abbia arricchito l’autunno bolognese da 8 anni a questa parte. Un format che, nel tempo, ha imparato a plasmarsi anche in relazione al pubblico sempre maggiore, tanto da costringere gli organizzatori da spostare le serate dal Link a Bologna Fiere. 
 

Mojotic Festival (Sestri Levante — 15 giugno - 2 settembre)

Un festival spalmato lungo tutta l'estate e lungo la Riviera Ligure, da Genova a Sestri, un appuntamento giustamente attesissimo, dato il calibro dei nomi che coinvolge. Staremo in silenzio riguardo all'esistenza della silent disco all'interno delle attività promosse dagli orgnizzatori di questo festival perché tutto il resto compensa.
 

Indierocket Festival (Pescara — 24,25,26 giugno)

Pescara, si sa, è la Miami italiana. A quanto pare non c'è posto migliore in cui gravitare, quest'estate che l'Abruzzo. La line-up dell'Indierocket festival a sto giro è molto lontana da brame indierock—e meno male—ed esplora, invece, alcune interessanti sfumature dell'elettronica sperimentale.
 

Terraforma (Villa Arconati, Milano – 1, 2, 3 luglio)

Ultimamente la preview del festival è importante quasi quanto il festival in sé. Deve essere questa la regola implicita che ha spinto il Terraforma a presentarsi quest'anno con un'ambiziosa serata tra le torri di Kiefer all’Hangar Bicocca, il 31 maggio, con il live dei Boredoms. La line-up di quest’anno dovrebbe sfatare un po’ quell’aria fricchetton-chic che contraddistingue il festival, per chi è abituato a cartelloni un po' meno ricercati. Certo, resta l’ecosostenibilità e resta il fatto che gli act del festival si prestano a viaggi lisergici caleidoscopici, ma sul palco saliranno Biosphere, Adrian Sherwood, Lee Gamble e Charlemagne Palestine, per sottolineare che anche a Bollate we keep it real. Perché, nel caso non siate mai stati né a Milano né il Lombardia, preciso che Villa Arconati è a Bollate. 
 

Festival Moderno (Milano — 7 luglio) / Club to Club (Torino – 3, 4, 5, 6 novembre) 

Il Club to Club è cresciuto moltissimo negli anni e, probabilmente, la scorsa edizione è stata una delle più belle da quando il festival esiste. Che in casa C2C le cose stiando andando bene, lo si riscontra dalle mire espansionistiche di Sergio Ricciardone & Co che, per inciso, non siamo riusciti a contattare per questa analisi. Espansioni, dicevo, che hanno raggiunto Milano: quest’anno, infatti, nel mese di aprile c’è stata la prima edizione del C2C lombardo, anticipato da una preview con Oneohtrix Point Never e Actress. Sul festival in sé, quello che si terrà a novembre, non abbiamo novità; ciò che è invece si sa, ed è alla portata di tutti, è che il C2C è partner, insieme a Radar Concerti nella produzione di Festival Moderno, che porterà il "nuovo pop" il prossimo 7 luglio al Circolo Magnolia di Milano, con un cartellone che conta headliner come Grimes e Dev Hynes (col suo progetto Blood Orange). 


A Night Like This (Chiaverano, Torino – 15 e 16 luglio)

A Night Like This si sdoppia in due sere—creando una disconnessione semantica con il proprio nome. Il piccolo borgo di Chieverano ospita dal 2012 questo piccolo festival che, negli anni, è diventato una sorta di chicca, una serata – appunto! – da godersi in riva al lago Sirio, con buona musica – quest’anno con The Temper Trap, Be Forest, Samaris e Ninos du Brasil – e buon cibo locale. Due giorni lontano dalla città. 
 

Nature Beat Festival (Monte Romano – 16 luglio)

Il festival Nature Beat è un po' il Terraforma del centro Italia, solo che si tiene in una, mastodontica, serata. Arrivato alla sua sesta edizione, quest'estate porta nelle campagne—Monte Romano—viterbesi alcuni colossi della techno internazionale, quali AnD, Inigo Kennedy, Karenn, Shifter, Marcel Fengler e altri. Techno + natura = bomba, da sempre e per sempre. Bravi ragazzi.
 

Locus Festival (Locorotondo, dal 15 luglio al 7 agosto)

La Valle d’Itria è uno dei posti più belli del mondo, tant’è che anche ricchi indiani abbiano deciso di sposarsi lì, in quel tocco magico di Puglia. E lì, dal 2005, si tiene il Locus Festival. Per darvi il metro di ciò che questo festival è, vi consiglio di guardare gli artisti che, negli anni, hanno calcato quel palco. Il posto è magico, inghiottito dalla natura e questa estate potrete ascoltare Floating Points, Kamasi Washington, Dj Premier e Snarky Puppy. Più che un festival, è una vacanza.
 

Flowers Festival (Collegno, 12-23 luglio)

Il Flowers è sicuramente destinato a diventare grande festival, uno di quelli dove non si può mancare. Questa è solo la seconda edizione, ma per livello degli artisti e struttura, il festival va inserito di diritto tra i big, cifre a parte. Il tutto si svolge nel Parco della Certosa dove, fino a pochi anni fa, sorgeva il più grande manicomio. Roba da matti. Chi suona al Flowers? Anohni (ovvero Antony Hegarty), tra gli artisti più influenti al mondo, ci sono i Pixes, i Gramatik, c’è Oneothirx Point Never e Hudson Mohawke, reduce da un album strepitoso. E poi c’è Fabrizio Gargarone. Che non suona, ma è altrettanto importante, per non dire che è il nome che si nasconde dietro questo successo: lui è lo storico art director del Traffic Festival, di cui, possiamo dire, che il Flowers ne è figlio. 

 

SIREN FESTIVAL (Vasto - 21, 22, 23, 24 luglio)

A luglio in Abruzzo va in scena quello che potrei definire il nostro piccolo Coachella. Ok. Piano, con calma. C'è da dire che il Siren Festival è una mosca bianca nel panorama dei festival italiani. Non è solo musica, ma offre altro: tre palchi abbastanza vicini, il mare a due passi e la graziosa cittadina di Vasto. Sono stato alla passata edizione e tra gli altri, ricordo, ho ascoltato James Blake e Jon Hopkins. Anzi, ricordo che Jon Hopkins è salito sul palco dopo i Verdena, con grande sollievo per alcuni spettatori. Ciò che caratterizza il festival, appunto, sono le varie e piccole esperienze: il poter camminare al tramonto in riva al mare o godersi le viuzze di Vasto, tra un live e un dj set. Tutto ciò in versione ristretta, a misura di passi, e magari pure in costume da bagno. I nomi annunciati per questa edizione sono quelli che vedete nel cartellone qui sopra. Già, anche a me alcuni accostamenti suonano strani.

A noi però interessa sapere come funziona il Siren Festival dietro le quinte, quindi ho contattato il suo art director, Pietro Fuccio, e gli ho chiesto: “E’ stato difficile per il neonato Siren emergere nel panorama dei festival musicali?”, la risposta un po’ anticipata da ciò che vi ho detto quattro righe fa: “sì e no, proprio perché di eventi come vorremmo che fosse Siren ce ne sono pochi, il che vuol dire da una parte che c’è spazio, dall’altra che c’è poca consuetudine a festival di questo tipo”. Quando gli ho chiesto delle difficoltà incontrate per organizzare e produrre un festival in Italia, Fuccio mi ha risposto che “le due cose più complicate sono portare in Italia un certo tipo di artisti e catturare l’attenzione del pubblico (quella vera, che fa vendere i biglietti; non quella “social”). Va da sé che sono due elementi strettamente interconnessi”. Questa risposta ha riportato alla mia mente una delle critiche che più spesso si muovono ai festival: esiste un limite tra ciò che si vorrebbe far ascoltare e ciò che si è costretti a far ascoltare? “Indubbiamente, ma va anche detto," mi dice, "che le scelte fatte a tavolino, a volte, il pubblico le riconosce, e non le premia; soprattutto nei festival”. Allora come si spiega l’oggettiva ripetitività di certi nomi nei cartelloni dei festival? “Se c’è ripetitività è perché gli artisti di area che ‘tirano’ sono gli stessi da quindici anni; quella elettronica è una scena in cui è facile muovere i primi passi, ma difficilissimo diventare artisti importanti, che reggono da soli un cartellone. Nell’area di confine dove piace operare a noi, poi, è ancora più complicato...” Per capire anche come funziona un festival sarebbe indispensabile fare una domanda sul vile denaro, argomento che la maggior parte degli intervistati—se non facenti parte di amministrazioni pubbliche—preferisce evitare. Perciò, invece che parlare di soldi, chiedo a Fuccio come funzionano le sponsorizzazioni. O meglio: ci sono più sponsor pubblici o privati? E perché? “Purtroppo, oggi, è ancora molto più il pubblico. Le aziende faticano a vedere nella musica un mezzo importante di diffusione del loro marchio, con significative eccezioni e, direi, abbastanza a ragione. L’attenzione del grosso della gente è altrove”. Poi aggiunge: “Questi finanziamenti sono molto importanti, soprattutto per eventi che non sopravvivono con la sola vendita dei biglietti”. Mi piacerebbe chiuere questa breve chiacchierata con una (non) domanda marzulliana, invece abbiamo parlato della programmazione (che, per ora, è ancora in fase di sviluppo): la line-up di quest'anno, rispetto a quella dell'anno scorso, è più indie-rock e meno elettronica. Come mai? “Fondamentalmente è un caso, come lo era lo scorso anno che le cose siano andate al contrario. A noi piacciono generi diversi (e ci piace promuoverli), e ci va bene che le cose si mischino anche in base al caso, che fa sì che ci siano in giro artisti oggi più di un tipo, domani più di un altro”. 

 

Ortigia Sound System (Siracusa, 25-31 luglio)

Sul sito si legge: “Siamo pronti per accendere definitivamente i riflettori su questa terza edizione, un nuovo sole sta per sorgere sull’isola di Ortigia, e non vediamo l’ora di osservare l'alba insieme a tutti voi”. Di questa edizione c’è già molto altro da dire, ad esempio sui primi nomi annunciati in line-up, apparentemente a lati opposti dello spettro musicale, in realtà molto coerenti, soprattutto con il concept dietro a quest'edizione di OSS; che si propone di espandere i suoi orizzonti in maniera radiale e poliedrica. D'altronde, se fai un festival in uno dei più bei quartieri di una delle più belle città di una delle più belle regioni italiane, vinci facile. Per capire meglio il clima che si respira in questa perla sicula, ho chiamato un mio amico che l’anno scorso c’è stato: ohi, allora com’è l’Ortigia Sound System? “E chi se lo ricorda, è stato più di un anno fa”. Ah, ma ci torni? “Sì, sicuramente”. 
 

YPSIGROCK (Castelbuono, 4 - 7 agosto)

Se su Ortigia il sole sta sorgendo, a Castelbuono è mezzogiorno pieno. La ventesima edizione del festival Ypsig fa onore al premio appena vinto, quello di miglior festival d'Italia. C'è da dire che la trinacria è un ottimo boost naturale per ogni creazione dell'uomo.
 

AMA Music Festival (Asolo, 23 - 28 agosto)

A nomi grossi decisamente indirizzati ad un pubblico indiettone, questo festival accoppia alcune chicche per intenditori, che i frequentatori assidui di queste pagine conosceranno già.
 

ToDays (Torino – 26, 27, 28 agosto)

La homepage del sito di ToDays Festival ha un conto alla rovescia da far impallidire Cape Canaveral, ma anche una line up di tutto rispetto: M83, John Carpenter, The Jesus and Mary Chain, Soulwax, I Cani (anche qui). Non dovrei aggiungere altro. 
 

VARVARA FESTIVAL (Torino, 17-20 settembre)

Luglio in Abruzzo, agosto in Sicilia e, da fine agosto a settembre inoltrato, a Torino. Mica male come giro d'Italia. Prima TODays, poi Varvara. La lineup deve ancora essere rivelata nella sua interezza, però i primi nomi possono bastare: Ramleh, bastonatori noise-rock e post-industrial, e un DJ set che ci aspettiamo bello metallico e martellante di Abdulla Rashim, fondatore della Northern Electronics.
 

La lista, volendo, è ancora lunga. Di festival, sparsi per l’Italia, ce ne sono ancora tanti: Zanne di Catania, Flussi, Festival Beat, Loose a Ravenna, Cellamare, More Festival, etc. Ah sì, la storia della birra. Ve l’avevo promesso. Allora: ero a Torino, in Piazza San Carlo, e a breve avrebbero suonato i Fluxus….ma davvero vi interessa?! 

 

Paolo Marella scrive per ArtTribune e FlashArt, seguilo su Twitter: @PabloMarella

 


Abbiamo intervistato lo spacciatore dell'Haçienda di Madchester

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La scena legata alla acid house tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta è diventata inestricabilmente legata all'ecstasy, nell'immaginario collettivo. Il fatto che il termine stesso acid house contenga all'interno la parola acid, per quanto accidentale, è estremamente esemplificativo di questa visione. Anche se è vero che la maggior parte dei primi raver apprezzava gli effetti delle pasticche e dell'MDMA, è anche vero che il prezzo dei è sempre stato estremamente proibitivo, quindi non tutti avevano la possibilità di consumarne a piacimento. Ed è in questa nicchia di mercato che l'acid è entrato a far parte dell'immaginario della acid house, per fornire un'alternativa molto più economica a chi la desiderasse.

Volevo saperne di più del legame tra musica dance e acidi durante queli anni, quindi ho provato a contattare Mr. A, uno spacciatore di Manchester che era attivo quando la città viveva la sua fase Madchester. L'ho incontrato tramite un amico in comune, l'hooligan Colin Blaney, che una volta mi aveva parlato di questo tizio carico di pozioni, ai suoi tempi. Ecco quello che ci siamo detti sul ruolo degli acidi nella scena rave dei primi anni Novanta.

THUMP: Secondo te perché tutti si dimenticano sempre degli acidi e si sperticano per raccontare la storia e il ruolo dell'MDMA?
Mr. A: Perché l'ecstasy va molto forte ancora oggi. Anche la qualità è tornata come quella di prima e questo significa che la gente è più portata a relazionarsi a ciò che conosce bene. Non è facile capire gli acidi, sopratutto oggi che non ci sono più molte persone desiderose di prenderne uno in mezzo a un club.

Quanto erano popolari gli acidi, all'epoca?
Direi che il 25% delle persone presenti in un club in cui si suonava la acid house era effettivamente sotto acido. Mentre l'altro 75% si faceva di ecstasy. Chi non poteva permettersi l'ecstasy ripiegava sugli acidi. C'era gente che si prendeva Strawberries, Supermen, Ohms, Microdots e Windowpanes, che era la qualità più forte. Le Windowpanes erano dei pezzettini di roba trasparente, che sembrava plastica. C'era gente che se li ficcava sotto le palpebre perché così l'effetto arrivava al cervello più in fretta.

Cazzo. Mi sembra parecchio hardcore.
Sì. Io non l'ho mai fatta una roba così! Tutti i diversi tipi di acido, sostanzialmente, facevano la stessa cosa, ma alcuni erano un po' più forti. Si potevano anche comprare qualità di ecstasy molto economiche che venivano tagliate con l'acido e restituivano un effetto a metà tra le due cose. Molta di quella roba aveva dentro anche l'eroina, quindi ti faceva un effetto strano, un mix poco gestibile.

C'erano gruppi di persone nei club che si prendevano l'acido insieme. Si assicuravano di essere con persone con cui si trovavano a proprio agio, così da ridurre al minimo la possibilità di rimanerci sotto. C'era sempre un tizio che si faceva carico del ruolo di leader e tutti gli altri amici lo seguivano in giro per il locale, così che nessuno rimanesse in un angolo perso a fissare il soffitto. Tutti nel gruppo ballavano assieme e gridavano "Aciiiid! Aciiiid!" a tempo di musica. Non scherzo. Era molto importante stare con le persone giuste, perché il bad trip è sempre dietro l'angolo.

Prendevi mai precauzioni quando dovevi vendere un acido a qualcuno che sembrava a rischio bad trip?
Non ho mai venduto un acido a persone che sembravano pronte a rimanerci sotto, o che arrivavano da sole. Gli acidi sono sicuramente un'attività di gruppo, per quanto mi riguarda.

Quali erano i ritrovi principali per gli appassionati a Manchester, al tempo in cui spacciavi?
Conspiracy, l'Haçienda, il Thunderdome. Tutte bellissime serate. L'Haçienda era un pochino più esclusiva delle altre due e la frequentazione era un po' più normale, c'erano meno criminali. Conspiracy era fico, ma alcune persone sostenevano che fosse troppo frequentato da gruppetti di gang che rompevano il cazzo a tutti. Non che sia mai successo qualche episodio violento: erano tutti strafatti di ecstasy o acido e non hai molta voglia di fare a botte in quelle circostanze. Il Thunderdome era pieno di ladri, hooligans e criminali generici, e infatti mi sentivo a casa in quel posto. Una volta c'è stato un incidente molto grave in cui dei tizi di una gang hanno sparato ad altri tizi direttamente davanti al locale, ma considerata la gente che lo frequentava poteva andare anche molto peggio. A tante persone piaceva il Thunderdome perché gli sembrava essere una versione terra-terra dell'Haçienda.

Alcune persone organizzavo anche degli acid party a casa loro, ogni tanto. Semplicemente se ne stavano in botta nel salotto di casa mentre ballavano con gli amici la stessa musica che suonava nei club. Una notte di sballo ti costava cinque sterline messe in mezzo per fare la colletta, economicamente era molto vantaggioso.

Vendere acidi ti ha mai messo a rischio di finire nel mirino di qualche gang?
No, perché non c'era un giro di soldi così grande attorno agli acidi, per cui nessuno è mai venuto a rompermi il cazzo. Tante persone li vendevano parallelamente all'ecstasy, mentre alcuni addirittura vendevano acido per tirare su le 25 sterline necessarie a comprare l'MDMA. Bisogna ricordarsi che all'epoca tutta l'ecstasy era molto, molto costosa, non come oggi. Si potevano fare un sacco di soldi  mettendosi a vendere acido, ed è per questo che c'erano tanti casini tra i "rappresentanti" di quel mercato.

Che cos'era meglio prendere secondo te? Gli acidi o l'ecstasy?
Potevi farteli anche entrambi. La musica era già di per sè un trip, quindi andava bene per l'acido, ma era anche molto energica, il che ti aiutava a goderti l'ecstasy. Alcune persone sostenevano che il tempo fosse un po' troppo veloce per gli acidi, e che fosse meglio spararseli con un altro genere di musica, tipo Bob Dylan o i Doors.

Molte persone sostengono che la acid house abbia dissolto le relazioni tra le varie firm di tifosi di Manchester, con storie di hoooligan dello United e del City che la risolvevano tutti abbracciati e strafatti a ballare fino al mattino. Gli acidi hanno avuto un ruolo in questa leggenda?
Assolutamente sì, hanno avuto lo stesso ruolo che ha giocato l'ecstasy. C'erano diversi gruppi da firm di tutte le squadre che da un giorno all'altro hanno smesso di menarsi e hanno cominciato a farsi e ballare. Gli acidi e l'ecstasy hanno sicuramente aiutato a togliere un po' di violenza da quell'ambiente, insieme a tutta la scena acid house che si era formata. Sono convinto che le droghe ti lascino qualcosa dentro anche quando scendono, voglio dire: non puoi passare dall'essere un bambolotto sorridente e abbraccioso a un violento pazzo maniaco. Un po' di quella serenità e allegria ti resta dentro per sempre. Gli acidi hanno aiutato alcune di quelle persone ad aprire la loro mente.

Non sto dicendo che l'acido e l'ecstasy abbiano cancellato la violenza tra tifosi del City e dello United, ma alcuni membri delle due firm tornavano a casa dalle partite insieme per calarsi qualcosa in comitiva. Si portavano dietro un mangianastri e provavano a godersi l'esperienza il più possibile. Al tempo stesso c'erano una regola non scritta che gli imponeva di evitare la violenza quando si trovavano al Thunderdome o all'Hacienda, e limitare le botte ai giorni delle partite. Non mi sento di affermare che la violenza sia stata fermata dagli acidi o dall'ecstasy, ma sicuramente ha avuto un ruolo nella sua "regolamentazione", se così si può dire. C'erano degli armistizi da dedicare alla fattanza.

Secondo te perché l'ecstasy è rimasta popolare come droga da club, mentre gli acidi sono un po' scomparsi?
Una delle ragione è il calo dei prezzi a cui facevo riferimento prima. Ora che la qualità è migliorata diciamo che la dose vale il suo prezzo. Ci sono anche tante altre droghe che si prendono oggi dentro un club e che all'epoca non esistevano, il che lascia ancora meno spazio nel mercato per gli acidi, anche se restano ancora più economici della maggior parte delle cose che si possono comprare. La gente vuole pippare la cocaina quando va a ballare, una cosa che non capitava mai negli anni in cui "operavo" nei locali. Un grammo di cocaina costava 80 sterline, e non c'era molta gente che possa spendere 80 sterline a serata. Oggi è molto più economica che all'epoca. Diciamo che ai tempi tanta gente si faceva di acidi solo perché comprarli era infinitamente economico.

Credi che ci sarà mai una resurrezione dell'acido?
Tutto può succedere. Di sicuro oggi a Manchester gli acidi sono molto più richiesti che negli ultimi dieci anni.

Grazie, 'Mr. A'.

Il DJ finlandese a cui è ispirato il meme "Techno Interests Me"

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La foto di Antti Salonen che ha ispirato il meme "techno interests me". (Foto concessa da Liisa Jokinen)

Se ti piace la musica elettronica e passi almeno un po' del tuo tempo su Internet (e se sei su questa pagina probabilmente è così), allora è probabile che ti sia imbattuto almeno una volta nel fantastico meme "Techno Interests Me". Trattasi di una variazione sul tema del "Feels Guy" che dice "I Wish I Was At Home Playing Video Games," basata su un losco figuro che se ne sta in un angolino di una festa con la sua nuvoletta di pensieri che lo circonda, tra cui compaiono considerazioni sulla gente che ha intorno e giudizi un po' snob sulla musica. Insomma, il ragazzo è uno di noi.

Il motivo per cui il meme "Techno Interests Me" ha girato così tanto ed è ancora attuale oggi, alcuni anni dopo la sua genesi, è che se ti prendi gioco dell'attitudine pretenziosa nei confronti della musica elettronica non sbagli mai. Vi siete mai trovati in mezzo a una festa brutta brutta sperando di teletrasportarvi al Berghain? Ve la siete mai presa con un disco di Andy Stott? Avete mai pensato che Gessafelstein sia un coglione?

OK, magari perché queste cose vi siano successe dovreste appartenere davvero alle classi alte di technofili un po' chiusi e snob. Sicuramente però conoscete qualcuno con questa forma mentis, e quel qualcuno si merita di ricevere il meme in questione.

Immagine via l'utente Reddit LurkForever

La storia di "Techno Interests Me" ha inizio circa cinque anni fa, nel momento in cui la fotografa di street style Liisa Jokinen ha posato l'obiettivo su questo tipo vestito di nero che camminava per il centro di Helsinki, in Finlandia. Liisa ricorda perfettamente il giorno in cui scattò quella foto, e ce lo racconta così: "Penso fosse di sabato. Una di quelle giornate autunnali grigie e fredde. Credevo che mi rimbalzasse malamente, quando gli ho chiesto se potevo fotografarlo, perché mi è capitato più volte che persone vestite di nero mi trattassero un po' così. E invece no, anzi. Dopo quel giorno siamo diventati amici su Facebook. Adoro il fatto che, ad anni di distanza, il suo look non sia mai cambiato."

La fotografia è andata dritta sul suo blog, che ai tempi si chiamava Hel-Looks (Liisa adesso ha un altro blog di street-style di base a San Francisco, chiamato SF-Looks), Liisa chiede ai suoi soggetti di raccontarle dei loro interessi e dell'ispirazione dietro ai loro outfit. Quando incontrò per strada Antti Salonen, quel giorno di ottobre, la risposta che ottenne fu la frase ormai storica "techno interests me."

In quest'epoca internet-centrica qualsiasi cosa, anche un'innocua fotografia di street-style, è in grado di trasformare un essere umano qualunque in una pseudo-celebrità virtuale. In alcuni casi, come per Techno Viking, la fama involontaria ha portato a conseguenze legali, per violazione del diritto alla privacy. Una volta scoperto di questa storia, ero curiosissimo di sapere come Antti avesse preso tutta quella storia dei meme generati dalla sua immagine, come fosse cambiata la sua vita una volta ottenuta la notorietà indesiderata, se in meglio o in peggio. Come si sentiva ora ad apparire in pubblico? La percezione della propria identità aveva subìto degli scompigli?

Ho chiamato Antti la scorsa settimana e, mentre parlavamo, mi sono reso conto che nella realtà è un tipo super alla mano, per niente pretenzioso e "normalissimo". Antti ha 29 anni, ha un normalissimo lavoro d'ufficio durante la settimana, e nei weekend fa il DJ. Organizza una festa che si chiama "Techno Interests Me" in onore del suo meme personale, e quando non mette i dischi va a ballare al Kaiku, uno dei club migliori di Helsinki. Abbiamo convinto Antti a regalarci un suo mix, rigorosamente solo vinile per darci un'idea dei suoi gusto dark, industrial e acid techno. Lo trovate qui sotto, mentre più sotto c'è un'intervista in cui abbiamo parlato su quale sensazione faccia diventare un meme.

THUMP: Allora, la prima domanda è piuttosto ovvia: ti interessa la techno?
Antti Salonen: Più di tutto il resto, direi.

Conosco un po' la storia dietro la foto e il meme. Quando è cominciata per te?
Stavo passeggiando in centro mentre ero al telefono con un amico e Liisa, la fotografa, mi ha fermato per chiedermi di farmi una foto. Le ho detto "Ok, fai pure". Sapevo già del suo blog, perché è molto famoso in Finlandia, a Helsinki e in generale in giro per internet. Sapevo già come funzionava, perché avevo molti amici che erano già stati fermati da lei.

Quindi lei ti fa una foto e poi ti chiede una mini citazione.
Dopo la foto mi ha fatto una serie di domande che fa a tutti, tipo cosa indossi, cosa ti piace fare e via così. Domande normali. Non ero molto dell'umore di rispondere a queste domande, probabilmente. Quindi alla fine mi ha detto guarda, non dobbiamo mettere per forza tutte le risposte, possiamo scrivere solo il tuo nome e la tua età. A quel punto ho avuto un'idea, le ho detto scrivici Techno interests me. Era un mezzo scioglilingua e sapevo che i miei amici si sarebbero spaccati dal ridere. Lisa era d'accordo e lì è finito il nostro incontro.

E poi?
Penso che la maggior parte dei miei amici siano rimasti stupiti [quando l'hanno visto], e abbiano riso della mia dichiarazione. È comunque soltanto una foto tra le tante, non sembrava una cosa molto importante. Quando è diventata un meme, la cosa è cresciuta esponenzialmente. 

Quanto è passato prima che tu ti accorgessi del meme?
L'ho notato circa un anno e mezzo fa, attorno a capodanno del 2015.

Ricordi in che contesto hai visto la foto per la prima volta?
Penso che l'abbia postata su Facebook un mio amico. Poi all'improvviso tutti si sono messi a condividerla.

Ti sei accorto subito di essere tu?
Sì, era molto chiaro che si trattava di me, si vedeva dalla sagoma della persona nel meme, che è stata tagliata dalla foto originale. E la prima frase in alto a sinistra è "Techno interests me" per cui ho pensato: "Sì, sono sicuramente io".

Come hai reagito?
Mi è venuto da ridere. Non riuscivo a crederci. Mi è sembrato molto divertente, con tutte quelle frasi. Avevo già una certa reputazione da fissato della techno qui a Helsinki. Un sacco di gente che frequenta i locali, e anche i DJ più vecchi, mi chiamavano "techno Antti" già da anni. Per cui non ha fatto altro che aumentare l'immagine di me che era già diffusa. Non ci ho visto niente di male al tempo. E non ci vedo nulla di male ancora oggi.

Vorrei ripercorrere assieme a te alcune delle dichiarazioni che compaiono nel tuo meme. La prima dice: ">tfw spent all my life saving$ on a Basic Channel dubplate / Pretty sure I can re-sell it on Discogs later on". Qual è la tua traccia o disco preferito di Basic Channel?
Naturalmente mi piacciono moltissimo, ho tantissimi dischi loro e dei loro vari alias. La traccia che ascolto di più è probabilmente il loro remix di "Lyot" di Vainqueur. È uscita sull'etichetta Maurizio. È stata la seconda uscita su quella label ed è sicuramente uno dei dischi che ho ascoltato di più tra i loro.

 

 

E come ti poni rispetto a Discogs e al rivendere i dischi a prezzi esorbitanti, e rispetto alla moda attuale delle edizioni super-limitate? Sei un utente Discogs?
Sì, certo che lo sono. Lo uso tutti i giorni, è una bibbia per me. Naturalmente ho riflettuto su questa cosa del rivendere i dischi su Discogs. In un certo senso è un peccato, ma penso anche che rientri nella natura umana di cercare di guadagnare soldi a ogni occasione. Non vendo i miei dischi su Discogs, li vendo soltanto ai miei amici, cercando di tenere i prezzi bassi. Riguardo al problema delle nuove uscite, penso che alcune etichette dovrebbero mantenere i propri dischi in stampa il più possibile. È quello che hanno sempre fatto quelli di Basic Channel. Tutti i loro dischi sono sempre disponibili, ed è così che dovrebbe essere. Se la musica è bella, venderà. Trovo molto bello che si facciano tirature limitate, perché c'è sempre una possibilità di stamparne ancora. A volte non è possibile per alcune etichette indipendenti molto underground, e la gente che le gestisce non ha abbastanza soldi per mantenere i dischi in stampa o cose così. Ma il fatto di annunciare in anticipo che la tiratura sarà ultra-limitata e non ci saranno ristampe, non lo trovo molto saggio.

Poi mi chiedevo: cosa ne pensi di Gessafelstein e della sua musica?
La considero musica commerciale. In quest'ottica, alcune persone probabilmente la trovano molto buona. Ma non fa per me. Non ascolto mai la sua roba e non mi interessa particolarmente. Forse inserito nel suo contesto è ok, ma non fa per me. Non ho una vera opinione. 

Andy Stott ha un nuovo disco in uscita. Hai un'opinione su di lui?
Ho ascoltato alcuni estratti delle sue nuove tracce—anche queste non fanno troppo per me. C'erano un po' di pezzi belli, ma da un ascolto veloce penso sia più adatto da ascoltare in casa e non mi piace quanto le sue uscite degli ultimi anni. Lo preferisco prima che iniziasse ad andare lento. Prima faceva dischi più veloci. Nel 2009 ha fatto uscire ottima musica. Ultimamente non lo ascolto più molto. 

Che cosa ne pensi di Plastikman—Richie Hawtin?
Mi piaceva molto la sua produzione di inizio anni Novanta. Specialmente la musica che fece uscire con nomi diversi. Penso che FUSE e Circuit Breaker siano molto fighi, poi c'è troppa roba in cui pescare. Se devo scegliere un disco, sarebbe "Trac-K" di Circuit Breaker, uscito nel 1992 su Probe. Quello è molto bello. È molto molto veloce, ma mi piace. Nel nuovo album appena uscito, From My Mind to Yours, c'è un pezzo che mii piace, sembra quasi il vecchio Richie Hawtin o Circuit Breaker. Si chiama "Systematic". Quella ricorda la sua produzione dei bei tempi. Le sue tracce vecchie sono meglio.

 

 

Cosa dici della frase "I wish I was at Berghain"? Ci sei mai stato?
Ci sono stato molte volte. La prima volta fu in gennaio 2010. Era il Substance party, Scuba organizzava questi Substance party quattro volte all'anno. Era un venerdì per cui non riuscii ad andare al Panorama Bar perché era chiuso. Ci tornai la domenica, perché ci tenevo moltissimo a vedere Marcel Dettmann e Delta Funktionen. Vado a Berlino due o tre volte all'anno. Dal 2010 non c'è stato un weekend in cui non sia andato al Berghain almeno una volta, per cui ci sono stato mille volte. Sarà anche un luogo comune, ma penso che sia il miglior club del mondo. Ogni tanto c'è una serata in cui non mi diverto così tanto, ma penso che il divertimento sia abbastanza garantito più o meno ogni weekend. 

Hai detto di essere un DJ e che i tuoi amici ti chiamano "techno Antti". Hai accettato il meme all'interno della tua identità? Se sì, ha aiutato la tua carriera come DJ?
Non ci ho pensato molto. Penso che molti dei miei amici, se devono fare riferimento a me durante una conversazione con qualcun altro, mi chiamino "techno Antti" per individuarmi immediatamente. Ma non penso che sia molto comune che ci si riferisca a me come "quello di techno interests me" a Helsinki, perché la scena mi conosceva già da prima.

Non so come funzioni all'estero. Non ho pensato molto alla mia personalità pubblica. Ma quello che ho fatto è stato iniziare a organizzare una serata tutta mia a Kuudes Linja la scorsa primavera. Quest'anno l'abbiamo fatta ogni due mesi. Io e il promoter abbiamo pensato di usare questa cosa in modo ironico, sai, c'è un meme, perché non usarlo? Per cui l'abbiamo usato come foto copertina per gli eventi. Quello è stato l'unico modo in cui ho sfruttato il meme. E sta andando piuttosto bene. Viene tanta gente e ho il controllo totale sulla musica, funziona alla grande.

Ci sono altre feste, crew o etichette a Helsinki che stanno facendo roba fica e che dovremmo conoscere?
Musicalmente, Helsinki è molto interessante al momento. C'è un collettivo di giovani che si chiama VAIN. Fanno musica molto bella, ma non hanno ancora pubblicato nulla su vinile. Organizzano delle serate nella sala più piccola di Kaiku e in qualche altro posto, per la maggior parte si tratta di live con qualche DJ set. Come producer mi piace molto Xinloi. È un mio buon amico e a volte lavoro con lui su alcune produzioni, tanto per divertirci al momento. Vedremo se un giorno riusciremo a far uscire qualcosa.

Deep Space Helsinki sono due ragazzi, Samuli Kemppi e Juho Kusti, e hanno avuto una grande influenza su di me quando ho cominciato a comprare dischi techno. Sono miei cari amici. Anche loro organizzano feste che si chiamano Deep Space Helsinki al club Kuudes Linja. Hanno anche un'etichetta.

Ci sono altre etichette più piccole che sono nate pochi anni fa, ma che stanno ancora cercando di trovare la propria identità. Però succedono un sacco di cose, ci sono un sacco di party underground, alcuni buoni, altri meno. Ma la scena è molto vitale. Se la confronti con le dimensioni della città, che ha solo 600 mila abitanti, la scena è davvero buona. La gente conosce la musica elettronica, è interessata a vedere cose diverse, è aperta ai DJ che suonano musica un po' difficile. La gente si aspetta questo tipo di cose. Penso che molti DJ stranieri e artisti live rimangano sorpresi da Helsinki in senso positivo. Apprezzano l'atmosfera, e i soundsystem nei locali sono molto buoni. Per cui è un buon posto dove stare dal punto di vista musicale al momento. 

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Azealia Banks è stata rimossa da un festival dopo che ha insultato mezzo mondo

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Immagine via YouTube

Ieri Azealia Banks ha dato sfogo al peggio di sé insultando su Twitter Zayn Malik, MNEK, Bok Bok, la host di BBC Radio 1Xtra Jamz Supernova e l'attore quattordicenne Skai Jackson, così come tutto il rap inglese e il grime, per poi insultare tutti quelli che osavano risponderle.

Tutto è iniziato quando Banks ha pensato di accusare Zayn di averla copiata nel video di “Like I Would.”

La delicatissima Azealia ha deciso di rincarare la dose dicendo che il ragazzo "sa di curry" ed è uno "sporco rifugiato", per poi passare a dar merda sulla star della Disney Skai Jackson, dicendo che presto sarebbe diventata "una depressa drogata".

Ricordiamo che non molto tempo fa Azealia aveva dichiarato il suo appoggio a Trump, un po' per provocazione un po', chissà, seriamente—ecco, ad un certo punto della discussione ha deciso di intervenire semplicemente con questo laconico tweet.

Poco dopo, ha deciso di descrivere il rap inglese con queste parole: "a disgrace to rap culture in general” e ha dichiarato che, quando il suo tour passerà per il Regno Unito, farà in modo di presentarsi "con la security armata". 

Successivamente i suoi insulti si sono concentrati in direzione di Jamz Superonva, finché la presentatrice non ha risposto a tono, anzi, avanzando un consiglio:

Quest'anno infatti, prima che succedesse tutto sto casino, Banks era stata presa come headliner per il festival organizzato da Rinse FM e Born & Bred. In cartellone con lei c'erano anche Lady Leshurr, Wiley, Novelist, e ILOVEMAKONNEN, tra gli altri. Abbiamo chiesto direttamente ai ragazzi di Rinse FM di spiegarci cosa succederà e loro ci hanno risposto che Azealia Banks è stata gentilmente depennata dalla line-up:

“Abbiamo deciso di cancellare l'apparizione di Azealia Banks come headliner al Rinse Born & Bred. Rinse Born & Bred è nato per celebrare la cultura della festa ed è stato creato per TUTTI. Celebriamo anche l'inclusività e l'eguaglianza.”

OPS!

¯\_(ツ)_/¯

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The People Versus Jake La Furia

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Jake La Furia è "El Chapo" e "El Chapo" è Jake La Furia, quindi questo episodio avrebbe dovuto chiamarsi The People Versus "El Chapo", ma poi non ci avreste capito niente. Un paio di settimane fa quando è uscito il suo nuovo siamo andati a intervistarlo per chiedergli come mai la sua musica sembra fatta da un emo, e lui ci ha risposto senza mandarci a fare in culo.

Qualche giorno dopo l'intervista siamo andati a fargli delle altre domande, scovate tra i commenti di YouTube e lui... Diciamo che l'ha presa in modo diverso.

Abbiamo una pagina Facebook nuovissima, seguila:

 

Abbiamo costretto Gene Simmons ad ascoltare Skepta, Death Grips e Radiohead

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Se c'è una persona famosa per la propria lingua, è Gene Simmons dei KISS. Quando l'ho incontrato, tuttavia, non ero proprio sicuro si trattasse proprio di QUEL Gene Simmons, del Gene Simmons dei KISS. Nel sentire il mio accento britannico si lancia in un'imitazione da inglese che suona a metà tra un orfano Dickensiano e Danny Dyer che recita in una rivista: “Yeah-you-know-wot-I-mean? Here I am working my fingers to the bone all day”. Fa una pausa, poi prosegue nel suo usuale mormorìo baritonale: "Come ti sembra il mio accento coloniale?"

Per cercare di guardare le cose da un altro punto di vista abbiamo pensato di chiedere alle grandi rockstar che ne pensano della musica di oggi—e tra la vecchia guardia della musica chi meglio del leader dei KISS? Con la loro combinazione di face-paint, una varietà di merchandise degna di Toy Story e tonnellate di fuochi d'artificio, i BACI sono sempre stati—e ancora oggi lo sono—una delle formazioni più iconiche al mondo; da semplice band glam-rock sono diventati un fenomeno, poi sono diventati un'azienda, per poi diventare un impero. 

A un certo punto mi riferisco, sbagliando, ai tardi anni Settanta come al "picco" della band, e Gene mi ricorda freddamente: "Il picco è adesso. In questo momento siamo in cima al monte Olimpo: siamo la band che ha vinto più dischi d'oro di tutti i tempi, in qualunque categoria. Nessun altro gruppo americano ha più dischi d'oro di noi". Il 25 maggio uscirà in tutto il mondo KISS Rocks Vegasun film di un loro concerto. Secondo le locandine, nel film ci sono fiamme "più calde dell'inferno".

“I KISS sono uno spettacolo dal vivo", mi dice Gene quando gli chiedo del loro approccio alla performance. "Non ci siamo mai resi conto di quanto fosse bello un disco che avevamo registrato, perché non siamo mai rimasti in studio abbastanza a lungo, eravamo troppo impazienti". Gene non parla della fase più recente come un'impresa musicale, la descrive più come un'impresa commerciale. "Abbiamo un film pronto a uscire in tutto il mondo, la crociera KISS Kruise, i campi da golf KISS, vendiamo più dei Beatles e dei Rolling Stones messi insieme, facciamo cose che altre band non sono mai riuscite a fare".

In passato, Mr. G. Simmons ha donato all'umanità critiche musicali frizzantine quali "il rap morirà" e "il rock è morto" e, non ultima, "l'EDM è sincera". Per cui: chi meglio di lui può recensire le ultime novità che sono passate per il nostro stereo? A chi avremmo dovuto chiedere pareri sulle hit del 2016, se non a lui? In questo momento post-genere e iper-connesso, ossessionato dai contenuti, che cosa avrà da dire il demone del rock su Radiohead, Death Grips, Skepta, o dell'ultima dei RHCP? O della nuova canzone di Justin Timberlake? Be', ecco qui che ha detto. 


RED HOT CHILI PEPPERS – “DARK NECESSITIES”

Noisey: Ok, abbiamo pensato di partire da qualcosa che rientri un po' più nei tuoi gusti. Il nuovo Red Hot Chili Peppers. Ti piacciono?
Gene: Li ho sempre trovati unici e divertentissimi, ma la cosa più figa dei Chili Peppers è che sanno chi sono, sanno qual è il loro DNA. È fondamentale per una band. Questo pezzo sembra un classico dei Chili Peppers. I loro fan lo adoreranno. Di base sono un gruppo rock, ma hanno scelto chiaramente di lasciarsi guidare dal batterista. Le chitarre non suonano rock, non alzano mai il volume, rappano, c'è un bassista funky, Flea, che dev'essere un grande fan di James Brown. Non è classic rock, ma è sicuramente rock. 

Quindi ti piace?
Assolutamente sì. Mi piace un sacco.

Siamo partiti con il piede giusto. Ora viene il bello.


DEATH GRIPS – “EH”

Che ne dici dei Death Grips?
Non credo di avere le credenziali per parlare di questo genere, non so dirti se è roba buona. Quello che so di per certo è che, cazzo, questo non è mica rock. Ho avuto il mio momento NWA con Ice Cube, un mio grande amico, un ottimo padre. Ma l'NWA non c'entra niente con la 'Rock n Roll Hall of Fame', così come i Kiss non staranno mai nell'olimpo dell'hip-hop. Per definizione, proprio. Il rock è fatto di chitarre, batterie, amplificatori. Abbiamo la stessa matrice, la black music americana, ma ci siamo evoluti in direzioni differenti. E poi la gente tira sempre fuori la storia della razza, che è una roba stupida, è semplice giocarsi quella carta. Pensa un po', il mio chitarrista preferito è nero, è Jimi Hendrix. Lui di certo non c'entra niente con l'hip-hop, ma può darsi che sia il chitarrista più importante della storia del rock. Per farla breve, non posso proprio esprimermi su questi Death Grips, però auguro loro una buona fortuna.

Non ti va di approfondire la loro storia?
Guarda, appena sento qualcuno che parla sopra un beat di drum machine, meglio che mi dilegui. 


RADIOHEAD – “BURN THE WITCH”

Che ne dici del singolo dei Radiohead “Burn the Witch”?
Nessun altra band si può approcciare ai pezzi dei Radiohead, e questo perché hanno un'identità molto forte, la voce di Thom Yorke è unica. È una delle voci migliori del rock moderno, avrebbe potuto fare di tutto con quella voce. Avrebbe potuto fare rap, cantare pop, sarebbe potuto diventare il nuovo leader dei Four Seasons, se avesse voluto.

Quindi sei un fan dei Radiohead?
Sono un grandissimo fan dei Radiohead. La cosa divertente è che Thom Yorke si innervosisce ogni volta che parlo di loro. Cioè, li adoro, ma so di per certo che a loro non piace quello che facciamo noi—i nostri visual esagerati, il merchandising, il marchio, a noi piace quella roba. Ci sguazziamo. Loro no, per niente. La cosa bella di questa band è che non hanno mai cercato di scimmiottare qualcun altro. Ai fan dei Radiohead piacerà “Burn the Witch?” Ma certo. E se Michael Bublé volesse fare una cover di quel pezzo? Ecco, non sarebbe un'ottima idea.

Qual è il tuo pezzo dei Radiohead preferito?
Sono ancora affezionato al loro primo singolo, “Creep.” Per dire, il pezzo dei Blur che preferisco è quello col numero cinque... Quello che fa “Woo-hoo!” Ma è il mio gusto.


JUSTIN TIMBERLAKE – “CAN'T STOP THE FEELING”

E che ne pensi del nuovo singolo di Justin Timberlake?
Justin. Cioè, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. È venuto fuori da una boyband e ad un certo punto ha deciso di fare a modo suo. I suoi critici dicono che è solo un altro Michael Jackson bianco... Ma in effetti si può dire la stessa cosa anche del vero Michael Jackson. Hai visto cosa ho fatto lì?

Sì, un'affermazione... Problematica.
Oh, ho detto di peggio.

Che mi dici di "Can't Stop the Feeling"?
Questa sarà una hit dell'estate, si vede che è scritta bene, ottimi i cambi degli accordi, beat che ti si appiccica addosso e il tipo sa anche cantare per davvero. È una buona canzone, però mi auguro che a un certo punto Timberlake e tutti gli altri smettano di usare la parola dance.


SKEPTA – “MAN (GANG)”

Okay, l'ultima: cosa ne pensi di Skepta?
Chiedermi di questa roba è come chiedere a mia madre un parere su Miles Davis. Nessuno di noi due è qualificato per esprimersi 

Quindi non hai nessuna opinione? 
No, ma è la cosa bella della musica: è come un gigantesco ristorante dove puoi mangiare solo le cose che ti piacciono e ignorarne altre. Diciamo soltanto che questa non è una delle cose che ordinerei al ristorante della musica.

E c'è qualche altra cosa rap/hip-hop che ti interessa?
La mia canzone rap preferita è quella sui culoni di Sir Mix-a-lot. Mi entra in testa e la ballo mentre giro per casa col culo in fuori proprio come se fossi in prigione. Capisci cosa voglio dire?

Che immagine forte.
Scusami, mi sono appena vomitato un po' in bocca a ripensarci. In realtà mi piacebbe molto di più vomitare nella tua, di bocca. Ma questa è un'altra storia...

Cosa?!
Sei un uomo forte e attraente.

Grazie.
Okay, ciao.

Ciao.

 

Ascolta il nuovo sorprendente album dei WOW

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Foto di Francesco Viscuso.

A volte ho un percezione un po' distorta di quello che il pubblico italiano segue con attenzione e quello che invece no. Ma sul secondo album dei Wow siamo tutti d'accordo, giusto? Uno dei dischi più attesi dell'anno, no? Nel 2014 Amore ha fatto una cosa molto buffa, cioè unire i fan del garage rock zozzo e quelli della canzone d'autore in un abbraccio in cui si intrecciano canzonette all'italiana anni Sessanta e Fender Jaguar tremolanti con un piede nel surf-garage e uno nel drone-rock post-Velvet Underground. Follia. Un anno e mezzo dopo i Wow (ah, per inciso: ci tengono molto che si pronunci UOU, non UAU) pubblicano Millanta Taranta, il nuovo LP in uscita sempre per 42 Records.

Il disco è una sorpresa: Leo e China, nucleo centrale della band, che dopo aver registrato l'ultimo album ha cambiato interamente la propria sezione ritmica, non si accontentano di riprodurre e aggiornare le atmosfere lussuriose del Piper, come si poteva già intuire dal singolo "Ah Ah Ah". Come spiegano nell'intervista che ci hanno rilasciato e che potete leggere qua sotto, stanno facendo un percorso che li porterà a un'identità-Wow sempre più pura, e questo passa anche per un vero e proprio melting pot di influenze quasi impossibili da rintracciare. Più che un gruppo di "revival" anni Sessanta, come si legge spesso, sono un gruppo post-punk o art-rock dall'approccio psichedelico e assolutamente unico alla propria materia. 

Ascolta in anteprima esclusiva Millanta Tamanta e leggi la nostra intervista con Leo e China qua sotto. L'album sarà disponibile da domani, venerdì 13 maggio, in edizione vinilica limitata sul sito 42 Records o nei negozi e store digitali.

Noisey: Raccontami un po’ la storia dei Wow.
Leo Non: È un gruppo nato un po’ per gioco, intorno al 2009 o 2010. All’inizio non era un progetto strutturato, suonavamo alle feste, non avevamo nemmeno una formazione stabile. Poi quando è entrato Thibault al basso ci siamo stabilizzati in una formazione che è durata grossomodo un anno, con China alla batteria, Thibault al basso e io alla chitarra. Con questa formazione abbiamo iniziato a fare le cose un po’ più seriamente, abbiamo fatto due tour europei auto-organizzati, ce la siamo un po’ girata. Perché ai tempi cantavamo in inglese, infatti il disco uscito per Vida Loca e Bubca Records è tutto in inglese. Facevamo parte di quel giro che sta al di sotto delle grandi indie, ma che però ha una bella rete estesa; abbiamo suonato con i Sic Alps e i Cosmonauts, con i gruppi francesi, la scena di Strasburgo. Era tutto molto autarchico, tutti si organizzavano i propri tour, ed era molto bello perché c’era una certa libertà di fare il cazzo che ti pareva, sostanzialmente. 

A un certo punto, però, avevamo questo pezzo in italiano, che China aveva scritto forse anche prima che nascesse il gruppo: “Dove Sei”. Ce lo siamo trascinati dietro per tantissimo tempo perché non sapevamo come arrangiarlo, era molto diverso da quello che stavamo facendo in quel momento. Poi ci siamo accorti che questa canzone, che abbiamo registrato sempre in totale autonomia, senza particolari velleità, destava un’attenzione differente, soprattutto in Italia. Aveva un sapore un po’ antico, un fascino diverso. Fatta quella, è arrivato anche Samir alla batteria, anche lui aveva voglia di fare qualcosa di diverso, così abbiamo cercato di uscire dai nostri soliti schemi e abbiamo proseguito il discorso di “Dove Sei” scrivendo altre canzoni in italiano, con un’attitudine un po’ diversa, più arrangiate, non suonate sempre al massimo come si fa nel garage, ma trattenendoci un po’, cercando una finezza maggiore.

C’è stato un momento in cui vi siete detti “ok, ora facciamo questa cosa, cambiamo tutto”? È stato difficile per voi accettare la vostra nuova identità, rispetto a quella più familiare di gruppo garage che canta in inglese, ecc.?
Leo Non: Ma guarda, non lo so, si invecchia. Il problema è più nella percezione dall’esterno. Se il gruppo non dà un’immagine di sé perfettamente coerente si creano subito casini, non si sa bene come trattarlo. Noi a un certo punto avevamo dei pezzi in italiano, e poi improvvisamente ci siamo ritrovati un gruppo diverso. Invece di imitare i gruppi californiani, che tanto a quelli che je frega, stanno in California, hanno un’esposizione mondiale, fanno il cazzo che gli pare, noi abbiamo deciso di guardare a che cos’è successo e che cosa succede qui, probabilmente anche a causa delle nostre esplorazioni musicali personali. Ci siamo visti dei documentari fichissimi sulla RCA italiana, abbiamo cercato di recuperare la nostra tradizione. Immagino che sia piuttosto normale a un certo punto filtrare il posto da cui vieni attraverso il tuo approccio che può anche essere “altro”, ecco. Non c’è stato un momento preciso, anche se come ti dicevo “Dove Sei” è stato senza dubbio lo spartiacque, una volta che ci siamo resi conto che quella canzone era bella e aveva un riscontro diverso ci abbiamo preso gusto. 

Parliamo del disco nuovo. Il vostro metodo di scrittura è cambiato rispetto ad Amore? Sicuramente sembrate avere più fiducia nei vostri mezzi…
Leo Non: Dici? Grazie! Io, boh, non lo so! Sai, quando lavori a una cosa per tanto tempo finisci per pensare tutto e il contrario di tutto. Il primo disco, a parte per alcune canzoni, è andato così: ogni settimana facevamo una canzone nuova, l’arrangiavamo e la registravamo. China diceva sempre: “A’ regà, ma non gliela faccio a scrivere un testo nuovo ogni settimana!” Poi puntualmente saltava fuori. Questo disco invece per metà avevamo già cominciato a suonarlo dal vivo, per cui le canzoni erano già sedimentate, gli arrangiamenti li avevamo già provati nel contesto live. Di conseguenza quando ci siamo messi a registrare siamo stati un po’ più metodici: invece di montare e smontare tutto una volta alla settimana, canzone per canzone, ci siamo trovati in una situazione più focalizzata sulla registrazione. Sempre totalmente underground, eh, in un box auto. Immagino che questa continuità aiuti in senso tecnico. E poi forse sì, abbiamo avuto la sicurezza di quaranta o cinquanta date per la promozione del disco precedente. Questo disco è forse l’ultima cosa che abbiamo fatto insieme, nel senso che subito dopo le registrazioni c’è stata un po’ di crisi all’interno del gruppo, che ha portato a un altro cambio di formazione. Thibault e Samir se ne sono andati, Samir è anche tornato in Francia. Mi chiedo se l'album abbia contribuito...

China, per te com’è stato il cambio di lingua? Immagino che ritrovarsi con un nuovo dizionario porti a galla nuove idee, consapevolezze…
China: Intanto è importante dire che si tratta di un cambiamento ancora in fieri, nel senso che non abbiamo ancora raggiunto un punto per cui ci viene da dire: “Ok, abbiamo finito di esplorare, abbiamo un sound che rimarrà uguale fino alla fine dei nostri giorni”. Forse questo progetto non terminerà mai e continueremo a evolverci per sempre, oppure magari raggiungeremo un livello nella nostra ricerca di cui saremo soddisfatti. 

Abbiamo iniziato a suonare da molto giovani, soprattutto Leo che aveva sedici anni. A quell’età l’approccio è molto istintivo, fai quello che ti piace e lo declini rispetto a quello che ti sembra giusto, per cui cantando in inglese che in certi ambiti è la norma. Come popolo, siamo molto affascinati dagli USA, o meglio, stiamo finendo di esserlo, ma siamo pur sempre cresciuti con quel condizionamento. Stavo guardando i film di Dolan, il regista canadese di Mommy, che parla tantissimo di questa storia dell’identità nazionale e questa patina anglosassone che ci viene messa sopra, il sogno americano. E capita anche a noi, alle nostre vite, alle nostre scelte, ai nostri desideri. Dopodiché si arriva a una certa età, ma non dipende solo dall’età, dipende da chi frequenti, da che lavoro fai su di te e sulla piccola arte che fai, e ti rendi conto che è il momento di confrontarti con l’Italia. Anche perché improvvisamente ci siamo ricordati di quanto abbiamo amato certi autori e certe canzoni italiane per poi dimenticarle, che sono importanti per noi e per tutto il Paese, credo. Non si può mettere in discussione l’importanza di certi pezzi di Mina o di Morricone. Il primo album lo abbiamo sviluppato nel contesto di questa ricerca di identità.

Io ho sempre scritto, e in italiano. Poi da adolescente ho vissuto negli USA per un po’, e quando sono tornata ho mantenuto il rapporto con la lingua inglese soprattutto nella scrittura. Quando ho incontrato Leo, le prime canzoni mi sono venute fuori in inglese. Dopodiché il tempo è passato, sono rimasta a Roma, e mi è venuta voglia di confrontarmi con me stessa. Il problema è: riuscirò a trasformare le mie cose personali, il mio diario, in una canzone? Perché una canzone secondo me dev’essere condivisibile, deve avere l’ambizione di essere di tutti. Chiunque deve poterla cantare senza sentire di stare parlando continuamente di China, ma parlando di sé. Poi entra in gioco anche una componente poetica, cosa che mi sembra si stia un po’ perdendo, anche se alcuni nostri colleghi stanno cercando di recuperarla, ognuno a suo modo.

Tipo?
China: Mah, non so, Edoardo [Calcutta], per esempio, ha una poetica molto particolare. È vero che parla di cose molto più quotidiane, ma ha una poetica contemporanea che non è banale come potrebbe sembrare. Ma ce ne sono altri! Mi sembra che ci sia il tentativo di riappropriarsi non tanto della musica anni Sessanta, ma della convinzione con cui si faceva musica negli anni Sessanta. Si potevano fare cose importanti, cose profonde, cose che parlassero dell’oggi per l'oggi. Questo secondo me sta succedendo in Italia in questo momento, a prescindere che il gruppo in questione mi piaccia o meno. 

È una cosa a cui ho pensato spesso anch’io. A volte sembra che cantare in inglese sia una scappatoia che permette di mettere un filtro tra sé e i propri testi, per evitare di parlare di cose davvero importanti. Invece se canti in italiano, il riflesso dell’autore è immediato ed è più difficile essere superficiali. 
China: È vero, anche se non credo che la scappatoia sia per forza verso la semplicità, magari ci si illude di riuscire a essere più profondi con l’inglese. Però una fuga c’è. È un discorso politico, che riguarda la posizione che si pensa di occupare nella contemporaneità. C’è tutta una parte di persone che si lasciano trasportare dalla corrente, e non si pongono alcun problema rispetto a questo. Poi c’è tutta un’altra parte di persone che invece si chiede dove sta questo rapporto all’interno della propria ricerca musicale o artistica. Io stessa, avendo vissuto all’estero, ho parlato, ho pensato e ho sognato in quella lingua, per cui è naturale che abbia provato a usarla per esprimermi. È una forma di colonialismo individuale che senza dubbio esiste. Ognuno ci fa i conti come può, prima o poi. Magari un domani potremmo tornare a usare l’inglese, ne siamo ancora affascinati. Per ora la nostra fase è questa: confrontarci con la nostra identità, con la nostra lingua, e vedere se riusciamo a recuperare il suono che piace a noi e declinarlo attraverso la nostra lingua. Millanta Tamanta, secondo me, più di Amore, rappresenta questo tentativo. I pezzi si sono aperti, sono meno “canzoni”, e siamo tornati a quell’approccio all’arrangiamento che avevamo un po’ perso con il passaggio all’italiano. Stiamo cercando di continuare su questa strada e mettere insieme la ricerca a livello di suono con il nostro esperimento linguistico, infatti Millanta parte da pezzi più simili a quelli di Amore, per tutto il primo lato, e poi nel secondo lato c’è una certa rottura, fino ad arrivare all’ultima canzone che è molto, molto diversa da quello che abbiamo fatto in passato, anche dal punto di vista della voce e del testo. 

Infatti ascoltando l’ultimo pezzo stamattina ho proprio pensato: “Oh, guarda, si sono messi a suonare prog!”
China: Sì, siamo rimasti stupiti anche noi! Diciamo che abbiamo notato che i pezzi si stanno ampliando, anche grazie ai nuovi musicisti: il minutaggio aumenta, le parti strumentali hanno più spazio, stiamo cercando di rimettere la voce al suo posto, cioè in mezzo agli altri strumenti, non per forza il più importante. Non è un caso che abbiamo scelto di collaborare con musicisti che vengono dalla nostra scena di Roma Est: due suonano nei Random Axes, un gruppo iper-noise folle, scurissimo e pestone; l’altro è Demented che è un polistrumentista pazzo. Insomma, non vogliamo lasciar perdere il suono che ci interessa, mentre in Amore l’avevamo un po’ perso di vista per studiare dei canoni più standard. Ora vogliamo superarli. È un tentativo, eh, speriamo che alla gente interessi, non è che lo facciamo solo per noi stessi!

Dopo l’uscita del disco comincerete il tour. Vi aspettate qualcosa di nuovo dal pubblico? Il pubblico deve aspettarsi qualcosa di nuovo da voi?
Leo Non: Questo sabato suoneremo allo Psych Fest, e di sicuro il contesto influenzerà il modo in cui presenteremo il disco. Abbiamo un batterista e un bassista nuovo, abbiamo un violinista, quindi credo sia normale che dall’incontro con altre persone vengano fuori arrangiamenti differenti. Siamo entrati nella mentalità di fare una cosa un po’ più spinta, una cosa meno pop rispetto a come ci siamo presentati dopo Amore

In effetti con un approccio alla voce come il vostro è facile essere considerati pop, ma gli arrangiamenti e i suoni tendono effettivamente alla sperimentazione e a una certa raffinatezza (non che non ci possa essere il pop raffinato… ah, non so dove voglio andare a parare).  
Leo Non: Che ti devo dire, grazie? Facciamo che lo prendo come un complimento. [ride] Sai, è difficile perché sembra che tu debba sempre avere una prospettiva generale su dove vai a finire, o su quale scena vai a occupare, o su quali sono i gruppi di riferimento. Però nel nostro caso, non so se per snobismo, abbiamo ascoltato robe di trent’anni fa e ultime novità discografiche della scena di cui dovremmo fare parte e… guarda, non so che dirti, non ci interessa. Forse è un approccio superficiale, bisognerebbe sapere dove si sta andando, con che cosa ci si sta confrontando. Noi rimpiangiamo un po’ i tempi in cui suonavamo garage. È per il modo di affrontare le cose: avevi sempre un contatto diretto con le poche persone che ti venivano a vedere, con i promoter, ecc., perché veniva tutto fatto in modo più amatoriale. Il fatto di avere un rapporto non-professionale si porta dietro dei difetti, ma anche dei pregi. Non lo so, uno vorrebbe avere sempre la botte piena e la moglie ubriaca, ma non è così semplice. Siamo pieni di dubbi proprio perché siamo un ibrido, in certi casi ci muoviamo verso il mainstream e in certi altri casi cerchiamo di mantenere un approccio più underground. Ma spesso ti viene il sospetto che forse fai male a entrambe le cose. 

Siete più tornati a suonare all’estero da quando avete iniziato a cantare in italiano? Com’è stata l’accoglienza?
Leo Non: Sì, siamo stati in Francia, Belgio e Svizzera all’inizio, poi ci siamo ritornati con il repertorio in italiano. Era un po’ strano, un po’ di gente era tornata aspettandosi il garage cantato in inglese, e invece si trovava una canzone vecchio stile in italiano. Però non è che ci siamo posti particolarmente il problema. Anche perché per tanti pischelli che dicono “Siete cambiati, non siete più gli stessi” se ne trovano tanti altri che dicono “Ma che bello, che originalità”. Di recente siamo stati a suonare a un festival in Francia e abbiamo trovato che c’è un’immagine, stereotipata se vogliamo, ma positiva della bella canzone antica italiana, più che in Italia. C’è anche più curiosità. Una certa idea d’Italia legata al suono di certe melodie, all’estero, si porta dietro meno connotazioni negative, mentre noi stiamo qua a farci le pippe su che cosa sia giusto e che cosa non lo sia. Vedersi da fuori in tutta la nostra italianità ci ha fatto bene, crediamo che dia una prospettiva meno provinciale.

Sul disco compare anche una canzone in francese, “Le Pointeur de Floury”. Da dove viene? Io, che sono una capra sgarbiana, ho pensato subito a un omaggio al cantautorato francese di stampo Serge Gainsbourg, che è un po’ l’equivalente di tutta quella gente che appena ha sentito la voce di China in “Dove Sei” vi ha paragonati a Mina, solo perché è una donna che canta in italiano…
Leo Non: [Ride] Be’, in realtà ci sta. Ovviamente Gainsbourg piace moltissimo a tutti, i suoi pezzi sono fichissimi. Questa canzone è stata scritta da Samir, per cui magari lui sarebbe più adatto a rispondere a questa domanda, però la fascinazione per quel tipo di musica c’è senza dubbio. Credo che Francia e Italia abbiano molti punti di contatto per quanto riguarda la canzone d’autore, pensa a De André che traduceva Brassens, Nino Ferrer… Insomma, non è che ci siamo impegnati per ricreare l’atmosfera francese, però anche solo per il fatto che ce ne fossero due nel gruppo certe influenze passano. Samir fu il primo a farmi ascoltare “Requiem Pour Un Con” di Gainsbourg, canzone bellissima e modernissima. 

Un’ultima domanda: so che Millanta Tananta è una citazione di Rodari. Da dove viene quest’idea?
China: Mentre stavamo registrando il disco, una nostra cara amica ci ha proposto di registrare le Favole al Telefono per la sua trasmissione su Radio Onda Rossa. In sala ci siamo io, Leo e Gianlorenzo (l’oboista bravissimo che ha suonato su Millanta Tamanta) a registrare queste favole, un po’ recitando e un po’ suonando; ci divertiamo tantissimo a utilizzare gli strumenti, Gianlorenzo ha anche creato un personaggio usando la sega musicale. A un certo punto esce questa favola che contiene l’espressione “Millanta tamanta”. È la storia degli abitanti di una città che decidono di spaccare tutto per sfogarsi e radono al suolo la città, e alla fine chiamano questo signore a fare il conto dei danni, e questo alla fine dice: “I danni ammontano a millanta tamanta e ottantatrè”. La cosa ci ha fatto ridere, e poi stavamo proprio registrando l’album in quei giorni. Ci è sembrato che questa espressione racchiudesse tutte quelle altre parole che stavamo proponendo come titolo, rimanda all’esagerare, al distruggere tutto, alle favole, quindi a un’avventura, è una parola che non ha senso, come Wow, una parola che non è veramente una parola. E poi quel momento era stato così bello che ci siamo affezionati. 

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Perché il Primavera Sound piace così tanto agli italiani?

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Immagine di Giulia Soldavini

Quando un italiano va al Primavera per la prima volta ha una rivelazione: “Questo festival esiste”. E ancora, “È raggiungibile – lo posso toccare con mano”. Tutti hanno una personale storia concertistica, e nel nostro paese spesso questa è fatta di lunghe code disorganizzate in cui spingere è la norma, pubblici riottosi la cui composizione contiene statisticamente un numero elevato di persone fastidiose e grandi bestemmie per gli annunci di tour europei che si fermano al di là del Brennero. Che l’Italia sia il Molise dell’Europa a livello di eventi, è abbastanza appurato. Cercare motivazioni significa constatare una lunga, lunga serie di occasioni mancate, ostruzionismi politici, ritardi culturali e incapacità organizzative: un ambiente tutto tranne che accogliente per le molte, molte persone che invece cercano di (e riescono a) organizzare eventi di qualità. Resta che nessuna esperienza concertistica come quella del festival e/o del “grande evento” all’italiana racchiude in sé la gemma della nostra disabitudine al rendere la musica dal vivo sia fonte di sostentamento che opportunità di sviluppo culturale.

Ci sono diversi motivi che rendono il Primavera un’Arcadia musicale per gli italiani. Innanzitutto: è vicino e pratico. Ogni anno, all’annuncio della line-up del Coachella, il feed dell’utente di Facebook medio viene popolato da condivisioni e affermazioni entusiastiche – ma il passo tra schiacciare qualche tasto per esprimere la propria esaltazione e avere un duemila euro da parte per andare in California a fine aprile non è affatto breve. Costano meno i biglietti per il Regno Unito: e allora c’è Glastonbury, festival per eccellenza, apice dell’esperienza nell’immaginario collettivo di chiunque sia appassionato di musica. Ma andarci effettivamente è tutto tranne che facile – soprattutto dato che per solo tentare di avere un biglietto bisogna registrarsi, caricare una propria foto per evitare bagarinaggi e sperare in Dio che le tempistiche e la connessione siano con noi nel momento dell’acquisto. 

Oltre a questioni di distanza entrano in gioco variabili atmosferiche: entrambi i festival non sono automaticamente accomodanti. Il primo è in un campo da polo nel deserto; il secondo, nelle campagne del Somerset. E magari il prospetto di guardare una band da metà cartellone sotto un diluvio con addosso un K-Way enorme può essere affascinante per alcuni, ma esiste una buona fetta di persone per cui la comodità è un fattore non indifferente nel scegliere di partecipare o meno a un evento. Per questo ATP offriva weekend di concerti con appartamento annesso, per questo alcuni festival hanno iniziato a lucrare su chi ha 1200 dollari da investire in una tenda col wi-fi o in una “premium club experience” per poter stare davanti al palco e avere un cesso privato + voucher per mangiarsi due cose (valore: 15 sterline). Ora, non che il Primavera non faccia ‘ste cose – lo fanno tutti – ma fortunatamente il prezzo del biglietto VIP è di soli cinquanta euro in più rispetto a quello normale. 

Ad ogni modo: se Glastonbury e Coachella sono a noi remoti, il Primavera è invece vicino da qualsiasi angolo lo si consideri. Geograficamente, nel modo più piano e semplice, ma soprattutto culturalmente: è IL festival mediterraneo, e quindi particolarmente allettante per un popolo culturalmente abituato a fuggire la scomodità. Un conto è prendere una tenda e piantarla in un campo infangato, un altro prendere un AirBNB in una grande città; un conto è trovarsi spaesati di fronte a Chase & Status sotto a un diluvio con in mano una Heineken pagata 5 sterline, un altro vedersi Jamie xx alle tre del mattino in riva al mare con in mano la stessa Heineken pagata quattro euro e cinquanta – che non è poco, ma insomma. 

Alché qualcuno dirà, “C’è lo Sziget!” Vero: Budapest è accessibile ed economica. Ma particolarità del festival ungherese è l’assorbimento dei propri utenti in un’esperienza che trascende la musica. Sull’isola di Óbudai molti vanno a fare campeggio, a incontrare amici, a conoscere gente e anche a vedersi musica dal vivo – questa, però, gestita in modo decisamente frammentario (un palco o due per i nomi grossi, uno per le cose da club, uno per le cose etniche, diversi palchi dedicati alle band di diverse nazioni e così via). Così che chi volesse teoricamente spararsi x giorni di turbofolk e nient’altro lo potrebbe fare: cosa che al Primavera non accade. Ricordo, nel 2012, di essere rimasto a vedere tale Sr. Chinarro in modo da essere in una posizione decente per i Death Cab for Cutie, che avrebbero suonato appena dopo. Non mi è piaciuto quello che ho sentito, ma sono comunque stato messo di fronte a qualcosa di nuovo – il che va sempre lodato.

Non ho citato Chase & Status prima a caso – peculiarità dei festival americani e inglesi è (giustamente) il posizionamento di artisti particolarmente “nazionali” in alto nei rispettivi cartelloni. Per cui è più probabile che un ascoltatore italiano vada ad un a un Reading & Leeds, a un Wireless o a un Field Day se è interessato a vedersi i Bring Me The Horizon o gli Asking Alexandria su un palco enorme, i Boy Better Know di fronte al loro pubblico, un DJ set di Annie Mac, Craig David tornato in attività (direi che il V Festival di quest’anno riassume il concetto che voglio esprimere). E qua non sto parlando di qualità della proposta artistica, ma solo di targeting: possiamo comunque fruire di festival pensati per altre culture e sottoculture, ci mancherebbe, ma che il Primavera sia naturalmente più “interessante” per un italiano ha perfettamente senso. Questo perché il Primavera è un festival inclusivo. 

Il modo in cui la line-up del festival spagnolo viene costruita è particolarmente intelligente per come cerca di risultare onnicomprensivo nell’accorpare artisti che altrimenti non vedrebbero il sud dell’Europa manco col binocolo, aggiornandosi di anno in anno alle varie tendenze che riverberano sui media internazionali. L’anno scorso c’erano le reunion emo anni 90, e allora al Primavera suonarono sia i Mineral che gli American Football; quest’anno tutti pazzi per i cantautori DIY, e via di Alex G e Car Seat Headrest. Un inglese, un tedesco, un francese se li può vedere tranquillamente quasi ogni volta che mettono piede nel vecchio continente: noi no, perché organizzarli o costa troppo o è troppo rischioso o non ha senso logistico per i loro routing. Allora facciamo le valigie e, come i nostri compagni spagnoli, portoghesi e greci, concentriamo in tre giorni quello che in altre parti d’Europa viene vissuto concerto per concerto nel corso di mesi e mesi.

Questa inclusione è evidente anche dalla varietà della proposta artistica, nettamente in linea con l’approccio che le testate “alternative” hanno sempre più seguito da quando il termine “indie” ha iniziato ad essere commerciabile. Il Primavera non è il Sonàr, non è il Wacken, non è un evento ATP e neanche un Benicàssim: ma ha l’elettronica, il metal, le glorie anni 90/gli sperimentalismi e le band che in Italia porta Vivo Concerti. Così che la line-up non spaventi chi ha meno voglia di esporsi a nuovi stimoli ed esalti chi, invece, ha adottato quell’approccio di copertura camaleontica che ha reso normale vedere pubblici prevalentemente caucasici a concerti rap. 


Tu e i tuoi amici al Primavera Sound. Immagine via 

A proposito di rap: la mancanza dei grandi artisti del genere in Italia è un altro problema di cui è necessario parlare. Se già dovrebbe far strano che una band criticalmente acclamata e ascoltata da mezzo mondo come i Vampire Weekend non sia mai più venuta in Italia dopo un paio di minuscole date in supporto del primo album, l’assenza dai palcoscenici italiani dei più grandi MC e artisti R&B non fa che confermare come il nostro mercato non sia per loro affatto fondamentale. Se a Kanye o a Drake convenisse fare una data al Forum di Assago la farebbero a occhi chiusi, credo: ma i ricavi delle loro altre date non gli fanno certo sentire il bisogno di aggiungerne un’altra lungo la tangenziale ovest. Inoltre, il rischio di perdite da parte dell’organizzatore locale è troppo alto: “One Dance” sarà prima negli Stati Uniti, ma prima che Drake diventi un artista “radiofonico” – e quindi altamente allettante per un pubblico abbastanza grande da riempire con totale sicurezza un palazzetto dello sport – deve accadere qualche cataclisma organizzativo nel rapporto tra le nostre major e i media. Anche qua torniamo a discorsi di adattamento linguistico/culturale.

Resta però che, tra un estemporaneo concerto di Schoolboy Q, Pusha T o Skepta e l’altro, possiamo comunque toccare con mano il gotha del rap e dell’R&B mondiali: e possiamo farlo il più comodamente possibile al Primavera, dove The Weeknd ha suonato il suo primo concerto in Europa di sempre, dove Kendrick Lamar ha portato il suo show da headliner post-good Kid, m.A.A.d. city, dove abbiamo potuto vedere A$AP Rocky prima di Long. Live. A$AP, dove Killer Mike ha portato i suoi pezzi prima dei Run the Jewels e dove quest’anno Vince Staples esporrà orecchie mediterranee ai pezzi del suo capolavoro Summertime 06. Certo, potremmo sempre fare un salto a Londra, al Wireless: ma pagheremmo più soldi per un cartellone decisamente meno interessante dato che, per quanto la qualità di alcune scelte possa valere un buon investimento, la scelta di inserire un forte numero di musicisti pop ed EDM da’ una certa aura di Tomorrowland all’evento. Quest’anno, per dire, ci sono Future, J. Cole e Young Thung: ma anche Calvin Harris, i 1975, Martin Garrix e Jess Glynne. 

Inclusività, dicevamo: musicale, certamente, ma anche generazionale. Il Primavera è un festival adatto sia ai diciottenni interessati all’indi e/o a ballare fino all’alba come ai trenta, quaranta, cinquantenni che vogliono vedersi le band che ascoltavano da regazzini, qualche reunion e scoprire qualcosa di nuovo. Su un palco ci sono i Cure, su un altro – in contemporanea – Wavves. Da un lato del festival suonano i My Bloody Valentine, a dieci minuti a piedi c’è Tyler, The Creator. In quest’ottica sta anche la tradizione del festival di invitare gli Shellac ogni anno, ad esempio: una certezza, per quanto riguarda un certo target di pubblico.


Guarda mamma sono su Instagram

Oltre alle scelte di cartellone, un fattore che ci fa rendere conto di come l’ottica primaver-iana vada in questa direzione è il contesto. Non è raro che al festival spagnolo appaiano nomi che, teoricamente, non si prestano particolarmente bene ad una performance su un grosso palco all’aperto. Ma la scelta del Parc del Fòrum come location è decisamente tattica per le possibilità offerte dall’Auditori, sala concerti del Museo delle Scienze Naturali di Barcellona posizionato tatticamente appena fuori dalle porte del festival. E così, ad esempio, i concerti di Jeff Mangum con l’acustica nel 2012 non sono stati disturbati da altre proposte più caotiche in palchi vicini né sono stati piagati da gente che finiva lì per caso ed era più interessata a bersi un birrino e chiaccherare piuttosto che a vedersi il vecchio Jeff in silenzio. Lo stesso è valso per gli A Winged Victory for the Sullen e i Body/Head di Kim Gordon nel 2014, e lo stesso varrà quest’anno per il concerto del pianista ucraino/canadese Lubomyr Melnyk.

Oltre all’Auditori c’è l’iniziativa Primavera Als Clubs, una serie di ri-proposizioni di artisti di cartellone in vari locali della città il mercoledì prima e la domenica dopo il festival dato che usare i synth, gli archi, i pianoforti e le acustiche non è conditio sine qua non per essere particolarmente adatti ad essere fruiti in un contesto più intimo. Novità di quest’anno è un palco sulla spiaggia dedicato all’elettronica – nel cui cartellone, per tornare al discorso sull’approccio multi-genere e multi-generazionale, accanto a DJ Koze, Powell ed Erol Alkan appaiono Bob Mould e Faris Badwan degli Horrors. 

Infine, inclusività è anche adattamento ad un orario particolarmente fluido e suggestivo. A parte alcune eccezioni, i festival inglesi devono finire a mezzanotte – il Field Day, il Lovebox, il Wireless sono tutti in un parco cittadino, e sarebbe improponibile andare avanti fino alle quattro del mattino a sparare musica a tutto volume dato l’alto numero di villette che circonda Victoria Park e Finsbury Park. Questo a Barcellona non succede, anche se il festival è in città: e non succede perché gli spagnoli non hanno mediamente gli stessi problemi con il non-disturbo che hanno gli inglesi e che abbiamo noi italiani (loro più per rispetto, noi più perché sono anni che si fanno crociate contro la vita notturna usando il terribile termine “movida”. 

Quindi al Primavera è possibile vedersi i Disclosure alle due del mattino, i The Men alle 2:30, Jesu alle 3, i Touché Amoré alle 4 e Jamie xx alle 4:30. E questa scelta paga, soprattutto per l’elettronica, le proposte più sperimentali e/o “cattive”: ché vedersi Justin Broadrick con il vento freddo del mare addosso dietro a un cielo nero come la morte è decisamente più figo che fare la stessa cosa col sole delle 16. Come contraltare italiano portiamo ad esempio il Radar dell’anno scorso, con un assessore della Lega che si è lamentato del casino fatto da un festival spostato in un club causa maltempo.


Ehi, ma qui è dove hanno girato quello spot della macchina.

Tutto questo non significa affatto che in Italia non ci sia la possibilità di vivere un festival figo. Facciamo qualche nome: per l’elettronica c’è il Club to Club, per le sperimentalate c’è Terraforma, per l’apertura mentale primaver-iana ci sono Ypsigrock e Vasto Siren Fest, per le chitarre e gli anni 90 c’è il Beaches Brew, per l’indie italiano c’è il Mi Ami e così via. E così esistono una marea di altre iniziative che raggruppano concerti di qualità – Ferrara Sotto le Stelle, TOdays, Locus, Villa Ada – che però, per quanto interessanti e vitali per lo stato della musica dal vivo in Italia, esistono più come “serie di eventi uno in fila all’altro” che come “festival”: un’esperienza diversa, che il Primavera colma al prezzo di un volo e una stanza per cinque giorni.

Infine, nonostante l’organizzazione dei concerti italiani all’estero sia un mondo piuttosto complicato, il Primavera è una realtà internazionale che stringe regolarmente collaborazioni con artisti europei, e quindi anche del nostro paese. PrimaveraPro, festival-nel-festival dedicato ai lavoratori di settore, porta ogni nuove proposte per showcase esclusivi – che possono poi magari diventare una chiamata al festival vero e proprio, come sarà quest’anno per i C+C Maxigross. Lo stesso percorso lo potrebbero iniziare adesso gli Altre di B, i Sycamore Age e Matilde Davoli.

Non penso che esista il festival definitivo, né che l’esistenza stessa dei festival non stia entrando in una fase problematica a livello mondiale: come ha fatto recentemente notare Ryan Bassill in un editoriale, è diventato difficile per gli eventi americani e inglesi mantenere un’identità definita date le difficoltà nella differenziazione della loro proposta artistica e nei paletti posti da immancabili necessità di profitto. Ma il sud dell’Europa arriva sempre tardi, e per una volta forse è meglio così: finché non saremo anche noi ricoperti di festival, e speriamo ottimisticamente di esserlo in un futuro non troppo distante, emigrare in Catalogna per una settimana non sembra un prezzo troppo alto da pagare. 

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Manuel Agnelli a X-Factor non ci sorprende affatto

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Manuel Agnelli è il nuovo giudice di X-Factor. La notizia era già trapelata, ma ieri è stata confermata in maniera ufficiale. Ovviamente in tanti hanno sentito il bisogno di reagire e commentare. Per lo più gridando allo scandalo e alla "VERGOGNIA!!!1!!1!", ma c'è pure chi giustifica la cosa come una grossa oppportunità, che poi è lo stesso argomento usato da lui in prima persona. “È un’occasione per fare qualcosa di importante”, ha detto. A me personalmente è venuto da ridere. 

Anzitutto perché Agnelli la scusa in assoluto più accreditata per qualsiasi gesto tacciabile di svendita anale: dai passaggi a major a, appunto, la collaborazione con un talent/reality show, in generale quando si inizia a collaborare con un’istituzione apparentemente antitetica al proprio percorso artistico, ma dotata di una grossissima cassa di risonanza. Poi perché finalmente tornava tutto: dai, non è tipo lo stesso ritornello che lui e la sua band provano a farci ascoltare da un sacco di tempo? Sta menata della grande opportunità di salvare la musica e con essa il mondo sta in bocca agli Afterhours da quasi vent'anni. Quello che abbiamo capito stavolta è solo che questa pretesa di resistenza può essere usata per giustificare praticamente qualsiasi cosa, e che sta unga battaglia in fondo gli è servita solo a restare in vita.

Del resto, gli Afterhours sono passati a una major praticamente due volte: una prima senza dirlo a nessuno, nel lontano 1997, attraverso la “finta indipendente” Mescal, e una seconda molto più ufficiale nel 2008, dopo lo stop di quest’ultima e il passaggio a Universal per I Milanesi Ammazzano Il Sabato. È invece da Padania che sono passati a una specie di autoproduzione col marchio Germi, facendo una specie di mossa alla Radiohead. Un avvicendamento e cambio di sponda che denota un rapporto quantomeno travagliato con il mercato, con la necessità di vendere dischi, ma anche con il bisogno esasperato di "fare cultura", nel senso fare sì che il proprio lavoro sia in qualche modo riconosciuto come tale.

Come quasi tutti, infatti, la band milanese era partita dal nulla, da un’autoproduzione e un’autorganizzazione che, a metà degli anni Ottanta, implicavano una vera e necessaria attitudine a sbattersi. Poi appunto è arrivata la Mescal e sono arrivati gli anni Novanta, quelli in cui in tutto il mondo la “musica alternativa” fioriva e iniziava a fruttare qualche soldo, persino in Italia. I mezzi di comunicazione andavano espandendosi e si coltivava collettivamente l’illusione che in un paese si potesse generare un mercato discografico che era anzitutto libero e accessibile, e in secondo luogo una grossa industria culturale. Con il passare del decennio, non solo la musica alternativa ma un po’ tutta la “cultura” alternativa si mise in testa la speranza che il rock, o meglio una forma di rock in qualche modo arty e "intelligente", stesse diventando mainstream. Era una roba che in realtà stava a metà tra l'underground vero e proprio e il pop, tra chi effettivamente si poneva il problema di costruire una alternativa alla cultura ufficiale e chi non si poneva questo problema. In questo limbo c'era per lo più chi si era scritto "vorrei un pensiero superficiale che renda la pelle splendida" sulla Smemoranda e aveva così risolto ogni tensione col mondo. 

Non so bene quanto ci fosse di egoistico in tutto ciò. Probabilmente molto più di quanto credessero i protagonisti, ma personalmente potrei quasi capire qualcuno che, dopo più di un decennio di monetine centellinate, inizia a gasarsi perché la musica gli pagava uno stipendio. Il problema sono stati semmai i toni messianici con cui quella generazione (quella che oltre agli Afterhours comprendeva uno spettro molto ampio che andava dai Subsonica agli Scisma, dai Marlene Kuntz ai Massimo Volume, dai 99 Posse ai riluttanti Disciplinatha) si era convinta di stare facendo la rivoluzione. In fondo si trattava di gente che era passata dall’underground senza la pretesa di stare facendo controcultura, ma nel momento in cui il loro percorso poteva trasformarsi in cultura ufficiale li si è visti gonfiarsi di una specie di "impegno civile", trasportando alcune abitudini movimentistiche introiettate in anni di centri sociali dentro una prospettiva molto più mainstream. 

La musica ovviamente seguiva su binari molto simili: pur rimanendo essenzialmente rock, non si faceva scrupolo di prendere il necessario da certi ambienti più sperimentali oltre che dal cantautorato e dalle avanguardie del passato, mescolando la verbosità italiana alle aperture che, appunto, in quel momento si dimostravano possibili grazie al progresso tecnologico e al maggiore interesse generale per tutto quanto era “alternativo”. Allo stesso tempo, si cercava un’accessibilità melodica che sintetizzasse la possibilità di essere musica “popolare”, quindi compresa da tutti oltre che comprata da tutti. Album come Non È Per Sempre degli Afterhours, e Che Cosa Vedi? dei Marlene Kuntz ne sono esempi perfetti. Nel frattempo, quello che rimaneva dell’underground iniziava a soffrirne, perché si affermava sempre di più la concezione che si potesse usarlo come trampolino per il successo, e come miniera da cui  estrarre e sfruttare il talento. Come era successo in America, il successo di alcune band creò una frattura insanabile.

Non a caso, quando al volgere del millennio e con l’avvento dell’mp3, il mercato discografico mondiale si trovò a non vendere più una mazza, e furono proprio le frange “alternative” del mercato ufficiale a farne le spese. Vedendo i loro sogni infranti, parallelamente a una cultura globale che insisteva a ripiegarsi sulla paranoia riciclata che abbiamo conosciuto negli ultimi quindici anni, quei non-più-ragazzi dovettero inventarsi qualcosa per “resistere”. Agnelli, fortemente impanicato, nel 2001 si inventò Tora! Tora!, un festival itinerante che doveva essere il nostro Loollapalooza. Una roba che, nelle sue stesse parole, doveva “far uscire dalle cantine” la musica alternativa italiana, con una prima edizione che raggruppava solo le band più in vista, andando progressivamente ad ampliarsi. 

Quello fu il primo capitolo di una serie di tentativi di fare quadrato, di costituire un movimento compatto. È la stessa battaglia che oggi, almeno a parole, lo ha portato verso X-Factor. Quello che oggi sembra abbastanza strano, è la miopia con cui Agnelli non si rese conto che la fisiologia stessa del mainstream che li aveva dapprima accolti e li stava ora masticando e preparandosi a sputarli fuori, non gli avrebbe permesso di tornare a galla in maniera così forzata. Il gusto mainstream stava cambiando, il pubblico anche, e soprattutto le forze del mercato esercitavano un’energia contraria che al fronte “alternativo” sarebbe stato difficile combattere. I mutamenti estetici ed etici stavano anche portando definizioni nuove: la generazione del rock alternativo stava facendo posto a una che avremmo abbastanza impropriamente definito “indie”. 

Diciamocelo, poi: era troppo facile scambiare il Tora! Tora! per una specie di mafia, una entità volta a decidere chi stava dentro e chi fuori. Agnelli in quegli anni appariva continuamente nei programmi televisivi notturni di MTV o in quelli di canali indipendenti come Match Music e Rock TV a discutere di rapporto tra musica, cultura e istituzioni in Italia, mostrando quella confusione di cui sopra: da una parte la professava disillusione e amarezza nei confronti dell’andazzo del paese, dall’altra tutti gli sforzi “movimentistici” di cui si faceva ambasciatore sembravano voler stare dentro il sistema a rivendicare qualcosa, pure se si era consapevoli di non avere più il peso sociale per farlo. Era come se, consapevole che la "musica alternativa" stesse perdendo il suo peso nel mercato, anziché cercare di solidificarla in un suo circuito autenticamente indipendente, si cercasse di farla stare a tutti i costi dentro il mainstream. Ovviamente un gioco del genere ha sempre finito per beneficiare solo chi aveva già i mezzi commerciali per stare un po' più a galla degli altri.

Le repliche sono state essenzialmente due, tutte aggiornate ai cambiamenti generazionali dell’Italia indie. La  prima fu Il Paese È Reale (2009), una compilation collettiva (dentro c’erano dagli Zu ai Marta Sui Tubi) e una serie di eventi, usati come giustificazione della loro partecipazione a Sanremo. La seconda Hai Paura Del Buio? del 2013, remake collettivo del loro classico album, supportato dalla defunta XL di Repubblica, a cui seguì l’ennesimo festival itinerante e multidisciplinare. Stavolta c'erano pure Antonio Rezza e Zerocalcare a dare una parvenza di eclettismo, e persino un "manifesto per far rinascere la cultura". Di replica in replica, però, l’idea di “movimento” si sfaldava sempre di più fino a rivelarsi palesemente per quello che era davvero: un tentativo di fare lobby e di raccogliere le briciole da parte di qualcuno che aveva annusato due lire e voleva tenersele. Per farlo occorreva restaurare una gerarchia nella quale Agnelli e gli Afterhours dovevano restare in cima a fare la figura dei gesucristi. Questo andava ovviamente di pari passo col distacco progressivo tra gli Afterhours e quello che stava succedendo DAVVERO nell’Italia musicale non emersa, che di certo non era ammessa alla loro corte se non tramite un paio di foglie di fico (tipo appunto gli Zu o gli OvO).

Più che “resistere” e dare battaglia culturale, queste iniziative sembravano tenere un atteggiamento ambiguo, a seconda di come convenisse metterla: collaborazione col mainstream e pesanti compromessi artistici, ma anche aperta polemica, senza che nessuna delle due mai davvero a trasformarsi in una presa di posizione netta. In entrambi i casi pareva che si volesse più che altro “rimproverare” al grande pubblico di non cagare più la “musica vera”, come se agli Afterhours e alle altre band spettasse un riconoscimento del rilievo culturale che si erano auto-attribuiti. Anziché riconoscere che nella competitività pop non c’era posto per chi non segue certe grammatiche, l’atteggiamento di Agnelli è sempre stato quello di cercare di forzare le regole della competizione in modo che ci fosse posto anche per lui e i suoi amichetti. Perché quella che loro fanno e facevano è "Cultura", ed è legittimata proprio in quanto "Cultura", con la C maiuscola. 

Attenzione: non "controcultura", giammai, e nemmeno "cultura underground" quello vorrebbe dire stare fuori dal sistema e magati attaccarlo. Il paradosso di Agnelli consiste invece nel vendersi come artisti che non si piegano al linguaggio pop ufficiale ma che vogliono essere riconosciuti dal sistema come "veri artisti". In realtà la loro musica è decisamente lontana dall'autonomia artistica che predicano, ed è da anni un guazzabuglio consolatorio che sta attenta a non smuoversi da quello che piace alla loro fetta di pubblico, ma la band è anche talmente incapace di attirarne di nuovo, che l'unica cosa che ha potuto fare per rimanere rilevante a livello mainstream (e tirare su due lire per campare) è fare gli eroi della resistenza culturale. Le poche idee nuove che li hanno sfiorati, ovviamente, vengono puntualmente succhiate e mutuate dall'underground. Una roba alla Umberto Eco della musica pop, per capirci... Per non farsi mancare niente ci hanno messo anche qualche abbellimento "impegnato" (tipo posizioni contro la mafia) che desse quella bella idea di "Cultura che salva il mondo" così solo perché è Cultura e la Cultura è sempre buona. Questo tanto per giustificare ancora di più la propria auto-attribuita "importanza". 

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Insomma: Agnelli ha passato anni a lagnarsi di come l’industria non si preoccupasse del “paese reale”, però pare proprio che questo paese non fosse sufficientemente reale per fare a meno dell’industria e comunque sopravvivere artisticamente. Questo comportamento, anziché permettere all’Italia underground di emergere, ha solo creato delle spaccature tra una parte dell’ambiente che sotto la maschera si comportava da elite e un’altra che ne era inevitabilmente lasciata fuori. Nell’anno di Hai Paura Del Buio Fest e delle dichiarazioni di Agnelli sul fatto che quel festival era una risposta al fatto che in Italia “non c’era più voglia di stare insieme”, chiunque sul territorio si stesse sbattendo in maniera DIY con tantissima fotta di stare insieme, a un livello molto più reale dei carrozzoni da lui proposti, rispose facendo del cul trombetta. Avoja a spiegargli che un festivalino coi soliti noti promosso da XL non vuol dire confrontarsi con sto benedetto “paese reale”. Pensate non lo sapesse? Sorvoliamo anche sul fatto che questa continua insistenza sull’italianità abbia chiuso innumerevoli porte in un periodo storico in cui internazionalizzarsi è sempre più facile.

Una delle cose di Agnelli che mi hanno sempre più snervato, comunque, è proprio il suo rapporto on le nuove generazioni. Ai tempi di “Sui Giovani D’Oggi Ci Scatarro Su”, Manuel appariva schifato da chi stava nel mezzo, da chi frequentava la scena alternativa per mero passatempo. Successivamente non si è fatto mancare la possibilità di scatarrare ancora sulle generazioni dopo la sua, rimproverandogli di nuovo il posizionamento incerto tra mainstream e underground, che si traduce in una specie di “non avete avuto le palle”. L’esempio più lampante sta alla fine del documentario sui Disciplinatha Questa Non È Un’Esercitazione: Agnelli fa una brevissima autocritica della sua generazione, ma soprattutto fa la paternale a quella successiva, che avrebbe “succhiato tutto il possibile dalle istituzioni” e che avrebbe reso l’ambiente indipendente “conservatore”.  

La faccia da culo è davvero impressionante: dopo anni passati a barcamenarsi tra major, Sanremo e carovane varie al servizio del proprio fondo pensione, Agnelli la mena ai giovani, senza pensare a quanto tutti i compromessi operati negli anni dagli artisti “maggiori” come lui avevano invece impoverito la scena. Se prima c’erano le Major a generare un’aspra competizione per il successo, grazie ad Agnelli si è generato un sistema in cui sono gli artisti stessi a puntare i gomiti gli uni sugli altri per stare a galla, fottendosene se si stanno facendo annegare tutti gli altri. L’Italia indie post-Afterhours è una roba innocua, uno pseudo-cantautorato chiacchierone e melenso che si sbrodola addosso ma punta ad arraffare le briciole che cadono dal tavolo. Abbastanza simbolico è il fatto che, nella riedizione di Hai Paura Del Buio?, a suonare in “Sui Giovani D’Oggi Ci Scatarro Su” siano proprio i Ministri, band-simbolo dell’indie italiano paraculo, conservatore e innocuo degli anni Duemila. A questo punto, se loro si salvano, su chi dovremmo scatarrare?

Neanche sui giovani che partecipano ai talent, pare. Oggi ci ritroviamo con un nuovo singolo ("Il Mio Popolo Si Fa") che pare volere sgravare a tutti i costi col noise rock (tutta farina del sacco di Xabier Iriondo, probabilmente) e non sarebbe manco male non fosse per la voce scollegata e tronfia e il testo pieno di banalità "politiche". Nel frattempo Agnelli starà lì a promuovere il nuovo album e nel frattempo fare “qualcosa di importante”, come se le dinamiche preimpostate dello show glielo permettessero davvero. Rimpiazzando Morgan e Elio nella veste macchiettistica di “strambo alternativo”, dotato anche di più presunta e malriposta street credibility rispetto agli altri due. Come al solito, la favola è che avremmo tutti da guadagnarci, ma c’è davvero ancora qualcuno che ci crede? Nemmeno quelli che ci hanno creduto finora, i fan duri e puri degli Afterhours che hanno seguito tutte le loro pantomime sulla rifondazione culturale. Si sono trovati finalmente davanti al fatto che, per tutti e venti gli anni che ci separano da "1.9.9.6." i loro eroi abbiano passato tutto questo tempo ad annaspare, in maniera piuttosto volgare.

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Un po' Avantguardia e un po' medievo

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Ormai si inizia a intravedere la fine del percorso musicale che ha composto Perigeo, la seconda compilation di Avantguardia. La scorsa settimana ci siamo fatti spiegare da Ok Rocco alcuni dei segreti che si nascondono dietro l'eterogeneità delle visioni che compongono la parte visual di questo progetto e, di tutta risposta, questa settimana vi presentiamo due video di Pepsy Romanoff che analizzano un versante completamente diverso rispetto a quello astratto e tecnologico, ma assolutamente coerente con la visione comune del progetto.

Il motivo per cui, a questo giro, Avantguardia si ritrova catapultata nel medioevo, è il brano "Ex Eremo Celsus" di Denny The Cool che, proprio come tutti i ragazzi cool del liceo, è un grande appassionato di storia medievale.

"'Ex eremo celsus è un motto latino che tradotto signifa: "Innalzato dall'eremo'', è il termine con cui Malachia Di Armagh (un vescovo irlandese, vissuto nel XII Secolo) indicò Papa Celestino V, all'interno di un testo di profezie che conteneva 111 brevi motti in latino volti a descrivere i papi che sarebbero venuti venire a partire dall'anno 1143, fino alla alla presunta fine dei tempi.
"Eremo" in questo caso è inteso come eremitaggio ed siccome riesco a rivedermi in questa idea di solitudine ho chiamato il brano così, perché la musica mi permette di interagire attraverso altri canali con le persone. È come se la musica fosse l'unica cosa che mi "innalza dall'eremo" e mi permette di allontanarmi dalla solitudine.
"

Denny, che è un beatmaker sardo che ha già lavorato, oltre che con la crew Machete (da Enigma a Salmo) anche con Marracash, è entrato in contatto con Shablo, prima che con Avantguardia: "È avvenuto tutto in maniera molto semplice, mi era capitato di fare i complimenti a Shablo per un suo video, uno dei primi che erano usciti sulla compila di Apogeo. Mi piaceva l'idea della musica in primo piano parallelamente al video, senza l'ausilio della voce, una cosa diversa anche per esprimere la musica 
in maniera più personale dal punto di vista del producer. Dopodiché mi spiegò che era per un progetto musicale diverso dal solito e mi chiese se volevo collaborare per il secondo volume, Perigeo appunto.
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Ah Damn aka Adam Felski è toscano e nella vita lavora come videomaker, grafico, musicista, PR e tutte quelle altre cose che alla fine alle altre persone dici sono un creativo. Abita in Toscana e da sempre cura la parte visual di eventi e feste nei club con lo pseudonimo di Feelo.

Nel corso del tempo ha iniziato a portare in giro un progetto musicale che si chiama Zebra Crossing, curato insieme all'amico Scarfee. Il suo dj set Dope Music gli è valso di condividere la console con gente tipo Salmo, Natlek, Elisa Bee, Milangeles (tutti nomi che su Noisey avrete sicuramente già sentito nominare) e anche la residenza al Ultra Twist, in quel di Lucca. Nel 2016 ha iniziato a produrre e fare i suoi esperimenti che gli sono valsi uno spot nel roster di Avantguardia e uno dei video più instrospettivi tra quelli prodotti da Pepsy Romanoff. Il suo progetto Ah Damn punta al live, inteso sia come jam session che come esibizione solista e in questo senso è valsa molto l'amicizia con Fricat (altra conoscenza, sia di Avantguardia che di Noisey).

 

Continueremo a seguire i progetti di Avantguardia nelle prossime settimane, dopo una piccola pausa, ma nel frattempo tu segui la loro pagina su Facebook, Twitter e Instagram

Sound Of Cobra ha fatto uscire una compilation pro-rifugiati e migranti

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Sound Of Cobra è una label italo-berlinese che abbiamo in tante occasioni apprezzato e sostenuto, perché sempre portatrice di bei rumori psichedelici e nuovi mondi drogati. Claudio Rocchetti invece è una delle menti sperimentali migliori d'Italia, che altrettanto sosteniamo. A maggior ragione ora che assieme hanno assemblato un team da paura con dentro nomi importanti dell'underground sperimentale sia italiano che europeo che oltre, e sprattutto che lo ha fatto per dare un contributo (sia econdomico che di sensibilizzazione) alla causa dei rifugiati e dei migranti. Senza troppa retorica: dentro The Promise Of Arrival ci sono un mucchio di artisti che si sono messi assieme per prendere posizione contro la direzione xenofoba e paranoica che l'Europa sta prendendo, per promuovere la solidarietà e l'eguaglianza oltre i populismi spiccioli, con fatti concreti oltre che con i contenuti liberatori e radicali dalla loro musica. Il livello di emergenza è alto, e stare a guardare mentre c'è chi vede negato il proprio diritto di fuggire dalla morte, dalla distruzione o semplicemente dalla fame, non è un'opzione.

I cinque (o più) euro che darete per scaricarvi da Bandcamp questi dieci brani , tra cui ci sono contributi di John Duncan, FM Einheit, Lawrence English Rabih Beaini e Zu andranno infatti a sostenere le seguenti organizzazioni:  International Committee Of The Red CrossMigrant Offshore Aid StationRefugee CouncilAsylum Seeker Resource Center e City Of Sanctuary. Comprarla è un piccolo gesto, ma ovviamente dotato di parecchio significato. In cambio avete dieci pezzi di musica della madonna. In un periodo storico in cui ci sono ragazzi che vengono arrestati per aver voluto mantenere aperta la frontiera del Brennero contro chi voleva bloccare il passaggio, ci pare davvero un contributo che siamo felici di dare.

 

Qualcuno ha creato le carte Pokémon del grime: le Grimémon

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Ricordate quando eravate bambini e non c'era sensazione più magnifica dello scartare un pacchetto di carte Pokémon in mezzo ai compagni di classe, solo per il gusto di vederli impazzire di invidia allo scintillio di Charizard alla luce del sole? A inizio settimana Skepta &co hanno dato fuoco al KOKO con la sola forza delle loro barre e be', qualche genio di Brighton chiamato Ben Gore ha deciso di fondere queste due fonti di gioia in una sola (il grime e le carte Pokémon) e dare vita a ciò che l'umanità stava aspettando sin dal lontano 2002: le carte Grimémon. (O, almeno come dovrebbero apparire.)

Naturalmente non è la prima volta che l'universo Pokémon e quello del grime collidono. Il vegano preferito di BBK, JME, si è già da tempo mostrato fan delle magiche creature, tramite proprio un video a tema, od offrendo ai fan la versione in vinile dorato del suo album Integrity in cambio di un Charizard dorato, per l'appunto. Ha anche rilasciato una rara intervista al canale ufficiale dei Pokémon a inizio di quest'anno, dove ha parlato per oltre due minuti consecutivi di quanto siano belli.

Con queste premesse, siamo abbastanza certi che rimarrà estasiato dal sapere che la sua faccia è stata da poco reimmaginata come carta Pokémon. Il set completo vede anche Wiley come Meowth, Big Narstie come Snorlax, Tempa T come Geodude, Ghetts - Abra, Section Boyz - Exeggcute, Newham Generals come due Dugtrios, e Skepta come Hitmonchan. Secondo Crack Magazine, queste illustrazioni sono solo un assaggio, e Gore ha ribadito che il mese prossimo uscirà la serie completa di venti carte. 

Date un'occhiata alle carte Grimémon qua sotto, e cliccate qui per farvi un giro nel blog di Ben Gore. E sì, saranno in vendita in un futuro molto prossimo nello stores di Blue Monday.

You can follow Daisy on Twitter.

 

 

Fermi tutti! Si riuniscono i veri Misfits!

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E l'Inferno ghiacciò. I Misfits—i veri Misfits—si riuniscono. 

A settembre Glenn Danzig, Jerry Only e Doyle Wolfgang Von Frankenstein torneranno insieme su un palco per la prima volta dopo trentanni come headliner del Riot Fest nelle date di Denver e Chicago. 

Ci sono state un sacco di quasi-riunion da quando i Misfits si sono sciolti nel 1983. Doyle e Only hanno portato avanti la band per anni dopo l'abbandono di Danzig per perseguire la propria carriera solista e formare i Samhain. Danzig e Doyle hanno fatto alcuni concerti nel 2004 e il Legacy Tour nel 2009. Ma i tre membri non erano mai stati in grado di superare le loro insormontabili differenze per unire le forze su un palco e far rivivere quella connessione inimitabile che li ha resi delle leggende nei tardi anni Settanta. Inoltre le cause legali e dispute ancora in corso tra di loro sul copyright e la vendita di merch non sono mai state d'aiuto; sembrava destino che una reunion non ci sarebbe mai stata. E oggi eccoci qui.

“È stato un processo totalmente naturale", ha detto l'organizzatore del Riot Fest Mike Petryshyn delle trattative per il booking, cosa che sembra difficile da credere. "A essere sincero, credo di non essermi ancora reso conto veramente del fatto che avverrà questa cosa, perché è sempre stato un nostro sogno nel cassetto, come per ogni fan dei Misfits. Non vedo l'ora di trovarmi a cantare insieme al resto del pubblico."

I Misfits hanno anche annunciato l'uscita di un EP intitolato Friday the 13th, con quattro canzoni scritte da Jerry Only. Pare che questa storia incredibile non finisca qua.

Ad ogni modo, se avete un po' di soldi da parte forse è il caso di comprarsi una vasca di gel per capelli, un abbonamento in palestra e dei biglietti per il Riot Fest. Riot Fest sarà a Denver dal 2 al 4 settembre e a Chicago dal 16 al 18 settembre.

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