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Un algoritmo ha reso ogni melodia della storia della musica di pubblico dominio

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Due programmatori-musicisti hanno generato ogni melodia possibile e l'hanno salvata in MIDI in un disco rigido, ne hanno depositato il copyright, e poi hanno rilasciato il tutto al pubblico con l'obiettivo di impedire le cause contro i musicisti.

Il programmatore, musicista e avvocato specializzato in diritto d'autore Damien Riehl e il musicista/programmatore Noah Rubin hanno voluto mettere un freno alle cause per violazione del copyright che secondo loro tarpano le ali alla creatività degli artisti.

Spesso basta che l'artista abbia avuto la possibilità di ascoltare anche soltanto una volta la canzone che è accusato di aver copiato perché venga accusato di aver riprodotto "inconsciamente" la melodia protetta da copyright. Uno dei più noti esempi di ciò è la causa intentata da Tom Petty contro "Stay With Me" di Sam Smith, che secondo il cantautore suonava troppo simile alla sua "I Won't Back Down". Smith si è ritrovato a dover inserire il nome di Petty tra gli autori della sua hit, dovendo quindi dividere con lui i proventi di un pezzo che ha scalato le classifiche.

Difendersi in una causa come quella può costare milioni in spese legali e la riuscita non è mai sicura. Riehl e Rubin sperano che, rendendo pubbliche le melodie, riusciranno a impedire che questo tipo di casi arrivino in tribunale.

In una recente conferenza sul progetto, Riehl ha spiegato che per ottenere il database hanno calcolato ogni melodia possibile all'interno di un'ottava.

Per determinare la natura finita delle melodie, Riehl e Rubin hanno sviluppato un algoritmo che ha registrato ogni combinazione melodica possibile di 8 note e 12 battute. Hanno usato la stessa tattica base che molti hacker usano per indovinare una password: calcolare ogni possibile combinazione di note finché non ne rimane neanche una. Riehl dice che questo algoritmo lavora al ritmo di 300 mila melodie al secondo.

Una volta che un lavoro viene immortalato in un formato tangibile, il suo copyright è automaticamente considerato registrato. Ma, in formato MIDI, le note sono soltanto numeri.

"Per la legislazione sul copyright, i numeri sono dati di fatto, e, per la legislazione sul copyright, i dati di fatto e le informazioni hanno poco copyright, quasi nessun copyright o proprio nessun copyright", Riehl ha spiegato nella conferenza. "Quindi forse, se questi numeri esistono da sempre e li stiamo soltanto estraendo, forse le melodie sono soltanto una questione matematica, quindi dati di fatto, quindi non soggette a copyright".

Tutte le melodie che hanno generato e il codice dell'algoritmo sono disponibili come materiali open-source su Github, mentre i dataset si trovano su Internet Archive.

Il sito del progetto riporta che Rubin e Riehl hanno pubblicato le melodie con una licenza Creative Commons Zero, che significa che hanno "nessun diritto riservato". In pratica, questo significa che funzionano come le opere di pubblico dominio, anche se alcuni avvocati non sono d'accordo a inserirle ufficialmente nel pubblico dominio. Un'opera è considerata "di dominio pubblico" se è un'opera del governo o se il suo copyright è scaduto, cosa che accade svariati decenni dopo la sua pubblicazione. La licenza Creative Commons Zero è la cosa più simile a pubblicare per il pubblico dominio che un artista può fare senza aspettare che scada il copyright (per saperne di più, vai sul sito di Creative Commons).

Se questa azione si potrà effettivamente impugnare in tribunale resta da vedere. La legge sulla proprietà intellettuale è complicata e spesso assurda. È difficile prevedere se un giudice sarà disposto a considerare Riehl autore di una melodia diffusa da un altro artista. Ma comunque, lui è ottimista e il progetto è fico.

"Le cause sulla pura melodia forse sono finite", ha detto Riehl. "Forse saranno tutte respinte".

Questo articolo è stato pubblicato in origine su VICE US.

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Kina è il musicista campano più famoso del mondo, anche se non lo conosci

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Kina era a casa sua ad Acerra con i suoi amici a giocare all'Xbox quando ha visto una notifica comparire sul suo telefono. "Ho l'abitudine di tenerlo sempre di fronte", dice. "Era Gmail, vado e leggo 'Columbia Records'. Mi dico, 'Ma potrà mai essere la Columbia Records?'"

Sì, era davvero la Columbia Records. Il giorno dopo, sempre con una mail, erano arrivate anche Atlantic, Island ed Elektra. Tutte le grandi major americane avevano mandato una mail a un ragazzo di 18 anni nato e cresciuto in una cittadina in provincia di Napoli dimenticata dal mondo. È che aveva fatto una canzone che si chiama "Get You The Moon".

Kina era a casa sua ad Acerra con i suoi amici a giocare all'Xbox quando ha visto una notifica comparire sul suo telefono. Era la Columbia Records.

Al momento quel pezzo ha 160 milioni di views su YouTube e 294 milioni di riproduzioni su Spotify. È un pezzo lento e semplice: tre note di chitarra tutte malinconiche, un finto crack di vinile, un beat chill, una melodia vocale dolce, un testo pieno d'amore: "Sei il motivo per cui continuo a tenere duro / Sei il motivo per cui la mia testa è ancora sopra la superficie dell'acqua."

"Quando mi hanno chiamato aveva 20 milioni di play su Spotify", mi spiega Kina. "Io non l'avevo mai mandata a nessun editor, ma da quando l'hanno messa nelle playlist è cominciato il casino."

kina get you the moon

Acerra, il luogo dove è nato, è una delle punte del "Triangolo della morte"—che non è una descrizione sensazionalistica ma il termine usato da una rivista scientifica per descrivere un'area vicino a Napoli dove la gente prende il cancro con molta facilità. È più o meno da trent'anni che da quelle parti la camorra seppellisce o dà fuoco illegalmente a rifiuti tossici, copertoni e cavi elettrici. La chiamano "la terra dei fuochi". "È un problema che ci affligge da troppo tempo e a cui non sembra esserci soluzione", spiega Kina, che lì è nato nel 1999.

"Sembra brutto dirlo, ma almeno crescere lì ti fa iniziare a pensare di dover fare qualcosa per andartene. È un posto dove si muore." La sua infanzia non è molto diversa da quella di centinaia di altri ragazzi della sua generazione: esce con gli amici, gioca a calcio, va alle feste di paese con "il concertino dell'Anna Tatangelo di turno. Però il comune sta riuscendo a fare manovre per aiutare la cultura e l'intrattenimento. Sono molto contento, la situazione sta cambiando. Le persone stanno aprendo gli occhi."

"Sembra brutto dirlo, ma almeno crescere lì ti fa iniziare a pensare di dover fare qualcosa per andartene. È un posto dove si muore."

A tirarlo fuori dalla musica neomelodica è stata la radio. Aveva sette, otto anni e sentì uno speaker di M2O parlare di produzione musicale ("Molella, se ricordo bene"). Gli piaceva stare al computer, voleva diventare programmatore, e quindi l'idea di fare musica senza dover toccare uno strumento gli accese qualcosa dentro—" quando ho cominciato a fare musica, in paese eravamo in cinque su sessantamila a sapere di cosa si trattava quando si parlava di kick e snare", spiega.

Le prime cose che ascolta e prova a rifare su FL Studio ("È molto intuitivo, soprattutto per fare trap") sono electro house e progressive house. Segue i tutorial su YouTube e impara, e stando tanto al computer impara anche l'inglese. Si apre un profilo SoundCloud e comincia a caricarci i primi pezzi.

"Fare electro house richiede un maggior lavoro rispetto a quello che faccio oggi," racconta, "ci sono tantissime automazioni, tantissima melodica. Ma ho imparato tantissime cose che oggi mi tornano molto utili. Solo che quei progetti, a cui pensavo seriamente, raggiungevano in media 500 ascolti a traccia. Dopo svariate tracce, andate tutte male, ho deciso di chiuderli."

kina get you the moon

Un altro motivo per il cambio di rotta, mi dice, è un momento di difficoltà nei suoi rapporti personali. È un particolare minore della sua vita su cui mi chiede di non andare nel dettaglio, ma dice qualcosa sul motivo per cui la sua musica suona come suona, e del perché chi ha vent'anni oggi ascolta un certo tipo di cose.

L'idea dei traditori, degli invidiosi, degli hater—di chi giudica, insomma—pervade il rap anche perché poi da lì trova fessure della realtà in cui infilarsi. In assenza di amore, quando ti tiri su le calze perché hai paura che arrivino le serpi a morderti le caviglie, che cosa resta? Il freddo del cloud rap, il gelo della monotonia alla Drake, la violenza della trap. Oppure, dall'altro lato dello spettro, il calore confortevole di un beat rilassante e malinconico.

Ecco, Kina fa entrambe le cose. Il nome lo sceglie perché glielo suggerisce un amico, vuole fare dei type beat trap perché ha scoperto A$AP Rocky e Travis Scott e li ascolta "facendo viaggi mentali". È il 2017, ma prima di appassionarsi alla scena italiana guarda agli Stati Uniti. E poi arriva un periodo particolare della sua vita.

"Sai la sensazione di stare facendo quello che non vuoi fare? Non avevo creato Kina per quello."

"Sai la sensazione di stare facendo quello che non vuoi fare? Non avevo creato Kina per quello", spiega. "Lì ho deciso che la situazione doveva cambiare. Dovevo dare passione e basta, non me ne fregava nulla di ricevere feedback, volevo sfogarmi. Quindi ho cominciato a pubblicare le tracce Kina Mood." Le chiama così, le cose che fa.

Quando gli chiedo da dove viene la malinconia che pervade la sua musica, lui si chiude. "Sono successe un paio di cose esterne alla musica che mi hanno fatto sentire così. Cose private però." E ci sta di non andare a scavare troppo, perché Kina è in fondo un modello di musicista in bilico tra fama e anonimato. Quello del lo-fi hip-hop, semplificando, anche se non è quello che lui sente di stare facendo.

Fatto sta, che le sue produzioni si fanno sempre più tristi. E un giorno incappa in shiloh dynasty, una ragazza che ha avuto un'influenza tanto involontaria quanto enorme sul suono della musica contemporanea—e si è spaventata, ed è scomparsa, e si merita una piccola digressione.

kina get you the moon

Shiloh non faceva altro che mettere su Vine, Instagram, Twitter e Facebook dei brevi video di lei che cantava, voce e chitarra. Non si faceva vedere in faccia, aveva il velluto in gola e cantava di amori andati che andavano piuttosto male. Strofette interrotte, quindici secondi, pillole dolci.

Quei video e quei pezzi non sono da nessuna parte. Non sono su una piattaforma di streaming, su un sito, in un disco—esistono per la piattaforma in cui sono stati caricati, proprio come gli articoli di musica oggi. E se per quelli più vecchi di Kina sarebbero solo "post su Instagram", per quelli della sua generazione invece sono la cosa. La canzone, l'articolo.

Cose piccole e tristi, fruibili e istantanee. Un post con scritto "Non sono un'immagine, sono un'emozione" e centinaia di migliaia di like, commenti, ascolti. A farli erano anche ragazzi e ragazze che producevano lo-fi hip-hop, e cominciarono a campionarla. Un giorno uno di quelli, potsu, diede un beat con la voce di Shiloh a XXXTentacion, cioè il rapper più famoso della sua generazione.

Quello che venne fuori, "Jocelyn Flores", sarebbe potuto essere l'inizio della carriera di Shiloh. Un pezzo assurdamente famoso, simbolo di un nuovo modo di fare rap per pubblici enormi—ibrido, triste, distorto, strambo. E invece lei decise di scomparire. È da quattro anni che non posta più niente.

A tenere vivo il suo nome è una generazione di producer che hanno reso la sua voce la colonna portante dei loro beat, ascoltati milioni e milioni di volte. Tra loro c'è anche Kina, che con la voce di Shiloh ci ha fatto il suo primo pezzo, "Nobody Cares." La trovò in una compilation di Vine caricata su YouTube e, come tanti altri ragazzi come lui, ci fece una canzone. "Non me lo posso mai dimenticare," mi dice, "Per me è la colonna portante di Kina."

E, sempre come tanti, Kina carica il pezzo su SoundCloud e lo manda a canali YouTube che funzionano da megafono per brani come i suoi. Uno, the bootleg boy, gli risponde che l'avrebbe postata. "E non si inizia a capire più nulla," ricorda Kina. "Quel canale postava ogni giorno un video con una traccia, quando arrivò 'Nobody Cares' fece in tre giorni più views di un video che aveva postato una settimana prima. Cominciai a fare altre tracce, le mandavo a lui, le caricava e le promuoveva."

TheBootlegBoy continua a caricare i pezzi di Kina, e pian piano ne arrivano altri a bussare alla sua porta: nourish. e ChilledCow, il canale celebre per lo stream lofi hip hop radio - beats to relax/study to. "Facevo tutto con sample che mettevo in loop, magari mi partiva una traccia in shuffle su Spotify e li prendevo da lì" spiega Kina. "Non facevo musica a scopo. dilucro, quindi per me era come fare un mixtape." Sa che lavorare con i sample è "potente" per un produttore, è "una cosa che non va sottovalutata." Cita un'intervista di !LLMIND da cui ha capito che "ci vuole abilità a crearti un'identità con suoni non tuoi."

"Spotify si è accorto di 'Get You The Moon' e ha iniziato a metterla in playlist. Là è successo il casino. Quando mi ha contattato Columbia era a 20 milioni."

E poi arriva il pezzo che cambia tutto, "Get You The Moon". La canta un ragazzo americano, Snøw, che Kina ha conosciuto "su Instagram a caso. Avevo trovato delle sue cover su YouTube e gli avevo chiesto di lavorare insieme. Sulle lyrics ha fatto tutto lui, anche se abbiamo lavorato insieme." Allora non sapeva che insieme a lui avrebbe fatto un disco d'oro e cominciato una nuova vita.

Ragionare sul successo di "Get You The Moon" è come chiedersi perché certa arte contemporanea sia famosa e altra no. Perché un quadro tutto bianco della persona x è famosa e quello tutto rosso della persona y no? Perché uno ha qualcosa e l'altro no. "L'ho fatta normalmente", dice Kina quando gli chiedo se ha mai pensato al motivo per cui quel pezzo ha cominciato da subito a fare milioni di views.

"Me lo sono sempre chiesto, però la risposta non la so," mi dice. "Io ho fatto una cosa da semplice beatmaker, mandare una traccia a un canale." La traccia comincia a salire, e lui la mette su Spotify da solo. "Io non ho mai mandato la traccia a nessun editor, andava da sola grazie al flusso di canali YouTube che la pubblicavano. Poi Spotify se n'è accorto e ha iniziato a metterla in playlist. Là è successo il casino. Quando mi ha contattato Columbia era a 20 milioni."

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L'artwork di "Get You The Moon" di Kina, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

E qua torniamo a quella partita all'XBox e a quel messaggio. "Stacco tutto, mi prendo qualche ora per riflettere a quello che stava succedendo in quel momento. Poi il giorno dopo, oltre a Columbia, mi contatta Atlantic Records. E poi Island Records. E poi Elektra Records. Mi sono trovato in un loop, sono arrivate tutte le major."

Kina mi dice di avere parlato con tutte, organizzando delle call completamente da solo. I suoi genitori non avevano idea di quello che gli stava succedendo: "I miei sono una famiglia nata da contadini, come molte altre ad Acerra. Mio padre in quel periodo aveva perso il lavoro, mia madre faceva la casalinga. Io gli vado a dire questa cosa e loro non capiscono... come gli fai a spiegare che ti vuole un'etichetta?"

Chiedo a Kina se è stato difficile quindi, scegliere a chi affidare la sua musica. Lui sembra invece piuttosto sicuro di sé: "A diciott'anni comunque le major le conosci. Mentre sentivo gli americani volevo capire che progetti avevano in testa. Sono andato a vedere i loro roster, e Columbia ha degli artisti che per me erano il top del top. Pharrell, Harry Styles... nomi che ti saltano all'occhio."

"Mio padre in quel periodo aveva perso il lavoro, mia madre faceva la casalinga. Io gli vado a dire questa cosa e loro non capiscono... come gli fai a spiegare che ti vuole un'etichetta?"

A convincere Kina è stato anche il rapporto con una A&R, Maria: "Avevamo le stesse idee. Non volevamo un contratto che si basasse solo su 'Get You The Moon', ma che mi facesse diventare un artista Columbia a tutti gli effetti." Mi parla dell'aiuto morale e pratico ricevuto da suo cognato, sua sorella, un suo amico di scuola. E poi da Paola Zukar, che diventa la sua manager—"Una manna dal cielo", la descrive.

"Ci siamo incrociati grazie a una conoscenza comune, e non appena ha sentito la mia storia e la mia musica... sappiamo quello che ha fatto per il rap in Italia", continua. "Le piacciono le nuove avventure. Sarebbe bello facesse la stessa cosa con la musica chill, lo-fi. Trovare 'sta big picture." Insieme a lei, e alla sua famiglia, Kina è poi andato a toccare con mano quello che aveva creato. È andato a New York a firmare il suo contratto e lavorare in uno studio.

"Mi hanno fatto firmare alla parete, ho firmato sotto Russ. Una firma proprio bruttissima", scherza. Ha passato una settimana in studio a lavorare con artisti americani, "ad apprendere il loro modo di lavoro," spiega. "Sono molto collaborativi, vogliono uscire dalla stanza con le hit chiuse. Nessuno voleva fare tutto da solo. Ho conosciuto questo ragazzo, Doc Daniel, che fa le basi a Pink Sweat$. Ho lavorato con Jenna Andrews, che scrive i testi a Noah Cyrus."

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Ha avuto anche un po' di paura, Kina, che prima di allora non aveva mai collaborato di persona con professionisti. Anche la ragazza con cui ha scritto la sua ultima hit, "Can We Kiss Forever?", è una ragazza spagnola conosciuta su Instagram. Uscita dopo "Get You The Moon", inizialmente sembrava non riuscire a ripeterne il successo: "Non ha spaccato, aveva circa 30 milioni", racconta Kina, "e poi è arrivato TikTok.

Il ruolo di TikTok nel creare successi è ormai appurato—chiedere a Lil Nas X, o per restare nel nostro paese ad Anna—e nel caso di Kina, ha preso forma delle mani di una coppia che fanno un cuore, e poi si allontanano piano piano mentre la voce di Adriana, tutta modificata, canta una malinconia senza parole. C'è una compilation di challenge così con 4,5 milioni di views, per intenderci.

Questo dice, come già era chiaro dal 2016, che la nostra è un'era di musica triste e confortevole, anestetizzante. È il "pop pivot to melancholy", come lo ha descritto Cat Zhang di Pitchfork. E che di fronte a numeri come quelli di Kina, le major hanno cominciato a cercare di capitalizzare il movimento sentimentale che spinge migliaia di ragazzi e ragazze come lui a fare beat scuri, a campionare chitarre, a pitcharsi la voce.

"All'inizio eravamo una nicchia, ma una volta che arrivano certi numeri è impossibile ignorarci."

"All'inizio eravamo una nicchia, ma una volta che arrivano certi numeri è impossibile ignorarci", dice Kina. "Ti stai comprando una fetta del mercato, un movimento che non combacia con i generi che vanno adesso. Solo ora si stanno iniziando ad unire, rapper che basano su basi lo-fi. Pensa a powfu, l'ultimo firmato da Columbia. La sua 'death bed' sta andando benissimo."

Ed è un esempio perfetto: un rapper americano che usa un beat che campiona un pezzo acustico tenerello di una ragazza londinese diventato virale. E ora, entrambi sono musicisti firmati. Basta navigare tra le loro pagine Spotify, interconnesse dai featuring e dai consigli della piattaforma, per rendersi conto di quanti nomi che il grande pubblico non conosce stia facendo dei numeri clamorosi.

Perché in fondo il bello sta proprio nelle opportunità che questi ragazzi e ragazze si trovano in mano. Fanno una cosetta in camera, diventano enormi. Si possono trasferire a Lisbona, prendersi un appartamento e fare le ore piccole a produrre—come Kina. "Ho scelto di andare via di casa, di venire qua per crescere come artista e come persona. E poi qua, dato che produco principalmente di notte, non disturbo la zia o il vicino."

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I canali YouTube musicali da seguire ora che siete tutti chiusi in casa

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Sull'internet che parla di cultura, in questo momento, ci sono un sacco di liste di consigli di cose da ascoltare e guardare per passare il tempo in tempi di coronavirus. Ci mettiamo anche noi: ecco dei canali YouTube da seguire che parlano di musica.

Sono in inglese, ma non è un inglese difficile. E alcuni hanno anche i sottotitoli. In italiano non ce ne sono perché lo YouTube italiano è fatto perlopiù di scherzoni, reazioni e video gag. Questi invece sono mini-documentari, articoli in forma visiva, cose curiose e belle.

Diary of a Song

Joe Coscarelli del New York Times è un gallo. Sta a casa, chiama su FaceTime le popstar e tutte le persone che lavorano con loro—produttori, manager, chiunque—e si fa raccontare nel dettaglio come sono nate le loro hit. Così si scoprono versioni alternative, demo, segreti. E pure come funziona il mondo della musica oggi. La seria si chiama Diary of a Song.

Tipo, com'è che Lil Tecca, un rapper sedicenne come molti altri, fa una hit internazionale? Com'è venuta fuori "Mo Bamba" di Sheck Wes? Perché "Old Town Road" di Lil Nas X si è presa TikTok e poi tutto il mondo? Come fa un'adolescente australiana che suona per strada a diventare famosa in tutto il mondo? Ecco, ora potete saperlo. Ma ci sono anche cose più ricercate come Bon Iver, FKA twigs e Kacey Musgraves, se volete.

Earworm

Quelli di Vox fanno i migliori mini-documentari di YouTube, e magari in Italia ci fosse qualcuno come loro. La loro serie Earworm parla di musica ed è una bomba sia che siate invasati con il rap sia che vi interessi sapere com'è che quella melodia di violoncello iperfamosa è diventata iperfamosa.

Il bello di Earworm è che spiega un sacco di cose che ascoltando le tracce e basta non sapremmo mai. Tipo, da dove vengono fuori tutte le stranezze di ASTROWORLD di Travis Scott? Perché il modo in cui Kanye West usa la voce è unico al mondo? Com'è che i rapper di tutto il mondo si sono messi a rappare come i Migos?

Oppure, uscendo dal rap, qual è il rapporto tra heavy metal, Satana e censura? Qual è la canzone jazz più difficile di sempre e perché? Come mai certi dischi che suonano da schifo sono considerati capolavori della musica occidentale?

TheNeedleDrop

anthony fantano
Screenshot dalla recensione di Eternal Atake di Lil Uzi Vert di TheNeedleDrop, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Anthony Fantano, "the busiest music nerd", fa recensioni di dischi da anni e non è un iperbole dire che è ormai diventato lo YouTuber musicale più influente degli Stati Uniti. È autorevole su qualsiasi genere musicale, sa intrattenere e non si fa problemi a dare voti brutti se le cose non gli piacciono. Proprio i voti brutti sono la base per la sua serie più divertente, cioè "NOT GOOD", una serie di recensioni in cui spiega in modo semplice e chiaro perché certe cose non gli piacciono.

Non so se lo avete notato, ma in Italia facciamo molta fatica a dire che certe cose sono brutte se il nostro pubblico di riferimento le adora. Tipo, dire che il nuovo album di Travis Scott fa schifo, per la nostra audience, è una bestemmia. Ecco, allora è bello imparare da Anthony come si fa a criticare artisti come XXXTentacion, Lil Peep, Logic, Future e Post Malone.

Rap Critic

Il Rap Critic è un ragazzo che carica video in cui recensisce canzoni rap americane da tutte le ere. La cosa che lo rende particolare è che dà molta attenzione ai testi—fa partire il brano, lo ferma, commenta quello che ha sentito. E dato che spesso i rapper dicono stronzate, lui li demolisce e ti fa spaccare dal ridere.

Consigliamo in particolare i suoi video sui peggiori testi dei vari mesi e anni, così da poterci accorgere tutti che Juice WRLD farà anche delle melodie pazzesche ma sentirlo cantare "eri fatta di plastica, fake" è solo terribile. Fanno molto ridere anche la sua recensione di "Bad And Boujee" dei Migos e quella di "Panda" di Desiigner. Ma ci sono anche momenti estremamente seri e pieni di contenuto, come la recensione di "The Story Of O.J." di JAY-Z.

Sound Field

È un canale in cui due ragazzi che insegnano musica, LA Buckner e Nahre Sol, parlano di grandi temi della musica e ti fanno capire perché le cose che ascoltiamo suonano come suonano. Per dire, vi siete mai chiesti dove cacchio è finita la dubstep, dato che fino a cinque anni fa Skrillex sembrava essere ovunque? O avete mai capito veramente chi ha inventato la trap e quando? O avete mai provato a capire che cos'hanno in comune le canzoni che hanno successo? Ecco, ora avete delle risposte.

Polyphonic

C'è questa cosa molto bella che c'è in giro per il mondo e in Italia però non la fa nessuno, probabilmente perché le nostre leggi sul copyright digitale sono molto più stringenti che nei paesi angolofoni. Sono i video essay, cioè degli articoli che portano avanti una tesi però in video, quindi con anche parti musicali, animazioni, cose decisamente più adatte ai nostri tempi che lunghi paragrafi di testo.

Ecco, Polyphonic è il migliore a farli. Qua sopra ci spiega come il concetto di "album" è nato (spoiler: da Frank Sinatra), ci spiega alla perfezione il rap assurdo di Aesop Rock, oppure perché "Billie Jean" di Michael Jackson è un classico. Ci racconta com'è che Childish Gambino è diventato super famoso a sorpresa, perché Nina Simone è l'arma segreta dell'hip-hop, perché i video musicali di Michel Gondry sono capolavori.

Trash Theory

Non ve ne frega niente del rap? Allora guardatevi un po' dei video di Trash Theory, in cui si parla molto di cose con le chitarre. Ci sono un sacco di ragionamenti sul punk, sull'alternative rock, sul metal, sull'indie rock e tutte quelle cose lì.

E sono questioni che effettivamente, se ci pensate, ci sta di porre. Tipo, perché nel pop punk tutti continuano a dire che la loro città gli fa schifo? E chi ha vinto veramente la battaglia del britpop tra gli Oasis e i Blur? Com'è che è nato l'alternative rock? E così via.

Noisey

Questa è l'occasione buona per riguardarsi un po' dei video che hanno fatto la storia di Noisey, girati dai nostri colleghi americani. Tipo Chief Keef che parla con lo psicologo dei morti che ha visto e dei traumi che ha vissuto, l'intervista a Kendrick Lamar a Compton, tutta la serie Noisey Atlanta sull'ascesa della trap, tutta la serie Chiraq sulla scena di Chicago, il documentario su A$AP Rocky.

Oppure potete guardare questo documentario su un rave psytrance in una foresta, dato che non potrete andare a farne uno almeno per un mesetto e mezzo.

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Mezz'ora a cuore aperto con Nitro su 'GarbAge'

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Ci guardiamo attraverso lo schermo e come in uno specchio, io e Nitro siamo entrambi seduti al chiuso di una stanza, da soli e vicini al tavolo apparecchiato con i nostri ammennicoli: lui ha i suoi strumenti, l’impianto e i microfoni; io i taccuini, la tastiera e i miei appunti. Al tempo stesso è una maniera bizzarra per cominciare un’intervista faccia a faccia, e la più naturale possibile, distanti come possono esserlo due persone che non si sono mai viste prima e lontani come chiunque altro, nella quarantena.

Da quello che ho ascoltato, letto e visto, ho però l’impressione che la situazione non lo colga impreparato. “Non cambia nulla,” mi conferma, “è proprio come nella prima barra del freestyle che ho fatto uscire pochi giorni fa. ‘Il virus mi dà fastidio a malapena, perché sono due anni che vivo in quarantena’. È la descrizione perfetta di questo momento, del luogo anche mentale in cui sono stato negli ultimi 7 o 8 mesi per costruire GarbAge. A dirla tutta, sono due anni che praticamente non esco. Ma da settembre è cominciato il trip serio, quando ho cominciato a chiudermi ogni giorno in studio con Stabber”. Incredulo, rilancio, Nemmeno a fine giornata, per staccare e vedere qualche amico?

Nitro Garbage
La copertina di GarbAge di Nitro, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

È paradossale parlare di amici e concedersi il lusso di pensare al proprio isolamento come un fatto artistico o professionale, mentre le nostre facce si espandono nella cam e ci scrutiamo l’un l’altro consapevoli di quello che (non) accade fuori a causa del COVID-19. “Al massimo al bar, a bere due cose per poi tornare indietro e continuare. Non credere, a me piace e piace tanto. Sapessi quanto cazzo è difficile tirarmi fuori di casa quando sono in mood da fare dischi. Specialmente adesso che ho il mio spazio e studio,” mi racconta allargando fisicamente e con un gesto lo sguardo lungo tutte le quattro mura della sua stanza.

"Non puoi vederli, ma qui ho tutti i miei marchingegni. Mi sento come il ragazzino più fortunato del mondo nella cameretta dei suoi sogni, tanto che sto finendo per appassionarmi indirettamente a milioni di cose diverse, studiando con la drum machine o la tastiera. E prendo anche lezioni di canto, di musica e pianoforte. Sto imparando a riconoscere tutte le scale e tutti gli intervalli, per capire anche meglio come spostarmi nel mio range di note. Una volta che come cantante capisci dove va la tua estensione vocale, puoi lavorare su come raggiungere più note e superare i tuoi limiti, ma soprattutto puoi imparare dove potertela giocare. Nel tempo libero suono sempre, e che si tratti di scrivere, creare, o aiutare gli altri musicisti sono sempre chiuso qui dentro. E sto benissimo”, mi racconta con un sorriso ancora più evidente.

"Sapessi quanto cazzo è difficile tirarmi fuori di casa quando sono in mood da fare dischi."

L’impressione è che il percorso del Nitro musicista abbia finito per incrociare quello dell’uomo e del semplice appassionato di musica. Il risultato è una maturazione imprevista, la necessità di ampliare gli orizzonti e sviluppare una diversa grammatica sonora, come uno stato postembrionale di una nuova creatura. “GarbAge è stato registrato nello Studio Machete, certo, ma è stato prima pensato qui. Esattamente come un figlio: nasce in ospedale ma lo concepisci da un’altra parte. Una canzone come 'Cicatrici”, con i suoi ‘Hai mai saltato nell'oblio/ Quando non c'è più scampo? / Hai mai chiesto un placebo a Dio / Se non c'è nulla in cambio?’, è nata letteralmente su questo tavolo davanti a cui sono seduto.

"Credo sia anche il motivo per cui il disco è venuto così ibrido. Stavo qua e provavo”—e provando riportava in circolo un approccio diverso, più libero e meno ancorato a schemi ormai collaudati: “Secondo me la situazione ha rievocato molto anche camera mia, un ambiente dove fregarsene metaforicamente di tutti e ascoltare tutta la musica che volevo, da un genere all’altro, senza interessarmi a quel che diceva la gente. D’altronde, quando ero io adolescente la musica era abbastanza schierata. C’erano i metallari, i truzzi… oggi si usa tanto il termine gang. Ma una volta la musica era davvero molto più gang. Era a compartimenti stagni.”

Nitro è arrivato a una maturazione imprevista, alla necessità di sviluppare una diversa grammatica sonora, come una nuova creatura.

A quelle barriere Nicola, questo il suo vero nome, è tornato per tirarle giù metodicamente, tanto che quando gli faccio notare quanto il suo approccio mi abbia ricordato spesso una sorta di crossover, come il genere musicale in voga a inizio Duemila, mi conferma: “Mi sono studiato e riascoltato proprio quei dischi, alcuni dei quali sono stati per me formativi: il primo Korn del 1994 e il primo dei System of a Down, poi sicuramente gli (Hed)Pe, gli Head Planet Earth, che sono il mio gruppo preferito. Li conosco e sono anche venuti a casa mia, ogni volta che passano a suonare in Italia li vado a beccare. Ho anche la loro bandana, guarda,” mi dice indicandomi la sua testa scapigliata ma imbrigliata proprio da quella bandana in nero e bianco.

"Me l’hanno regalata proprio loro", continua. "Sono un’ispirazione enorme e se li ascolti capisci molto il suono di Nitro: loro rappano, ma ci mettono dentro il metal, il growl, il reggae, il punk e lo scream anche se la canzone rimane rap. A me piace proprio sguazzare dentro questa concezione della musica. E poi ho riascoltato i dischi dei Gorillaz, dei Pink Floyd e dei Led Zeppelin, e a una certa ho persino ascoltato per un giorno intero Screamin’ Jay Hawkins.” Tutto da solo, chiedo?

Nitro
Fotografia di Roberto Graziano Moro

Figurarsi. “Stabber e Slait della Machete Crew mi hanno aiutato tantissimo. Slait, ha la grande dote di capire i cazzi degli altri e di lavorare dietro le quinte, lasciando tutta la libertà dovuta e voluta. Mi ha lasciato lavorare con Stabber come se fossimo in un immenso parco giochi fatto di musica. Ogni giorno in studio fino a orari improponibili. E lui sempre presente, a supervisionare. Ma quello che si è sorbito rotture di cazzo persino maggiori è stato Stabber: santo subito, pazienza infinita. Anche per i miei scompensi emotivi barra psicologici, d’artista.”

Più che un cliché, l’esigenza di restare vero e a contatto con se stesso e i propri dubbi, “Mi posso svegliare la mattina ed essere convinto di non sapere fare nulla. Lo so che la gente non lo crede, che ha questa immagine super sicura di me che non capisco chi l’abbia instillata, visto che è dal primo disco che mi piango addosso. Sono una persona che pensa tanto. E come tutte questo tipo di persone, o cacci i pensieri sul foglio perché non ti stiano più in testa e fai i dischi come i miei, oppure ti ritrovi a dire solo cazzate, fare solo puro intrattenimento e non pensare al resto, ai pensieri negativi. Sono entrambe soluzioni ottime, intendiamoci. E non è detto che a quarant’anni decida finalmente di divertirmi. Visto che a venti facevo dischi con la testa del quarantenne."

"Non è detto che a quarant’anni decida finalmente di divertirmi. Visto che a venti facevo dischi con la testa del quarantenne."

Una bella mutazione davvero, ma ho l’impressione che quella affrontata con Stabber non sia stata solo di natura emotiva o psicologica quanto schiettamente musicale. Perché, tocca ammetterlo, Nitro rischiava di rimanere confinato a tratti al ruolo di macchietta preda della sua rabbia, delle dimensioni anche fisiche della sua energia, all’interno dello squadrone Machete. “Io sono sempre stato tutto istinto, adesso voglio metterci anche un po’ di intelletto. Con Stabber ci siamo proprio detti: proviamo a isolarci totalmente dalla musica che sta uscendo in questo momento in Italia, non ascoltiamo più niente se non roba che ci ha cambiato la vita o che viene da fuori. Ma non solo USA, anche da UK e dall’Asia, dal Brasile e Sud America."

"È stata una scelta controcorrente e voluta," continua Nitro, "perché oggi l’andazzo è: fai e produci. E poco considerato è il: fermati, pensa e solo dopo agisci. Penso che per interiorizzare una tecnica, come nel rap, all’inizio il suono possa risultare un po’ legnoso, ma una volta che la impari diventa parte di te e ti viene naturalmente. GarbAge è stato fatto proprio per formare un imprinting che mi dia la possibilità di pensare in maniera molto più aperta musicalmente. Io e Stabber siamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda. Non è solo un bravissimo producer, è anche un eccezionale arrangiatore. Se questo disco vi suona matto, i prossimi saranno ancora peggio. È la mia metamorfosi: sono ancora io ma sto già diventando un’altra cosa.”

"Se questo disco vi suona matto, i prossimi saranno ancora peggio. È la mia metamorfosi: sono ancora io ma sto già diventando un’altra cosa."

Con la metamorfosi torna l’idea della fase di passaggio, di una maturazione in atto ma non ancora del tutto compiuta, come testimonia anche il riscontro frammentato dei fan e degli ascoltatori, divisi tra il solito apprezzamento e vari fraintendimenti. “Capisco bene, e qui lo dico, che una traccia come ‘Rap Shit’ possa sembrare preparata a tavolino, grazie al featuring con Gemitaiz e al ritornello affidato a tha Supreme. Ma è una stronzata. Ero in un momento particolare della lavorazione, un po’ bloccato, e Davide e Stabber mi hanno invitato a Roma per staccare un po’ da Milano e dalla trafila dello studio dove ero piantato già da cinque o sei mesi. Come ho esplicitato anche nel pezzo. Dunque, ci siamo trovati e abbiamo cominciato a lavorare. Davide ha scritto mezza strofa, io mi sono esaltato e ho d’istinto registrato la prima barra, dove ho provato a sperimentare con questa voce bassissima e strana, che cerco da anni di affrontare, una voce un po’ alla Busta Rhymes. Mancava però il ritornello."

E da dove è arrivato, il ritornello? "Per chiedere una penna sono entrato da Slait, a fianco dello studio dove stavamo lavorando, e ci ho trovato Young Miles e tha Supreme. Abbiamo chiacchierato e mi han chiesto di sentire qualcosa del disco. Supreme si è preso benissimo ed è diventato naturale chiedergli se volesse partecipare, dandogli poi totale libertà. Visto anche il poco tempo a disposizione e la struttura del pezzo, ha dimostrato grande intelligenza compositiva nel lasciar rappare noi e limitarsi solo al ritornello. Credo, anzi, sia proprio questo a rendere il pezzo vincente, insieme alla melodia quasi orientaleggiante che ha tirato fuori, a cui io non avrei mai pensato. Niente mail, niente discorsi a tavolino. Persone reali beccate in occasioni reali.” Non posso a questo punto non chiedergli se lo stesso discorso è valido per le altre collaborazioni presenti nel suo GarbAge.

Nitro
Fotografia di Roberto Graziano Moro

La conferma arriva in velocità, “Assolutamente. Per esempio, vale per 'Gostoso' con Giaime e Andry The Hitmaker. Ero con la mia ragazza al concerto di Anitta, noi stavamo ballando e li ho incontrati entrambi per puro caso, dando vita a una situazione tipo quella nel meme di Spiderman. Abbiamo persino scoperto che tutte e tre le nostre morose sono brasiliane. Abbiamo passato una bellissima serata insieme e il giorno dopo in hangover non ho resistito, li ho chiamati e detto loro che dovevamo fare qualcosa insieme. Così è nato il pezzo, con il suo slang pseudo brasiliano. Perché quando ci mettiamo a fare gli zarri lo facciamo sul serio, non giochiamo. Tuttavia, mi spiace il pezzo non sia stato preso bene. Non è stato molto capito, direi, ma può essere dovuto anche al fatto che il funk brasiliano è molto particolare e ha un suono molto fisico.”

Probabile, certo, ma l’impressione è anche che l’eventuale scontento rientri in una criticità più grande, quella di chi si aspetta un’omogeneità nei suoni che rasenta l’abitudine e la routine stilistica. Per questo diventa molto interessante chiedersi come sia andata anche per l’energica e nervosa “MURDAMURDAMURDA”: “Quel pezzo lo volevo fare da tre anni. Quel campione lì è di Lou X e Disastro, tratto da ‘La ragione e l’odio’, è il mio sogno da sempre, l’unica cosa che da piccolo mi ha fatto pensare che in Italia ci fosse qualcuno come i Cypress Hill. È ancora incredibile e, se penso che è uscito quasi contemporaneamente agli stessi Cypress Hill, mi vengono i brividi. Ogni volta che qualcuno dirà che non faccio rap dovrà sentirsi ‘sta roba, c’è tantissimo della mia gioventù e di quello che ho amato, lì dentro."

"Di certo non eravamo alla spasmodica ricerca del singolone."

E ancora: "Ocean Wisdom ha voluto partecipare dopo aver visto il mio Colors. Mi ha contattato lui, ci siamo visti, piaciuti e abbiamo collaborato insieme. Mentre i Ward21 li ho raggiunti grazie a un amico che si occupa di musica dub/reggae e conosce un po’ tutto il giro, mi ha fatto conoscere il pezzo fatto con Major Lazer, oltre a tutto il resto della loro carriera che forse io ero ancora troppo piccolo per apprezzare. Qui ho voluto sperimentare questa sorta di rap-reggae. Tanto, di certo non eravamo alla spasmodica ricerca del singolone.” E di certo la ricerca della hit non è mai stata la priorità per Nitro, e meno che mai lo è adesso.

“Sai quante volte crescendo mi hanno fermato per strada e insultato in faccia,” mi chiede, “‘Dove vai? Sei una merda, la tua musica fa schifo’. Mi hanno mai fermato? No” e non fatico a crederlo, non di fronte a tanta foga e, soprattutto, non di fronte ai risultati raggiunti. “Voglio migliorarmi in continuazione fino a essere considerato uno degli artisti migliori di ‘sto cazzo di posto. È vero che almeno una volta a disco penso di smettere. E, ti dico, non è ancora detto il contrario. Potrei mettermi a fare qualcos’altro, ho le capacità e i mezzi. Però c’è una parte di me che dice: non te la do vinta. Dopo anni di lavoro persi a dare il meglio non solo per sé ma anche per gli altri, per le persone a cui piace la tua musica… non è vero che non ti affezioni alle persone, ai tuoi fan. Ne ho almeno 10 o 15 che conosco per nome, che becco ogni tanto e a cui voglio davvero bene.” Un affetto che non sembra affatto parte di un racconto, quanto della necessità specifica di lanciare il cuore a ogni tratto, che lo voglia o meno.

“Sai quante volte crescendo mi hanno fermato per strada e insultato in faccia? Mi hanno mai fermato? No."

D'altronde, è quello che succede se, come Nitro, hai cominciato da giovanissimo: "Ho dovuto lottare per essere quello che sono. Forse è questo che mi fa sentire perennemente inopportuno. Però è anche la mia forza e devo imparare a conviverci. Staccare dal telefono e dai social e mettermi a scrivere. Ho visto come ti cambia la vita," anche se quei social comprendono il solito Instagram, ma anche chicche quali Pinterest o Busuu, segno di una ritrovata leggerezza. "Ho cominciato a pensare al mio benessere. Non ho più tempo per le situazioni negative. Voglio solamente imparare, divertirmi, fare e vedere cose. Andare a sentirmi qualche stand up comedian, la mia passione: magari uno tra Filippo Giardina, Giorgio Montanini, Giorgio Magri, Luca Ravenna e Tommaso Faoro, un altro veneto, che ti fa pisciare addosso dal ridere. Oppure, voglio poter dare qualche consiglio ai ragazzi che si approcciano a questo lavoro, come J. Cole che intervista Lil Pump, come hanno fatto altri come Bassi Maestro con me quando ho cominciato. Eravamo io e Rocco Hunt, due pargoletti", e un poco di malinconia.

"Casa mia è aperta a chiunque voglia fare rap. Salmo un giorno mi ha detto: quando tu hai i mezzi per far venire fuori qualcuno che merita, se non lo fai sei un codardo. Questa idea mi ha cambiato la vita.
Perché comunque nella vita normale, fatta di spese, mutui e cazzi e mazzi, ci sono già tanti problemi, non dobbiamo anche farcene di ulteriori, e magari di virtuali. Soprattutto in quello che facciamo per divertirci. Dobbiamo smetterla di farci influenzare negativamente dal giudizio altrui." E il tuo ultimo disco come si inserisce in questo discorso? "GarbAge significa proprio dire che Nitro non è più Nitro, che niente è più come prima, quindi tutto vale tutto. Che piaccia o meno, ho fatto quel che volevo. 'Coltivo dove tutti han detto che non cresce un cazzo', come dice Esa. Mi sono tanto divertito e chi se ne frega del resto. Basta!"

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Il SoundCloud italiano inizia a stare stretto a Zyrtck

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Uno dei nomi che nell’ultimo anno ha tenuto più in vita il SoundCloud rap italiano, e da lì ha cominciato a uscire per portarne il suono a tutta l’Italia, è Zyrtck. Ora che ha pubblicato “WAP WAP”, il primo singolo del suo disco d’esordio Movimento, speriamo proprio che il suo momento stia per arrivare.

Il giovanissimo rapper romano collabora da tempo con i ragazzi che insieme a lui hanno popolato la scena fin dall’inizio—pensiamo a Yung Friman, Glasond e Radical. Nelle sue ultime uscite ha sperimentato suoni diversi, dal mumble rap scintillante di “MAJIME” alla wave più cupa e distorta del progetto HATIN+, prodotto da Mothz. Il nuovo pezzo è più melodico e preso bene rispetto alle sue ultime tracce e, sul beat pieno di flauti di NIKENINJA, Zyrtck sembra ancora più a suo agio del solito.

Mentre balla coi suoi amici, si diverte con i cliché del genere. Prende di mira i finti criminali (“Sto con la mia gang ma non fanno bang”) e le tipe che lo cercano solo perché sta per svoltare (“Lei mi chiama, sono assente / Fa la gatta morta con me / In parte mi ami in parte mi odi / Voglio stare io fuori da te”). Più di ogni altra cosa, quello che lo fa spiccare è il suo modo di usare la voce: segue esempi americani più che italiani e non ha paura di spezzare il suo flow inserendo acuti o melodie cantate tra una barra e l'altra: pensiamo, su tutti, a Lil Uzi Vert e Young Thug. Se Movimento suona tutto così, non vediamo l’ora di ascoltarlo.

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I DJ rap italiani si sono uniti per farci ballare in casa con ITALIAN MOB

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La riduzione della socialità imposta dalle misure di contenimento del coronavirus ha mandato in crisi un po’ tutti: stare chiusi in casa 24 ore al giorno senza vedere nessuno tranne i nostri coinquilini o parenti non è certo facile. Chi della socialità ha fatto un lavoro, però, se la sta passando decisamente peggio.

La chiusura di bar e locali ha dato una botta incredibile non solo a chi li gestisce, ma a tutta l’industria musicale. Festival tra i più importanti del mondo sono stati cancellati, come Coachella e SXSW, e sono andati persi centinaia di milioni di euro. In tutto il mondo sono già nate diverse iniziative per dare una mano al settore: pensiamo al progetto StayON in Italia, alla scelta di Bandcamp di dare profitti dalle vendite agli artisti senza tenersi commissioni.

La chiusura di bar e locali ha dato una botta incredibile non solo a chi li gestisce, ma a tutta l’industria musicale.

Nell’ultimo decennio, infatti, i concerti e i live sono diventati la maggiore fonte di guadagno per gli artisti e per tutti quelli che lavorano nel mondo della musica: come potrebbe essere altrimenti con le vendite dei dischi distrutte prima dai download illegali e poi dallo streaming? In questa situazione di emergenza, chi vive di musica sta mantenendo il contatto con il pubblico su internet. Uno dei progetti nati in questi giorni è Italian Mob, che ha riunito creativi e DJ di serate trap da tutta Italia in un’unica playlist collaborativa.

L'idea è partita da Alessandro “Sgamo” Nuzzo, che ha coordinato l'iniziativa: "È un gruppo di whatsapp in cui manteniamo i contatti a distanza con gli organizzatori di serate a tema trap in Italia. Giovani imprenditori che partendo in punta di piedi hanno in pochissimo rovinato la festa a chi credeva sarebbe bastato sbocciare una bottiglia in più tra un J Balvin e un pezzo di 50 Cent per proclamarsi paladini dell'hip-hop. Questi party sono stati il primo vero convertitore di quelli che erano i numeri virtuali di Spotify per quella che è la musica che ha cambiato per sempre il linguaggio dei giovani italiani di questa generazione.”

I nomi coinvolti sono stellari: MACE, Peppe Amore, Marvely e Rossella Essence, per citare i più celebri. Ma tutte le realtà coinvolte sono fondamentali: nella playlist troverete pezzi selezionati da Akeem of Zamunda, istituzione hip hop milanese, o dall'altrettanto importane serata romana Touch The Wood. Da 095Hotline, che porta a Catania le feste di Londra e LA. C'è Giad di HØT a Parma, dove la trap incontra i suoni del futuro. E ancora Often di Torino, Hellheaven11 di Napoli, Curtis Wolf di Roma, Flexin di Bologna, RRRiot, Nice Club, Bando e Prime di Milano, Magnolia 808 di Caserta, Nasty di Vicenza, Culture di Bolzano, BHHM di Bari, Zona Trap di Cagliari, Yabsmoove di Firenze, i ragazzi pugliesi di Sottosopra e veneti di Darkout.

Il risultato è una playlist che unisce hit trap, elettronica e pazzie varie. Un posto in cui potete trovare Lil Uzi Vert, ma anche i 100 gecs. I Club Dogo, ma anche Basshunter. Roddy Ricch, ma anche Four Tet. 070 Shake, ma anche Caribou. Chief Keef, ma anche i Bring Me The Horizon. La trovate qua sopra, seguitela.

Ringraziamenti: Bernardo Fibrosi. Blast. Borgioli. Bruce. Boddu. Chiamu. Cipo. Dario Fresko. Deepinto. Deliuan. Dev. Diecieuro. Giad. Exo. Future Homeless. Halfhead. Beef. Hitmypalace. Caronte. Lord Orazi. Mace. Manueltime. Marco 4am. Marco G. Marquis. Milangeles. Mista P. Mr Kite. Peppe Amore. Per$i. Prest. Pu5h. Rossella Essence. Santana. Sgamo. Sol Begino. Spike Lean. Stema. Xalaf. Zanzu.

Ringraziamento Speciale: Toni Zampa (095 Hotline)

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Leon Faun ha portato il fantasy nel rap italiano

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Che cosa posso comprendere dell’universo creato da un ragazzo con la metà dei miei anni? Me lo chiedo spaesato quando comincio a parlare con Leon Faun. Bastano pochi secondi, tuttavia, e mi mette al mio posto: "Sinceramente, il fantasy e il cinema mi hanno sempre colpito, quando ero più piccolo hanno influenzato la mia idea di musica. Mi davano la possibilità di entrare in un altro mondo, come se potessi avere accesso a una Terabithia personale. Quando poi scoprii il rap, non capendo perché nessuno unisse questo tipo d’immaginario con una certa tipologia di suono mi dissi: ‘Ci provo io’."

Leon Faun, nome d’arte dell’altrettanto esotico Leòn de la Vallée, nasce a Roma nella primavera del 2001. Ha l’espressività decisa di un ragazzo che, seppur giovanissimo, è abituato a calcare ogni tipo di scena. Si sente nei suoi ragionamenti quanto nel suo cantato, e si dipinge in massimo grado sul suo volto nei video delle canzoni: un pugno di brani realizzati in compagnia dei suoi due fidati soci, Duffy alle basi e thaevil dietro alla telecamera, in grado di accumulare letteralmente milioni di ascolti.

"Il fantasy e il cinema mi hanno sempre colpito, quando ero più piccolo hanno influenzato la mia idea di musica. Mi davano la possibilità di entrare in un altro mondo, come se potessi avere accesso a una Terabithia personale.

La sola “Oh cacchio”, con il suo strano miscuglio di fantasia e concretissimi panorami quotidiani, fatti di pompe di benzina, centri commerciali e campi aperti, ammonta a più di 2 milioni e mezzo di views su YouTube. Si tratta della sua prima vera hit, ma è in realtà il punto finale di un percorso ben più lungo, fatto di altri quattro pezzi, “Horia”, “Cioccorane”, “Primavera” e “Taboo”, oltre a un primissimo “Animus”. Insieme, formano una sorta di ciclo fantastico diviso tra musica, immagini, barre e narrativa: quello delle cronache di Marion, fatte di un flow invidiabile per la maturità della voce e la vivace eloquenza con cui dissemina le singole tracce di questo suo ameno fantasy rap.

È un marchio immediato e riconoscibile, con il quale Leon trita riferimenti e citazioni presi da un ampio bagaglio di libri, fumetti, giochi e mondi, dove Narnia, la già citata Terabithia, Exodia di Yu-Gi-Oh!, I Pirati dei Caraibi e mille altre influenze hanno lo stesso peso: quello dell’immaginazione più pura. “Ho sempre avuto le idee chiare per quanto riguarda l’immaginario che volevo far mio e rispetto al fatto di voler creare una storia. Ma tutto ciò che riguarda il mondo di Mairon l’ho finalizzato nei dettagli grazie alla collaborazione con thaevil. Non c’è in realtà una trama, sta al pubblico crearsela nei vari capitoli.”

leon faun gaia
La copertina di "Gaia" di Leon Faun e Duffy, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

E l’ultimo capitolo, intitolato “Gaia”, conferma la sua compiutezza artistica, già in grado di esprimere una personalità che tanti artisti ben più blasonati si sognano. Leon si getta nel suo cosmo inventato con anima e corpo. Fa a pezzi rime, barre e semantica con l’unico scopo di divertire e creare brani che sorprendono per la creatività spicciola e per le invenzioni melodiche e ritmiche, tra turbolenti significati e giochi di parole: “Un po’ me la canto, un po’ me la rappo, microfono e flauto / Ma è un giovane fauno, 'sto gioco lo spacco / Piano mi stanno capendo, ma stanno arrivando, mi stanno avvertendo / Come mi diverto col ‘bacco nel palmo, ho il flow di riserva nel bastone col sacco.”

Quando gli chiedo di raccontarmi il video di “Gaia”, lo fa senza il minimo timore a rivelare il suo mondo e i suoi pensieri: "Ho avuto sempre difficoltà a sentirmi a ‘casa’. Mi sono sempre sentito abbastanza incompreso dalla maggior parte delle persone, e proprio per questo mi sono rifugiato in una mia bolla sotto il nome di Mairon, una bolla con la quale sono riuscito ad arrivare a molti e sono riuscito a ritrovare un minimo di serenità. Quindi, proprio grazie a questo, sono pronto a riprendermi Gaia, cioè la terra, e a stare in pace con me stesso anche scendendo dalle nuvole. Questo è rimarcato anche dalla presenza nei video degli oggetti casalinghi, che stanno a significare che sono riuscito a trovare il giusto compromesso tra la follia e la realtà. Per riuscire a stare bene."

"Mi sono sempre sentito abbastanza incompreso, e proprio per questo mi sono rifugiato in una mia bolla sotto il nome di Mairon, una bolla con la quale sono riuscito ad arrivare a molti e sono riuscito a ritrovare un minimo di serenità."

D’altronde, che Leon sia in grado di maneggiare sapientemente il piano simbolico con quello materiale, il puro divertimento con una ricerca musicale non banale, appare ormai chiaro. Meno chiaro è dove questo possa condurre: “Il video di ‘Gaia’ in parte fa ancora riferimento al fantasy, e il finale nascosto si riaggancia a tutto il filone di Mairon, ma credo che sia anche il primo passo per staccarmi da esso, perché vorrei evitare che finisse per limitare la mia arte in futuro.

"Mairon", spiega Leon, "è solo il primo capitolo di una lunga serie. Nei miei video io stesso mi sento di rappresentare una metafora dell’idea di chiunque, ed è quindi giusto che ognuno abbia la sua Mairon in testa. Io l’ho semplicemente rappresentata con il fantasy. Anche la scena finale, e letteralmente il suo contenuto, è a libera interpretazione. Proprio come tutto il resto della storia.”

leon faun

Incuriosito, non posso non chiedergli quale sia la storia reale di questo fauno. “Sono nato a Roma, ma a 4 anni mi sono trasferito a Fiumicino, dove vivo tutt’ora. ‘Faun’ deriva dal fascino che ho sempre provato per la mitologia greca, e in particolare la figura del fauno, che poi mi rimase particolarmente impressa vedendo Le cronache di Narnia da piccolo. Non ho mai avuto tanti amici da bambino, e proprio per questo, essendo poi figlio unico, ho passato gran parte della mia infanzia con me stesso. Senza mai soffrirne, però.”

E la tua famiglia? “I miei sono state figure per me importantissime, essendo entrambi artisti. Ai tempi facevano tutti e due teatro, mia madre con compagnie importanti di Roma e qualche produzione cinematografica, tra le quali una con Elio Germano. Mio padre fece anche Avanzi e Fantastico, e venne chiamato da Massimo Troisi per lavorare insieme. Ma alla fine, quando sono nato io, decisero che lavorare nel mondo dell’arte risultava essere un po’ troppo rischioso per il mio futuro.”

"Non ho mai avuto tanti amici da bambino, e proprio per questo, essendo poi figlio unico, ho passato gran parte della mia infanzia con me stesso. Senza mai soffrirne, però.”

Tuttavia, l’inclinazione e l’interesse rimangono, germogliano e prendono nuove forme, considerando che “comunque la recitazione con il passare degli anni è finita per diventare la mia più grande passione. Fu mio padre, in seguito, a farmi scoprire la musica grazie ai classici del rock, e da lì a poco iniziai a suonare la batteria. Solo dopo scoprii il rap americano con Eminem e il Marshall Mathers LP, per poi arrivare a Salmo e al rap italiano. Infine, arrivò il cinema. Devo dire che ricordo di aver sempre cercato di unire questi aspetti.”

Sul futuro un po’ d’incertezza giustamente rimane nell’aria: “Appena finisce tutto ‘sto casino, quarantena e cavoli vari, penso di scappare a Milano, e dedicarmi alla musica. Prima però devo dare gli esami, sono al quinto anno: tra poco finisce un po’ tutto. Per ora stiamo facendo videochiamate online tutti i giorni, tutto il giorno. Finiamo per studiare di più adesso di quando eravamo a scuola. Ad ogni modo, non ho ancora un piano preciso per il futuro. Mi piacerebbe però collaborare con Salmo, che reputo un’artista completo. Mi affascina così tanto la sua visione delle cose che lavorerei con lui anche solo per l’aspetto video, non per forza quello musicale. Stimo molto anche Madame. E, per sognare in grande, sarebbe un onore lavorare con nomi come Joji, Jaden Smith, Childish Gambino, Token, Yung Lean e molti altri.”

Nel frattempo, però, qualche obiettivo è già all’orizzonte, “Ho preso qualche lezione di canto, ma vorrei andare nel dettaglio, esercitarmi molto di più. Canticchio sì, ma lo ritengo molto sporco, vorrei perfezionarlo. Quando finirà la scuola potrò quindi finalmente dedicarmici. In fondo faccio musica da quando ero più o meno in terza media. E poi mi è sempre venuto naturale cantare nei miei pezzi, per il semplice fatto che non mi rispecchio troppo nel termine ‘rapper’ e sono sempre alla ricerca di nuovi spunti musicali.”

Lo accompagna in questa lunga saga l’amico di sempre, Duffy, ai beat e produzione: "Ci conosciamo da quando siamo alla materna. Abbiamo iniziato a fare musica per gioco, tanto che i primi esperimenti venivano fatti su Fruity Loops cercando di riprodurre dei sound moombahton/trap dance. Poi andai in fissa con Salmo e gli chiesi di provare a produrmi un beat con un sound dubstep. Da lì abbiamo continuato la nostra evoluzione fino ad arrivare a trovare il nostro suono. E dico ‘nostro’ perché nei beat c’è sempre un po’ di me e nei testi sempre un po’ di Duffy. Anche se lavoro soltanto con lui al momento, devo dire che al momento sto ascoltando parecchio Tutti Fenomeni, lo trovo geniale. E che stimo moltissimo altri come lo stesso Salmo, Low Kidd e tha Supreme”, rispetto al quale si apre una parentesi curiosa.

"Stavo al McDonald e stavo facendo musica, quando spunta questo ragazzo incappucciato che mi dice, ‘Spacchi, vieni da me’. Era tha Supreme."

Per quanto i due abbiano grandi diversità, entrambi hanno un approccio al suono e alla musica che si fa forza di una grande freschezza compositiva, e soprattutto melodica, con il tentativo ulteriore di cercare soluzioni stilistiche inedite. “Stavo al McDonald e stavo facendo musica, quando spunta questo ragazzo incappucciato che mi dice, ‘Spacchi, vieni da me’. Insieme abbiamo fatto un vero e proprio EP. Tra virgolette. Tracce a caso che abbiamo pubblicato su YouTube spacciandole per un EP: Endless. Eravamo piccoli, alla prima o seconda liceo, io, Duffy e tha Supreme."

Dopo "Perdonami" di Salmo, Leon e tha Supreme perdono i contatti: "Ma non abbiamo mai litigato o altro, semplicemente non ci siamo più sentiti da un giorno all’altro. Ma bella per lui, sono contentissimo, rimango il sostenitore numero uno. Quando facevamo musica insieme lo raccontavo in giro dicendo, ‘Questo è il futuro’." Chissà che i due non possano un giorno ritrovarsi a suonare insieme: con le dovute proporzioni, e la crescita costante di entrambi, potrebbe venirne fuori qualcosa degno del futuro più remoto possibile.

leon faun

È proprio tramite queste collaborazioni iniziali con tha Supreme che Leon aggiunge un altro tassello, quello dei video, essenziale tanto quanto la sua voce e le immancabili produzioni di Duffy, “Lavorando con tha Supreme diventai fan della Young Minds, di Noone e di Nomercy Blake, e quindi dei loro video, veramente fighi e stilosi. Vedendoli mi tornavano sempre fuori questi tag, tra cui thaevil, e a un certo punto decisi di contattarlo. Avevo intuito si trattasse di un tipo, come dire, pazzerello e subito si è mostrato disponibile a confrontarsi con me. Ci vedemmo a Firenze e cominciammo a collaborare”, dando vita a quest’immaginario unico, fanciullesco e leggero ma dall’invidiabile potenza comunicativa.

Quanto sia importante la parte visiva delle sue creazioni lo testimonia anche un altro aspetto: “Ho partecipato a Zeta di Cosimo Alemà, ero una comparsa tra il pubblico nella scena finale dello scontro tra Ensi ed Izi. Fu un’esperienza folle, mi ritrovai per la prima volta su un set di un film, che tra l’altro trattava di hip-hop, avendo faccia a faccia artisti che stimavo e stimo tutt’ora. Proprio a Izi chiesi un selfie di sfuggita, con un cellulare senza fotocamera interna. Era talmente malridotto e la foto mossa che gli chiesi di scattarla tre volte; chissà cosa pensò! Ho sempre avuto questa passione, tanto che prima di fare musica facevo provini su provini," Una passione che lo porta a consumare decine di film, come per esempio quelli di Tarantino, non a caso citato in una sua barra con il magnifico The Hateful Eight.

"Recitare in un film è una follia allo stato puro, è stato come vincere 100 dischi di platino. Il cinema e la recitazione sono mie enormi passioni che vanno di pari passo con la musica."

E ora, qualcosa in programma? “Ora sono addirittura protagonista di un film che ancora deve uscire, La terra dei figli, tratto dal fumetto di Gipi e con regia di Claudio Cupellini, che già conoscevo e stimavo tantissimo per Alaska e Una vita tranquilla, senza contare ovviamente la serie di Gomorra. E se ci pensi l’immaginario di Gipi non è proprio fantasy… però si avvicina alle mie cose. Adesso siamo in fase di montaggio, ma non so quanto il Coronavirus rallenterà il processo. Ho lavorato con attori pazzeschi, come Valeria Golino o Valerio Mastandrea.” Cosa gli rimane di questa esperienza lo si capisce dall’eccitazione: “Una follia allo stato puro, è stato come vincere 100 dischi di platino. Il cinema e la recitazione sono mie enormi passioni che vanno di pari passo con la musica. Spero di riuscire a continuare a lavorare in entrambi i mondi, ma vorrei restassero percorsi separati.”

Non sappiamo se questa differenza rimarrà, sappiamo però per certo che il mondo di Leon Faun è profondo come la tana del Bianconiglio. “In fondo, penso che il fatto di entrare in un altro mondo con la propria arte, o grazie ad essa, sia un qualcosa che vale per tutti gli artisti. È anche per questo che cartoni come The Amazing World of Gumball, e soprattutto Adventure Time, fanno parte del mio immaginario. Diciamo anzi proprio che non hanno fatto per niente bene al mio cervello. Scherzo. Mi hanno fatto scoprire la possibilità di altri mondi e che altra gente ragiona come me, che non sono matto… o almeno non l’unico!”. Lui stesso, però, ci offre in chiusura un segno della sua lisergica ragionata follia, quando declama il suo motto: “La psicosi mistica è rimembrata dalle facoltà mesoniche”, e che questa stessa mistica possa fargli da guida nei prossimi passi.

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Il rap di Bresh non è per tutti, e va bene così

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La fama non era una cosa scontata, un tempo. Per secoli e secoli gli unici esseri umani che lasciavano un qualche segno della loro esistenza erano i pochissimi potenti, per valor militare o religioso. L'idea che si possa diventare famosi con la musica è recente, nel grande schema delle cose. Quindi è singolare che buona parte della popolazione che ascolta musica rap, oggi, sia così ossessionata dalla fama.

Un po' come l'arca perduta di Indiana Jones, che uccide chi la apre e la scopre, nell'immaginario del rap la fama è quella cosa a cui tutti dovrebbero in teoria ambire, per poi lamentarsene una volta che la raggiungono. Quante canzoni avete sentito, e quante interviste avete letto, in cui gli artisti parlano di serpi, di opportunisti, di arrivisti? Essere famosi è, in un certo senso, essere circondati. E pure essere strumenti del capitalismo, dato che si guadagna mettendo la propria immagine al servizio di brand che vogliono raggiungere i propri fan.

È singolare che buona parte della popolazione che ascolta musica rap, oggi, sia così ossessionata dalla fama.

La musica di Bresh, che fa il rapper, è sempre stata invece libera, inclusiva e squattrinata. Genovese, parte del gruppo di amici liguri che tra il 2015 e il 2016 ha partecipato all'ascesa della nuova scuola del rap italiano con luce, gioia e credibilità. Tedua, Izi, Nader Shah, Vaz Tè, Disme, Ill Rave e lui—il sognatore sullo scooter del gruppo, il ragazzo di strada ma anche di mare, che si ghiaccia il petto con gli amari. Molti hanno sentito la sua voce per la prima volta su "Step By Step" di Tedua, altri in quei piccoli gridi liberatori che erano "Gaston" e "Prestige".

I suoi ritornelli cominciavano con frasi come "Non sono mai stato lontano da te", oppure "Ma non so bene se ci vado in pari / A destra campo rom, sinistra popolari". Sbatti per i pochi soldi, ma mai nel disagio. Sbatti per i tumulti interiori, ma mai nella disperazione. E sguardi al cielo e al mare azzurro, agli amici e a geografie lontane, per star meglio. Non aveva mai fatto numeri enormi, ma l'impressione è che quelli che faceva venivano da persone davvero convinte del suo valore.

che io mi aiuti
La copertina di Che io mi aiuti di Bresh, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Da allora sono passati tre, quattro anni. Un'era geologica per i tempi dell'industria musicale di oggi, ma il tempo che ci è voluto a Bresh per uscire con il suo primo disco. Si chiama Che io mi aiuti e, spiega lui, si chiama così proprio per questo tempo sospeso. "Sarei voluto uscire già da subito. Ma non uscivo, e me la son vissuta un po' disperandomi, e quindi... che io mi aiuti. Di chi è colpa se non esci, tua o della gente?" Un po' degli altri, perché ci lavori insieme, "ma se sei un generale di ferro la roba la fai uscire."

E ancora: "Se fai uscire una cosa alla volta, facendo passare tanto tempo tra una traccia e l'altra, però non hai niente da recriminare. L'ho capito subito, Tedua e Izi ci spingevano tutti da subito. Se un singolo mio doveva essere una hit, lo sarebbe già stato ai tempi. Di che cosa mi posso pigliar male?" Me lo dice perché io gli ho chiesto come si vive il fatto che un commento che si vede spessissimo sotto ai suoi video, è che è un rapper sottovalutato.

"Se un singolo mio doveva essere una hit, lo sarebbe già stata ai tempi. Di che cosa mi posso pigliar male?

E chissà che impatto può avere, sull'ego di un rapper, questo continuo mostrare affetto ma con un ma. Sei fortissimo, ma dovrebbero dirtelo in più persone che lo sei. Sei fortissimo, ma dovresti anche essere in Top 50 Spotify. Sei fortissimo, ma dovresti avere un disco d'oro. Sono implicazioni che suggeriscono il collegamento tra bravura e fama che ormai buona parte del pubblico rap fa, in tutto il mondo, quando la realtà è che un rapper può essere benissimo bravo e basta.

"Caratterialmente non sono uno che ha voglia di essere utilizzato dagli altri", mi dice Bresh in risposta. "La compassione la lasciamo ai cattolici. Però sono contento che chi apprezza davvero la cosa si batte per la causa. Anche se poi il mio obbiettivo è quello di essere trasparente. Non vorrei che questa cosa qua fosse indice di pesantezza per chi non mi ascolta o mi segue. Io voglio essere leggero. Farti capire le cose al primo ascolto."

bresh

Al primo ascolto, a mia impressione, si capisce che c'è che c'è tutto un rimestarsi, dentro il petto di Bresh. "Io non ho fatto il boss nella vita / Io sono il mio boss della vita," canta nell'intro del disco, come a confermare che fare gara a chi ha il cazzo più lungo non rientra tra i suoi interessi primari. Ma poi, due versi dopo, se ne esce con un "Voglio quella cosa che non ho / Ci sono poche troie che non ho".

"Un po' la braggata dentro ce l'ho e non voglio precludermela," spiega. "Va bene, il disco è conscious, però ci sono certe canzoni in cui sono un rapper. Che poi son nato così, ignorantello. Ho tante facce." E infatti, sempre nello stesso pezzo, Bresh rigira ancora il messaggio: "Ci sono tante cose che non so / Ci sono tante troie che non voglio".

"Va bene, il disco è conscious, però ci sono certe canzoni in cui sono un rapper. Che poi son nato così, ignorantello."

Quando avevamo parlato per la prima volta, tre anni fa, Bresh mi aveva spiegato che l'obiettivo del suo rap era "creare una giuntura" tra la provincia, come quella da cui lui veniva, e la periferia: "Ho trovato anime laddove le anime non me le volevano far vedere. Sono un ragazzo di provincia che non vede la periferia come una persona di provincia. Ho voglia di far emergere tutti. Dire alla gente di dove sono nato che non è così, la vita non è in quella bolla di cinquemila anime e di benestare."

Oggi, mille giorni dopo, quella giuntura è fatta tutta di emozioni, storie di fuga dal brutto del mondo, mani tese agli amici e pacche sulla spalla a sé stessi. "OBLÒ" dice a tutti quelli che fanno fatica ad alzarsi dal letto, quelli che si sentono "il peso dell'oceano" addosso, che lo possono in realtà guardare dalla finestra della loro cabina: "Tanti miei amici hanno momenti come questi, che non sono nemmeno di presa male. Sono di piattezza. Un po' hai paura, un po' ti chiedi che cazzo ti alzi a fare", dice Bresh.

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Oppure prendiamo "RABBIA DISTILLATA", un pezzo pieno di cose brutte e della parola "merda", da cui Bresh scappa lanciando il suo cuore verso la Liguria. "Ci svegliamo tutti in casa a Milano, io ho questo senso di erba, problemi con la tipa, un mormorio nello stomaco... la merda è questa", spiega Bresh, "la consapevolezza che più andiamo avanti più ne dobbiamo ingoiare o spalare. È questo crescere." Il plurale all'inizio della sua risposta rivela un altro tema della sua arte, cioè il rapporto con la compagnia.

Parte dell'epica della Nuova Scuola nasce dal fatto che, per un periodo, tutti i giovani rapper più forti della loro generazione erano amici, o addirittura—come nel caso di Tedua, Rkomi e Bresh—vivevano assieme. Questi sono stati anni di coinquilinaggio, ma che adesso si stanno scontrando con il brutto e il bello del tempo che si accumula. "Ci penso molto. Sicuramente ognuno deve trovare la propria strada", dice Bresh quando gli chiedo dei suoi amici e colleghi.

"Il fatto che sia uno in alto e uno in basso non sussiste quando siamo assieme. Ed è questo che ci farà rimanere sempre amici, senza rancori o invidie."

"Il futuro mi spaventa un po' perché è instabile e oscuro. Ma io e i miei amici avremmo problemi solo se andassimo avanti nascondendoci il fatto che uno è lì in alto, l'altro è più in basso, e facessimo finta di niente. Invece noi tiriamo fuori questi discorsi, e il fatto che sia uno in alto e uno in basso non sussiste quando siamo assieme. Ed è questo che ci farà rimanere sempre amici, senza rancori o invidie. Io sono sereno, ho un sacco di amici e faccio anche musica, e guadagno anche dal lavoro che faccio, che è la musica. Mi alzo al mattino tardi! Va bene, ragazzi! E ho fame! Andremo avanti così."

Si sente, la fame, dalle ultime parole che Bresh sceglie per chiudere il disco. "Io ti scrivo le lettere
/ E non la voglio smettere", dice, a un vago interlocutore in cui è bello leggere l'ascoltatore. Anche se il mondo è pesante, anche se capitano le giornate in cui il materasso ti ingoia, anche se non si trovano modelli ed eroi da seguire nel mondo reale—Bresh scrive lettere, e le mette in bottiglie, e le affida alle onde del mondo. Le correnti non le porteranno a tutti, ma solo a chi avrà l'occhio attento mentre cammina sulla spiaggia. E leggerle sarà speciale, e ci farà sentire meno soli.

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Questo poeta di strada è più forte di qualsiasi gangsta rapper

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Mustafa ha un appellativo che chiarisce subito il ruolo che si è scelto nella vita: The Poet. Seppur giovanissimo, non ha nemmeno 25 anni, la sua carriera può già vantare un numero piuttosto alto di collaborazioni di prima qualità, visto che tra gli altri ha offerto la sua arte a Drake, The Weeknd, Daniel Caesar e Camila Cabello.

Qualche giorno fa ha pubblicato il video di “Stay Alive”, una canzone prodotta da James Blake e Frank Dukes. In apparenza si tratta dell'ormai banale immaginario street, composto dalla consueta trafila degli amici e della gang, i gesti rituali verso l’obiettivo e la minaccia latente di un gruppo di giovani uomini convinti di far paura. Mustafa, invece, è qualcosa di diverso e non fa la solita trap d’accatto: il pezzo comincia con un delicato e dolce arpeggio di chitarra e prosegue senza beat, autotune e orpelli inutili.

La meraviglia avviene però quando la sua bocca si apre e la voce inizia il suo canto melodioso. È a quel punto che la musica si scioglie davvero, mentre le parole svestono gli abiti della recita o della declamazione vuota di tanti rapper e finiscono per trasformarsi in un miracolo di soul imperfetto e bellissimo. Ad accompagnarlo c'è la panoramica sgranata sul quartiere, le classiche immagini suburbane scomposte dalle telecamere di sorveglianza e dai mattoni rossi, con le parabole, i palazzoni popolari e i campi da basket d’ordinanza.

Non è solo una posa, visto che la risposta di Mustafa alle armi e alle esagerazioni di tanti altri musicisti è fatta di parole che invitano a resistere alla strada e a rinunciare alla violenza, “Fai quel che puoi / Non lasciare che vincano / Metti giù quella bottiglia, raccontami il tuo dolore / A me importa di te, famiglia”. Sa quello di cui parla, il ragazzo, visto che tra gli altri ha perso in una sparatoria il suo amico d’infanzia e compagno nella Halal Gang, Smoke Dawg, e per questo ha voluto firmare così il suo video su Twitter: “Riposino in pace gli amici che ho perso, una lunga vita a quelli ancora in vita, niente è vano, Regent Park per sempre.” Il suo è un messaggio di speranza, d’amore universale e pace, e vale la pena venga ascoltato e seguito anche da chi con troppa facilità si dà arie da duro e criminale.

È un messaggio di speranza, d’amore universale e pace, che vale la pena venga ascoltato anche da chi si dà arie da duro e criminale.

Anche per questo motivo fa uno strano effetto trovarsi ad ascoltare il pezzo e affiancargli “Rascal” di RMR, uscita più o meno negli stessi giorni e prodotta come per effetto di un bizzarro specchio scuro e magico, degno di Lewis Carroll. Dove “Stay Alive” usa la melodia e il cuore per lanciare un messaggio di pace, RMR e soci sfruttano invece l’immaginario della strada e un cantato iper romantico, reso ancora più grottesco dai giubbotti antiproiettile firmati Saint Laurent, per i soliti messaggi d’odio verso la polizia. Si tratta quindi di due mondi molto distanti, eppure dà da pensare quanto molti artisti comincino a rielaborare in maniera critica il cliché del tessuto sociale degradato legato a espressioni musicali codificate come la trap.

Per quanto sia pessima la retorica del giovane prodigio, bisogna però notare quanto Mustafa Ahmed esca dai canoni consueti. La prima volta che diventa protagonista di un articolo è per il The Star, un quotidiano locale della sua città natale, Toronto, in Canada. Il giornalista che lo intervista ci racconta quanto sia per lui facile scatenare applausi a scena aperta e pianti in chi l’ascolta, con le sue storie e i poemi dedicati alle case popolari, alla violenza sulle donne o alla povertà in Africa.

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Mustafa, fotografia promozionale

Ai tempi ha soltanto 12 anni ma è già in grado di scrivere righe come“Sono stufo marcio / ‘Troppo grasso,’ ‘Troppo magro’ / Guardo nella TV, e / è questa la definizione della bellezza?” È questo quello che fa e scrive un qualunque ragazzino di 12 anni? Il migliore amico è il dizionario, e non fatichiamo a crederlo, mentre tra le altre passioni ci sono il basket, l’Islam e l’R&B.

La famiglia è, a modo suo, privilegiata, ma in una maniera semplice e al tempo stesso tragica, visto che l’unico privilegio è quello di avere dei genitori presenti e a lui vicini, oltre a una sorella maggiore che lo introduce alla poesia e lo incoraggia. La strada dell’area del Regent Park, però, è uguale a quella di tutti gli altri suoi coetanei—anche se centrale, è un ghetto dove scaricare i più poveri e le comunità discriminate, quelle a cui vuole dare voce con le sue parole: “La vera ragione per fare poesia è per far sentire la propria voce. Affinché gli altri possano capire, possano sapere. Possano imparare.”

“La vera ragione per fare poesia è per far sentire la propria voce. Affinché gli altri possano capire, possano sapere. Possano imparare.”

Con il passare degli anni la sua crescita artistica si fa esponenziale e Mustafa comincia a diventare un artista a tutto tondo, un autore di spoken word, poeta e musicista, filmmaker e documentarista, attivo nelle cause politiche e nelle questioni legate alla comunità, tanto da dare vita al già citato collettivo a nome Halal Gang. I media cominciano a tenerlo d’occhio, fino a quando arrivano le vere e proprie luci della ribalta, prima sul finire del 2016, per la sua partecipazione a Starboy di The Weeknd, poi per una curiosa collaborazione con il marchio Valentino, e infine grazie al documentario Remember Me, Toronto, dedicato alla violenza sulle strade e agli scontri con armi da fuoco, in undici minuti che vedono anche un sentito intervento di Drake (che già aveva postato sul suo account Instagram ufficiale una poesia del giovane) e la musica del suo produttore, Noah “40” Shebib.

Proprio Remember Me, Toronto ci spiega l’importanza e la forza del lavoro di Mustafa, che è stato in grado di mettere insieme una dozzina di artisti e persone da quartieri ed esperienze diverse al fine unico di cercare un principio di pace e di non-violenza, avvicinando così anche chi aveva qualche conflitto pregresso e rivalità personali. È lo stesso Drake a illustrare il senso di questo sforzo collettivo: “È difficile e spaventoso provare a essere il più grosso e il più cattivo del quartiere. Ha invece un impatto ben maggiore mettere tutta quella energia in un lavoro che permetta alle persone di ricordarsi di te… ‘Mi ricordo quel tizio, era di qui e diede a tutti noi una possibilità.’ Queste sono le persone che hanno le vere storie di gloria.” E non è difficile immaginare che questa sarà anche la strada di Mustafa.

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Non conosci davvero la storia di Francesca Michielin

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"Da piccola chiedevo a mio fratello: 'Secondo te si può fare un album di dieci tracce di altrettanti generi diversi?'. Devo muovermi: se mi chiudessero in un genere solo, morirei".

Il percorso di Francesca Michielin è quello di una ragazzina che è diventata grande attraverso la musica. Vincitrice di X Factor nel 2011, quando aveva solo sedici anni ed era un’interprete, con gli anni ha saputo affermarsi come autrice di sé stessa. Oggi è una popstar trasversale, rispettata nell’hip-hop come nel pop mainstream, ed è una delle pochissime in Italia. È studiata: è al sesto anno di Conservatorio, e sa suonare chitarra, basso, tastiere, percussioni. E ha imparato a raccontare nei suoi testi la sua realtà, quella delle campagne di Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, dove è cresciuta.

"Ho avuto un'infanzia creativa e bucolica. Già da piccola scrivevo poesie e canzoni”, mi racconta. “A sei anni cantavo nel coro parrocchiale, a nove ho iniziato a studiare il pianoforte. A dodici gli ho affiancato il basso elettrico, perché mi annoiavo. Amavo i Red Hot Chili Peppers e il basso mi distingueva. Le ragazze studiavano canto o chitarra. Differenziarmi, tra l'altro, mi aiutò con l'autostima: prima ero una nerd impresentabile, presa in giro dai compagni", mi racconta ridendo.

francesca michielin

"Alle medie ho iniziato a cantare in un coro gospel, ed erano gli anni in cui Mark Ronson produceva Amy Winehouse. Essendo cresciuta con interpreti dalle voci assurde, tipo Celine Dion, io—che ascoltavo jazz e avevo un timbro scuro—mi sentivo fuori posto. Con Amy capii che potevo cantare anch'io: scrissi persino un EP che nei sogni avrei dovuto far produrre a Ronson. Ovviamente, a parte un pezzo ( Honey Sun), niente di ciò è mai uscito. Finché il fonico del coro non mi segnalò a X Factor, a mia insaputa".

Partecipare le avrebbe cambiato la vita, ma era un'ipotesi che non aveva ancora messo in conto. "Seguivo la trasmissione per Morgan, ero fan dei Bluvertigo. Ma lì andai come in un campus: imparo il più possibile, e poi torno a casa. Ero convinta che sarei uscita presto, e quasi mi sento in colpa: non dico che stessi lì per cazzeggiare, ma ero rilassata".

"Amavo i Red Hot Chili Peppers e il basso mi distingueva. Le ragazze studiavano canto o chitarra."

Francesca è nella categoria Under Donne, con giudice Simona Ventura, suona Led Zeppelin e AC/DC. E, per quanto nessuno se lo aspettasse, vince. Le vorrei chiedere come si affronta, a sedici anni, il successo, ma la risposta è che non si affronta. "Sapevo che nella vita avrei voluto fare questo mestiere, ma pensavo di cominciare dopo le superiori. Per questo ho detto a Elisa—con cui all'epoca lavoravo—che sarei andata in studio a giugno, quando sarei stata in vacanza. Tutti hanno accettato la mia decisione, e devo ringraziare la Sony. Non mi hanno mai trattata come 'quella da spremere', anzi, hanno colto la mia sensibilità".

Intanto, dopo la vittoria esce "Distratto": una canzone d'amore sui generis, scritta per lei proprio da Elisa. "E non vedi che sto piangendo: / chi se ne accorge non sei tu, / tu sei troppo distratto": ho il sospetto che, con la strada percorsa, lei tenda a disconoscere questi inizi da interprete. Esci da X Factor, ti affibbiano un pezzo "scritto per te" da firme navigate e devi ubbidire. Col rischio, persino, di crearsi dei pregiudizi. "È ancora un pezzo bellissimo, dal vivo lo suono sempre", mi smentisce.

"Mi avevano chiesto se avessi inediti miei, ma ho pensato che il pezzo di Elisa fosse perfetto per me. La verità è che mi sentivo matura come compositrice, ma non come autrice di testi". Del resto, il 2011 non era un gran periodo per la musica. "Venivamo dalla crisi del mercato", ricorda Francesca, "in Italia c'era l'idea per cui la donna potesse essere solo interprete. E poi figurati: a casa mia vivevamo di musica internazionale, componevo in inglese... Non ero pronta."

Le domando che artisti ascoltasse, e spalanca il sorriso. "Giuro, di tutto. Papà ha una collezione di dischi progressive, mamma della Motown Records, mio fratello più grande viene dal grunge. Io sono rockettara, metallara, ho amato il crossover e il funk rock. In prima superiore ho scoperto For Emma, Forever Ago dei Bon Iver, che mi ha cambiato la vita. Poi nel 2012 sono arrivata all'indie italiano: Maria Antonietta, Dente, Brunori. E poi Lucio Battisti, che per la sua attualità resta il massimo del pop".

"Nel 2011 in Italia c'era l'idea per cui la donna potesse essere solo interprete. E poi figurati: a casa mia vivevamo di musica internazionale, componevo in inglese... Non ero pronta".

Dalle giornate in studio con Elisa rimane l'album Riflessi di me, del 2012, nel solco di "Distratto." Poi Francesca entra in standby: fa pratica come autrice firmando canzoni per altri, ma non pubblica dischi. "Cigno nero" di Fedez, di cui canta anche il ritornello, l'ha scritta lei. Si mette al lavoro sul suo secondo disco solo nell'estate del 2014, quando finisce il classico. Si chiama Di20 e, ascoltato oggi, è pieno di pezzi strani. "Battito di ciglia" è più vicino a Lorde che al classico pop italiano, complice il fatto che Francesca comincia ad avere autonomia.

Ma il salto arriva col secondo posto a Sanremo 2016, con "Nessun grado di separazione." "Era un pezzo più classico rispetto a quelli di Di20, temevo non mi rappresentasse. Così lavorai di sottrazione sulla produzione". E quel sound, applicato a un impianto tradizionale, diventerà la sua cifra. Anche se, per il momento, a vincere sarà il testo scritto da lei: "È la prima volta che mi capita / prima mi chiudevo in una scatola".

francesca michielin

Su IoDonna, lo aveva descritto come un viaggio nei suoi sogni nel cassetto. "È vero, e quei primi versi raccontano una presa di coscienza. Sono io sul palco dell'Ariston che dico: 'Ehi, questa sono io, e adesso vi canto veramente di me'. Non avrebbe avuto senso cantare una storia d'amore totalizzante che a vent'anni neanche avevo vissuto, e nemmeno un testo impegnato". E poi, appunto, il rivolgersi a più pubblici, anche nel testo: "In quel pezzo un sociologo vede la teoria dei sei gradi di separazione, un bambino il pezzo che può cantare con gli amici, una coppia la loro storia d'amore. Ed è questo il bello", confessa.

A vincere, alla fine, sono gli Stadio, che rinunciano all'Eurovision. Ci va lei, mentre Di20 ottiene il disco d'oro e lei si gode un anno in orbita. "Tendo sempre a sotterrare il passato e ripartire," dice però del capitolo successivo della sua carriera.

"A 21 anni ho fatto X Factor, Sanremo e l'Eurovision—e adesso? Il passo successivo era un disco 'mio', da cantautrice."

Quando parliamo di 2640, il suo terzo album uscito a gennaio del 2018, le si illuminano gli occhi. "È l'inizio di una nuova fase della mia vita", mi fa. Per molti, è stato il disco che l'ha liberata dell'etichetta di "quella di X Factor". "In effetti", riflette, "adesso quasi nessuno ci fa più riferimento". Merito di pezzi r'n'b come "Comunicare", di altri vicini all'indie italiano come "Io non abito al mare". Con testi per la prima volta quasi tutti firmati da lei: "Se non sto volando / allora cosa cazzo sto facendo?"

"Mi sono detta: a 21 anni ho fatto X Factor, Sanremo e l'Eurovision—e adesso? Il passo successivo era un disco 'mio', da cantautrice". Per questo, decide di farsi dare una mano da Calcutta e Tommaso Paradiso. "Ma non è una 'svolta itpop'. All'epoca quel termine non esisteva neanche, sono stata una delle prime popstar a collaborare loro". E probabilmente, ci diciamo, è questo pescare da contesti diversi, riducendo tutto sul piano mainstream, la forza di 2640.

francesca michielin 2640
La copertina di 2640 di Francesca Michielin, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Calcutta, poi, ha avuto un ruolo decisivo anche a livello umano. "Siamo amicissimi, per mia madre è una specie di figlio adottivo. A dicembre del 2016 ero a un suo live e a fine concerto ci siamo ritrovati sul palco. Gli ho confessato le mie idee, e che mi sarebbe servita una sua mano per i testi. Ma per lui potevo farcela da sola, dovevo credere nella mia sensibilità. E aveva ragione, per quanto mi abbia dato molte dritte, tipo suggerirmi Cosmo per 'Tapioca' mentre insieme abbiamo scritto 'Io non abito al mare'."

A Vanity Fair, all'epoca, lei diceva di voler rompere con l'immagine della "Franceschina angelica": anche lei poteva incazzarsi, bastava parlasse di sé. "Ho dovuto abbattere dei cliché, e forse così mi sono costruita una credibilità. Se di credibilità si può parlare, a 25 anni. Però ho sempre detto la mia in fase di lavorazione: prima magari solo sugli arrangiamenti, però. Con 2640 ho fatto tutto io".

"Ho dovuto abbattere dei cliché, e forse così mi sono costruita una credibilità. Se di credibilità si può parlare, a 25 anni."

E sarà per questo, allora, che l'album è davvero una sua carta di identità. "Dentro c'è la mia vita: la Formula Uno, il cibo, i ricordi dell'infanzia. Quando ho presentato le demo ai discografici erano entusiasti. E mi sono sentita libera: finalmente non c'erano più delle regole, potevo lavorare ai pezzi come mi pareva. Certo, era cambiato il contesto: prima le canzoni italiane parlavano solo di un amore universale, ma intangibile; adesso un testo sul videonoleggio che chiude e di come ciò per me sia un dramma, invece, si può scrivere. E mi rappresenta".

"Noleggiami ancora un film", per esempio, è un insieme di ricordi dell'infanzia: il walkman, "A mille ce n'è", la Playstation. E poi: "Voglio tornare a casa / guardare la Formula uno / sì, che mi piace / non me ne vergogno". Qual è il problema? "Nessuno, è questo il punto. Per una vita mi sono sentita dire: 'Ma non ti addormenti durante il Gran Premio?’ Invece no, cazzo. A me piace, e adesso faccio un brano in cui lo racconto".

Il pezzo è "Alonso", dedicato all'ex pilota della Ferrari Fernando Alonso, ma anche ai genitori di Francesca. "Ricorda la famiglia / è la cosa più importante. / Ti dicono di no / ma ci ritornerai per sempre". "Con i miei ho un bel rapporto. Sono giovani, di mentalità aperta, multiculturali. Prima dell'esame delle medie, mio padre mi disse: 'A me non interessa con che voto uscirai, ma che tu conduca una vita pensando anche agli altri'. Poco dopo mi mandò a fare volontariato a Parigi, e fu un aggiornamento di sistema. Da allora per me non contano i risultati, ma l'armonia col prossimo".

Al calcio, invece, dedica "La Serie B", sulla retrocessione del Vicenza del 2001. "Però tifo anche Juventus", specifica. "Amo studiare i calciatori dal lato umano. Per esempio: a me sta simpaticissimo Higuaín, l'attaccante della Juve che l'anno scorso era in prestito al Milan; quando abbiamo giocato contro ricordo che ha perso le staffe, e ci sono rimasta male. Mi dicevo: 'Ma pensa questo che si è rovinato la serata così...'".

"Prima dell'esame delle medie, mio padre mi disse: 'A me non interessa con che voto uscirai, ma che tu conduca una vita pensando anche agli altri'."

E poi, appunto, "Comunicare". "L'ho scritta in una notte, quando gran parte del disco era pronta. Per me la comunicazione è l'unico problema di questo momento storico, quindi ho fatto questo flusso di coscienza sulla mia vita—relazioni, mamma che mi accompagna a prendere il treno, i miei occhi a mandorla".

In mezzo, ci sono anche delle confessioni: "In discoteca non sono mai andata a ballare / perché non si riesce a fare altro che limonare". "Non sono mondana", scherza. "Viaggio tantissimo, però. Amo il Primavera Sound, perché puoi andarci in ciabatte, al contrario del Coachella, che è più fighetto". Comunque, insiste, "Comunicare" è stata importante: "È un pezzo R&B con fluidità di linguaggio, flow, allitterazioni: una formula che ho approfondito in Feat".

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La copertina di FEAT (Stato di Natura) di Francesca Michielin, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Lo scorso ottobre dalle campagne di Bassano del Grappa Francesca si è trasferita a Milano. "Le uova del supermercato sanno di cartone, non sono come quelle che mi portava mia nonna", dice. "All'inizio l'impatto è stato terribile: tempo brutto in città, conservatorio nuovo, amici lontani. Ora va meglio, anche perché vivere da sola mi sta emancipando".

E casa vecchia? "Bassano è un posto multietnico, che mi ha resa ciò che sono. Io sono cresciuta nella comunità ghanese del posto, ho avuto fratelli in affido dal Senegal e facevo il ramadan coi miei amici musulmani. Ma nello spettacolo ho sofferto il pregiudizio per cui, se sei veneta, bestemmi, ti ubriachi e sei 'fredda'. Sono luoghi comuni, siamo solidali anche fra culture diverse".

"Nello spettacolo ho sofferto il pregiudizio per cui, se sei veneta, bestemmi, ti ubriachi e sei 'fredda'. Sono luoghi comuni, siamo solidali anche fra culture diverse".

Il trasferimento dalla natura alla città ha dato il via a FEAT (Stato di Natura), un concept sull'incontro fra lei e artisti della scena rap, urban e pop, ma anche fra ambiente e civiltà. È tutto su coordinate libere, dall'alt-rock di "Stato di natura" al reggae felpato di "Sposerò un albero." La continuità, mi dice, la assicura lei. "Sono un albero in una metropolitana / piena a mezzanotte e quaranta", canta in "Riserva Naturale": "Ho unito i suoni che mi fanno pensare alla natura, come strumenti acustici o body percussion, con la dialettica urban, ovvero il flow di parole di 'Comunicare'. Io sono cresciuta col crossover, ho fatto come Anthony Kiedis: che non è propriamente un rapper, ma coi Red Hot rappa".

Non è la prima volta che Francesca collabora con i rapper. Nell'estate del 2018 aveva cantato "Fotografi" con Fabri Fibra e Carl Brave, e anche lì aveva preso di traverso il concetto di hit estiva—"era un pezzo fresh, non un reggaeton". Eppure è con Feat che tocca davvero il genere. Fa "rap" lei, dicevamo, e anche parte degli ospiti: Gemitaiz, Shiva, oltre agli stessi Carl Brave e Fibra. Fred De Palma ormai è una popstar, e i Coma_Cose sono lì a metà.

Il dubbio è se Feat sia un'operazione che rafforzi la trasversalità della sua proposta sdoganandola al pubblico dell'hip-hop. "Ma questa dinamica non funziona", mi blocca lei. Semmai, dice, l'album è un'oasi in cui ognuno esce dalla zona di comfort. "Fibra canta 'Monolocale', che è un pezzo gospel: non mi aspetto che i suoi fan lo seguano fino a qui. Shiva viene dalla trap, ma insieme abbiamo fatto 'Gange', che è un pezzo evergreen, e non credo piaccia per forza ai suoi ascoltatori. Questo disco non è un modo per dire: 'Adesso va di moda la trap, e allora faccio trap'. Sarebbe una strizzatina d'occhio, e non sarei credibile. Qui sperimentiamo".

La trasversalità, allora, è chiara nelle produzioni. Su tutte in "Cheyenne", dove alla regia c'è Charlie Charles. "Della trap apprezzo il minimalismo delle basi, le progressioni armoniche, l'uso dell'autotune. Ho lavorato con Charlie perché 'Cheyenne' è un pezzo classico nella scrittura, e volevo intervenire per sottrazione nella produzione. I pezzi pop di solito sono iper-prodotti, con soluzioni che secondo me neanche servono. Io cercavo una direzione moderna, e quindi ho pensato alla trap, dove si lavora per sintesi. E questo pezzo, alla fine, piace: a chi mi segue da sempre perché non intacca la mia identità; a chi è fan dell'urban perché è scritto anche con Mahmood; e ai musicisti 'puzzoni', in fissa col suono minimale".

"Questo disco non è un modo per dire: 'Adesso va di moda la trap, e allora faccio trap'. Sarebbe una strizzatina d'occhio, e non sarei credibile. Qui sperimentiamo".

La title-track è un inno femminista: "Non è nella mia natura / farmi fischiare per strada / come fossi un cane". "Mancano le alternative, serve educazione. Bisogna far capire alle bambine come lo ero io che la bassista esiste, è una professione: non è una roba da maschi. Credo che le quote rose siano un concetto sbagliato in sé: una persona deve stare dove merita, indipendentemente dal sesso. Però a livello formativo servono. Quando vedo line-up con tre donne piuttosto che dieci... non posso credere che non ci fossero dieci artiste valide da inserire".

Così, a quasi dieci anni dalla vittoria di X Factor, Francesca parla quindi del ruolo che lei e le sue colleghe hanno nell'educazione del pubblico al femminismo, alla lotta al patriarcato. Sembra passata una vita da quando era poco più che una bambina e cantava "Distratto". I pregiudizi, se c'erano, sono abbattuti. E il pubblico è sempre più vasto, affezionato, rispettoso. "Degli esordi mi rimane la centralità di comunicare, la necessità di farmi capire. Non è detto che una canzone debba piacere davvero a tutti, ma posso partire da un qualcosa di 'mio' e riempirla di significati, appunto, trasversali. Per il resto, odio le etichette, l'omogeneità. Da piccola chiedevo a mio fratello: 'Secondo te si può fare un album di dieci tracce di altrettanti generi diversi?'. Devo muovermi: se mi chiudessero in un genere solo, morirei".

Francesca Michielin si esibirà il 20 settembre al Carroponte di Milano.

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IRBIS37 è un'eccezione nella noia dell'indie italiano

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Camminare da soli in una Milano soffocata dalla pioggia e dalla paura, con il respiro che manca e la luce che va e viene. Sono a casa e mi guardo allo specchio, non vedo nessuno se non un ragno che esce dalle coperte viola per salire sul cuscino, mi limito a guardarlo mentre sparisce tra il letto e il muro. Vado a dormire e mi manca il respiro, spengo la luce ma se ne accende un’altra.

Sono tutti simboli, nient'altro che flash immobili e sensazioni suscitati dall'ascolto di un disco, Un altro cielo di IRBIS37, che suona come quell’attimo sospeso dopo che hai riempito i polmoni di aria e aspetti il momento per fare la tua mossa o rimanere fermo. Una narrazione continua che diventa un dialogo vivo tra chi scrive e chi ascolta, e si trasforma in una promessa di parole pronunciate davanti a uno specchio.

Irbis 37 Un altro cielo
La copertina di "Un altro cielo", cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Un altro cielo è il primo album completo di IRBIS37, ma è in realtà il terzo lavoro e il secondo sotto Undamento, la giovane etichetta di Frah Quintale e Dutch Nazari che raccoglie chi suona l’indie delle cose quotidiane, il caffè bruciato e i cuori spezzati. Se l’EP Schicchere nasceva per mostrare al mondo che era possibile suonare trap ma mantenersi del tutto eclettici, tra pop e Tiziano Ferro, R&B e Pino Daniele, Un altro cielo si dimostra invece diverso e ripulito, come un sentiero ben tracciato in un campo infestato dall’erba alta.

“Il mio viso ha strappato i rovi la mattina / Oggi è fastidioso l’esser vita”: è l’incipit di “Rovi la mattina”, l’ultimo pezzo presente in Schicchere, un brano che passa veloce come un brusco risveglio, di quelli che lasciano il segno sul volto per il resto della giornata. Può sembrare strano io scelga un pezzo dell’album vecchio per parlare di quello nuovo, ma in 3 minuti scarsi qui si racchiude e anticipa il contenuto di Un altro cielo, il suo il dolore, la noia e la fatica di vivere. “Scotta questa cena ancora / Ci siam bruciati la lingua / Se avrai fame ce n’è ancora”, canta Martino Consigli, cioè IRBIS 37, con una chitarra nostalgica che ci accompagna verso la fine di una storia d’amore e di una canzone, che qui diventano quasi la stessa cosa, a testimonianza di quanto la scrittura e l'approccio dell'artista siano efficaci nella descrizione di certi stati d'animo.

'Un altro cielo' è un sentiero ben tracciato in un campo infestato dall’erba alta.

Consigli scrive e canta, mentre dNoise e Logos.Lux lo affiancano nel progetto alternandosi tra produzione e scrittura, e insieme danno vita a un album che ha tutta la fisicità di un dolore nuovo, appena nato. Tanto che tutti gli elementi presenti nel disco scorrono alla massima intensità, le emozioni, i ragionamenti sull’amore, sulla fama e sulla droga sono portati al massimo dell’espressività possibile, “Che sono inopportuno, ma è il Negroni con il fumo”. E allora cantiamola ancora, “Mentre dormi”, e andiamo davvero a dormire perché non c’è più nient’altro da fare: “Oggi non so come pormi / Voglio una pistola per spararmi in mezzo agli occhi.”

In Un altro cielo IRBIS 37 prende l’immaginario indie classico—possiamo già parlare di un canone, riferendoci all’indie/it-pop? Credo proprio di sì: penso all’eredità musicale di Calcutta, Franco126 e tutti i capostipiti dell’indie mainstream—e gli dona un corpo e una fisicità inedita, e soprattutto una voce. Non si tratta d’immagini svuotate e stantie che puzzano di naftalina e armadi vecchi, ma di storie reali, e anche il dolore che ci arriva dritto in faccia e al cuore è reale e sentito, a prescindere dalla veridicità del racconto.

IRBIS37

Insieme a “Mentre dormi”, l’altro singolo che anticipa il disco è “Fame da lupi” e introduce il secondo tema principale, dopo l’amore e le sue conseguenze, parlando di fama, di puntare in alto e scommettere ogni cosa. In questa canzone, trap e reggaeton si fondono mentre tu non puoi fare a meno di lasciarti trascinare, “Ho una fame da lupi / Dai aria alla bocca, richiudila subito / Dimmi tu quanta paura incuti da solo, bro.”

Quello che fa IRBIS37 in questo disco è impacchettare la malinconia e il dolore, la nostalgia e la strafottenza, il bello di poter salire in piedi sul balcone e urlare l’amore e le notti insonni: tutto inserito in una grande scatola in cui quello che appartiene al passato prende a pugni il presente e viceversa, perché non sta bene a nessuno che le cose non siano più come prima, è già tutto finito e non ho nemmeno fatto in tempo a crederci.

IRBIS37 impacchetta la malinconia e il dolore, la nostalgia e la strafottenza, il bello di poter salire in piedi sul balcone e urlare l’amore e le notti insonni.

Se in “Che furba” è lui che ha investito troppo in un amore e con una mano sul petto e l’altra al cielo (o nella mista…) canta “Ti ho regalato la parte di me peggiore / Mi hai ringraziato e poi abbiamo fatto l'amore / Ti ho regalato il me che preferivo e non lo riconosco / Non credo più alle favole che mi racconto”, in “Ti accompagno in zona” assistiamo invece al ritorno verso un mondo pre-internet, di quando timidi ci si scambiava il nick di MSN e l’unica arma di rimorchio era l’intramontabile “ti accompagno a casa” dopo scuola. Lenta e lamentosa, una mano che tende il casco a una persona in attesa sul marciapiede, dopo una festa di quelle con il coprifuoco e “dimmi se l’alito mi puzza d’alcol”: “Oggi (Come ieri) / Come vieni, sei sola? / Ti accompagno in zona” , che è più una richiesta di essere visto e notato, e con un po’ di fortuna persino capito.

Non sono una fan del romanticismo spinto, ma la parte di me che confida nell’amore vuole credere che “Ti accompagno in zona” sia un timido preludio a “Quei seni”, dolcissima e lentissima come una ninna nanna. Il ritornello in “-are” che non passa mai di moda, respiriamo un po’ insieme che da solo non sai quant’è difficile, l’R&B che come una mamma ti coccola e aspetta che ti addormenti: “Spogliati se hai il coraggio / E se sei piena di spilli nella schiena / È perché io possa levarteli uno a uno.”

IRBIS37

Nel cercare di capire perché questo disco mi è piaciuto arrivo lentamente alla conclusione che si tratta del semplice fomento che mi trasmette, un’energia che nasce dalla genuinità di tre ragazzi che fanno una cosa fica che funziona e che in Caps Lock su Instagram lo urlano a tutti gli amici di Milano Bovisa. Non si tratta, tuttavia, solo di questo, ma riguarda anche lo scoprire che si può svincolare un testo da un genere di riferimento, slegare un certo tipo di narrazione da un canone composto da immagini.

Quando chiedevano a Elsa Morante come fosse nato il suo romanzo La Storia, lei rispondeva che aveva voluto fare quello che Ariosto aveva realizzato con il poema cavalleresco: scriverne l’ultimo esponente e uccidere il genere. Ora, non voglio arrivare a dire che gli IRBIS37 abbiano ucciso l’indie, ma hanno senza dubbio arieggiato una stanza che sapeva di chiuso, facendo semplicemente quello che già sapevano fare: mischiare tutto il materiale a loro disposizione senza seguire regole già scritte da altri.

Quello che ne viene fuori è il risultato dei loro vent’anni: le influenze pop e i suoni della trap in “Che furba”, e tutte le esperienze che si possono immaginare, anche quelle che non si raccontano mai perché fanno parte della quotidianità che, si sa, è ben diversa dalla vita su Instagram, “Esco per un caffè, ritorno dopo 48 ore / A me non fotte molto, però a mamma piglia un coccolone”. Sulla copertina di Un altro cielo, un falco guarda negli occhi un drone in un cielo viola di nuvole gonfie, e secondo me IRBIS37 è sia il falco sia il drone.

Chiara è su Instagram.

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Claver Gold, Murubutu e il rap intellettuale nell’era della trap

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Murubutu e Claver Gold non sono novellini né artisti emergenti. Il primo è diventato celebre per la sua capacità di offrire contenuti “alti”, filosofici e letterari al rap italiano, il secondo per una penna altrettanto intensa, introspettiva e fresca, solo un poco meno nobile nei riferimenti e nella scrittura rispetto all’amico. E adesso si sono sposati in un matrimonio celebrato tra il cielo e Infernvm, che è il titolo del loro disco insieme.

Claver e Murubutu hanno costruito negli anni una piccola coorte di devoti a un’immagine del rap più profonda e sofisticata della media. Meno immediata, ma meditata a lungo nel pensiero e nelle tematiche. Per farla semplice, una sorta di conscious hip hop italiano che respinge al massimo grado la superficialità sbandierata, e ricercata, dai colleghi della trap.

Murubutu Claver Gold Infernum
La copertina di Infernvm di Claver Gold e Murubutu, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Definire il valore e l’intelligenza di una musica o una strofa è però questione di prospettiva: basta analizzare la strofa di Side in "Cavallini" seguendo le regole della metrica che subito questa diventa roba da universitari. "Alto" e "basso" sono concetti da rimettere sempre in discussione. Soprattutto se ci ricordiamo che molti di questi artisti, e i loro ascoltatori, appartengono a una nicchia e hanno un gusto ben preciso: sarebbe ingiusto metterli in contrapposizione a mondi troppo diversi.

C'è però da dire che Murubutu e Claver non sono soli. Anzi, vengono spalleggiati da una nutrita schiera di anime più o meno gemelle, ognuna con le proprie peculiarità e diversità, ma accomunate dalla ricerca di parole nuove oppure trattate con il piglio di chi ama giocarci fino in fondo. Il primo che viene in mente è Rancore, che ha lavorato non a caso con entrambi, e con l’aggiunta del quale possiamo inventarci una specie di trinità informale di questa nicchia stilistica nazionale: rap PhD, rime col dottorato. Musica della quale andare fieri, ma di cui inventarsi i limiti e gli appartenenti di volta in volta.

Se affianchiamo a loro Rancore possiamo inventarci una specie di trinità informale: rap PhD, rime col dottorato

È quindi giusto e opportuno non dimenticare un insospettabile come Caparezza, oppure Willie Peyote, che spingono la propria sperimentazione verso un impegno di critica sociale e politica, se non proprio antropologica. Oppure il versante più poetico, intimo e complesso di Cranio Randagio e Disturbati dalla CUiete. O ancora gemme Old School di ricerca a tutto campo, come Kaos One, Neffa e Frankie Hi-Nrg.

Oppure, ancora, l’avanguardia bizzarra e totale di alfieri dell’underground nostrano quali Uochi Toki (anche loro già con Murubutu nel disco Il limite valicabile), Zona MC e Miike Takeshi. Persino, perché no, l’ultimo Marracash con la sua rincorsa a Bergman, dove la street credibility incontra la cultura alta. Ognuno può trovare il proprio eroe in questa cosa che è "il rap intellettuale"—un gioco tutto in salita, da svelare, smontare o costruire.

In questo quadro complesso, usiamo Infernvm come immagine sulla quale ragionare. Uscito per Glory Hole Records, questo album è nient’altro che la rielaborazione personale di un capitolo centrale della letteratura italiana, famoso in tutto il globo, e dal quale qualche milione di musicisti e artisti ha preso spunto per le proprie opere: la Commedia, quella divina, di Dante Alighieri.

Murubutu Claver Gold

In particolare, lo esplicitiamo giusto per i disattenti e per chi ha fumato davvero troppo, parliamo della prima cantica—dedicata a quell’Inferno dove finiremo tutti noi convinti peccatori. L’agguerrita apertura mette subito in chiaro il tono del disco: “Selva Oscura” è nient’altro che un taglia-e-incolla dei versi del Sommo Poeta, rielaborati con la partecipazione di un attore, regista e autore teatrale.

È con “Antinferno” che si comincia a fare sul serio. La sorpresa arriva subito, grazie al feat di Davide Shorty che apre il brano a melodie leggere e inaspettati umori pop, di quelli che non si troverebbero fuori luogo in un tormentone estivo. Se non fosse che Murubutu e Claver arrivano come pesi massimi a portare la giusta dose di complessità tematica—la stessa che si farà sentire per tutto l’arco dell’album e che rispecchia proprio il Poeta nell’approccio alla materia.

Claver e Murubutu offrono uno spaccato critico e morale delle nostre giornate e della nostra società: 11 tracce per 33 canti che rielaborano l’intero presente.

I due, infatti, usano nei loro testi una figura retorica tanto cara a Dante: l'allegoria. Con le loro cascate di rime offrono uno spaccato critico e morale delle nostre giornate e della nostra società: 11 tracce per 33 canti che rielaborano l’intero presente. Basti pensare a “Pier”, ispirata alla figura di Pier Della Vigna, disgraziatissimo consigliere che finì imprigionato per il dissing altrui e si trovò costretto a togliersi la vita per risparmiarsi l’ennesimo giro di torture—per poi venir catalogato come peccatore e infilato all’inferno.

Alla storia raccontata nella Commedia, i due artisti rispondono intrecciando quella di un Pier fatto vittima dell’astio quotidiano contemporaneo, si tratti di troll online, di bullismo reale o di semplice odio manifesto. “Tu ti sei chiuso dentro un guscio di paure / E stanco / Non hai la forza di lottare e tornare nel branco / Non hai più voglia di sedere solo su quel banco / Quando nessuno, sì, nessuno, vuole starti accanto / Sono scomparsi quei commenti sotto la tua foto." Così veicolano con efficacia il tema del suicidio, troppo spesso ancora accantonato nelle cronaca sentimentale e giornalistica d’ogni giorno.

Murubutu Claver Gold

La stessa inclinazione si palesa a ogni passo e brano del disco. A volte ci riesce perfettamente (“Caronte”, “Malebranche”), a volte meno (“Ulisse”), altre ancora molto meno (“Paolo e Francesca”, con Giuliano Palma). È però certo che Claver e Murubutu si fanno portatori di una dolce e nuova ricerca stilistica, che trova nel linguaggio uno strumento di espressione, ed esplosione, creativa. Si scrive e si canta, si rappa e si rima per raccontare e manifestare, non per apparire o per tentare di saziare un’idea distorta di popolarità. Non ci si fa cannibalizzare dai grandi numeri o dall’ossessione per la posa migliore.

Tuttavia, i due lavorano e creano all’interno di un contesto più vasto e ben preciso, quello italiano. Negli ultimi vent'anni il nostro rap ha subito un cambiamento drastico rispetto alle sue origini umili e schiette, a voler semplificare persino spensierate. Se pensiamo che siamo partiti dalle canzoni alla radio di Jovanotti o degli Articolo 31, dalle posse più impegnate e dai cani sciolti più fieri, il passo per arrivare a oggi è stato titanico.

Si rappa e si rima per raccontare e manifestare, non per apparire o per la popolarità.

Anno dopo anno, il rap italiano si è semplificato e ibridato prima con il pop e poi con le correnti straniere e l’indie più facile e melodico. Intanto il numero degli ascoltatori si è impennato, e la presentabilità e appetibilità rispetto a un pubblico di massa sono andate alle stelle. È arrivata la trap italiana, e con lei anche un'attenzione dell'industria mai vista prima. Il risultato? Una lunga coda di conseguenze pratiche piuttosto impattanti sotto il profilo economico e imprenditoriale.

Lo si vede nell’attenzione che la moda riserva alle grandi star e ai giovani talenti, nei cortocircuiti della reputazione e dell’immagine patinata sui social. Brand, fan, agenzie digital e service audio-video hanno cominciato a battere insieme al rap come un unico organismo in perfetta sincronia. Uno spettacolo d’arte totalizzante che ha cominciato a fruttare e fatturare cash con molti, molti zeri, facendosi impresa ma dimenticandosi spesso per strada la creatività e l’innovazione.

Claver Gold Murubutu

In questo quadro, immaginatevi ora di essere studenti in attesa della prossima ora—se lo siete davvero, tanto meglio. Avete lezione di Lettere e in classe si presenta Alessio Mariani, il vostro professore di Storia e Filosofia. Per passare il tempo comincia a parlarvi di Kafka e di Schelling, Wordsworth e un’infinità di filosofi idealisti che avete sempre balzato insieme alle ore di lezione per fumarvene una di troppo. Dopo, passa a Dante.

Quel professore è Murubutu, un uomo che—così come Claver Gold, con le sue diversità—evidentemente cerca di procedere altrove rispetto all'idea di rap italiano, e con un altro passo, grazie al suo background decisamente anomalo per la media della scena. Tanto più che una buona parte del nostro rap sembra ossessionato dall’idea dell’andare male a scuola, come a suggerire un rapporto mai risolto con la scuola come istituzione e autorità, se non lo sforzo intellettuale: da tha Supreme in “Scuol4” e “L’ego” di Marracash, a Ketama126 in “Stay Away” di Night Skinny, Salmo ne “Il senso dell’odio” e un’infinità d’altri.

Murubutu e Claver Gold evidentemente non sono in grado di accontentarsi degli stereotipi della scena rap.

A pensarci, comunque, Murubutu non ha tutti i torti. In molti sensi, infatti, l’arrivo del rap in Italia è stato un processo di digestione culturale. L’appropriazione di un linguaggio a noi quasi del tutto estraneo, sicuramente alieno nelle sue forme e storie originarie, e lontano anni luce non solo e non tanto dal template della musica italiana popolare, quanto dalle spinte che l’hanno prodotta. Non una moda, ma un vero e proprio scisma culturale.

Tanto più che, se in America il rap delle origini era una questione principalmente razziale, di ghetto e di emarginazione sociale, qui la saldatura è avvenuta per altri motivi. Detto schiettamente: quelle musiche, semplicemente, piacevano anche a noi. E avevamo bisogno di rompere nel modo più energico possibile rispetto a un’altra tradizione: quella tutta nostrana della canzonetta leggera con cui intrattenere la famiglia borghese e perfetta, da Mulino Bianco.

Se in America il rap delle origini era una questione principalmente razziale, di ghetto e di emarginazione sociale, qui la saldatura è avvenuta per altri motivi.

L’hip-hop, il rap e tutte le correnti che ne derivano sono il precipitato di decenni, se non centinaia d’anni, di evoluzione musicale, culturale e linguistica. Un concentrato di stili, approcci, tradizioni e influenze che solo da poco hanno raggiunto una dimensione mondiale, davvero cosmopolita. E sono oggi diventati il mezzo d’espressione principale della maggior parte dei giovani di tutto il mondo.

Detto questo, il rap e le sue evoluzioni o degenerazioni saranno anche globali, ma l’anima appartiene saldamente alle singole varianti nazionali, regionali, ma soprattutto locali: la provincia, città, quartiere e strada, a scendere in uno sguardo sempre più personale e sempre più ristretto. Ma pur sempre, si spera, con una valenza universale. È proprio per questo che Infernvm è così significativo e importante, per quanto imperfetto.

ll rap sarà anche globale, ma l’anima appartiene saldamente alle sue varianti locali.

Perché spiega al meglio che la tradizione tutta nostrana, la nostra letteratura nazionale, la nostra lingua, il nostro stile, hanno presa e significato, e possono soprattutto contribuire a formare qui, da noi, e oggi stesso, una variante di rap sentitamente nostrano, una via del tutto italiana. Senza scimmiottare le tradizioni, e ancora di più le esperienze di vita altrui.

Sono sempre Claver e Murubutu a illustrarci il criterio da cui ripartire, in “Minosse”, dove il contrappasso per un poeta amante delle rime può assumere strane forme: “Ed io che amavo questa lingua e il modo come suona / Il suono d'ogni nota, ogni sua strofa in prosa / Lettere erette, qui elette nella dialettica / Devoto alla parola, luce dell'aurora / Sarò punito per millenni, a stare senza verbi / Ed io finito in questi inferni senza versi, lemmi e termini / Ai bordi degli inverni dello storytelling / Mentre campo, mentre canto, mendicando una parola nuova.” È quasi un manifesto, una dichiarazione di poetica e di paura per il futuro della nostra lingua e di questa musica meravigliosa, un inno in negativo che avvicina senza problemi le pagine maggiori della cronaca nera nazionale (Pietro Maso che macella i genitori) a un grande della musica italiana come Pino Daniele.

Claver Gold Murubutu

Va però detto che appoggiarsi ai libri sacri della nostra letteratura non è l'unico modo per rispondere alla domanda "che senso ha il rap intellettuale nell'era della trap". Rappare di Dante, avere una laurea, usare riferimenti colti, probabilmente non affascinerà automaticamente chi è abituato ad ascoltare testi che parlano di snitch, impicci e bamba. Quello di cui abbiamo bisogno davvero è un confronto vivo e pulsante con la materia sanguinante della vita di tutti i giorni—e la letteratura dei nostri giorni, non solo quella di 700 anni fa.

Abbiamo bisogno di menti e penne tutte nostre che lavorino come quelle di Kendrick Lamar, che non a caso ha vinto il Pulitzer, ma anche di Ta-Nehisi Coates, uno scrittore che si è occupato tanto di rap quanto di politica e cultura, ricevuto da Barack Obama, e autore del fumetto di Black Panther. O di Thomas Chatterton Williams, autore e critico culturale che è partito dal rap per arrivare alla filosofia. Non possiamo né dobbiamo limitarci a ripescare Dante per convincere l’Autorità Costituita, i boomer e la televisione che il rap e la trap, la drill e quant’altro sono degni di nota, rispetto e attenzione. Dobbiamo reinventare musica e testi, sperimentare e rischiare davvero: elevarci. E fanculo l’autorità, di grazia.

Non possiamo né dobbiamo limitarci a ripescare Dante per convincere l’Autorità Costituita, i boomer e la televisione che il rap e la trap, la drill e quant’altro sono degni di nota.

Per tutte le ragioni elencate e i ragionamenti sin qui illustrati, Infernum è un album importante e sublime, ma non essenziale per l’evoluzione del genere. Spesso manca di variazioni stilistiche di rilievo sul fronte strettamente musicale, soprattutto sul fronte della produzione, delle basi e dell’approccio alle ritmiche e ai timbri—compreso quello vocale, nonostante il meraviglioso ringhio aggrovigliato alla voce di Murubutu, manco si trattasse del figlio illegittimo di Lou X e Kaos One.

Sono queste variazioni quello che serve al rap italiano. Idee che accompagnino contenuto spesso e inconsueto verso quelle orecchie che davvero dovrebbero ascoltarsi ogni traccia e che, invece, rimarranno ben lontane da un disco monolitico vissuto come l’ennesima pallosa lezione di cui non sentono di avere bisogno. È un peccato, ma non la fine del mondo. Perché insieme possiamo sollevarci oltre il solito orizzonte conosciuto, ma senza diventare troppo artefatti, snob o adatti a pochissimi.

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Se i meme fossero rap, sarebbero i Piccoli Cani Squadra

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C’è un nuovo livello di scorrettezza in città. Immaginatevi di rapire Elio e le Storie Tese e legarli tutti in un dungeon sotterraneo, per sottoporli poi a una dieta forzata fatta di Plaguemon, merendine insalubri e film horror gore messi in loop per una cura Ludovico. Dopo, li portiamo nella dimensione parallela più marcia possibile, trasformandoli in un progetto di rime mutanti e facendo dimenticare loro il prog rock e come suonare qualsiasi tipo di strumento.

Otterremo un composto piuttosto instabile: Piccoli Cani Squadra. Un gruppo di sei membri che ha da poco pubblicato il secondo disco, Emporio del Male, con il quale hanno ribaltato e sbeffeggiato tutto quello che va per la maggiore in fatto di barre, rap e trap. Sbattendosene altamente del solito immaginario, sulla copertina hanno piazzato la fotografia di Notre-Dame che brucia, innestata sul primo piano di quattro canidi che defecano con grande compostezza in un prato.

Piccoli Cani Squadra
La Copertina Di Emporio del Male Di Piccoli Cani Squadra, Cliccaci Sopra Per Ascoltarlo Su Spotify

È l’esempio perfetto del modo con cui approcciano la creazione, cioè con una voglia vorace e disumana di divertirsi fino a sanguinare e ridere di tutto, in primis di loro stessi. Una voglia che però non pregiudica nemmeno per un istante la possibilità di creare qualcosa di potente e significativo, proprio come l’immagine di cui sopra, che dice del nostro presente più di quanto facciano mille articoli di giornale.

Lo stesso discorso è valido per la loro musica e i loro testi, una rivisitazione iconoclasta dei cliché della trap e del rap, che riesce ad essere sarcastica e ironica con tutta la serietà che l’umorismo nero si merita. Il loro lavoro è il precipitato di qualche decennio speso a riformulare i modi in cui ridere sui canali principali dove scorre la nostra vita: internet e tutte le sue forme.

I Piccoli Cani Squadra sono una rivisitazione iconoclasta dei cliché della trap e del rap.

Proprio da alcune pagine di meme e di quel che viene malamente chiamato shitposting (meglio: textposting) deriva parte della carica eversiva del progetto. Ed è per questo che nel disco vengono programmaticamente messi al bando il buongusto, la correttezza formale del discorso e gli ultimi anni di battaglie social che si sono riflesse sul mondo reale nelle lotte per i diritti civili, o viceversa.

Aspettatevi, quindi, un disco pieno di cose quali “La tua tr**a chiama il piccione ferisce / Nel senso che ci faccio sesso / O quello che solitamente si chiama amplesso / ‘sta roba non esiste, non è mai esistita / Ti prego svegliati sei in coma da una vita”, oppure “Se questo filtro fosse un pene credo sarei gay / Sì mettilo lì sulla zinnona destra babe / Succhiare ca**i sarebbe il mio mestiere”. O ancora, “Sto parlando su internet di sport con un esperto indiano / Sto facendo uso di droghe ricreative / Scopando tr**e sieronegative / Fumo canne grosse come il ca**o di mio figlio”. E sappiate che tutto questo succede solo nella prima traccia del disco, “Fumando ca**i freestyle”.

Piccoli Cani Squadra

In apparenza, e in pratica, è un’operazione schiettamente suicida sul piano commerciale. Una specie di Hara-kiri filosofico e tematico, fatto di risate stronze ma sincere fino all’oscenità, che non ha paura di mischiare rap e trap con frammenti rave, death metal o musica da videogiochi a 8bit. Per capire meglio con chi abbiamo a che fare dobbiamo però prima conoscerli, e dunque ecco a voi: Piccione Ferito, Papi del Chado, Maxxi King, Giovane Pantera Sessuale, Giovane Risottino e Pinscher Tornado (più la mascotte onoraria: Cocozza), con nomi che dicono veramente tutto della sostanza dei Piccoli Cani Squadra.

Sarebbe però ingiusto, e sbagliato, limitarsi a considerarli frutto di un cazzeggio sterile, tanto più che l’aspetto farsesco nasconde spesso i dintorni più tragici, quelli di una qualsiasi giornata passata tra i capannoni nei dintorni di Milano e “nella triste Brianza ai tempi dei rage comics, che è il setting di tutti i nostri incontri”. A legarli tra loro furono alcuni diciottesimi, una dose insolitamente alta di collassi, furti di merendine e sigarette, nonché un “party lesbo dell’Accademia di Brera”, ma soprattutto la classica vacanza mezza improvvisata a Praga, nel 2017.

È un’operazione suicida sul piano commerciale, che non ha paura di mischiare generi e stili musicali diversi.

Le proverbiali morti e resurrezioni di Pinscher Tornado, durante questa sortita in Repubblica Ceca, diventarono il carburante inatteso della loro amicizia, portando a “un consolidamento della compagnia, che da quell'esperienza cominciò a uscire più o meno frequentemente in luoghi ormai storici quali le panche di Desio. E un caloroso bacio incel a tutte le cameriere dei locali che frequentiamo!”

Naturale, a questo punto, il passaggio ulteriore verso la musica. “L'esperienza musicale si origina a partire da qualche freestyle nato durante alcune serate passate a fumare e da un progetto embrionale di un paio di noi. Tra una minchiata e l'altra il progetto si è espanso a tutta la crew dando origine al devasto odierno”, che forse non sarebbe arrivato fin qui senza qualche degno colpo di fortuna, “Per lavoro a Pinscher Tornado venne affibbiata una sala prove a Villasanta, che tutt'ora gestisce e che ci facilitò notevolmente il lato tecnico-logistico.”

Piccoli Cani Squadra

I sei rimangono comunque un’accozzaglia normalissima di giovani uomini che popolano le strade d’oggi e l’internet di sempre, e le allusioni a incel e rage comics avrebbero già dovuto farvelo notare. Chi disegna, studia beni culturali o impazzisce per l’MMA, chi salta da un lavoretto all’altro o ha mollato gli studi per i propri sogni, chi non intende assolutamente laurearsi o ha come motivo di vita il sesso e l’erba. La parte meno scontata, però, è fatta di chi sta “vivendo la golden age sessuale, non fa un cazzo, sta cercando una band Djent (un sottogenere del metal più tecnico e brutale, nda), per favore aiutatelo” o “ama a malincuore i Pokémon e la Kinder”, oppure ancora “odia Dio, ama le donne”. Si tratta delle stesse persone.

Soprattutto, un paio tra loro gestiscono due di pagine di meme ( Memes Sublimes e Cinefirns: che sono morte e risorte più volte e ora si chiamano Memes Sublimes Conflitto Finale e James Firns, imprenditore), hanno un bel seguito e sono un chiodo fisso per chi mastica una certa nicchia, quella del textposting o shitposting di cui dicevamo prima. A questo proposito: si tratta di nomi diversi e concetti differenti che, tuttavia, possiamo semplificare e spiegare come testi la cui intenzione principale è quella di sfregiare il buon gusto e il buon senso, e che in contemporanea offrono flussi di coscienza svirgolati e allucinati, ma a modo loro sinceri.

Due di loro gestiscono altrettante pagine di meme: Memes Sublimes e Cinefirns.

Se vi viene da pensare che sono sciocchezze e che siete troppo vecchi per queste stronzate, possiamo ricordarvi che in effetti forse siete morti dentro. Oppure, che anche quando si tratta di robe estremamente semplici, questi post nascondono un’anima spietata e nichilista che possiamo ritrovare nelle avanguardie artistiche del Novecento, come per esempio Dada e come segnalato da diverse parti, tra le quali un articolo su Polygon.

Difficile che i protagonisti si sentano rappresentati in questo strano rapporto con l’arte e l’accademia, ma ciò non toglie che qualche occasione di confronto ci sia stata davvero, per esempio presso l’Università degli Studi di Milano l’anno scorso, in un dibattito asimmetrico dal titolo Shitposting: quali prospettive?! organizzato da Altra Università. “L’appuntamento aveva lo scopo di fare il punto della situazione riguardo l’ironia sui social, le influenze e le prospettive nel futuro prossimo e secondo noi è servito a dare un’immagine concreta della cosa, a svelare un po’ cosa c’è dietro”, ci spiegano.

Piccoli Cani Squadra

E dietro alle quinte “c’è un forte collegamento con l’ironia di internet. Per noi l’approccio è sempre stato quello di far ridere in primis noi stessi,” ribadiscono, “con più naturalezza possibile, liberandoci di ‘robe’ che fluttuano in testa o ricordando avvenimenti che ci sono capitati.” Una maniera di porsi che finisce dritto nelle tracce del disco: “Sinceramente, in saletta ci scassiamo di risate quando dobbiamo scrivere, registrare o proponiamo roba appena sfornata. L'approccio è appunto spontaneo, e i testi nascono durante conversazioni poco impegnate con un processo creativo a ruota libera, ma cercando di non essere banali.”

In questo quadro, il rapporto con chi si sente il disco rischia di diventare una questione di forza e prospettiva, di messaggi criptici o troppo autoreferenziali, che viene smontato con semplicità: “Cerchiamo di rispettare le aspettative dell’ascoltatore rimanendo originali ma cercando di non forzare troppo la cosa. Detto questo, durante la registrazione di ‘Satanassi Infernali’ siamo andati avanti una decina di volte perché scoppiavamo sistematicamente tutti a ridere.” E proprio qui, tra frammenti deliranti tipo “Ferro rovente nei pantaloni / Azoto liquido nei miei polmoni”, accompagnati da una scarica di scorrettezze estreme quali “Genio sessuale mi vuoi sco*are / Certo, padrona, non mi supplicare”, parte un momento di urla e voci tirate allo spasmo che si rivela azzeccatissimo e piuttosto disturbante.

"In saletta ci scassiamo di risate quando dobbiamo scrivere e registrare. L'approccio è spontaneo al massimo."

La chiusura perentoria, “Un uomo va dal dottore, porcamad**na” e il suo seguito di sub bass e droni inquietanti, ci ricorda con chi abbiamo a che fare e i territori da cui provengono loro e gli ascoltatori tipici. “Sicuramente una buona parte del nostro pubblico deriva dalle pagine social e dai nostri amici o amici di amici; a quanto pare c’è persino Dolcenera. Le interazioni sono spesso ironiche e portate più verso il meme o apprezzamenti generici. Per ora contiamo anche un nude! Un paio di persone hanno anche coverizzato qualche nostro pezzo. Ma col nuovo album il bacino si è allargato e stiamo riscontrando qualche fan che segue il progetto musicale e non tanto le pagine, figalmente.”

È però certo che, con quest’approccio e i mille argomenti affrontati con la grazia di un caterpillar ubriaco che cerca di violare un cimitero, i Piccoli Cani Squadra si alienano a prescindere diverse migliaia di ascoltatori. Bestemmie, aborti, misoginia, misantropia, omosessualità, incontinenza, antisionismo, amore, olio di palma e impotenza vengono sparati in faccia all’ascoltatore a ogni passo, con un bel corollario di n-word, “fr**i” e via degenerando. Un commentario e una parodia dei cliché discorsivi del genere, insomma, filtrato da una buona dose di coraggio, più il background e le esperienze di cui sopra in salsa memetica.

Piccoli Cani Squadra

Lo spiega bene il fatto che “I primi beat arrivano proprio dai fan di Cinefirns e solo quando abbiamo registrato abbastanza pezzi abbiamo deciso di raggrupparli nel primo album, Beni Culturali Volume 2: Renegade. L’idea della musica c’è sempre stata ma è rimasta astratta finché non siamo entrati in possesso dei mezzi per portare la cosa ad un piano fisico.” E ancora meglio lo rivela un piccolo glossario delle loro parole d’ordine, ripetute ad nauseam: devasto, sgasare, coppare, annusarsi et co. “In generale, spesso ci piace esasperare e prendere per il culo slang altrui o usanze e modi di dire di qualsiasi provenienza, dal pop al locale. Decontestualizzarli e utilizzarli in modo completamente improprio fino a trasformarli.”

Se cerco d’immaginarmeli, vedo un gruppo di vent/trentenni chiusi in casa a sparlarsi addosso. Un tempo nelle strade suonavano gli otturatori delle armi, oggi invece sono i meme e gli inside jokes personali a rintronare gli altri a furia di significati che valgono come sputazzi in faccia. Si tratta di uno scontro tra immaginari, ovviamente, ieri i gangsta, ora qualcosa di più terra terra. Ma pur sempre di una semiotica dell’eccesso si tratta.

"Ci piace esasperare e prendere per il culo slang o modi di dire. Decontestualizzarli e trasformarli."

Non è una casa il luogo dove si rinchiudono, ma non vado troppo lontano. La loro tana mi viene così descritta: “Dal punto di vista musicale la nostra trappola è la già citata saletta di Villasanta, anche se ci troviamo lì principalmente e appositamente per registrare o ‘pensare musica’. In generale, è umida, sta sottoterra e sotto un cinema-teatro. Si trova accanto o all'interno di un centro sportivo e contiene dei divani devastanti, oltre a dei bagni un po' démodé,” e sulle abitudini mi confermano, “fumiamo un po' ovunque, principalmente ci ritroviamo la sera a Lissone dato che, abitando in luoghi relativamente distanti, è un buon punto medio. Oppure in case altrui a smashare e a fare rewatch.”

In questa dimensione fisica del sottosuolo materiale e di quello di internet, così come dell’underground musicale, trova spazio tutto il resto: da YouTube, Twitch e i videogiochi, come appunto Super Smash Bros, ai Pokémon, citati nella splendida “Legami inossidabili”, che vanta una base chiptune di musica da videogiochi e rime tipo “Sto con i miei fratelli / Legami inossidabili / Sessanta carte in mano / Non penso che puoi batterci / Comandiamo il meta / Tu coi deck tematici / Trappo troppo forte”. Se non è questa una nerdissima ode al gioco e alla compagnia, non so proprio voi dove andiate a pescare i vostri manifesti generazionali.

Piccoli Cani Squadra

Si sommano poi un milione di influenze più propriamente musicali e vicine al resto degli artisti rap e trap, ma intrecciate a nomi che gli altri si sognano. C’è chi, come Giovane Risottino, si è “approcciato al rap per la prima volta coi Lolocaust senza avere alcun tipo di background hip-hop,” per poi passare a “roba tipo Injury Reserve, Gangsta Pat e Jpeg Mafia." Mentre Piccione Ferito ci racconta: "Uochi Toki e Death Grips me li ascoltavo alle superiori per scopare e poi li ho dimenticati per sempre”.

O come Giovane Pantera Sessuale, che “già dalle medie ho sempre ascoltato i classici dell'hip-hop, ma non ho mai troppo approfondito il discorso trap. Attualmente ascolto tanto rap italiano, con una certa pendenza verso il conscious. Che gay, LMAO.” È però quando allarghiamo il campo ai dischi della vita, ai titoli dell’anno scorso, alle musiche extra-rap e alle influenze dei loro produttori di fiducia che arrivano le sorprese e cominciamo a comprendere come si siano formati i miscugli bizzarri di Piccoli Cani Squadra.

"Uochi Toki e Death Grips me li ascoltavo alle superiori per scopare e poi li ho dimenticati per sempre."

Una fiumana di nomi eclettici e variegati si presentano alla porta. Portishead, Morphine e Tiziano Ferro, ma anche stranezze come la sigla di Casa Vianello, la primizia dei San Culamo, il “porngrindcore” e il nuovissimo Underneath dei punk hardcorers Code Orange, oppure Symbolic di quella meraviglia che furono quei metallari dei Death.

Per poi tornare a territori a noi più vicini come Fritz da Cat con il suo Novecinquanta, Dark Polo Gang e Lil Ugly Mane—in particolare quella gemma cloud rap a titolo Volume 1: Flick Your Tongue Against Your Teeth And Describe the Present, sotto l’alias di bedwetter—, Playboi Carti o “l’ultimo di Danny Brown”. E “aggiungiamo l’apporto dei producer per dare un’idea del loro bagaglio musicale”.

Piccoli Cani Squadra

Già, i producer, un capitolo a parte che fa guardare al lavoro dei Piccoli Cani Squadra meno come a un frutto fortuito, ma ricercato, di meme e amici e più come le avvisaglie di un collettivo in espansione continua. Quando domando loro chi si è occupato della parte strettamente musicale, delle basi e via dicendo, mi raccontano che “Il primo album è stato quasi interamente prodotto da Lil Horse, un ai tempi 13enne campano fan di Cinefirns.”

E che “tra il primo e il secondo album sono arrivati i nostri angeli custodi Nick Snow e Phil Goodies del collettivo Tech Heels Club. Da cosa nasce cosa e siamo entrati in contatto anche con Bad Vibes, Coinboy, sempre dello stesso collettivo, e con Blake Ned, un supern***o sardo, altro fan di Cinefirns.” Quest’ultimo, tra il serio e il faceto, mi racconta delle richieste dei vari membri, che suonano più o meno così: “Ficcaci una sirena in loop, fai un beat fr**io, fai un beat da evasori fiscali”.

"Facci un beat da evasori fiscali."

Torna dunque la componente d’insieme, il fatto che il progetto inglobi naturalmente le particelle impazzite e non lineari che trova per strada, arricchendo il suo surreale bagaglio e regalando alla musica nuove invenzioni di stile e forma. “Lavoriamo tutti insieme nonostante la distanza fisica e cerchiamo sempre di sperimentare su suoni più differenti possibili. Lo scopo è quello di dare più varietà al prodotto finale. È anche un modo per mettersi in gioco di più, per rendere il prodotto più variegato, meno banale e meno ancorato ai cliché.”

È quello che potremmo definire “un viaggio musicale a dir poco vasto, confuso e sempre alla ricerca di nuovi artisti e nuove sonorità”, ed è il motivo per cui saltano fuori anche i nomi di Aphex Twin e l’elettronica sognante di Slow Magic, Sporco Noproblem (“imho miglior rapper in Italia al momento”) e i metallari Children of Bodom. Oltre al nostro amato Pufuleti.

Piccoli Cani Squadra
La Copertina Di Beni Culturali Vol. 2: Renegade Di Piccoli Cani Squadra, Cliccaci Sopra Per Ascoltarlo Su Spotify

Si tratta del tipo d’anomalia che quando si deve confrontare con i trick fondamentali della trap non ha particolari problemi a riconoscerne punti di forza e criticità, “Sicuramente in America, e in misura nettamente minore in Italia, ci sono esponenti validi ma i canoni del genere sono spesso noiosi e ripetitivi. Raramente c’è chi riesce ad affrontarli con originalità e stile. Noi cerchiamo di usare una strada alternativa, decontestualizziamo la trap per parlare di ciò che ci diverte, stabilendo i nostri canoni personali e cercando sempre di mostrare la nostra visione del genere: qualcosa di nuovo e fuori dagli schemi classici.”

Motivo per il quale una sublime follia quale “4 ragazzi in padella”, riesce a dichiarare contemporaneamente l’amore per la cucina grazie a un’intro come “Cucinando squisitezze proprio come Cooking Mama / Son meglio della Parodi ma non vado a Master Chef / Fanculo quei programmi cucino pezzi per la squadra / Benvenuti nella mia cucina” e a farla stare in armonia con un suono totalmente devoto a rave e gabber, aritmie drum’n’bass e la dance più morbida. Ovviamente, la traccia seguente, “Piccoli Cvni” inizia e finisce come un vero e proprio pezzo death metal, e con la chiusa “Raga, io mi fermerei anche qua sinceramente.”

"I canoni del genere trap sono spesso noiosi e ripetitivi. Raramente c’è chi riesce ad affrontarli con originalità e stile."

Sono talmente fuori dagli schemi da disinteressarsi quasi del tutto all’aspetto live, un po’ per motivi pratici e un poco per il solito approccio ludico e l’umorismo beffardo. “Il nostro primo concerto fu un'esperienza divertente ma poco appagante, dati i numerosi problemi tecnici e l’inesperienza generale, conditi da alcol e droga e un fonico incapace. La nostra idea di concerto comunque è più simile a 'na caciara: a grandi linee sarebbe a metà tra uno spettacolo teatrale, una performance e una festa in casa.”

A confermarlo, il fatto che i concerti venuti veramente bene, al Tambourine di Seregno, videro protagonisti i “wall of death e un ribaltamento di ruoli in cui il pubblico si era ritrovato principalmente sul palco e noi ‘performers’ sotto. Perché il focus è più l'intrattenimento e il contatto col pubblico.” Senza contare che in considerazione dei background così particolari, anche le serate tra soci sembrano alquanto strane: “Non siamo letteralmente mai stati a un concerto tutti insieme date le differenze di background musicale. L'esperienza più vicina sono forse le serate al Macao di Milano, ma sono più simili a una serata disco, a dirla tutta”.

Piccoli Cani Squadra

Qualcuno va al Gods of metal, qualcun altro da Rkomi e Tedua, oppure a sentire Claver Gold in un centro sociale a Rho, “bel devasto”. Comunque, “il più recente è un viaggio in macchina nell'underground di Torino per vedere i faUSt e Peter Brötzmann”, due capisaldi della musica sperimentale e del jazz matto e rumoroso, per intenderci, se ancora non avete capito con chi stiamo parlando.

Sia quel che sia, Emporio del Male magari non allieterà le vostre orecchie, non vi stupirà con rime clamorose o una produzione allo stato dell’arte. Anzi, tutt’altro, visto che a tratti il tutto suona un po’ amatoriale, sporco o acerbo, le voci vanno e vengono e a volte manca l’aria. Eppure, persino negli errori, i passaggi svogliati o quelli venuti male, c’è più immaginazione, fotta e creatività in questi ragazzi che in tre quarti del resto della scena.

Cosa che dimostra quanto sia meglio la sincerità di un prodotto bacato, ma sincero, vivo e burlesco al gusto di olio di palma, rispetto all’ennesimo dissing patinato su Instagram o il richiamo allo swag lontano milioni di anni luce. E voi dubbiosi, fighetti e perplessi, ricordatevi: “Vorremmo lanciare un appello e/o sensibilizzare chi vuole fare musica ma pensa che debba comprare chissà cosa: non serve nessuna attrezzatura specifica, potenzialmente, se avete un cellulare o un computer, avete già il 90% della roba che vi serve.” Datevi da fare e seguite il cattivo esempio.

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I remix slowed + reverb sono la nuova frontiera della musica su YouTube

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La primavera s’infiltra tra gli infissi mentre spiamo l’esterno. Nelle case implode l’inverno della quarantena ma fuori s’allarga un’esagerazione di verde e cinguettii musicali, tra sbuffi di sole, tarassaco e margherite. La carne sente il richiamo, ricorda il suo debito di pelle scoperta.

Moltissimi tra noi sono a distanza cosmica e odiosa rispetto alle persone che vogliono e desiderano, che si tratti d’amici o d’amanti. Non possiamo fare altro che scorrere un conto in rosso d’affetto, di abbracci in disuso e labbra rimesse a nuovo dai baci che mancano. L’umore, ormai marcio.

Alla sera, ci si ritrova ancora più in basso e diventa comodo farsi accompagnare dalla giusta colonna sonora. "Non so più quando è giorno / Non guardo l'orologio, la mia vita è un sogno", cantano Mecna e Sick Luke, forti dell'emoji triste che dà il titolo al pezzo, ":(". "Queste città sono bollenti anche a dicembre e fanno / Venire voglia di scappare, andare via soltanto", insistono.

È una fuga al ralenti già nel pezzo principale, contenuto in Neverland, e che però nella versione slowed + reverb subisce un trattamento ulteriore ed estremo: viene rallentato fino a quando la voce diventa un rantolo cavernoso di dolore e il registro generale si trasforma in una ode alla malinconia terminale. Sullo sfondo, un frammento in bianco e nero rubato da un cartone animato, con quattro teschi ballerini e sgranati che danzano a vuoto.

Il brano è rallentato fino a quando si trasforma in una ode alla malinconia terminale.

Si tratta di uno dei tanti esempi di un nuovo filone—nemmeno troppo nuovo, come vedremo—che infesta lo spazio siderale del web: un angelico parassita affamato dei nostri sentimenti più romantici. Su YouTube, via Reddit, in quel di Soundcloud e negli anfratti dedicati dei gruppi privati, sta fiorendo infatti una pratica che si dedica soltanto a ridurre allo stremo la velocità di canzoni già note, per poi immergerle in una nebbia di riverbero: slowed + reverb, appunto.

I brani che da noi attecchiscono di più sono quelli che contengono già in partenza una buona dose di nervi scoperti e sentimenti a fior di pelle. Tutto un girone fatto d'itpop ed emo trap, indie e cloud rap (benché il rap classico non manchi), composti da melodia e fragilità emotiva che s'intravedono quasi a occhio nudo, raggi-x dell'anima: PSICOLOGI, Coez, Carl Brave x Franco126, Calcutta, Luchè, Tedua & Sfera Ebbasta, persino un drogatissimo tha Supreme o "L'ego", tratta dall'ultimo album di Marracash.

A differenza della controparte internazionale, insomma, qui l'humus locale si fa sentire con forza; tanto che al processo di manipolazione non sfugge nemmeno la trap più tetra e greve di FSK Satellite e Dark Polo Gang, e in generale non sfugge quasi nessuno della nuova scuola. Ma è comunque una musica facile e smussata dagli angoli più duri, tecnicamente spesso grezza e sgraziata, composta quasi sempre da musicisti e utenti alle prime armi, che vogliono lanciare il cuore oltre ogni obiettivo per il semplice risultato di una canzone in più che ci faccia a pezzi quando arriva sera.

Si tratta di una formula semplice e ripetuta con variazioni minime, tutt'al più distinguibile dalle gif e dai loop animati in accompagnamento, una cascata di frammenti notturni tratti da anime e imbevuti di estetica vaporwave. Il risultato, però, è stranamente quanto di più prezioso possa accompagnare queste strane giornate.

Una formula semplice che però è preziosa in queste strane giornate.

All'ascolto viene infatti a crearsi un suono psichedelico e sognante, immerso in un sottofondo di malinconia devastante, aumentato a dismisura da quelle gif che evocano un’altra memoria ormai persa, l’ennesimo infinito mondo andato a male o dimenticato. Doppiamente prezioso, visto che i risultati finali si trasformano e sublimano in una versione pop di sperimentatori e avanguardisti del calibro di William Basinski o The Caretaker.

Tutto questo, in realtà, non è davvero così nuovo e ha delle fondamenta e dei motivi più ampi e profondi. Nell’ultimo decennio, infatti, l'indole malinconica e notturna musicata da molti artisti si è allargata verso un generale sentimento d’inadeguatezza e d’incertezza, dovuto alla situazione sociale, economica e politica mondiale.

L’ansia, le tasche vuote e la nostalgia si sono accaparrate la maggior parte della popolazione con una voracità rara, rosicchiando fino all’anima per lasciare solo un futuro monco e inquieto, a pezzi e ormai persosi per strada. Una situazione perfettamente rappresentata dalla maggior parte dei dischi di questi ultimi anni, gonfi di psicofarmaci e tristezza terminale.

Già a partire dal 2005 un paio d’importanti critici musicali inglesi, Simon Reynolds e Mark Fisher, avevano cominciato a utilizzare un’espressione rubata alla filosofia e alla critica politica, “hauntology”, per descrivere una musica ripiena di fantasmi e di nostalgia. Un suono letteralmente posseduto da un domani che non sarebbe mai arrivato, e da un passato che non è nient’altro che una discarica di scorie radioattive emotive.

Una musica piena di fantasmi e di nostalgia, posseduta da un domani che non arriva.

Solo che quei fantasmi non se ne sono mai andati e infestano più che mai le strade, esattamente come Pennywise infesta tutt’ora le fogne di Derry, le pagine di IT e la memoria di Stephen King. E proprio come lui, come esso, assumono molte forme, mutevoli e altrettanto incerte: a seconda del momento, si trasformano in depressione e disperazione, rimpianto o erosione della memoria.

Questi spettri, però, non hanno idea di come scorra per noi il tempo e per questo compiono un girotondo continuo tra ciò che c’era oggi e che quel che verrà domani, attraversando ogni momento. All’inizio dei Novanta già si muovono per cercare una forma compiuta, perché hanno bisogno di trovare dei corpi pronti a contenerli.

slowed + reverb

Non li trovano, ma s’imbattono in un negromante di prima grandezza: DJ Screw. Che, imbevuto di marijuana e dei primi beveroni di lean—così vuole la leggenda e tramandano i canti—, comincerà a infilarli nel suo ritmo personale: quello che fa è rallentare i pezzi gangsta rap fino allo sfinimento, per sfiancarli a morte e produrre una narcolessia musicale in totale accordo con le sue percezioni. Canzoni chopped & screwed: fatte a pezzi e sputtanate.

A novembre del 2000 Dj Screw muore per una dose combinata di codeina, alcool e dio sola sa cos’altro, aumentando il numero totale delle anime senza riposo. Ma nel frattempo ha generato a sorpresa una vena d'oro inattesa e sublime, che conta migliaia di seguaci.

È una forma di solitudine che paradossalmente ci unisce tutti.

Quando l’ennesimo spettro—quello del primo internet veramente popolare, di Napster, Soulseek e scambi peer-to-peer—si affaccia sul palco, il resto delle presenze, affamate della vita degli altri, scorrono da quei mixtape per arrivare a un pubblico pressoché enorme, lasciando che il mondo scopra i suoi lavori e grazie ad essi un altro mondo ancora.

È così che quella lentezza esasperata e narcotica, e la sua vena malinconica e negativa, diventano i fornitori principali dell’impronta, cioè il template, di decenni di musica a venire—basti solo ricordare l'omaggio esplicito di Travis Scott con "R.I.P: Screw". Una musica che oggi che siamo isolati gli uni dagli altri si presenta come la colonna sonora perfetta per le nostre giornate. Una forma di solitudine che trascende e paradossalmente ci unisce tutti.

E che arriva fino ad oggi, alla sua ennesima variante spettrale, slowed + reverb, composta da un esercito di anonimi autori ai quali vanno i nostri ringraziamenti. Appassionati che spesso nascondono le proprie creazioni negli anfratti della rete, con l'unica intenzione di condividere la propria visione con chi li capisce, pronti a mettere mano alla prossima canzone da rallentare a forza e infilare in una malinconica cassa mortuaria fatta di riverbero e rimpianti.

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A Dubai rischi il carcere se parli male delle autorità—e allora come puoi fare rap?

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Nel corso degli ultimi anni, il rap è diventato una parte fondamentale della scena musicale nel mondo arabo. Dal Maghreb al Levante, i giovani cantanti arabi lo stanno usando per criticare la corruzione e lanciare una provocazione contro lo status quo. Questo comporta dei rischi: in novembre 2019, il rapper marocchino Simo Gnawi è stato condannato a un anno di prigione per aver postato un video in cui criticava la polizia, ma i suoi fan pensano che si sia trattata di una scusa per colpirlo in risposta a una canzone virale che aveva pubblicato soltanto qualche giorno prima in cui prendeva di mira la famiglia reale.

Negli Emirati Arabi Uniti, una nazione composta all'85 percento da migranti di oltre 200 nazionalità, le superstar mondiali che passano in tour tendono a mettere in ombra la nascente scena rap locale. Questa mancanza di visibilità rende difficile vendere biglietti per i rapper del posto, e le performance spontanee sono ostacolate da un'intricata burocrazia. Tutto questo contribuisce a dare l'immagine di una scena superficiale e monodimensionale—e mettiamoci anche il fatto che fino a sette anni fa, per intenderci, fare rap a Dubai significava fare finta di essere famosi senza avere un vero pubblico.

Nel corso degli ultimi anni, il rap è diventato una parte fondamentale della scena musicale nel mondo arabo.

“Dubai si è ritrovata questa reputazione negativa,” dice Khaled Fouad, AKA Kafv, un rapper di 27 anni risiedente a Sharjah. "Ma il pubblico multinazionale qui potrebbe dare una spinta fortissima a rendere la scena musicale e quella artistica molto ricche e interessanti. Non penso che questo potenziale si sia ancora realizzato e, finora, la maggior parte delle persone cerca più che altro di copiare le mode e le tendenze del rap americano. Comunque il talento c'è. Penso che ci vorrà un po' di tempo e un po' di riflessione per arrivare dove vogliamo arrivare".

Kafv, che ha pubblicato il suo primo album Akshun nell'estate del 2019, odia lo stereotipo di Dubai come meta di lusso dove i ricchi di tutto il mondo vanno a frequentare eventi per VIP. "Alcuni rapper internazionali non fanno altro che dipingere questa immagine," dice, "ma non è una cosa di cui andare fieri, secondo me".

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Khaled Fouad, aka Kafv

La scena rap del Golfo può essere ancora un po' limitata in molti sensi, ma questo non ha impedito ad alcune voci importanti di emergere. Big Hass, un artista saudita che vive a Dubai, è uno dei rapper più famosi della regione e un esperto di rap arabo. Presenta un programma radio su Mix FM intitolato "Why Hip Hop" e il suo blog RE-VOLT mette sotto i riflettori i migliori rapper degli Emirati.

"Il rap è sempre stato in grado di parlare di veri problemi," dice. "Gran parte degli artisti pop arabi parlano solo di amore e relazioni nelle loro canzoni, mentre i rapper arabi parlano alla e della gente, e in gran parte portano avanti un messaggio sociale e politico reale. Ma non è questo il caso nel Golfo".

"I rapper arabi parlano alla e della gente, e in gran parte portano avanti un messaggio sociale e politico reale. Ma non è questo il caso nel Golfo".

Oltre alle restrizioni politiche, Big Hass fa notare che anche la varietà musicale di Dubai rende difficile ottenere un suono unico, "ma forse è proprio questa la voce di Dubai". E aggiunge: "All'inizio, la musica rap del Golfo riproduceva il gangsta rap degli USA dei primi anni Novanta. Gran parte dei rapper degli Emirati che hanno iniziato in questo modo poi non hanno continuato, ma la scena di oggi è completamente diversa. Ci sono molti rapper fantastici nella penisola araba e si meritano di essere conosciuti".

Mustafa Ismail, AKA Freek, è uno di loro. Il suo suono è arrivato fino al Regno Unito, in particolare la traccia “Salah”, un tributo all'attaccante del Liverpool Mo Salah. Ismail, che ha 27 anni, è nato in Somalia e rappa in arabo. "Sentivo che c'era bisogno di un vero suono degli Emirati," dice. "Solo non sapevo che ci sarebbe voluto tutto questo tempo per crearlo. Ma ci sono arrivato. Volevo davvero sentire lo slang degli EAU—volevo sentire qualcosa di grezzo".

Freek
Freek nel suo studio a Dubai.

Nonostante il suo successo, Ismail ammette che ha sempre dovuto "evitare certi argomenti" nei suoi testi, per "non offendere nessuno". Big Hass pensa che il cambiamento potrebbe arrivare da fuori. "I rapper della regione del Golfo non sono ancora pronti a parlare di politica nelle loro canzoni", dice. "Ma fuori dalla Penisola Araba si trovano molti rapper politicizzati".

N1yah, una rapper nata in Libano che si è guadagnata il soprannome di "Nicki Minaj del Medioriente", dà il merito a Dubai per aver dato forma al suo stile. "Il vantaggio di vivere a Dubai è che posso interagire con diversi tipi di persone da tutto il mondo," dice. N1yah ha scelto di rappare in inglese, dice che aiuta "a colmare le lacune formate dalle diverse lingue" in una città multiculturale come Dubai. "Voglio far capire alla gente che siamo tutti uguali, che possiamo formare legami".

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N1yah ha scelto di rappare in inglese

Alla fine, nonostante le difficoltà che i rapper di Dubai devono affrontare, la scena resta promettente. "I rapper qui stanno abbattendo muri," dichiara l'artista The Real SQ. “Diventano sempre più consapevoli di come iniziare una buona carriera musicale—e più creativi." The Real SQ è un cittadino degli Emirati di 33 anni e al momento sta organizzando l'apertura di uno dei primi centri di cultura urban di Dubai. Un'altra possibilità di dimostrare il valore della scena rap degli Emirati.

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Leggi un articolo del 2013, quando la situazione era molto diversa:


Un eroe ha caricato su YouTube 50 minuti di intervista alla Dogo Gang

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Ogni tanto su YouTube emerge qualcosa che rende più sopportabile la vita. È il caso di questa intervista alla Dogo Gang d’annata—il titolo suggerisce circa 2008 e sembrerebbe corretto—postata da un utente solamente pochi mesi fa.

Questa gemma ci riporta in una Milano diversa, più ruvida e sincera, dove Guè Pequeno, Marracash, Don Joe, Emi Lo Zio, Vincenzo Da Via Anfossi e Dj Harsh raccontano la strada e non solo. La cosa che rende più magica l’intervista è la sua semplicità, con la Gang ammassata su due divanetti che si condivide un microfono, chiacchierando e cazzeggiando in diretta su una web tv oggi scomparsa.

Da questo nascono momenti altissimi, come quando Marra è costretto a scappare dallo studio perché ha c'è un vigile che gli sta mettendo la multa, i continui messaggi d’amore per Guè che non può togliersi gli occhiali da sole perché reduce da una serata pesante e i saluti in diretta di Montenero. Non mancano momenti più seri, come le riflessioni sulle major e il rapporto con la stampa, o quando una chiamata in studio li costringe a spiegare il sessismo dietro alcuni loro pezzi.

Nessuna rivelazione sconvolgente insomma, ma un video divertente e malinconico, da vedere per avere un’idea di com’era la scena milanese degli anni 2000 o per tuffarsi nella nostalgia se durante quel periodo usavate "sgrilla" e "roccia" in una conversazione su due.

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Guarda la nostra intervista a Gué Pequeno e Marracash per l'uscita di Santeria:

Non ne potete più dei soliti testi trap? La soluzione è il poetry slam italiano

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Nota: Dal poetry slam si sono diramate molte esperienze sperimentali di spoken word, poesia performativa, raccolte di poesia scritta, sostenute da grandi realtà come LIPS e collettivi in tutto il territorio nazionale

“I see no changes / All I see is racist faces", diceva 2Pac” Il rap non è stato solo il mio genere musicale preferito ma un processo di autodeterminazione personale. Chuck D definì il Rap "La CNN dei poveri", la parola degli oppressi che non si dicono vinti: era esattamente la lezione che volevo, un ottimo doposcuola che mi portò a prendere coscienza della vita. Ero stufa di sentirmi al margine della società, la poveretta, la marocchina immigrata figlia del Vucumprà.

Storicamente, il rap ha una scrittura che si contrappone alla sottomissione e al vittimismo. Definisce un immaginario di resistenza e denuncia verso le ingiustizie che si vivono nel quotidiano attraverso storie vissute. Oggi il linguaggio del rap viene usato anche solo in quanto tale, senza rispecchiare un'esperienza e una realtà, ma ci manipola finché non ci rendiamo conto che dobbiamo prenderlo in pugno. È così che i rapper usavano la parola n***a per esempio: all'inizio io la consideravo solo un insulto, poi ho capito che può essere una rivendicazione di valore e orgoglio.

"L’afroamericano nasce come linguaggio di resistenza alle pratiche di repressione razziale, che più di tutte ha condizionato lo slang nel linguaggio rap."

In questo senso, la lingua è un luogo da condividere, un confine da attraversare. Come spiega Anna Taronna nel suo saggio Black Englishes, la lingua parlata dalla comunità afroamericana nasce dalla necessità degli schiavi poi liberati e dei loro figli di emanciparsi dal controllo del padrone bianco. Lo slang del linguaggio rap, quindi, nasce come una contro-lingua, una resistenza alle pratiche di repressione razziale.

Lo slang nasce quindi dalla voglia di "riprendere possesso di se stessi, riconoscersi, riunirsi, ricominciare", spiega Taronna. Nigga, quindi, è una parola comunitaria. Circola in maniera quasi esclusiva nei discorsi della comunità afro-americana come sinonimo di male, guy, boy e talvolta friend, brotha, homie, in contrapposizione alla diffusione del termine nigger usato dagli americani bianchi con accezione razzista. Il punto non era imitare la parola, ma manipolarla dandone una opposta connotazione.

wissal houbabi
Wissal Houbabi

Questo esempio specifico è solo per spiegare il potenziale che può avere il linguaggio se si va alla radice e ci si riappropria strappandone le redini, consapevolmente, delle parole che si fanno idea e poi azione. È un processo molto importante ed era, secondo me, la chiave da cui partire per spiegare come le periferie, sia fisiche che sociali, possano essere raccontate al meglio non solo dalla trap, ma anche da una cosa chiamata spoken word.

A darmi gli strumenti utili per capire la mia condizione di immigrata in Italia sono stati discografie e libri di storia degli afroamericani. Hanno definito il mio carattere e i miei obiettivi e mi sono resa conto che il potere che quelle parole avevano scatenato in me dovevano uscire dalla mia stanza e contaminarsi nella strada. La carica si era scatenata da pezzi come "Batti il tuo tempo," "Stop al panico!", "Potere alla Parola," "Lingua Ferita," "Il Vero Nemico," "Piombo e fango." Se ho iniziato a fare politica attivamente è quindi grazie alla forza del rap che a sua volta prende corpo, qui in Italia, dall’antagonismo politico.

"Il linguaggio politico era poco accessibile, escludente. È così che ho iniziato a scrivere in rima."

Durante i primi anni di attivismo mi venne da riflettere sulla forza comunicativa che avevano i messaggi che sentivo nelle strade. Il linguaggio politico era poco accessibile, escludente, e così spostava l'attenzione dal messaggio alla sua forma. È così che ho iniziato a scrivere in rima, con in mente le persone che scendevano con me ai cortei e alle manifestazioni. Non si può parlare di artista/pubblico, era solo questione di buttare fuori le nostre esigenze rendendo il messaggio più diretto e orecchiabile, sperando che rimanga qualche verso in testa. Proprio come i rapper.

I tempi però sono cambiati. Essere un rapper, oggi, non significa solo fare comunità ma anche essere individualisti. Il rap come lavoro è un'ambizione, una categoria nei talent show e nei contenitori ufficiali come Sanremo. Tutto naturale, dato che è il genere più diffuso al mondo tra i giovani, ma questo non significa che si sia diffuso il potenziale che ne deriva: l’urgenza comunicativa e la volontà di spalleggiare per esprimersi.

Anche se ci diciamo che non è così, la realtà è che non serve più sapere da dove viene un rapper, che rapporto ha con il proprio quartiere o se ha realmente qualcosa da dire.

Si può tranquillamente ascoltare rap in radio ignorando completamente le sue origini, i numeri su Spotify e YouTube sono il metro di misura per capire il valore che ha un rapper. Anche se ci diciamo che non è così, la realtà è che non serve più sapere da dove viene un artista, che rapporto ha con il proprio quartiere o se ha realmente qualcosa da dire.

Più che “CNN dei poveri”, oggi abbiamo quindi a che fare con influencer e superstar che rappresentano se stessi ed il marketing che si sviluppa attorno alla loro immagine. Naturalmente non c’è nero o bianco in nessuna scelta, però è importante fare questa considerazione di metodo. E ovviamente ci sono rapper che continuano a svolgere un lavoro sul territorio, organizzano laboratori di scrittura nelle carceri o per associazioni di volontariato. Ci sono rapper che riescono a far sentire la propria voce continuando a gravitare attorno a produzioni indipendenti per scelta sapendo che non è facile.

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Fotografia dell'ultima di edizione di Slam X al CSOA Cox18 di Milano

L’underground è insomma una scusa per tanti, ma non per tutti. È una cosa che ho capito un paio di anni fa quando per caso mi è capitato di partecipare al mio primo poetry slam. Ero al Cso Django di Treviso e avevo ricevuto un invito da Lorenzo Feltrin, compagno e fratello di Alberto Dubito, un rapper-poeta trevigiano che si è suicidato a vent'anni nel 2012.

Cos'è un Poetry Slam? È una sfida non competitiva che vede come protagonista la Poesia stessa. E come funziona? Gli/le slammer hanno tre minuti di tempo per leggere un proprio testo, ci sono due manche più la finale al quale accedono i/le due slammer che avranno avuto il punteggio più alto. La giuria viene estratta a sorte dal pubblico. È composta da cinque persone e deve dare un voto da uno a dieci; dal quale si toglie il voto più alto e quello più basso. Il gioco inizia con un sacrifice, una poesia fuori gara che ha come fine quello di riscaldare il pubblico, sciogliere il ghiaccio e far capire alla giuria come ci si deve inserire nel processo.

Esattamente come per il rap, il poetry slam è una forma d’arte che nasce dalla strada e ha bisogno di un maestro di cerimonie che diriga la sfida.

Esattamente come per il rap, il poetry slam è una forma d’arte che nasce dalla strada e ha bisogno di un maestro di cerimonie che diriga la sfida. Lo scontro è dialettico e si concentra sulla performance, sul rapporto che si riesce a innescare con il pubblico. È molto più simile allo spirito che si genera in un cypher che ad una vera e propria battle rap, per intenderci. Ogni poetry slam genera nuovi incontri e, abbattendo al massimo la competitività, si promuove un maggior senso di comunità e interscambio reciproco.

A quale fine? Dare vita ad una scena di poesia contemporanea fertile accogliendo persone che vengono da ambiti diversi. C’è chi viene da studi di filologia classica, chi viene dal rap, chi dal teatro, chi viene dalla musica sperimentale ,e avanti così. Approcci diversi alla parola che si incontrano in uno spazio ibrido per poter generare qualcosa di nuovo, mai scontato, come il gruppo di spoken word Mezzopalco per esempio, uno dei progetti di sole voci più riusciti. Ciò che affascina maggiormente è proprio la contaminazione che la comunità fluida genera dal basso.

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Mezzopalco, fotografia di Maria Rotolo

Alla fine di quel mio primo poetry slam rimasi colpita da ciò che avevo visto, dalle storie che mi erano state raccontate su Alberto Dubito e dalla comunità ibrida e compatta di attivisti, rapper, poeti e poetesse che era nata per portarne avanti il ricordo. Nei suoi testi raccolti in Erravamo giovani stranieri usava proprio quella rabbia che cerco e che provo: "Devo scrive il mio tempo prima che lui scriva me, come dare forma al mio secolo prima di adagiarmi inconsciamente sulla sua. Devo scriverlo perché quello che non scrivo mi limita fino a quando non diventa limite di carta e se non mi limito è perché correndo tra le città teatro io brucio dentro, mentre fuori nevica e non rifiuto il futuro: sai, non conviene. Ma preferisco bruciare bene e bruciare in fretta, quindi, mon frère, seguimi per mille miglia e dammi retta, ti prego dammi retta. Dalle periferie arrugginite fino al centro storico, di fretta [Non c’è più Tempo] ».

Parlava anche di me e lo faceva con la grinta di un ragazzo che sente l'urgenza di esprimersi, quella rabbia autentica che brucia dentro e permette di sfogare addosso alla propria generazione quelli che sono i mali delle nostre periferie, proprio quel margine come "un luogo da abitare, capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi".

"Devo scrive il mio tempo prima che lui scriva me, come dare forma al mio secolo prima di adagiarmi inconsciamente sulla sua" - Alberto Dubito

Santa Bronx è il nome che Dubito ha dato a un quartiere di una delle periferie da lui percorse, Santa Bona, dove è cresciuto: arrugginite, corrose da miliardi di passi, incrostate da disillusioni infinite, che abbracciano città addormentate e narcotizzate. Nel suo primo disco insieme al suo gruppo Disturbati Dalla CUiete, La frustrAzione del lunedì, affronta il collasso sociale e le crisi interiori, facendo la tara tra ideali e quotidianità, "al netto della mancanza di futuro che tutti gli profetizzano da quando sanno leggere e scrivere".

Dalla periferia vengo anch'io, da una piccola frazione sperduta in Umbria lontana dalle possibilità delle metropoli. Dalla quella di New York è nata la cultura hip-hop che si è diffusa in tutto il mondo ed è forse questo il sentimento che ci ha uniti, facendomi sentire compresa e rappresentata. La periferia, intesa come marginalità, ha in sé il potenziale per generare nuova luce, ribaltando la percezione. Possiamo considerarla come sguardo privilegiato e scostato dal centro che è cieco. È "un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi", scrive bell hooks.

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Vittorio Zollo x Mezzopalco, fotografia di Maria Rotolo

"Le periferie sono l’unico luogo dove sia possibile ridare senso a parole ormai logore, dove sia possibile suonare una musica che non accompagni la lotta, ma che sia essa stessa lotta," dice Paolo Cerruto, segretario del Premio di poesia con musica Alberto Dubito. Anche lui, come me, si è avvicinato alla poesia grazie alla politica. Il premio per cui lavora fa parte del festival milanese Slam X organizzato da Agenzia X uno di quei eventi imprescindibili per la comunità slam poetry italiana.

Il bando, aperto ogni anno da aprile ad agosto, è rivolto a poeti, performer, rapper e cantautori; chiunque sperimenti con la voce e le note. Da sette anni una giuria di qualità ascolta e premia le esperienze under 35 più significative di tutta Italia. L’ultima edizione l’hanno vinta due ragazzi di Palermo, con un progetto chiamato Astolfo 13, che hanno riscritto alcuni episodi dell’Orlando furioso in chiave rap e spoken word, su basi di elettronica.

Il parallelismo con Santa Bronx emerge nella percezione che gli Astolfo 13 hanno della propria città di origine: Palermo "produce una quantità di macerie (rifiuti, animali randagi, luoghi abbandonati), combustioni (mercato/supermecato; urbanizzazione/centro storico ecc.) bellezza e stranezza che è sostanzialmente impossibile non cavarne nulla: qualsiasi abitante di questo circo ti darà sempre la stessa cosa, cioè che lo odi e lo ami, simultaneamente, senza sconti o scompensi." A parlare è Giulio Musso, voce e testi di Astolfo 13, che concepisce la scrittura come modo per metabolizzare le contraddizioni laceranti del mondo in cui vive, cioè del capitalismo.

Da questa idea di valorizzazione dal basso dei luoghi e delle persone che li animano, per esempio, nasce il progetto “Guide Percettive” dei poeti Toi Giordani e Vittorio Zollo, membri del Collettivo Zoopalco. Nel progetto site-specific GP, ad esempio, associano il poeta alla figura di "antenna": "è la figura capace di mettere al servizio di un luogo la propria scrittura e la propria pratica espressiva". Vittorio, che vive a San Leucio del Sannio, un paesino in provincia di Benevento, sottolinea come la sua idea fosse proprio questa: "la poesia doveva entrare nei luoghi in cui non era mai stata".

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Toi Giordani e Vittorio Zollo a San Leucio del Sannio

A quale fine? A dar nuova linfa vitale! San Leucio del Sannio, però, come molti borghi che sono tanto preziosi e custodi della tradizione e della cultura orale, vivono una condizione critica di spopolamento e isolamento; l’obiettivo, attraverso la poesia, è dare voce alle storie che rischiano di essere sommerse e schiacciate.

Siano, quindi, periferie caratterizzate da un senso di abbandono generazionale, siano metropoli svendute alla gentrificazione capitalista; siano piccoli borghi dell'entroterra che vivono una forte crisi di spopolamento, sia il mio conflitto con lo spazio che non mi ha mai riconosciuta... che sia la ricerca di nuovi orizzonti, da uno sguardo che si scosta per tentare di far risuonare i margini e gli abitanti dei margini—la poesia si fa strumento: è parola radicale in cui ogni singolo suono è potere.

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Quando Pordenone era la città più punk d'Italia

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Sembra proprio che stiamo per fare un giro di boa, ragazzi. Si chiude un’epoca, anzi forse più di una. Impossibile ignorare in questo periodo i morti per pandemia, e all’orizzonte spariscono anche quelli che hanno fatto la storia della musica: è notizia recente la scomparsa di Genesis P-Orridge, leader dei Throbbing Gristle e degli Psychic TV. È stata colpa di un tumore, perché si muore ancora e soprattutto di altre malattie e la gente se n’è scordata.

In questo il destino ingrato di Genesis è identico a quello di Elisabetta Imelio, cantante dei Sick Tamburo ma soprattutto bassista dei Prozac+, la band pop punk rimasta nella memoria collettiva italiana soprattutto per "Acida". Anche lei problemi al fegato, anche lei scomparsa recentemente e, con le dovute e ovvie differenze, rimasta in una parte importante della storia della musica italiana. Perché in un certo senso, i Prozac+ rappresentano gli anni Novanta di questo paese.

In un certo senso, i Prozac+ rappresentano gli anni Novanta di questo paese.

Vediamo però questa faccenda in modo razionale, non è consuetudine di Italian Folgorati tifare tristezza. Rispetto a quello che ho scritto sopra e agli audaci paragoni insinuati, molti diranno "Ma che stai a di?” Altrettanti penseranno, al contrario, "bravo bene bis”. In realtà la faccenda è più complessa e soprattutto, a fronte di una fine tragica, c’è un passato glorioso e vitale che forse riscatta qualunque sacrificio e qualunque passo falso. Che, strano a dirsi, lega ancor di più Genesis a Elisabetta.

Partiamo da un dato autobiografico. A fine Novanta ero un ventenne alle prese con la musica estrema e col post punk e quando uscirono i Prozac+ rimasi sorpreso. Non tanto da loro in quanto band, ma dal fatto che la stampa specializzata se li spingesse a palla di cannone come se fosse l’unico gruppo italiano degno di nota a riportare il punk in Italia, quasi come D’Annunzio fece con Fiume.

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La copertina di Acidoacida dei Prozac+, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

A un certo punto mi trovai a guardare il video di "Pastiglie": pensai che il pezzo fosse carino e loro piuttosto fluorescenti e freschi, ma senza troppe pretese. La cosa cozzava con l’eccitazione della critica, per cui dopo l’ennesima recensione entusiasta decisi di andarli a vedere dal vivo a Roma al primo Circolo degli Artisti. C’era un sacco di gente, ma era prevedibile visto il grande spiegamento pubblicitario. Sarebbero venuti tutti, anche se si fosse esibito un gruppo rock cristiano.

L'immagine del gruppo strizzava l’occhio al pubblico punk tutto semplicità, ma anche a quello fissato per i manga giapponesi. Mettiamoci pure i feticisti, date le fattezze da pin-up per tutti i generi sessuali della cantante Eva Poles e di Elisabetta, ambedue in possesso di un invidiabile e indiscusso carisma. Avevano t-shirt semplicissime, che però sembravano quasi lucidate e griffate: non la maglietta zozza del punkettone centrosocialaro di turno.

L'immagine dei Prozac+ strizzava l’occhio al pubblico punk tutto semplicità, ma anche a quello fissato per i manga giapponesi.

Questo aspetto si ritrovava pure nella musica. In realtà i Prozac + non erano punk, ma power pop riveduto e corretto. Per scrivere i loro pezzi setacciavano chiaramente gli spartiti delle grandi stelle della nostra musica leggera da Superclassifica Show: penso a Donatella Rettore, ma credo che anche Alberto Camerini rappresentasse un punto fermo d’ispirazione, congelato nella sua versione con i chitarroni distorti levandogli l’elettronica. Alberto, accortosi di questo, tornerà infatti in pista in quegli anni col disco Cyberclown, in linea proprio col percorso dei Prozac+, come se volesse riprendersi qualcosa di suo.

A parte questo i Prozac suonavano chirurgici: tutto sotto controllo, regolato a puntino. E s’inventavano anche simpatiche interazioni col pubblico, come ad esempio lanciargli delle caramelle durante il ritornello di "Pastiglie." Finito il concerto salii sul motorino della mia ragazza e, tornando a casa, feci delle veloci riflessioni.

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I Prozac+ in una fotografia promozionale d'epoca

La prima: il live era divertente ma non abbastanza da farmi pensare di andarli a vedere di nuovo, mi aspettavo di più visto tutto sto pompaggio della stampa. La seconda: erano perfetti, ma nulla che fosse diverso ad esempio dal giro flower punk di Latina, che vedeva nei Gradassi, nei Mondo Topless, nei Bugiardi—nei quali suonava anche il batterista degli Shokogaz, il mio gruppo di allora—e in altre seminali formazioni il baluardo del nuovo punk dello stivale.

Tra di loro primeggiavano i Senzabenza, caposcuola assoluto che all’epoca erano prodotti da Joey Ramone e facevano cose assurde contaminandosi anche con la psichedelia. A confronto, i Prozac+ erano davvero leggeri. Forse li aiutava il cantato in italiano? Certo. Ma era chiaro che il successo sarebbe arrivato, un po' grazie al farmaco scelto come nome e un po' grazie all'immaginario adatto a finire su major. Cosa che poi accadde veramente, dalla Vox Pop alla EMI: la storia la sappiamo.

I Prozac + sono stati la colonna sonora di una generazione X, non quella del romanzo ma quella della trasmissione omonima condotta da Ambra Angiolini.

Non volendo ingrandire o diminuire i meriti della band, i Prozac + sono stati la colonna sonora di una generazione X, non quella del romanzo ma quella della trasmissione omonima condotta da Ambra Angiolini. Gente che si impasticcava, faceva i rave, si faceva crescere i capelli grunge, si vomitava addosso ubriacandosi col Tavernello o col Gotto D’Oro. Persone che vivevano in maniera bipolare il mondo "alternativo" con la spinta inconscia di diventare “mainstream", concedendosi anche di fare shopping al centro facendosi le vasche oppure di fare i comunisti per rimorchiare, né più né meno come i loro padri—che però non avevano la Toretta Stile.

In tutto questo, i Prozac+ te li ritrovavi ovunque. E c’è un motivo reale per cui tutto funzionò come un orologio svizzero: il Gianmaria, chitarrista del gruppo, faceva parte di un collettivo della sua città, Pordenone, che ha fatto la storia della new wave in Italia. E ha anche dato in qualche modo una direzione estetico/sonoro/programmatica a tutta la penisola: stiamo parlando del grandissimo The Great Complotto.

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Foto di gruppo di membri di The Great Complotto

"Pordenone Ufo Attack" recitava un brano storico dei Gaznevada, storica band pioniera della new wave italiana fine anni settanta in quella Bologna dei Pazienza e dell’autonomia. Perché omaggiare la scena di Pordenone? Perché quella città era senza dubbio un punto di riferimento assoluto in quanto a delirio, forse quella in cui il post punk era visto come un vero e proprio portale verso un’altra dimensione e non un semplice genere musicale.

Anzi, il Great Complotto era l’esempio principe di come dalla provincia si arrivi al pianeta intero: “Pordenone non può essere Londra, ma Londra non può essere Pordenone” era il motto. Tanto che i suoi membri, dediti a una multidisciplinarietà spontanea e dadaista, fondarono nel 1982 una loro micronazione. Si chiama lo stato di Noan e aveva anche un inno nazionale, "Atoms for Energy". Ce ne erano due versioni: una proto-harsh noise a cura dei Musique Mecanique e una new wave dei Sexy Angels.

Pordenone era un punto di riferimento assoluto in quanto a delirio, l’esempio principe di come dalla provincia si arrivi al pianeta intero.

Nel testo si diceva esplicitamente di conquistare il mondo con un approccio ben preciso: "L’importante era dire cose assurde al momento sbagliato”. miSs xoX era l’autore di questa frase, l’ideologo e fondatore del collettivo, che iniziò questa avventura suonando e provando al militare durante il terremoto in Friuli. Fu in quel periodo che mise su gli HitlerSS, già dal nome nati per dare scandalo e per spiazzare tutti, con l'intenzione di essere più stupidi possibile per scandalizzare proprio gli stupidi, come il grasso dei detersivi pulisce il grasso dei piatti.

Insieme ai loro compagni di merdende, i Tampax, i nostri crearono degli sfaceli notevoli. Ricevettero critiche prevedibili rispetto al loro comportamento: "O’Dio" dei Tampax, una delle mie canzoni preferite della vita, era solo ‘na sfilza de bestemmie contro il padreterno. E la provocazione li portò al famoso concerto sotto il ponte di Aklam a Londra, in cui suonarono strumenti di cartone simulando a tutti gli effetti un vero concerto—e finirono pure censurati dalla polizia inglese, che tentò di far sparire tutto i loro dischi perché una linea vocale non lasciava adito a dubbi: "I want to fuck Queen Elizabeth."

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Gli HitlerSS in una fotografia d'epoca

I nostri eroi riuscirono comunque a recuperare delle copie, e a ristamparle grazie ai loro colleghi inglesi: tra questi, e qui torniamo all’inizio, lo stesso Genesis P-Orridge con i suoi Throbbing Gristle. La visione meta-punk senza compromessi del Great Complotto era fatta di band reali, ma anche di gruppi fantasma creati all’occasione e di una fitta sequela di sigle/gruppi come gli 001011011100...Cancer. Potremmo fare un paragone con la grandissima Vanity Records in Giappone, il cui approccio era allo stesso modo diretto a un pubblico geneticamente modificato, che ancora non esisteva ma era pronto in provetta.

Da quella fucina di idee e di minorenni gasati di diverse estrazioni, sia politiche sia sociali senza nessun tipo di discriminazione, il Great Complotto però comincerà negli anni Ottanta a prendere una piega molto più arty/avant rispetto alla brutalità degli inizi. Succede dopo la fondazione degli Andy Warhol Banana Technicolor di miSs xoX e la chiusura della sala prove Tequila—nella quale gravitavano le band del movimento—a favore dello stato di Naon.

La priorità dei membri del Great Complotto era trovare la propria voce a qualunque costo, e se non sapevi suonare era meglio.

La filosofia del movimento era di cercare di togliere di mezzo la comfort zone della musica e dell’arte come qualcosa di etichettato e codificato. La priorità dei membri del Great Complotto era trovare la propria voce a qualunque costo, e se non sapevi suonare era meglio. Atteggiamento che si rispecchiava anche nell’approccio non convenzionale con il giornalismo musicale e la discografia: più che promuoversi utilizzando la stampa, si cercava il confronto nel giornalismo di settore inviando lettere e facendosi così degli alleati nel dialogico, cementando alleanze inusitate.

Esempio lampante fu quello di Red Ronnie che, ancora lontano dal buonismo reazionario di un Jovanotti e ancora nel suo periodo “malato”, diede una grossa mano a promuovere il movimento: con lui anche Roberto D’Agostino e Carlo Massarini, che li sdoganarono alla RAI. Ma in cima a tutti ci fu Oderso Rubini dell’etichetta Italian Records, che pubblicò ben due raccolte del Great Complotto.

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Gli Andy Warhol Banana Technicolor in una fotografia d'epoca

La prima era già un classico prima ancora di uscire: Pordenone/The Great Complotto è un insieme di brani uno meglio dell’altro che si destreggiano tra la wave, la musica sperimentale e l’assurdo come una pallina d’acciaio in un flipper colorato. Paradossalmente, però, è il canto del cigno nello stesso momento in cui viene stampata: la storicizzazione e l’aumento della popolarità portò infatti ad una deriva.

miSs xoX se ne accorse quasi subito, levando le tende e concentrandosi sulla sua creatura Compact Cassette Echo, etichetta che si sposterà su lidi industrial con un orecchio internazionale e produrrà Foetus e Legendary Pink Dots. Gli altri invece proseguirono con la seconda compilation, iV3SCR, sempre su Italian Records. Nonostante di molto edulcorata, questa manteneva ancora livelli di eccellenza, aggiornandosi in tempo reale e parzialmente modaiolo con le principali tendenze dall’estero.

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La copertina della compilation Pordenone/The Great Complotto, cliccaci sopra per ascoltarla su YouTube

È proprio nell’anno della compilation, il 1983, che si sciolgono i Gigolò Look. Nati da Brian Casio, esule dagli Andy Warhol, si proiettano in una dimensione tra il pop e la darkwave che ricordano degli Ultravox meno raffinati—ed è proprio in questa formazione che il nostro Gianmaria dei Prozac+ fa capolino alla batteria. E la cosa curiosa è che non è l'unica futura stella dell’indie italiano ad essere presente in questa stilosa band: c’è anche Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

Il collegamento con quello che sarà il destino musicale dei due risulterà chiaro nel 1983, quando la band cambia ragione sociale in Futuritmi. All'inizio cantano ancora in inglese, sono una band Spaghetti New Romantic che frulla insieme Soft Cell, Spandau Ballet e un po’ tutte le tendenze del periodo. Dotati di una tecnica più evidente di tanti altri del giro, la sfruttano per modellarsi poi in una versione dichiaratamente e sfacciatamente pop, con cantato in italiano e un’attitudine piaciona e patinatissima: quasi come i Gaznevada di fine Ottanta, quelli che tanto lodarono il primo Great Complotto, oramai invischiati nella filosofia del tempo del produrre dischi come merendine.

Non sono i Prozac+ in quanto band ad aver conquistato gli anni Novanta, ma la sfrontatezza vitalistica che essi veicolavano. Ed era proprio lo spirito del Great Complotto, nel bene e nel male.

Il successo dei Prozac+ è sempre stato una conseguenza naturale del Great Complotto: diciamo lo stadio finale di un percorso, come la rivoluzione d’Ottobre che dal liberare il popolo diventa il governo stesso. I Naoniani volevano conquistare il mondo, e in un certo senso idealmente è stato proprio così. I Prozac+ non facevano altro che usare un collaudato sistema situazionista nell’essere quello che il pubblico voleva che fossero, prendendo e applicando dal movimento pordenonense il motto dello “sticazzi”. Perché in realtà non erano mai quello che sembravano, erano piuttosto dei fumetti.

La stessa critica schierata apertamente a loro favore deriva dalla vecchia tecnica di miSs xoX di entrare nel sistema facendosi alleati gli addetti ai lavori anziché dargli addosso come banalmente si farebbe. Possiamo quindi azzardare che in realtà non sono i Prozac+ in quanto band ad aver conquistato gli anni Novanta, ma la sfrontatezza vitalistica che essi veicolavano. Ed era proprio lo spirito del Great Complotto, nel bene e nel male. Perché ha insegnato a tutti che l'importante è dare fastidio e chi raggiunge il successo, si sa, dà sempre e comunque fastidio. Che forse la differenza tra underground e mainstream non sia semplicemente nascosta in quanto la formula sia... acida?

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Il rap romano ha bisogno dell'anima tormentata di Tommy Toxxic

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Incisore e pittore, a livello popolare e di massa Francisco Goya non è ricordato per le sue note biografiche o per qualche particolare nozione storiografica. Quel che sappiamo di lui lo dobbiamo soltanto alle sue immagini, scolpite nell'encefalo a furia di dolore.

Il sonno della ragione genera mostri, Saturno che divora i suoi figli o Il 3 maggio 1808 sono visioni tormentate che illustrano al meglio l'anima più vera dell'uomo: nera come il ciclo delle "pinturas negras", dipinti ad olio sui muri di casa propria. L'autore, nient'altro che un dotatissimo vandalo stracolmo d'angoscia, che si decide a deturpare le pareti della propria stanza per liberarsi di un pensiero notturno di troppo.

Tommy Toxxic La danza delle streghe
La copertina di La danza delle streghe, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Tommy Toxxic comincia il suo percorso d'artista così, in un abisso di musiche che seguono questa scia. "Quando ho cominciato mi sono dato il nome in suo onore: Young Goya," e per quanto suoni bizzarro e singolare per la media dei rapper nostrani, non è un'uscita casuale, "Lo mantengo e tutt'ora mi ci ritrovo. Perché è stato grazie ai suoi lavori se ho capito davvero l'importanza dell'arte in sé. Quando ho visto per la prima volta quei corpi mezzo malandati e quasi sciolti, con il cuore in gola e il magone mi sono detto: 'Cazzo, this is it. È questa la merda vera'."

La musica di Tommaso Tocci è d'altronde quella tetra e surreale del Wing Klan, che forma insieme a Joe Scacchi e che trasuda vaporwave acida e hip hop classico imbevuti in un calderone di trap gotica: un suono tormentato che ormai è il loro marchio di fabbrica. Lievemente diversa è invece la formula esoterica utilizzata nei dischi solisti, prima con il sottovalutato Ghost e ora con il nuovo La danza delle streghe. Pare impossibile, ma è ancora più scura, e i fantasmi sono ancora più ostili.

Rispetto al Wing Klan la formula è ancora più scura, i fantasmi sono ancora più ostili.

Rispetto alla veste del progetto in comune, i dischi di Tommy scavano difatti dentro loro stessi con la foga di una sessione d'analisi finita male, tappezzata di minimalismo brutale, flow spesso volutamente monocorde e beat di un freddo siderale. "Sotto sotto, sono morto/ Non lo sento, il sottofondo / Sotto suolo, sotto vuoto / Sotto i piedi solo il vuoto", canta in uno dei frammenti più incisivi e sentiti dell'album: "Harakiri".

È il tipo di nenia melodica che torna spesso nelle tracce, un'ossessione sudata per le notti più irrequiete, che non è difficile immaginarsi come hit in una playlist particolarmente dark. "Non vi posso aiutare a capire / Siamo soli, sono solo / nel mio globo, nel mio corpo / Solo vuoto, solo odio", insiste.

Tommy Toxxic

"Credo tu abbia colto nel segno," mi racconta, "le tracce più belle sono quelle che mi escono di getto, dove esplode il flusso di coscienza." E continua: "'Harakiri' è proprio una di queste, registrata l'estate scorsa a casa di mia nonna, in montagna. Mi ero portato il microfono per suonare a stecca durante la notte, nello scantinato. Mi ricordo perfettamente quel momento. È venuta da sola."

O quasi, considerando quanto l'etica dell'impegno costante sembri essere un faro per il suo lavoro. Tanto che l'ansia intensa, o quantomeno l'attesa materiale per il giorno d'uscita del suo disco, sembrano quasi divorarlo materialmente, proprio come Saturno si mangia i suoi figli nel quadro di Goya, "Io spero che venga recepito al massimo, spero le persone capiscano", ci dice con un trasporto che non può che essere reale.

"Le tracce più belle sono quelle che mi escono di getto, dove esplode il flusso di coscienza."

Certo non manca di schiettezza verace, Tommaso, "Ho sempre provato a rendere la mia roba unica e diversa, a far capire agli altri quanto ci tengo. Ma so anche di essere ancora in quella fase in cui la maggior parte degli ascoltatori me li porto dietro dagli inizi", così come non manca della voglia sincera di arrampicarsi sulla cima del mondo: "Noi non ci fermiamo mai. Lavoriamo come dei forsennati, sempre. Tutto il giorno in studio o a fare canzoni. Vogliamo prenderci tutto lo stivale, espanderci in tutta Italia."

Insiste e sogghigna: "Il bello è quello di andare all'avventura, vedere cosa succede. Fermarsi a casa propria o alla piazza dove già ti conoscono non ha senso, lì sei più protetto. Io sono qua pronto a dimostrare quanto valgo. Farò uscire musica finché non esplodono tutte le casse d'Italia." Eppure, i Wing Klan hanno i piedi ben piantati nella realtà della scena romana, una delle più fertili e promettenti, tra le basi di "TruceKlan e Achille Lauro che sono entrambi potenti", senza dimenticare fondamentali come "Colle der Fomento e, vabbè, magari altre realtà tipo Gente de Borgata. A Roma siamo in tanti."

Tommy Toxxic

Ma a dare il là al motore della musica di Tommy Toxxic fu proprio l'espressione cruda di Metal Carter, Gel o Chicoria, senza contare Noyz Narcos, "Per me, il padrino, con le sue rime quasi da denuncia per quanto so' grevi". Si finisce per dare persino un po' per scontata questa dimensione romana, visto che "il romano tutti lo sanno com'è. Uno che comunque dice, Non sono da meno. Che si vuole far vedere. O magari desidera sparigliare le carte e fare un trucco di magia come Achille Lauro, oppure la Dark Polo Gang."

Paradossalmente, però, il piccolo Goya dimostra di amare una dimensione più amena e raccolta, nonostante barre come "Sono qui che rappresento Roma centro e le chiese / Te mi guardi male, ma che cazzo sei, la celere? / Se mi stai sul cazzo, piuttosto accelero / Ammazzo balene con i pezzi di ferro", nella traccia d'apertura "Stregato", con la sua ossessiva melodia che s'appiccica sul fondo della gola. Una melodia che dimostra una volta in più il dono non comune per la ricerca di timbri e armonie che possano perseguitare la memoria per giorni.

"Noyz Narcos per me è il padrino, le sue rime sono quasi da denuncia per quanto so' grevi."

"Questa roba territoriale è strana", mi confessa. "Io per metà sono pure veneto. E se penso a tanti rapper fortissimi, tipo Fabri Fibra o Massimo Pericolo, vengono dalla provincia. Una cosa proprio figa." Per quanto di primo acchito l'idea lasci un po' dubbiosi, il senso è chiaro: "L'isolamento, il minimalismo, persino l'aspetto della depressione...Vivere in luoghi dove ti affacci e magari in tutta la giornata passa una sola persona. Ha una dimensione simbolica potentissima. Forse non è un pensiero troppo convenzionale", lui stesso si domanda.

La risposta più semplice arriva dai nomi che mi rilancia, a partire da Sicurezza e Gengar, "Ogni tanto passano a Trastevere, così ci becchiamo. Davvero due bravi ragazzi 'sti amichetti nostri". E arrivare al "loro" NIKENINJA, Davide Maruotti, che produce e crea i beat della maggior parte delle tracce del Wing Klan. "Lui secondo me è fortissimo, un mezzo mago. Anche Ketama ci è andato abbastanza in fissa. Deve aver sentito qualcosa di speciale in 'sto ragazzo", ci rivela.

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La copertina di "Wow" di Tommy Toxxic e Ketama126, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

"In Davide ho trovato un vero fratello. Mi fido totalmente. Lui mi manda i pacchi di beat e io mi metto a scrivere. Ha sia un lato freddo, triste e siderale, che la capacità di fare casino con musica iperattiva," un approccio che ritroviamo negli altri produttori che hanno messo mano al suo solista, La danza delle streghe, cioè Crookers e Nic Sarno. "Il primo volendo può far davvero muovere il culo a mezzo milione di persone, pensa al remix di "Day'n'Nite" di Kid Cudi. Nic invece è veramente come Gandalf, un saggio. Insieme mi hanno proposto di tutto, dai momenti molto tetri di 'Voci', un po' alla Lil Peep, a cose più movimentate come in 'Wow' o 'Emrata'. Sono ancora emozionato all'idea di aver lavorato con loro, sono dei fenomeni e dei veri mostri sacri. Gente che sa tutto tanto della storia dell'hip hop quanto dell'elettronica."

Curioso notare quanto questo disco viva di queste due anime frammentate, indubbiamente, ma che entrambi questi aspetti vengano racchiusi dalla cifra stilistica di Tommy, che sembra già essersi concretizzata in una visione solida e decisa. "Io penso sia necessario saper fare un po' di tutto. Non basta essere i fenomeni del momento," ci dice, "bisogna dimostrare qualcosa e allenarsi a parlare a un pubblico sempre diverso."

La danza delle streghe vive di queste due anime frammentate, ma racchiuse nella visione di Tommy.

Quello che intende è presto detto: "È come con i pittori. Fino al giorno della loro morte loro stanno là per servire al mondo le loro visioni. E devono sempre essere pronti a dipingere. Io lavoro allo stesso modo, e chissà che un giorno non provi veramente a pitturare. Per ora mi limito a mostrarvi i miei dipinti con la mia musica." Una musica che in La danza delle streghe ospita feat di Ugo Borghetti, "La genuinità fatta persona, un simposio di verità", Ketama & Franco, Prince dei Tauro Boys e, ovviamente, Joe Scacchi.

A riconferma di quanto siano un'unica famiglia allargata, "Ci siamo tajati un sacco, a registrare in camera o nella mansarda di Carl Brave, gli occhi rossi e duemila canne". E "la meraviglia di Ketama, che quando ha fatto il cambio di flow in 'Wow'—In verità non dovrei guidare niente / Da quando mi hanno levato la patente / Non conto soldi, lo faccio fare al Sergente / Vogliamo tutto, siamo partiti dal niente—ci ha fatti impazzire, o la penna straordinaria e multiforme di Franco, uno che sa davvero scrivere" a fare da sfondo a una registrazione schietta e vissuta, tra uno scambio di strofe a ripetizione con Prince e i conti da chiudere con se stessi e con il proprio ruolo.

Tanto che in realtà questo disco-quadro era pronto da diverso tempo, ma Tommy aveva l'impressione mancasse qualcosa, e questo elemento sfuggente non era altro che la fondamentale cornice, l'aria di famiglia regalata dai featuring, "Lovegang, la tua tipa ci amerà / Wing Klan, la mia folla volerà." Nel raccontarmi la differenza tra i suoi due parti solisti, mi descrive una somiglianza strana, ma pregnante e profonda: "All'interno del mio essere ho sia 'Ghost' che 'La danza delle streghe', solitudine e morte da una parte, e dall'altra una prospettiva più ampia sul mio percorso e sulle mie ansie. Se il primo è un passaporto, quest'ultimo disco è il mio viaggio, la montagna russa che sto affrontando."

In questo viaggio, i colori che rimangono sulla retina e sulle pareti della mente sono spesso tetri e ossessivi quanto le melodie di questo disco—la sua cifra espressiva—, e se già la musica dei Wing Klan sprofonda nel cuore di chi la produce e di chi l'ascolta, quando Joe e Goya procedono da solisti si affonda ancora più in fretta. Una volta in più, è uno scontro strano e inatteso, ma del tutto sensato, dove si è accompagnati da rime quali "Imparare a morire / è come fare Harakiri / Tommy Toxxic nato a Londra / dentro i fumi della droga", e un attimo dopo ci si racconta col sorriso pieno e gonfio quanta felicità porti l'uscita del disco.

"Imparare a morire / è come fare Harakiri / Tommy Toxxic nato a Londra / dentro i fumi della droga."

L'incertezza e le fratture non sono solo immaginate, ma vissute ogni giorno. "Da un po' mi consigliano tutti l'analisi," ci rivela, "Io ci sono andato e, dopo un'ora di sfogo e pianti davanti a questa persona, la psicologa ha capito che io scrivevo. E mi ha detto che potrei riuscire a curarmi facendo quello che sto facendo." Una psicologa che tra l'altro, quando si dice la sincronicità, ha prestato la voce ad alcuni dischi degli Assalti Frontali, "che mi sono recuperato".

Non è l'unica sorpresa: "Una delle terapie che sto affrontando è proprio l'ascolto della mia musica. Il tentativo di capire perché per me funziona come una seduta di psicoanalisi, qualcosa che mi permette di superare ogni timidezza e sfogare tutto sopra il palco, a fare il matto senza vedere o notare più nient'altro". A cercare di superare persino la paura più estrema per un musicista, quella di cui gli hanno chiesto conto anche il padre e la madre, oltre alla psicologa e a noi.

Ora, "Devo ammettere per la prima volta, col sorriso, che un po' lo sento... O meglio, un po' è vera questa cosa. C'è il timore che risolvendo i miei problemi la musica possa uscirne inaridita. O addirittura scomparire. Ma cercherò sempre di combattere perché ciò non avvenga. E poi penso sia naturale", ci ricorda ridendo, "persino Fabri Fibra e Noyz Narcos si sono un po' calmati, col tempo. È questione di evoluzione, ma anche di cercare di non impazzire."

Tra una chiacchiera finale su artisti per lui fondamentali, quali XXXTentacion e Yung Lean, ci rimane però un'immagine molto fisica, che incarna appieno queste angosce e tormenti: "La cosa di fare 'Harakiri', capito, la sento davvero. Ho fatto un incidente tempo fa e quando mi hanno operato è rimasta una cicatrice di trenta centimetri sullo stomaco. Un taglione. È come se l'avessi fatto davvero, quel gesto da samurai." Mentre lo racconta, sento altre parole: "Siamo soli, siamo tanti / Senza voglia, ignoranti / Parla un uomo, solo, solo / dico solo: 'Siamo soli'", streghe e fantasmi sono reali e si contendono questa musica.

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Le migliori canzoni rap italiane sull'amicizia

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Quali sono le migliori canzoni rap sull'amicizia? Abbiamo pensato di rispondere a questa domanda perché è il secondo suggerimento che esce quando cerchi "canzoni rap" su Google, ma anche perché c'è un motivo se è così. Da sempre e per sempre, l'hip-hop è questione di rapporti umani intessuti con la gang e la posse, cioè gli amici. Tutto si tiene e la maggior parte della musica che viene prodotta, nel bene o nel male, finisce per ruotare intorno ai momenti indimenticabili vissuti con chi ti conosce da sempre, oppure parla degli scazzi irrimediabili che ci allontanano gli uni dagli altri.

Si tratta forse di temi abusati, eppure spesso costituiscono il centro e la valvola di sfogo dei nostri musicisti, che solo parlando degli altri riescono a mostrare il coraggio di riflettere appieno su loro stessi, mettendosi a nudo e dimostrando davvero come vedono il mondo. Alle volte, le sensazioni e il racconto che fanno mostrano le due parti di questa potente ma fragile medaglia.

Possono essere ricordi di persone scomparse o frammenti di esperienza di un passato lontano, momenti di malinconia e rimpianti. Oppure veri e propri inni e glorificazioni all'anima del gruppo, pieni di brio e fotta per l'unicità del proprio circolo di amici. Ce ne sono comunque alcune che lo raccontano meglio, e quella che segue è questa lista di pezzi sulla famiglia e i fratelli.

Massimo Pericolo - “Amici”

Un pezzo senza ritornello, solo un lungo racconto di un'amicizia di provincia fatta di incontri, macchinate, feste e sorrisi. Il momento più tenero della carriera di Massimo Pericolo, che negli amici ha trovato un modo per resistere ai domiciliari e continuare a sorridere.

Ernia - “Amici”

Una pistola comprata insieme a Tedua, un brivido nella schiena di chi ascolta, due bambini che giocavano a fare i grandi e oggi, che sono cresciuti, ripensano a quei momenti: "Ti ricordi Mario? L'inverno del 2006 appena dodicenni / Pensar che son passati dieci inverni." E tanta malinconia: "Sbirciavamo da buchi di serratura / Per conoscere il futuro non ci faceva paura / E guardavamo curiosi il seguirsi delle stagioni / Infatti alcuni se ne vanno come uccelli migratori."

Izi - “Wild Bandana”

Decine di ricordi di un'adolescenza passata insieme a Genova, mentre nasceva una delle crew e dei gruppi di amici più importanti della storia del rap italiano. A cantarli sono IZI, Tedua e Vaz Tè, che dipingono scene in modo così nitido da farle suonare familiari anche a chi a Cogoleto non c'è mai stato in vita sua. "Voglio soltanto un riscatto / Per me e la mia banda / Fumiamo in spiaggia / Versa la fanta col ghiaccio."

Franco126 - “Ieri l’altro"

Una canzone scritta per un amico scomparso, il Gordo, amico fraterno di tutta la Love Gang 126. Franco canta ricordi che sanno di amaro zuccherato, piene di fascino per una strada cristallizzata nel tempo, nel momento in cui un gruppo ha perso uno dei suoi membri: "E se passo in quella via / Sai, guardo ancora in su / E mi aspetto che ti affacci / Un fischio e scendi giù."

Mecna - “Le cose buone”

Esiste la possibilità di qualcosa di buono in un mondo brutto e pieno d'odio, esiste. Sta negli "amici al bar nella mia città, della mia città quando piove". Come capitoli di un libro, Mecna enumera momenti di felicità: "Dei live, delle prove, del rap / Delle ore a parlare del disco migliore." E chiude con una domanda: "Quanto ci vuole a dare blues ad un mondo nero?" A volte bastano due minuti di canzone.

Club Dogo - “Phra (Outro)”

"Questa va a ogni mio singolo frate / Da un'altra madre la mia mano è qua per rialzarsi se cade". O anche "C'è chi darebbe la vita per me se io per lui / Ed è chi sa che uno sgarro poi ti costa come Rui." E ancora, "Noi fratelli tra sbagli e tagli / Dove la strada è madre e conosce i suoi figli." Il pezzo che chiude Mi Fist è una collezione di frasi perfette da dedicare agli amici di una vita, quelli che ci sono e ci saranno sempre.

OneMic - “Non di sangue”

Ensi, Raige e Rayden ci hanno regalato un testamento alla fratellanza spontanea, quella di persone che decidono di condividere un percorso di vita "tra le tante situazioni della vita, felicità e lutto". E a pensare com'è andato poi il futuro, è ancora più emozionante riascoltare barre come "Amicizie finite in una lite lasciano il segno, ora lo capite / Quelle perse fanno male, dammi una spiegazione."

Sfera Ebbasta - “Equilibrio”

Il rap di Sfera Ebbasta si è sempre giocato sui rapporti umani—quello con sé stesso e il suo ego, quello di coppia artistica con Charlie Charles, quello di sfiducia nei confronti di un vago esercito di hater e quello di forza nei suoi amici di sempre. "Equilibrio" ha dentro tutto questo ed è perfetta per farsi forza nei momenti di sfiducia nei confronti del mondo: "Siamo il futuro e il presente / Per via di un passato di fame e di sete."

Bassi Maestro - “Ho un amico”

"Ho un amico che è un stronzo di merda / Ho un amico che mi stima e mi rispetta." Bassi Maestro è bipolare? No, ha solo raccontato il vortice di sentimenti contrastanti che l'amicizia causa nel cuore delle persone. E la speranza che la vita non si metta mai a interferire nel bene che ci facciamo tra esseri umani.

Ketama126 & Pretty Solero - “1 Gradino”

"Quanto ci tengo a te / I miei amici vicini sempre". "Non perdere mai la fiducia in te stesso / Ti giuro vinciamo e lo famo da squadra": c'è un motivo se la Love Gang ha "amore" nel nome, e cioè la genuinità del rapporto che lega i suoi membri da sempre.

Vaz Tè, Tedua, Disme, Bresh, Nader - “Outro Amici Miei”

Un gruppo di ragazzi cresciuti assieme fisicamente e artisticamente fa un mixtape insieme e lo chiude con un pezzo sognante—le parole delle strofe non parlano esplicitamente di amicizia, ma non serve. Perché la chimica tra di loro è palese, come il senso di libertà: "Amici miei, siete voi gli amici miei."

Neffa - “La ballotta”

"La ballotta" è la compagnia, il gruppo—e ognuno di noi potrebbe sostituire i nomi che il signor Pellino recita sornione con quelli delle persone che hanno fatto battere il cuore a noi. Menzione speciale per la citazione di una gemma dimenticata della musica italiana, giusto in finale di citazione: "Sto con la mia ballotta, la mia ballotta sta con me / Sai che c'è / Tutti e sette i giorni della settimana e va da sé / Noi riempiamo le dimensioni spazio e tempo / E l'amico è come diceva Baldan Bembo."

Thelonious B - "On Gang"

Ci rendiamo conto che questa canzone contiene capolavori come "Mi offre da bere ma è succo di snitch" e "So che un giorno morirò morendo", ma non dimentichiamoci il senso di brutale amicizia che esce fuori dalle sue strofe: "Chiamo mio fratello per sapere se va in carcere / E capire i soldi dove li devo mandare" è tipo la frase sull'amicizia più bella del 2020.

Tedua - "Sbandati"

C'è una grande quantità di Genova e Liguria in questa lista, ma non ci possiamo fare niente se Tedua e compagnia raccontano da anni l'amicizia contro ogni cosa come se fosse la cosa più importante del mondo (perché lo è). "Un posto che renda più vivi dov'è? / Se lo conosci è meglio che dici dov'è / Ci andrò a abitare con degli amici", rappa Nader nel ritornello; "La mia banda è batteria con la terza media / Ma con più valori della borghesia in pineta", gli fa eco Tedua.

Tredici Pietro - “Tu non sei con noi, bro”

Questo pezzo è un classico "Noi contro di voi", ma con l'amarezza di una carriera che sta per cominciare e la storia dei soldi che rovinano tutto all'orizzonte. "E siamo solo noi in piedi / Guardo questi, penso: 'Siamo solo noi veri' / Ma non è poi così vero / Per il soldo si diventa poco sinceri", rappa Pietro, ma è solo un vago futuro. Intanto "Noi facciamo il fuoco in qualunque posto / Da agosto ad agosto."

Johnny Marsiglia - "Tempi d'oro"

"Giro con amici con lo stesso interesse sulle stesse frequenze / Alle stesse feste / Organizzavamo via SMS o via MSN / Ero quasi maggiorenne / Le estati di 'Asereje', le spiagge e le tende / Metti Jay-Z e l'inchiostro blu scende", racconta Johnny Marsiglia riuscendo a rendere simbolo dell'amicizia e del bello anche la hit dell'estate più odiosa della storia. Non è scontato.

Gast & Chicoria - "Fratelli de sangue"

Amicizia di sangue e taccheggio, cani e strada: "Giorno e notte notte e giorno fianco a fianco mai stato stanco / Niente è liberatorio come marchià er territorio col branco", rappa Gast. "Io taglio lui cuce / Stamo a viaggià alla velocità de luce su 'o stesso binario", gli risponde il Chico.

Sottotono - "Quei Bravi Ragazzi (feat. Lyricalz)"

"Restiamo al tavolo ed alziamo al cielo i calici / Propongo un brindisi da fare sopra il beat di Fish / Brindo ai soldi che ricopriranno questi Mc's / Brindo a quello che sarà". Parole pronunciate nel 1996, quando il 2000 era un traguardo vicino e una promessa di bellezza. E se non ce n'è stata nel mondo, ce n'è stata nei rapporti umani.

Giaime - "Coi giganti"

"Tu sei mio fratello, io ti voglio bene / Hanno paura ad essere sdolcinati, fanno i seri", rappava Giaime nel 2015, a suggerire che fare brutto non sarebbe stato il suo.

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