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Dal Cocoricò ad Aphex Twin: Lorenzo Senni ha portato la musica dei rave italiani nel mondo

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La provincia italiana può essere dura e alienante, la distanza dalle grandi città a volte sembra incolmabile e non è per niente facile uscirne. È una dimensione ristretta, che sa essere soffocante ma ti obbliga a venire a contatto con realtà incredibilmente diverse, creando ibridi sperimentali e contaminazioni in grado di rivaleggiare con la produzione creativa delle grandi capitali europee.

La storia di Lorenzo Senni è fatta di incontri e di un’attenta capacità di osservazione, tra la realtà dello studio e i corpi sudati sui dancefloor internazionali. Se Lorenzo è arrivato a produrre la sua “trance puntinista” su un’etichetta come Warp, garanzia britannica di avanguardia elettronica e qualità, è proprio grazie agli anni vissuti tra una sala prove di Cesena e le discoteche di Rimini e Riccione.

La provincia italiana può essere dura e alienante, la distanza dalle grandi città a volte sembra incolmabile e non è per niente facile uscirne.

“In provincia le cose sono meno divise,” ci ha raccontato, “magari non ti rivolgi la parola a scuola, però al bar ti ritrovi con tutti”. E infatti, nonostante suonasse in band punk hardcore straight edge, Lorenzo si trovava spessissimo a fare serata al Cocoricò o in un rave sulla Riviera: così fuori luogo da essere perfettamente a suo agio.

Grazie alla sua scelta di rimanere completamente sobrio, riusciva ad osservare la scena dei club quasi in terza persona, andando a gettare le fondamenta della sua idea di “Rave Voyeurism” che ha accompagnato negli anni tutta la sua produzione musicale. A quel punto il mix letale era pronto: un passato di chitarre distorte, una cultura musicale enorme e un riscoperto interesse per i suoni matti di uno dei generi più vituperati di sempre, ovvero la trance.

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La copertina di Scacco Matto di Lorenzo Senni, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

L’importanza di Lorenzo Senni sta proprio nella sua capacità di assorbire qualcosa da tutte le realtà con cui entra in contatto, e di tradurre l’esperienza in musica. Dal club più grezzo al concerto punk, dalla performance nella galleria d’arte al festival enorme davanti a migliaia di persone, i suoi suoni sono il frutto dell’incontro—non sempre amorevole—di questi mondi così lontani.

D’altronde, la musica elettronica più “avanguardistica” di questi anni è caratterizzata proprio dall’essere indefinibile, un calderone di generi e culture diversissimi, e di altrettanti modi differenti di godere questi suoni. Producer dancehall e studiosi di sound design condividono spesso la stessa console negli scantinati affollatissimi e umidicci, per poi ritrovarsi a suonare di nuovo insieme a un opening in una galleria di Berlino.

In un momento in cui i confini dell’elettronica sono sempre più decostruiti, la musica di Lorenzo Senni è sempre più rilevante. In occasione dell’uscita di Scacco Matto, il suo primo album completo per l’etichetta che ha prodotto tra gli altri Autechre e Aphex Twin, ho chiamato Lorenzo per farmi raccontare come si fa a far convivere musica concettuale e dancefloor, e soprattutto ad andare ad un rave senza buffalo né pasticche.

Dal club più grezzo al concerto punk, dalla performance nella galleria d’arte al festival enorme, i suoni di Lorenzo Senni sono il frutto dell’incontro di mondi lontani.

Noisey: Come sei arrivato su Warp?
Lorenzo Senni: È successo in maniera molto organica e naturale. Ho cominciato a suonare spesso a Londra, in contesti quali gallerie d’arte e opening di mostre, e bazzicando la città mi sono avvicinato alla loro orbita. Erano i tempi di Quantum Jelly e Superimpositions, ma la prima volta che li ho incontrati ho scoperto che in realtà erano dei fan sfegatati di un altro mio progetto, Stargate, che era uscito per la nostrana Hundebiss. Per assurdo è stato questo il primo legame tra noi. Nel 2015 ho poi suonato al Sónar a Barcellona davanti ad alcuni di loro, e lì mi sono sentito sotto esame. Dopo mi fecero i complimenti e da quel momento cominciai ad avere dei contatti più solidi con loro, finché in un altro incontro a Londra non mi hanno chiesto di sentire altro. Da lì è nato abbastanza velocemente Persona, un EP che doveva essere una prova a tutti gli effetti. Quando è arrivato il riscontro positivo abbiamo deciso di lavorare a un album vero e proprio, come avevo sperato sin dall’inizio. Ho sempre guardato a Warp come un punto di arrivo, ma non ho mai creduto davvero di arrivare a lavorare con loro.

E come va la collaborazione?
Sono molto strutturati, coordinano decine di persone e proprio per questo è una figata. Ero abituato a essere da solo o avere a che fare con realtà molto più piccole. Però è vero che ho idee che vanno spesso un po’ in contrasto con il classico approccio alla promozione. Per esempio, io non ho mai voluto fare video, e questo all’inizio li ha sconvolti. Ma la maggior parte dei video musicali sono molto deludenti, non aggiungono niente e anzi limitano la visione dell’artista. Gli ascoltatori dovrebbero crearsi un immaginario senza che nessuno dica loro quello che devono vedere. E poi non ho mai trovato qualcuno con cui volessi davvero realizzare un video, senza contare che per un buon lavoro c’è bisogno di un budget alto che preferisco investire in altro. Comunque sono entusiasta, guardandoli lavorare ho imparato moltissimo anche per la mia etichetta, la Presto!?.

"Anche dietro alla musica matta degli Autechre o di Aphex Twin ci sono le dinamiche di un comparto industriale che funziona al meglio. Qualcosa che da noi è più frammentato, e meno radicato."

Perché in Italia non funziona allo stesso modo?
Ci sono diversi fattori da considerare. Sicuramente nel Regno Unito il mercato musicale è più sviluppato. Anche dietro alla musica matta degli Autechre o di Aphex Twin ci sono le dinamiche di un comparto industriale che funziona al meglio, un vero mercato: i manager e i promoter, le etichette e le venue fanno parte di un meccanismo ben oliato. Qualcosa che da noi manca. O, meglio, da noi è tutto più frammentato, molto meno forte e radicato. Perché se è vero che la club culture ha avuto un peso in Italia, è vero anche che è sempre stata più legata al turismo. Io vengo da Cesena, quindi vicino a Cesenatico, Rimini e Riccione, dove è sempre stato pieno di club. Non è cosa da poco avere il Cocoricò stracolmo di 6-7000 persone, però forse non si è riusciti a creare anche una sorta di “catena di montaggio”, come in UK.

E allora perché sei rimasto qui in Italia?
Si tratta di una scelta di natura personale. Londra è bella e capisco che magari ai tempi della jungle o della drum’n’bass ci si andava perché era il posto giusto. E lo stesso può valere per la techno e Berlino. Però è ancora più utile andarci con le giuste energie, e poi tornare a casa. A volte queste metropoli ti ammazzano se sei un artista emergente. Non è così facile venire fuori, e dopo un paio di mesi magari ti trovi senza soldi e svuotato. Devi confrontarti con la realtà. E poi ho un po’ di orgoglio musicale squisitamente italiano, abbiamo tanti bei progetti che non escono dai confini nazionali, ma non certo perché non hanno valore artistico. Prendi i Primitive Art, che per me dovevano essere delle rockstar. Sono sicuro che se fossero andati a Londra avrebbero avuto molte più opportunità di venir fuori. Alla fin fine si può mettere tutto online, le foto in cui sei figo e il minuto di live in cui spacchi, ma incontrare le persone giuste resta un passo ancora fondamentale.

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Lorenzo Senni, fotografia di John Divola

Il titolo del tuo nuovo disco, Scacco Matto , è molto forte dal punto di vista simbolico. Cosa vuole significare?
In un’intervista i Cure dicono che sono riusciti a finire Disintegration, il loro capolavoro, solo quando hanno trovato il titolo: a quel punto tutti sapevano cosa fare, cosa significava per loro quell’album. Non voglio dire che sono come i Cure, però... ha! Ma è vero, mi sono trovato in una situazione simile quando ho pensato alle parole Scacco Matto. Da un lato volevo continuare a essere coerente con le idee sviluppate negli album precedenti, ma allo stesso tempo volevo liberarmi e sperimentare cose nuove. Alla fine, proprio come in una partita di scacchi, mi sono ritrovato a portare un pezzo in una direzione per poi riportarlo su altri binari. Si è trattato sempre di una partita con me stesso, fino ad arrivare al punto di rottura, quando a furia di tirare mi rendevo conto di aver finito un brano. Questo disco è il risultato della sperimentazione in altre direzioni, il tentativo di fare cose nuove pur pensando a quanto fatto prima. Il risultato è un vero Scacco Matto.

Ci sono suoni da videogioco?
Sì, ed è un aspetto interessante, visto che non ho mai cercato questo effetto. Se mi dici anzi che la mia musica sembra 8bit chiptune mi prendo male. Però, se mi metto nella posizione dell’ascoltatore, mi rendo conto che certi suoni in effetti sono vicini a questo mondo. Ma non è uno stile che è stato minimamente cercato! In ultima analisi, si tratta anche un po’ di onestà artistica, di saper accettare il risultato del proprio lavoro.

"A volte queste metropoli ti ammazzano se sei un artista emergente. Non è così facile venire fuori, e dopo un paio di mesi magari ti trovi senza soldi e svuotato."

Invece, come lo vedi in relazione ai tuoi dischi precedenti?
È diverso e ci tengo che sia così, che la mia musica si evolva. Di Quantum Jelly rimangono certi aspetti tecnici, come ad esempio l’utilizzo del sintetizzatore Roland JP8000 e di certi suoni molto secchi, mentre da Persona ho attinto tanti altri aspetti e sonorità. In Scacco Matto spingo tutto al massimo e anche in una direzione più song-oriented. L’ho detto spesso, avrei potuto comporre dieci dischi come Quantum Jelly, perché la ricetta era chiara: una melodia forte ripetuta a lungo nel tempo e qualche progressione. Potevo farli con lo stampino. Però non è quello che volevo fare. Scacco Matto lo sento come un punto di arrivo. Non voglio dire che è un capitolo conclusivo ma mi sono trovato a spremermi e ora voglio provare cose nuove.

Partendo dal tuo approccio a un genere come la trance, come vivi questo rapporto complesso tra la musica da ballare e quella concettuale?
È un aspetto e una considerazione che mi interessano moltissimo, perché provengo da un contesto legato all’accademia e alla sound art. Un ambiente che negli ultimi anni si è dimostrato molto conservatore, pur presentandosi come piattaforma per l’innovazione. Quando ho scoperto la trance per la prima volta non mi interessava, sinceramente, era solo la colonna sonora di certi momenti della mia vita, qualcosa a cui non davo importanza. Ai tempi suonavo in band punk hardcore, ma vivevo a Cesena e spesso finivo al Cocoricò dove i miei amici seguivano dj per me di nessuna rilevanza. Non ho mai avuto l’obiettivo esplicito di rivalutare questa musica, o ridarle credibilità in un contesto più sperimentale. E tuttora la trance non m’interessa granché, a dirla tutta, anche se sono diventato un esperto a furia di ascolti. Sono però sempre stato affascinato da certi suoni e aspetti specifici di questo genere, in particolare i build up, la parte dei brani trance senza cassa che collega le strofe coi beat. Ai tempi ritagliavo proprio questi frammenti per trasformarli in mix lunghi da suonare live, prima del mio set.

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La copertina di Persona di Lorenzo Senni, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

E come è andata?
Volente o nolente ho finito per dare nuova vita a questo genere e portarlo in effetti ad altri ascoltatori e in un altro ambito, più di ricerca. Spero di esserci riuscito e di aver trattato questi materiali con coerenza, tramite delle idee molto semplici che però penso abbiano funzionato, anche perché erano oggettive e semplici da capire. Basta che ascolti la mia musica per constatarlo. Tra l’altro io ho un background accademico, ho studiato musicologia. Lì però non c’era niente di pratico, si trattava solo di fare cose quali analizzare Bach, la cadenza delle sue composizioni o il motivo per cui era considerato un genio. Solo teoria musicale e analisi del lavoro degli altri.

E cosa ti rimane dei rave?
Diciamo che ho avuto una duplice vita. Come dicevo, ho suonato in band punk hardcore straight edge, anche se non ero un hardliner e non giudicavo gli altri. Proprio per questo i miei più cari amici erano allo spettro opposto: gabber e hardcore warrior, quindi proprio estremi. Bisogna anche ammettere che si tratta di una particolarità del vivere in provincia, si è meno divisi e se anche non ti rivolgi la parola a scuola però al bar ti ritrovi con tutti, a prescindere dagli interessi. Soprattutto in Romagna, quando la club culture era molto presente nella vita quotidiana. Quindi io finivo in questi club non sapendo nemmeno chi suonava e senza che me ne fregasse niente. I miei amici erano tutti spacciatori finiti in galera un paio di volte, con le buste di pasticche nascoste dentro le mutande e vestiti con corpetti di plastica di motocross a petto nudo, oltre alle Buffalo. Io, invece, ero completamente sobrio, e spesso ero l’unico ad esserlo. Era divertente, però, e di certo non me ne rimanevo seduto sul divanetto. Era pieno di belle ragazze, d’altronde, e mi ascoltavo la musica che anni dopo mi ha dato l’idea del “Rave voyeur”.

"I miei amici erano tutti spacciatori finiti in galera un paio di volte, con le buste di pasticche nascoste dentro le mutande e vestiti con corpetti di plastica di motocross a petto nudo, oltre alle Buffalo"

Di cosa si tratta?
Io in quel contesto ero un voyeur a tutti gli effetti, e in pratica lo sono ancora adesso. Infatti, anche se la mia musica fa riferimento a quel mondo ed esce per un’etichetta che ha fatto la storia dell’elettronica, e per quanto i miei set suonino nei festival dove le persone vogliono ballare, io e la mia musica non rispondiamo esattamente a quello stesso ambiente. Proprio da questo fatto nasce l’idea di voyeur, a cui ho cercato di dare coerenza in tutti gli aspetti del mio lavoro, compreso il modo in cui mi presento ai live. Ad esempio, non ho mai voluto i visual dietro di me, bensì questo banner statico in PVC che va in controtendenza rispetto ad elementi luccicanti e mobili.

Questo aspetto si lega anche alla dinamica tra club e mondo dell’arte. Hai letto l’articolo di Simon Reynolds sulla cosiddetta “conceptronica”?
Sì, anche perché sono citato. L’articolo non mi ha gasato più di tanto, credo generalizzi troppo, anche se mi ha chiamato in causa insieme ad artisti con cui ho condiviso festival e serate. Qualche tempo fa parlavo con Hans-Ulrich Obrist—critico, storico d’arte e curatore—e mi ha chiesto se ci fosse una scena a cui mi sento vicino. È difficile ora parlarne in questi termini, mai ai tempi, prima che SOPHIE diventasse una popstar e Arca un’icona, ci siamo ritrovati davvero tutti negli stessi backstage e negli stessi club. Quindi probabilmente era davvero una scena. In generale, però, non mi piacciono i termini usati nell’articolo, “conceptronica” in primis. Anche se di solito mi piace trovare delle keywords per descrivere le cose.

"Prima che SOPHIE diventasse una popstar e Arca un’icona, ci siamo ritrovati davvero tutti negli stessi backstage e negli stessi club"

E rispetto al processo d’intellettualizzare i generi che invece partono dalla fisicità?
A me non interessa, personalmente. Per quanto qualcuno possa pensare altrimenti, non sono partito da questo aspetto, visto che i concetti e la musica per me devono avere la stessa valenza. Se ascolti un pezzo di Quantum Jelly è importante che ti piaccia al primo impatto, senza sentire il bisogno di un libretto delle istruzioni. Deve funzionare dal punto di vista prettamente musicale. Poi va benissimo se ci sono delle idee da scoprire successivamente, cose che possono farti gasare ancora di più, ma la musica non deve averne bisogno per esistere o essere completa. Io lo faccio solo perché per me è un piacere personale e fa parte del mio processo, non riesco proprio a lavorare se non in sincronia con un’idea che voglio portare avanti. Non ce la faccio.

Come si rispecchia sul tuo lavoro?
L’artista deve fare delle scelte. Io, purtroppo, sono venuto su in un ambiente accademico. Quindi se mi metto al computer e decido di usare un suono, anziché un altro, non lo faccio solo in base al mio gusto, ma devo trovare una coerenza dietro che faccia funzionare il tutto, mi serve essere un po’ limitato nelle scelte che faccio. Questo ultimo aspetto per me è essenziale: devo avere delle limitazioni, trovare una coerenza e delle idee che sostengano quello che faccio. Ciò mi aiuta poi ad andare avanti.

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La copertina di Quantum Jelly di Lorenzo Senni, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Ti chiedo di un paio dei tuoi pezzi in particolare. Uno è “Canone infinito”.
Si tratta di un brano che ho inserito quando stavo per finire il disco, perché sentivo il bisogno di una canzone molto emo da infilare a metà della tracklist. Per fortuna, è uscito esattamente come mi aspettavo. Il titolo è nato in maniera molto semplice: trovo sia un brano molto uplifting, ascoltandolo mi ha sempre dato l’idea di salire verso l’alto, come un vortice che s’innalza. Due anni fa ho creato un’installazione permanente dallo stesso titolo, nei corridoi della terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo.

Si tratta dello stesso brano?
Il pezzo di Scacco Matto a dire la verità non ha niente in comune a livello musicale con quello dell’ospedale, che era una piccola melodia ambient, neutra e delicata. Trattandosi di un’installazione permanente in un reparto così delicato, dopo essermi confrontato con il personale abbiamo deciso di optare per qualcosa di leggero. Anche perché si tratta di corridoi di servizio, dove passano medici e infermieri ma i visitatori in teoria non possono sostare. Le sale di attesa però sono distanti e famigliari e amici aspettano comunque in questi corridoi molto brutti e freddi, senza sedute. L’idea quindi è stata quella di realizzare un intervento sonoro non invasivo, realizzato con uno strumento acustico. Adesso suona ogni 45 minuti, in loop, per la quantità di tempo necessaria a percorrere tutti i corridoi.

"Io, purtroppo, sono venuto su in un ambiente accademico. Quindi se mi metto al computer e decido di usare un suono, anziché un altro, devo trovarci una coerenza dietro"

E di “Wasting Time Writing Lorenzo Senni Songs”, pezzo dal titolo incredibile, cosa puoi dirmi?
C’è sempre un aneddoto nei miei titoli. Devo ammettere che una delle cose più divertenti di fare un disco è proprio inventarseli. Questa, in particolare, è una citazione degli Anal Cunt, una band grindcore storica per il genere. Sono davvero i peggiori, perché amano fare umorismo spinto e nero su temi sui quali non si può scherzare, come omosessualità o nazismo… ma hanno anche i migliori titoli in assoluto, davvero. Tipo: “Morrissey Is Gay” o “Your Kid Committed Suicide Because You Are A Loser”, cose così, a caso. Tra gli altri hanno anche un pezzo che si chiama “Wasting Time Writing Anal Cunt Songs”. Per questo motivo l’ho scelto, perché in quel momento di scrittura ero nella fase “scacco matto”, cioè in crisi. Nel frattempo ascoltavo un sacco di composizioni di Arvo Pärt, che ha ispirato il mio approccio pointillista alla musica, e ho rielaborato un suo brano, il “De Profundis”, riuscendo grazie a lui a concludere il mio pezzo. Quando poi ho dovuto scegliere il titolo mi sono ricordato della condizione pietosa in cui ero quando lo stavo terminando, chiuso in studio e noncurante della mia igiene personale, e ho pensato che ispirarmi agli Anal Cunt fosse perfetto.

Invece com’è andata con l’artwork di John Divola?
Si tratta di una foto che ho scoperto tanti anni fa, che fa parte di una serie di fine anni ‘70 intitolata Zuma. Ce l’ho da tanto, sia sul desktop che attaccata sul muro dello studio. L’ho scoperta perché per due anni sono andato tutti i giorni a casa di questo fotografo amico di famiglia, Guido Guidi, che mi ha mostrato lavoro di Divola: non l’ho mai più dimenticato. Negli ultimi tempi ho iniziato a guardare tutto con questo duplice punto di vista, concettuale ed emotivo, sempre cercando l’equilibrio tra questi due aspetti. Per questo quell’opera era come se mi parlasse: lo sguardo rivolto verso l’esterno di un emozionante tramonto californiano, ma dall’interno di una casa abbandonata e distrutta, dove l’artista ha realizzato diversi graffiti. Conteneva quindi l’idea di vandalizzare dei posti disabitati, ma sempre in maniera pointillista, fatta di puntini e lineette. Mi è sembrato un ritratto perfetto del mio lavoro.

Pensi che in qualche modo ti abbia influenzato?
Credo proprio di aver sviluppato il mio stile anche grazie al lavoro di Divola, leggendo i suoi testi e approfondendo le sue interviste. Facendo un parallelo con il mio disco, il tramonto è la parte emotiva, incorniciata dall’idea di vandalizzare e al contempo documentare. Il fatto che si veda la mano dell’artista rende il tutto più emozionante, almeno per come l’ho interpretata io. Poi ho avuto la fortuna di chiudere il cerchio: l’ho incontrato. Sono andato a L.A. a trovarlo e mi ha portato in un posto abbandonato dove lui ha realizzato i suoi graffiti. Qui mi ha scattato le foto davanti alla sua opera e io le ho utilizzate per la press release.

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Ho provato a divertirmi al concertone del Primo Maggio virtuale

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In spregio al buon senso, alla morale e a ogni principio di gestione razionale del proprio tempo, la redazione di VICE ha scelto di rispettare una tradizione. Sin dal primissimo giorno, a furia di scoppole in testa, pizzicotti sulle chiappe e sane pratiche di waterboarding, mi è stata chiarita la funzione dell’ultimo arrivato: il caprone espiatorio immolato sull’altare.

Abbiamo dunque tirato fuori il peggior vinello possibile, il fumo più stantio lasciato a decantare un ventennio e la kefiah ufficiale sbiadita da anni d’improprio e sudato utilizzo festivaliero. Perché, vi chiederete? Ovvio, per il Concertone del Primo Maggio!

Di certo non sarà una piccola pandemia a fermare i bei propositi riformatori di questa magnifica giornata.

Di certo non sarà una piccola pandemia a fermare i bei propositi riformatori di questa magnifica giornata, men che meno a trent’anni dalla sua prima edizione. Difatti, sgusciando a destra e a manca tra controlli, droni sbirreschi e vicini delatori, son riuscito a percorrere in poche ore quel centinaio di chilometri che mi separavano da piazza San Giovanni, a Roma.

Una volta lì, la folla oceanica mi ha accolto come un’onda anomala d’affetto, socialità e pulsione politica verso il sol dell’avvenire, un futuro di meraviglia e solidarietà diffusa, che con la sola forza della sua visione ha dismesso tutti i sindacati—perché che bisogno c’è di un sindacato quando il lavoro è ormai automatizzato e possiamo tutti concederci quel che più ci piace—e disinnescato ogni forma di precarietà, pratica o esistenziale, mentre la musica scorre in piazza come un armonioso gong cosmico e celestiale, le canne girano e sappiamo per certo di essere un solo immenso organismo famigliare che si merita la sua felicità ed è riuscito, infine, a conquistarsela. Titoli di coda.

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Mi sveglio dal mio sogno distrutto da conati e brividi di sudore gelido, sono pallido e odoro di morte al lavoro. Il divano è fradicio, ho una strana fresca cicatrice sul corpo. Dallo schermo mi sorride enormemente triste la presentatrice, Ambra Angiolini, ad ogni battito di ciglia e voce spezzata un tremito sulla superficie. Quella è piazza San Giovanni, sì, ma è vuota e lei da sola.

Ci sono giusto un microfono che spunta male da sotto l’inquadratura come per colpirla, e due persone che passano sullo sfondo senza accorgersi giustamente di nulla. Una bambina con una giacca gialla saltella in mezzo a loro incurante di tutto mentre chi è con lei sembra scattare un selfie; è un’intrusione che ha del surreale.

Guidatrici di autobus di Roma, infermiere di Brescia, commesse toscane, una “bracciante” che seleziona e imbusta vegetali, corrieri, insegnanti, nonni, manager, eccetera.

Ambra chiude l’introduzione iniziale con una domanda, “Come state?”, seguita da testimonianze di guidatrici di autobus di Roma, infermiere di Brescia, commesse toscane, una “bracciante” che seleziona e imbusta vegetali, corrieri, insegnanti, nonni, manager, eccetera. Un piccolo genere narrativo a sé stante: il racconto del lavoratore durante la pandemia, che fa tanto impegno politico e assicura il giusto trasporto sentimentale.

A causa dell’improvviso shock emotivo, ricordo tutto: non c’è alcuna festa comunitaria a farla da padrone tra grigliate, cortei e chiloom. Siamo chiusi in casa e l’emergenza sanitaria per la diffusione del COVID-19 ha imposto un ridimensionamento estremo al cartellone del festival e tagliato di netto la possibilità di suonare in piazza.

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Ambra continua a modulare una cantilena che non riesco a sentire, la guardo su RaiPlay in diretta alle otto di sera. Ma sarà davvero il Primo Maggio e sono quelli i tre segretari generali di CGIL, CISL e UIL, e davvero quello è Vasco Rossi che critica il termine “social distancing”?

Sullo schermo tremolante risponde Lodo Guenzi che ci tiene a farci sapere che non ne può più, si è rotto le palle e gli manca l’Angiolini. È molto tenero, allegro e mi entusiasmo per la sua dichiarazione d’affetto mentre prendo a testate il muro quando gli fanno dare i numeri dell’IBAN per le donazioni.

Comincia però la musica, ovvero il primo dei video in differita preparati. Apre Gianna Nannini, che non ho mai visto così bene, e al pianoforte canta con il suo solito pathos sprazzi di “Notti senza cuore”, “Donne in amore” e ovviamente “Meravigliosa creatura” e “Sei nell’anima”.

Business, brand e glamour, zio, cosa vuoi di più.

È come disegnata in cielo e suona in uno di quei luoghi branded che ormai caratterizzano Milano: la Terrazza Martini, cioè “la cornice più glamour per eventi, incontri informali e di business, dove assaporare il mondo Martini con una vista mozzafiato nel cuore di Milano”. Business, brand e glamour, zio, cosa vuoi di più.

La Nannini giganteggia ritagliata sullo sfondo della Madunina, in un tramonto caramellato regalato alla città dall’inquinamento e dal cambiamento climatico in cambio di qualche cancro in più. Poi si alza e giuro che per un momento ho pensato si volesse buttare di sotto, ma poi capisco che voleva acchiappare il drone usato per le riprese. Eppure quel bastardo scappa da tutte le parti e alla fine la cantante ci rimane male, fa finta di niente e si mette ad abbracciare il vuoto e l’aria, e anche la città.

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Mi commuovo, piango sangue e dovreste farlo anche voi. Torniamo in fretta a Roma ed entriamo nell’Auditorium Parco della Musica dove Alex Britti ci accoglie con uno sferragliare dai toni blues che ci fa ben sperare, almeno fin quando non comincia con “7000 Caffè”.

La nostra conduttrice preferita riparte subito parlando dei rider che sono addirittura più visibili ora che c’è la pandemia, e sono pure aumentati, vedi tu, chiediamo quindi nuovi contratti, dai, perché “non è noi e loro, siamo tutti sullo stesso motorino”. Tra l’altro, qualora ci fosse sfuggito, il tema di quest’anno—sì, ci sono i Temi—è “ll lavoro in sicurezza: per costruire il futuro”, quindi ha pure ragione.

Gabbani con “Viceversa” e “Il sudore ci appiccica” biascica alcune cose, prima che Ambra ci inviti a “ritrovare queste braccia”, cioè quelle di 200.000 braccianti che sono scomparsi e nessuno li trova. Se anzi qualcuno gentilmente può segnalare la cosa o riportarli a casa, noi avremmo anche da dargli un paio di euro l’ora per raccogliere pomodori e melanzane e farsi venire un infarto nei campi, grazie.

Arriva però la prima assurda sorpresa della kermesse, quando il Lodo Guenzi di cui sopra, evidentemente dotato del dono dell’ubiquità, si fa trovare in Piazza Maggiore a Bologna e comincia “Quando abbiamo scritto ‘Una vita in vacanza’ ci aspettavamo qualcosa di diverso da così.”

Lo Stato Sociale partono con la loro hit e la telecamera comincia a girare, finché una tizia si mette a ballare e io mi immalinconisco, abbraccio la mia famiglia e comincio a commuovermi.

Una lunga lenta carrellata a mano e in avanti parte verso il centro della piazza vuota e un pelo desolata, dove il cantante e i suoi cinque compari de Lo Stato Sociale partono con la loro hit e la telecamera comincia a girare, finché una tizia si mette a ballare e io mi immalinconisco, abbraccio la mia famiglia e comincio a commuovermi. Lodo però forse si offende per un fuori scena che non vediamo o perché piango troppo forte, e allora prende e se ne va.

Che non è mica carino fare così, penso mentre la mia famiglia comincia a prendermi a calci in faccia per vendicarsi dell’abbandono, mica è tanto professionale. Però poi i suoi soci si prendono bene, capiscono di avere una possibilità enorme e quando suonano le campane in piazza cominciano a cantare “La canzone del pane” de I Camillas e, deo gratias, finalmente tirano fuori una voce che non stecca e sa il fatto suo e il tributo indiretto a Mirko Bertuccioli diventa la cosa più bella e sentita di tutta la serata.

Tra una chiacchiera sulla sicurezza e l’altra la mia attenzione ormai è naufragata irrimediabilmente in Piazza Maggiore. Dove sarà andato Lodo, perché continuano a tenerlo nel gruppo, perché mia figlia non smette di colpirmi in faccia con quel martello?

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Aiello con la sua “Arsenico”, Le Vibrazioni solite e il medley di Zucchero riscuotono quindi poco interesse, persino quando Fornaciari ci ricorda che dietro a ogni concerto lavorano decine di persone e dello stop risentono centinaia di famiglie. Anche quando Ambra ci rivela che deve proprio a Zucchero la sua prima inquadratura televisiva in assoluto non ho un battito in più del normale—dove ti nasconderai, però, Zucchero, quando faremo la Rivoluzione?

La situazione non migliora e l’adrenalina non s’innalza con Paola Turci, Edoardo Bennato, Luca Barbarossa e Irene Grandi, né con il collegamento su Rai Radio 2 con Ema Stokholma e Gino Castaldo, e tantomeno con il siparietto cringe nel quale Ambra fa una serie di domande imbarazzanti a una mini classe di studenti. Basta con le gag sulle videolezioni e le videochiamate, vi prego.

Va lievemente meglio con Fasma, benché sia molto giovane e la performance non suoni perfettamente. L’esplosione arriva però con il sentitissimo crescendo drammatico operato da Tosca nella sua versione di “Bella ciao”, tanto straziante quanto incredibile nei suoi profondi risvolti politici: dove diamine sono finiti i Modena City Ramblers, cosa cacchio sta succedendo in questa tempolinea?!

Dove diamine sono finiti i Modena City Ramblers, cosa cacchio sta succedendo in questa tempolinea?!

È la goccia che fa traballare la mia visione, il momento nel quale dallo schermo appare il Videodrome che ingoia chi mi sta attorno, una mano deforma lo schermo, esce dall’immagine, m’acchiappa il fegato e ne fa scempio, lasciandomi senza la possibilità di macerare il mio dolore nell’alcol. “La Musica non si ferma e accorcia le distanze”, un paio di balle, mio caro account ufficiale del Primo Maggio.

Se l’idea era quella di darsi l’ambizioso e preciso obiettivo di “raccontare la musica attuale, la scena e il momento positivo che sta vivendo la musica italiana”, perché ci ritroviamo di nuovo con Patti Smith e Sting, Niccolò Fabi e Bugo, perché continuiamo a farlo a distanze siderali di attualità e significato, e soprattutto dove cavolo sono i Modena? Per fortuna, da qualche parte qualcosa si muove.

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È il caso di qualche frammento cantato dai vincitori del contest Next2020 e del romanticissimo intervento di Dardust al pianoforte, filmato dentro al Museo del Novecento a Milano. Ma anche della pulitissima performance di Francesca Michielin o della riproposizione di “Nuovo Cinema Paradiso” di Morricone della Orchestra Santa Cecilia.

È strano, comunque. Mai come quest’anno il “Concertone” ha tradito la sua anima fondante e i suoi principi: nessuna piazza reale, né gente caracollata un po’ a caso per fare festa e urlare proclami casuali contro il capitalismo e l’alienazione del lavoro.

Non c’è stato alcun preambolo ufficiale sulla fantomatica e ormai immaginaria unità sindacale. Niente folk, reggae, musica tzigana, djembe africani, canti, balli, canne, vinaccio e pioggia. Niente cliché.

Solo una serie interminabile di video e performance realizzate, suonate, prodotte, filmate e registrate mai così bene, in un magistero audiovisivo che ha del fenomenale rispetto alla solita media. Eppure, è tutto talmente pulito da mancare di qualsiasi forza che non sia quella di un’identità raccolta intorno all’emergenza e alla pandemia.

Mentre fiotti di sangue pulsante trasudano dal mio corpo e dalla mia anima ormai sfiancati e muti, Alex Britti butta lì una “Hey Joe” di Jimi Hendrix che ha tutta l’aria di essere stata suonata in diretta, a mezzanotte e con tanto di orgia di feedback finale. E io non posso che cedere.

Per la prima volta da sempre, l’immaginario del Primo Maggio è stato sballottato e stranito, la rappresentazione in musica di una lotta ormai più inventata che reale si è trasformata del tutto. È diventata quel che in realtà insegue da decenni: una pura illusione televisiva, senza più sentimento, distantissima dagli intenti ed emozioni iniziali che avrebbero dovuto alimentare un percorso condiviso, quello verso un lavoro e una società degni.

A pochi secondi dalla fine, prima di uno spettrale applauso nel chiuso dello studio, Ambra Angiolini promette che l’anno prossimo suonerà con Lo Stato Sociale: “T’appartengo”. Waddafuck.

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La storia dietro il meme con il ballo della bara

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Per quanto mi riguarda, fare memesplaining—cioè spiegare un meme sviscerandone i livelli più profondi di lettura—dovrebbe essere illegale. O ci arrivi da solo o niente. Se va aggiunto un contesto, è già un guaio. Come come per tutto, esistono delle eccezioni anche a questa regola. In questo caso, vale la pena dissezionare il miglior meme dell’anno e la domanda è: perché questi uomini stanno ballando con una bara sulle loro spalle?

Ho trovato una risposta in un servizio della BBC del 2017, che è l’origine delle immagini leggendarie. In certi posti del Ghana, i funerali sono animati da un gruppo di becchini danzatori. Il loro compito è far sì che i ricordi che le persone care hanno di un defunto prima che venga seppellito non siano tristi, ma gioiosi.

Il meme funziona così: succede qualcosa di terribile (una persona viene investita da una macchina, fa cadere il telefono, dice qualcosa di molto stupido sugli effetti del Covid-19) e nell’esatto momento in cui capiamo quello che sta accadendo, i becchini spuntano nel quadro, ballando con gioia sulla sfortuna di qualcun altro. Suona crudele, ma è geniale.

La musica è uno degli aspetti più importanti del successo di questo meme. Dopo un intro che carica con un tono più serio—perfetta per introdurre i becchini sorridenti con i loro occhiali da sole—parte la traccia Astronomia. Il brano originale è del DJ russo Tony Igy, ma i fratelli olandesi Ruben den Boer e Victor Pool, altrimenti noti come Vicetone, sono gli autori di questo specifico remix.

Ho chiamato Ruben per fare quattro chiacchiere su com’è stato essere investiti da un’ondata di successo dopo che la loro musica è diventata parte del meme più memorabile dell’anno.

VICE: C’è un video della BBC del 2017 e un brano fatto da voi due nel 2014. Da qualche parte qualcuno ha deciso di mettere le due cose insieme e il risultato è il meme migliore dell’anno. Hai idea di come è successo?
Ruben den Boer: Zero. Non ne ho la più pallida idea. Ho chiesto al nostro manager di fare qualche ricerca, ma non ha trovato molto oltre a qualche link su Facebook. [Il meme] forse ha avuto origine in India o in Italia.

È tutto così completamente a caso.
Molto bizzarro, sì. Viviamo in tempi strani. Eravamo nel bel mezzo dell’annullamento di tutti i nostri piani estivi, tour e show compresi. È la sensazione peggiore che puoi provare da artista. È orribile guardare avanti sapendo che dovrai stare a casa per mesi.Ma improvvisamente ci è arrivata questa notizia: la vostra traccia è stata usata in un meme. Prima pensi: chissenefrega, e te ne dimentichi. Ma poi guardi ai numeri su Spotify e ti accorgi che stanno impennando. Uno screenshot da Shazam ha reso tutto reale; eravamo tra le prime tre canzoni più cercate insieme a Drake e The Weeknd. In quel momento inizi a pensare: che cosa cazzo sta succedendo.

Qual è la storia dietro la traccia? Non avete scritto voi l’originale, vero?
È uscita in Russia intorno al 2010, ma non penso che in molti la conoscessero, fatta eccezione per chi passa tutto il giorno ad ascoltare musica elettronica su internet. Ed è proprio quello che facevo io all’epoca, quando andavo ancora al liceo. Ho messo [la traccia] in una playlist, ma non sapevo bene chi l’avesse fatta. Vincent e io abbiamo iniziato a fare musica insieme nel 2012 e un anno dopo eravamo già professionisti. Siamo entrati subito nella Top 100 di DJ Mag, così abbiamo pensato: possiamo farcela. Due anni dopo, mi piaceva ancora ascoltare quella canzone, ma non si sposava bene con i nostri set. Così ne ho creata una versione nostra. L’abbiamo mandata timidamente a Tony Igy in Russia. Credo gli sia piaciuta. Il suo inglese non è un granché. Volevamo pubblicarla ufficialmente con una etichetta, ma la vecchia etichetta di Tony non ha mai acconsentito. Peccato, ma così va il mondo. A quel punto, la nostra carriera stava andando bene, così l’abbiamo pubblicata lo stesso. Gratuitamente, come regalo per i nostri fan.

Caspita, ma aspetta... State facendo soldi da questo meme, voglio sperare. O no?
Be’, quei primi due anni non abbiamo guadagnato dalla traccia. Poi quando abbiamo pubblicato Nevada nel 2016 ed è andata benissimo—due anni numero 1 in Cina—e questa cosa ha lanciato davvero la nostra carriera. Le etichette si sono interessate e ci hanno chiesto se volevamo far uscire ufficialmente anche Astronomia. Va bene, abbiamo detto, provateci voi. Avevamo zero aspettative. Ma ora siamo molto felici che sia diventata una traccia ufficiale.

Tutto questo è successo nel 2016, che è un po’ di tempo fa. Come è tornata a galla la traccia?
È stata tra le preferite assolute dei nostri fan appena l’abbiamo pubblicata. Da Montreal alla Spagna, tutti ne vanno pazzi. Per cui non è che è spuntata dal nulla. Prima del meme, era stata ascoltata in streaming 65 milioni di volte su Spotify e aveva 34 milioni di visualizzazioni su YouTube. Era già nota nella comunità EDM. Ma non era certo famosa come ora.

Cosa ne pensi del meme in sé?
Be’, all’inizio mi ha lasciato un po’ sconvolto. Il succo è sempre che qualcuno ha avuto un incidente, e non mi faceva proprio ridere a crepapelle. Ma dopo un po’, ho iniziato a vederne versioni meno estreme e le ho trovate divertenti. Gli artisti sono spesso dei puristi; vogliamo che la nostra musica sia ascoltata solo in un certo modo. E lo capisco, ma non puoi avere il controllo assoluto. Per cui ora sono solo contento che tante persone possano ascoltarla così.

Qual è la tua versione preferita?
Qualcuno mi ha mandato questa ieri, che supera le righe.

Penso che viviamo in un tempo in cui dobbiamo gestire un sacco di roba per cui non c’è niente da ridere, e che forse è proprio per questo che il meme fa ridere. Fa strano che la vostra canzone sia diventata la colonna sonora ufficiale di questa cosa?
Ad essere onesto, non so cosa pensare. Mettiamo un sacco di passione nel fare la nostra musica e non abbiamo intenzione di essere moralisti che dicono alla gente cosa deve o non deve fare. Non è questo il compito di un musicista. Quando la vita si fa dura, l’umorismo aiuta sempre, quindi spero di poter offrire un po’ di leggerezza.

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Con ‘Starz’, Yung Lean ha raggiunto il suo picco artistico

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Perché Yung Lean è sempre Yung Lean e suona sempre come una bomba? La risposta è semplice: se nel 2013 potevamo considerarlo avanti anni luce, adesso è da ritenere semplicemente attuale.

Il merito è suo, è il resto della scena globale che ha arrancato dietro le sue intuizioni. “Ginseng Strip 2002”, piuttosto che “Kyoto”, potrebbero tranquillamente uscire oggi e a nessuno sembrerebbe di ascoltare roba vecchia di 7 anni.

Yung Lean Starz
La copertina di 'Starz', cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Molto di quello che gravita attorno all’artista e all’alternative rap contemporaneo per lui è semplice questione di background, un’ombra proiettata sul muro. Troviamo sempre quel suono o quell’elemento in grado di farci dire, “Ma l’ha già fatto Yung Lean quando aveva solo diciotto anni!”

La caratura artistica di Jonatan Leandoer Håstad e la sua dimensione di fenomeno nascono in Europa. Tuttavia, la sua musica non possiede in realtà alcuno stilema del rap europeo: si tiene ben lontana dalle sonorità francesi, tedesche o italiane, e probabilmente anche piuttosto distante da quelle svedesi.

Troviamo sempre qualcosa che ci fa dire, “Ma l’ha già fatto Yung Lean quando aveva solo diciotto anni!”

Al contrario, possiede tratti distintivi per lo più americani, e i riferimenti a flip phones, lean, molly e oppiacei ci danno la conferma iniziale, benché il tutto sia affrontato in una chiave palesemente ironica. Ricordiamoci, infatti, che stiamo comunque parlando di un ragazzino svedese bianco, spuntato dal nulla e con totale assenza di street credibility.

Uno la cui narrativa era basata in gran parte su meme, carte Pokémon, glitch e vaporwave. In “Deathstars” dice “Mi faccio leccare il ca**o mentre gioco a Yu-Gi-Oh! / Da tipe che non sanno / che sono strafatto”, o, in “Hurt”: “A Tokyo, giocando a SuperMario / I Sadboys ti sfasciano lo stereo”.

È ad ogni modo interessante notare quanto, seppur ancora novellino nella scena, Lean fosse riuscito ad attirare su di sé parecchie attenzioni di gran rilievo praticamente da subito. Vengono in mente i featuring con un ancora acerbo Travis Scott e le foto con Justin Bieber nel backstage dei suoi concerti.

Senza considerare poi tutti quei rapper che al tempo percepirono la novità sonora sottesa alla proposta dei Sadboys, la crew di Lean, e di fatto cominciarono immediatamente a imitarli saltando sul carro del cloud rap. L’artista divenne famoso in fretta, e con i suoi iniziò allora il White Marble tour del 2014, che gli sarebbe costato molto in termini di energie fisiche e mentali, un dispendio di risorse e un abuso di sostanze in grado di portarlo sull’orlo di un breakdown, verso l’overdose e costringerlo infine a riparare in ospedale.

Yung Lean divenne famoso in fretta ma il dispendio di energie e l'abuso di sostanze lo portarono in ospedale.

Qui, la svolta tragica e imprevista. Il suo manager e amico, Barron Machat, fondatore della label di culto Hippos in Tanks—etichetta discografica fondamentale, in grado di scoprire, lanciare o ri-lanciare talenti quali Grimes, Laurel Halo, Oneohtrix Point Never, Arca e James Ferraro—, muore in un incidente stradale cercando di portare a Lean la strumentazione necessaria per completare Warlord in ospedale, disco pubblicato poi nel 2016.

Questi eventi accelerano la crescita di Leandoer. Non solo comprensibilmente sul piano umano, ma anche nella controparte squisitamente artistica, permettendogli di creare una musica originale e delineata al meglio delle sue possibilità—beat psichedelici e sognanti che accompagnano le percussioni industriali, e vengono affiancati al suo rap tutt’altro che canonico.

Yung Lean - Viktor Naumovski
Foto di Viktor Naumovski

Lean si trasforma in un vero proprio culto, e lo stesso vale per i “suoi” SadBoys e la Drain Gang—un altro importante collettivo artistico in prossimità alla sua orbita—: tutti oggi ampiamente riveriti e in grado di ispirare moltissimi altri artisti, anche molto lontani tra di loro nello spettro musicale. Pensiamo ad Asap Rocky e Travis Scott, per citarne un paio, ma ci si mette poco a trovare influenze simili nel campo dell’elettronica contemporanea, come in Varg o, addirittura, nella musica pop mutante di Charli XCX.

Jonatan d’altronde proviene dalla generazione MTV. In lui si agita un melting pot culturale strutturato intorno ai cartoni giapponesi e al rap, ma anche all’emo e la musica rock, un bacino di riferimenti artistici che ha permesso a Lean e al suo pubblico di essere sempre del tutto sincronizzati.

Yung Lean proviene dalla generazione MTV, fatta di cartoni giapponesi e rap, ma anche emo e musica rock.

A ulteriore riprova, se prima risultava impossibile nominare The Smiths e Waka Flocka Flame nella stessa frase senza essere presi per matti, con l’uscita di Unknown Death 2002 viene a mancare nella scena ogni sorta di divisione miope e unilaterale del gusto e dei generi musicali. In sincronia con l’evoluzione artistica e stilistica di Lean, avviene anche, di pari passo, l’evoluzione del suo fan.

Se oggi Lean si ispira a Daniel Johnston, il suo fan cresciuto insieme a lui percepisce la reference, l’apprezza e riconosce come sua. Questo avviene ad esempio con grande precisione in “Roses”, quando canta “Mi sparo gli Smiths nella mia villa / Non puoi essere me, ma puoi provarci” e sottolinea una connessione diretta, la creazione di una lingua franca in comune.

È una sorta di criptofasia musicale, un fanciullesco linguaggio segreto: per la prima volta un pubblico con ascolti drasticamente eterogenei come hip hop ed elettronica, folk, country e rock, riesce a connettersi. Da tale carattere eclettico e poliedrico vengono la crescita, i cambi stilistici e musicali che porteranno all’ulteriore maturazione artistica post 2015, che definisce davvero cos’è il progetto Yung Lean e permette l’avvio di diversi side projects.

Håstad rimane comunque sempre genuino e fedele alla propria personale idea di arte, e ribadisce spesso, come tanti altri, di comporre musica per se stesso. Per lui ogni progetto—Yung Lean, jonatan leandoer96, Död Mark, etc—è una creatura a sé stante, ma legata alle altre tramite un filo conduttore che gira attorno alla sua persona fino a farne un gomitolo sfaccettato e dalle molte forme, eppure sempre uguale.

Ogni progetto di Yung Lean è una creatura a sé stante, ma legata alle altre tramite un filo conduttore sfaccettato e multiforme.

Gli elementi connettivi sono i medesimi, solo che si palesano in forme differenti e vengono canalizzati diversamente. Ad esempio, in jonatan leandoer96 si sentono tantissimo le influenze di Daniel Johnston o dei Microphones, alfieri di un folk storto e spesso gioiosamente disperato, messo in pratica dalle chitarre scordate e dalla voce nuda e senza filtro, nonché registrato in produzioni volutamente scarne e idealmente lo-fi.

Nei dischi a nome Yung Lean è ovviamente l’esatto contrario, e il beat viene affinato sino al minimo dettaglio. Eppure, lui non rappa per la performance, non gli spetta alcuna dimostrazione di abilità tecnica né gli interessa: per Leandoer è sempre questione di sentimento, non si tratta di una scelta artistica compiuta a tavolino come per il mumble rap.

Yung Lean

Anche le tematiche che affronta rimangono sempre vicine e in continuità, come ad esempio nel leitmotiv dark fantasy. Da un lato, in jonatan leandoer96, è un approccio suggestivo, quasi fantastico. Le immagini cupe e magiche che emergono dai pezzi sono come circondate da un'aura di mistero, una nebbiolina fitta fitta che lascia tutto all’interpretazione.

In “Wooden Girl” dice “La bellezza dentro al male, sei la mia ragazza di legno / Non voglio condividerti con il resto del mondo / Quella clavicola rotta, mi fai arricciare le ossa” e in “Moth” canta “Un carnevale che dura sin dai tempi più antichi / Amo la luna, si vede attraverso il cielo”. La scrittura qui è fatata e surrealista, fatta di magnetismo, folklore e dipinti immaginari.

“La bellezza dentro al male, sei la mia ragazza di legno / Non voglio condividerti con il resto del mondo / Quella clavicola rotta, mi fai arricciare le ossa”

Dall’altro lato, con l’alias principale Yung Lean, questo leitmotiv è più marcato e reso più aggressivo in favore del rap di strada. In “Hoover” lo ascoltiamo pronunciare queste rime, “Sto cavalcando con un uomo morto / Xanax nella mia mano sinistra”, e in “Hocus Pocus”, “Tutto quello che rollo è potente, stiamo sull’oro / Facciamo i vaghi, pensano di conoscerci / Volo sul loto, in una Range Rover / La mia vita è finita?”

Le figure che cita appartengono sempre a quel mondo ignoto e oscuro, ma l’intento è decisamente più inquietante e meno romanticizzante. Ancora, in “Sauron” da Poison Ivy, rappa: “Lean è nel club, è un terremoto / Ho il cash, ma nessuna cassaforte / Mi sento come Sauron, ho quella maschera sulla mia faccia.” Tutti questi riferimenti sono usati per flexare e creare un confronto tra il braggadocio nudo e crudo e la fantasia più tetra e malconcia possibile.

Queste tematiche anti-standard favoriscono uno degli aspetti più complessi e straordinari della sua personalità: la normalizzazione dell’inaspettato. Dai travestimenti più disparati alle location più assurde—si pensi al concerto tenutosi nel retro di un camion—, Lean comunica tramite mezzi espressivi per gli altri impensabili e spesso geniali.

Parliamo del granny dress del video di “Miami Ultras”, il giullare, l’utilizzo di oggetti simbolici come la sedia a rotelle di “Friday The 13th” o i candelabri di “Red Bottom Sky”. Tutti elementi figurativi controversi, con un peso simbolico tanto rilevante quanto indifferente nel momento in cui è l’artista stesso a neutralizzarlo.

Le tematiche non convenzionali favoriscono uno degli aspetti più complessi e straordinari della sua personalità: la normalizzazione dell’inaspettato.

Lo stesso vale per diversi animali insoliti che ritornano nella sua opera, un aspetto culturale ricco di significati che Lean non lascia assolutamente al caso. Ad esempio, i cani levrieri di “Dogboy”, probabilmente già evocati in “Moth” con “I cani con la pelle di serpente”, non sono una mera scelta estetica, bensì storicamente un simbolo di nobiltà e di fedeltà che compare spessissimo nella storia dell’arte affiancato a personaggi illustri.

Lo stesso vale per il furetto di “Red Bottom Sky, che richiama l’immagine della Dama con l’ermellino di Leonardo, e nella simbologia laica rinascimentale ha lo stesso esatto significato del levriero. Tutto ciò non è casuale, lo ripetiamo, visto che Lean si interessa di pittura e dice spesso di apprezzare l’estetica nordica di John Bauer, piuttosto che Gustave Doré, sin da quando era piccolo e sin dai suoi primi lavori: già in “Hurt” diceva, “Dimenticate dopo la mia morte / Caravaggio”.

Yung Lean

Eppure, è in Starz che ognuno di questi singoli aspetti si fonde in una sintesi perfetta del percorso artistico iniziato subito dopo Warlord, quello che ad oggi è considerato dalla critica il suo disco più importante. È un disco che esce quasi tre anni dopo Stranger, il suo ultimo suo album ufficiale, e dopo due anni dall’arrivo dell’EP Poison Ivy.

Proprio quest’ultimo è quello più vicino a Starz, sia temporalmente che per le sonorità. Non è difatti un caso che, per entrambi i progetti, Lean sia stato affiancato da Whitearmor, la cui produzione magistrale ci riporta al collettivo già citato da cui proviene, la Drain Gang.

In Starz si fonde tutto in una sintesi perfetta del suo percorso artistico.

I singoli che l’hanno anticipato, “Boylife in EU”, “Violence” e “Pikachu”—ma anche “Blue Plastic” con produzione di Yung Gud, benché non inclusa nel disco—,rappresentano una summa dell’intero progetto e carriera musicale del Nostro. Lean si muove tra ballad psichedeliche, fantasmi industriali e pezzi più rap-oriented, incastrando tutto su tappeti sonori dalle melodie sognanti, lievi e delicate.

Da una parte vi è una forte presenza del suo lato romantico, emerso senza dubbio per la prima volta in Frost God con “Hennessy & Sailor Moon”, canzone dal carattere pop, che non ricalca però veramente alcun canone da classifica. La title track “Starz” è un esempio chiaro e perfetto, assieme a “Dance In The Dark” o “Butterfly Paralyzed”: sono pezzi che trasmettono sofferenza ma, al contempo, armonia, e si allontanano dagli schemi classici della canzone rap, r&b o pop senza però tagliare completamente i ponti.

Dall’altra parte ritroviamo l’eterna anima bragger di Lean. “Iceheart” e “Low” sono delle hit come lo è stata “Highway Patrol”. E a metà tra questi due estremi, nel mix multiforme di questo disco, si collocano poi tracce come “Acid At 7/11” e la sua storia vera, così come “Yayo” e “Dogboy”: synth dal futuro sotto lyrics circolari infinite.

Lean riesce così a creare un’opera eterogenea, ma non per questo incompleta. E anzi davvero multiforme e mercuriale, nonché del tutto coerente con il suo percorso artistico: alcune tracce del disco—la title track su tutte, ma appunto anche “Dance In The Dark” e “Put Me In A Spell”—sono quelle in cui le sue “creature” sembrano fondersi, rendendo difficile, per l’ascoltatore, capire se si tratta veramente di un progetto di Yung Lean o di un’intrusione da parte di jonatan leandoer96.

Quale che sia la risposta, senza dubbio Starz rappresenta l’acme artistico di Jonatan Leandoer Håstad. Se in “Hocus Pocus” cantava “Scommetto che non potrai mai uguagliare le stelle”, con quest’ultimo lavoro, invece, sembra proprio che alle stelle ci sia finalmente arrivato davvero.

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Il cantante dei Devo è il padre della vaporwave

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Buffo pensare come nel giro di pochi mesi siamo passati dal panico da contagio alla normalità e la mascherina sia diventata più una moda che una necessità. La maggior parte di quelle in circolazione non protegge infatti da un emerito cazzo.

Anche la fila al supermercato è diventata motivo di svago, nonostante si sia più assembrati che mai, e ci ritroviamo tutti a fare marcia indietro dal punto di vista comportamentale e intellettivo. In poche parole ormai parlare di follia non ha più senso, ci siamo già dentro, siamo direttamente devoluti.

Devo

Ma non è una novità. A fine anni Settanta qualcuno aveva già previsto questo crollo verticale cognitivo, grazie a una filosofia di vita portata al parossismo con una coerenza invidiabile: i Devo.

C’è poco da ridere. È sotto gli occhi di tutti che il loro darwinismo al contrario, canzonato e deriso dai molti critici sapientoni che li definivano “clown fascisti”, è ora realtà.

Qualcuno aveva previsto il crollo verticale cognitivo di oggi: i Devo.

Ciò che invece a molti è sfuggito è che i Devo s’inserivano attivamente nel sistema cercando di sabotarlo dall’interno e portandolo all’implosione grazie alle sue stesse armi: gadget, campagne pubblicitarie, parodie e trovate che hanno la stessa consistenza di plastica del turbocapitalismo. Non a caso, nel recentissimo anniversario dei cappelli Energy Dome—quelli della copertina di Freedom of Choice e del video di "Whip It", ispirati agli ziggurat e alla “raccolta dell’energia mentale”—i nostri eroi hanno deciso di venderne una versione con tanto di visiera/scudo anti-Covid19, nonché una serie di mascherine griffate in stile “total Devo”.

Una presa per il culo dei paranoici e dei Trumpiani negazionisti, ovviamente, a sottolineare quanto la realtà si trovi altrove rispetto alla propaganda. Ma anche un cinico spunto di riflessione su quanto lontano si possa spingere il capitale, visto che neanche la morte lo ferma.

I Devo portano da sempre in superficie queste contraddizioni e partendo dall’underground hanno sempre giocato con quest’aspetto controverso della vita moderna, dell’economia e del costume. Vale in particolare per Mark Mothersbaugh, l’iconico cantante con gli occhiali a fondo di bottiglia, un fascio di nervi e performer pervaso da lucida follia in gioventù e oggi, da anziano, un imbolsito esemplare di una devoluzione abbracciata con nonchalance.

Un personaggio del genere, un singolare anarchico che sguazza nella cultura americana più becera e malata— “felice come un maiale nella sua merda”, per citare uno dei migliori passi della biografia di Miles Davis—, merita di essere analizzato a dovere. Visto che il 18 maggio è stato il suo compleanno, quale migliore occasione?

I Devo hanno sempre giocato con gli aspetti controversi della vita moderna, dell’economia e del costume.

Il buon Mark è stato chiaramente uno dei padri fondatori della new wave e del post punk. Quando arriva nei Devo porta una svolta “umoristica” che permette al messaggio della devoluzione—una bislacca teoria nata da varie suggestioni, tra i quali gli scritti dell’antievoluzionista Shaddock—di essere reso più accessibile alla massa.

Le sue intuizioni sono fondamentali e Mark è praticamente un nerd cibernetico affamato di sapere, polistrumentista e pittore visionario, autore e artista visuale in grado di bucare le superfici con pochi dettagli. D'altronde, i video dei Devo parlano chiaro, i sensi sono costantemente deragliati come in un rollercoaster subliminale, dove il subconscio si trasforma in immagine parlando una lingua a sé stante.

Devo - Freedom of Choice
La copertina di Freedom of Choice dei Devo, clicca per ascoltarla su Spotify

Mothersbaugh progetta strumenti assurdi, come la chitarra che usa in “Too much paranoias”, assemblata con pezzi di sintetizzatore, o la singolare keytar fatta con una racchetta da tennis, la testa di paperino e una calcolatrice industriale. E, miope da sempre, persino i suoi stessi occhiali, tanto da creare un suo marchio per la fabbrica di occhiali Baumvision, un modello unisex chiamato Francesca dal nome del suo cane ermafrodita!

Tanta esplosione di genialità lo porterà, a metà anni Ottanta, a diventare anche un autore di musiche per pubblicità e musiche per spettacoli televisivi, serie animate, film, videogames e chi più ne ha più ne metta. Una produzione sterminata nella quale la qualità e la quantità diventano la stessa cosa, nel bene e nel male, una medaglia con due facce.

L’idea dei Devo era sempre stata quella di sposare la causa multimediale che rende obsoleto il concerto classico.

Qui sta l’interesse nel percorso del nostro eroe, quella parte che ahinoi il più delle volte viene guardata con sospetto dai fans duri e puri. Perché l’intuizione più grande di Mark è stata quella di pensare sin dall’inizio di scavallare completamente la sua stessa creazione, la new wave.

L’idea dei Devo era sempre stata quella di sposare la causa multimediale che rende obsoleto il concerto classico, ragionando invece sui modi in cui annullare la distanza tra pubblico e artista, a favore dell’immaginazione esperienziale senza confini. Il tour di Oh No it’s Devo! nell’ 82 è un esempio perfetto, tra le prime volte in cui si sperimenta l’interattività tra gruppo e le proiezioni sincronizzate sullo sfondo, oltre al 3D.

mark mothersbaugh

Di fatto, i Devo anticipano YouTube e le sue dinamiche. È il Do-It-Yourself che compete con i grandi brand, giocando sul loro terreno come in una scommessa sul tappeto verde: chi vince deve comunque pagare, le parti in gioco sono alla pari.

Per questo, in curriculum ci sono anche diverse scommesse perse, come quando il gruppo ha dovuto ingoiare il licenziamento da parte della Warner Bros. È il caso di Shout! del 1984, disco vissuto come crollo creativo della band, che però condurrà al riscatto di Something for Everybody del 2010.

I Devo hanno anticipato YouTube e le sue dinamiche, e previsto un suono prodotto digitalmente dalle macchine.

Un’operazione addirittura visibile in una serie tv curata proprio dai Devo, dove viene documentato il tentativo di rientrare nelle grazie Warner Bros. Il sistema è tanto semplice quanto geniale: si affida il marketing a un’agenzia pubblicitaria esterna all’etichetta e la produzione del disco avviene utilizzando i focus group, cioè direttamente il pubblico.

Nel suo concept, Shout! è già la previsione di una musica artificiale pre-HD. Un suono creato dalla gente per la gente, ma prodotto digitalmente dalle macchine, con la completa abolizione delle chitarre e della classica formazione rock—la devoluzione del canone moderno è compiuta per fare posto alle produzioni homemade di oggi.

È l’autocritica di un intero sistema di valori ma anche il tentativo di innalzarlo a un livello estetico e concettuale che lo trasformi in pura arte. Non a caso, si prendono spesso gioco del rock classico rubando riff e interi pezzi dall’inconscio musicale collettivo, come nel caso della storica “Satisfaction” degli Stones, per riadattarli ai loro fini.

I Devo hanno sempre avuto ragione: se guardiamo al presente, le chitarre come le conoscevamo sono quasi sparite dalla musica di massa, salvate solo—proprio come Mark ha affermato in varie interviste—dai management e dalla spinta pubblicitaria. Motivo per il quale il nostro Mothersbaurg mette il piede sull’acceleratore, cavalcando la palla demolitrice.

I Devo hanno sempre avuto ragione.

E diventa così il principale assemblatore della serie E—Z Listening Disc, firmata Devo. Ovvero, versioni per “musica da ascensore” dei loro grandi classici, vera e propria muzak, improbabile plastica sonora da utilizzare per la filodiffusione degli aerei o ambienti simili—insomma, tutta la monnezza del capitalismo concentrata in un suono.

Le versioni presentate sono quasi irriconoscibili, shockanti e ignorantissime nella loro assoluta superficialità. Ma la cosa bella è che sono proprio i fan dei Devo le prime cavie del progetto.

La band comincia i suoi esperimenti durante il tour di Freedom of choice, quando hanno ormai raggiunto uno status di culto, ma anche di massa, grazie alla hit “Whip It”. Prima dell’inizio del concerto, i Nostri diffondono dalle casse queste versioni di elettronica scrausa e weird, depotenziando il loro stesso successo.

Come a dire, “Attenzione! Anche noi siamo un prodotto commerciale”. Ovviamente il fan rimane spiazzato, ma la pratica va avanti anche nei tour successivi e cominciano a circolare i bootleg di queste versioni, inizialmente disponibili solo per il fan club, fin quando nel 1987 i nostri eroi non decidono di registrare di nuovo tutto e pubblicare ufficialmente una raccolta.

L’interesse per le musiche più artificiali possibili porta Mark Mothersbaugh al suo primo album solista.

Che, neanche a dirlo, inaugura la vaporwave nel mondo. A dire il vero, è Mark a inaugurarla ufficialmente, visto che, dall’uscita di Oh no! it’s Devo in poi, è solo lui a registrare queste strane versioni.

L’interesse per le musiche più artificiali possibili, la colonna sonora estrema e indigesta di un mondo in caduta libera, lo porta a scrivere il suo primo album solista. A essere precisi, si tratta di una serie, le Muzik for insomniaks vol. 1 and 2, che forse, insieme a Music for Supermarkets di Jean Michelle Jarre, rappresenta addirittura uno dei prodromi dell’esperienza PC music.

Devo

Quel tipo di musica talmente iperrealista da scardinare il prodotto pop a tavolino, tra la parodia dei grandi successi di classifica all’estremizzazione dell’estetica di consumo. Ancora meglio, Mark si prende gioco della New Age in voga all’epoca, succhiandone via la presunzione salvifica e svelando dietro alle tendenze “spiritualiste” una vera e propria schiavitù “felice” che può essere sciolta solo accelerando i processi di sottomissione all’idiozia.

Il disco è clamoroso e offre spunti sonori che non starebbero male in un lavoro di Sophie o dei Planet 1999, o in un qualsiasi numero di catalogo della Orange Milk, e addirittura di Grimes se abbandonasse le scorie rock ancora presenti. Mark concepisce questo lavoro come “carta da parati che incontra Escher”, e in effetti la sensazione di uno spazio che si ribalta, cambia prospettiva e diventa quasi anamorfico è palpabile.

Mark prevede un futuro di revisioni del pop più plasticoso e contraffatto, una musica patinata per la generazione Instagram che ancora deve arrivare.

È un lavoro davvero ispirato, tra atmosfere sognanti e sequenze tanto “decerebrate” quanto romantiche, che tengono conto dell’eredità di Satie, del Raymond Scott di Soothing Sounds For Babies e dei facili esotismi sonori che anticipano le musiche per videogiochi dei Novanta. I titoli, poi, sembrano usciti da una previsione di upgrade di Windows o da un disco degli Autechre.

Mark estremizza ancora di più la questione nel 1987 con Muzik For The Gallery, una sonorizzazione di alcune sue mostre che si avvicina ai deliri della colonna sonora di Liquid Sky—ed ecco un altro interessante punto di riferimento per la vapor che verrà. Il salto di sonorità lo fa però nel 1999, con Joeyx mutato, in cui prevede un futuro di revisioni del pop più plasticoso e contraffatto in versione casalinga, con tanto di zanzare digitali e atmosfere alla Namasenda, una musica patinata per la generazione Instagram che ancora deve arrivare.

Se pensiamo alle continue mutazioni da deficit dell’attenzione delle sue installazioni visuali e dei fotoritocchi sempre fotonici, capiamo anche l’approccio geniale che Mothersbaugh dimostra nei confronti dei commercials, con i quali si sporca le mani per tirarle poi fuori immacolate.

In apparenza è una contraddizione, il personaggio antisistema che lavora per il sistema stesso, eppure viene risolta in maniera lucida e determinata. Mark, infatti, segue uno degli aspetti filosofici dei Devo, cioè lo “Slack”, un atteggiamento che si basa sullo svacco e sulla pigrizia applicata.

Mark si lavora il sistema dall’interno, come un virus.

Si tratta di un principio da non confondere con gli Slacker dei Novanta. Qui si parla della parodistica Chiesa del Subgenio, cui aderivano anche David Byrne e Robert Crumb, che, sintetizzando, significa: il sistema ci obbliga a lavorare duramente per poter mangiare e ci sfrutta… e noi lavoriamo pigramente, diamo il minimo per il massimo risultato, sfruttiamo le crepe della macchina produttiva.

La questione è chiara: Mark si lavora il sistema dall’interno, come un virus. Già prima di fondare la sua Mutato Muzak, l’artista era solito infilare messaggi subliminali nelle pubblicità che gli commissionavano.

Ad esempio, nella pubblicità della bibita Hawaiian Punch introduce un “Lo zucchero fa male” nel background, senza che nessuno se ne accorga. E cosi, nella sua carriera, ha seminato di messaggi “contro” tutte le corporazioni con cui ha lavorato: BMW, Mercedes, Pepsi, McDonald's, Burger King, Taco Bell, etc.

Allo stesso tempo, introduce situazioni disturbanti che alzano il tasso di psichedelia e abbassano l’appeal rassicurante del prodotto, dando punti alla libertà creativa. Un esempio lampante è la serie semi animata sul famigerato Ronald Mc Donald, la mascotte dei famosi hamburger: bene, Mark studia una serie di canzoni che farebbero scoppiare le allucinazioni a chiunque, e la mascotte si trasforma in un pazzo schizofrenico che ti porta alla nausea.

L’obiettivo di Mark è quello di sottolineare che il capitale vuole la merda e bisogna dargliela a secchi finché le fogne non esplodono.

Partecipa poi alla colonna sonora di programmi per bambini come Pee Wee’s Playhouse, in cui non c’è spazio per i compromessi ma è evidentemente fatto per fare esplodere le teste a tutti, in primis ai genitori. Insomma, l’obiettivo di Mark non è tanto quello di far calare il fatturato delle grandi corporate, quanto spostare il consenso del pubblico sull’espressione artistica senza compromessi, e sottolineare che il capitale vuole la merda e bisogna dargliela a secchi finché le fogne non esplodono.

In effetti personalmente, vedendo i commercials di McDonald’s con le sue musiche, ho smesso di mettere piede nei fast food alla tenera età di 14 anni…e ho incominciato a fare noise: posso dunque testimoniare che il suo metodo funziona.

Se poi qualcuno volesse dubitare della buonafede di Mark e dei suoi soci basterebbe ricordare che nel 2008 McDonald's fece uscire, d’accordo con American Idol, alcuni pupazzi praticamente clonati dai Devo, con tanto di Energy Dome rosso in testa, e i Devo protestarono subito per voce dell’altro storico membro, Gerald Casale: “Non ci hanno chiesto niente. Inoltre, non ci piace McDonald’s né American Idol, quindi siamo doppiamente offesi. Stiamo per citarli in guidizio”. Alla fine il fattaccio si concluse amichevolmente, il che vuol dire che McDonald’s avrà probabilmente scucito una cifra da capogiro: che il potere paghi caro e paghi tutto.

Non parliamo di certo di sprovveduti, l’intelligenza progettuale di Mark è senza confini e sentirlo parlare è sempre uno spettacolo, visto che alle a volte sfiora la pura veggenza, ma quella lucida e informata. Nel 2010, proprio sulle pagine di VICE, si espresse così sulla situazione mondiale: “A una certa la gente penserà, ‘Ma che stiamo facendo? Abbiamo aria limitata, acqua limitata, terra limitata.’ Sei miliardi di persone ci stanno, ma non tutte insieme! Sono troppe per il pianeta che abbiamo. O lo decidiamo noi, oppure ci penserà Madre Natura a intervenire. La possibilità di una pandemia è più realistica che mai, tutto è interconnesso.”

In un'intervista a VICE nel 2010 Mark disse: "La possibilità di una pandemia è più realistica che mai, tutto è interconnesso.”

È andata proprio come diceva lui: ci ritroviamo in un mondo inscatolato e programmato simile ai Sims di cui lui compose la fredda e inquietante colonna sonora, caratterizzata da una serenità sospetta e innaturale. E siamo tutti dei Lego che perdono i pezzi, di cui la colonna sonora del film The Lego Movie 2 è una delle cose più fiche mai scritte da Mark, tra IDM, Hi-Tech e orchestra classica.

L’introduzione di quest’articolo è quindi la conclusione, esattamente come il primo video dei Devo si chiamava In The Beginning Was The End: The Truth About De-Evolution, per parafrasare Gerald Casale e sgombrare il campo da ogni equivoco: “I Devo sono quello che è reale ora. I Devo non sono in anticipo sui tempi, non sono spaventosi o scioccanti… siamo la resident band sul Titanic, e siamo qui per intrattenere mentre precipitiamo tutti”. E allora tanti auguri al grande Mark, e mille di queste devoluzioni!

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Zollo mette insieme tutte le sfumature del pop italiano

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Il panorama musicale è un ambiente che equivale alla più densa tra le giungle esplorate da un turista casuale. Una tessitura di complicazioni vivaci, composta da materiale che vuole venire alla luce e, insieme, vita in disfacimento che precipita a terra.

Il tipo di luogo dove musica e addetti ai lavori, musicisti e personale ausiliario lottano per sopravvivere e riuscire a far sbocciare i propri fiori e i frutti, alla ricerca di qualcuno che voglia nutrirsi del loro nettare sonoro. Quel che però ci si dimentica in fretta è che alcune di queste figure sono più importanti delle altre—non per motivi di vanto o enfasi particolari, bensì per puro pragmatismo.

Zollo

Carlo Zollo è produttore e autore, musicista e compositore. Soprattutto, però, è un ingegnere del suono e un fonico, cioè esattamente una di quelle figure essenziali per la messa in scena della musica dal vivo (e non): in curriculum ha lavori per, e con, Cosmo e Calibro 35, Calcutta e Diodato, tra i tanti.

Nel suo splendido La conquista dell'inutile, Werner Herzog, visionario regista di culto, scrive: "È difficile intraprendere questo lavoro, avvicinarsi a questo enorme fardello di sogni." L'artista qui parla evidentemente di altro, ovvero del fare cinema.

Zollo è produttore e autore, musicista e compositore, nonché ingegnere del suono e fonico.

In particolare si riferisce alla realizzazione di quella follia intitolata Fitzcarraldo, che vede il sulfureo protagonista Klaus Kinski trascinare una barca in mezzo alla foresta amazzonica—come peraltro il regista farà davvero. Tuttavia, riflette le giungle metaforiche dell'industria musicale.

Per questo, la scelta di Zollo di passare attivamente al fare musica, con cinque singoli che formano una sorta di mixtape sotto la dicitura "Spermatozollo" o una "collana discografica", come la chiama lui, è tutt'altro che scontata o frutto dell'improvvisazione del momento. Si tratta di cinque brani che hanno visto il supporto, i feat e l'aiuto di Joe Sacchi e Ketama, Lil Jolie e Tauro Boys, Pretty Solero e Garage Gang, nonché Enrico Gabrielli dei già citati Calibro 35.

Una musica in continuità, ma anche in evoluzione, con suoni a cavallo tra trap e itpop, sperimentazione esotica, elettronica e strascichi emo—ricordiamo che la produzione di Emoranger di Generic Animal è opera sua. Per questo motivo, abbiamo voluto fargli qualche domanda.

Zollo

Noisey: Descrivi in tre frasi quello che fai e chi sei.
Zollo: Sono Zollo, sannita trapiantato a Milano. Sin da piccolo attratto dalla musica e tanto ho fatto che mi ci sono ritrovato dentro. Se dovessi spiegare quello che faccio direi che colleziono esperienze e competenze legate alla musica e alle persone, le filtro con la mia sensibilità e le rimetto in pratica.

Come hai cominciato a lavorare con la Love Gang?
Un paio di anni fa, parte della gang iniziava a fare le primissime apparizioni in situazioni e festival in cui io sguazzavo già da un bel po'. Ne rimasi super colpito. Iniziare a collaborare con loro è stato liberatorio, perché si faceva sul serio ma con un approccio da gruppo di amici di piazza che, vivendo a Milano da un po' di anni, avevo quasi dimenticato. Il tutto è iniziato dall’incontro casuale con Pretty Solero e il suo manager di allora, che aveva ascoltato ciò che facevo ai tempi, quasi 3 anni fa. Dopo, i ragazzi si sono incuriositi e da qui è nata la nostra amicizia. Dal quel momento sono nate tutte le collaborazioni avvenute finora.

"Sono Zollo, sannita trapiantato a Milano. Sin da piccolo attratto dalla musica e tanto ho fatto che mi ci sono ritrovato dentro."

Qual è il tuo pezzo a cui sei più vicino, e perché?
Decisamente ‘’Non è un gioco’’ perché è il primo singolo che mi vede come compositore/produttore con il nome Zollo e dopo un paio di anni di vita è ancora molto ascoltato e apprezzato. Il suo successo mi ha dato il coraggio e il potere di continuare.

"Spermatozollo" è un gran titolo, come ti è venuto fuori?
Si tratta di una parola che mi porto dietro da un po', una termine divertente che utilizzo per scherzare con gli amici. Una sera, al ritorno da una data del tour ‘’Kety’’ di Ketama126, il Sergente, cioè Miguel Navarro Parres, il mio manager, parlando per ore sulla sua terrazza in centro a Roma ha battezzato "Spermatozollo" come contenitore di esperienze e collaborazioni sincere che stavano succedendo e dovevano essere mostrate.

Zollo Ketama Splash
Clicca sulla copertina di Splash, per ascoltare il brano su Spotify

"Dopo il sexo" con Joe Scacchi è una zarrata pazzesca, om'è nata?
Il WingKlan l’ho conosciuto grazie al tour di Ketama126, ‘’Kety’’. Attraverso le varie e poche date ci siamo avvicinati e con Joe Scacchi è nato questo pezzo, registrato negli ultimi giorni prima del Covid. Ci siamo dati appuntamento in uno studio di Roma, abbiamo ascoltato un po' di miei beat e ci siamo fomentati su questo baile funk. Joe ha scritto qualche barra, a me è venuta l’idea melodica centrale, nel giro di poco più di un’ora l’ascoltavamo compiaciuti.

"Ultimo disco": com'è lavorare con la Garage Gang?
Super soddisfacente. Conosco bene Kiko con cui ho condiviso parte del tour "Rehab" di Ketama. Ci dava una mano come tour manager e condividevamo la stanza, dove di sicuro ad ogni data ci ritrovavamo con una parte considerevole del pubblico a festeggiare. Loro arrivano in studio sempre con qualche idea estetica o con un argomento preciso stimolandomi tantissimo.

"Spermatozollo" è una parola che mi porto dietro da un po', una termine divertente che utilizzo per scherzare con gli amici.

"Splash": Ci sono radici pop punk dietro al pezzo? Come mai?
Per tanti motivi. Credo... La sostanza è arrivata di getto in un'oretta, di pomeriggio nel mio studietto casalingo. A Ketama e me piace giocare con il crossover anni 90/2000 trap. Probabilmente perché è il periodo della musica che ci faceva sognare di più, avendola vissuta da pubblico prima di iniziare a pensare che potesse diventare la nostra vita. Poi negli ultimi mesi, per progettare tutta la parte musicale del tour "Kety" 2020 come direttore artistico con lui, ci siamo ritrovati un sacco di ore ad allenarci, evocando sul serio quelle atmosfere.

"Ora vado": Perché un pezzo su Milano?
Non è stata una scelta ben precisa. Deriva dal fatto che Solero e Lil Jolie, per collaborare a vari progetti, sono saliti a Milano. La traccia esiste proprio perché entrambi, per caso, volevano esprimere queste sensazioni scatenate dai viaggi verso Milano legati alla musica. Io mi ci sono affezionato subito e molto. Vivo a milano da 8 anni, ma provengo da un piccolissimo paesino di campagna nella provincia, quindi conosco molto bene quanto questa città ti può dare e quanto ti mette costantemente alla prova e di fronte a compromessi.

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La storia di 'Zucchero Filato nero', il disco dimenticato di Mauro Repetto degli 883

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Nel mondo dorato del pop italico ci sono state entità che hanno lasciato un segno enorme, ma che della popolarità se ne sbattevano. Artisti che hanno fatto perdere le proprie tracce e hanno tentato di cambiare pelle, fino a lavorare nell’ombra e sognare di volare via.

Uno di questi eroi moderni è Mauro Repetto: sì, il biondino degli 883 che ballava come un pazzo. Perché si sa, gli 883 all’inizio erano un duo: da una parte il cantante e front man, Max Pezzali, dall’altra Repetto, considerato quasi una spalla.

Sul palco non faceva che dimenarsi, e tu non potevi che pensare: ma questo che cazzo sta facendo? Suscitava ilarità, certo, almeno nelle menti più ottuse—chi invece sapeva guardare oltre si rendeva conto che ballare in questo modo così spontaneista, scoordinato e assurdo aveva la stessa valenza di cantare, se non persino qualcosa in più.

Tanto che i balletti per cui altri avrebbero ricevuto pomodori in faccia non crearono nessun problema al trionfo del duo in classifica, e anzi lo amplificarono. Pezzali sul palco non sapeva mai che cosa avrebbe combinato il socio, il quale era un’incognita, il ragazzo di tutti i giorni che non sa come esprimersi, quello che magari non cucca ma ci prova—insomma, uno di noi.

Sul palco Repetto non faceva che dimenarsi, e tu non potevi che pensare: ma questo che cazzo sta facendo?

Ecco, Repetto era la versione italiana di quei giovani che a forza di ballare con lo stereo in casa e sognare di essere rockstar, scoprono la libertà e se la “cuccano” tutta, con tutta la goffaggine possibile e immaginabile. Quelli che a fine anni Ottanta non ce la facevano a fare i fighi della "Milano da bere" ed erano già nel post paninaro, ovvero nella confusione più totale.

Repetto rappresentava questa contraddizione, il cortocircuito ballerino di un transistor saldato male al suo periodo storico. E, soprattutto, si rifaceva in pieno al giullare dei Public Enemy: Flavor Flav.

Di certo Mauro non reppava, ma scriveva tutti i testi e, in virtù della sua innata empatia, riusciva a sintetizzare al meglio il malessere di un'intera generazione. E tra l'altro poi, invece, nella prima emanazione degli 883 reppava eccome.

Quando il duo ancora si chiamava I Pop, Repetto si esibiva come un MC o, meglio, come la sua imitazione alla matriciana. La loro prima uscita pubblica, nella trasmissione dell’amico Jovanotti 1 2 3 casino, rappresenta nella sua ingenuità il momento in cui l’italo disco si ibrida con il rap, creando un miscuglio di roba dozzinale, ma al tempo stesso anche un ponte tra due mondi lontani.

Nella prima emanazione degli 883 Mauro Repetto reppava eccome.

Il duo in quel momento si trasformò proprio grazie al “joker” Repetto, uno che ti crea l’inaspettato colpo di scena del Maestro assoluto. I suoi testi assorbivano e restituivano davvero perfettamente il sentimento della gioventù italiana, per la maggior parte “provinciale” tanto nelle scelte e nei gusti, quanto nel disagio assoluto.

Grazie alle parole di Repetto si è capito che l’Italia non era una potenza economica, bensì una scureggia nel buco del culo del pianeta, e i suoi ragazzi tutti confinati nelle regioni più sperdute del loro cervello, in cerca di una fuga. "Ma con un deca non si può andar via", recitava lui stesso, consapevole del fardello, e dunque usiamo tutto il cash che abbiamo e leviamoci di culo.

Andò in effetti proprio così, tra Repetto e il progetto 883: un bel giorno, dopo i grandissimi successi del duo e all’alba del secondo album, Pezzali e Repetto fanno i loro soliti meeting per parlare del disco successivo. Sembra tutto a posto e Max fissa l'appuntamento seguente, tuttavia Mauro replica: "Max, io parto per l'America, vado a Miami”... e fu così che non lo vedrà più per anni.

L'uomo se ne va, portandosi via tutti i soldi guadagnati con la band, scappa, fugge, il successo in Italia subito dimenticato. Si gioca tutto per l’amore di una modella, Brandy, della quale si innamora tramite una foto su un giornale, come se sfogliasse Tinder prima del tempo.

Repetto si gioca tutto per l’amore di una modella, della quale si innamora tramite una foto su un giornale.

Il suo sogno è quello di fare un film con lei e intraprendere la carriera da regista, motivo per il quale contatta un suo amico che lavorava a Hollywood e mette i soldi in mano ad un avvocato che possa aiutarlo a finanziare il progetto. L'avvocato ovviamente lo truffa portandosi via 20.000 dollari e il nostro malcapitato si ritrova senza il becco di un quattrino, costretto a tornare in Italia con la coda tra le gambe, pronto però a dare vita a quella strana rinascita di cui tratteremo qui.

Intorno a questa storia gli addetti ai lavori hanno creato molta letteratura, il più delle volte deridendo il nostro protagonista e dimostrando una sensibilità pari a una merda sull’asfalto. Ma, soprattutto da quando è diventato più facile reperire il frutto di questo epos incredibile, molti si sono accorti che c’era ben poco da ridere.

Zucchero Filato Nero è il titolo della pietra miliare, l'anno il 1995. Ed è giusto partire dicendo che Mauro Repetto in realtà non aveva nessuna intenzione di scrivere questo disco, e lo fa soltanto per mettere una pezza sul tracollo finanziario grazie ai consigli dell’amico Claudio Cecchetto che, insieme a Pezzali, aveva cercato in tutti i modi, tramite telefonate, fax e chissà che altro, di convincerlo a non fare questa cazzata micidiale.

Nulla, non ne voleva sapere il Nostro. Come un vero giocatore scommette sul suo futuro, col brivido della puntata, un coraggio invidiabile e una fiducia nella buona sorte quasi sconvolgente.

Mauro Repetto in realtà non aveva nessuna intenzione di scrivere Zucchero Filato Nero, lo fa soltanto su consiglio di Claudio Cecchetto e Max Pezzali.

Ovviamente è tutto sbagliato, il profumo di donna l’ha completamente avvolto in una nebbia accecante e lo porta al tracollo dopo solo sei mesi, quasi un record. A questo punto, però, da loser orgoglioso come la storia del punk insegna—d’altronde gli 883 erano avvezzi ad ascoltare i GBH e i Discharge, come confessò Pezzali—, decide di raccontare a tutti cosa è successo e trasforma l'esperienza in musica.

Una musica che nasce come seduta psichiatrica, l'esorcismo che ti avvolge dalla prima nota o il sogno di una mente spezzata in due. È l’ equivalente del Daniel Johnston che in Italia non abbiamo mai avuto.

Si tratta infatti di testi tra il rozzo e il romantico senza criterio, con il disagio made in 883 accelerato e momenti esistenzialisti che molti hanno definito simili a Syd Barrett. Col cappellaio matto ovviamente il nostro condivide solo l’aver mandato in vacca una carriera, musicalmente sembra più che altro il succitato cantautore americano che si accoppia con le Shaggs, con i Godz e con dei Black Merda in versione hip hop, tanto che volendo esagerare si può dire che Repetto è il padre di tutti i Bello Figo, di Young Signorino e del LoLrap tutto.

Nasce infatti per essere un disco “black” già dal titolo, tanto che tornando in Italia il nostro si porta appresso due compositori neri “che fanno risse tutte le sere”, come ammetterà lo stesso Repetto in una intervista per Vanity Fair, probabilmente per trasferire la sua incazzatura nell’album. Il quale puzza di neuroni bruciati già dalla title track, "My love", l’apertura all’inferno che per ora sembra solamente un momento di desiderio, quello di trovare l’anima gemella che però chiaramente non ti caga.

Il disco ha testi tra il rozzo e il romantico senza criterio, con il disagio made in 883 accelerato e momenti esistenzialisti.

Il pezzo sembra un rockaccio alla Guns'n'Roses, ma a parte la presenza di Francesca Tourè che diventerà la cantante solista dei Delta V, la cosa più interessante è la voce di Repetto: assolutamente fuori dai ranghi e psicotica, passa dal cantato melodico al rap in maniera scoppiata. Quel "Ti piaccio o no" urlato sguaiatamente profuma di stalker e di ossessione, di "Passione nera", per scomodare i Nerorgasmo.

Certo qui non si parla di politica e società ma della “cara e vecchia faiga” come diceva Jerry Calà, però attenzione, non è un paragone poi così assurdo. Anche a Repetto dicono metaforicamente tutti in coro “La tua passione nera ti fa pensare da alienato / Sei tu che devi cambiare il tuo discorso che è sbagliato”, proprio come nel pezzo dei Nerorgasmo, e giustamente lui corre verso la morte più sublime, cioè la misteriosa modella di colore Brandy, a cui si deve l'ispirazione per il concept del disco.

Dopo questo testo in bilico tra l’allucinazione erotica da maniaco, "Le tue cosce me le sogno da dio / vorrei palparti" e il romanticismo senza speranza "Ma magari tu c’hai il ragazzo e mi stai cantando sei uno sfigato", nel suo delirio passa alla title track, una ballad che sembra la versione di "Human Nature" di Michael Jackson passata per un autolavaggio vapor. Ti immagini un cantato con il vocaloid, invece Mauro arriva a cantare come se stesse facendo i fumenti e dipingendo una situazione di amore carnale sognato.

Repetto immagina con tale forza da svegliare i vicini, riuscendo quasi a rendere reale il tutto, come se il suo agognato amore fosse proprio lì con il “Rimbalzo dei ricci sui tuoi seni”. E sembra quasi un Capitan Beefheart che vuole fare hip hop , soprattutto nel brano "Baciami qui", in cui diventa chiaro quanto l’aderenza alla realtà del Nostro sia del tutto assente: si immagina di avere una figlia e i suoi comportamenti da padre maturo.

Mauro arriva a cantare come se stesse facendo i fumenti e dipingendo una situazione di amore carnale sognato.

La successiva "Nervoso" apre le danze già dal titolo al secondo girone infernale, con un sax jazzato che fa da prologo al dialogo dei due coautori del disco, gli esperti di risse, che partono subito con una trafila di commenti machisti. E, su una base che ricorda i De La soul ridotti a scheletro funk, il Nostro riscrive "Dio mio no" di Battisti, tra un’ammissione di uso di stupefacenti e autocitazioni che se la prendono con i "pacchi" dati dalle tipe americane.

Ma Repetto è sempre alla ricerca di "Un grande sì", quello di una lei immaginata che non arriva mai ed è sempre sfuggente. Questa traccia è l’inizio delle migliori canzoni del disco, fatte solo di voce e chitarra acustica, nella grande tradizione del weird folk psicotico.

La musica è del chitarrista Michele Chieppi, e Repetto, che sembra fatto di Risperidone, canta una poesia come questa: “Giorni di ghiaccio e di merda uh / mi sembra di essere una candela nel vento / e vorrei solo chiedere al cielo una donna /che ami me" e "Troverò una ragazza su un fiume / o una puttana in aereo / che ami me.” Diretto e geniale, parental advisory senza freno, che si contorce in una situazione di dolore pressante, senza alcun ritegno per la metrica o per l’emissione vocale.

Entriamo poi in un modo di plastica midizzato con la romantica "Brandi's smile" che fa cadere le maschere. È un flusso di coscienza allucinato, vero e proprio spoken word degno di un Burroughs cresciuto a chinotto e anfetamine, dove il Nostro ci racconta per filo e per segno la sua incredibile storia.

"Brandi's smile" è un flusso di coscienza allucinato, vero e proprio spoken word degno di un Burroughs cresciuto a chinotto e anfetamine.

I versi successivi spaccano il cuore "Ora volo giù nella mia nostalgia / Max era l'amico, il successo, l'allegria / ora atterro qui, nella mia follia". Ma niente, anche se ora ha capito l’andazzo rifarebbe la stessa cosa, scommetterebbe ancora al tavolo da gioco.

"Voglia di cosce e di sigarette" è forse il pezzo che gli 883 non avrebbero mai potuto eguagliare, con una chitarra acustica che sembra uscita dal White albume Repetto che suona come un Lennon in acido a scorazzare per i locali più zozzi della Grande Mela. Una sorta di The Lost weekend di Billy Wilder, in cui tutte le donne vengono guardate attraverso le lenti del magnaccia e lui e il suo amico fanno nottata senza senso.

C'è una solitudine incredibile, con Repetto che canta urlando come se uscisse dai Pavement, dai Dinosaur Jr. o dai Mudhoney, mischiandoli ancora una volta al Battisti di "Dieci ragazze", di cui sentiamo l’ eco nel ritornello. Torna poi l’hip hop con "Però dai sì", che mette in luce la voce della Tourè, con base mezza acid house che ricorda i KLF, e si racconta una storia autobiografica che pare ancora una volta mettere in evidenza che con Repetto si va costantemente in bianco.

Anche con "Porno a Las Vegas" la tendenza non cambia e si sfunkettona come il Prince anni Novanta di "Sexy MF". Repetto e i suoi però non hanno le skills del genietto di Minneapolis, ma solo le illusioni del sogno americano, che luccica come oro e nasconde il rame—nient'altro che un sogno porno, l'eccesso di desiderio già stanco prima di realizzarsi.

Repetto e i suoi hanno solo le illusioni del sogno americano, che luccica come oro ma nasconde il rame.

La traccia successiva, "Nual", torna su queste tematiche da bulimia sessuale con un folk delirante e lo-fi, sostituito da "Ma mi caghi?", che inizia con una roba tra il free jazz, sottofondi ambient-noise industrial e l’hip hop a cannone che ricorda un po’ il Miles Davis di Doo-Bop. Il freestyle di Repetto è colmo di frustrazione e due di picche in collezione, flow senza senso, fuori sync che manco nella trap o nelle peggiori allucinazioni di Tyler, the Creator.

È distruzione del senso e squaglio totale, forse il pezzo più assurdo del lotto, una laurea in fallimento. E infine arriva il gran finale, sempre per chitarra e voce: "Fiori o formiche?" è il manifesto di Repetto, un pezzo disarmante per l'equilibro psicotico con echi dell’ Adult/Child di un Brian Wilson con la voce spezzata.

“Stelle, fiori o formiche per voi cosa siamo?”, uno di quei pezzi che mettono le fondamenta all’ itpop italiano a venire, e non a caso Colapesce ne farà addirittura una cover, per quello che forse è il brano più bello, emozionante e universale del disco. Un'universalità che però non viene riconosciuta, nella parentesi di Zucchero filato nero.

Il disco fu un flop terrificante e vendette solo 23 mila copie, un record negativo. Repetto all’inizio se la prende con Cecchetto, reo secondo lui di non averlo spinto abbastanza, cade in depressione e ingrassa di tre taglie come un Adam Ant esploso.

Zucchero filato nero fu un flop terrificante.

Infine, riparte. Non per l'America, ma in direzione della Francia, dove, a parte le leggende che facesse Pippo a Eurodisney—e invece faceva il cowboy—, ora si occupa di design e di teatro, e ha trovato finalmente l’amore della sua vita che gli ha dato due bambini.

Paradossalmente, è proprio in una vita a basso profilo che il nostro ha trovato l’Eldorado. Ci si chiede a questo punto come mai Pezzali non lo abbia ripreso in scuderia, ma la risposta è facile: per lui gli 883 erano davvero una band, e la delusione per la partenza dell’amico fu grande, “Senza di lui non mi divertivo assolutamente più a fare musica. Sentire l’accordo della chitarra nel silenzio mi dava l’ansia”.

Logico quindi che non si potesse ricucire facilmente lo strappo. Tuttavia, non tutti sanno che Repetto ha agito nell’ombra degli 883 per molti altri dischi successivi alla sua partenza—in La donna il sogno & il grande incubo è co-autore di "Tieni il tempo", che vincerà il Festivalbar e scrive anche "Musica" e la traccia fantasma "Non 6 Bob Dylan", in cui addirittura canta. Mentre ne La dura legge del gol scrive i due singoli "Se tornerai" e "Finalmente tu".

Ma, soprattutto, non è che nei dischi degli 883 non facesse nulla, visto che oltre ai testi si occupava anche del sequencing, della chitarra ritmica e dei cori. Repetto è tornato finalmente ad avere rapporti di amicizia più stretti con Pezzali solo nel 2012, apparendo in "Sempre noi" insieme a J-Ax, e scrivendo per lui nuove canzoni come "Il presidente di tutto il mondo" e "Welcome Mr. President".

Per concludere, citeremmo il parere di Calcutta, che riassume così questo lavoro: “Un disco trasparente e sincero: umano, direi”. E anche amaramente autoironico, aggiungiamo noi, perché fuori dai riflettori siamo solo fiori o formiche. Nient’altro.

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Lil Yachty ha provato a riportarci nel 2016

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La genesi e la trasformazione musicale di Lil Yachty sono un fenomeno interessante per la scena statunitense contemporanea. Un chiaro esempio del percorso artistico al quale un rapper può andare incontro nel momento in cui si trova diviso tra la sperimentazione e l’industria.

Miles Parks McCollum, questo il suo vero nome, emerge inizialmente da Soundcloud facendosi notare con una prima demo di "One Night", per poi dare il via a una serie di progetti lungimiranti per l’epoca. Di fatto, è stato uno dei primi a giocare con quel suono molto cartoon, gommoso e colorato, da lui stesso definito come "bubblegum trap", un termine ormai iper abusato.

Lil Boat 3
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Ai tempi, invece, questo tipo di sonorità era tutt'altro che digerita dalla comunità rap, ancora attaccata a concetti ormai stantii che verranno poi quasi del tutto sradicati qualche anno più tardi. Di conseguenza, Yachty è stato uno dei primi a venire “accusato” di fare mumble rap quando l’accezione ancora era negativa—tanto da rifiutarne sempre l’etichetta—e di non essere in grado di fare freestyle—aspetto totalmente ininfluente per l’ascoltatore medio di trap nel 2020.

Con i suoi primi lavori, i mixtape 'Lil Boat' e 'Summer Songs 2', Yachty esibisce al grande pubblico il repertorio che lo caratterizzerà a lungo: prevalgono beat giocosi, samples di videogame e cartoni animati, nonché il suo inconfondibile falsetto in autotune esasperato su lyrics scemissime, grezze e mezze mugugnate. Come ad esempio in “IDK”, quando dice “Oh baby vieni a suc******o a un giovane ragazzo come se fosse un violoncello (qui sbaglia, lo confonde spesso, a inizio carriera, con il flauto, nda) / ti voglio riempire poi leccare e infilzare / proprio come un piccolo roll", o in “Up Next 3”, "Ca**o nella sua bocca come un fot***o churro / ca**o così grasso come un fot***o burrito”.

Lil Yachty è stato uno dei primi a giocare con un suono cartoon, gommoso e colorato, da lui stesso definito come "bubblegum trap".

L’attitude, poi, è stata da subito sempre fedele e in linea con il suo personaggio: non è un thugger, Lil Yachty, e anzi è un tipo simpatico e per niente intimidatorio, una persona riconoscente e gentile. Non ha poi nessuna esperienza gangsta, è stato soltanto arrestato una volta per tentata frode con una carta di credito falsa in un mall a Palm Beach, e rilasciato subito su cauzione.

La classica struttura dell’hip hop per cui il rapper deve essere un macho rispettato—nella musica e sulla strada—, pericoloso e armato viene completamente a mancare nella persona di Lil Yachty, che sembra essere piuttosto un bambino troppo cresciuto, qualcuno che si approccia alla materia con grande spensieratezza e attitudine al gioco. Nei primi anni di carriera, inoltre, si impegna nel creare un’estetica unica che lo accompagna tutt’oggi, rippata poi da un’infinità di personaggi.

Yachty, per intenderci, è il tizio che se ne frega della macchine di lusso e va in giro in barca, vestendosi da marinaio con sailor hat e maglie a righe, e monta su yacht giganteschi, vele, gommoni e natanti da diporto. L’immagine che ne deriva è divertente e sa vendersi molto bene, tanto che finisce per superare i confini musicali e lo porta a diventare il volto o il creativo di marchi come Nautica, Urban Outfitters e Sprite.

Dopo i primi mixtape, con gli album 'Teenage Emotions', 'Lil Boat 2' e 'Nuthin 2 Prove', lo stile arriva però ad allinearsi decisamente alle tendenze trap più classiche—fatte dovute eccezioni per alcuni pezzi in 'Teenage Emotions', che è forse un disco più di transizione che di cesura, e pochi altri qua e là come “Worth It” o “Love me forever”. E non solo a livello sonoro del beat, visto che c’è molto meno squeak e meno glitch, ma anche in virtù dell’atteggiamento meno rilassato e divertito, anzi, decisamente più prepotente, come accade ad esempio in “DN Freestyle”, ma soprattutto in tutto 'Lil Boat 2'.

Dopo i primi mixtape più originali, Yachty però si è allineato decisamente alle tendenze trap più classiche e insipide.

La scrittura si fa via via più piatta e insipida, si ispira ai modelli standard. Ad esempio, in “FWM” dice “I miei amici stanno a palle all’aria, yeah / Ho due tr**e in una Lambo, yeah / Mi dipingo la faccia come Rambo, yeah / Dimmi un posto dove non posso andare, yeah."

Le immagini che evoca qui non hanno niente di davvero originale, sono le stesse dei vari Lil Baby, di 21 Savage et similia. Certo, anche prima Yachty toccava le medesime tematiche pussy/flex oriented, ma almeno le dettagliava, le esprimeva con il suo stile e visione particolari.

In 'Nuthin 2 Prove', nonostante si affievolisca un minimo il flash di onnipotenza gorilla, l'artista conferma definitivamente la deliberata deriva verso una musica senza carattere, del tutto omologatissima. Questa scelta viene vista non tanto come una crescita artistica, quanto la ricerca di una definizione che lo agevoli nella scena, come dimostrano anche i feat con personaggi come Lil Pump, Cardi B, Gunna, e, in ultimo, Drake.

'Lil Boat 3', uscito settimana scorsa, ci ha lasciati per questo curiosi e in attesa, e tuttavia si è rivelato un compromesso su tutta linea. Su Twitter, Yachty ha scritto “Vi dispiace se tratto questo 2020 come se fosse il 2016 con le melodie?”, in occasione dell’uscita del singolo “Oprah’s Bank Account”.

'Lil Boat 3' si è rivelato purtroppo un compromesso su tutta linea.

In effetti, Drake e DaBaby a parte, potrebbe benissimo essere un pezzo uscito da uno dei suoi primi mixtape. Anche il video è divertente e spensierato, e lui cucina lasagne ospite da Oprah Winfrey—interpretata sempre da lui con tacchi e parrucca—in un mini film di 10 minuti.

Gli altri featuring, però, lasciano un po’ a desiderare dal punto di vista innovativo, eccezion fatta per “T.D”, con Tierra Whack, A$ap Rocky e Tyler, The Creator. Non è certamente un pezzo da Lil Yachty, ma è molto interessante: il gruppo di artisti funziona bene, hanno in comune una certa estetica, colorata e cartoonesca, e sono tutti abbastanza allegri e chillati.

“Pardon Me” con Future e “Range Rover Sports Truck” con Lil Keed, invece, ricalcano quel sound plastico e inflazionato da trap insipida, praticamente monouso, ed è un po’ una piatta delusione, purtroppo, anche il pezzo con Thug. Queste mosse ribadiscono quindi la tendenza a non rischiare, a voler rimanere nel brodo dei Migos o chi per loro, puntando a un prodotto estendibile alla massa e al successo meramente commerciale.

Le tracce da solista, invece, per la maggior parte, sembrano finalmente portare alla luce una dolce nostalgia dei mixtape. “Top Down”, “From Down Bad”, “Love Jones”, ma soprattutto “Can’t Go” e “Lemon Head”, con prod. di K. Swisha: tutti momenti in cui Yachty alza il pitch, e talvolta addirittura canticchia, su beat super catchy, recuperando quella spontaneità che l’aveva fatto emergere a inizio carriera, quelle similitudini iconiche del suo personaggio unico.

Alcune mosse di Lil Yachty confermano la tendenza a non voler rischiare, e puntano verso il successo meramente commerciale.

“Wheh’ Chile” sembra essere l’esempio più lampante, visto che nell’intro dice “Questa m***a sembra un fot***o Final Fantasy, cazzo / Zelda, qualcosa del genere / roba tipo Nintendo 64” e in seconda line “Diamanti alle mie orecchie come acciughe”. Ma non solo, in “Don’t Forget” dice “Ora vuoi un giro di applausi, bravo come Johnny”. Inoltre, sempre in “Wheh Chile” sembra auto-citarsi da “Broccoli”, featuring cardinale con DRAM, assieme probabilmente a “Monte” con Post Malone: se una volta diceva “N***a tocca la mia gang che trasformiamo sta m***a in Columbine”, ora dice “E io vi rinnego tutti come Columbine”.

Insomma, la rivisitazione di vecchie sonorità e idee di fatto c’è, ed è chiara, voluta e lampante. Quello che cambia è l’approccio decisamente più maturo, proprio di un artista che non ha più diciannove anni e che è immerso in un contesto musicale professionale, definito da obiettivi precisi, cioè grandi numeri e grandi nomi che lo accompagnino.

Nonostante questa strana vocazione malinconica, tuttavia, il disco non ci sembra una hit, ed è probabilmente ancora troppo accondiscendente. È un progetto divertente, molto più divertente di altri album mainstream usciti negli ultimi mesi, ma non riesce proprio a uscire dallo stesso cerchio in cui si rinchiude chi vuole a tutti i costi che il proprio singolo apra su Billboard.

In un momento in cui la trap classica, senza sfumature, manca spesso di veridicità e non va incontro ad innovazioni sentite, la ricerca musicale del singolo rapper può provare a muoversi a ritroso, verso le radici che, nell’anno re della trap americana, cioè il 2016, gli hanno permesso di assestarsi. Magari non vale per tutti, visto che c’è chi è nato senza un sound di riconoscimento, e c'è chi è uscito dopo, trovandosi spaesato e in ritardo su tutto.

Per Yachty non è un’occasione totalmente sprecata, quanto non sfruttata a dovere.

Per Yachty avrebbe forse potuto valere lo stesso discorso. Non ci sentiamo però di dire che sia un’occasione totalmente sprecata, quanto non sfruttata a dovere.

Questo, però, perché a noi piace il Boat delle jellies e dei broccoletti. Ma noi non possiamo e non vogliamo certo dire a Boat quello che deve fare.

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I Run The Jewels sono la colonna sonora perfetta per ogni rivoluzione

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Arrivati a tre quarti della conversazione Killer Mike mi inchioda e definisce come lo "psicopatico di merda" che sono. La notizia arriva in ritardo, di solito se ne accorgono molto prima.

Mentre mi apostrofa in quel modo la faccia è sorniona. Oggi però sul suo viso sovrappongo un'espressione ben diversa: quando Mike si rivolge ai manifestanti di Atlanta, in rivolta per i fatti di Minneapolis e la morte di George Floyd, ha il volto stravolto, gonfio di pianto e sincero dolore—"Sono incazzato nero," articola con cura.

RTJ4
Clicca sulla copertina di 'RTJ4', per ascoltare il disco su Spotify

È un'immagine che faccio fatica ad associare alla nostra chiacchierata, ma del tutto in linea con la sostanza di quest'uomo e della musica che produce insieme al suo socio, El-P. "Non è il momento di bruciare tutto", afferma deciso davanti alle telecamere dei giornalisti, "bensì quello di ragionare, pianificare, organizzarsi e mobilitarsi," per esempio con la raccolta fondi per la National Lawyers Guild’s Mass Defense Program a cui i due si sono resi disponibili.

Quando la nostra intervista avviene, Floyd respira ancora e le strade non vanno a fuoco in quel modo. Non ci svegliamo di certo oggi in un mondo intriso di squilibri e razzismo, ma la ferita suppura più che mai con il suo carico di pus e abusi di potere.

Non ci svegliamo di certo oggi in un mondo intriso di squilibri e razzismo, ma la ferita suppura più che mai con il suo carico di pus e abusi di potere.

Michael Santiago Render, cioè Killer Mike, chiama da casa sua ad Atlanta indossando uno snapback rosso e stesa sulla faccia ha una rete a grana grossa, come quella di un canestro ma colorata a strisce verdi, gialle e rosse, dall'alto verso il basso e in quest'ordine. "Molto interessante il tuo nuovo stile," sghignazza senza ritegno El-P mentre io lo seguo a ruota.

Nel corso dei minuti in cui facciamo gli onori del caso e ci presentiamo tra i sorrisi, però, la strana maschera di Mike ci affonda subito in un discorso più serio del previsto, fatto di dispositivi di sorveglianza e pratiche per evitarli. Strumenti alle volte messi in pratica dagli artisti, con colori e maschere anomali non così dissimili da quello che Mike porta in faccia—"Facial recognition disruption," insiste Jaime Meline, aka El-P, indicando convinto il primo piano del suo amico.

Run The Jewels

"Ad ogni modo noi stiamo bene," dice quando la piega si fa troppo tetra, "ma in un contesto nel quale la normalità è ormai quella di non stare bene per niente. Vengo da New York e tutta questa merda del virus è reale". E poi voi avete Trump, incalzo, "Yes, we do," ebbene sì: lo abbiamo.

Era del tutto improbabile che due rapper arrivati alla mezza età riuscissero a esondare oltre lo stato di piccolo culto per iniziati per trovare spazio sul The New York Times o il Guardian e nei cuori di tanti appassionati di hip hop—eppure loro ci sono riusciti. Per molti versi, si è trattato di un vero e proprio miracolo, una di quelle contorsioni inspiegabili dell'industria musicale che innalza l'umore e il piacere verso vette di assoluta magnificenza e ti porta ancora una volta a credere a queste poche note, alla forza di questa strana oscillazione sonora che chiamiamo musica.

Il primo disco dei Run The Jewels è del 2013 ed esplode in faccia a chi lo ascolta come una bomba artigianale difettosa.

"Sono contento di vederti, El," dice Mike, "Sono contento anch'io di vederti, amico mio," risponde raggiante Jaime dietro i suoi inamovibili occhiali da sole. I due emanano un'aura discreta di famiglia e abitudine, "Mia moglie dice sempre che io vivo in due diversi matrimoni. E ha pienamente ragione," conferma ridendo felice Mike, "Litighiamo anche, ma sappiamo sempre come va a finire. Cerchiamo semplicemente di non farci del male a vicenda. Persino quando uno dei due si incaponisce, come quando ho fatto rifare a El la sua parte in 'Pulling the Pin'. Per fortuna che c'erano Josh Homme e Mavis Staples a renderla perfetta."

Il primo disco dei due a nome Run The Jewels è del 2013 ed esplode in faccia a chi lo ascolta come una bomba artigianale difettosa, con comparsate di Big Boi degli OutKast e Prince Paul. Killer Mike e El-P si incontrano quasi per caso un paio di anni prima, presentati da un amico comune che lavora per Cartoon Network, e di lì a poco El-P si trova a produrre R.A.P. Music di Mike, "Rebellious African People": l'alchimia è immediata.

A pochi giorni di distanza esce anche Cancer 4 Cure di El-P e Mike ricambia con un feat devastante su "Tougher Colder Killer": il destino è sancito. Finiscono per fare un tour insieme e l'esperienza li porta a formare i Run The Jewels prendendo a prestito il nome da una combo magnifica estrapolata dalle barre di "Cheesy Rat Blues" di LL Cool J, "The Product" di Ice Cube e tra le rime di RZA nell'ultima traccia di Enter The Wu-Tang (36 Chambers).

Parte di questo celestiale e infernale matrimonio lo si riconosce facilmente in ognuno dei loro dischi, compreso l'ultimo RTJ4, la solita bomba di groove e synth alieni, funk di pietra rovente e rime a cui fatichi a stare dietro, un disco uscito in anticipo due giorni fa, nella spinta irrequieta di chi non ha nessuna voglia di aspettare e vuole vedere i suoi figli musicali crescere. "Non è una bella sensazione né filosofia quella di pensare a proteggere i propri interessi economici, non funziona con noi. Non siamo calcolatori e il denaro non deve essere il fattore principale che ti spinge verso la musica. Per noi è sempre stata questione di comprarsi i propri ascoltatori con le viscere e il cuore, nient'altro," tiene a sottolineare Jaime, "Non potevamo aspettare oltre. Che vuoi che ti dica, al massimo faremo un nuovo disco."

“Sei così anestetizzato che guardi mentre i poliziotti soffocano un uomo come me / Finché la voce passa da un urlo a un sussurro, 'Non respiro' / Sei seduto in casa sul tuo divano e lo guardi in TV / Il massimo che fai è un lamento su Twitter che rinomini tragedia"

Me lo raccontano quando ancora l'America non è scossa dall'ennesimo brutale omicidio operato da forze del dis-ordine troppo libertine nel loro approccio alla violenza selettiva, che ha un'eco preciso nella traccia "Walking in the Snow"—“Sei così anestetizzato che guardi mentre i poliziotti soffocano un uomo come me / Finché la voce passa da un urlo a un sussurro, 'Non respiro' / Sei seduto in casa sul tuo divano e lo guardi in TV / Il massimo che fai è un lamento su Twitter che rinomini tragedia". Ma la voglia di condividere la musica nei momenti più critici è reale e sentita ed è il fulcro di ogni cosa: "Lo avevamo tra le mani questo disco, ci eravamo praticamente seduti sopra e lo amavamo così tanto. Quindi ci siamo semplicemente detti, 'sti cazzi, facciamolo uscire. Perché non c'è molto altro che possiamo fare a parte ficcarvi un bel sorriso in faccia con la nostra musica. Ed è bello avere anche solo l'opportunità di pensare di poter far sorridere qualcuno in momenti così difficili."

El-P si riferisce alle conseguenze della pandemia del Covid-19, non sa ancora cosa succederà da lì a qualche giorno a Minneapolis. Killer Mike precisa il suo pensiero, come amici fraterni o amanti che si completano a vicenda: "Viviamo nella stessa incertezza e preoccupazione di tutti. Siamo riusciti a essere musicisti professionisti, certo, ed avere qualche soddisfazione puramente materiale, ma rimaniamo gli stessi di sempre, cresciuti tra classe media e working class, a New York e Atlanta. Siamo stati poveri molto più a lungo di quanto tempo non ci stiamo godendo il successo. Come prima cosa, quindi, penso ai lavoratori e ai meno fortunati," afferma estremamente serio, "spero che il mondo possa cominciare a guarire. E di poter portare un po' di gioia nei cuori di chi ne ha bisogno."

Run The Jewels

Non è difficile immaginare questa stessa persona in altri e ben diversi momenti, a portare la stessa serietà, empatia e impegno che mette nella musica. È quello che succede in effetti qualche giorno dopo la morte di George Floyd, quando Mike affianca la conferenza stampa del sindaco di Atlanta e invita i suoi alla calma e all'organizzazione, venendo riconosciuto per quello che è: un portavoce, letteralmente, una persona in grado di veicolare il messaggio di una comunità e di una scena, che sia quella del palco hip hop o di Atlanta.

"Credo che il fatto di uscire adesso con il disco possa portare un po' di sollievo e ristoro ai nostri fan. Penso possa fare del bene. All'inizio non ne ero nemmeno sicuro, ma i nostri ascoltatori ci hanno tempestato di richieste, ci avrebbero ucciso. Era la cosa giusta da fare," conferma il rapper di Atlanta, mentre io confermo che sarei stato in prima fila insieme agli altri, a chiedere violentemente il mio disco. "Mi piacerebbe davvero diventasse la colonna sonora dei risultati positivi raggiunti tutti insieme durante questa emergenza, tutti insieme in quanto umanità. RTJ4 è pieno di linee e rime spettacolari. E se ci pensi, è proprio quello che ha smosso in te e tua figlia."

"Credo che il fatto di uscire adesso con il disco possa portare un po' di sollievo e ristoro ai nostri fan. Penso possa fare del bene."

Mike si riferisce a quello che ho raccontato loro nelle fasi iniziali dell'intervista, parlando della scintilla che la loro musica ha innescato in Emma, nemmeno due anni ed energia che scorre come lava nell'eruzione più spettacolare al mondo. In una mattinata particolarmente difficile, con la pandemia, il lavoro e le preoccupazioni banali, un groppo d'ansia allo stomaco e in gola, le note di "Ooh la la", con feat di Greg Nice e Dj Premier, erano riuscite lì dove il resto era fallito: la piccola aveva smesso il pianto e cominciato a ballare, e io avevo seguito a ruota finché non erano rimaste altro che le risate e la musica al massimo volume.

"Sono sicuro i nostri concerti siano stracolmi di bambini," ride divertito El-P, "Ma, seriamente, abbiamo notato molte volte che i bambini reagiscono meravigliosamente alla nostra musica. Penso che sia questione della gioia e dell'energia che mettiamo nei pezzi e che loro sentono. Persino quando diciamo qualcosa di fuori di testa, o arrabbiato, o parole che i più piccoli nemmeno possono capire. È la bellezza della musica e del suo linguaggio universale. Può trasmettere qualcosa anche senza si capisca ogni sfumatura." E poi aggiunge: "Se i bambini sorridono, ballano e si divertono con la nostra musica, io lo prendo come un grandissimo complimento. Perché è qualcosa di puro. A me succedeva la stessa identica cosa con 'Another One Bites the Dust' dei Queen, per esempio."

"Se vuoi sapere la verità, mi arrivano 4 o 5 video a settimana con bambini che ballano sui nostri pezzi. Io ho persino una figlia di 13 anni che pensa la nostra musica sia figa. Cosa che mi stupisce e sorprende sempre. I Run The Jewels sono decisamente a favore dei più piccoli," precisa Mike. La questione non è scontata né un semplice aneddoto per farsi una risata, perché ai concerti dei due è facile notare quanto il pubblico sembri comprendere ogni fascia di età: "Quando è uscito Run The Jewels 2 ho avuto la conferma che stavamo lavorando bene. Capitava spessissimo venissero da noi genitori con le loro belle felpe di Mobb Deep o del Wu-Tang, con figli tra gli 11 e i 15 anni. E finiva sempre che uno dei due ci diceva che era stato l'altro o l'altra a far scoprire le nostre canzoni, senza particolari distinzioni di età. Anche le amiche di mia figlia si ascoltano la nostra roba."

"Con mio padre è andata uguale," continua, "mi ha fatto scoprire i Metallica, i Black Sabbath e i Pink Floyd, lasciandomi la sua collezione di dischi e permettendomi di andare a tutti i concerti che volevo, tipo The Fat Boys, a prescindere dalla scuola il giorno dopo." Per certi versi il mare in cui navigano è in effetti quello di una provincia quasi del tutto inesplorata ed entrambi ne sono ben consapevoli, visto che in pochi sono riusciti ad avere uno slancio tale da far contenti sia i fanatici dell'hip hop che gli ascoltatori più casuali, i ragazzini e i vecchi lupi di mare della vecchia scuola.

"Mi arrivano 4 o 5 video a settimana con bambini che ballano sui nostri pezzi. Io ho persino una figlia di 13 anni che pensa la nostra musica sia figa."

"È vero, praticamente nessuno si è trovato in questa situazione," mi conferma il rapper di Atlanta, "alla nostra età, con questa opportunità di crescere e accelerare ancora. Voglio diventare l'AC/DCdel rap, quello che alla fine del concerto si fa gli impacchi di ghiaccio sul ginocchio come i Metallica." Afferma convinto: "Pensa a una leggenda come gli OutKast, non fanno niente da quasi 15 anni ma per me sono come i Rolling Stones e possono permettersi di fare un tour mondiale quando vogliono. E credo sia proprio dai tempi degli OutKast che nessuno abbia la possibilità di diventare un gruppo rap di quel tipo." Un'eredità musicale da tramandare ai posteri.

Sbotta divertito Killer Mike: "Ho quattro figli, di certo non posso smettere ora col rap!" Si scherza, ma nemmeno troppo e l'occasione torna comoda per far loro notare quanto diano davvero l'impressione di voler chiudere baracca solo quando saranno morti, I'll Sleep When You're Dead, per parafrasare male il secondo disco solista di El-P.

Run The Jewels

Jaime fa una faccia del tipo "Sappi che sto toccando ferro", ma colgo nel segno. "Abbiamo messo tutto in questo disco e di certo non siamo stati pigri a riguardo. Se ci muoviamo bene avremo davvero l'occasione di continuare con la musica per tutto il resto della nostra vita. È esattamente quello che vogliamo: fare musica fino alla fine dei nostri giorni. Sappiamo di essere qualcosa più che fortunati e non ci faremo sfuggire l'opportunità. Lo dobbiamo anche ai nostri ascoltatori, è il nostro lavoro quello di legarci a loro."

"Esatto, quindi grazie davvero per quello che hai detto," sempre diretto e sornione, il buon Mike, "ed è anche un riconoscimento al lavoro e alla costanza di gruppi come Hieroglyphics, EPMD e 8Ball & MJG. Gente in gamba che spacca ancora e non ha mai smesso. Dei veri e propri esempi da seguire." Resta il fatto che, e lo vediamo anche nella nostra scena tutta italiana, la distanza tra certi nomi old school del rap e il presente declinato nella trap sembra incolmabile.

"Vogliamo fare musica fino alla fine dei nostri giorni. Sappiamo di essere qualcosa più che fortunati e non ci faremo sfuggire l'opportunità. Lo dobbiamo anche ai nostri ascoltatori, è il nostro lavoro quello di legarci a loro."

Suggerisco che la loro musica potrebbe essere la chiave giusta per funzionare da ponte tra mondi in apparenza ormai lontani, come delle guide per rimettere i kids sui giusti binari, ma mentre ancora non ho fatto in tempo a finire la frase Killer Mike mi interrompe severo. È l'unico momento in cui ho il timore di averlo fatto incazzare e non è una bella sensazione.

"Noi non vogliamo essere la guida e l'antitesi di nessuno," lapidario, "Io vengo dal luogo in cui la trap ha preso forma, Atlanta. Un mio amico, cioé T.I., l'ha praticamente inventata. Noi ci ascoltiamo senza problemi Baby, Thug, Gunna e Future, ci stoniamo e fumiamo erba con la loro musica. È il bello del rap. Forniamo solo il suono che noi amiamo. Ci ascoltiamo 2 Chainz, perché è un fratello, ci segue e noi seguiamo lui. Ma anche Ice Cube, i Cypress Hill o i Nirvana." Mi spiega, con più calma, che loro vogliono solo essere una chiave per un altra tessitura sonora, lì, pronta a farsi utilizzare dai loro ascoltatori, ma senza imposizioni.

"Speriamo di poter essere soltanto una bell'aggiunta alla colonna sonora della vita di qualcuno. Ci piace l'idea di fornire un'altra chiave di lettura musicale alla vostra vita. Se ti piacciono i nostri dischi, è tutto davvero qui il segreto." El-P, la parte più sorridente, chiacchierona e diplomatica dei due, segue a ruota il partner e chiarisce il fraintendimento: "Ho capito cosa intendevi, ma noi siamo semplicemente noi. Davvero. Abbiamo le nostre influenze, sicuro, ma soprattutto ci portiamo dietro un certo tipo di spirito e approccio, prima ancora dei suoni e della musica. Se tu e tua figlia avete provato gioia e divertimento è perché pezzi come 'Ooh La La' non richiedono alcuna conoscenza pregressa del rap o della musica, ma solo un sentimento e la voglia di condividerlo."

E persiste: "Non siamo il tipo di vecchi che odiano la nuova musica, noi siamo quelli che l'adorano. Siamo semplicemente genuini e onesti, con i nostri suoni e i nostri fan. Credo sia questo che ci permette di essere al passo coi tempi ma di non suonare come nient'altro là fuori. Il nostro vero lavoro è quello di essere onesti su chi siamo". La risata seguente di Michael è l'intercalare sincero e cristallino che ci riporta alla tranquillità più totale, "Grazie El, per aver riconosciuto che abbiamo un nostro suono. Significa davvero molto per me."

"Non siamo il tipo di vecchi che odiano la nuova musica, noi siamo quelli che l'adorano."

El-P è di New York e riscuote il primo vero successo negli anni Novanta del secolo scorso. È il frutto di un'eredità mista irlandese, ebraica, lituana e cajun, nonché un grande amore per l'hip hop, ogni suono heavy e l'insubordinazione scolastica—che portano alla formazione dei Company Flow, della Def Jux e di meraviglie come Funcrusher & Funcrusher Plus, The Cold Vein dei Cannibal Ox e il suo primo solista: Fantastic Damage.

Killer Mike viene da Atlanta e gira intorno all'orbita degli OutKast partendo dal collettivo Dungeon Family (che tiene a ringraziare con tutto se stesso), senza riuscire a fare il botto. Dopo anni di gavetta, è solo con l'arrivo di R.A.P. Music che riesce a sfondare davvero, mostrando al mondo la sua miscela esplosiva di attivismo politico e sociale, lingua tagliente ed encefalo che gira come un sottomarino nucleare—ha appoggiato esplicitamente Bernie Sanders nella corsa alla Casa Bianca e prodotto quella serie incredibile ed eccelsa che è Trigger Warning with Killer Mike, su Netflix, "Uno show sulla confusa esistenza della specie umana", nelle stesse parole di Mike.

Run The Jewels

I due hanno conosciuto gli alti e bassi di un mondo che muove come uno schiacciasassi sulle anime della gente comune, il paradigmatico carro armato in Piazza Tienanmen che viene bloccato dal manifestante monolitico nelle sue decisioni. "L'incontro tra noi fu una specie di resurrezione. Eravamo semplicemente entusiasti all'idea di collaborare e dopo il tour insieme ne siamo usciti carichi a mille. Ai tempi del primo disco non avevamo davvero nessun piano, se non quello di fare musica in quel momento. Solo energia. Stop."

Già allora però il duo non dimentica le sue origini e i momenti più duri, la sensazione di essere al tappeto, senza un soldo e nessuna prospettiva futura in tasca: tutte cose che hanno conosciuto da vicino. "Da questo è nata la scelta di regalare i nostri dischi anche alle persone che non possono permetterseli. Non abbiamo alcun problema ad uscire con le piattaforme principali, ma vogliamo assolutamente che anche chi non può avere accesso a Spotify e Apple Music, Tidal o Google Play e tutto il resto, possa goderne."

"L'incontro tra noi fu una specie di resurrezione. Eravamo semplicemente entusiasti all'idea di collaborare."

"Se poi avrai in futuro momenti migliori e vorrai contribuire venendo ai nostri concerti o comprando il nostro merchandising, ben venga! Per questo facciamo la stessa cosa e ogni volta offriamo i nostri dischi per il download gratuito. Noi non siamo quel tipo di pusher che ti fa assaggiare gratis un po' della sua merda e poi ti chiede di mettere mano al portafoglio," mi recitano praticamente in coro. "E non vogliamo nemmeno tu debba scegliere tra il mettere un pasto sulla tua tavola o comprarti il disco. La musica deve farti sentire bene, non essere un problema."

Proprio il video di "Ooh La La" ci offre la chiave di lettura perfetta per questa musica tesa e riottosa persino quando cazzeggia, sempre sul punto di esplodere in uno scontro di piazza, con i suoi manifestanti che ballano e danno fuoco a tonnellate di denaro. "Noi amiamo i nostri simili e quello che molti interpretano come politica per noi è semplicemente un tipo di commento sociale, una cronaca del quotidiano. La voglia di mettersi contro un certo tipo di oppressione materiale e ideale nei confronti dei corpi e degli spiriti e della cultura di tanti tra noi."

"Il denaro era una chiave perfetta per mettere in luce la questione." E sono loro a porre la domanda, mentre io ripenso a "JU$T", altra bomba con feat di Zack de la Rocha e Pharrell Williams che parla di denaro e giustizia: "Quando i soldi bruciano, tu cosa vedi? Anarchia e caos oppure libertà, l'apertura di una gabbia che ci siamo costruiti da soli o la distruzione di qualcosa di prezioso? Immagina semplicemente cosa succederebbe se sparisse proprio il denaro come concetto, pensa al cambiamento."

Mentre ci penso davvero, Mike segna il punto ulteriore, quello finale. "Ad ogni modo, mi fa davvero piacere parlarne con uno psicopatico del cazzo che avrebbe voluto vederci morti, pur di poter ascoltare la nostra musica. Grazie. Sul serio." El-P, intanto, si sbellica dalle risate.

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Canzoni per ricordarci che il rap è musica di protesta

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Il 25 maggio, a Minneapolis, quattro agenti di polizia procedono all'arresto di George Floyd. L'uomo ha 46 anni e l'intervento del 911 è stato richiesto dall'impiegato di un negozio, che lo accusa di aver acquistato delle sigarette con una banconota falsa da 20$.

Meno di venti minuti dopo, Floyd è a terra e non dà più segni di vita. Nei giorni successivi scontri, proteste e manifestazioni si diffondono in massa negli USA, presto seguiti da ulteriori dimostrazioni di solidarietà, sdegno e vicinanza in tutto il mondo, Italia compresa.

La morte di George Floyd ha scosso l'opinione pubblica, ma è solo l'ultimo episodio di una serie interminabile di abusi operati dalle forze dell'ordine nei confronti delle minoranze.

L'episodio scuote la cosiddetta opinione pubblica nel profondo, benché purtroppo sia solo l'ultimo di una serie interminabile di angherie e abusi di potere operati dalle forze dell'ordine, in special modo—ma non solo—nei confronti delle minoranze. Occasioni in cui la violenza viene esercitata ben oltre il consentito e il ragionevole, al di là dei limiti etici nell'esercizio del proprio ruolo e quello morale di rispetto delle vite degli altri.

George Floyd in vita era stato un collaboratore di una leggenda dell'hip hop, Dj Screw, colui che aveva stabilito le regole d'ingaggio dello stile chopped & screwed. La vita l'aveva poi condotto altrove, lontano dalla scena musicale, ma quella stessa scena l'ha riconosciuto e riaccolto in fretta in questi giorni, quando si è presentato il momento di rielaborare il lutto, personale e collettivo.

Persino questo processo di accoglienza funerea è però solo l'ultimo di una serie interminabile. Le canzoni dedicate alle violenze poliziesche, al razzismo, agli abusi di potere e alle proteste sono decine, probabilmente centinaia, e di centinaia è colma anche la matassa di corpi che è quasi impossibile sbrogliare.

Un'affermazione famosa, solitamente attribuita a Chuck D, cioè una delle voci principali della leggenda Public Enemy, recita: "Il rap è la CNN del ghetto". Perché il rap, e l'hip hop, sono questione di cronaca di tutti giorni, un linguaggio e una cassa di risonanza per fatti che accadono sulle strade a una minoranza specifica, quella degli afroamericani.

Troppo spesso lo dimentichiamo, anche qui in Italia. Soprattutto qui in Italia, quando riutilizziamo un linguaggio e lo facciamo del tutto nostro, scordandoci comodamente di ragionare e mettere in discussione i principi, come ad esempio l'utilizzo di un termine al posto di un altro: una bi**h o un n**ga scambiati come moneta corrente in un gioco serissimo di discriminazione e sopravvivenza che non ci appartiene.

Per questo abbiamo qui voluto raccogliere alcune tracce recenti o che stanno uscendo proprio in questi giorni, a mo' di monito, memoria e indice di consultazione per tutte queste giornate storte, vissute troppe volte. Per mostrare almeno un poco del debito culturale e di riconoscenza che dobbiamo a chi questi suoni, queste rime e cronache, li vive ogni giorno sulla propria pelle.

Run The Jewels - Walking In The Snow

Di tutta attualità, quasi una cronaca, la canzone è in realtà stata composta più di un anno fa benché sia uscita ora. Un dato significativo che sottolinea quanto razzismo e violenza siano sistemici e strutturati negli apparati polizieschi. Il celebre "Non respiro" citato in questa canzone è tanto di George Floyd quanto di Eric Garner, un'altra morte che nel 2014 ha segnato la comunità afroamericana e quella internazionale.

Lo scrittore Ta-Nehisi Coates descrive così l'evento nella lettera al figlio quindicenne, Samori, contenuta in quel libro straordinario che è Tra me e il mondo: "Ti scrivo perché questo è l'anno in cui hai visto Eric Garner morire soffocato per aver venduto delle sigarette; perché ora sai che Renisha McBride è stata colpita da un proiettile mentre chiedeva aiuto, che a John Crawford hanno sparato perché dava un'occhiatata agli scaffali del supermercato. Hai visto uomini in uniforme sparare dall'auto e uccidere Tamir Rice. Un ragazzino di dodici anni che erano tenuti, sotto giuramento, a proteggere. E hai visto uomini con le stesse uniformi picchiare a sangue Marlene Pinnock, una nonna, sul bordo di una strada". Il pezzo dei RTJ riprende quel sentimento e lo mette in musica.

Terrace Martin feat Denzel Curry, Daylyt, Kamasi Washington, & G Perico - Pig Feet

Altro pezzo incendiario, questo è stato però prodotto proprio in questi giorni ed è una purissima traccia di protesta creata da Martin, uno che è stato nominato più volte ai Grammy e che produce Kendrick Lamar. Il risultato è un pugno in pieno volto, con un rap fotonico serrato e fraseggi jazz impazziti a firma di Kamasi Washington, quasi a saldare una volta in più la continuità tra queste forme e questi linguaggi, uniti nella lotta e nella rivendicazione.

"Il video sta succedendo in diretta fuori dalla vostra finestra," ci dicono, e non potrebbe essere più vero. "La polizia? / La polizia l'ha ucciso?", urla l'interludio, mentre l'artista ribadisce la sua rabbia e cerca di far sentire la sua voce, tra spari, sirene e la volontà di cambiare concretamente la situazione. Denzel Curry, che partecipa alla traccia, ha perso il fratello dopo che questi è stato colpito ripetutamente col taser e con lo spray al peperoncino, sempre dalla polizia.

Nasty C feat Ti - They Don’t

"Non vogliono io vinca, non vogliono io mangi / Non vogliono vedere un giovane nero avere successo / Non vogliono io porti via i miei fratelli dalle strade" e ancora "Quando perdi i tuoi cari per colpa della fottuta polizia, lo senti nel profondo" e ancora "Diventa così difficile, non possiamo fuggire l'oscurità" e ancora "Fare il mio meglio per aiutare la tua famiglia, perché è anche la mia".

E potremmo andare avanti a lungo, in un pezzo anche in questo caso nato in questi giorni, che però si affida al tono morbido e spirituale della voce di Nasty C per affidare il suo messaggio contro le discriminazioni razziali, almeno prima che T.I. arrivi sulla traccia più dritto al punto, in stile e nei concetti: "A dirla tutta, se devo essere sincero / La miglior cosa che abbia mai visto è quella stazione di polizia ridotta in cenere".

YG - FTP

Sono praticamente 50, sì, 50 le volte in cui YG declama apertamente il suo pensiero. Lo fa senza giri di parole e particolari ritrosie: "Fanculo la polizia", dice puntando ancora più in alto, "È la Ku Klux polizia, in missione / È la Ku Klux polizia, hanno un piano / È la verità e io non mi fermerò / Il caso è aperto, la polizia già mi odia, perché no".

D'altronde, Young Gangster è lo stesso che ha inciso "FDT (Fuck Donald Trump)" e la verve decisamente non manca a questa traccia molto old school, ritmo, insistenza, loop di piano ed incedere riottoso.

Dame D.O.L.L.A. - Blacklist

Tra le canzoni del lotto, è quella più particolare. Nei fatti, nient'altro che uno spoken word con un sottofondo strumentale pseudo orchestrale e in crescendo. "Da fratello di buon cuore, ti dico di fotterti se sei razzista", dichiara Damian Lillard in apertura, cestista professionista di Portland tornato al suo alter ego rap. La traccia è quasi un editoriale sul momento storico e su quel che succede, una disamina sentita ma inquietantemente calma, tra "La pandemia razziale è anni in anticipo rispetto al virus" e "Perché i bravi poliziotti non denunciano le mele marce? / Il Presidente è andato in TV bello tranquillo, del tipo 'Se saccheggi, ti spariamo', come se fosse un gioco".

E ancora, "La nostra bella cultura, messa a ferro e fuoco, ne abbiamo abbastanza / O cambia qualcosa o le cose si faranno brutte / Punto". Sottile e diretto, minaccioso ma placido, "Blacklist" è un pezzo che ti s'infila sotto la pelle, un brano dove la catarsi melodica, il crescendo musicale e la risoluzione finale non arrivano mai. Giustamente.

Jay Electronica - Ghost of Soulja Slim

Dopo decenni, e un'attesa spasmodica da parte di una ristretta cerchia di fedeli, Jay Electronica droppa la sua bomba a 43 anni. A Written Testimony, uscito sotto l'ala protettrice di JAY-Z, è un mastodontico e poderoso disco, fortemente politico e spirituale, intriso di militanza e influssi dalla Nation of Islam.

In questa straordinaria canzone, in particolare, tra debiti all'hip hop classico e valanghe di beat accompagnati da rime incredibili e una produzione al top, si sprecano i riferimenti all'Islam e all'Africa, tutto in funzione di un singolo scopo: dare forza e consapevolezza alla comunità nera. Ricordando quanto, prima delle videocamere sui cellulari e prima dei social network, moltissimi crimini razziali rimanessero impuniti.

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Freddie Gibbs ha trovato l'alchimia perfetta

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Spesso la capacità di reinventarsi, di cambiare sempre genere e coordinate sonore, è considerata uno tra i pregi maggiori nella musica. D’altronde chi non ha mai pensato, ascoltando una traccia di un Quavo o di un Future, “Bello sì, un beat della madonna, però è sempre uguale a se stesso”?

Per questo partiamo costantemente alla ricerca dell'innovazione assoluta e continua, e non solo rispetto ai canoni classici del genere ma soprattutto in relazioni ai lavori precedenti dello stesso artista. Abbiamo sorriso per gli esperimenti caraibici e grime di Drake su ‘More Life’, per poi sprofondare nuovamente nella noia ascoltando quei due monoliti piatti ed estenuanti che sono ‘Views’ e ‘Scorpion’.

Freddie Gibbs The Alchemist Alfredo

Ed eccoci qua, sempre famelici per qualsiasi novità o sperimentazione, ogni giorno alla ricerca di un contenuto fresco e veramente personale. In parte abbiamo ragione, però questa spasmodica e ossessiva indagine è anche il sintomo di un rapporto estremamente consumistico con la musica, un frutto inevitabile della società della comunicazione istantanea.

Il punto è che è legittimo aspettarsi di non essere annoiati dall'ascolto di un nuovo album, e giustamente riponiamo questa speranza proprio nei concetti di cambiamento e novità. Tuttavia, abbiamo fatto i conti senza Freddie Gibbs.

Freddie Gibbs, come tutti i migliori artisti, non è un tipo facile da inquadrare.

Fredrick Jamel Tipton, infatti, è stato in grado di mantenere la sua carriera sempre sulle stesse corde e su uno stesso binario, eppure ha continuato progredire e migliorare, creando un suono quanto mai fresco e attuale, in pratica una perfetta formula vincente. Freddie, come tutti i migliori, non è ad ogni modo un tipo facile da inquadrare.

L’attitudine e i testi sono gangsta—molto gangsta—, il flow è old school ma con un twist super personale, mentre i suoi beat preferiti sono pieni di campionamenti matti cavati fuori dal rock e dal jazz. Consideriamo poi che il suo personaggio al di fuori del rap è una specie di shitposterimbottito d’erba, e arriviamo così a capire quanto Freddie sia poliedrico, un artista che ha trovato la sua alchimia e ha lavorato a lungo per renderla sempre più personale e potente.

La sua storia inizia molto più tardi rispetto a quella di altri suoi colleghi: dopo aver bazzicato l’underground per anni, pubblicando mixtape su mixtape, Gibbs fa uscire il suo album di debutto solamente nel 2013, a più di 30 anni. ‘ESGN’ è una dichiarazione di intenti vera e propria, e se anche il risultato finale non è raffinato come le sue pubblicazioni successive il timbro inconfondibile di Freddie si afferma definitivamente nella scena hip hop di primo piano.

Ma è solamente un anno dopo che la vera "formula Freddie" vedrà la luce. Nel 2014 esce ‘Piñata’, interamente prodotto da quel genio di Madlib, e segna l’inizio di qualcosa di grande. L’album è semplicemente incredibile e contiene beat dal sapore classico ma mai sentiti prima, di una qualità quasi spiazzante, che si sposano alla perfezione con il rap senza compromessi di Freddie.

‘Piñata’, interamente prodotto da quel genio di Madlib, segna l’inizio di qualcosa di grande.

Veritiero come il gangsta rap, originale come non mai e sincero come l’old school—da ‘Piñata’ escono capolavori come “Thuggin’”, “Deeper” e “High”, a dimostrazione del fatto che qualsiasi traccia con Danny Brownè una bomba. Ed è anche il primo episodio di un format che non è stato certo inventato da Freddie, ma che lui sa interpretare alla perfezione: l'album di coppia in cui MC e producer ricoprono ruoli egualmente importanti, esaltandosi a vicenda.

Giusto quindi spendere due parole su Madlib, che incarna letteralmente la storia moderna dell’hip hop. Il suo lavoro con MF DOOM (a nome Madvillain) e con J Dilla (come Jaylib) fa parte dei fondamentali dell’arte delle instrumental, e in Gibbs ha trovato un altro partner al suo livello.

I due faranno uscire anche ‘Bandana’, nel 2019, leggermente meno d’impatto ma una conferma assoluta della qualità della coppia. Se ci si volesse impegnare per trovare una critica da muovere al team MadGibbs, potremmo giusto dire che le produzioni sono così strepitosamente protagoniste da far passare il rap di Freddie leggermente in secondo piano.

Arrivati sin qui, chiariamo però un punto: ‘Piñata’ rimane il miglior album di Freddie e un capolavoro in ogni senso. Ma dagli album successivi il suo flow emerge molto di più e questo accade soprattutto quando incontra l’altro producer che gli svolterà la carriera: The Alchemist.

Il flow di Freddie emerge molto di più soprattutto quando incontra The Alchemist.

Il primo lavoro composto dai due insieme è “Fetti”, nel quale condividono la scena con Curren$y. L’album ha beat meno esplosivi rispetto a quelli della coppia MadGibbs, eppure funziona benissimo e Freddie sembra in gran forma, tanto da spingere molti a credere che abbia semplicemente affinato le sue abilità tecniche.

Queste sensazioni vengono confermate da ‘Alfredo’, il nuovo progetto di Freddi e The Alchemist, colmo di instrumental morbide e cesellate alla perfezione, con campionamenti di chitarre che inducono una nostalgia dissipata immediatamente dal flow al vetriolo di Gangsta Gibbs. L’album è breve, e scorre che è una meraviglia: “1985” getta la base dell’album definendone lo stile, poi si susseguono perle come “Scottie Beam” con Rick Ross e “Something To Rap About” con Tyler, the Creator, per arrivare all’apice dell’album, “Skinny Suge”.

Il titolo della traccia mette subito in chiaro il contenuto autobiografico, visto che Skinny Suge è uno dei nomi d’arte storici di Freddie, e richiama idealmente una versione “magra” di Suge Knight, ovvero un nome storico dell’industria musicale americana invischiato nella maggior parte delle storie più torbide e violente della scena. Il testo mantiene la promessa: “Tutte queste perdite mi buttano giù, sto letteralmente vendendo la coca per rappare / Come fa un uomo a sopportare tutto questo? / Amico, mio zio è morto di overdose / E la cosa assurda è che ho rifornito io quello che gliel’ha venduta”, rappa Gibbs.

Poche barre più tardi arriva la frase che manda in frantumi il personaggio cinico e spaccone che si è creato negli anni: “Sto bevendo e prendendo questi farmaci perché non posso alleviare questo dolore fumando / Sono un solitario ma odio essere solo”. La lucidità e la sofferenza con cui Freddie descrive la sua vita rende possibile identificarsi con i suoi brani anche a chi conduce uno stile di vita completamente diverso.

“Tutte queste perdite mi buttano giù, sto letteralmente vendendo la coca per rappare / Come fa un uomo a sopportare tutto questo?"

I testi di Gibbs sono sempre stati incisivi, ma sulle produzioni di The Alchemist vengono messi su un piedistallo, così come il suo flow. È questa la principale differenza rispetto ai lavori di MadGibbs, in ‘Alfredo’ è Freddie il protagonista e si fa riconoscere per quello che è: uno dei migliori MC della sua generazione.

È importante notare, dunque, come per arrivare a questo livello Gibbs non abbia mai cercato alcun compromesso, tutti i featuring che ha fatto sono sensati e il suo stile e narrazione rimangono sempre coerenti, album dopo album. Gibbs ha semplicemente creduto nelle sue idee e nella sua musica, ha lavorato a lungo e insistito nel raffinare le sue tecniche, riuscendo così a raggiungere l’olimpo del rap con la complicità di due geniali producer. Una storia che sembrerebbe davvero di altri tempi, se non fosse che Skinny Suge è più attuale che mai.

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Su YouTube c'è un live incendiario degli Assalti Frontali

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È il 15 giugno del 1990 quando la miccia viene accesa: esce il vinile di Batti il tuo tempo, una colonna fondante e portante del rap declinato al tricolore. Cinque pezzi autoprodotti che fioriscono come rivolta che s'insinua tra le crepe dell'asfalto, intitolati al collettivo musicale Onda Rossa Posse.

L'esperienza è la sintesi programmatica e la filiazione diretta di Radio Onda Rossa a Roma, fondata da militanti dell'Autonomia Operaia e consegnata alla storia come una tra le radio libere a cui il Movimento del '77 faceva riferimento. Onda Rossa Posse, dunque, non può che portare nei suoi geni la corrente controculturale e militante che serve alla musica come innesco finale.

Onda Rosse Posse Stadio Olimpico

È un attimo, e la stagione d'oro delle Posse italiane e del movimento studentesco della Pantera irrompe nella cronaca del Paese. "Batti il tuo tempo" si solidifica come colonna sonora di quelle giornate, tra facoltà occupate, manifestazioni e la voglia di sbaragliare l'inedia politica e culturale del Bel Paese.

"Questo è l'hip-hop / Questo è il suo ritmo / Stile della posse in azione / In piena azione a colpire ancora al cuore / Non lo conosci? / Allora attento perché batte il suo tempo", sono le sue parole d'ordine. Accompagnate da un suono che trova nel rumorosissimo funk dei Public Enemy e della Bomb Squad la sua ragione d'essere, e la voglia di trasformare quelle rivendicazioni così lontane in una realtà del tutto nostrana, pienamente in linea con il quotidiano italiano.

Onda Rossa Posse

Il carburante muove i centri sociali, le case occupate e l'esperienza politica di tanti giovani di quegli anni, e si espande città dopo città, fino a diventare una fiamma viva e intensa e un'opposizione culturale sistematica e vitale: un pezzo fondamentale della storia d'Italia e del rap di questo Paese. Una formula battagliera che potete ora rimirare in questo bel reperto, un video di un live a Bologna targato 1992 e girato da Bernardo Jovine.

Qui si compie la testimonianza diretta del momento di passaggio tra Onda Rossa Posse e la cristallizzazione negli Assalti Frontali, un passaggio che in questa prima formazione vede Militant A, SiouX, Dj Disastro e persino un giovanissimo Lou X. Una meraviglia che potete osservare nel link che segue, con un audio e un video eccezionali per l'epoca e una fotta che ancora oggi mette i brividi e la voglia di scendere in strada.

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Il rap di Ernia è fatto di contrasti e non potrebbe essere altrimenti

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Ernia ha vissuto tante vite nei suoi 26 anni. Da giovane promessa del rap italiano nei Troupe d’Elite, si era poi allontanato e la sua vita si prospettava lontana dai palcoscenici, tra lavori diversi e un trasferimento a Londra.

Tuttavia poi è seguita una rapida risalita, con una serie di progetti convincenti che hanno smussato sempre più le facce della sua produzione artistica e hanno mostrato al pubblico un rapper capace di eccellere in tante categorie. Del resto, i fan di Matteo Professione, aka Ernia, sono molto diversi tra loro.

Ernia
La copertina di 'Gemelli', clicca sulla copertina per ascoltare il disco su Spotify.

C’è il fan di quanto Matteo definisce “street rap”, quello che sente come proprio genere, e ci sono poi gli ascoltatori in cerca di “rap conscious”, che vedono in lui uno dei migliori liricisti della nuova scuola italiana.

I precedenti dischi di Ernia vivono proprio in questo chiasmo tra i suoi momenti di maggiore fiducia e animo come “No Pussy” in 68, e quelli dell’Ernia più riflessivo e a tratti malinconico di “Tosse (La Fine)”, sempre dallo stesso disco. E se è vero che molti dei rapper suoi coetanei hanno trovato il successo grazie a una strada lineare, fatta di perfezionamento del proprio talento all’interno di un recinto molto ristretto, Ernia ha scelto invece una via più tortuosa.

Mentre molti suoi coetanei hanno scelto una strada lineare, Ernia ha scelto la via più tortuosa.

Il rapper ha cercato infatti di eccellere in più campi e di giocare da protagonista in diversi campionati allo stesso momento. La strada verso il successo si è rivelata più lunga, ma, passo dopo passo, il suo 68 ha raggiunto comunque il disco di platino.

Mi sarei immaginato di sentire un po’ di tensione nelle sue parole alla vigilia dell’uscita del nuovo disco, eppure Ernia è del tutto tranquillo, gioviale e scherzoso. Poco prima di ascoltare l’album ho ripensato alla gestazione problematica di questo disco, causata dalla pandemia globale, e al suo posto avrei avuto tantissimi ripensamenti.

Ernia

Per questo, quando l’ho finalmente ascoltato mi sono sorpreso. Gemelli è un lavoro adatto a questo periodo, che unisce la voglia di vivere la strada e la compagnia che ci è mancata negli ultimi mesi—come in “Puro Sinaloa”, remake eccezionale del pezzo culto del Club Dogo—, a un po’ di malinconia per quello che ci succede intorno —ascoltatevi “Morto Dentro”.

La formula è quella di sempre: c’è tutto Ernia nel disco, i Gemelli che vivono e lottano dentro di lui. E così si passa rapidamente dall’upbeat di “Vivo”, prodotta da Marz e Zef, alla già citata “Morto Dentro”, con le chitarre spettrali del beat di Sick Luke, per ritrovarsi poi con l’odore di marmitte e gomme bruciate di “Puro Sinaloa”.

C’è tutto Ernia nel disco, i Gemelli che vivono e lottano dentro di lui: l'’upbeat di “Vivo”, le chitarre spettrali di “Morto Dentro” e l’odore di marmitte e gomme bruciate di “Puro Sinaloa”.

Soprattutto, la vera hit del disco, cioè “Superclassico”, che profuma di estate e di amori che fanno il giro dell’ombrellone e che forse ritornano. E, se lo fanno, prendono un autobus strapieno che ci porta dalla sua Bonola fino a sotto il Duomo.

Noisey: Come ti senti oggi alla vigilia dell’uscita di Gemelli?
Ernia: Sento un misto di sollievo, felicità ed eccitazione. L’attesa ha aumentato il desiderio, di certo. Però all’inizio la maniera in cui è prospettata questa situazione è stata un bel problema, e ha impattato molto anche sul mio umore. È stato pesante ma ora finalmente siamo arrivati all’uscita e per la prima volta nella mia vita sono molto felice di far uscire un progetto. Sono felice io, felice del disco ed è un momento felice… quindi bene!

Tra i temi principali troviamo i Gemelli dentro di te e la tua musica. Un Ernia di Bonola a Milano, ma anche un Ernia in viaggio. Gli Stati Uniti con Luchè, le sessioni a Napoli con D-Ross e Startuffo, o a Roma con Sick Luke.
Credo che nel disco, come in quasi tutti i miei progetti, ci sia quasi sempre Milano come base. Non ho mai fatto gangsta rap, però ritengo di aver fatto sempre street rap. La maggior parte della mia vita alla fine riguarda faccende di quartiere. E infatti Bonola e QT8 sono sempre presenti nella mia narrativa. Anche se mi sono spostato di più che per gli altri dischi, c’è poco che proviene da fuori in realtà, anche se io chiaramente vivo i pezzi in maniera diversa dell’ascoltatore. Ogni pezzo io lo ricollego ai luoghi dove ho finalizzato il lavoro, qua a Milano. Quello che racconto l’ho vissuto qui, nella maggior parte dei casi.

Ernia

In un’intervista recente di Rap Radar a Drake, diceva che il momento più difficile della stesura del disco è la tracklist, perché deve accontentare i fan del Drake che rappa, i fan del Drake melodico e così via. Anche tu hai fan che stimano diverse tue anime artistiche, eppure Gemelli è sintetico.
Difficile non lo è stato, e anzi ho scritto molto serenamente. Diversamente dai dischi precedenti, in cui ero molto quadrato, ho fatto andare la penna e mi sono proprio rilassato. Ho detto: “Cazzo, se non piace a me fare questo lavoro”, e a me piace, quindi è filato tutto liscio. Se fisso dei concetti che capisco solo io o faccio delle scelte che piacciono solo a me, non serve a niente fare un disco. Devo per forza rilassarmi mentre lo faccio e così mi è venuta semplice anche la scaletta. Non sono Drake, a me è venuta facile [risata NdA].

E perché Gemelli?
Perché ho giocato molto sul tema del contrasto. Il disco secondo me scorre molto bene, però se ci fai caso la seconda e la terza traccia sono “Superclassico” e “Puro Sinaloa”, cioè due brani agli estremi. È una scelta voluta, ho scelto due tracce che si massacrassero a vicenda.
Lo stesso vale per “Morto Dentro” e “Non me ne frega un cazzo”. La prima come musicalità riporta un po’ a Lil Baby e Gunna, quel mondo lì che ora va per la maggiore. Invece, “Non me ne frega un cazzo” è una roba veramente hip hop West Coast. Il disco si muove tutto su questi contrasti.

In Gemelli ho giocato molto sul tema del contrasto, il disco si muove tutto su questi binari.

Una tua caratteristica è che citi esplicitamente le tue fonti d'ispirazione. In 68 c’era “King QT” ispirata a “King Kunta” di Kendrick Lamar, e oggi c'è Kanye West.
Sì, certo, il pezzo con Luchè “Pensavo di ucciderti” è una citazione a “I Thought About Killing You” di Kanye. Non ho mai cercato di camuffare la cosa. Il rap è un genere assolutamente meticcio. Poi in Italia appena fai un pezzo ti accusano di plagio, s'è c’è una base simile son tutti convinti che sia una scopiazzatura. Questo è il genere dei mixtape, il genere della meticciata, della bastardata, del “prendo quello che mi piace e lo faccio pure io”. “Puro Sinaloa” ripresa da “Puro Bogotà” dei Club Dogo ne è l’esempio. Io faccio rap, forse sono gli altri che non sanno cosa vuol dire.

C'è mai stato qualche problema per questo?
Quando cantai per intero “Serpi” di Jake La Furia al Gate Club a Milano due anni fa, l’ho fatto perché mi piaceva. Gli americani lo fanno sempre: se mi piace un pezzo, io lo canto sul palco, anche se non è il mio, l’importante è che piaccia alla gente. C’è qualche esponente della scena, per fortuna non di rilievo, che ha avuto da ridire e ha detto, in modo dispregiativo, che sono “il rapper che fa le cover”. La cover è intrattenimento ed è una forma di rispetto per l’autore del pezzo. Jake è stato il mio rapper preferito di quando ero adolescente quindi perché non farlo anche io?

Ernia

Parlando di Jake la Furia, quanto è stato difficile organizzare il remake di “Puro Bogotà”?
La proposta è stata mia. Considerando che è una bomba, se l’avessero proposta gli altri l’avrebbero voluta nel loro disco (ride NdA.) Per chi è amante del genere, questo è un momento topico. Ti permette di rivivere quei momenti e quegli anni. E rivivere anche la nostra adolescenza. L’ho proposto a Don Joe e poi sapevo già chi mettere: i milanesi con i quali son cresciuto, come Lazza e Rkomi. Tedua, per quanto sia genovese, ha passato la sua infanzia a Milano fino ai 14 anni, quindi è cresciuto con me e dovevo chiamare lui e gli altri per forza.

Come dicevi prima, dopo “Puro Sinaloa” c’è “Superclassico”: una bella metafora e l’insieme delle tue anime, un racconto sia scanzonato che malinconico. Quando l’ho sentita ho pensato: “Ernia fa il singolo di platino in scioltezza”. Però sei uscito senza singoli sino al lancio del disco. Come mai?
Io son sempre stato contrario ai singoli. Con il mio team volevamo all’inizio far uscire “Superclassico” ma poi mi sono opposto con tutte le mie forze. Sai, i singoli sono strani. Se senti il singolo di un altro artista poi riesci a capire dove andrà a parare il disco, perché generalmente i dischi hip hop seguono tutti lo stesso filone.

Io ho sempre avuto un approccio diverso, che unisce diversi filoni assieme e così diventa tutto più difficile.

Qual è stato il tuo ragionamento allora?
Io ho sempre avuto un approccio diverso, che unisce diversi filoni assieme e così diventa tutto più difficile. Se avessi fatto uscire “Puro Sinaloa” come singolo, probabilmente le radio e il mondo un po’ più mainstream avrebbero detto “Che cafone, ecco qua un altro disco hip hop che fa la cafonata”. Se invece avessi fatto uscire “Superclassico”, il mondo hip hop avrebbe detto che sono diventato pop per cercare di vendere. Così come con “Bugie” mi avrebbero detto: ecco un altro pezzo asciugo.

In questi mesi di quarantena hai cambiato opinione sul disco?
Mi sono piaciuti di più tutti i pezzi. All’inizio c’era qualche pezzo che proprio non mi convinceva, e invece adesso, ascoltandolo negli ultimi giorni, mi sono convinto. Durante la quarantena non l’ho proprio sentito, perché altrimenti mi sarebbe venuta ansia.

Ernia

Come ti immagini Gemelli dal vivo dopo il coronavirus?
Non te lo saprei dire. So di sicuro che andrò con la mia solita formazione, con dj e me. Io ho sempre preferito, e voglio, il one man show e non sono un fan delle band. Anche perché poi i pezzi hip hop suonati non sono mai come su disco. Ho sentito i live dei miei colleghi con le band e non sono come nel disco. Magari c’è qualcuno a cui piace di più, ma io sto facendo rap. Della batteria vera, della chitarra e del basso non mi interessa. A me piace che un po’ il suono sia di merda. Potrò non sembrare un cultore della musica, ma a me questo genere piace perché è fatto un po’ a cazzo di cane (ride NdA).

Quindi niente strumenti suonati dal "vero"?
Magari ci sono dei pezzi che sono suonati da strumenti veri, però poi a me piace così, senza la band ai live. Ad ogni modo, sono sicuro che ai live andrà molto forte “Vivo”, così come “Superclassico” e “Ferma a Guardare”. “U2” sarà divertente perché sarà il pezzo del disco che farà saltare la gente ai live. Il pezzo è piatto, senza sconvolgimenti nella base, però proprio questo aspetto permette la cantino tutti.

Io ho sempre preferito il one man show e non sono un fan delle band. Anche perché poi i pezzi hip hop suonati non sono mai come su disco.

Lazza ha detto recentemente che farebbe un disco solo con Giaime. Qualche anno fa Santeria di Marracash e Gué Pequeno ha rivoluzionato il rap italiano. C’è un tuo gemello con cui faresti mai un disco? O forse due, pensando a Mecna e Coco…
Un disco in coppia è già un problema, figurati in trio. Devi soddisfare tutti i bisogni di tutti gli artisti. Già in due nei feat è una tragedia scegliere mix, master e voce di tutti. Sinceramente ad ora non me la sento di fare un disco con qualcuno. Poi considera che io come approccio son completamente staccato: sento la base e registro, poi non intervengo nella fase di post-produzione. Poi ora ti dico così e magari tra due anni cambio idea o sorge la possibilità di farlo... Se mi offrono un milione di Euro, ti richiamo e ti dico: “ma sai che in realtà mi è sempre piaciuto l’idea di fare un disco in coppia” (Ride NdA).

Del resto hai già fatto il disco in coppia con i Gemelli dentro di te. Grazie Ernia.
Questo di sicuro, grazie a te.

Niccolò è su Instagram.

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Il video di "Marymango" di Ghali con feat di Tha Supreme è fuori di testa

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Una gran parte del successo della musica contemporanea e delle sue hit si gioca in ambiti al confine tra la tecnologia, le piattaforme social e il passaparola. Una massa di sistemi che fanno massa e si integrano e completano a vicenda, a volte con più di qualche ombra di sottofondo sulla maniera in cui agiscono e collaborano, scelgono e diffondono.

Un tempo il processo era ben diverso, ovviamente, benché non necessariamente più trasparente e lineare. Se pensiamo al periodo compreso tra gli anni Ottanta e i Novanta, riscopriamo in fretta che uno dei veicoli promozionali più agognati era il videoclip, un'occasione unica per invadere i palinsesti televisivi e mostrare l'immaginario di riferimento delle proprio musiche.

Non era un meccanismo semplice, sia chiaro, visto che i canali disposti a ospitare i video erano pochi e poco il tempo a disposizione, e sarebbe passato del tempo prima di assistere all'epopea di Videomusic e MTV Italia. A fronte di tutto l'infinito materiale oggi immediatamente a disposizione su YouTube e compagnia, è poi oggi quasi impossibile tentare di far immaginare quanto fosse sfiancante, ma ricca di risvolti profondi, l'attesa del video ricercato tanto a lungo.

La meraviglia vista una sola volta e poi dispersa fino alla programmazione notturna, il programma dedicato, la botta di fortuna e del caso. Da lì, peraltro, sarebbe poi nata una generazione intera di registi e creativi, ad esempio il magico trio di Spike Jonze, Chris Cunningham e Michel Gondry, oppure Floriana Sigismondi e Mark Romanek: registi in grado di ergersi spesso al ruolo di autori, interpreti della poetica dei musicisti e sguardi eccezionali sull'immaginario, il proprio e quello degli altri.

Vogliamo riprendere le fila dell'arte dei videoclip, e aggiornarvi sui video migliori e i più interessanti.

Cominciamo dunque dal recentissimo "Marymango" di Ghali, con feat di tha Supreme, che è un piccolo capolavoro di stop motion, fattanza e incarnazione dei due rapper in forma di plastilina. Proprio come dicevamo poco sopra in riferimento ad altri colleghi, i due registi e autori, Giulio Rosati e Stefano Colferai, hanno dimostrato di avere una personalità fortissima e uno sguardo visionario, perfetto per concretizzare tutta la sostanza e l'immaginario dei due musicisti al meglio.

Con un'atmosfera a metà tra I viaggi di Gulliver, Alice nel Paese delle Meraviglie e i corti deliranti di Jan Švankmajer, veniamo lanciati all'interno di un frigorifero, dentro allo stomaco di un pesce gigante, sopra a un albero con frutti stonati e, be', in cielo. Tutto a forza di canne grandi così e deliri vari.

Marymango

Per approfondire un po' il discorso, abbiamo quindi voluto intervistarli.

Noisey: qual è il vostro lavoro e la vostra quotidianità?
Giulio: Sono un regista in ambito musicale e commerciale, e non ho una vera e propria quotidianità. A volte anzi è proprio un elemento che viene a mancare e che cerchi di ritagliarti per non sentirti troppo spaesato. Ogni video ha una sua storia e un suo flusso. Ogni volta gli ingranaggi che si mettono in moto sono differenti e cerchi di adeguarti.

Stefano: Mi occupo principalmente di scultura e animazione. Il mio lavoro ed il mio mondo si contraddistinguono per un estetica che fonde mondo manuale con mondo digitale. Gran parte della mia attività ruota intorno alla modellazione della plastilina, e da qualche anno anche all’animazione stop motion che mi permette di dare vita a tutto quello che realizzo. Non ho una vera e propria routine, lavoro costantemente a progetti personali che si alternano alle collaborazioni con i clienti, per animazioni stop motion e still frame.

Marymango

Come avete incontrato Ghali?
G: Nel 2018, mentre scattava la copertina di Rolling Stone, di cui ho realizzato il video cover, poco prima del tour Dai palazzi ai Palazzetti. Da li abbiamo iniziato a lavorare insieme e il percorso con i videoclip. Ci siamo da subito trovati bene e abbiamo realizzato "Turbococco", "Flashback", "Boogieman" ma in generale tutto il progetto DNA, che ho avuto modo di seguire fin dall'inizio. Grazie al disco abbiamo viaggiato un sacco insieme ed è nata una grande amicizia. Difficilmente stringo un legame con gli artisti con cui lavoro perché appunto è sempre difficile unire la vita privata a quella professionale ma Ghali è un ragazzo speciale oltre che un grande artista e gli voglio bene.

S: Ci siamo conosciuti su Instagram, avevo in DM un suo messaggio nel dicembre del 2015; mai letto. Mi faceva i complimenti per mio il lavoro, chiedendomi cosa poteva fare per avere un ritratto. In quel periodo avevo iniziato a realizzare una serie di volti che celebravano i miei preferiti artisti hip hop, rap, trap. Quando ho ritratto Ghali era appena uscita "Sempre me" e fu una bella coincidenza il fatto che, pur non sapendo della sua richiesta, iniziai comunque a lavorare al suo ritratto. Quando glielo mandai un mese dopo, entrammo in contatto. Da un anno a questa parte abbiamo iniziato seriamente a pensare di produrre un video in stop motion fatto di plastilina che nessuno aveva mai fatto prima, scambiandoci video reference e idee sempre su Instagram. Volevamo fare qualcosa per "Turbococco", ma i tempi erano molto stretti. L’uscita di un progetto come DNA mi ha permesso di lavorare con più respiro.

Marymango

Qual è la genesi di "Marymango"?
G: Era da un po' che ci balenava in testa l'idea di realizzare un video con la plastilina, a dire il vero Ghali lo propose per la prima volta al tempo di "Turbococco" e proprio allora abbiamo conosciuto Stefano. Quando abbiamo iniziato a pensare ai videoclip per l'album non è stato difficile scegliere il brano su cui sperimentare e lanciarsi. Sapendo che non era un lavoro semplice e soprattutto che sarebbe stata una lunga preparazione, abbiamo subito contattato Stefano.

S: Abbiamo concretamente iniziato a parlarne qualche settimana prima dell’uscita di DNA, sapendo dell’ampiezza del progetto poteva esserci del tempo per la lavorazione, visto che le tempistiche sono completamente diverse dal videoclip girato. L’idea è stata un parto lungo un mesetto circa, sono costantemente rimasto in contatto con Giulio e quindi con Ghali per confrontarci sulle idee e lo sviluppo. Visto il titolo, avevo in mente qualcosa che potesse essere un trip quasi nonsense di cose che si susseguono senza una vera e propria logica. La svolta è stata trovare la chiave per far passare i protagonisti attraverso i due mondi.

Marymango

Come avete lavorato e quanto ci avete messo?
G: Per me è stato molto difficile calarsi in questa realtà. Non è facile fare una regia quando a riprendere non è una telecamera. Siamo partiti da uno storyboard e da un'idea generale, ma ho sempre voluto che Stefano potesse esprimersi al 100% sia tecnicamente che attraverso le sue idee. Posso solo dire che il video, per quanto mi riguarda, è stato un flusso di coscienza, pura creatività. Le possibilità che ti dà questo tipo di tecnica è infinita, e io ringrazio Stefano, perché ovviamente nulla sarebbe stato possibile se non ci fossero state le sue mani.

S: La totale produzione ha occupato tre mesi circa, tra scrittura e storia, lo sviluppo dello storyboard, i confronti, la modellazione e l'animazione e via dicendo. Era la prima volta che mi calavo in una produzione cosi lunga e all’inizio mi ha un po’ spiazzato. Di solito il mio lavoro si concentra su animazioni senza troppo sforzo di regia e di breve durata. Ma poi ho raccolto le idee che avevo e cercato di amplificarle lasciandomi ispirare dai fumetti che avevo in casa: da Jesse Jacobs, Charles Burnes e Daniel Crow. Ma anche da film e video reference che potessero aiutarmi nel distacco dalla realtà un po’ più statica che contraddistingue il mio lavoro. In tutte le fasi ho avuto un costante confronto con Giulio sulla strada che in quel momento stavo prendendo, per capire assieme la migliore direzione da prendere per la realizzazione di ogni sequenza.

Marymango

Perché proprio la stop motion? Avete qualche artista modello tra quanti lavorano in stop motion?
G: Per me è stata la prima volta, era appunto da un po' che ci ronzava in testa questa idea. Stefano è uno dei migliori in Italia a fare quello che fa e ci siamo affidati completamente a lui. Personalmente non conosco moltissimi autori o modelli del campo, se non William Child.

S: Ho iniziato a dedicarmici e introdurla nel mio lavoro perché mi ha permesso di dare vita ai miei personaggi e amplificare la narrazione nei miei set. Si è trattata di una conseguenza dovuta all'avere tra le mani tutti i giorni la plastilina: il richiamo è fortissimo e influenze come Nightmare before Christmas, Galline in fuga e tutti i vari Aardman, Wes Anderson e via dicendo sicuramente mi hanno spinto ad avvicinarmi a questo mondo—ma, nello specifico: artisti del calibro di PES, Patagraph, Gianluca Maruotti. Collegandomi al video di "Marymango" penso sia una trovata geniale perché è come se il mondo di Ghali si fondesse con quello di Tha Supreme dando origine ad universo inesplorato prima d'ora.

Marymango

Un momento particolare o indimenticabile del lavoro su "Marymango"?
S: Realizzarlo durante una pandemia è stata sicuramente una esperienza indimenticabile che mi ha messo a confronto con grandissime limitazioni tecniche. È stata un'incredibile prova di creatività e sforzo manuale, e una sfida sotto molti punti di vista. Sognavo da tanto di poter sfondare il muro del minuto e di potermi dedicare a scrittura e regia, questo mi ha aperto a nuovi orizzonti che non smetterò di esplorare. Una delle cose che più mi è piaciuta fare sono sicuramente i labiali: per riuscire ad animare le bocche dei personaggi mentre cantano mi sono ripreso durante strofe e ritornelli, replicando il mio lip-sync con la plastilina.

Quali sono i vostri pezzi preferiti dei due artisti?
G: Per quanto riguarda Ghali è difficile scegliere un solo brano. Diciamo che mi sento molto affezionato a Milano, in particolare. Mentre, per quanto riguarda tha Supreme, direi "Grazie a dio".

S: Da parte mia direi: "Dende", "Pizza Kebab" e "Lacrime", per Ghali. e "M12ano", "Occh1 Purpl3" e "6itch".

Marymango

La sorpresa della vostra carriera?
G: Fortunatamente, da quando ho iniziato, ho la fortuna di continuare a sorprendermi. Non so definire quale sia stata la migliore.

S: Il primissimo lavoro, quando ho capito che la mia produzione artistica poteva essere pagata.

Marymango

Cosa sognate per il vostro futuro?
G: Se si dice poi non si avvera.

S: Una collaborazione con Kaws, e la possibilità di curare i visual per il live di Jay z. E ancora: esporre a New York, e tanti altri.

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Massimo Pericolo ci ha spiegato perché ha scelto Touché

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Classe 2003, Amine Amagour è di Padova e parecchio incazzato. Dopo qualche freestyle su IG, Touché ha preso e caricato un dissing a una persona ben precisa, titolo del pezzo: "Seba La Pute".

Cosa abbia fatto di male il povero Seba non lo sappiamo—davvero—, sappiamo però che dal punto di vista strettamente musicale la traccia si porta dietro il fuoco di chi ha davvero il beef nel fegato e nelle vene, e la voglia di urlarlo a chiunque sia disposto ad ascoltare.

Massimo Pericolo Barracano Touché

A scovarlo è stato Massimo Pericolo in prima persona, che l'ha trovato incandescente e fatto ascoltare ai suoi soci. Il risultato sta nel più classico trattamento ad opera di Phra Crookers, con feat dello stesso Massimo Pericolo, nonché di Barracano.

Curioso a dirsi, nel video appare anche Speranza, che a questo punto è davvero un peccato non sia entrato anche lui nel pezzo. Ad ogni modo, abbiamo voluto chiedere direttamente allo stesso MP per quale ragione abbia scelto un ragazzo così giovane, e perché proprio lui.

Prima di passare all'intervista vera e propria, però, è il caso di godersi il video del remix.

Noisey: La domanda fondamentale e banale da cui partire: come hai trovato Touché? Cosa possiede di speciale per te?
Massimo Pericolo: L'ho trovato a caso aprendo YouTube. Mi ha colpito perché stava dissando una persona qualunque che solo lui conosceva, non un rapper famoso. Non stava insultando qualcuno affermato per attirare l'attenzione. Per quanto ne so è un'eccezione assoluta nel dissing all'italiana. Stava davvero dicendo quello che pensava e che voleva dire e lo diceva bene. Al di là del dissing, se una persona sa comunicare agli altri un'esperienza personale allora per me sa scrivere. Le rime sono semplici ma dirette, ha il flow, ha l'attitudine, ha 16 anni, secondo me spaccherà.

Perché fare proprio un remix? E perché scegliere Barracano?
Io, Rafi, Crookers e tutta Pluggers siamo pieni di lavoro al momento. Non c'era tempo per fare un pezzo nuovo da zero. Era l'unico pezzo di Touché pubblicato e stava già andando forte su YouTube, abbiamo voluto cogliere il momento. Abbiamo fatto tutto da casa prima di incontrarci, la cosa è partita da me e Oliver [CEO di Pluggers] ed essendo una decisione di pancia abbiamo subito coinvolto Rafi, essendo per me come un fratello da prima del successo.

Che idea ti sei fatto di Touché, della sua esperienza e della sua vita ora che lo conosci da un po'?
Lui è di Padova e io di Varese. Ci siamo incontrati una volta sola per girare il video e mangiare insieme, ma la nostra provenienza mi fa sentire più cose in comune a lui che a un altro ragazzo di una metropoli come Milano. È un ragazzino più maturo di quello che sembra e degli anni che ha, mi rivedo in quell'atteggiamento, non conosco nel dettaglio la sua storia ma certe cose si intuiscono parlando un po' con le persone, e credo proprio che riuscirà a reggere in modo credibile l'immaginario che si è creato. Non è un fake.

Con il suo dissing di certo non ci va giù leggero, tanto per dirne una gli dice di andarsi a mangiare i suoi morti. Non ti provoca nessun problema il fatto che un ragazzo così giovane imposti la sua musica a partire da contenuti simili?
Ci ricolleghiamo alla prima domanda. Io non conosco la persona che lui attacca nel pezzo, il remix non è un dissing né da parte mia né di Barracano. Ma analizzando il testo di Touché non può non colpire quanto sia personale e dettagliata la descrizione della disputa.

Sono certo che se un giorno volesse scrivere di un'infanzia difficile o altro ci riuscirebbe perché è capace di esprimersi con concetti suoi. Vedi, la frase che hai citato, l'hai mai sentita in una canzone? È un'offesa che ha delle radici culturali più profonde e vicine alla nostra vita piuttosto che fare copia-incolla dai pezzi drill americani, e questo la rende interessante in senso artistico, per me.

Quanto è importante per te spingere le nuove leve? E su chi altro ti piacerebbe puntare o vedi come interessante?
Io sono stato spinto da tutti all'inizio, da alcuni per ammirazione e da altri per loro interesse. Ti parlo di un anno fa ma è successo tutto molto in fretta e probabilmente in gran parte grazie a questo. Quando la gente scopre qualcosa di nuovo non sempre è pronta ad accettarlo, ha paura a dire che gli piace qualcosa che agli altri non piace ancora. Quindi se spingere qualcuno per primo può far aprire gli occhi sul suo talento, farlo è fondamentale, e Touché lo merita. So di non sbagliarmi, ma anche se dovesse smettere di rappare in questo istante saprò di avere fatto la cosa giusta. Per par condicio invece ti faccio un nome di donna e per me Madame ha un grande futuro davanti. Spacca veramente.

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Il viaggio verso il Paradiso di Tedua

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Di Mario Molinari, in arte Tedua, classe 1994, si è parlato tantissimo in questi ultimi 5 anni, durante i quali l'impatto che ha lasciato sulla scena si è dimostrato indelebile. Nulla potrà mai lavare via l'effetto che il primo mixtape Aspettando Orange County del 2015 ha avuto sugli altri, per passare a Orange County Mixtape, che è già storia del rap italiano grazie a pezzi come "Lingerie", giusto per nominarne una, e arrivare poi all’esordio Orange County California, e in ultimo alla consacrazione del 2018 di Mowgli.

Detto questo, non so se vi ricordate, ma mentre noi tutti cercavamo di riprenderci dai festeggiamenti di Capodanno, alle 21 del due gennaio è uscito sul profilo Instagram di Tedua il video di "2020 Freestyle". Tutto questo senza nessun minimo preavviso, allarmando e agitando tutti quanti.

Vita Vera Mixtape Tedua

"20-20, Wild Bandana, okay, Vita Vera Mixtape / Ci siamo, un'altra volta ancora / (Se mi lasci... ascolta... non sto dicendo che non ti ascolto) / (Ecco, mi fai parlare un attimo, cazzo?)" Sono poche barre tratte da "Lo-Fi Wuhan" , ma sintetizzano al meglio l’entrata di Tedua in questo 2020, che ancora una volta lo vedono al massimo grado d'importanza e notorietà per la scena rap e trapItaliana—ma non è questo il punto.

Il punto è che Mario è tornato, nonostante la pandemia globale che ha reso la vita difficile al mondo artistico e musicale, nonché ai live, i tour e le uscite di tanti nuovi dischi. In effetti, Tedua aveva annunciato un nuovo album in questo 2020, ma poi ci ha spiazzati tutti facendo uscire invece un primo mixtape, Vita Vera, a giugno, anticipato da un interessante cortometraggio intitolato Vita Vera – Story, dove racconta a 360° la sua esperienza, quella parte della sua storia che gli avrebbe poi segnato per sempre la vita.

Intitolare un album La Divina Commedia, soprattutto in un anno come questo, è di certo una mossa coraggiosa. Ma è anche un modo per farci percepire l'evoluzione dell'artista.

Decisamente, non è la prima volta che Mario si mette a nudo tramite le parole e i versi, ma l'utilizzo di video e immagini dagli archivi personali del musicista ha fatto sì che potessimo immedesimarci ed entrare ancora di più nella vita del rapper. Lo dobbiamo anche alla voce di Luca Ward, doppiatore italiano di primo piano di cui Tedua ha la massima stima.

Il primo mixtape include collaborazioni con molti e diversi artisti, ad esempio Ernia e Capo Plaza, Rkomi e Bresh, Lazza e Dargen D’Amico, e, più che un mixtape, sembra riscuotere il successo di un vero e proprio album. Tedua, però, non ha nessuna intenzione di fermarsi.

Tedua

Dopo una settimana, quindi, fa uscire Vita Vera Mixtape, Aspettando La Divina Commedia. E l'intenzione si fa chiara: Tedua vuole portarci passo dopo passo verso il suo prossimo album ufficiale, in un percorso segnato dagli artwork, i testi e la storia.

Intitolare un album La Divina Commedia, soprattutto in un anno come questo, è di certo una mossa coraggiosa. Ma è anche un modo per farci percepire l'evoluzione dell'artista, che da uomo della giungla urbana, grazie alle molte vite passate nel Purgatorio, può ormai arrivare, artisticamente parlando, al Paradiso.

Tedua è deciso a tornare e vuole riprendersi tutto.

Qualche giorno fa abbiamo avuto modo di passare quasi un'ora con Tedua, in una bellissima chiachierata. E, nonostante le nostre storie assai diverse, nonostante l'amore per Milano, abbiamo capito entrambi quanto il mare manchi a noi e alla città, e quanto possa ricaricare le nostre anime.

Dunque, ricaricatevi anche voi, perché Tedua è deciso a tornare e vuole riprendersi tutto.

Vita Vera Aspettando la Divina Commedia Tedua

Noisey: A metà gennaio ci siamo incontrati, e ti ho bloccato al volo per farti i complimenti rispetto al tuo "2020 Freestyle". In quel momento, per me, era una delle cose più belle uscite negli ultimi 6 mesi. Ma com'è nato? E dei freestyle dei tuoi colleghi usciti durante la pandemia cosa pensi?
Tedua: Quel freestyle è stato sicuramente quello che ha aperto le danze. L’ho fatto esplicitamente per rompere il ghiaccio e rompere il mio silenzio musicale durato parecchio tempo,se escludiamo i featuring. L’essenza del freestyle è proprio quella di essere molto diretta, con parole semplici malgrado gli esercizi di stile. Con l’esigenza di voler esprimersi. Penso che per la stabilità di una carriera, l’immaginario e la coerenza di un artista siano fondamentali, e il rap, molto più del canonico pop radiofonico, ti concede questi sprazzi tra una hit e l’altra dove potersi mettere a nudo, come Tupac in Changes. Ti puoi togliere delle catene e dei pesi e riallinearti con i fan. Peraltro permettimi di dire che "2020 Freestyle" è stato un successo, visti gli oltre 15.000 commenti su Instagram, tra cui quelli di tutta la scena, gente come Marracash e tantissimi altri nomi importanti che mi hanno fatto i complimenti. Mi sono sentito apprezzato e riconosciuto.
Ho apprezzato anche gli altri freestyle, ma il mio era privo di quegli stimoli pandemici. Sono due cose diverse. Io avevo l'intenzione di dire al mio pubblico “ci sono, non avete perso un punto di riferimento, sono tornato più consapevole di prima”.

Sempre in 2020 Freestyle dici “Da Mowgli è un arrivederci, Quest'anno prendo il 2020/Con coltello tra i denti, faccio un bordello altrimenti/Con tutto il rispetto per i colleghi, Ma evitiam paragoni, abbiamo ruoli differenti”. In cosa pensi il tuo ruolo, musica e persona siano differenti rispetto agli altri? E di questi primi mesi del 2020, rispetto alle tue attese, aspettative e sogni?

Definire in prima persona la differenza tra me e i miei colleghi è difficile senza sembrare troppo esuberante. Mi piacerebbe lo facessero gli altri, perché a me verrebbe da dire che la differenza tra me e gli altri sono note, nelle mie indole caratteriali, nel modo di pormi. Sarebbe come chiedere a De Andrè le differenze tra lui e Venditti. Sicuramente io credo davvero nell’energia collettiva, nell'empatia come corrente di pensiero. Credo di essere a mio modo, in maniera molto umile, il portavoce di un movimento basato sui deboli che si sono fatti coraggio. Di quanti dimostrano che dal piangersi addosso non nasce niente e quindi si rimboccano le maniche. Forse la differenza tra me e gli altri è che mi prendo troppo sul serio e gioco poco col rap. Ma non lo posso dire io. Parlando delle mie aspettative sul futuro, mi piacerebbe avere sempre più riscontro popolare e riuscire ad essere apprezzato come artista, oltre che come persona dietro l’artista.

"Sicuramente io credo davvero nell’energia collettiva, nell'empatia come corrente di pensiero."

Vorrei invece chiederti qualcosa riguardo a Vita Vera - Story. Com’è stato per te esternalizzare con immagini, invece che con i versi, la tua storia e com’è stato vedere una terza persona raccontare la vita di Tedua?
Per me che sono un neofita del campo, seppur un appassionato, è stato un onore e un piacere la chiamata con Luca Ward: lui ha registrato in diretta con me al telefono tutta la lettura, apportando correzioni e confrontandoci con la massima umiltà. Dicendogli, “Scusa se mi permetto, non sono un esperto”, ho cercato di direzionare le sue competenze su Pulp Fiction e Sleepers. Quest'ultimo, in particolare, è un film che mi ha fatto vedere mia madre da bambino ed è il motivo per cui ho scelto Luca Ward, perché è il suo doppiatore preferito e perché lei mi ha fatto vedere questo film, che non andava fatto vedere a un bambino. Mi traumatizzò, ma in positivo. Poi ho scoperto che Luca Ward era stato anche la voce di Sandy Cohen, padre di Seth Cohen e Ryan Atwood su The O.C.. Praticamente un cerchio che si chiude, arricchito di aneddoti riferiti all’infanzia, anche volutamente sconnessi tra di loro. C’era un valore affettivo e persino una sorpresa a mia madre, grazie alla voce di Luca.
È stata un'esperienza molto bella, che mi ha fatto approcciare al mondo del doppiaggio e della dizione partendo dai professionisti.
Per quanto riguarda la scrittura, l’ho scritto interamente io. Una pazzia, dalle 6 del mattino alle 10 del mattino, tutto il copione in una take. Sono poi andato a dormire, mi sono svegliato, l’ho riletto, ho messo a posto letteralmente due virgole e inviato così. Luca Ward non ha corretto niente e quindi sono stato felice che, senza essere un classicista e con i miei vuoti culturali, io sia riuscito a scrivere un cazzo di copione da far leggere a un professionista.

Interagisci molto con i tuoi fan. Quando condividi le tue riflessioni, e dici che ti senti un assistente sociale, alla fine è bello. Ma perché lo fai? Senti di doverlo fare?
Non c’è assolutamente nessun calcolo, ma solo l'istinto dettato dalla mia indole caratteriale, probabilmente ricollegabile alla mia propensione al dialogo. Nella vita sono stato comunque sempre in contesti sociali dove fanno parlare tanto i giovani. Quindi la mentalità dell’educatore e quella dell’oratorio, del recupero sociale e dei servizi sociali mi è rimasta. Ad ogni modo, in pratica utilizzo Instagram come un vero e proprio diario pubblico a cui hanno accesso anche i membri della mia famiglia, i miei compagni di classe.

Tedua

Anche l’immaginario dell’artwork di Vita Vera e Vita Vera, Aspettando la Divina Commedia è interessante. Come l’avete realizzata?
Si tratta di un lavoro che riguarda direttamente la Divina Commedia e l'incontro con la Lupa, una prima copertina disegnata da Federico Merlo e la seconda da Domenico Formichetti, che ha curato anche i font. Ci siamo toltalmente ispirati a Gustavo Dorè, che per me è stato il migliore illustratore dela Divina Commedia della storia. L’artwork dell’album sarà ancora più sostanzioso ma citare Dorè è la cosa più figa che potevamo fare: è stato bello e sono fiero di aver creato questo team.

Nel 2015 scrivevi " Dopo diciotto anni chi scrive poesie / O è un poeta o è un cretino / Ed io ho scelto di fare il cantante ". E nel 2020 canti " Guai se il presente poi giudica il passato / Perderà il futuro lungo il tracciato / Io non mi volto indietro / Ma non scordo chi ero ". Come riassumeresti questi 5 anni?
Hai beccato le uniche due citazioni che io abbia praticamente mai fatto. La prima è di De Andrè che diceva che chi scrive poesie dopo i ventanni o è un poeta o è un cretino, a cui ho aggiunto: “Ed io ho scelto di fare il cantante”, mentre la seconda è di George Orwell, “Se il presente giudica il passato, smarrirà il futuro”, che io ho rielaborato e messo in rima.
Io sono solo all’inizio del mio percorso e quello che ho spiegato è questo: nella giungla urbana, cioè nel basso proletariato e nella classe media, c’è questo figlio della giungla cresciuto dovendosi arrangiare perché privo di un nucleo familiare saldo. E più diventa uomo, più si sente superficiale e vuole tornare animale. Quest’uomo esce dalla giungla urbana, ma rimane in un panorama naturale, forse ispirato dalla natura della Liguria, e il suo peccato lo trasforma in uomo civilizzato. L’artista diventa borghese e ottiene successo, entrando nel mondo del pregiudizio e dei benestanti, dove analizzerà tutti questi peccati—un'anima dannata.


Tutto questo si compie attraverso il mio viaggio tra l’Inferno e il Paradiso. Quando arriverò al Paradiso, se ci arriverò, ritornerò a vedere le stelle ed evolverò. È come quando l’artista intravede il compimento della sua carriera, mantenendo un patto con se stesso ma senza perdere il brio dell’arte e la soddisfazione, proprio in termini di coscienza musicale. Ho divagato un po' scusami, ho metaforizzato gli ultimi cinque anni tramite la musica che sto per fare. Quel che è successo è che non sono cambiato, ma sono cresciuto. Non ho perso il talento ma anzi l’ho affinato. Non ho perso la voglia di fare musica o dimostrare chi sono, perché comunque rimane sempre un grido di battaglia fare rap: per dire "Ci sono anche io". E io ci sono eccome.

Vorrei parlare di "Colori". Tra i pezzi fatti insieme a Rkomi è forse il più intimo. Com’è il vostro rapporto, oggi?
Noi siamo amici da una vita, abbiamo fatto nove capodanni di fila insieme e grandi esperienze. Siamo simili perché entrambi sensibili e profondi, empatici e grandi osservatori. Ma diversi perché lui è più introverso e io più estroverso, quindi in un certo senso io sono anche più esibizionista e lui è più pacato.
Anche musicalmente siamo simili, sempre per un'attitudine al conscious rap. A me piace anche la roba un po’ più hip hop war star, i neri armati nei ghetti che rappano coi flow nuovi, ma per il resto devo dire che ci piacciono proprio le stesse cose: Dargen D’Amico, Ghemon e Guè Pequeno, quell’esercizio di stile concettuale nel rap con la metrica.
Quello che è cambiato nel nostro rapporto è che abbiamo una vita diversa rispetto a prima, non siamo tanto cambiati noi quanto la vita che facciamo; quando Mirko e io stiamo assieme in realtà è tutto uguale a prima. Siamo due amici che si perdono un po’ per colpa del lavoro, che hanno litigato a ventuno anni perché il successo ci è arrivato in faccia come uno schiaffo ed eravamo molto spaesati, quindi abbiamo rischiato di mettere i nostri interessi di fronte alla nostra amicizia... però poi questo è servito a rafforzarla. È una cazzo di amicizia sincera, avevamo un legame troppo forte già da prima del successo per perderlo. E io sono veramente felice per lui, perché il suo è un successo e una gioia sinceri e lui è felice e soddisfatto, ha superato i suoi demoni. Per me l’essere real è tutto e Mirko è real.

"Quella tra me e Rkomi è una cazzo di amicizia sincera, avevamo un legame troppo forte già da prima del successo per perderlo."

Recentemente ho rivisto La Nuova Scuola: Genova Drill con Tedua. Genova si fa sentire forte e chiara anche adesso , tra artisti e feat. Vuoi parlarcene?
Io sono assolutamente abituato a lavorare con Ill Rave, Vaz Tè, Bresh, Guesan e IZI così come con Disme e Nebbïa, e loro continuano a crescere di anno in anno. Soprattutto Bresh direi che ha molte sorprese in ballo. Ill Rave è una mina vagante, è un ragazzo che stiamo settando perché ha tante vicende a cui badare in strada, ma quest’anno ha intenzione di fare sul serio. Per Disme vale lo stesso discorso, sta per fare un disco e non passerà inosservato. Comunque, mi sono trovato bene perché i ragazzi spaccano e anche se non sono famosi come me, in studio non sono assolutamente dei perditempo o delle palle al piede. Riguardo Genova, devo essere sincero, non scendo da Natale, però tra poco tornerò e rimarrò un mese. Ma è da troppo che manco, non so dirti come la vedo. Sono stato troppo distante.

Come ti sei sentito all’idea di fare “Puro Sinaloa” in Gemelli di Ernia?
Dal mio punto di vista è stato facile: ci siamo incontrati con Ernia, credo per il live di Lazza, e mi ha detto che aveva in mente questo progetto. Al che ho risposto che volevo proporgli di partecipare al mio mixtape. Dopo mi ha semplicemente mandato la base su WhatsApp, dicendomi “Spacca il beat”. Tre giorni dopo io gliel’ho spaccato.
Ho iniziato la strofa con “Allerta sempre”, ma anche Rkomi l’aveva iniziata così. Allora ho fatto un'entrata diversa, che alcuni non hanno apprezzato, ma perché faccio cinque rime così, subito in una quartina. Quindi sono uscito dai soliti canoni, però perfettamente a tempo sul metronomo. Ad ogni modo, non ho badato alla responsabilità altrimenti non l’avrei scritta, ho badato più che altro all’onore che mi dava poter compiere questo gesto. Questo è il punto saliente su come ho affrontato il lavoro. E sicuramente è stato più facile farlo, che pensarlo o promuoverlo.

Tedua

Nei titoli dei mixtape ricorre sempre la parola "Aspettando". Cosa aspettavi nel 2015 e cosa stai aspettando adesso?
L'ho ripetuto perché la formazione vincente non si cambia. Mi verrebbe da dire che la figata è creare un audience e quello che la gente si deve aspettare è la fine del pasto. Io, insieme all'"aspettando" preparo sempre un'entrée, un antipasto e forse un assaggio di primo... tuttavia manca il secondo, il contorno, dessert, frutta, caffè, ammazzacaffè e lo sconto sul conto finale. Mi aspetto quindi di fare un’estate in cui mi arrivi l’illuminazione e di riuscire a stupire me stesso per l’ennesima volta, anzi, un’altra volta ancora.

In "Lingerie" cantavi:“Roccia, sto col Rkomi, segna Calvairate / Faccio un salto a Nord-Est che Ciny è ospitale”. Non si sapeva ancora, ma da lì vi sareste presi Milano nel giro di qualche anno. Chi di voi ci credeva di più?
Il più consapevole era Sfera, indubbiamente. Abbiamo due anni di differenza, lui è del 1992 e io del 1994, quindi quando io ero un moccioso di vent’anni il fatto che lui ne avesse ventidue lo rendeva comunque più saggio. Se devo dare un ordine di chi ci credeva di più: Sfera, io e Mirko. Rkomi assolutamente non lo sapeva. Io iniziavo ad esserne consapevole perché, cazzo, spaccavamo. O meglio, eravamo bravi tecnicamente, ma finché non c’è stato il successo di "Lingerie" non ho avuto nulla di concreto in mano.

"Eravamo bravi tecnicamente, ma finché non c’è stato il successo di 'Lingerie' non ho avuto nulla di concreto in mano."

Cosa ne pensi del meme “Il 2020 è il nuovo 2016”?
È bello giocare con questo meme, l’ho fatto anche io. Ma quell'anno è stato irripetibile. Possiamo intendere il 2020 come inizio di un nuovo decennio. Tutti quelli che hanno fatto parte del 2016 quest’anno escono con l’album o mixtape. Quindi da una parte è corretto dirlo, non è però così se vogliamo essere fiscali. Se non ci fosse stato il Coronavirus sarebbero già usciti il disco di Sfera, di Capo Plaza, Guè sarebbe uscito prima, sarebbero state diverse tante cose. Si spera che questo strano "2016/2020" prenda vita da settembre in poi, con la chiusura dell’anno. In compenso, fare un estate senza tour mi permette di focalizzarmi tanto sul lavoro e riprendere la lucidità che la vita da tour spezza.

E del tuo prossimo album cosa puoi dirci?
Lo sto finendo ancora... Dante c’ha messo tanto per fare la Divina Commedia e l’album se fosse già pronto invecchierebbe. Poi voglio fare musica e non voglio badare alle tempistiche hip hop.

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L'intervista a Gué Pequeno Su 'Mr. Fini'

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Gué è tornato con Mr. Fini ed ha ribadito la sua importanza per la scena con una facilità strabiliante, per un rappresentante della "vecchia" scuola. I suoi pezzi, e la sua sola presenza, continuano a fare risultati enormi, views dopo views, mentre ogni sua dichiarazione colpisce i media e i fan come nessun altro.

È la forza di un musicista che ormai rappresenta appieno il rap italiano, ma che nessuno della nuova scuola riesce a smuovere di un millimetro dalle altezze che ha raggiunto. In molti lo criticano perché tratta sempre gli stessi temi, eppure pochi come lui sono curiosi e amano confrontarsi con stili e musiche diverse, da una parte all'altra dello scibile musicale—basta pensare a "Dem Fake" con il feat di Alborosie, tanto per dirne una del nuovo album.

E oggi che i suoi nuovi pezzi stanno di nuovo girando la conferma si fa chiara e palese, visto che praticamente nessuno che segua il rap è riuscito a non esprimere almeno un commento sul suo disco e sulla sua persona. È la forza delle sue rime, sempre in bilico tra il racconto cinematografico e la strada, la sincerità biografica e l'esagerazione narrativa, che rendono difficile sfuggire al suo fascino.

Tuttavia, al di là delle prime e più superficiali impressioni, Gué dimostra di avere un modo tutto suo di gestirsi la fama e il successo, il rapporto con i soldi e con i fan. E persino quella che è stata la sua infanzia, tra sbronze in Venezuela e amore per l'arte. Fino ad arrivare a oggi, con un rapporto con proprio idilliaco con i social e con il modo di gestire la propria carriera dei più giovani della nuova scuola. E per capire cosa questo significhi potete guardare il nuovo episodio di Noisey Personal qui sopra.

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'Mentale strumentale' è il disco "perduto" dei Subsonica ed è anche il migliore

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Ci sono cose che noi di Italian Folgorati non capiamo, alcuni comportamenti tipicamente italiani che vengono applicati al mondo della musica in maniera singolare. Ad esempio, le parole "genio", "genialoide", "geniale" spesso sono usate a sproposito, in situazioni e a riguardo di personaggi che di geniale hanno solo il fatto di esserlo considerati.

Faccio queste premesse perché è uscito da qualche tempo il nuovo album dei Subsonica e ho già letto in giro la parola spesso associata a Einstein. Non posso d'altronde nascondere che non ho mai capito come abbiano fatto i Subsonica ad avere tanto seguito: le loro canzoni mi hanno sempre dato l'idea di un'ispirazione dettata dal timbro al cartellino.

Subsonica Mentale strumentale
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Non si salvano, secondo il mio parere, neanche le collaborazioni con gente come Bluvertigo, i Krisma, i Righeira, la cui scrittura, sicuramente più interessante anche quando è meno ispirata, viene fagocitata e annullata dall’enfasi sull'"attualità a tutti i costi" dei Subsonica. I quali, sempre attenti alle tendenze e avvezzi ai feat, non si fanno sfuggire neanche una moda per infarcire i loro dischi e fanno video accattivanti per il mondo dei, più o meno, giovani alternativi.

Insomma, queste tendenze implicano che i Subsonica siano sempre stati inclini al giovanilismo, cosa che si spiega già nel vedere Samuel con il suo microfono doppio e ti spingeva a chiedere perché non usasse semplicemente un pedale stereo per effettarsi, e idem con il reggi-tastiera di Boosta trasformato in una roba a molla. Per come la vedo io, insomma, si trattava di un gruppo commerciale, senza se e senza ma.

Per come la vedo io, insomma, i Subsonica erano un gruppo commerciale, senza se e senza ma.

Il fatto che i nostri abbiano ricevuto un sacco di premi non ha fatto poi altro che chiudere gli occhi ai loro estimatori rispetto al fatto che Samuel e Boosta, agli esordi, suonassero in un gruppo come Gli amici di Roland. Un gruppo che girava sì l’Italia, ma a suonare cover di canzoni di cartoni animati, con l'idea di suonare trash e renderle in versione rock e ska.

Giusto Max Casacci aveva credibilità indipendente essendo fuoriuscito dagli Africa Unite, mentre Pierfunk era uno studente del CPM di Milano, e in pratica un session man, e lo stesso discorso può valere per Ninja, che suonava la batteria con la Vanoni. Certo, la gente cambia pure nella vita, non c’è dubbio, ma il background rimane importante.

Subsonica

Vedere improvvisamente i Subsonica da perfetti "boh" a blasonata band"alternativa" ai tempi mi lasciò quantomeno sospetto. Ma all’epoca essere alternativo significava anche rischiare di fare pochi soldi, ragion per cui una certa coerenza c’è.

Dunque vi chiederete, "Se non ti piacciono i Subsonica per quale motivo ne stai parlando?", eh, perché è uscito il loro ultimo album, che però non è ultimo per niente e risale anzi al 2004, benché non sia mai stato pubblicato prima. E la cosa strana è che forse, a tutt’oggi, si tratta dell’unico disco secondo me fico della band: Mentale strumentale potrebbe quindi ribaltare il mio giudizio musicale sui nostri amici torinesi?

'Mentale strumentale' potrebbe quindi ribaltare il giudizio musicale sui nostri amici torinesi?

Be', Italian folgorati sta per dirvelo, vediamo insieme se la strada di Damasco è vicina… Allora, innanzitutto, questo disco è incredibilmente lontano dalle solite cose dei Subsonica. Primo: non c’è la voce di Samuel che io trovo insopportabile, la ritroviamo solo come come campione deformato all'interno dei brani; secondo: non ci sono i testi finto intellettuali e tutta quella retorica enfatica della "canzone".

Si tratta invece di un flusso di elettronica completamente improvvisata che a volte ricorda il krautrock, altre volte gli unici Radiohead sopportabili—almeno dal sottoscritto, ovviamente—, quelli Warp oriented di Kid A e Amnesiac. A volte, invece, sembrano semplicemente i Subsonica che finalmente non recitano la parte dei Subsonica: e non a caso le mode o le ultime tendenze non trovano posto in questo lavoro.

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Che, udite udite, venne presentato alla Mescal allo scopo di chiudere un contratto che richiedeva altri due album a conclusione del ciclo, ma venne invece rifiutato perché considerato "un disco di soli rumori". Una cosa del genere, però, normalmente la farebbe una major, non un’etichetta indipendente come la Mescal e la questione si "risolverà" poi con una situazione piuttosto spiacevole, ma soprattutto con l’incisione di un disco che non ha visto la luce manco di striscio fino a poco tempo fa.

Poi ecco la pandemia e il 2020, ecco la quarantena: i Nostri vanno a ritroso e capiscono quanto questo disco ora abbia senso, visto che stanno tutti chiusi nel loro micro universo. E quindi lo pubblicano, facendo probabilmente la cosa migliore della loro carriera.

"Come noi moltissimi altri artisti hanno capito che questo è un momento in cui bisogna andare a porre le basi per il futuro"

Ora, non so quanto i Subsonica si siano confrontati in merito, e dalle interviste non risulta del tutto chiaro, ma, affermazioni come "Io credo che gli artisti, proprio per definizione devono essere liberi, un artista che non è libero fondamentalmente non è un artista" sono fuori fuoco. Proprio perché loro stessi non sono stati liberi di pubblicare quel disco all'epoca, e per paradosso non dovremmo considerare neanche loro come degli artisti.

Con la questione della quarantena che rallenta il tempo e che permette di andare oltre le scadenze solite e la velocità della produzione d'oggi, i Nostri hanno trovato il modo per pubblicare il loro disco "ambient", in una situazione in cui più che arrestare la produttività, non si sa proprio di cosa parlare e di cosa scrivere. "Come noi moltissimi altri artisti hanno capito che questo è un momento in cui bisogna andare a porre le basi per il futuro," hanno detto.

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"Adesso abbiamo tempo a disposizione, mentre prima si era ingabbiati nelle dinamiche di consegne, di scadenze, di tour, invece questo tempo che si è liberato fra le nostre mani è molto importante per scrivere la musica del futuro. Era giusto quindi raccontare quelle parti più nascoste di un gruppo come i Subsonica." Il che, vedendo pubblicato un disco del 2004, sembrerebbe invece un’ammissione di futuro inesistente.

Ad ogni modo, ragioni della pubblicazione a parte, Mentale Strumentale è in effetti un grande disco. Già da "Decollo - Voce Off", col suo sintetizzatore vocale, si sentono echi degli anni Settanta di Alfredo Tisocco, così come dei reverse battistiani incastonati in fumi quasi Autechre solcati da rumore bianco.

Ad ogni modo, ragioni della pubblicazione a parte, Mentale Strumentale è in effetti un grande disco.

Rumore che non è tale da fare però sparire le melodie, che rimangono prominenti. In "Cullati dalla tempesta" ci sono infatti afflati post rock tra mallets, chitarre elettriche e tempi dispari, con voci che ritornano indietro alle linee pitchate del Battiato di Pollution.

Gli algidi scenari digitali di "Artide 3 A.M." trovano una collocazione tra gli strumentali degli Orchestral Manoeuvres in the Dark e le produzioni Mego che passano a citofonare sotto casa di Brian Eno. "A Nord di ogni lontananza" sperimenta invece con percussioni di ogni tipo, e finisce per assomigliare a un incrocio tra i Melt Banana nei pochi momenti in cui fanno dub e le colonne sonore di Carpenter che incontrano i Tortoise.

Subsonica

"Detriti nello spazio" ha invece aperture quasi prog, nella grande tradizione italiana "dilatata", con la sua chitarra acustica, gli effetti elettronici e alcune citazioni che sembrano provenire ancora una volta dagli Autechre—in particolare la sirena stile "Basscadet". In questo senso, "A di addio", con le sue partiture corali, ci porta a sensazioni da 2001 - Odissea nello spazio, come anche "Tempesta solare", che sembra una citazione dei Pink Floyd masoniani di Ummagumma, dotata di percussioni spaziali che poi passano quasi al glitch, con un groove di bassi subliminali che non si è mai sentito nei loro dischi in maniera così "funzionale".

Il sospetto che il disco sia stato ispirato in maniera massiccia dalle libraries italiane e dalle colonne sonore anni Sessanta e Settanta è stato confermato da Boosta in varie interviste. Ma anche solo ascoltando "Delitto sulla luna" questo diventa chiaro, visto che sembra quasi un'outtake del Morricone in zona Petri, quello più oscuro e dilatato—compreso quello sintetico de La cosa.

Il sospetto che il disco sia stato ispirato in maniera massiccia dalle libraries italiane e dalle colonne sonore anni Sessanta e Settanta è stato confermato.

"Strumentale" flirta invece con le linee melodiche del Battisti di "Io gli ho detto no" e con l’elettronica frammentata e le voci filtrate che sanno molto di Gianna Nannini durante il periodo "Uccelli", in linea con gli skip plunderphonici presenti anche in "Rientro in Atmosfera", l’ultimo capitolo in un contenitore che occhieggia tanto all'Aphex Twin di Melodies from Mars quanto ai Plone. Citando chiaramente un viaggio stellare che si risolve nel più classico dei ritorni sulla terra, sembra che il titolo sia stato messo solo recentemente, in pieno Covid.

Tuttavia, è chiaro che nelle sonorità non c’è nulla di recente o contemporaneo. Il tutto suona come un prodotto che già nel 2004 sarebbe sembrato per alcuni versi già sentito, contenente anche sonorità tipiche della formazione e usate in precedenza.

La cosa bella e il motivo ulteriore di interesse però sono proprio questo suo suonare inattuale, finalmente. Il gusto di suonare per il semplice suonare, senza obiettivi in testa e grazie a un metodo di turnover tra i musicisti, che interagivano tra moltissimi strumenti in sala, elettronici, elettrici ed "etnici", registrando a sensazione, senza badare troppo alla tecnica o ai rispettivi ruoli codificati all'interno del gruppo.

Sebbene continuino a dire che la band originariamente sia nata come "sperimentale"—e sappiamo che non è proprio così—siamo tuttavia finalmente d’accordo. Nel senso che da oggi i Subsonica potrebbero diventare sul serio un gruppo, se non proprio sperimentale, quantomeno di libera "ricerca".

Da oggi i Subsonica potrebbero diventare sul serio un gruppo di libera "ricerca".

Perché se è vero che la pandemia ha cambiato tutto, ora li aspettiamo sul terreno di questo tanto strombazzato cambiamento. Non sarà geniale, certo, ma il disco è senza dubbio davvero bello, una sensazione che mi avevano dato in precedenza solo con "Preso blu", una grande canzone degna di rimanere nella storia. Speriamo quindi che questo "Decollo" avvenga per davvero, non vorremmo davvero subire un brusco "Rientro in atmosfera".

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Abbiamo chiesto a Frah Quintale di mettere in classifica i suoi pezzi più importanti

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Fa talmente caldo che il mio cellulare si è spento tre volte a causa della temperatura elevata, ma pareggio la figuraccia grazie alla connessione di Frah Quintale che gioca qualche brutto scherzo. In un modo o nell’altro riusciamo a portare a casa l’intervista, benedetti anche dalle campane delle chiese che suonano di sottofondo e dai bei video in anteprima per noi delle sessioni in studio che potete ammirare in accompagnamento all'articolo, video peraltro realizzati e montati da Frah Quintale stesso presso l'UndamentoHQ.

“Non saprei proprio dire cosa è meglio o peggio, mi manda un po' in sbatti,” mi dice Frah Quintale a riguardo della lista che gli ho chiesto di stilare. “Quindi ho fatto una classifica temporale di pezzi importanti che hanno cambiato delle cose. Canzoni selezionate pensando al mio percorso artistico fin qui, che mi hanno portato alla pubblicazione di 'Banzai (Lato Blu)'”

specificando che i 10 pezzi sono stati selezionati da Frah più pensando al suo passato e al suo percorso artistico, percorso che lo ha portato alla pubblicazione del suo nuovo lavoro "Banzai Lato blu, di cui ha deciso di menzionare un solo brano

"Adesso che ho un po' più di occhi addosso, c’è l’ansia di fare bella figura, è normale. Ma il segreto del fare musica bella è essere contenti in primis di quello che si fa."

Frah è a Milano nella sua nuova casa, è uscito il suo nuovo secondo album Banzai (Lato Blu) ed è contento, mi dice. Adesso è più rilassato, ma solo “un pochino di più, perché manca ancora mezzo disco da uscire e se mi rilasso non si fa più un cazzo,” se la ride.

Frah però sembra essere riuscito a dominare l’ansia da prestazione e tutte quelle paranoie giustificate che assalgono gli artisti alla vigilia del loro secondo lavoro in studio: “Adesso che ho un po' più di occhi addosso, c’è l’ansia di fare bella figura, è normale. Quindi sì, c'è un po' di pressa, più che altro nelle aspettative degli altri,” mi dice. Però mi svela anche il suo trick per non viversela male: “Alla fine mi son detto di fare robe come piacciono a me, perché il segreto del fare musica bella è essere contenti in primis di quello che si fa. E così ho cercato di fare, senza la sbatta di cercare di dover accontentare tutti”.

Banzai (Lato Blu) ha il colore di Blue Note, come le copertine jazz col filtro blu che gli piacciono tanto, ed è “blue” anche nel mood un po’ malinconico. “È un disco molto più personale rispetto a Regardez-Moi, che rispecchiava la musica italiana di quel momento, mentre Banzai è proprio il mio viaggio, e non solo per le ispirazioni alla black music, R&B, ecc., ma proprio perché è la musica che mi piace fare e che facciamo noi,” mi spiega quando gli domando della svolta stilistica dell’album.

Che poi, ultimamente si parla molto di R&B in Italia, gli faccio notare, “Semplicemente perché stanno arrivando delle cose che seguono questo filone, sta prendendo piede,” risponde. “A volte le cose devono sedimentare, devi dirlo nelle interviste così che la parola salti fuori e la gente possa dire ‘ah adesso è R&B la cosa che va’. Secondo me l'Italia funziona molto come un condominio per quel che riguarda la musica. E poi c’è la corsa a voler dire di esserci arrivati per primi.”

"In Banzai (Lato Blu) c'è un botto questa roba della ciclicità e della rinascita, anche dell’utilità dei momenti di merda. Ci ho ragionato un sacco."

Il disco comunque ha un taglio molto personale anche nel concept: nato dopo tre anni dal fortunato debutto, è il traguardo di un percorso a ostacoli tra cambiamenti, “sbatti”, traslochi, un successo che se non stai attento ti fa sbroccare, tour e tutte le implicazioni del caso di quando da regaz della strada diventi, all’improvviso, Frah Quintale, “quello del Graffiti Pop”. Ma come la saggezza popolare ci insegna, a volte dobbiamo perderci per ritrovarci e metabolizzare i cambiamenti, ed è proprio quello che è successo: “Nel disco c'è un botto questa roba della ciclicità e della rinascita, anche dell’utilità dei momenti di merda. Ci ho ragionato un sacco, così come sulla pressa e le tappe obbligate di cui parlavo prima. Fa tutto parte della crescita interiore”.

Una domanda mi sorge spontanea: “Di che segno sei, Frah?”, “Capricorno,” mi risponde. Come sospettavo dalla sua attitudine al lavoro sodo e dal suo orientamento naturale verso la qualità, e dal modo di prendere di petto i momenti bui, ma soprattutto dalla sua calma—che, non a caso, è anche il titolo della sua collaborazione con Deda.

Una pazienza esistenziale che sembra scandire ogni sua scelta artistica, “È proprio una roba di equilibrio: a volte è giusto anche mollare lo studio e andare in giro a sbronzarsi o farsi una doccia. Io invece ho questa cosa che sono mega focused,” mi racconta. “Ma non va bene, a volte servono anche i periodi in cui non fai un cazzo per poi tornare a fare bene. Per questo mi sono sempre preso il mio tempo: quando era giusto uscire sono uscito, quando era giusto non uscire non sono uscito, è mega importante secondo me”.

Prima di passare alla classifica vera e propria dei suoi momenti più significativi, gli pongo la domanda delle domande, chiedendogli in cosa è cambiato dai tempi dei Fratelli Quintale a oggi. “Sono più consapevole di alcune di cose, sono anche più indirizzato al lavoro (taaac, ecco il Capricorno, NdA). Fratelli Quintale è nata come una roba molto più regazness, in garage, invece dalle ultime cose dei Fratelli Quintali ho iniziato a capire quanto sia il caso di indirizzare e curare tutto. Da quel momento, mi è partito il feticcio sull'estetica, la curatela delle copertine, mi sono messo in gioco sotto tanti aspetti. È cambiato anche il mio modo di scrivere, diventato più personale e autobiografico,” per poi rivelare, “Ho mollato anche un po' di machismo che viene proprio dalla delivery del rap e dal fatto di essere una crew, che si deve rappare in un certo modo, si deve dire delle cose. Ho fatto più ricerca su me stesso, che sul mondo che stavo rappresentando”.

"Fratelli Quintale è nata come una roba in garage, invece poi ho iniziato a capire quanto sia il caso di indirizzare e curare tutto. Ed è cambiato anche il mio modo di scrivere, diventato più personale e autobiografico."

Gli chiedo di approfondire questo fatto del machismo, “Diciamo che ci sono dischi di 15 anni fa che se uscissero adesso la gente direbbe che sono bestialità. Ovviamente sono cambiati i tempi, sono arrivati anche altri codici, ma delle cose comunque rimangono, perché le bitches si nominano ancora. Alla fine però fa parte di quel linguaggio e codice, giusto o sbagliato che sia. Non spetta a me deciderlo, però, secondo me, è giusto che ci siano più direzioni, non c'è solo quel modo di fare di fare rap”. Ma, ora, spazio alla classifica.

1. COLPA DEL VINO (2016)

Noisey: Perché proprio "Colpa del vino"?
Frah Quintale: È stata la mia prima uscita solista e ha definito tutto l'immaginario Undamento. Per il video avevamo fatto questa festa e portato tipo 80 macchinette usa-e-getta Kodak che poi abbiamo dato alla gente presente. Il video, infatti, è fatto con le immagini scattate durante la festa e poi scansionate, oltre che con alcune riprese. Dopo ci siamo pigliati bene con questo mondo qua della fotografia analogica. Biagetti (Tommaso, del team Undamento, NdA) ha iniziato a fotografare solo in analogico ed è partito tutto il nostro immaginario. Quindi è stato anche l'inizio di una nostra definizione estetica come collettivo. Poi il pezzo mi gasa, è uno dei miei prefe.

2. GRAVITÀ (2016)

È un pezzo importante perché segna il passaggio dal rappare al “melodico”—anche se già in "Colpa del Vino" c'è il ritornello cantato. Ma "Gravità" è stata la prima roba più vicina al pop, dove ho mollato un po’ il rap. Inoltre, è stata la prima canzone un po' feelings e love, un po' cantato, e per me è stata mega importante.

Secondo te, i fan hanno capito questo tuo dualismo stilistico?
Ci sono vari livelli di ascolto e di ascoltatori. I fan veri che ascoltano e conoscono i pezzi capiscono e gli piace; poi c'è il livello "Ah sì, Frah Quintale, conosco un pezzo" a cui non gliene frega manco un cazzo. Alla fine non è importante cosa si è, ma quel che si fa, cioè se una roba è bella o meno. Io mi sento qualche carta in più da giocarmi, è più figo, è positivo, mi annoio di meno anch'io, direi (ride, NdA).

Con Banzai (Lato Blu) ti sei voluto scrollare un po’ di dosso l’etichetta del Graffiti Pop?
Diciamo che ho un po' sofferto negli anni, almeno da Regardez-Moi, di essere stato messo nel calderone dell'Indie italiano; cosa che, per carità, ha fatto anche del bene al progetto. Però il mio background è totalmente diverso. Ci tenevo a marcare una linea senza menarmela, ma in modo da dire che i miei ascolti vanno più verso la black music. Che poi fa mega ridere che la roba del Graffiti Pop è nata in un’intervista, se non sbaglio proprio per Noisey, in cui mi chiedevano di definire il mio genere e io ho detto tipo “street pop, perché siamo regaz che veniamo dalla strada, però miriamo al pop” e da lì poi è nato Graffiti Pop. Cazzo, fa ridere che è una roba che ho detto in gag e Spotify ci ha fatto una playlist. Dovevo fare il copyright.

3. 8 MILIARDI DI PERSONE (2017)

È stato il primo singolo di Regardez-Moi, che tra l’altro era andato di merda (ride, NdA). All'inizio aveva fatto 800 streaming in un giorno, una roba marcissima, però, appunto, anche in questo caso c'era molto più cantato, iniziava a sentirsi il discorso di fondere il rap con la roba più “suonata”. Poi, forse, è stato anche il primo singolo a fare disco d'oro, se non sbaglio, non sono sicuro. È un pezzo che ha preso vita molto lentamente, ma cazzo è arrivato di brutto, anche a distanza di un anno: alla fine è esploso.

Com’è nata questa storia di unire rap al melodico?
Non so bene, io già un po' cantavo e mi piaceva l'idea. In più, secondo me, sono sempre stato più bravo a cantare che a rappare. Se mi paragono ai miei colleghi, rap-parlando, ho uno stile molto più mio e definito, perché fuori da certi stilemi del rap. Col cantato sono bravo, credo di avere una bella voce. La sapevo usare e ho un buon orecchio, e quindi ci ho provato, anche per distinguermi, e ho mischiato i due aspetti. Poi, sinceramente, mi stavo rompendo le palle a rappare e basta, mentre con le melodie puoi fare un botto di robe in più. Mi sembrava che mi completassero.

4. CRATERE (2017)

È stato il pezzo che ha iniziato ad allargare, è brutto da dire, il bacino di utenza (ride, NdA). Un po' di addetti ai lavori hanno iniziato a scrivermi, il videoclip è andato molto bene, c'era questa roba della testa di cartapesta che faceva la sua sporca figura, ed è stato il pezzo che mi ha aperto poi la porta per infilare il pezzo successivo, ovvero...

5. NEI TRENI LA NOTTE (2017)

Forse la roba più figa in assoluto che ho fatto ad oggi, uno dei pezzi a cui tengo di più. È arrivato dopo qualcosa di leggero come "Cratere", mentre “Nei treni la notte” è mega pesante in confronto. È nata da tutto un anno e passa in cui ho fatto avanti e indietro da Brescia a Milano, l'ho scritta in un periodo struggle in cui non mi entrava un cazzo con la musica e non riuscivo a combinare niente. Un momento di frustrazione in un anno un po' sballottato che ha prodotto questo, quasi tutto in freestyle, ho proprio acceso il microfono e registrato al volo. Poi è mega struggente, un po' serenata. Volevo che uscisse anche questo aspetto: "Io sono quello di ‘Cratere’, però vengo dai regaz che si fumavano le stagnole, dai treni, dal bisogno di scappare da un posto per realizzare le proprie cose”. Una bella storia da raccontare, credo.

Questo pezzo ti è servito anche per farti conoscere a 360° e affermare anche una certa “realness” al tuo personaggio di artista?
Sì, poi a volte mi sembra di rompere i coglioni, però penso che sia figo raccontare anche cosa ti ha spinto a fare quello che fai. Io quasi non mi sento neanche un musicista, nel senso che mi piace fare un po' di robe sul versante artistico e la musica, al momento, è la cosa che mi dà più possibilità e mi diverte. Ma se non facessi musica forse starei facendo qualcos'altro di “artistico”.

"Io quasi non mi sento neanche un musicista, nel senso che mi piace fare un po' di robe sul versante artistico e la musica, al momento, è la cosa che mi dà più possibilità e mi diverte."

Poi, immagino che mostrarsi per quello che si è aiuti anche a creare un legame più forte coi propri fan. Penso sia una delle tue carti vincenti, come di Undamento in generale.
Facevamo questo discorso l'altro giorno: uno fa musica e, a una certa, inizia a parlare di sé proiettato come personaggio pubblico famoso, iniziando a fare sempre riferimento all'Io, come a piazzarsi sul gradino più alto del podio. Ci sta, per carità, però magari l’ascoltatore non si identifica più. Invece, personalmente, cerco di vivere una vita il più normale possibile per poterla raccontare nelle robe più semplici. Tanto più che già di mio sono molto riservato, mi faccio molto i cazzi miei, quindi non ho questa brama di successo. Ho sempre cercato di mantenere i piedi per terra e di pensare in primis alla musica, perché non voglio che un po’ di attenzione in più stravolga la mia attitudine. Bisogna rimanere se stessi, senza snaturarsi e rimanere limpido il più possibile.

6. SI, AH (2017)

È un pezzo su cui nessuno aveva scommesso. Per quel periodo sembrava assurdo che un pezzo così potesse funzionare. Per noi era quasi un filler del disco, però aveva già un po' di sonorità che andavano verso la roba black che mi piace, come la batteria alla J Dilla. Questo brano ha fatto tanto per aprire un'altra piccola porticina sulla roba black che mi piace. È un pezzone secondo me, anche se alla fine parla di scopare, però in modo figo, cioè è tenero e non greve.

7. 64 BARS (2018)

È un pezzo che ha fatto tanto gioco per potermi tenere legato anche al rap, che resta qualcosa che mi piace ancora fare un botto, a cui tengo tantissimo. Non pensavo che una roba così di 64 barre, con tutta la strofa rappata, potesse piacere, e invece live la cantano tutti.

Come è nata la collaborazione con Bassi Maestro?
Con lui ci avevo già collaborato, aveva mixato un disco dei Fratelli Quintale, quindi già ci conoscevamo. È stato figo anche perché questo pezzo, credo sia stata l'ultima roba rap italiana che ha fatto prima di cominciare il progetto "North of Loreto". Poi Bassi è stato per me un padrino: il primo pezzo rap italiano che ho sentito è stato "Giornata di Cazzeggio" e quindi è stato mega-sogno, per me, lavorare insieme. Se ripenso alle note audio in “Lungolinea”, sono il frutto di anni di ascolto dei dischi rap italiani in cui Bassi era un capo a fare ‘ste robe degli skit, con Sano Business, era figo.

Bassi è stato per me un padrino: il primo pezzo rap italiano che ho sentito è stato 'Giornata di Cazzeggio' e quindi è stato mega-sogno, per me, lavorare insieme.

Ha aiutato a darti, concedimi il termine, la “street credibility” necessaria per restare legato alla scena rap?
Sì, sì. Comunque già venivo da un collettivo, i Fratelli Quintale, ma questa roba con Bassi, in un momento in cui stavo facendo della roba un po' più indie/pop, è stata come la famosa mano sulla testa per dire "lui, comunque, è dei nostri". Lavorare con Bassi è come dire che c'è del supporto anche da quella scena, è stato importante per me.

8. 2% feat. Gue Pequeno (2018)

In realtà è un pezzo del Guè, io non è che ho fatto tanto, però è una bella collaborazione, proprio perché non è il classico feat. dove chi viene ospitato sul pezzo fa o la strofa o il ritornello. Io ho cantato dei cori che penso abbiano fatto tanto per questo pezzo, l'hanno aperto un po' musicalmente. In più, Guè è un altro di quelli che ti mette la mano sulla testa, un sogno della vita che si è avverato. Per me Mi Fist, ma i Club Dogo in generale, sono stati proprio la mia adolescenza, quindi quando mi hanno chiamato ho corso, mi sono gasato. Guè in studio è stato mega friendly, uno che lascia un botto di spazio a chi chiama, proprio un signore. Poi è uno dei pezzi più ascoltati di Sinatra, quindi mega soddisfazione.

9. MISSILI feat. Giorgio Poi (2018)

Perché ha fatto di brutto, cioè "instant blessing". Poi, vabbè, collabo con Giorgio, un artista che stimavo un botto, ma che non avevo mai beccato benché poi siamo diventati molto amici. È un singolo che ha avuto una vita lunghissima, è stato anche ritirato fuori con Summertime di Netflix, e ha fatto molto anche per me, aprendomi un botto di porte anche a livello di attenzioni e visibilità.

Come è nata la collaborazione?
In quel periodo mi divertivo a fare anche l’autore ed è successo che Takagi & Ketra avevano chiesto di me ai regaz di Undamento e quindi abbiamo organizzato una session. Arrivo in studio e mi fanno sentire ‘sto pezzo fatto da Giorgio Poi, con solo la base e il ritornello. Era una bomba, mi ha gasato. Il giorno dopo mi hanno chiesto di tirare fuori qualcosa su quel pezzo e ho fatto le strofe di "Missili": le registro, parte il pezzo, lo ascoltiamo, strofe, ritornello, le nostre due voci che cambiavano, davvero molto figo. Ci siamo guardati e ci siamo detti "Vabbè, ce lo teniamo noi questo pezzo". Sono mega contento della scelta.

"Ogni pezzo è importante, soprattutto per me che viaggio in questo spazio che non si capisce bene se pendo di più da una parte o dall’altra, ti dà un equilibrio su cui camminare."

Come “Chapeau” con Carl Brave, “Missili” è stato un momento importante per consolidarti nella scena It Pop?
Sì, assolutamente, in modo diverso perché "Chapeau" era una roba più di Carlo e del suo disco, mentre "Missili" mi ha ridato equilibrio dall'altra parte, quella indie/pop. Ogni pezzo è importante, soprattutto per me che viaggio in questo spazio che non si capisce bene se pendo di più da una parte o dall’altra, ti dà un equilibrio su cui camminare. "Missili", in un momento in cui avevo fatto un "2%" e un "64 Bars", mi ha rimesso in moto anche dall’altra parte.

10. BUIO DI GIORNO (2020)

Secondo me, di Banzai, è quello che cristallizza questa idea di fare il cazzo che voglio, quel che piace a me. È un pezzo molto estremo, anche mia madre quando l'ha sentito ha detto "ma è strano, tutto in falsetto, ma cosa hai fatto?" Però ci sta, era importante farlo perché è stata un'altra piccola porta che mi ha permesso di fare delle robe un po' più matte. È stato un pezzo di rottura rispetto a quello che c'era prima, e per arrivare a questa libertà dovevo passare da un pezzo così. Tra l’altro, la barra "Nascerà un fiore col tuo nome" è un po’ il concept della copertina, in cui ci sono io in mezzo a un botto di fiori e piante.

Cosa significa quella barra?
Vuol dire tante cose, anche mentali. Parla di rinascita, di fare le proprie cose e, per me, richiama il discorso della ciclicità. Ma è anche un omaggio alla barra di Esa che diceva "Coltivo dove tutti hanno detto che non cresce un cazzo" su "Play Your Position" degli Otierre. Per me, è anche una roba di speranza, forse.

"Mi sono ispirato a Thundercat, ma anche al giro Stones Throw che faceva tutte robe cantate così, o anche MonoNeon, un bassista mattissimo."

Com’è nata l’idea del falsetto?
Boh, non lo so, ero in studio, ho fatto ‘sto synth e mi sembrava mega sognante, volevo dare l’idea che fosse una specie di voce della coscienza. Mi sono ispirato a Thundercat, ma anche al giro Stones Throw che faceva tutte robe cantate così, o anche MonoNeon, un bassista mattissimo. Volevo provare anch’io. Mi è uscito prima il testo, poi, appunto, volevo cantarlo in questo modo per dare l’effetto da paranoie in testa e dialogo con se stessi. Era, anche, un periodo che mi uscivano delle robe mega rap e ho voluto provare col falsetto, volevo proprio cambiare. Mi annoio alla svelta e ho sempre bisogno di trovare la robina nuova.

BONUS: LA CALMA prod. Deda (2020)

Con Deda è stato assurdo. C'è questa chat che si chiama "Nomi Matti"—dove, in sostanza, io e alcuni amici storpiamo i nomi dei personaggi famosi e diciamo cazzate, e c'è anche Crookers. Un giorno, mi dice che aveva beccato Deda e che voleva entrare in questa chat. Poi Deda mi ha scritto in privato e mi ha chiesto se volevo sentire dei suoi beat, se volevo farci delle robe sopra e io "Minchia, bro, di brutto, figa" e così me le ha mandate durante il lockdown. Gasatissimo, ho scritto la strofa al volo, ma poi sono passate due settimane prima di mandargliela perché ero in para, proprio mega ansia da prestazione (ride, NdA), tanto che lui mi ha scritto "Non mi hai fatto sapere niente" e io "No, vecchio, ho già scritto, ma ero in para". Gli ho mandato il pezzo, si è gasato, e un giorno in studio ho deciso di buttarla fuori così, che secondo me è figo.

Immagino sia stato pazzesco, per te, collaborare con Deda.
Sì, per me lui è un king, uno degli artisti che più mi ha segnato. Fare questo pezzo è stato un po’ come rendere omaggio a tutta la musica che ho ascoltato e che mi ha portato a fare quello che faccio adesso. Se vent’anni fa mi avessero detto che avrei fatto questa roba, non ci avrei mai creduto. È bello, non pensavo di arrivare a farlo, invece adesso mi ritrovo 40 beat di Deda sul computer, è assurdo, sembrano proprio le cose che ci ascoltavamo da ragazzini. Davvero emozionante, ed è un modo per restare legato anche alle mie radici. Poi, rientra in un discorso più ampio: magari un ragazzo di 15 anni scopre la roba mia da "Missili" e poi si va a sentire questo pezzo e da lì, chissà, va a sentirsi Sangue Misto. È come lasciare qualcosa ai posteri, è bello.

"Ognuno deve essere libero anche di ignorare la musica, non bisogna per forza essere dei cultori di tutto. Però, io sono convinto che aprire una porticina sulle cose del passato fa in modo che si riesca a far comprendere meglio quello che si sta facendo ora."

Quanto è importante, secondo te, conoscere le radici di un artista?
Ognuno deve essere libero anche di ignorare la musica, non bisogna per forza essere dei cultori di tutto. Però, io sono convinto che aprire una porticina sulle cose del passato fa in modo che si riesca a far comprendere meglio quello che si sta facendo ora. Io ogni tanto sto in fissa con i sample, vado ad ascoltarmeli tutti e vedo che magari un pezzo rap hardcore è nato da uno soul anni ‘60. In questo modo capisci un botto, anche della produzione, sotto tanti aspetti. Al di là del discorso dell’omaggio, è importante perché ti aiuta a immergerti completamente in un ascolto nuovo, se sai da dove proviene.

Di Lungolinea (2018) cosa puoi dirmi?
Era una playlist che aggiornavamo su Spotify, dove mettevamo i pezzi, i provini, i messaggi, e che poi si è trasformata nell’edizione speciale di Regardez-Moi. È stato un utilizzo di Spotify inusuale, che abbiamo usato un po' come un social. Alcuni pezzi sono entrati nel disco perché l'ha voluto la gente. Ad esempio, "Accattone" era un pezzo che avevo fatto a caso ma che è piaciuto. È come se avessimo creato uno scambio col pubblico.

Prima di salutarlo e lasciarlo col suo gelato biscotto che, concordiamo entrambi, “è molto Anni Ottanta”, gli chiedo qualche anticipazione sulla seconda parte del disco, questo leggendario Lato Rosso che in realtà non è rosso, mi svela. “Non l’ho ancora detto che colore sarà, però non l'ho nemmeno smentito perché mi gasa il fatto che la gente si sia già fatta il viaggio sul colore. Forse hanno pensato alla storia del Festivalbar che aveva il disco blu e rosso (ride, NdA)”.

"Mi ritengo mega fortunato perché non sento questa roba del bisogno di dover cacciare un disco ogni sei mesi. Secondo me è bello anche aspettare i dischi”

Per il resto non si sbottona, ride e aggiunge solo che deve ancora finirlo. E, soprattutto, vuole pensare a questo disco, lasciargli un po’ di vita, fargli fare il suo tempo, il secondo lato arriverà quando sarà il suo momento.

“Mi ritengo mega fortunato perché non sento questa roba del bisogno di dover cacciare un disco ogni sei mesi per la para di sparire. Secondo me è bello anche aspettare i dischi,” e aggiunge, “sono cambiato in questi 3 anni. Non so se in bene o in male, però è un’evoluzione che ho messo nel disco e si sente. Sono dovuto passare in mezzo a delle porte importanti, e bisogna anche prendersi del tempo per passarci. Quando fai passare più anni tra un disco e un altro, certe differenze le noti e le apprezzi di più”. E comunque “Noi Capricorno ci prendiamo il nostro tempo”.

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Tre dischi per ricordarci che il rap può essere strano

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Da quando i Duemila hanno impattato sul calendario e fatto a pezzi tutti i riferimenti, il Gioco è profondamente cambiato. La prima conseguenza, quella che inizialmente abbiamo considerato come la paradigmatica manna dal cielo, è stata l'abbondanza.

Una cornucopia presa di peso dal mito greco, in grado di sfornare un quantitativo infinito di beni e nutrimenti indefiniti. La distribuzione di tutto questo ben di dio avviene però tramite qualcosa di diverso rispetto a un corno magico, e cioè attraverso internet e i canali del peer-to-peer, o, arrivando ad oggi, grazie allo streaming e alle varie piattaforme che hanno cambiato il panorama delle nostre vite online e offline.

Sono tre album strani, per molti versi storti, problematici e difficili, ma hanno tanti di quegli spunti da costringerci al recupero e a riascoltarli, ancora e ancora.

Player come Youtube e Spotify, tanto per dirne un paio dei principali, hanno alterato radicalmente il modo in cui fruiamo la cultura in generale, e la musica in particolare. Non sono solo l'ascolto, il consumo e la fruizione della musica a essere cambiati, ma l'industria in toto, i media che se ne occupano, voi che leggete queste righe.

La musica ormai è un flusso ininterrotto che fatica a legarsi al qui e ora, che non può che essere spesso dimenticata in tutta fretta, cancellata dalla hit successiva nei programmi di playlist che nemmeno controlliamo. È un vero e proprio overflow, un accumulo sregolato che ci costringe spesso a perderci pezzi e a non approfondire a dovere ciò che potrebbe piacerci col giusto tempo dedicato all’ascolto, quel che potrebbe stimolarci verso nuovi territori o semplicemente incuriosirci.

In mezzo a tutto questo caos, quindi, abbiamo voluto recuperare tre dischi passati un po' in sordina che, a parer nostro, meritano molto di più. Sono strani album rap, per molti versi storti, problematici e difficili, ma hanno tanti di quegli spunti da costringerci al recupero e a riascoltarli, ancora e ancora, in spregio dell’ultima nuovissima uscita del venerdì. Fatelo anche voi, e date loro una possibilità.

PINK SIIFU - NEGRO

Pink Siifu - Negro
Clicca sulla copertina di 'Negro' per ascoltare l'album su Spotify

Livingston Matthews è di Los Angeles e, oltre all'alias Pink Siifu, ha utilizzato un buon numero di altre maschere. In più di un senso, è il punto di partenza ideale per un discorso sullo streaming e su quello che può diventare in veste controculturale.

Tutta quella musica che viaggia sotto ai radar e che non ha avuto modo di esplodere e farsi notare dalle major nemmeno via SoundCloud dei momenti d'oro, qui trova la sua ragione d'essere. Eppure nonostante tutta la sua musica precedente, nulla poteva prepararci all’implosione di NEGRO, una esplicita dichiarazione di politica e poetica musicale.

"Avete il permesso di essere incazzati", aveva scritto su Bandcamp l’autore, e non stupisce dunque che il titolo originale del disco fosse proprio Essere arrabbiati. Perché il disco è proprio la rielaborazione di una rabbia repressa, quella degli afroamericani, che prende una forma totale, l'esplosione delle vene sulla testa di uno pronto a fare un macello.

All'interno, una materia acida e tumescente, un'emozione in decomposizione che infiamma i propri gas grazie a brandelli di punk HC, free jazz caotico e vero e proprio rumore—quasi power electronics a tratti. Sono esplosioni di violenza, emanazioni della propria voglia di rivolta che prendono spunto da decenni di cultura afroamericana e afrofuturista per fare a pezzi le vostre aspettative.

Sembra di ascoltare un rap a brandelli e passato attraverso megafoni, scontri di strada, ritmi degni dell'industrial, vetrine infrante a testate e sfoghi da azionismo viennese, con perle tipo "Devi sparare al porco, prima che il porco ti spari / Il porco spara, noi spariamo", chiaramente dedicate alle forze dell'ordine. Un maelstrom di rabbia che vi spaccherà le orecchie e la testa, il punk rap di cui non sapevate di avere bisogno. E che forse non avrete la forza né il coraggio di ascoltare. Purtroppo.

SahBabii - Barnacles

Sahbabii - Barnacles
Clicca sulla copertina di 'Barnacles' per ascoltare l'album su Spotify

C’è stato un tempo in cui SahBabii era semplicemente uno tra i tanti, di quelli che volevamo prendere la trap di Atlanta per spogliarla di tutti i suoi problemi e ricordarle quanto fosse bello vivere e quanta gioia ci fosse nel mondo. In questo processo, che spesso prendeva le forme della melodia e di testi “leggerini”, qualcosa finiva però per andare sempre storto.

Sarà che dietro a quella gioia esibita si nasconde quasi sempre un groviglio di problemi e criticità socioculturali, sarà che quando ci si confronta con certi suoni bisogna sempre rendere conto a modelli tipo quello di Young Thug, fatto sta che il rischio di essere dimenticati in fretta e cancellati diventa reale.

Eppure, con Barnacles, il ragazzo ha fatto un salto inatteso: ha sbroccato completamente. In generale, si è fatto ben più imprevedibile e ha cominciato a svalvolare sul serio quando ha ricominciato a parlare dei suoi argomenti preferiti, ovvero il sesso e gli animali, tra cui le giraffe e gli elefanti che in “Giraffes and Elephants”, be’, canta di essersi fatto—non giudicate, per piacere.

Alle qualità tematiche dell’insieme possiamo poi aggiungere anche l’augurio di trovarsi una ragazza dalla forma trapeizodale in, ecco, “Trapezoid”, e l’immagine dei sederoni di un ippopotamo, un elefante e un rinoceronte che ballano in “Double Dick”. Insomma, una musica che enfatizza le melodie e la bizzarria sopra al significato vero e proprio, alla ricerca di colori e la giusta dose di follia.

Drakeo The Ruler - Thank You For Using GTL

Drakeo The Ruler
Clicca sulla copertina di 'Thank You For Using GTL' per ascoltare l'album su Spotify

Disco straordinario, che è stato fondamentalmente composto dietro le sbarre e al telefono. Il “GTL” del titolo, difatti, è una compagnia telefonica che gestisce un’ampia fetta delle comunicazioni che avvengono tra le carceri americane e l’esterno.

Il rapper titolare del nome è dentro per un buon numero di accuse e reati, tra i quali tentato omicidio e attività legate alle gang, e si candida, tutto considerato, a degno rappresentante dell’etica ed estetica gangsta in questo strano scorcio di millennio. Ovvero, un individuo legato a uno spazio ben preciso e costretto a ricorrere agli stessi strumenti di quell’autorità che in primo luogo gli ha tolto la libertà.

Senza stare a sindacare sulla fedina penale dell’uomo, o sulla fondatezza dei suoi reati, è però chiaro e straniante che il ricorso allo strumento di controllo si traduce nell’utilizzo di una semplice linea telefonica. Eppure, è più complicato di quanto non appaia.

La compagnia in questione, infatti, è stata accusata a più riprese di una gestione non trasparente dei propri affari e di un’attività di lobbying non proprio in linea con la delicatezza dell’argomento. Anche per questo motivo questo disco è ancora più importante.

Tuttavia, in primo luogo rimane il fatto che è proprio un bel disco, in cui sia la grana vocale distrutta del rapper, che le basi e i beat dal basso profilo, si adattano a perfezione alla materia e alla situazione trattate. E poi perché i continui e obbligati ritorni sonori dei veri messaggi della compagnia—“Grazie per aver utilizzato GTL”—finiscono per diventare una specie di tag che si agita come uno spettro all’interno del lavoro.

Solo che non si tratta della firma di un producer, ma simbolicamente di quella del complesso industriale e giudiziario americano. Che poi a questo richiamo continuo Drakeo risponda con un timbro e una voce quantomai calme è ulteriormente strano e surreale.

Come strana è la tessitura sonora generale del lavoro, e la situazione stessa del rapper, accusato e in attesa di giudizio da diversi anni, ma a quanto pare solo in virtù delle sue frequentazioni, ovvero i suoi fratelli nello Stinc Team. Come se questo disco fosse l’incarnazione definitiva di tutte quelle criticità pregresse che spesso tagliano le gambe e il futuro di tanti afroamericani…

Insomma, è il miglior disco rap inciso dietro le sbarre? Be’, non è da escludere.

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