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Il rap è poesia: intervista a Dutch Nazari

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Dopo aver portato a termine un lavoro, che di solito mi impiega dai 40 ai 180 minuti, normalmente sento la necessità fisiologica di ricaricare corpo e mente con momenti di riposo lunghi circa il doppio. Pensando che tutto il mondo avesse i miei stessi problemi di stress e recupero delle energie, ho intervistato Dutch Nazari al termine del suo Ce lo chiede l’Europa Tour, lungo più di settanta date, pensando di trovarlo in uno stato di svacco più totale, o almeno di voglia di partire per una destinazione lontanissima.

E invece Duccio da Padova, dopo aver chiuso le danze il 23 ottobre con un mega evento ai Magazzini Generali, con in apertura il compagno di etichetta e amico Dola (“Che per me", mi dirà poco dopo Dutch, "ha scritto il disco italiano più bello dell’anno, cioè Mentalità, troppo sottovalutato”), sta già lavorando al nuovo disco.

dutch nazari ce lo chiede l'europa
La copertina di 'Ce lo chiede l'Europa' di Dutch Nazari, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Nessuna fuga in programma per ricaricare le batterie, nessun bisogno di rifiatare: Dutch Nazari maneggia il lavoro di musicista con lucidità, qualche avvisaglia di stacanovismo, ma soprattutto come un lavoro normale. E quest’ultimo potrà sembrare un aggettivo sciatto, ma in realtà rispecchia molto bene la piacevolezza del poter chiacchierare con un rapper-cantautore che sta raccogliendo un successo crescente, ma che ne parla con sincera pacatezza. Suppongo sia perché sa che il riscontro non è arrivato per un qualche sconosciuto algoritmo, ma grazie agli occhi ben piantati sull’obiettivo e un naturale talento per una scrittura brillante, politica ma non retorica, efficace e ricchissima di spunti—non a caso sviluppata anche all'interno della Lega Italiana Poetry Slam.

Sono tre le cose che dal 2017, anno del suo ottimo disco di debutto Amore Povero, non sono cambiate: non ha ricominciato a fumare (“perché per quanto ambirei ed amerei essere uno di quelli che fuma ogni tanto, so di appartenere alla categoria o un pacchetto al giorno o zero, ma posso garantire che si può scrivere benissimo anche senza una siga accesa in mano”); considera sempre Dargen D’Amico il suo maestro (“Dargen mi ha mostrato la via: quando è uscito Di vizi di forma virtù nel 2008 mi ha aperto un mondo, perché il rap era stilisticamente fighissimo, con giochi e metriche straordinarie, e con un contenuto di narrazione originale al 100 percento suo. Mi ha fatto capire che si può fare anche questo, non per forza solo auto esaltarsi o insultare qualcuno, ma che si può proprio raccontare qualcosa con metriche e flow da paura”); ama sempre gli inizi (“Sia quando inizio a scrivere un disco che quando parto per un tour, la fase iniziale è la più esaltante, quella di mezzo la più critica, perché senti il primo accenno di stanchezza o, come nel mio caso, ti torna la voglia di scrivere cose nuove e ti tocca farlo mentre suoni in giro”).

dutch nazari milano
Dutch Nazari con Frah Quintale ai Magazzini Generali, Milano

Una così scarsa propensione all’ozio mi porta a chiedergli se, almeno, si lascia un po' andare sul palco: “C’è una differenza importante", mi spiega, "tra una data clou come quella ai Magazzini, alla quale voglio arrivare lucidissimo e super concentrato, e la routine da tour, dove la tensione cala gradualmente e con la band ci si concedono man mano sempre più bicchieri di vino pre-live”. E si sa che nelle osterie nascono spesso grandi storie: “Sì, è vero, una delle cose che amo di più del girare l’Italia per suonare è farmi portare nei posti autentici di una città, ascoltare gli accenti, gli slang; e quelli che mi colpiscono di più me li porto dietro, come bagaglio utile per un pezzo, per una poesia, o semplicemente nel mio vocabolario”.

Quando gli chiedo che domanda gli viene fatta più spesso dai fan a fine concerto, Dutch risponde serissimo: “Qual è il mio vero nome”. E lì non capisci se la sua vis comica stia nel saper rispondere in modo volontariamente ironico o involontariamente buffo, ma alla fine non riuscire a mettere del tutto a fuoco un artista è più un’abilità sua che una mancanza mia.

Ma volendolo a tutti i costi portare in territori altri rispetto al lavoro, gli chiedo se ha quantomeno in programma un altro viaggio, magari intenso come quello di cinque anni fa in Palestina. “Credo che quello rimarrà a lungo il viaggio della vita, anche perché nasceva con lo scopo di fare un documentario insieme al mio amico e fratello Burbank, con il quale volevamo capire che importanza avessero rap e poesia in quel contesto. Abbiamo scoperto che in Palestina la poesia ha una tradizione secolare, i poeti sono delle superstar, mentre i rapper sono ancora malvisti. Lentamente rapper come Rami GB si stanno conquistando i propri spazi, anche se devono costantemente lottare contro i pregiudizi. Il rap è vissuto come una forma di imperialismo culturale: se non sei americano dovresti dedicarti alla poesia, non al rap. È una dialettica che ho trovato molto interessante”. Duccio, ma un viaggio solo per svagarti e vedere cose belle? “Non l’ho in programma a breve, ma dato che mia mamma è australiana, vorrei andare in Australia. Quando potrò prendermi una ventina di giorni andrò”.

dutch nazari magazzini generali milano

Accantonati i tentativi di portarlo altrove rispetto a dove sente di dover stare adesso, e cioè in studio, gli chiedo di Undamento, la sua label, notoriamente una delle realtà più fighe della scena italiana: “Questo lo hai detto tu, ma sono molto d’accordo. Si sta da dio, qui. Banalmente, mi piace tutto: dal fatto che ci sia un ufficio dove ci si incontri ogni giorno con tutti, al fatto di sentirci realmente un gruppo affiatato di amici, che amano passare del tempo insieme anche quando non sarebbero costretti a farlo”.

Cito la genialità presente in “Tutte le direzioni”: “Hai la ragazza che ti stressa / vuole che vai a vivere con lei / ma lei per te è un po’ come Venezia / sì cioè bella ma non ci vivrei”, e gli chiedo quale straziante o logorante o disfunzionale storia d’amore abbia ispirato queste rime, ma Dutch ancora una volta mi rimanda a casa coi sogni infranti, dicendomi che “la frase mi è venuta in mente mentre stavo passeggiando per Venezia, la rima è nata proprio lì, ma non c’è alcun riferimento a cose o persone, è solo legata a quel particolare luogo”.

Faccio all-in e per concludere gli domando come viva alcuni degli elementi base del suo lavoro: competizione, fama, soldi e moda. "La competizione la sento poco, eccezion fatta per la competizione positiva sulla qualità, quando, cioè, sento qualcuno che mi gasa tantissimo, che trovo bravissimo: quella cosa lì diventa lo stimolo perfetto per scrivere, ma in altre accezioni non è affar mio. Poi cosa c’era?” I soldi. “I soldi ben vengano, se fatti secondo un proprio canone estetico ed etico. Dopo?” La moda. “La moda non la seguo molto, ma ho imparato da Sick et Simpliciter [Luca Patarnello, amico e producer di Dutch fin dai primi lavori] un gusto, diciamo, decente nel vestire. Poi?” La fama. “Sono abbastanza grato di non averne tantissima e non ne cerco di più a tutti i costi. Penso che abbia i suoi pro e i suoi contro—e le figure più fortunate, per me, sono quelle che riescono a fare grandissime cose nella musica senza per forza diventare delle celebrità, come accade a certi autori, per esempio”.

L’autrice di Concertini che è in me non può, agli sgoccioli di una telefonata che sta palesemente sforando il tempo a disposizione, non chiedere quale sia stato il live più figo che gli è capitato di vedere nel 2019: “Calcolando che ho visto solo gente che suonava ai miei stessi festival, mi ha colpito moltissimo Aimone Romizi come frontman dei Fast Animals and Slow Kids, perché è generosissimo, tiene il palco da dio, ha una fanbase quasi commovente, insomma bella band, bello show”. Appena prima di riattaccare gli chiedo a bruciapelo chi sia, secondo lui, il miglior songwriter italiano in assoluto, e il lunghissimo silenzio che ha seguito la domanda mi fa temere il peggio, fino a che Nazari non mi risponde, sorprendendomi: “Calcutta, perché ha messo sul tavolo uno stile che hanno poi 'usato' in tanti. Ma lui, in quel gioco, rimane il più bravo di tutti".

Carlotta è una scrittrice, una DJ e un paio di altre cose. Seguila su Instagram.

Tutte le foto in questo articolo sono di Davide Ruggeri.

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La prima volta al Club To Club

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Appuntini è un format nato casualmente durante un viaggio in Indonesia. Per il Club To Club mi è stato chiesto di riproporlo.

Holly Herndon è una musicista piuttosto sofisticata. Ha costruito un’intelligenza artificiale canora di nome Spawn che ha nutrito con la sua voce, quella dei suoi coristi e perfino del pubblico, sebbene Spawn non fosse ancora pronto per esibirsi giovedì sera alle OGR. Il concerto è evocativo: il gruppo di Holly è abbigliato con delle tuniche e tutti si muovono e ululano ricordando un rituale premoderno. I visual di Dario Alva ricordano i prodotti grafici delle intelligenze artificiali, come se ne possono trovare in quelle gallerie di Repubblica che annunciano la sensazionale abilità di produrre immagini di gatti tramite il machine learning. Di solito apro la galleria in questione e vengo pervasa da una sensazione vagamente sinistra: pur avendo tutti i requisiti formali per essere gatti (orecchie, baffi, coda), mi ricordano più un prodotto del mio inconscio onirico.

Gli universi creati dall’intelligenza artificiale mi fanno pensare ai processi con cui entrambe le realtà, quella virtuale e quella reale, vengono composte. Da una parte ci sono i gatti veri, composti da atomi e molecole e poi da proteine e cellule e organi e sangue e baffi e così via, dall’altra ci sono i gatti delle intelligenze artificiali, che sono composti dalle rappresentazioni superficiali di questi ultimi. E questi gatti virtuali danno l’impressione di stare per decomporsi, come se non fossero stabili, perché in effetti non c’è alcuna geometria solida a sostenerli, solo il prodotto grafico finale. Mi ricordo delle lezioni di educazione tecnica alle medie, non sapevo fare niente, il compasso era un mio nemico, e allora prendevo le tavole altrui e copiavo i prismi dei miei compagni e producevo un disegno storto, di cui non sapevo ricostruire il processo geometrico. L’intelligenza artificiale mi fa pensare alle tavole di tecnica copiate.

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Holly Herndon live al Club To Club. Foto: Luigi De Palma/Club To Club

Questi visual, comunque, non sono stati creati da un’intelligenza artificiale.

Anche Sofia è affascinata dai visual che accompagnano il concerto di Holly Herndon, in particolare da quelli in cui un laptop viene come stirato nello spazio e i suoi confini sembrano colare sullo schermo mentre sul palco i coristi si esibiscono in coreografie scomposte ma armoniche. Mantiene gli occhi azzurri fissi sugli schermi laterali e mi dice di essere sorpresa da quanto i visual siano interconnessi con la musica e lo show. Mi piace viaggiare con lei perché ogni volta mi svela le sue considerazioni su ciò che la porto a vedere – e mi stupisce la sua sensibilità ancora grezza ma acuta per le cose che osserva, che per me ormai sono familiari ma che lei apprezza senza alcuna sovrastruttura di sorta.

Sofia ha 21 anni e un milione e mezzo di follower su Instagram da quando è adolescente. È diventata famosa grazie a YouTube, che utilizzava per raccontare la propria vita e le proprie vicissitudini adolescenziali mentre il suo seguito cresceva a dismisura senza che lei se ne rendesse troppo conto. L’ho conosciuta che aveva 20 anni e insieme abbiamo ristrutturato e riformato il suo canale YouTube. Inizialmente non notavo troppo la differenza di età che ci divideva, perché malgrado al tempo avessi appena compiuto 27 anni, mi portavo dietro lo strascico del ricordo di una vita ancora protetta dai confini tardo-adolescenziali, l’assenza di responsabilità, gli esami, lavori che richiedevano poco impegno e pagavano di conseguenza, molti giorni in cui la sveglia non era obbligatoria. Ma ora che ci penso non credo che siano questi elementi esterni a modulare la vita e a determinare il grado di maturità e consapevolezza degli esseri umani, anzi, mi pare che questi ultimi siano la conseguenza di ciò che un essere umano è in grado di fare e dare in un dato momento. Ho sempre più spesso l’impressione che ciò che cambia drasticamente dai venti ai trent’anni sia la percezione del tempo e del valore delle cose, e credo che questi due aspetti siano strettamente intrecciati.

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Holly Herndon live al Club To Club. Foto: Luigi De Palma/Club To Club

Giovedì stesso, subito prima della mia partenza per il C2C ho chiamato mia madre per aggiornarla sui miei spostamenti, e lei mi ha raccontato di essere in ospedale nel reparto psichiatrico dove mia sorella era appena stata ricoverata. Mia sorella è un essere umano che verrebbe comunemente definito matto, tra problemi di tossicodipendenza, disturbi dell’umore e relazionali da ormai così tanti anni che ho smesso di ricordarmi un momento in cui la mia situazione familiare sia stata serena. Ma in realtà, ora che ho quasi trent’anni, trovo che il suo cervello sia un turbinio di meraviglie, soprattutto se paragonato a quello dei molti adulti apparentemente funzionali e mortalmente noiosi che mi capita di incontrare nella vita.

Quando studiavo neuroscienze mi colpì molto un filone di esperimenti che avevano – mi spiace – come soggetti sperimentali topi e cani. La cosa che avevano scoperto gli scienziati era che a parità di stressor, e quindi di stimolo doloroso, le cavie soffrivano molto di meno quando questi input dannosi venivano preannunciati da un qualche altro segnale, per esempio una luce che si accende subito prima di una scossa. Se invece gli stimoli dolorosi venivano somministrati casualmente, le cavie sentivano di non avere più alcun potere di previsione o controllo, ed entravano in una situazione di impotenza perpetua. La vita con i tossici è più o meno così, nella mia esperienza. Non è una conclusione a cui sono arrivata in fretta, anzi, temo di averci messo più del dovuto. Per qualche ragione, forse complice la giovane età di mia sorella, o forse la percezione del tempo di quando si è ragazzini a cui accennavo prima, ho sempre avuto la speranza sotterranea che si trattasse di una fase. È solo da un paio d’anni che mi sembra di aver accettato lo stato delle cose, a seguito di una di quelle disgrazie tipiche della vita di chi si droga che ha coinvolto violentemente la mia famiglia e ha formalmente posto fine alla mia narrazione del “tanto poi passa”. Meglio così, ho l’impressione che la sensazione di impotenza appresa nei confronti di questo aspetto della mia vita mi abbia allenata all’idea per cui non abbiamo alcun controllo sulle cose, una linea filosofica che mi accorgo essere piuttosto utile in molti altri campi della mia esistenza dal momento in cui quella sensazione di frustrazione viene assorbita e tramutata in accettazione rassegnata.

È praticamente impossibile vedere un familiare che soffre e si infligge autonomamente così tanto dolore senza chiedersi dov’è che si è sbagliato. Si è stati troppo severi? Non sono stata una sorella abbastanza brava? Sicuramente non l’ho protetta quanto avrei potuto, non riuscivo a liberarmi dal senso di oppressione che provavo ad avere vicino questa ragazzina di 4 anni più piccola di me che mi emulava in tutto quello che facevo, per quanto egoistico possa essere, mi rendo conto solo oggi. Ma mai si è cretini come quando si è adolescenti. Invece di vedere quei gesti come un qualcosa di amorevole, l’unica cosa che riuscivo a provare era un senso di fagocitazione identitaria che iniziava con i furti di vestiti e terminava con Emma che prendeva lezioni di musica nella mia stessa scuola. Forse nessuno di noi l’ha protetta abbastanza, o forse qualunque cosa avessimo fatto avrebbe avuto come risultato lo stesso finale. Non so più dirlo, cerco di non chiedermelo più.

Qualche volta guardo Sofia, più giovane di me e alla ricerca di se stessa, e mi ricordo di Emma, o meglio, mi fa venire in mente come avrei voluto che il mio rapporto con Emma fosse stato. E un po’ me ne vergogno, perché è sempre un retaggio della ricerca di senso nello svolgersi delle cose, e allora interrompo quel ricordo.

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James Blake live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

A un certo punto durante il festival siamo state riconosciute da un tipo gentile che si è fermato a chiacchierare con noi. Poco prima di lasciarci ha posto a Sofia una domanda che le fanno spesso: com’è avere 21 anni ed essere famosa? Lei risponde sempre con grande educazione. “Sono abituata, sono diventata famosa su YouTube senza farci troppo caso, e a un certo punto è diventato normale esserlo”.

Credo sia solo una delle numerose risposte che possono essere date a questa domanda, il che non la rende meno onesta. Sicuramente ci si abitua a tutto e sicuramente Sofia non fa più coscientemente caso alla sua popolarità. Eppure è una delle cose che ha più forgiato la sua vita e la sua identità. Molti di noi non hanno vissuto con Instagram fin da quando erano ragazzini, e anche chi l’ha fatto il più delle volte è stato libero di essere chi voleva essere, o meglio, di rappresentarsi come voleva—che poi la propria rappresentazione sia più o meno aderente al vero credo dipenda dal grado di adesione che si ha verso se stessi e dall’immagine ideale che si vorrebbe dare agli altri. O forse, oltre al grado di adesione al sé, c’entra il livello di consapevolezza con il quale si sta decidendo di rappresentarsi. Non ne sono ancora sicura, anche se sono degli interrogativi che mi pongo spesso, da quando conosco Sofia ancora di più.

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Floating Points live al Club To Club. Foto: Stefano Mattea/Club To Club

Come tutte le persone che hanno attirato ingenti masse di persone su internet, Sofia è stata coperta di insulti nel corso della sua vita. Le hanno dato del cancro, della merda, della troia e chi più ne ha più ne metta. Eppure non è questo a turbarla, come non mi sembra sia l’hating ciò che turba di più le persone che sono soggette a una grande attenzione mediatica. Mi pare che il problema sia più ascrivibile alle aspettative del pubblico che non ti odia, piuttosto che a quello che ti odia.

Insomma, a un certo punto, soprattutto se il tuo comparire in pubblico viene legato al profitto derivante dai brand che usano esseri umani per veicolare messaggi positivi, e quindi a un profilo sobrio che può essere appetibile per i suddetti brand, la tua persona si scinde in due identità distinte, una rappresentata e posata, cortese ed elegante, e una intima, organica, che a volte si perde via schiacciata dalle aspettative che gli altri nutrono su di te e dal non avere spazio per coltivarsi in assenza di influenze esterne che ti chiedono più o meno implicitamente di stare al mondo in un determinato modo.

Una cosa che mi colpisce di Sofia è la sua fissazione per la foto profilo di WhatsApp. Io non ci faccio molto caso, whatsapp è un social che uso senza considerarlo tale. Non mi rappresento su WhatsApp, non ci penso. Per Sofia invece è l’unico social in cui la sua foto del profilo può essere aderente a chi avverte di essere in quel momento, perché è certa che chi la vede sia come minimo abbastanza intimo da avere il suo numero di telefono, e quindi a non relegarla a un’icona bidimensionale rassicurante che popola la gallery di storie di Instagram. Qualche volta mi mostra una rosa di foto che non posterebbe mai su Instagram, e io devo indicare la mia preferita, e se combacia con la sua allora è soddisfatta e la usa dicendomi di sentirsi se stessa.

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Kelsey Lu live al Club To Club. Foto: Stefano Mattea/Club To Club

Mi colgo sempre più spesso a osservare Sofia, anche perché parte del mio lavoro da autrice consiste proprio nel districarla e tirare fuori delle cose che lei contiene ancora in nuce. Vygotskij, uno psicologo sovietico del secolo scorso, teorizzava che l’apprendimento degli esseri umani fosse a carico dell’ambiente circostante, e che quindi i bambini apprendessero determinate cose grazie all’intervento degli adulti che rendevano possibile ciò che lo studioso chiamava Zona Prossimale di Sviluppo, ossia quell’area che intercorre tra ciò che un bambino sa fare e ciò che un bambino potenzialmente potrebbe fare e che sta agli adulti colmare. Ho ripensato a Vygotskij una volta in cui Sofia mi aveva chiesto di raggiungerla a casa in un momento di sconforto, e dopo aver parlato un po’ mi ha indicato un libro che teneva sul comodino, una guida al piacere femminile molto ben fatta, e mi ha detto: “Tu per me sei come questo libro, so che se ho un problema tu lo hai già elaborato, e allora te ne parlo e magari non lo risolvo, ma tu mi dici di averlo risolto, quindi so che posso farlo anche io a un certo punto”.

Durante il concerto di Holly, Sofia si è seduta per terra nel padiglione senza alcuna esitazione, ipnotizzata dai coristi svolazzanti sul palco. Le ho scattato una foto in cui ha gli occhi un po’ chiusi e sembra un quokka, è una foto buffa. Se l’è messa come profilo di WhatsApp e poi ha detto: “Qui a nessuno frega nulla di chi sono, di come sono vestita o di cosa sto bevendo, è bellissimo, siamo tutti uguali”. Immagino lo sia stato per davvero, e credo anche che i festival, tutti, ma in particolare quelli che hanno a che fare con il clubbing, vivano di questo senso di libertà in cui si è tutti uguali, al buio, senza pit, senza privé, solo con altre persone che, esattamente come te, stanno ballando in uno spazio sperabilmente avvertito come sicuro, fottendosene del resto.

Dopo Holly c’è stato il set di Spiritual Sauna, con Virginia Ricci in consolle. Virginia ha circa cinque anni più di me. L’ho conosciuta qualche anno fa quando mi sono trasferita a Milano e ho scoperto di abitare a un isolato da casa sua. Ha una fisicità ferina, sensuale. Malgrado sia esile, quando si siede, quando cammina, quando entra in una stanza sembra occupare tutto lo spazio disponibile. Si muove come un gatto e impollina tutti i presenti in qualunque situazione, facendo sentire ciascuno la persona più interessante di tutti. Dalla pista vedo la sua silhouette che si staglia sui visual—più sobri di quelli di Holly—la mandibola appuntita che scompare e riappare dalle ciocche di capelli che le danzano attorno sui beat. Quando avevo 18 anni leggevo i suoi articoli su VICE e non mi raccapezzavo di come una ragazza potesse essere così carismatica e sicura di sé. Non ne avevo mai incontrata una così. Mi ricordo distintamente che pensai che avrei voluto essere come lei da grande, senza paura.

Giovedì io e Sofia siamo tornate a casa presto, un po’ inebriate da Holly e dal primo giorno di vacanza dopo infinite settimane e weekend passati a lavorare. Ho raccontato a Sofia di mia sorella, accennandoglielo e basta, perché mi ricordo che alla sua età non riuscivo a comprendere completamente alcune cose, non per mancanza di intelligenza naturalmente, ma per mancanza di esperienza con il dolore, che in linea di massima non è interessante per nessuno, neanche per chi lo prova.

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Battles live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

Venerdì sera prima di andare al Lingotto siamo finite in un bar torinese che si chiama Pietro. Aveva un che di romano: era affollato, i drink costavano poco e tutti gli avventori bevevano fuori parlando a voce alta. Io e Sofia siamo andate lì per raggiungere Marianna arrivata a Torino quella sera stessa. Marianna la conosco dal primo anno di università. Ho presentato Marianna e Sofia e sono andata a prendere da bere. Al mio ritorno mi sono fermata un attimo alla vista di loro due appoggiate su una car2go parcheggiata di fronte al bar. Hanno entrambe la gambe lunghe e affusolate, con le caviglie sottili che sembrano editate con photoshop anche nella vita reale. Hanno entrambe gli occhi chiari e i capelli biondi, anche se i capelli di Marianna una decina di anni fa erano color miele, come quelli di Sofia, mentre ora sono ramati. Ricordo quando aveva deciso di tingerseli di rosso e ricordo anche i nostri dubbi sulla scelta che riguardavano appunto la possibilità di rivedere un giorno il biondo originale—il colore rosso è un colore tanto attraente quanto subdolo, attecchisce perfettamente su qualunque tipo di pigmento colorandolo per sempre.

Io e Marianna eravamo iscritte entrambe a Psicologia e Salute, a Roma, e io la notai all’uscita dell’aula dove entrambe avevamo affrontato il primo esame della nostra carriera universitaria. Aveva i capelli lunghissimi e luminosi, indossava una giacca rossa con i bottoni d’oro, un pezzo vintage di Yves Saint Laurent, dei collant neri e le Dr Martens. Aveva anche degli enormi occhiali con la montatura spessa che le rimpicciolivano il viso, già un po’ nascosto dalla valanga di capelli. Poi qualche anno fa si è operata e ora non li indossa più. Qualche volta, quando la vedo uscire senza occhiali, ho ancora l’istinto di ricordarglieli, malgrado siano passati almeno cinque anni da quando ha smesso di usarli. Marianna, con o senza occhiali, è sempre stata molto sensuale, di una sensualità conturbante e vagamente storta, gli occhi azzurri a tratti concentrati e a tratti acquosi, ma in modo languido, come se la sua sensualità fosse da ricercare proprio in quell’opacità espressiva e ondulatoria.

Vederla accanto a Sofia mi fa un certo effetto. Sono entrambe persone con cui ho avuto e ho tuttora un rapporto che spesso verte verso la simbiosi, un rischio che io e Marianna abbiamo imparato a evitare dopo averne visto le conseguenze nel corso degli anni.

Entriamo al Lingotto per il concerto di James Blake. Il suo ultimo disco l’ho ascoltato fino allo sfinimento lo scorso inverno, in un periodo della mia vita complicato e confuso, che faccio a fatica a mettere a fuoco. Mi ero appena trasferita a casa di una mia amica dopo la fine di una relazione intensa che mi aveva lasciata svuotata – a volte anche le relazioni sono elementi che ci forniscono subdolamente un’identità prefabbricata e di rappresentanza, un po’ come le intelligenze artificiali, che indossiamo comodamente e di cui ci dimentichiamo finché non ci accorgiamo di essere sempre stati nudi.

A metà del concerto di James Blake chiedo a Marianna e Sofia di andare ad ascoltare le Let’s Eat Grandma nell’altro palco, un duo di ragazze inglesi giovanissime e bizzarre che fanno synthpop sognante e si muovono sul palco come bambole di porcellana, a volte buttandosi per terra come se si fossero improvvisamente accorte di essere prive di ossa, o come quelle capre che cadono quando si spaventano.

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Let's Eat Grandma live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

Mentre fluttuiamo nel corridoio che ci conduce dai Battles a Flume e da Skee Mask a Slickback, Sofia e Marianna mi precedono chiacchierando. Le guardo camminare con le gambe sottili; poco prima di entrare al Lingotto entrambe, in momenti diversi, mi hanno chiesto se sembrassero grasse.

A ventotto anni posso dire che è la prima volta in cui non penso al grasso. Non perché sia particolarmente magra, ho avuto periodi francamente anoressici e senza mestruazioni in cui il mio corpo mi sembrava comunque deforme. La pelle della pancia, che nelle foto di quel periodo amenorreico è spalmata sulle mie costole come se fosse stirata e tenuta insieme dietro la schiena da un paio di mollette, ora è più morbida, e ho smesso di farci caso.

Credo che i disturbi alimentari sottosoglia siano una delle esperienze più comuni nella vita delle donne. Bere intere bottiglie d’acqua tra un boccone e l’altro, masticare chewing gum continuamente, scegliere se bere alcol o cenare, tentare routine di esercizi fisici a casa dove nessuno può vederti, vestire larghe, passare ore davanti allo specchio a ispezionarsi ogni centimetro di grasso che si può pizzicare tra indice e pollice, contare i secondi di masticazione finché il cibo non si trasforma in un bolo senza sapore e solo allora mandarlo giù. Qualche volta si ha l’impressione che il proprio corpo sia ciò che ci separa dal sentirsi integre, dall’avere un’identità stabile. Pensare al proprio corpo per non pensare a nient’altro.

Qualche settimana fa Sofia mi ha chiesto timidamente come si facesse a smettere di esserne ossessionate, dal grasso. Soprattutto perché nel momento in cui non lo si è più il corpo smette di essere teso, smette di essere affamato e allora cosa succede? Ritorna a essere coperto di grasso mentre noi non ce ne curiamo più? Qualche volta ho la sensazione che ci si affezioni alle proprie nevrosi, perché in un modo o nell’altro ci sollevano dalla responsabilità di definirci altrimenti. E per le donne è ancora difficile definirsi attraverso simboli meno concreti del corpo, in un universo che ci continua a raccontare che quello è tutto ciò che siamo.

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Slikback live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

Mentre Slikback suona—uno dei set più belli del festival—la pista si svuota e mi sembra che le uniche persone esistenti siamo io, Sofia, Marianna e Virginia, che intanto ci ha raggiunte. Le vedo che ballano insieme, si mescolano, a volte non riconosco più chi è chi. È la prima volta che Marianna conosce le mie persone di Milano, eppure sembra che sia sempre stata con noi. Mi rasserena, perché come molti che cambiano città, qualche volta ho la sensazione di essere una persone diversa a seconda della città in cui mi trovo, ed è stancante. È un periodo in cui sto provando a ricucire le reti smagliate di anni di pellegrinaggi in cui mi sembra di aver lasciato distrattamente dei brandelli in giro per l’Italia. Sofia mi abbraccia e mi dice che da grande vorrebbe essere come me, e io penso a Virginia, e poi le costringo ad abbracciarci tutte anche se loro, forse, volevano solo ballare.

Una volta tornate nell’Airbnb di Marianna all’alba, Sofia si è sdraiata accanto a me. Sentivo le sue dita che grattavano contro quello che ho pensato essere il cuscino, e non capivo se quei movimenti stessero avvenendo nel sonno o in una veglia inquieta. Le ho preso la mano che grattava e l’ho appoggiata sulla mia spalla, lasciando che le nostre dita si intrecciassero. Ha smesso di grattare, e sono rimasta un po’ lì, con la testa vuota e un filo di concentrazione arrotolato attorno alla percezione del contatto fisico. Dopo poco, mi è sembrato che le nostre mani si stessero fondendo tra di loro, e che poi avessero formato una nuova amalgama, ma con la mia spalla questa volta, e immaginavo a occhi chiusi di non avere confini corporei e che io e Sofia fossimo l’una la continuazione dell’altra.

Alcuni non apprezzano il Lingotto come location del Club To Club, ma io lo trovo accogliente. Mi piacciono le sale grandi, mi piace il corridoio lungo dove di tanto in tanto posso vedere le facce degli altri esseri umani. Mi piacciono i piloni accanto cui tutti si danno appuntamento nella folla – sbagliando perennemente. Io e Sofia ci siamo cercate per un’ora sabato continuando a scriverci di essere proprio sotto al pilone, dai, quello a sinistra, ora dietro, ora alla destra. Poi abbiamo capito di essere sotto due piloni diversi. Sono affezionata alle aree per il fumo, e mi piace l’ampio spazio dietro i mixer da cui le persone sbucano ballando mentre si avvicinano ai palchi, come se nessuno le vedesse – me compresa. È il quarto anno che presenzio al festival, e mi sono affezionata. Ci sono alcuni rituali che ti danno un senso di continuità esistenziale. Il primo anno ricordo di essermi follemente innamorata al Club To Club durante un set di Four Tet. Il terzo anno mi stavo lasciando con il set di Aphex Twin. Il secondo anno ancora pensavo che quella di mia sorella fosse una fase.

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Black Midi live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

I Chromatics hanno fatto un concerto pazzesco. La soddisfazione che provo quando un live è all’altezza delle aspettative rientra sicuramente nella lista delle cose che rendono la mia vita migliore, al pari del sesso, dei calamari alla griglia e dello svegliarsi struccate. Questa volta le luci del corridoio sono blu, e Marianna e Sofia lo percorrono scivolando tra le persone, allontanandosi e riavvicinandosi come anguille nella folla.

Mi precedono e si insinuano nella foresta di persone che aspettano Floating Points, che quando inizia giustifica da solo l’intero festival. Per tanto tempo ho fatto fatica ad apprezzare la musica astratta – laddove per astratta intendo senza un testo o una struttura familiare. Poi con il tempo, già da grande, ho iniziato ad ascoltare elettronica, ambient, jazz e musica sperimentale e ricordo che inizialmente avevo la sensazione che quei suoni che non riuscivo a collocare o a prevedere mi stessero aprendo nuove vie sinaptiche, rendendo il mio pensiero più ampio e interessante. Mentre ascolto Floating Points mi sembra che il mio cervello si attorcigli attorno al suono e il filo dei miei pensieri si perda via, destrutturandosi con la musica.

Qualche volta dò un’occhiata alle facce di Sofia e Marianna, che tengono gli occhi chiusi e sorridono ondeggiando. E qualche altra volta qualcuno ci si avvicina per chiederci di baciarci, noi sorridiamo, decliniamo l’offerta, e continuiamo a oscillare dolcemente mentre la musica ci massaggia il cervello. Prendo la mano di Marianna e la tengo un po’ nella mia: la conosco da quasi 10 anni, ma è da poco che mi sono accorta che quando si cresce, gli amici, che da ragazzini sono presenze puntuali e speculari in cui fondersi e specchiarsi, da adulti diventano testimoni gentili che, con un po’ di fortuna, ti accettano e basta in tutte le forme che assumi e continuerai ad assumere, come quella poesia di Borges che Marianna stessa mi fece conoscere anni fa, quando per la prima volta me ne andai da Roma e mi pareva di non sapere più cosa mi facesse sentire a casa. Si intitola “Llaneza” ("Familiarità") e dice:

Si apre il cancello del giardino
con la docilità della pagina
che una frequente devozione interroga
e, dentro, gli sguardi
non hanno bisogno di fare caso agli oggetti
che sono già precisamente nella memoria.
Conosco le abitudini e gli animi
e quel dialetto di allusioni
che ogni raggruppamento umano ordisce.
Non ho bisogno di parlare
né di mentire privilegi;
bene mi conoscono coloro che qui mi circondano,
bene sanno le mie angosce e la mia debolezza.
Questo è raggiungere ciò che è più alto,
ciò che forse ci darà il Cielo:
non ammirazione né vittorie
ma semplicemente essere ammessi
come parte di una Realtà innegabile,
come le pietre e gli alberi.

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Flume live al Club To Club. Foto: Ilaria Ieie/Club To Club

Ogni tanto esco fuori con la scusa di fumare, ma in realtà mi piacciono i momenti in cui sono da sola durante i festival. Sabato pioveva, ma le gocce non mi davano alcun fastidio. Ho pensato a Emma, che a volte mi sembra di vedere nelle facce delle persone solo per un istante. Quando ero più giovane mi inquietava riconoscere il suo naso o i suoi zigomi in degli sconosciuti nella penombra, ma ora mi piace, perché mi concedo di immaginare come potrebbe essere la mia vita se lei mi stesse fisicamente accanto. Cosa farebbe al Club To Club? Come si vestirebbe? Sofia prima di partire mi ha raccontato di aver preparato la valigia insieme alla sorella piccola che le ha prestato i vestiti e le ha scelto gli outfit delle serate. Mia sorella indosserebbe quelle scarpe rosa della Puma con un grosso fiocco disegnate da Rihanna? Sono abituata a vedergliele indosso, vistose ed eccentriche, su quei piedi che però solcano soltanto i pavimenti di reparti psichiatrici. Delle scarpe così meriterebbero di essere viste da molte più persone. Qualche volta immagino di regalarle parte della mia identità, perché lei sembra senza pelle, e non mi pare corretto che tra due sorelle ce ne sia una così più attrezzata dell’altra all’esistenza.

Alle 5 e 30 raccogliamo le cose al guardaroba e andiamo via. Camminiamo in silenzio lungo il complesso del Lingotto senza una direzione precisa, ma muovere le gambe continua a essere piacevole, e qualche volta ci sembra di riconoscere dei ritmi e delle melodie nei rumori dei camion che passano. Torniamo a casa e ci addormentiamo subito, con qualche estremità di corpo che si tocca sotto il piumone, estremità fisiche che dopo aver ballato per così tanto sono solo pezzi di corpo, non sono più simboli, non sono più oggetti, sono liberi di essere ciò che sono. Le gambe sono solo gambe e il loro unico scopo è ballare.

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FKA Twigs si è incazzata col patriarcato, e il risultato è ‘MAGDALENE’

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FKA Twigs sarà in concerto al Fabrique di Milano il 29 novembre 2019. I biglietti sono in vendita su DICE.

C'è questo dipinto di Raffaello, la deposizione Borghese, in cui si vede Cristo morto che viene deposto nel sepolcro. La sua mano non è pendula perché è in quella di una donna con gli occhi gonfi. Il verdognolo morto della pelle di lui si appoggia sul rosastro vivo di lei—Maria Maddalena, la donna che dà il titolo al nuovo di FKA Twigs, MAGDALENE. La donna che amava Cristo, sminuita dalla Chiesa ed eliminata dalla storia occidentale. La donna che curava Gesù, lo ascoltava, lo rendeva felice e forse lo amava. La donna che, per vedersi ricordata con un'aureola in testa, è stata raccontata come una prostituta pentita.

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Particolare della "deposizione Borghese" di Raffaello, parte della "pala Baglioni" (1507)

Tranne questo, tutti i quadri che la ritraggono la rendono una puttana sola, una casta amica o un peso terreno. Perché poi quando Gesù risorge, lei lo riconosce e far per stringergli di nuovo la mano, lui risponde noli me tangere: non mi toccare. Per intrecciare di nuovo quelle dita, lei deve fare penitenza. Perché quei figli non erano suoi, quell'amore non era suo. Era tutto il dono di un Dio maschio. E invece le sue erano "Le mani di una donna / Così buia, provocante / Un respiro premuroso che potrebbe accarezzarti"—quelle che Twigs canta su "mary magdalene".

MAGDALENE, ha detto Twigs, vuole raccontare la sua esperienza di donna smangiucchiata e definita dal patriarcato. "[La figura di Maddalena] è una proiezione maschile, e credo sia il momento in cui il patriarcato ha preso il controllo del modo in cui le donne vengono raccontate", ha detto, "E qualsiasi donna che ha mai fatto qualcosa può essere stata soggetto di questa logica. A me è successo." E ancora: "Mi piacerebbe un sacco se scrivessero un pezzo su di me in cui il mio nome non è attaccato a quello di un uomo"."

"Mi piacerebbe un sacco se scrivessero un pezzo su di me in cui il mio nome non è attaccato a quello di un uomo."

FKA Twigs è una di quelle artiste che fanno così tante cose, e le fanno così bene, che è in effetti assurdo pensare di spiegarla tramite le figure maschili che l'hanno accompagnata. Quelle più dirompenti, ma quella di cui a noi importa di meno, sono i suoi ex fidanzati famosi, Robert Pattinson e Shia LaBoeuf, motivo per cui ancora oggi lei si trova dei paparazzi davanti a casa, forse i "mille occhi" di cui canta nel pezzo che apre il disco—ma "chiunque guarda quelle foto non ascolta la mia musica", dice, e rincara: "La gente pensava fossi strana, finché un maschio bianco non ha convalidato la mia bellezza".

Quelle che ci importano, invece, sono quelle con cui ha fatto MAGDALENE, un disco che non saprei come descrivere se non con la parola "contemporaneo", nella misura in cui mette sperimentatori al servizio del pop e superproduttori al servizio dell'avanguardia. Sono Skrillex, Jack Antonoff, benny blanco, Cashmere Cat; sono Koreless, Oneohtrix Point Never, Arca e soprattutto Nicolas Jaar, che co-firma sette produzioni ma in realtà no, perché sul disco non c'è scritto. Lo ha suggerito lui stesso, a Twigs, di fare così: "Mi ha detto che metterci il suo nome non avrebbe sottolineato tutto il mio lavoro, specialmente in quanto donna e producer. Quando me l'ha detto mi sono messa a piangere".

fka twigs magdalene
L'artwork di Magdalene di FKA Twigs, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

E così io, che ascolto "thousand eyes" e magari ai tre minuti mi dico "Questo si sente proprio che è Jaar, è proprio il brulicare di suoni di Sirens...", sbaglio. Perché Twigs è la persona capace di ricordarsi di un suono lontano che le ricorda un gufo, sentito due settimane prima, e metterlo in un pezzo. Di passare due giorni con Skrillex a Los Angeles per mettere insieme 200 tracce e renderle "holy terrain", a lasciarsi modellare da Arca, a permettere a Jack Antonoff di ficcarci dentro il naso per lasciare un sentore di pop. È lei, non sono loro.

Twigs è solo Twigs, la cantante punk, la ballerina, la pole dancer, la praticante di arti marziali cinesi, la malata di fibrosi, la disciplinata, la leader di una band, la scrittrice, la musicista. Twigs è questo disco così bello perché chiaro nei suoi intenti: rendere accessibile la complessità (sentimentale, musicale, estetica) della sua autrice. Cosa che i primi EP di Twigs e, soprattutto, LP1 facevano solo a tratti, dato che a lavorarli erano persone più concentrate sul messaggio artistico che sulla quantità di persone capaci di riceverlo. Oggi, la figura di Maria Maddalena come fil di ferro che tiene unita la paglia di queste canzoni è quasi un di più rispetto al puro valore musicale del loro insieme.

Twigs, la cantante punk, la ballerina, la pole dancer, la praticante di arti marziali cinesi, la malata di fibrosi, la disciplinata, la leader di una band, la scrittrice, la musicista.

Ascoltando MAGDALENE si notano quasi più i vuoti che i pieni. Il suo è un pop di spazi: "thousand eyes" è come dovrebbero suonare le messe per farmici andare, "sad day" si apre e chiude a intervalli regolari come la membrana di una medusa, "mary magdalene" ha un finale che è come un'esplosione improvvisa in uno scenario bucolico ma buio, "home with you" e "cellophane" hanno solo l'ombra di una struttura ritmica, "holy terrain" prende il Future migliore— quello dei tape prima di DS2, quello svuotato di sentimenti che cerca di capire come e perché ha sofferto e fatto soffrire così tanto—e gli toglie la trap da sotto i piedi.

Lo stacco qualitativo con LP1 sta proprio lì, nei vuoti. Twigs ha dichiarato che lavora per sottrazione, ma mai come ora le era venuto così bene—e mai come ora aveva riempito i buchi con linee vocali così avvolgenti e testi così intimi. Le sue parole descrivono come sempre momenti di sentimento applicabili a qualsiasi relazione, ma stavolta sono puntellati da dettagli solo suoi. E grazie a questi MAGDALENE sembra un lavoro più umano del suo predecessore.

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Fotografia di Matthew Stone

"Le mie dita, attive / Il mio cunnilingus, falso / I miei piatti, sporchi / I miei desideri, tanti", canta Twigs in "daybed" di un pomeriggio passato a masturbarsi a letto. "Mele, ciliegie, dolore / Inspira, espira, dolore / No, no, novocaina / E ancora mantengo la mia grazia", dice in "home with you", e quei frutti sono le fibrosi tumorali che le sono state rimosse dal corpo nel 2016, proprio mentre lei stava imparando a fare pole dance—quando Spike Jonze le chiese di partecipare a un video promozionale per la Apple, e lei disse di sì, e si sentiva strappare i punti sulla pelle mentre si esibiva.

Perché il punto e il valore di Twigs, oggi, è l'ammettere che forza e vulnerabilità devono coesistere. Può anche sentirsi sola, osservata, depressa—e lo dice, eccome—ma senza mai smettere di combatte la "guerra di una donna / in una storia non occupata", come canta in "mary magdalene". "Viviamo in un'era ossessionata dai supereroi, siamo pieno di franchise enormi che fanno film fantastici. Ma prendendo la cosa da un punto di vista femminile, non ho ancora visto un personaggio femminile splendidamente forte e perfetto, ma che abbia anche dei difetti, e prenda dentro tutto lo spettro dei sentimenti", ha dichiarato.

Il punto e il valore di Twigs, oggi, è l'ammettere che forza e vulnerabilità devono coesistere.

E io, leggendo le sue parole, mi rendo conto che in fondo non sta a me definire la musica e la persona di Twigs. Mi basta condividere con voi che leggere la bellezza delle sue parole, del suo lavoro, del senso di questo MAGDALENE—uno dei dischi più importanti del 2019, ma anche dei nostri tempi.

Elia è su Instagram.

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Guarda The People Versus Massimo Pericolo

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Anche a voi la base di “7 Miliardi” sembra “un peto ripetuto tante volte”? Bene, allora vi piacerà sicuramente il nuovo episodio di The People Versus, in cui abbiamo chiesto a Massimo Pericolo di rispondere ai commenti degli hater sotto ai suoi video su YouTube.

C’è chi lo definisce un simbolo del degrado della società, chi lo insulta perché usa le armi finte, chi pensa sia “l’incubo di Fedez” e chi gli dice di non fare lo splendido a rubare le birre al supermercato—e lui ha dimostrato che non sa solo rappare, ma sa anche rispondere con un gran sorriso a chi lo insulta. La puntata integrale è qua sopra su YouTube.

Guarda gli altri episodi di The People Versus.

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Ecco com'è andato il release party del video di "Mattoni"

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Questo articolo è realizzato in collaborazione con Ceres.

Dov'eravate il 5 novembre? La risposta esatta è "Alla festa per il lancio del video di 'Mattoni' di Skinny, con una birretta Ceres in mano, ad alzare le braccia davanti a Noyz Narcos, Taxi B, Quentin40, Paky, Greg Willen e Stabber".

La festa, realizzata anche con la collaborazione di Reebok Classics, è andata molto bene. Il video ufficiale della canzone con tutte le vostre facce è online su YouTube. Ci restava solo fare vedere a chi di voi non è potuto venire com'è andata, ed è per questo che c'è il video qua sotto.

Se non siete riusciti a venire, non preoccupatevi—faremo presto un'altra festa. Intanto, ecco qua sotto qualche scatto della serata a cura di Francesco Cerutti aka Francis Delacroix aka Young Goats.

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TikTok sta facendo diventare la musica un meme

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TikTok non è solo un'app, è una fabbrica sforna-meme musicali. Già qualche tempo fa Musical.ly permetteva di produrre video karaoke e cantare in playback sulle basi: ecco, TikTok l'ha comprata e oggi attrae fino a un miliardo e mezzo di utenti attivi al mese e 700 milioni di utenti giornalieri. In questa evoluzione, però, sta anche trasformando il nostro rapporto con la musica.

Alcuni artisti hanno capito subito come sfruttare la piattaforma. "Old Town Road" di Lil Nas X, cioè la canzone che tutti nel mondo hanno sentito nel 2019 ma di cui non tutti sanno il titolo fuori dagli Stati Uniti, è diventata il singolo di maggior successo della storia americana dopo essere diventato virale su TikTok. È Lil Nas stesso ad ammetterlo in un’intervista: “Ho promosso la canzone come meme per mesi fino a quando non ha raggiunto TikTok ed è esplosa.”

Non siamo di fronte ad un’app per ragazzini stupidi che ascoltano musica stupida ma a un cambiamento del modo di fruire la musica.

In Italia la situazione ancora non è decollata del tutto. anche se nella libreria di brani da cui scegliere sono già presenti due minacciose playlist, ITRap e IndieIT. Per chi non conosce l’app, l’istinto è quello di storcere il naso—cosa che facciamo da sempre quando si tratta di nuove tecnologie e giovani. Non riusciamo a capire come sia possibile che una roba del genere tenga incollati milioni di utenti, trasformando canzoni sconosciute in successi mondiali.

L'ultimo esempio in ordine temporale, "Dance Monkey" dell'australiana Tones and I, sta qua sotto.

C'è da dire che tutto questo esisteva già con un altro nome fino al 2016: si chiamava Vine, app amatissima e oggi scomparsa di cui restano compilation di video viste milioni e milioni di volte. La differenza è che con TikTok si ha l’impressione di poter continuare a guardare qualcosa senza annoiarsi mai grazie al suo scrolling eterno—l'app è stata infatti descritta come “gioiosa” perché, oltre ai playback, ci mette di fronte video cringe, con adolescenti strambi o adulti che compiono gesti al limite della decenza, e challenge che fanno sentire l'utente parte di una comunità.

Per alcuni, TikTok sembra effettivamente somigliare all’ultimo angolo felice di internet. A fianco di video dal montaggio impressionante troviamo contenuti amatoriali adorabili e divertenti. È un mix costante di capolavori perfetti e perfetti disastri. Un luogo dove puoi trovare persone che fanno cigolare lo sportellino del microonde sulla melodia di "Yeah!" di Usher, o dottori e pazienti che ballano "Baby Shark" nelle sale operatorie.

La verità, però, è molto più contorta di quanto possa sembrare. Recentemente, infatti, l’app ha avuto problemi con contenuti legati al suprematismo bianco, all'incitamento alla violenza e al razzismo e casi di pedopornografia.

E i problemi non finiscono qui: l’app rischia di favorire la censura dei contenuti da parte della Cina e trasformare per sempre il nostro rapporto con la musica. Non più un’esperienza artistica ma un semplice meme da masticare.

Cos’è TikTok?

TikTok è nata ad agosto 2018 dalla fusione di un’app prodotta dall’azienda cinese ByteDance con Musical.ly, acquistata dall’azienda nel 2017 per quasi un miliardo di dollari. ByteDance produce infatti due versioni distinte della stessa app, una per il mercato cinese e quindi soggetta alle leggi locali, chiamata Douyin, e l’altra, TikTok, pensata per il mercato internazionale.

L’acquisizione di Musical.ly è però costata cara a ByteDance. Lo scorso febbraio ha infatti ricevuto una multa di quasi 6 milioni di dollari per la raccolta illegale di nomi, indirizzi e-mail, immagini e posizione geografica di ragazzi di età inferiore a 13 anni effettuata da Musical.ly.

TikTok è l’emblema dell’essenzialità: guardi, cerchi, crei video.

Attualmente ByteDance è sotto inchiesta da parte del governo degli Stati Uniti d’America proprio per l’acquisto di Musical.ly. Il timore è che vengano inviati i dati dei cittadini americani ai server cinesi, rappresentando quindi un rischio per la sicurezza nazionale e che il governo cinese possa censurare direttamente i contenuti nell’app.

TikTok è l’emblema dell’essenzialità: guardi, cerchi, crei video. All’apertura dell’app, si viene gettati direttamente nel flusso costante e incontrastabile di video prodotti dagli altri utenti e selezionati dall’algoritmo che li convoglia nella sezione dedicata “Per Te.” Sembra di trovarsi di fronte ad uno sconfinato barattolo di caramelle da scartare e mangiare una dopo l’altra—con l’unica differenza che qui le caramelle sono brevi brani musicali impacchettati in video fatti in casa.

Musica come meme

Ormai è appurato che internet, lo streaming, le playlist e gli algoritmi hanno cambiato il modo in cui ascoltiamo la musica. Un tempo compravamo gli album e li ascoltavamo dall'inizio alla fine, oggi siamo tutti più distratti e guidati in ciò che ascoltiamo. Ecco, con TikTok stiamo assistendo alla fase successiva: la trasformazione della musica in un meme.

Diversi artisti italiani sono su TikTok e stanno sfruttando le challenge per diffondere i loro brani. Emis Killa ha solo una manciata di post sul proprio profilo verificato ma la sua #tijuanaworkout raccoglie più di 4 milioni di visualizzazioni. Lo stesso vale per Sfera Ebbasta, pochissimi post ma 41 milioni di visualizzazioni per la sua #pablochallenge—ovviamente zeppa di cringe.

Lo schema è semplice: ogni brano viene tagliuzzato e appiattito per adattarsi alle nostre capacità di attenzione e ascolto ridotte e, inserito all’interno di una performance, si trasforma da opera d’arte a semplice contenitore per far ridere. Se serve, viene velocizzato o rallentato—e spinge addirittura gli artisti a ripubblicare i loro brani in versione velocizzata o rallentata. Tutto diventa una messinscena.

Se i meme sfruttavano come base le immagini, TikTok trasforma la musica in cornice per una risata. Pochi secondi di un brano diventano l’equivalente delle immagini dei meme su cui ciascuno può modificare il testo: nel caso di TikTok, a cambiare, sono invece le immagini.

TikTok trasforma la musica in cornice per una risata.

In Italia c’è stato qualche caso di successo legato a TikTok, come ad esempio “Lento” di Boro Boro feat. Mambolosco, che ha pompato inaspettatamente il successo della canzone. Ma non siamo certamente ai livelli di brani americani come “Lalala” di Y2k & bbno$—oltre un milione di post su TikTok.

Facendo un giro nella libreria di musica italiana disponibile su TikTok, troviamo solo nomi già conosciuti: circa 30 mila post per "Mon Cheri" di Rkomi feat. Sfera Ebbasta; 200 mila post per "Il cielo nella stanza" di Salmo feat. NSTASIA; 260 mila per "YOSHI" dal Machete Mixtape 4; “Mangiauomini” di Chadia Rodriguez è a 84 mila post. Nella playlist ITRap, al momento della scrittura di questo articolo, TikTok suggerisce brani di Madame, Capo Plaza, Beba, Marïna & Sick Luke.

La stessa Chadia Rodriguez aveva diffuso un breve estratto del suo nuovo singolo "Mangiauomini" in anteprima sul suo profilo verificato di TikTok lo scorso ottobre.

La maggior parte degli artisti italiani però non è presente con un proprio profilo verificato su TikTok—a parte quelli citati sopra, tra i verificati troviamo anche Enzo Dong, Beba, Madame, Il Tre. Tutti sembrano utilizzare l’app postando pochissimo e chiedendo ai fan di taggarli nei loro video delle challenge, spingendo quindi molto sull’auto-promozione dei propri singoli da usare in altri video.

Il punto è che gli artistinon devono necessariamente essere presenti con il proprio profilo su TikTok. Molto spesso sono le stesse case discografiche a occuparsi della gestione dei loro brani musicali da includere nell’app. Queste concedono la licenza per l’utilizzo dei brani grazie ad accordi specifici con l'app, ma poi gli artisti che hanno effettivamente prodotto le canzoni non ricevono compensi adeguati—solito vecchio problema che affligge gli artisti.

A sancire il successo di un brano non è solamente la sua qualità. Su TikTok entra in gioco prepotentemente anche l’algoritmo.

L’unica ricompensa è la visibilità del brano e la speranza che diventi una hit mondiale su altri canali. È per questo che alcuni vedono TikTok come un modo per auto-promuoversi—chiunque può caricare un proprio brano che finisce poi all’interno della banca dati dell'app. Ci sono casi in cui alcuni produttori musicali hanno iniziato a utilizzare TikTok come un banco di prova: prima creano e caricano pochi secondi di un brano che ancora non esiste e se ottengono buoni risultati allora producono la canzone completa.

A sancire il successo di un brano, però, non è solamente la sua qualità. Su TikTok entra in gioco prepotentemente anche l’algoritmo.

Algoritmi e Cina

TikTok non fornisce informazioni sul funzionamento dell’algoritmo e gli utenti stanno impazzendo in preda a teorie cospiratorie e tentativi strampalati di studiare l’algoritmo. Non riuscendo a capire cosa determina l’inclusione nella pagina “Per Te” stanno sperimentando hashtag appositi e stanno avanzando teorie che considerano persino la possibilità che l’algoritmo stia facendo essenzialmente a caso.

Mentre sto scrivendo questo articolo, apro TikTok e nella mia sezione “Per te” vedo: meme iosonogiorgiachallenge, un contorto siparietto di una ragazza russa che finge di essere incinta sulle note di Can we kiss forever?, foto di un bambino di pochi mesi sommerso da mucchi di banconote da 50 e 100 euro. Uno stream completamente senza senso di ciò che l’algoritmo di TikTok crede possa interessarmi.

I contenuti, però, non vengono controllati solo dall’algoritmo. Secondo quanto rivelato dal Guardian, moderatori in carne ed ossa venivano istruiti alla rimozione di video che fanno riferimento a temi sensibili per il governo cinese, come le proteste di Piazza Tiananmen, l'indipendenza tibetana o gruppi religiosi già messi al bando come il Falun Gong, applicando alla lettera la propaganda del governo cinese.

I documenti ottenuti dal giornale britannico indicano due categorie di contenuti problematici: quelli contrassegnati come una “violazione” e quindi eliminati direttamente, e quelli che vengono considerati infrazioni minori e quindi resi solamente “visibili a se stessi”—una sorta di shadowban simile a ciò che avviene su Instagram con i contenuti ritenuti sessualmente espliciti. L’utente quindi non si accorge che i propri video vengono nascosti agli altri utenti.

Moderatori in carne ed ossa venivano istruiti alla rimozione di video che fanno riferimento a temi sensibili per il governo cinese.

L’attenzione alla rimozione dei contenuti da parte di TikTok era esplosa dopo che un’inchiesta del Washington Post aveva mostrato come i video delle proteste di Hong Kong—che ormai vanno avanti da mesi—non apparivano nell’app. Questo farebbe pensare che il governo cinese possa chiedere di ridurre la diffusione di video legati alle proteste per far passare tutto in sordina.

Bytedance ha dichiarato che la versione dei documenti che il Guardian ha visto è stata ritirata a maggio e che le attuali linee guida non fanno riferimento a paesi o problemi specifici. Inoltre, ByteDance ha affermato che aumenterà il numero di moderatori di contenuti su TikTok passando da 6.000 a 10.000 persone.

I dubbi però rimangono poiché in Cina le aziende sono costrette a seguire delle severe leggi locali per quanto riguarda i contenuti pubblicati online. A partire da giugno 2017, infatti, la Legge sulla Cyber Sicurezza governa tutte le attività online in Cina, obbligando le aziende a verificare i nomi reali degli utenti, e tutti gli operatori di rete devono monitorare i contenuti generati dagli utenti per informazioni "vietate alla pubblicazione o alla trasmissione.”

TikTok si difende affermando che i propri server sono al di fuori del territorio cinese, negli Stati Uniti e a Singapore, non dovendo quindi sottostare alle norme cinesi. Inoltre, dichiarano di non aver mai ricevuto richieste di rimozione di contenuti da parte del governo cinese e che, nell’eventualità, non accoglierebbero le richieste.

TikTok non è un’oasi per cretini

La nostra incapacità di comprendere le nuove tecnologie usate dai giovani rischia di farci perdere di vista la realtà. Confusi da un’app che sembra obbligare le persone a parlare solamente usando video e canzoni non ci rendiamo conto di cosa c’è realmente sotto, e finiamo per liquidarla come l’ennesima app inutile con cui trascorrere un paio di ore per poi dimenticarcene.

Sono state scritte pagine su pagine per analizzare TikTok e quello che ci dice della cultura dei ragazzi e delle ragazze della generazione Z, come se dando un rapido sguardo alla superficie dell’app fosse possibile comprendere un’intera generazione.Come ricordano su The Outline, gli adolescenti hanno sempre registrato video di se stessi, caricandoli su qualunque piattaforma avessero a disposizione—da YouTube e Vine, fino a SnapChat e Instagram.

La nostra incapacità di comprendere le nuove tecnologie usate dai giovani rischia di farci perdere di vista la realtà.

TikTok, come molte altre piattaforme, non è un chiaro specchio delle tendenze sociali dei giovani che lo usano ma offre piuttosto un ragionamento sull’influenza degli algoritmi e della tecnologia nella nostra vita. Non siamo di fronte ad un’app per ragazzini stupidi che ascoltano musica stupida ma a un cambiamento del modo di fruire la musica, che diventa più piatta e masticabile in un flusso di meme indistinguibili.

Se proprio vogliamo apprendere qualcosa da TikTok, sottolineano sempre su The Outline, è che forse i giovani si avvicinano a TikTok perché è quanto di più vicino c’è “all'energia e al caos delle vite sociali offline che non possono più condurre a pieno perché l'infrastruttura delle nostre comunità nella vita reale si è erosa.”

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Vieni a parlare con noi di salute mentale, diversità e musica a Milano

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È da qualche anno che Linecheck Festival chiama a Milano, durante la Music Week, giornalisti e lavoratori della musica da tutto il mondo per parlare di cose belle e importanti. Quest'anno, come lo scorso, ci saremo anche noi, e tratteremo dei temi che ci stanno molto a cuore.

Il primo è la diversità e l'inclusione nell’industria musicale italiana. Ormai anche in Italia non stiamo più in silenzio di fronte a dichiarazioni sessiste, accuse di molestie e line-up senza l'ombra di una donna o di una persona non-binary—ma a che punto siamo veramente? Ne parlerà Elia Alovisi dalle 16:00 di giovedì 21 novembre insieme a Sara Colantonio di shesaid.so Italy, rete globale di donne che lavorano nell'industria musicale, Antonia Peressoni dell'associazione Indie Pride, Giulia Mazzetto di Carosello Records e Maria Giulia Trippa dell'ufficio stampa Goigest.

Il secondo è il rapporto tra salute mentale e industria musicale: sono anni che l'ansia e la depressione sono argomenti sdoganati nei testi delle canzoni che ascoltiamo, ma quanto si sta facendo di concreto in Italia per aiutare chi di musica ci vive? La risposta è "poco", ma da adesso un po' di più grazie a Restart—il primo sportello di supporto psicologico italiano per musicisti e addetti ai lavori del music business. Venerdì 22 novembre alle 15:00 Elia Alovisi parlerà con due delle ragazze che hanno fondato Restart, Azzurra Funari e Michela Galluccio, insieme allo psicologo per musicisti Federico Buffagni e a Lina Uglibowska, mental health ambassador.

Il terzo e ultimo è la comunicazione musicale, e nello specifico il modo in cui la tecnologia impatta il modo in cui parliamo di musica. La nostra Carlotta Sisti parlerà giovedì 21 novembre alle 17:30 di come, in pratica, si possono usare tecnologie all'avanguardia—come, ad esempio, la realtà aumentata—per comunicare la propria musica. Lo farà insieme al professore di semiotica dei prodotti mediali Francesco Toniolo, al regista cult Mariano Equizzi e a Paolo Bigazzi di Iter Researh, una società che queste cose le rende reali.

Oltre a tutto questo, ovviamente, ci sarà un sacco di musica. Giorgio Poi, Seun Kuti & Egypt 80, Al Doum & The Faryds, gli Eugenia Post Meridiem, la canadese Tanya Tagaq e molto altro in molti posti. I biglietti sono già disponibili, sia per i meeting che per i concerti. Ci vediamo lì.

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"Il pop del futuro" è una cazzata, Charli XCX è il presente

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Charli XCX si esibirà al Fabrique di Milano lunedì 18 novembre, i biglietti sono in vendita adesso.

"Nell'ultimo anno ho pianto un sacco, è stato assurdo. In un certo senso sono una cattiva pop star, dato che tutto dovrebbe essere sempre fantastico per me, ma non lo è—ed è una merda quando la gente finge che sia così. Ma adoro sapere che tutto potrebbe succedere. È per questo che lo faccio."

L'anno, quell'ultimo anno, era il 2013. Charli XCX stava venendo intervistata dal Guardian in una stanza d'hotel a Budapest, appena prima di un'esibizione a un festival. Era a letto e stava mangiando un'insalata mentre rispondeva. Ci aveva messo sette anni ad arrivare lì, a rendere la sua musica un lavoro e a rendersi subito conto che le popstar perfette erano una cosa del passato. Che i nostri tempi sono fatti di ansia, ironia, lagne e nostalgia.

Oggi cercare "Charli XCX interview" su Google significa essere bombardati da una trentina di articoli che la definiscono "la pop star del futuro", a dimostrare 1) che nel giornalismo musicale il concetto di "futuro" è inflazionato e 2) che è difficile trovare un modo per spiegare Charli XCX a chi non la conosce e condivide la sua sensibilità artistica ed estetica—che è in realtà perfettamente contemporanea più che futuribile. E lo è sempre stata, fin dagli inizi della sua carriera.

Aveva cominciato giovane Charli, a sedici anni. Già nel 2008 si esibiva a Londra est per "raver fatti di ketamina"—la sua musica una versione volutamente esagerata dell'electropop buono sia per i blog che per le classifiche di Uffie, una ragazza che in quegli anni con "Pop The Glock" aveva già inconsapevolmente regalato al mondo un esempio di come lo sporco e l'imperfetto potessero diventare appetibili per la massa informe del pubblico generalista. Sempre il Guardian, all'epoca, la chiamò "una M.I.A. adolescente".

Con queste aspettative era ovvio che una major le offrisse un contratto, ma lei non aveva bene idea di cosa farci: "All'epoca odiavo il pop, volevo fare rap brutto. Non sapevo chi ero". E ancora: "Non volevo fare musica pop, volevo fare canzoni strambe da performance artistica, roba che potessi suonare ai rave vestita come Marge Simpson." E così la sua etichetta la mandò a Los Angeles a lavorale con Ariel Rechtshaid, un producer che hanno formato il suono dell'oggi—misto, ibrido, frullato—e nel cui curriculum ci sono i Vampire Weekend, ma anche Madonna, ma anche i Major Lazer, ma anche Sky Ferreira. Risultato? All'alba dell'era del poptimism, non poteva che arrivare un Best New Music su Pitchfork.

"Non volevo fare musica pop, volevo fare canzoni strambe da performance artistica, roba che potessi suonare ai rave vestita come Marge Simpson"

E proprio lì è nato il più grande problema e il più grande pregio di Charli: da un lato è un'autrice pop capace di scrivere quelle canzoni che entrano nelle teste di milioni di persone, dall'altro è una ragazza a cui piace tutta la musica, soprattutto quella strana ed esagerata, e non ha intenzione di mettere il suo nome su cose che non rispecchiano questa sua convinzione. La soluzione? Mettere il suo nome al servizio di altri artisti dall'identità meno forte.

La prima volta che il nome di Charli XCX arriva a chiunque, infatti, è nel 2012. Il suo nome è su "I Love It" delle Icona Pop, un duo di DJ svedesi che avrà in quel pezzo la sua unica, vera grande hit—un pezzo che all'epoca girava su qualsiasi radio e in qualsiasi club in tutto il mondo, sorretto dalla forza di un ritornello roboante e menefreghista fin dal titolo, rafforzato da un testo in cui già si poteva prevedere la Miley Cyrus libertina tutta diti medi di Bangerz: "You're from the '70s, but I'm a '90s bitch", gridava Charli, e con lei un sacco di altra gente.

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Charli XCX, fotografia promozionale (2013)

"I Love It" dà a Charli credibilità commerciale, e quindi nel 2013 arriva il suo esordio True Romance —un disco pop che, per intenderci riguardo alla natura del materiale che lo compone, già al secondo pezzo campiona un genio dell'underground elettronico americano come Baths. Però le folle grandi diventano ancora più grandi quando, ancora una volta, presta il suo servizio a un'altra voce: quella di Iggy Azalea, di cui nel 2014 firma "Fancy".

Però, in quel periodo, Charli è insoddisfatta: "Ero orgogliosa di quello che pubblicavo, ma ho capito che non era la musica che volevo ascoltare nel mio tempo libero. Non era quello che volevo sentire quando andavo a ballare". Nel 2015 esce SUCKER, il suo secondo album: funziona bene, lei viene inquadrata come neo-icona femminista, ma non è ancora quello che Charli ha sempre voluto fare, cioè pop per la gente che—come lei—non ascolta pop. "La copertina di SUCKER colpisce l'occhio e rappresenta bene la sua musica", aveva scritto Noisey UK di quel periodo, "cioè luminosa, audace, piena di carattere. Ma poteva stare sul disco di chiunque, da Katy Perry a Miley Cyrus, passando per Demi Lovato".

Il 2017 è l'anno in cui il pop colma finalmente il gap con Charli.

Fortunatamente sul suo percorso incontra un collettivo che, guarda caso, sta giusto giusto facendo pop per gente che non ascolta pop. L'ha fondato tale A.G. Cook, si chiama PC Music, e fa elettronica HD, zuccherina, iperreale, queer, cantata, esagerata—fino a sfociare nella performance art. Tutti aggettivi perfetti per descrivere il Vroom Vroom EP (prodotto da SOPHIE), Number 1 Angel e Pop 2, i primi progetti che, se ascoltati oggi, hanno chiaramente dentro tutte le caratteristiche che definiscono il pop più avanguardistico di oggi: il 2017 è, insomma, l'anno in cui il pop colma finalmente il gap con Charli.

"La storia della carriera di Charli finora non è stata fatta di frenate e ripartenze: la realtà è che è sempre stata diversi passi avanti rispetto a tutti gli altri, e che non ha mai avuto la pazienza di aspettare che il mondo la raggiungesse", scriveva Noisey UK due anni fa. Lei era in pace: inserita alla perfezione nell'industria musicale, ma abbastanza libera dal classico ciclo di promozione e pubblicazione di inediti. "Non so nemmeno se pubblicherò un album", disse a The FADER in quel periodo, "L'album è una cosa in cui vale la pena investire per me in quanto artista? Non saprei".

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La copertina di Pop 2 di Charli XCX, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Charli era, ed è tuttora, la conferma che la musica ibrida era davvero il futuro, come si diceva da un paio d'anni a quella parte. Su Pop 2, che già dal titolo diceva, "Hey! Questa è una cosa nuova!", tutto era fluido, queer, sconfinato, traslucido. C'era l'eroina drag brasiliana Pablo Vittar, il rapper estone Tommy Cash e quello sudcoreano Jay Park, la popstar per poptimisti Carly Rae Jepsen e quella per indie convinti Caroline Polachek, quel modello di liberazione sessuale nella lingua del rap che è cupcakKe. Tutti nomi e tutte qualità che il pop più industriale, oggi, imita e prende per farsi woke, contemporaneo, figo.

E quindi è strano che ancora oggi i titoli delle interviste a Charli XCX siano incentrati sul futuro, come se l'essere (ancora) fluidi, queer, sconfinati, traslucidi sia ancora una proiezione e non un prendere atto del proprio stato, qui e adesso. Charli non è la popstar del futuro, è la popstar di oggi. Quella che "è dentro la macchina, sa come funziona e la vuole fermare", secondo le parole di Adelaïde Letissier, cioè Christine and the Queens, cioè sua compagna di traccia su "Gone"—il pezzo di punta di Charli, il suo nuovo album.

È strano che ancora oggi i titoli delle interviste a Charli XCX siano incentrati sul futuro, come se l'essere fluidi, queer, sconfinati, traslucidi sia ancora una proiezione e non un prendere atto del proprio stato, qui e adesso.

Perché poi, anche se nel 2017 aveva qualche dubbio, Charli l'ha fatto un altro album. Ma lo ha fatto solo una volta che si è sentita "in possesso della sua cazzo di roba": l'ha fatto come Pop 2, ma con il budget e l'ambizione di un progetto da major. L'ha fatto coinvolgendo tutto ciò che è il pop-non-tradizionale più figo della contemporaneità (Troye Sivan, Lizzo, Sky Ferreira, le HAIM) e innestandoci sopra l'elettronica presa bene di Yaeji, la bounce di Big Freedia post-sdoganamento di Drake.

E lo sa, Charli, che quello che ha fatto e farà ha un valore al contempo distruttivo e creativo. "Sentirete parlare di me per un sacco di tempo, anche se non farò numeri uno", ha detto. "Forse non farò sempre l'artista. Forse farò l'autrice. Ma avrò cambiato lo scenario del pop, la sua definizione. L'ho già fatto. Ci credo, davvero. So che può sembrare arrogante guardare negli occhi qualcuno e dirglielo, ma è vero."

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Capire i testi di Franco126

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La settimana scorsa Franco126 è stato protagonista di un evento della serie Niente di Strano, organizzata da BuddyBank e Tidal, dividendo il palco con i 72-HOUR POST FIGHT.

Franco126 è stato per diverso tempo quello-che-canta-con-Carl-Brave. Il “basso” dei due, quello che ha sempre gli occhiali da sole anche sul palco, schivo quanto basta per fare colpo, un po’ per i cazzi suoi, ma che lascia intuire un’anima di panna montata e cioccolato fondente. Quando il socio e compagno di sbronze ha lanciato il proprio progetto solista, sancendo la rottura del duo che ancora oggi viene ricordato con toni nostalgici, in molti avranno pensato che per Franchino fosse arrivata la data di scadenza. E invece no: abbandonato l’auto-tune e lasciati i cliché su Roma a casa, il nostro uomo, da certo Mauro Repetto, si è rivelato essere un Max Pezzali.

Lasciati i cliché su Roma a casa, il nostro uomo, da certo Mauro Repetto, si è rivelato essere un Max Pezzali.

Lo ha fatto con un album solista—che si chiama Stanza Singola, nel caso il concetto non fosse chiaro—che unisce pop e cantautorato italiano, ma non più abbellito da istantanee polaroid di attimi quotidiani, piuttosto annacquato da immagini sfocate e reminiscenze emotive. Insomma, Franco126 ha stupito tutti e forse anche se stesso mettendo in mostra la sua capacità di suggerire stati d’animo e ricreare atmosfere quotidiane prima ancora che situazioni. Ma, soprattutto, Franchino è diventato immediatamente “il figo romantico”.

Come ogni cantante pop che parla di amore e sventure, e che arriva a un certo successo popolare, Franchino si è trasformato in un idolo per le ragazze. A differenze di alcuni suoi colleghi come Carl Brave (fregno e dannato) e Tommaso Paradiso (quello da presentare ai genitori), Franco è stato investito della carica di figo romantico, quello sensibile e un po’ sfigato, che si fa le pare sulla tipa e che probabilmente boicotta la sua stessa vita amorosa.

franco126 stanza singola
La copertina di Stanza Singola, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Risultato? Ai ragazzi piace perché giustifica le loro stesse cazzate sentimentali e la loro vita naa naa ancora che stamo pellaaaria, e perché rivedono in lui l’amico che ti capisce, con cui dimenticare tutto con una risata e spallucce. A noi ragazze piace da morire perché ci fa crogiolare nelle nostre paturnie sentimentali, proiettiamo su di lui l’ultimo stronzo che ci ha spezzato il cuore, ma che tuttavia non riusciamo a odiare perché alla fine è buono, non lo fa con cattiveria, è confuso, bla bla… E noi giù di lacrime e mutandine bagnate mentre cantiamo faccio ancooora la moka per duuee accecate da grosse fette di prosciutto emotivo sugli occhi.

E da cantante preferito a uomo ideale che vorremmo nelle nostre foto di Instagram il passo è breve, e anch’io mi sono lasciata conquistare dal fascino di quello sfigato in amore che appare tra le righe. Tuttavia, leggendo attentamente le parole di Franco126 ho fatto una scoperta scioccante: Franchino potrebbe essere il peggior uomo di cui innamorarsi.

I testi di Franco mi hanno acceso una lampadina su come spesso le relazioni sentimentali possano essere molto contorte e faticose, spesso proprio per colpa nostra.

Chiaramente non parlo di Franco come persona, che non conosco e con cui non ho mai bevuto una birra (e che, spoiler alert, non si chiama nemmeno Franco). Ma i suoi testi mi hanno acceso una lampadina su come spesso le relazioni sentimentali possano essere molto contorte e faticose, spesso proprio per colpa nostra.

Molti dei tratti che associamo all'uomo canonico, quello delle canzoni, della letteratura e dei film, sono infatti ispirati a una concezione della mascolinità vecchia, con i suoi lati romantici ma che a ben guardare mostrano un modo di approcciarsi alle relazioni non del tutto sano. Il Franchino delle canzoni, insomma, è un "vero uomo": misterioso e affascinante, ma anche incapace di comunicare e di mostrare empatia.

franco126 carlo pastore
Franco126 e Carlo Pastore a Niente di Strano

Prendiamo “Frigobar”, primo singolo estratto da Stanza Singola, in cui Franco dice che “Se va così non è né mia né tua la colpa”, e aggiunge “E lo so, vuoi una risposta / E io vorrei dire qualcosa, ma le parole mi muoiono in bocca”. A una prima lettura chiunque si scioglierebbe proiettando su queste parole la propria storia personale, colorata da un amore complicato, quasi adolescenziale. Ma quello che Franco mette in scena è uno dei tipici problemi comunicativi che può rendere un rapporto tossico. In questo caso si tratta di un tipo di comunicazione passiva, un non-dire del soggetto, che non riesce a esprimere in modo assertivo i propri sentimenti per la ragazza in questione.

Stesso meccanismo anche in “Brioschi”: “E ti vorrei parlare / Ma mi mangerei le parole / Continuo a bere vodka e Schweppes / Magari il primo passo lo fai te”. Carino, vero? Un ragazzo timido e impacciato con le parole, ma è chiaro, anche se non lo dimostra apertamente, che è cotto di te, quindi tu spreca energie e tempo per interpretare i suoi silenzi, magari, chissà, dopo tanto tempo, si farà avanti. E invece magari poi si rivela solo un soggetto passivo che, invece di venirti a parlare e offrirti un drink, preferisce bersene cinque da solo mentre ti osserva da lontano.

Alla lunga, nel rapporto si accumuleranno talmente tanta frustrazione, ansia e insicurezza che vi sembrerà di vivere in un film di Ozpetek più che in un videoclip indie.

Se tutto questo vi appare come una storia d’amore degna della regia di Francesco Lettieri, vi assicuro che nella realtà comporta solo silenzio, scarsa partecipazione emotiva e fughe da situazioni di coppia ritenute stressanti. E, alla lunga, nel rapporto si accumuleranno talmente tanta frustrazione, ansia e insicurezza che vi sembrerà di vivere in un film di Ozpetek più che in un videoclip indie.

Se prendiamo il testo di “Stanza Singola”, invece, troviamo la stessa situazione di impasse comunicativo, ma con meccanismi diversi. Prendete la frase “Stammi vicino e tienimi lontano”: bella, vero? Fa un po' film drammatico della Nouvelle Vague, giusto? Bzzz! Errore. Questo è l’esempio di uno dei più pericolosi casi di comunicazione distorta in cui potete cadere in un rapporto.

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Franco126 live per Niente di Strano

Il soggetto in questione, incapace di esprimere i propri sentimenti e le proprie intenzioni, o di capirli chiaramente per se stesso, attua strategie comportamentali e comunicative ambigue. È il tipico caso dell’uomo che a malapena vi saluta, ma poi vi scrive messaggi carini su Instagram. È l’uomo che vi cerca, vuole vedervi, ma non è chiaro nei suoi intenti, o non “ci prova” con voi. Infine, è quello che vi provoca, magari ferendovi, allontanandovi, solo perché vuole che siate voi a corrergli dietro.

Le conseguenze di simili meccanismi si possono vedere chiaramente in pezzi come “San Siro” (“E qualcosa si è guastato tra di noi / Io ti ho detto: 'Vai', tu mi hai detto: 'Rimani'") e “Fa Lo Stesso” (“Ho detto: 'Bye', qualche rotella fuori posto / Ma poi t'ho guardato un secondo di troppo, lo so”). Ovvero, un rapporto in cui ormai la frustrazione e il rancore reciproco hanno infettato l’amore, causa una comunicazione ambigua volta più alla chiusura in difesa che al gioco di squadra.

Avete sentito uno schianto nella vostra testa? Era il rumore delle vostre fantasie romantiche che si infrangevano.

Adesso, avete sentito uno schianto nella vostra testa? Era il rumore delle vostre fantasie romantiche che si infrangevano. Forse mi odiate, ma un giorno mi ringrazierete per avervi aperto gli occhi su un tipo d’uomo, che alla fine tutte rincorriamo ma è peggio della panna nella carbonara—che non è Franchino l'uomo, rimettiamolo in chiaro, ma i suoi testi inquadrano bene. L’uomo che sa cosa e chi vuole, quello assertivo e ben comunicativo, non è proprio l’eroe romantico da film hollywoodiano che sogniamo, ma è sicuramente quello che vi auguro di amare.

Nei testi di Franco126, invece, si descrive un uomo indeciso e, nonostante le apparenze, insicuro verso se stesso e la persona che vuole conquistare. E tale stato emotivo non gli permette di tirare fuori gli attributi per farvi capire chiaramente cosa vuole da voi, ma preferisce barricarsi dietro una trincea di silenzi e ambiguità, aspettando che siate voi a fare la prima mossa.

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Franco126 live per Niente di Strano

Voi, invece, restate appese a un rapporto, o anche a un semplice flirt, che vi fa continuamente sperare in una svolta perché si presenta come una situazione vaga, che non è positiva, ma nemmeno del tutto negativa. E quindi, frustrate e confuse, aspettate che il Franchino di turno maturi all’improvviso come l’avocado e vi dichiari le sue intenzioni. Spoiler: molto improbabile.

Insomma, le canzoni di Franco126, tutto sommato, non ci fanno proprio sognare una storia d’amore a lieto fine come credevamo. Che poi, a pensarci bene, un album che si intitola Stanza Singola forse non è proprio la miglior immagine per rappresentare una felice vita in due.

* Come dicevamo all'inizio, Franco126 ha cantato davanti a una piccola folla in un ufficio al diciannovesimo piano della torre Unicredit. Il live era il terzo della serie Niente di Strano, organizzato da BuddyBank e Tidal, ed è stato davvero una figata. Prima è stato il turno dei 72-HOUR POST FIGHT con le loro strumentali sognanti, jazzate e psichedeliche, e poi Franchino ci ha regalato addirittura un'inedita versione acustica di "Cos'è l'Amore", la canzone scritta con Ketama126 e la voce di Franco Califano. Lo potevi vedere in streaming su YouTube in diretta, ma se te lo sei perso non preoccuparti perché tanto puoi rivederlo qua sotto.

Avantguardia è l'oasi felice di Shablo

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Vi ricordate il 2016? Sono passati quattro anni ma sembra ieri che eravamo tutti a cantare che lo facevamo XDVR. La trap entrava nel cervello e nelle orecchie della gente grazie al lavoro di una serie di artisti, beatmaker, producer e manager a cui dobbiamo—direttamente o meno—buona parte della musica che ascoltiamo oggi. E tra quelli c'è Shablo, prima con Roccia Music e poi con Thaurus e BHMG.

Forse però non tutti voi sapete che Shablo ha anche un progetto particolare, nato proprio in quel periodo e fondato insieme al regista Pepsy Romanoff e al designer OK Rocco. Si chiama Avantguardia ed è un collettivo di talenti italiani che con Shablo lavorano ogni giorno per scolpire un underground parallelo a metà tra hip-hop ed elettronica, innamorato dei suoni downtempo quanto degli hi-hat della trap. Ma, soprattutto, "è una valvola di sfogo dalla quotidianità", dice.

Chi lavora con la musica, infatti, prima o poi si scontra con la realtà economica e professionale della propria passione—e quindi, nel caso di Shablo, di prendersi una pausa dal suo ruolo di hitmaker e manager e dedicarsi a un progetto che, spiega, "rappresenta il trionfo della fantasia sulla materia e sul concreto." Si tratta della nuova compilation firmata Avantguardia, Virtus, un lavoro costruito attorno a un'idea di musica elettronica pacifica, cerebrale, in HD.

"Viviamo in un mondo in cui gli streaming e i numeri la fanno da padrone sull'arte: Avantguardia fa un passo indietro e mette l'idea prima dei risultati raggiunti. Noi costruiamo visioni", spiega Shablo. "Cerchiamo persone in cui crediamo e gli diamo libertà massima di esprimersi, senza alcun tipo di aspettativa di risultato concreto discografico. Pubblichiamo quando ci pare, quando siamo pronti, quando abbiamo i pezzi. Non abbiamo strategie di marketing, sono idee pure."

Un esempio sta là in alto alla pagina: il video di "Illustration" di Polezsky e Hoovr, un pezzo che sembra essere uscito dai sogni più morbidi di Cashmere Cat, accompagnato da un visual in cui il viola di una galassia spezza il nero e il grigio di un mondo virtuale. Non si capisce bene cosa significhi—ma non è un problema, perché il punto è come ti fa stare quando lo senti. Cioè rilassato, in pace con il mondo.

"Avantguardia fa un passo indietro e mette l'idea prima dei risultati raggiunti."

"Anche se sembra un controsenso, anche chi fa un lavoro creativo come me spesso si trova a scontrarsi con il ruolo dell'arte", spiega Shablo, "si tratta di comunicare tante cose, è tutto basato sull'ego del protagonista. Ecco, con Avantguardia mettiamo l'arte, anche come espressione grafica e visiva, in primo piano."

Nei pezzi di Virtus, infatti, non si sente il peso di alcuna aspettativa—è un lavoro di elettronica cullante e mutaforme che rivela in un momento un eco dei Kraftwerk e in un altro un mezzo jazz robotico, ma sempre pucciata in quel liquido dolce che scorre per le vene di producer come Shlohmo, Shigeto, Baths, Nosaj Thing.

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King Princess è giovane, gay, triste e bravissima

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Mikaela Straus è una fissata di scarpe da ginnastica e mi sta descrivendo nei dettagli le sue Nike. Guardandomi da sopra la montatura rettangolare dei suoi occhiali Gucci—lasciandomi vedere i suoi occhi per la prima volta da quando abbiamo iniziato a parlare sedute in un caffè di Venice Beach, California—mi informa che sono Air More Uptempo NYC Q. In caso non foste iniziati al culto, vuol dire che sono scarpe da basket grigio chiaro con le lettere NYC bianche giganti, in riferimento alla sua città di origine, cucite sul lato.

Allunga la gamba per farmi vedere meglio. I suoi jeans, un paio di Marithé + François Girbaud, hanno uno strappo enorme sul ginocchio sinistro. Quando si muove il ginocchio fa capolino e rivela una pelle così pallida che quasi riflette la luce del sole.

"Ne ho sempre voluto un paio così, da quando andavo a scuola", dice. I capelli castani a caschetto sembrano sempre sul punto di finirle negli occhi, ma invece no. "Ora che ho fatto un po' di soldi posso permettermi cose così".

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Straus, che quando canta si fa chiamare King Princess, compirà 21 anni a dicembre. Ma nell'ultimo anno e mezzo la sua vita è cambiata drasticamente—e la questione dei soldi è il meno. Tutto è iniziato con il suo primo singolo, "1950". La canzone, basata sul romanzo Carol di Patricia Highsmith, da cui è stato anche tratto un film nel 2015, è un'ode all'amore queer in un mondo che cerca ancora di soffocarlo. Harry Styles ne ha twittato un verso; Kourtney Kardashian ne ha parlato su Instagram. Anche Taylor Swift è una sua fan. Nel momento in cui scrivo, ha oltre 280 milioni di riproduzioni su Spotify.

Nel mondo di oggi, per un artista, diventare virale può essere tanto esaltante quanto terrificante, il peso di soddisfare le aspettative può diventare insostenibile. Ma Straus, almeno vista da fuori, era preparatissima per un momento del genere. Ha passato l'infanzia al Mission Sound—lo studio di registrazione di suo padre, Oliver Straus, a Brooklyn—insieme ad artisti indie famosi, a volte anche cantando nei loro dischi. Quando aveva 11 anni ha rifiutato una proposta di contratto della Virgin Records e quando ne aveva 17 si è trasferita sull'altra costa per studiare musica all'Università della California Meridionale. Dopo un anno ha lasciato, ha firmato per Zelig Records (la sotto-etichetta della Columbia gestita da Mark Ronson) e pubblicato "1950". Il suo primo EP, Make The Bed, è arrivato poco dopo e a fine ottobre ha pubblicato il primo vero album, Cheap Queen. In un anno che è già stato rivoluzionario per il queer pop, con le fantastiche uscite di Clairo, MUNA e Shura, tanto per fare qualche nome, il debutto di Straus è il punto esclamativo alla fine della frase.

"Continuerò a scrivere canzoni pop, ma questo album non è fatto per questo. Questo disco è per farmi il mio pianto gay."

"Cheap Queen è stato un parto," dice. "Penso che rifletta molto bene il periodo che stavo vivendo e l'anno passato—perché che cazzo è successo?" Risponde alla sua stessa domanda retorica: "Ho fatto uscire "1950", è esploso e ho dovuto rincorrere il mio stesso talento per un anno. Non sapevo come fare questa roba. Non sapevo come andare in tour. Non sapevo stare su un set fotografico... Mi sono detta: farò finta di essere capace finché non imparo davvero—facendo tutto meglio che potevo, scoprendo di volta in volta se sono brava in queste cose o no. A quanto pare lo sono."

Guardando i numeri, non si può che essere d'accordo. Il suo primo concerto da headliner a New York, a giugno 2018, è stato davanti a 200 persone. I suoi prossimi concerti in città, a novembre, hanno già registrato il tutto esaurito per due sere di fila in una sala da 3000 persone. Nonostante Straus sembri perfettamente in grado di gestirsi e di essere a suo agio, riconosce che far uscire un album come Cheap Queen è stato visto da alcuni come un rischio considerevole: "C'è un milione di persone che ti dice cosa è una cazzo di hit, cosa non lo è e come dovrebbe suonare la tua musica", dice. "Anche nel mio team, che amo, ma sono sotto major... è soltanto molto difficile ignorare tutte le opinioni e dire 'Il cazzo di disco esce come dico io'." O, in altre parole: "Sono una tipa pop e continuerò a scrivere canzoni pop, ma questo album in particolare non è fatto per questo. Questo disco è per farmi il mio pianto gay."

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Cheap Queen è estremamente personale per Straus. Ha lavorato alla produzione e alla scrittura di tutte e tredici le canzoni del disco; di quattro è l'unica autrice. Prese tutte insieme, dice, le canzoni raccontano la storia dell'ascesa e del declino di una relazione reale. Straus evita educatamente di fare nomi, ma basta una veloce ricerca su Internet per scoprire che molto probabilmente la storia è quella tra lei e la sua ex ragazza, l'attrice Amandla Stenberg (che compare nell'album come co-autrice della title track e che con Straus e Nick Long aveva scritto anche il singolo bomba del 2018 "Pussy is God").

Nonostante Cheap Queen sia incentrato su una relazione queer, l'identità sessuale e relazionale di Straus non è il punto focale, ma la lente attraverso cui vede il mondo. "Non è un disco sull'essere gay", dice. "È un disco sull'essere una persona che fa buona musica e che è anche gay—quella è la ciliegina sulla torta".

Un esempio perfetto di come l'identità di Straus abbia influenzato il suo songwriting è "Homegirl", una delle tracce migliori di Cheap Queen, scritta insieme al fedele collaboratore Nick Long e a Romy Madley-Croft degli XX. Su un tappeto di sognante chitarra acustica, Straus affronta la sensazione di essere trattata da oggetto mentre lei e una partner si trovano a una festa—un valzer romantico cupamente filtrato dallo sguardo reificante maschile. "Non c'è bisogno di dirlo / Siamo amici alla festa", cede alla fine del ritornello, poi promette: "Ti darò il mio corpo a casa".

"La percezione che la gente ha di te e dell'altra persona in una relazione gay o queer può essere molto traumatica", dice Straus parlando dell'ispirazione per il pezzo, "specialmente con gli uomini—quando ti guardano, ti girano attorno, commentano. È quella sensazione di essere vista come un oggetto. Specialmente quando ero più giovane, mi colpiva tantissimo. Molti erano del tutto privi di rispetto per la relazione queer, tipo: 'Oh, come va, vuoi scopare?' Voglio dire, quella è la mia ragazza. Non rivolgerle nemmeno la parola. Vaffanculo."

Straus parla come una persona che è a suo agio con la propria queerness da molti anni, il che è vero—il suo coming out è avvenuto quando faceva le medie. Tuttavia, una parte della sua identità che è evoluta e continua a evolvere è il suo rapporto con l'espressione di genere (Straus è genderqueer ma usa pronomi femminili). Un grande momento di scoperta di sé, dice, è arrivato alle superiori, quando si è trovata a volersi presentare in maniera tipicamente femminile per la prima volta nella sua vita. Quando le chiedo se si sentiva spinta a farlo per sembrare cis/etero ed essere accettata, lei risponde di no—voleva esplorare il suo rapporto con la femminilità: "Non mi ero resa conto che il modo in cui avrei potuto essere femminile—e sentirmi più a mio agio nell'esserlo", spiega, "era esibendomi".

"Quando ero più piccola, mi sembrava tutto semplice. 'Sono gay', fine. Ma ora che ho le parole per descrivere come mi sono sempre sentita, tutto è più complicato. Ma è una complessità che mi piace, perché siamo tutti contraddizioni viventi."

Esprimiamo tutti il nostro genere in maniera diversa, ma Straus lo fa con vera joie de vivre. Sul palco e nei suoi video, combina immaginario maschile e femminile in maniera giocosa—facendo intendere che tutti questi costrutti sono una grande barzelletta che chiunque può capire se solo se lo concede.

Per esempio, il video del suo recente singolo "Prophet" inizia con Straus vestita da giocatore di football nella squadra della scuola e finisce con lei sdraiata sul tavolo, il corpo una vera e propria torta—ricoperto da una glassa di stoffa bianca e circondato da rose tipo American Beauty che, alla fine del video, un'orda di uomini e donne d'affari mangiano con entusiasmo. Quando le chiedo che tipo di vestiario la fa sentire maggiormente se stessa, Straus indica quello che sta indossando in quel momento: le sneakers, i jeans e una canottiera bianca Hanes. Più tardi, seguendola in un vicolo durante il servizio fotografico nel Canal District di Venice, mi accorgo che la sua canottiera è al contrario, dentro per fuori.

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"Quando ero più piccola, mi sembrava tutto più semplice", dice Straus della sua identità. "'Sono gay', fine. Ma ora che ho le parole per descrivere come mi sono sempre sentita, tutto è più complicato. Ma è una complicatezza che mi piace, perché siamo tutti dicotomie viventi in un certo senso. Siamo contraddizioni viventi. Non penso che diverse identità si escludano a vicenda. È questo che rende una persona interessante, bella e intersezionale."

Anche la musica di Straus ha tante identità. In Cheap Queen, sa manifestare la carica da club di "Hit the Back" con la stessa nonchalance dell'introspezione di "Do You Wanna See Me Crying?". In quest'ultima, come se stesse ripetendo un mantra per se stessa, canta: "Penso di stare superando lo stress ora / Voglio far uscire un milione di canzoni".

Le chiedo di spiegarmi questo verso—se significa che nonostante abbia appena pubblicato il primo album farà uscire presto altra nuova musica. "Certo che sì, cazzo", risponde. "Se ti fermi, muori. Scherzo." Ride, poi mi guarda negli occhi un'altra volta. "Ma se l'ho detto in una canzone", aggiunge, "facevo sul serio".

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

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Guarda The People Versus Madame

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Anche voi non ci avete capito niente quando avete ascoltato per la prima volta “Sciccherie”? Bene, allora vi piacerà sicuramente il nuovo episodio di The People Versus, in cui abbiamo chiesto a Madame di rispondere ai commenti degli hater sotto ai suoi video di YouTube.

C’è chi non vuole vederla in mutande e chi invece vuole vederle i piedi, chi la attacca per il testo di “17” e chi sostiene che per considerare le sue canzoni “musica” bisogna essere sotto di stupefacenti. Lei ha preso la situazione in mano, ha risposto con il sorriso e ha fatto delle espressioni che andrebbero incorniciate e appese in un museo. La puntata integrale è qua sopra su YouTube.

Guarda gli altri episodi di The People Versus.

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Diamoci una calmata su tha Supreme

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Se leggete articoli scritti in inglese che parlano di musica su internet, vi sarete resi conto che—hey, il decennio è finito! Ed è quindi arrivato, per ogni singolo media musicale, il momento di stabilire incontrovertibilmente quali sono stati i migliori artisti, dischi, video, canzoni dal 2010 a oggi.

Dato che di lavoro pure io parlo di musica su internet, martedì scorso mi sono messo a parlare con chi fa questa testata insieme a me degli artisti che hanno definito il decennio appena passato in Italia. E una persona ha detto, e copio: "Ma proprio non si può mettere tha Supreme?" E martedì scorso il suo album d'esordio 23 6451 non era ancora uscito.

Questo per dire che attorno a tha Supreme, che si chiama Davide Mattei ed è nato nel 2001, c'è un rumore assordante. Un casino di post, parole e opinioni tale per cui, ad album ancora inedito, alla mia collega è venuto da prenderlo in considerazione come artista che ha definito il decennio. E io ci rimango confuso e felice, proprio come la Carmen. E prima vi dico perché sono felice.

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La copertina di 23 6451 di tha Supreme, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Per creare una conversazione di questa portata, un artista deve essere di rottura. Creare un prima e un dopo con il testo e con il suono, così da confondere e fare incazzare le persone più anziane di lui e esaltare le sue coetanee. Queste cose non le crei a tavolino, succedono e basta, e quando succedono è splendido esserne testimoni perché vedi con i tuoi occhi i confini bucarsi, i generi musicali allargare i propri confini di significato.

Come ha notato Marta Blumi Tripodi su Rolling Stone, "[Se hai più di vent'anni] in un attimo ti ritrovi a pensare 'Sono troppo vecchio/a per queste cose'. E in fondo è questo il bello." Ed è vero, perché è bello sentire un artista fare cose astratte con le parole, staccarsi dalle punchline e giocare con i luoghi comuni per sottolinearne l'assurdità—come faceva Young Thug nel 2015, quando si sentivano tanti "Che cazzo ha detto?" ma altrettanti "Che bomba".

Per creare una conversazione di questa portata, un artista deve essere di rottura.

E non solo: è bello sentire un producer trovare un suono nuovo, caotico e coloratissimo, in cui sono ok beat col basso che clippa, campioni swing e chitarre. Ed è ancora più bello sentirlo oggi che il suono della nuova scuola, intriso di trap, non è più innovazione ma solo un modello dominante da seguire. Ed è bello godere del suo dono innato per i ritornelli che nel bene o nel male ti si ficcano in testa, e sono striduli e stonati e strani. Come, scusatemi se lo tiro ancora in mezzo, Young Thug nel 2015.

Infine, è bello vedere un ragazzo così famoso gestire la sua immagine non gestendola, rifiutare qualsiasi intervista per promuovere l'album, farsi i cazzi suoi. tha Supreme è padrone della sua musica e dei suoi testi, schizzi che sembrano a casaccio ma invece no, come quelli sulla tela di un espressionista astratto.

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tha Supreme, immagine stampa

E questo è perché sono felice. Invece sono confuso perché trovo disturbanti le reazioni che 23 6451 ha generato. Mi ha fatto strano leggere così tanti insulti nei confronti di thaSup, ma mi ha fatto altrettanto strano rendermi conto della quantità di gente che sostiene che abbia fatto un capolavoro. Non perché non siamo di fronte a qualcosa di effettivamente geniale e innovativo, ma perché mi sembra ancora presto.

L'ho già scritto in breve, ma secondo me l'idea da cui partire per parlare di tha Supreme oggi è: diamoci una calmata. Se gridiamo al miracolo o alla merda lo stiamo facendo di pancia e non di testa, perché viviamo in un'epoca in cui siamo abituati a giudicare tutto e immediatamente. E questa cosa crea numeri—23 6451 è il secondo album più ascoltato nelle 24 ore dell'uscita nell'era dello streaming in Italia, poco dopo il MACHETE MIXTAPE 4, in cui comunque c'erano tre contributi di thaSup—ma rischia anche di generare un clima tossico.

Se gridiamo al miracolo o alla merda lo stiamo facendo di pancia e non di testa, perché viviamo in un'epoca in cui siamo abituati a giudicare tutto e immediatamente.

Pensate a un bambino prodigio del calcio che viene acquistato da una delle migliori squadre del mondo—e poi, però, non è subito forte come i suoi compagni di squadra già grandi. Quindi ci si dimentica di lui, si grida al flop. Lo si manda in prestito in squadre più deboli. Lo si dà per finito. E poi invece magari lui, dopo tre o quattro anni, si rivela davvero forte. Perché ha avuto tempo di crescere, affinare le sue competenze, capire chi è e che cosa sa fare bene. Questa persona esiste, ed è il norvegese Martin Ødegaard. Ragazzino precoce e caricato di hype, svanito alle prime imperfezioni e oggi, sorpresa, rinato.

Ora, tha Supreme è ancora al primo step. È oggettivamente capace di creare suoni e atmosfere che nessun altro sa creare, ed è innegabile la sua capacità innata di generare attenzioni e discussioni su internet, valuta contante nel mercato musicale oggi. Ma sarebbe bello lasciargli spazio per continuare a fare musica e crescere senza grida e alzate di scudi attorno. Che, tra l'altro, è il motivo per cui Slait, Hell Raton, Salmo e il team di Machete lo stanno proteggendo dalle attenzioni dei media.

"I giornali che diranno / È la promessa dell'anno / E dico vaffanculo" canta un'altra ragazza prodigio che ha un anno in meno di tha Supreme. E ha ragione, perché siamo noi media a dire con leggerezza che gli artisti sono il futuro, una bomba, culto, epici. A volte lo facciamo perché siamo stanchi e stressati e non sappiamo cos'altro dire per spingervi a cliccare e commentare così da evitare il nostro licenziamento, ma molto più spesso è che siamo esaltati e vogliamo condividere il nostro entusiasmo con chi ci legge. Ma dobbiamo pensare alle conseguenze delle nostre parole, anche quando sono belle. Perché se le diciamo troppo si svuotano di significato.

23 6451 è un disco, pure lui, confuso e felice. È confuso perché è lunghissimo, e a tratti non si capisce un cazzo di quello che sta succedendo nei tuoi timpani—altra quote dalla chat da cui abbiamo cominciato: "Seriamente raga ma cosa dice nell’extrabeat di 'fuck 3x' ahahah capisco solo 'personal'." E a me piace la confusione. Credo sia bellissimo sentire chitarre spaccate, swing pazzi, hi-hat a cascata, trombette, accelerate da montagne russe, parole che si arrampicano l'una sull'altra per non restare soffocate dal peso dei loro corpi ammassati. Ma capisco chi non lo considera piacevole, ecco.

E però 23 6451 è un album felice. Perché è un vulcano di idee, è così sicuro di sé che non ha paura di essere maldestro. È quello che esce dalla mente di un ragazzo di talento a cui vengono dati i mezzi di fare quello che gli pare, e quindi ci mette i feat con chiunque e 20 tracce. Credo però che il suo momento più felice non sia un Salmo, un Fibra, un Marra, un Mad&Gem, e nemmeno uno dei singoli da milioni di ascolti. Per me il senso di questo disco è "m12ano", in cui Davide canta insieme a sua sorella Sara.

E però 23 6451 è un album felice. Perché è un vulcano di idee, è così sicuro di sé che non ha paura di essere maldestro.

"m12ano" racconta una cosa semplice: un giro per la città, due canne, due storie, un amore che sta per finire (o è già finito), e poi la luna che sta in cielo. Ha un beat rassicurante come un carillon. E se qualsiasi cosa uscita finora con il nome di thaSup ha un'idea melodica definita, qua quest'idea si rifrange e diventa cento idee: i "luna" così dilatati e corali, le doppie sulla strofa di lei, il rappato che si fa grido da "Quasi quasi brucio tutto" in poi. È un pezzo spensierato come il pop meglio riuscito, ma al contempo malinconico—se non addirittura disperato. Un po' come, "XO Tour Llif3" di Lil Uzi Vert, per intenderci.

tha Supreme è quest'ultimo paragrafo. È pennellate generazionali che sanno suonare, allo stesso tempo, semplici e difficili. Lasciamogliene fare altre fino alla fine del tempo, senza più pressioni di quelle che il suo lavoro ha già messo sulle sue larghe ma giovani spalle.

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"Non capisci chi stai vendendo e chi sei tu": abbiamo incontrato uno psicologo per musicisti

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Nell’ultimo anno mi sono ritrovato spesso a scrivere articoli su artisti che utilizzano la musica per parlare delle proprie difficoltà, del loro essere comuni mortali, proprio come noi. Non è stata una scelta mirata, semplicemente è successo, probabilmente sotto la guida del mio inconscio e dei miei gusti. Una decina di anni fa tutto ciò sarebbe stato impensabile perché i rapper erano troppo occupati a fare i grossi, mentre quelli che scrivevano le proprie debolezze si contavano sulle dita di una mano.

Oggi, invece, l’industria sembra aver preso una nuova direzione: la salute mentale non è più un tabù e gli artisti non si vergognano a mostrare le proprie ferite, anche e soprattutto se—come Marracash, Salmo e Ghemon, per citarne solo alcuni—parlano a un pubblico enorme. Vengono intavolati sempre più discorsi riguardo l’uso e l’abuso di sostanze, la terapia, la salute mentale. E anche in Italia, ora, è nata una realtà che vuole dare supporto mentale a chi lavora con la musica.

Si chiama Restart e la presenteremo a Milano venerdì 22 novembre alle 15:00 all’interno di Linecheck Festival, con tre delle ragazze che l'hanno fondata e lo psicologo per musicisti Federico Buffagni. Proprio con lui abbiamo deciso di fare una chiacchierata per iniziare ad indagare il rapporto che lega musica e terapia.

Quando mi è stato proposto di intervistare “uno psicologo per musicisti” ho subito accettato con entusiasmo, ma due secondi dopo mi sono ritrovato a pensare “uno psicologo per musicisti?!”. È innegabile che la tua sia una specializzazione molto settoriale, oserei dire inusuale, almeno in Italia.
Federico Buffagni: Io sono uno psicologo, ma anche un musicista laureato in conservatorio. Da quando ho iniziato a esercitare, ho cominciato a propormi nell’ambito musicale tramite i contatti che avevo instaurato in conservatorio. Ho fatto workshop, lezioni di sensibilizzazione sul tema, ma il grosso del mio lavoro è rappresentato dai classici colloqui individuali di terapia. Da settembre di quest’anno sono entrato a far parte del team di Restart.

Ecco, parlami di Restart.
Restart nasce dall’idea di Flavia Guarino che ha contattato Michela Galluccio, una neuropsicologa, Azzurra Funari, una psicologa che adesso si occupa di comunicazione, e me. In Inghilterra Flavia ha conosciuto Music Support, una rete di sostegno psicologico per musicisti e operatori nell’industria musicale, e ha deciso di provare a fare qualcosa di simile in Italia. Qualcosa del genere qui da noi non esiste. Ci piacerebbe estendere la nostra presenza in quante più regioni possibile, creando sedi fisiche in cui gli artisti, magari in tour, possano trovare aiuto. L’altro obiettivo è quello di fare sensibilizzazione sul tema per fare in modo che l’industria musicale, proprio come ogni altro luogo di lavoro, inizi a preoccuparsi della salute dei propri lavoratori.

Ma con Restart parliamo solo di musicisti o di industria musicale in generale?
No, giusto, parliamo di industria musicale in generale. È ovvio che i soggetti che ricoprono posizioni a qualsiasi livello, sia nel mondo della musica come in qualsiasi altro ambito, possano avere bisogno di assistenza psicologica.

"Lo stereotipo vede la musica considerata solo come un simpatico passatempo, mai come un vero lavoro. 'Ma di cosa ti lamenti tu che in fondo non lavori?'"

Presumo che la gente si stranisca ancora al pensiero che i musicisti, ma più in generale le persone famose, possano avere bisogno d’aiuto. Sai i classici luoghi comuni del successo, del non far fatica, del fare il lavoro dei sogni.
Esattamente. E questo si ricollega allo stereotipo della musica considerato solo come un simpatico passatempo, mai come un vero lavoro. “Ma di cosa ti lamenti tu che in fondo non lavori?” Questa però è ignoranza, un parlare senza conoscere le dinamiche interne dell’industria.

Quali sono i pattern che vedi nelle persone che lavorano nell'industria musicale?
Personalmente ho avuto a che fare più con gli artisti. Ho incontrato figure dell’industria, organizzatori di eventi e gestori di locali, che mi hanno chiesto aiuto in generale nella loro vita e durante la terapia abbiamo capito che il lavoro rappresentava una delle criticità. Parliamo della difficoltà nel far combaciare i ritmi lavorativi con quelli di una vita normale, di trovare del tempo libero, sino alla paura per il futuro e la sua instabilità. Per i musicisti è un po’ diverso, perché loro identificano da subito le difficoltà nella professione stessa.

E quali sono allora i pattern che vedi negli artisti con cui lavori?
Può sembrare un paradosso, ma gli artisti soffrono tantissimo il proprio rapporto con la musica stessa; ed è un grosso problema, perché quello è il loro mestiere. C’è chi soffre l’ansia da palcoscenico, chi abusa di sostanze, chi soffre della sindrome dell’impostore…

"Può sembrare un paradosso, ma gli artisti soffrono tantissimo il proprio rapporto con la musica stessa; ed è un grosso problema, perché quello è il loro mestiere."

Con che musicisti hai a che fare tu? Che genere fanno?
Ho un ventaglio abbastanza trasversale in questo senso. Lavoro molto con musicisti classici, avendo fatto il conservatorio e avendo stretto molti contatti là, ma essendo anche specializzato in ambito adolescenziale ho spesso a che fare con rapper e aspiranti tali.

Presumo che i diversi generi musicali comportino diverse problematiche.
Assolutamente sì. Prendiamo un esempio classico come l’abuso di sostanze. Un musicista classico solitamente le utilizza per placare l’ansia da palcoscenico, che è la base di partenza dei problemi. Il rapporto di un rapper con le sostanze è completamente diverso. Ma perché è diversa la vita, il contesto socioculturale da cui proviene, la sua adolescenza. Anche il fatto di essere approdati al rap non è un caso. Il genere che si fa ha una fortissima compenetrazione con chi si è.

E anche la fama penso giochi un ruolo fondamentale in questo, no?
Dipende. Io non ho avuto a che fare con personaggi iper-famosi, ma lavoro tuttora con artisti che hanno raggiunto un livello di fama tale da cambiargli lo stile di vita. In questo caso il successo è qualcosa di complicatissimo da gestire, ed è qualcosa da mettere in rapporto alla fase della vita in cui capita. Se arriva quando si è adolescenti è un problema, o almeno è più facile che lo diventi. Più che altro mi sembra che tutti desiderino ardentemente questa fama, perdendo però di vista il tramite con cui si cerca di raggiungerla, ossia la musica.

L’idea che ho è che spesso i ragazzi puntino a fare delle canzoni non ottime, ma solo decenti quanto basta, per poi focalizzarsi maggiormente sull’immagine e sulla creazione di un personaggio che possa essere spinto in una certa maniera. In definitiva, per assurdo, il successo in sé conta più della musica che uno fa. Quando però c’è l’incontro con l’industria vera e propria, con un mondo un po’ più professionale, le sfere si ridimensionano e compare quella gavetta che sembra ormai scomparsa dalle narrazioni, ma che in realtà esiste ancora.

Qua sopra la nostra intervista a Marracash per Noisey Personal in cui parliamo di psicoterapia.

Ma quando il successo arriva, che effetti ha sugli artisti e sulla loro salute mentale?
Anche qui, paradosso: quando finalmente la mitica fama viene raggiunta, essa sortisce l’effetto opposto e la sua gestione diventa problematica. Spesso gli artisti devono rivedere il proprio stile di vita, si accorgono che la realtà è diversa da ciò che si erano immaginati, nessuno pensa alla privacy e al tempo libero finché questi non mancano. Per gli artisti di un certo livello poi, come già accennato prima, sorgono la paura del palcoscenico e la sindrome dell’impostore.

E parlando nello specifico di giovani rapper, cosa puoi dirmi?
Abbiamo già parlato di quanto per loro l’immagine sia fondamentale per sfondare, ancor più dell’arte. Ecco, in questi casi subentra la difficoltà a distinguere tra persona e personaggio, tra chi stai vendendo e chi, in realtà, sei tu. Quali aspetti di te fanno parte della tua professione e quali della tua sfera privata? Le sicurezze sul proprio io iniziano a vacillare e l’identità viene compromessa. Un’altra paura tra i giovani rapper di successo è quella di venire dimenticati in fretta, di diventare delle meteore.

"Nei giovani subentra la difficoltà a distinguere tra persona e personaggio, tra chi stai vendendo e chi, in realtà, sei tu."

Considera che qualche mese fa ho scritto un articolo sul disco d’esordio di Polo G , un rapper ventenne di Chicago che dice di voler morire da leggenda.
Certo, ma questa è una conseguenza di una società basata sull’immagine, sul narcisismo inteso come esposizione individuale, e in quanto tale fondata su una grande fragilità. Anche quando un giovane rapper parla di sostanze, di violenza, di morire, non lo fa per un atto di ribellione ma per esporsi. Non è più un andare contro, è un tappare le fragilità.

All’inizio “rap” era sinonimo di gangster, di uomini duri; solo poi è venuto il conscious . Qualche anno fa è cominciata la piaga dello Xanax, assunto dai teenager senza prescrizione medica, per curare una depressione che troppo spesso sembrava auto-indotta per moda. Ora questo comportamento è condannato dagli stessi rapper, che sembrano essersi aperti alle tematiche di salute mentale, tra debolezze e i benefici della terapia. Cosa pensi di tutto questo?
Proprio settimana scorsa mi sono ritrovato a leggere un articolo di una psicologa dell’università di Cambridge che da anni sta conducendo uno studio che si chiama “Hip Hop Psych”, in cui il rap viene utilizzato in tutte le sue sfaccettature per fare terapia. Quei testi, che lei sta sottoponendo ad analisi tramite software di elaborazione delle aree semantiche, di fatto parlano in un’altra maniera di problematiche vissute dai pazienti. Il rap in questo caso è un altro mezzo nelle mani dello psicologo verso la riuscita della terapia. Fatico a pensare ad un altro genere che utilizza così tante parole. C’è la tendenza ad elaborare un discorso molto più approfondito e che vada dritto al punto. Anche i cantautori possono trattare queste tematiche, ma la loro narrazione procede molto spesso per metafore, giri di parole ed ermetismo, con testi molto meno diretti dell’hip hop e quindi meno incisivi in sede di terapia.

Prendi tutto questo e aggiungici la società che è cambiata, l’individualismo che la fa da padrone ma al contempo le fragilità del meccanismo che sono state portate a galla. Non è che dall’oggi al domani i rapper hanno iniziato a parlare di psicoterapia, non è stato un cambiamento repentino quanto più un divenire continuo del contesto e, di rimando, del rap che del contesto è voce.

Capisco il ragionamento sul contesto. Ma a livello individuale, invece? Secondo te cos’è che fa scattare in un rapper la voglia di raccontare le proprie debolezze?
Non riesco a esprimerti un giudizio per quanto riguarda le singole situazioni, ma ti parlo a livello generale. Non dimentichiamoci mai che stiamo ragionando su un’industria che macina milioni e milioni di euro: non esistono scelte naif, bensì percorsi studiati.

"Quando un giovane rapper parla di sostanze, di violenza, di morire, non lo fa per un atto di ribellione ma per esporsi. Non è più un andare contro, è un tappare le fragilità."

Non so se hai sentito parlare di sadfishing. È quella pratica social sempre più comune di condividere contenuti tristi per accalappiare l’attenzione. Banalmente: la foto degli psicofarmaci abbinata ad una frase triste. Pensi che ci sia anche l’equivalente in musica?
No, non sto dicendo che un artista possa costruire una narrazione a tavolino, perché se la terapia e la depressione non sono state vissute sulla propria pelle, si verrebbe sgamati subito. Un conto è una foto, un altro è un prodotto musicale che abbia un senso. Sono cose troppo delicate e personali per essere scimmiottate. D’altro canto, però, è innegabile che questo sia un momento propizio per parlare di terapia e salute mentale, perché si crea una rottura con la narrazione circostante e perché, sotto sotto, al contempo ci si accoda ad un trend che sta funzionando.

A parlare di queste cose, comunque, oggi si risulta tutt’altro che deboli. Fare musica che racconta la terapia e i momenti difficili è di per sé una piccola vittoria, e l’effetto che si ottiene è quello di un successo. Ciò che prima poteva essere una vergogna, ora diventa una forza: i tagli fanno il giro e diventano cicatrici di guerra da mostrare. Ed è un bene, eh, sempre che tutto questo venga fatto con più sincerità possibile.

Puoi dirmi qualcosa sull’impatto che ha Instagram sugli artisti e sulla loro salute mentale, soprattutto sui ragazzi con cui hai a che fare tu?
Questo è un tema gigante. Considera che Instagram ha vinto il premio della Royal Society For Public Health come social network più dannoso per la salute mentale, soprattutto in adolescenza. Il rapporto con l’immagine è devastante, ancor di più in quella fascia d’età in cui l’immagine te la devi costruire. Gli adolescenti vivono sul ritorno della loro immagine, devono capire chi sono e chi vogliono diventare e per farlo cercano la validazione, i feedback. Io e te, che non siamo nati “social”, possiamo ancora distinguere ciò che è virtuale e ciò che è reale. Per le nuove generazioni questa separazione non esiste. Ma non è un “discorso da vecchi”, è proprio la realtà dei fatti e come tale va affrontata. Un like non messo, un commento mal interpretato, lo smettere di seguire qualcuno, sono tutte azioni che hanno ripercussioni nella vita che noi definiamo “vera”.

Spesso è proprio il gap generazionale a creare incomprensioni e fare danni. Un genitore che etichetta i problemi legati a internet e ai social come “stupidate”, non si rende conto che quella sfera è parte integrante della vita del figlio e che, in quanto tale, può creare problemi più che concreti; oppure ci sono quei genitori che si rendono conto di non saper gestire la situazione, perché non conoscono i mezzi, e vanno nel panico. Queste incomprensioni all’interno della famiglia, che dovrebbe essere un luogo sicuro in cui parlare di qualsiasi problema, portano quindi a grandi sofferenze. Ma pensa anche agli insegnanti e al sistema scuola che vieta categoricamente il telefono tra le sue mura, quasi a fingere che quel pezzo di vita non esista: è un negare l’evidenza, nascondere sotto il tappeto la realtà dei fatti per non affrontare il problema. Immaginati tutto questo, ma se sei un giovane rapper: è una cassa di risonanza infinita.

"Instagram ha vinto il premio della Royal Society For Public Health come social network più dannoso per la salute mentale, soprattutto in adolescenza."

Ti è mai capitato di avere a che fare con aspiranti cantanti che oggettivamente non ce l’avrebbero mai fatta?
Certo. Ciò che passa dai media è che il successo arriva da un giorno all’altro, e questo è altamente dannoso. Ci sono ragazzi che si costruiscono l’immagine, il personaggio, hanno dei feed Instagram pazzeschi ma poi si trovano a dover fare i conti con la realtà: serve essere capaci di fare musica. Ho avuto a che fare con ragazzi che non volevano esercitarsi nel canto né tanto meno nella scrittura; ma non sto parlando di lauree in lettere eh, semplicemente di tempo speso per esercitarsi e migliorare in quella cosa che vorresti fosse la tua vita. Sembra assurdo, ma c’è chi davvero non fa i conti con questa cosa, con la fatica.

Cosa possono fare i media musicali per parlare in maniera sensata di salute mentale e per provare a fare sensibilizzazione sull’argomento?
Parlarne, innanzitutto, perché non è scontato, ma in un determinato modo. Partiamo da quella cosa fatta da Mario Giordano in TV qualche tempo fa: è disinformazione, ma se proprio vogliamo trovare un lato positivo ha avuto l’effetto di stimolare il dibattito e di far emergere delle voci autorevoli che hanno trattato la questione in maniera intelligente. In generale bisogna smetterla di trattare la musica con allarmismo e come veicolo verso il male: se il tal rapper parla di droga, non porterà l’ascoltatore alla tossicodipendenza. Al massimo lo porterà a provare una droga, ma tra il provare e lo sviluppare una tossicodipendenza ci sono un sacco di altri fattori che non c’entrano niente con quel rapper e le sue canzoni.

Dall’altro lato, però, è anche vero che l’artista deve assumersi la responsabilità di quella comunicazione, potenzialmente dannosa per determinati soggetti. Occorre ragionare sugli stili di vita, sulle scelte compiute, fare un’informazione ragionata e della sensibilizzazione in senso stretto. Bisognerebbe parlare di centri di riduzione del danno, di unità di prossimità. È una questione ampia e trasversale, troppo delicata per essere generalizzata con pressapochismo e sensazionalismo. È qui che si crea il danno fondamentale: nell’informazione errata e nell’ipocrisia. Penso per esempio alle vostre interviste, ad altre testate online, al lavoro che sta facendo Daria Bignardi in TV. È possibile parlare di salute mentale con preparazione, ad un pubblico ampio, è possibile fare informazione e sensibilizzazione nel modo giusto, ed è giunto il momento di farlo.

Simone è su Instagram.

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Il tape migliore del decennio? Tha Tour di Young Thug e Rich Homie, ovvio

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Cinque anni fa, Young Thug e Rich Homie Quan hanno pubblicato sotto l'ala di quel colosso del rap che è Birdman il loro primo e unico album ufficiale insieme. Rich Gang: Tha Tour Part 1, uscito a fine settembre 2014, oggi sembra solo una piccola goccia nel mare della carriera di Thug e Quan; era il lavoro di un supergruppo (anche se ai tempi nessuno lo avrebbe considerato tale), ma non venne nemmeno distribuito nei negozi.

I numeri dei suoi download sono tuttora bassi, anche inferiori a quelli della serie Slime Season di Thug. Ma questo non significa che non sia uno dei mixtape più influenti del decennio. Oltre ad aver battezzato a tutti gli effetti Thug e Quan come due dei nuovi talenti più esaltanti della scena hip-hop, la sua interpretazione melodica e irriverente della trap ha anticipato il suono dei cinque anni seguenti.

Nei primi anni Dieci, Thug e Quan erano soltanto due dei tanti rapper di Atlanta spinti da Gucci Mane, che era diventato un po’ il Pippo Baudo della trap.

Nei primi anni Dieci, Thug e Quan erano soltanto due dei tanti rapper di Atlanta spinti da Gucci Mane, che era diventato un po’ il Pippo Baudo della trap, capace di dare un po’ a tutti, da Wacka Flocka Flame a Future a Nicki Minaj, una spintarella per la loro carriera.

Alla fine del 2013, Gucci entrò in prigione per scontare una sentenza di tre anni, ma Thug e Quan non avevano intenzione di fermarsi. Dopo aver pubblicato le loro prime hit—”Stoner” e “Type Of Way”, rispettivamente—arrivò Birdman e nel giro di poco nacque “Lifestyle”, un singolone estivo pazzesco che arrivò in sedicesima posizione negli Stati Uniti. Il pezzo, però, era creditato alla "Rich Gang". Ma cos'era esattamente?

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Il thumb del video di "Lifestyle" della Rich Gang, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube

La Rich Gang esisteva già prima che Thug e Quan ne entrassero a far parte. Nel 2013 Birdman, capo della Cash Money Records e mezzo scopritore di Lil Wayne e Drake, si inventò un supergruppo senza membri guidato da lui e formato da tutte le star della sua etichetta. Uscì un mixtape (Rich Gang: All Stars), un album, una compilation in stile DJ Khaled con tutto il roster dell'etichetta (compresi, per qualche motivo, i Limp Bizkit).

Con “Lifestyle”, Birdman trasformò la Rich Gang in un contenitore per i talenti di Thug e Quan. Quando venne il momento di fare un mixtape con loro, Tha Tour, questo non era chiarissimo—attorno alla sua uscita ci fu un vero e proprio caos, e non si capiva che cosa il brand Rich Gang effettivamente rappresentasse.

Tha Tour è diventato così una reliquia di un’operazione promozionale interrotta, l’antipasto di un pasto mai servito.

“Lifestyle” è stato uno dei singoli più famosi della sua epoca, ma non era in Tha Tour né in alcun altro album del progetto. Nonostante il pezzo d'apertura del tape aveva dentro un DJ che gridava “le date sono chiuse” e “cominciamo il 31 ottobre”, il tour che dà il nome al mixtape non si è mai realizzato. Ci furono sette video ufficiali e uno venne anche trasmesso in anteprima sull'importante network BET, Black Entertainment Television—ma venne scelto quello commercialmente meno appetibile, “Milk Marie".

“Tell Em (Lies)”—la canzone che più di tutte assomiglia a “Lifestyle” e che nel cui ritornello Thug rappa “Arrivo, lecco ‘sta figa e me ne vado”—è stata l’unica canzone di Tha Tour a piazzarsi in classifica, raggiungendo il 43esimo posto sulla R&B/Hip-Hop Airplay di Billboard nella primavera del 2015. Il mixtape è diventato così una reliquia di un’operazione promozionale interrotta, l’antipasto di un pasto mai servito: dopo quello, né Thug né Quan hanno mai pubblicato un album su Cash Money, né come solisti né in gruppo.

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La copertina di Tha Tour: Pt. 1, cliccaci sopra per scaricarlo su DatPiff. Su Spotify c'è, ma è qualcuno che l'ha caricato cambiando i nomi degli artisti, quindi non ve lo linkiamo.

Nonostante tutti questi problemi, Tha Tour è un miracolo musicale. Un mixtape da 20 canzoni con praticamente zero pezzi skippabili. Mentre album-evento come Watch The Throne si limitavano a mettere insieme due grandi MC, Tha Tour era qualcosa di diverso: due nuovi artisti che raggiungevano contemporaneamente il picco di forma.

A parte forse Wiz Khalifa e Curren$y nel 2009, nessuno dopo Thug e Quan è riuscito a fare un tape collaborativo che non puzzasse di "side project fatto per divertimento". Tha Tour era solo un modo per veicolare la loro produzione migliore, spinta dal loro legame fraterno. È talmente evidente che non viene nemmeno voglia di considerarli in competizione: andavano d’accordo come Jadakiss e Styles P, o André 3000 e Big Boi.

Non viene nemmeno voglia di considerare Thug e Quan in competizione: andavano d’accordo come Jadakiss e Styles P, o André 3000 e Big Boi.

Erano tempi innocenti, e i critici all’inizio non consideravano Quan tanto di più di una copia di Future. Ma fu lui a crearsi un’identità grazie a Tha Tour, con pezzi come “Freestyle” e “Milk Marie”, riuscendo a prendersi la propria fetta di riflettori nonostante Thug in quel momento stesse diventando il nuovo Lil Wayne.

Era eccentrico, le punchline gli venivano naturali, non doveva nemmeno spiegarle—"Lei ha detto che è il mio tempo come Flavor”, rappava, senza dover spiegare che stava parlando dei celebri orologi giganti indossati da Flavor Flav dei Public Enemy. E poi quel tape lanciò anche la carriera dei due producer più importanti della carriera di Thug: London On Da Track, che aveva già prodotto “Lifestyle”, e Wheezy.

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Il thumb del video di "Freestyle" della Rich Gang, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube

Su Tha Tour, Birdman è più che altro un'eminenza grigia, come già aveva fatto sugli album dei Big Tymers e in Like Father, Like Son con Lil Wayne. Ma “Flava” contiene la miglior strofa che abbia mai scritto dopo “What Happened To That Boy”—che sia, come molte strofe di Birdman—stata scritta da un ghostwriter o no. Nonostante rappi soltanto una manciata di volte nel tape, la sua voce è l’unica che compare in ogni traccia, nelle doppie. Birdman se ne esce con dei "RICH GANG!" trionfanti e dei "RICH GIRL!" tutti sexy, che si riserva per versi particolarmente romantici come “Baby sono un hot dog / Tu puoi essere la salsa”.

Su Tha Tour ci sono 114 “rich gang” sul mixtape e 57 “rich girl” (li ho contati personalmente)—un rapporto 2 a 1 talmente perfetto che sembra quasi fatto apposta. “Milk Marie” è l’unica canzone con più doppie dedicati alle ragazze che alla gang. “730” è l’unica canzone senza “girl” e quella con più “gang” di tutte. Ogni doppia è modificata per andare tempo con il beat, e le parole di solito rimbalzano perfettamente su un colpo di rullante o di cassa.

Nell’anno dopo l’uscita di Tha Tour, tutto quello che riguardava la Rich Gang si fece strano e complicato.

Nell’anno dopo l’uscita di Tha Tour, tutto quello che riguardava la Rich Gang si fece strano e complicato. La stella di Young Thug brillava sempre di più, ma non si capiva se fosse sotto contratto con la Atlantic, Cash Money o la 1017 Brick Squad, e questo causò un ritardo nell’uscita del suo album solista. Quando finalmente la confusione fu risolta, venne fuori Barter 6—che uscì per Atlantic e 300 Entertainment, ma aveva ancora su Birdman.

Non si capì mai se il titolo fosse un tributo o una frecciatina a Lil Wayne, il cui Carter V era stato rimandato diverse volte, spingendolo a fare causa a Cash Money nel 2015. Una settimana dopo l’uscita di Barter 6, il tour bus di Lil Wayne venne stato colpito da una sparatoria; il conducente ha fece causa a Young Thug, Birdman, Cash Money e Young Money, sostenendo che i due rapper fossero in contatto con il sospetto attentatore.

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Il thumb del video di "Tell Em" della Rich Gang, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube

La squadra composta da Thug e Quan, intanto, continuava ad accumulare hit e comparve su singoli di Travis Scott e DJ Drama. Ma molto presto il rapporto tra i due peggiorò, a causa di circostanze soltanto suggerite in alcune interviste. Quan annunciò un secondo mixtape della Rich Gang a novembre 2014, con uscita prevista a dicembre. Non è mai uscito, ma esiste un Tha Tour Part 2 fatto dai fan e compilato con tutte le canzoni leakate e ancora non masterizzate.

Negli ultimi cinque anni, quasi tutte le persone coinvolte in Tha Tour hanno raggiunto successi ben maggiori, compresi ospiti come Jacquees, Peewee Longway e Nipsey Hussle, che aveva spaccato con una strofa su “Throw Your Hood Up”. Thug ha avuto tanti alti e bassi nella sua carriera, ma il trionfale So Much Fun di quest’anno è stato il suo primo numero 1 nella Billboard 200. Rich Homie Quan è stato meno sotto i riflettori, anche se la sua “Flex (Ooh, Ooh, Ooh)” è stata per anni la traccia di maggior successo di entrambi i rapper. Inoltre, anche se non è dappertutto come Thug, la sua influenza blueseggiante e melodica si sente in giovani hitmaker di Atlanta come YFN Lucci, Derez De’Shon e anche in Lil Nas X.

Anche se il sogno Birdman di lanciare con Tha Tour la nuova generazione di star Cash Money non si è del tutto realizzato, quel tape ha rappresentato un modello per il rap nella seconda metà del decennio.

Anche se il sogno Birdman di lanciare con Tha Tour la nuova generazione di star Cash Money non si è del tutto realizzato, quel tape ha rappresentato un modello per il rap nella seconda metà del decennio. Nella strumentale eterea e nelle voci sussurrate della prima traccia, “Givenchy”, si sentiva il rap farsi pop. Il Southern Rap, per Thug e Quan, non era solo la trap buia alla Jeezy o quella leggera e giocosa di Lil Uzi o Lil Yachty—era entrambe le cose, nello stesso momento.

L’anno scorso, Gucci Mane ha offerto pubblicamente a Thug e Quan un milione di dollari per riformare il duo, ma Thug ha rifiutato. In aprile 2018, Birdman ha dichiarato a Rap-Up che stava pensando di far uscire in estate 2018 un album Birdman/Young Thug con il nome Rich Gang 2, ma non è mai successo. Poco tempo fa, però, Birdman ha caricato una foto su Instagram con sé stesso, Thug e Jacquees, con degli hashtag che fanno pensare che ci sia un nuovo progetto Rich Gang in lavorazione.

Che la formazione 2014 della Rich Gang torni sulle scene o meno, Tha Tour rimarrà per sempre il loro capolavoro, un’opera che ha stabilito un canone per la trap melodica. Ha influenzato una generazione di SoundCloud rapper e, tanto quanto il flow in terzine dei Migos o le doppie di Waka Flocka Flame, il modo in cui usano la voce. In un momento in cui star come Wiz Khalifa e Drake stanno portando i loro vecchi mixtape sui servizi di streaming per la prima volta, Tha Tour è il tipo di mixtape che resta nascosto, disponibile soltanto via filesharing o siti come DatPiff. Ma è comunque importante ascoltarlo.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

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Nessuno cantava la tristezza meglio di Luigi Tenco

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Come sta messo il cantautorato italiano oggi? Beh, guardando la passerella della serata in onore di De Andrè viene da dire che non sta benissimo. La cosa peggiore è sicuramente il pubblico di questo fantomatico “cantautorato”, che critica per hobby ma è poco attento a proporre e sostenere alternative. Ora che, tra mille polemiche, il premio Tenco è passato, possiamo usarlo come cartina tornasole della questione.

In un certo senso pare che in Italia essere cantautori sia quasi godere dello status di dinosauri, perché, con tutto il rispetto, ospiti come la Nannini o Curreri non è che rappresentino la nuova linfa vitale della penisola in fatto di canzoni. E, in effetti, anche l’apparizione del giovane Achille Lauro in veste di inusuale interprete di “Lontano Lontano” ha rappresentato l’eccezione che conferma la regola: lo sapete tutti come è andata. Criticatissimo per l’esibizione stentorea, l'ex-rapper si è ritrovato in difficoltà perché forse per la prima volta il look e i lustrini non combaciavano con il resto e forma e sostanza erano mille miglia lontane tra loro. Pesce fuor d’acqua, certo; ma già prima di salire sul palco, dicendo “io incompreso come Tenco”, stava mettendo le mani avanti.

Achille ha toppato nel cantare il pezzo, l’hanno ammesso tutti—Morgan, suo padrino, incluso. Per cui quello che ha fatto è stato compreso fin troppo bene. Anche la famiglia Tenco si è incazzata, ma in realtà si era già dissociata dal cartellone prima di ascoltare una sola nota. Il problema è che ad Achille hanno accollato il fallimento di un’intera manifestazione, un po’ come un atto di nonnismo verso l’ultimo arrivato, che in questa situazione ha rivelato una fragilità e se vogliamo un’attitudine ingenua rispetto ai meccanismi stritolanti dello showbiz (già evidente nei botta e risposta con Valerio Staffelli di Striscia La Notizia).

Però ecco, ora che è passato un po’ di tempo e del fuoco dell’indignazione non resta che cenere, quello che rimane è questa empatia tra il vissuto di disagio dei giovani che provano a mutare il concetto di cantautorato mainstream, che sia tramite la trap o l'itpop (vedi anche una splendida cover di Calcutta) e il fantasma di Luigi Tenco, che se da un certo punto di vista è curiosa, dall’altra offre spunti inediti per uno sviluppo della musica italiana su nuove basi.

Perché uno come Achille Lauro e giocoforza quelli della sua generazione s’immedesimano in Tenco?

Innanzitutto, perché uno come Achille Lauro e giocoforza quelli della sua generazione s’immedesimano in Tenco? Per lo stesso motivo, evidentemente, per il quale noi della classe ‘75 rimanevamo fulminati da “Lontano lontano” e la sua cifra esistenzialista, sull’orlo del nichilismo, che è in qualche modo una versione meno frastornata di quella di Piero Ciampi (non a caso i due premi più importanti in questo settore hanno i loro nomi, i nomi di due amici veri per ovvie ragioni). Usiamo "tristezza" semplificando—quello di Tenco come "triste" è un luogo comune, ma ci permette di toccare la banalità dei sentimenti online che caratterizza la nostra eopca. Tenco era propriamente un cantore dell'esistenza, dei turbamenti. Questa suggestione ce lo faceva mettere negli scaffali accanto ai Joy Division, ai Nine Inch Nails e—per restare in Italia—ai Diaframma, che la lezione di Tenco l’avevano bene in mente.

Insomma, il suo era un cantare trans-generazionale, in quanto ogni nuova generazione vive un trauma nel doversi inventare la vita ogni giorno, catapultata in un mare di contraddizioni difficili da sanare, e ha plasmato sicuramente l’immaginario alternativo degli anni Novanta. Da questo punto di vista, la performance di Lauro e le critiche a pioggia ricordano, è vero, quel mesto Sanremo del 1967 nel quale Tenco, convinto da Dalida allora sua compagna, presentò "Ciao amore ciao", un brano sull’emigrazione che nonostante il tema scomodo e impegnato fu considerato da subito un brano minore. In quel Sanremo l’interpretazione di Tenco fu criticata e lui fu accusato di aver abusato di alcol e psicofarmaci: l’orchestra faceva effettivamente fatica a stargli dietro e Dalida, dietro le quinte, esclamò un esplicito “Così mi rovina la canzone!”.

Quello di Tenco era un cantare trans-generazionale, in quanto ogni nuova generazione vive un trauma nel doversi inventare la vita ogni giorno.

Insomma, Lauro e Tenco si gemellano nel diritto all’imperfezione, ma non nella necessità di essere compresi: le canzoni di Tenco facevano sensazione e, avendo sempre dichiarato che i soldi e il successo non gli interessavano, non era quello che il genovese andava mendicando. A Sanremo ci andò, tra l’altro, controvoglia, una situazione un po’ differente dalle dinamiche pop di oggi che necessitano sempre di un occhio di bue a illuminare fatti e situazioni dell’io.

Se ci stava dentro era solo per provare a cambiare strategia e rivoltare tutto dall’interno usando una maggiore visibilità, non per cambiare pelle e stile. E allora perché scomodarlo in un modo così “prevedibile”? Forse per i medesimi intenti nonostante le apparenze? Forse per le stesse ingenuità e fragilità? Vediamo se ci raccapezziamo analizzando l’ultimo disco di inediti del cantautore genovese, ovvero Tenco del 1966.

luigi tenco 1966 album
La copertina di 'Tenco', cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Ultimo disco perché, se ci fosse bisogno di ricordarlo, Tenco morì suicida in camera d’albergo dopo l’esclusione proprio da quel Sanremo 1967. Sulla sua morte sono state fatte teorie e controteorie a metà tra inchiesta e complotto: Tenco aveva denunciato di essere spesso seguito da personaggi che tentavano di farlo fuori, e portava quindi con sé una pistola. Al suo amico produttore Paolo Dossena avrebbe detto: “Sei così amico da metterti fra me e il whisky, ma saresti così amico da metterti fra me e la pallottola di un mio nemico?”

La sera stessa dell’eliminazione, poi, Tenco avrebbe detto al telefono alla sua ex, Valeria, che aveva scritto i nomi di "chi dettava legge nella musica italiana" in una lettera. Secondo queste illazioni Tenco sarebbe stato “suicidato”, così da preservare i sistemi corrotti dell'industria dello Stivale—soprattutto all’interno dello stesso Festival, minati e sabotati solo da operazioni “situazioniste” come quella di Pupo, che smascherò il giochetto con le sue stesse regole.

Tenco non era uno a cui interessava lo showbiz, né tantomeno comprarsi i successi: gli interessava combattere a modo suo, il più delle volte disertando.

Ecco, Tenco non era uno a cui interessava lo showbiz, né tantomeno comprarsi i successi: gli interessava combattere a modo suo, il più delle volte disertando. E questa sua singolare anima militante emergeva anche dalle sue canzoni, dal punto di vista testuale ma anche musicale, in quanto la forza del messaggio triplicava nella somma delle due cose. Tenco non era uno a cui interessava la sicurezza di linguaggi precotti, men che meno pensare alle mode: nella sua musica sperimentava delle soluzioni inedite mescolando beat, rock, strumenti classici, con il piglio di uno che sta guardando oltre. Non ci sono sintetizzatori disponibili nel 1966, almeno non alla portata di tutti: per cui è come se, con gli strumenti che passava il convento, suonasse la musica italiana del futuro.

Non si può dire altro ascoltando brani micidiali e taglienti come “Ognuno è libero”, un inno alla libertà di espressione e di costume contro i benpensanti e repressi di qualsiasi colore politico e classe sociale, quasi un testamento glam ante litteram. E poi c'è "Io sono uno": anche se sembra debitore di Dylan, Monkees e soci, è anche vero che presenta una spinetta e un organo appositamente trattato che prefigurano scene elettroniche inedite. Il testo, un atto d’accusa verso chi è “fake”, quasi un tipico dissing rap, dice: “Nel mondo c'è già tanta gente che parla, parla, parla sempre. Che pretende di farsi sentire e non ha niente da dire". Molto chiaro che si riferisce anche e forse soprattutto ai suoi colleghi.

Achille Lauro ha cantato "Lontano lontano", ma ha perso l’occasione per far ascoltare al pubblico pezzi di questo disco probabilmente più nelle sue corde e soprattutto sconosciuti alle masse. Se Lauro, infatti, da un inizio promettente e originale, è tornato alla formula canzone stile Ottanta di scuola Nannini/Vasco per poi riprendere paro paro i Novanta, tu ascolti il Tenco di "Un giorno di questi ti sposerò" e ti rendi conto che è una roba senza tempo, che va oltre la tecnica e il periodo storico—parla a tutti (e quell’organo, quei testi crudi nella loro schiettezza, quel piano sarebbero piaciuti a XXXTentacion come a FKA Twigs). Ecco perché quando Morgan faceva quei DJ set chiamati “da Tenco alla techno” portava avanti un’operazione tutto sommato esatta.

In effetti, Tenco dava gas al suo motore pensando alla generazione dei "Dum Dum Boys" di Iggy Pop, quelli per cui le emozioni sono confuse, l’amore è un hobby, il mondo un incidente di percorso e la musica va vissuta con il fuoco creatore dell’urgenza. Ed ecco quindi "Se sapessi come fai", una canzone per un amore di oggi, complicato, periferico, arrangiato con “sbarattolate” di batteria. Ecco, magari se Lauro avesse cantato questo pezzo avremmo gridato al miracolo.

"Noi che non abbiam finito ancora di contare / Quelli che il fanatismo ha fatto eliminare, Noi risponderemo no!"

Lauro si definisce un cantautore, in questo provando a rappresentare un po’ tutta la categoria delle nuove realtà: è vero, il Lauro che ci piace è in grado di scrivere testi particolarmente sentiti, ma mentre lui e gran parte dei suoi colleghi ci girano intorno, in Tenco l’impegno sociale è fondamentale ed esplicito. Basti pensare al discorso di "E se ci diranno", antimilitarista e schierato contro ogni tipo di soprusi, ma senza retorica.

La poetica dei ragazzi tumulati vivi nelle città è però molto vicina a Tenco quando egli canta brani come "Io vorrei essere là", con testi come “Io vorrei essere là dove i bambini imparano che il mondo in cui viviamo è tanto, tanto grande / Vorrei essere là per dire a quei bambini che pure tanta gente non ha un posto per vivere / Vorrei essere là, però io non ci posso essere, perché non ho trovato ancora il mio posto nel mondo…” Non sembra uno spaccato giovanile targato 2019?

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L'artwork di Per Sempre, compilation di brani di Luigi Tenco tra cui molti di quelli dell'album di cui stiamo parlando, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Tenco è romantico nel suo disagio, disagio a volte crudissimo: sono le introspezioni quasi di un Tyler, the Creator de noantri. Ascoltare "Amore, amore mio", con quell’incalzare ritmico, ti catapulta subito in un'era che si intuisce stia per arrivare. Basterebbe sostituirlo con un battere di kick e un levare di clap ed ecco qui il futuro: con quei testi fatti di mani vuote e di vita alla giornata non sembra distante dall’esperienza-tipo di un teenager.

Un aspetto interessante, già che ci siamo, è anche il rapporto di Tenco con gli eccessi. La sera in cui morì assunse del Pronox, un sonnifero, buttandolo giù con generose dosi di alcol. Era un giocatore d’azzardo e (come accennato sopra) un amante delle armi, che possedeva in diversi modelli: un gangsta sui generis, prima maniera.

Tenco è ancora qui, nell'attualità dei suoni del mondo. Ed è soprattutto nel DNA di chi vorrebbe cambiare le regole del gioco della musica italiana.

Con i temi delle sue canzoni anticipò il Sessantotto e in un certo senso anche il punk, come in "Ma dove vai", che è un po’ la sua "Pretty Vacant" contro l’arrivismo e la sete di potere e che nella sua progressione ha già dentro se il seme del rock “di rifiuto” che verrà. Addirittura in "Come tanti altri" sembra quasi di sentire Shaun Ryder o qualche rapper sfasato, soprattutto per la cadenza del cantato in leggero e straniante asincrono.

Insomma, Tenco è ancora qui, nell'attualità dei suoni del mondo. Ed è soprattutto nel DNA di chi vorrebbe cambiare le regole del gioco della musica italiana: la differenza tra lui e chi vorrebbe esserne erede è contenuta in “Un giorno dopo l'altro”, con quell'hi-hat che pare quasi digitale e perfettamente programmato. Il testo recita: “I sogni sono ancora sogni e l'avvenire è ormai quasi passato. Un giorno dopo l'altro la vita se ne va. Domani sarà un giorno uguale a ieri”. Ma tu che leggi vedrai, vedrai che cambierà: forse non sarà domani, però.

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La trap italiana, quella più vera e oscura, è ancora viva in Joe Scacchi

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Mentre gli parlo di come fa rap—scuro e street, come quello della prima ondata del 2015, quella di XDVR e Full Metal Dark—Joe Scacchi mi cita Noyz Narcos. "La gente vuole il sangue come nello schermo. In musica c’è sempre ‘sta cosa che non si può dire questo e non si può dire quello, e a me non è mai piaciuto."

È che lui, insieme al suo amico Tommy Toxxic aka Goya e a un producer chiamato NIKENINJA, non hanno mai smesso di fare narrazione cruda e cupa. Insieme si chiamano Wing Klan. Se Goya è l’introspezione cloud, Joe è rime stradaiole e abrasive: "La notte mi sogno morto poi mi sveglio la mattina / EuroJoe Totò Riina", "Oro bianco, no talco / Canto e sbratto sul palco".

"Quando i pittori dipingono, i registi girano un film, gli scrittori scrivono un libro, hanno tutti massima libertà espressiva e possono raccontare ciò che vogliono", mi spiega Joe mentre parliamo delle sue rime, "e io voglio lo stesso per me e la mia musica. L’immaginario deve essere a completa disposizione dell’artista."

"In musica c’è sempre ‘sta cosa che non si può dire questo e non si può dire quello, e a me non è mai piaciuto."

Siamo in un momento storico per cui "il rap è il nuovo pop" è già una frase stantia. E così molto meno stantio suona il lavoro del Wing Klan,di Joe e Tommy, che fanno trap come se Trap Lovers non fosse mai uscito. Classe 1995, amici da una vita e fratelli della 126, i due hanno iniziato a farsi conoscere come un piccolo fenomeno di culto. Dopo il tape I CAN FLY, quest'anno sono arrivati due lavori solisti: Ghost di Tommy e Marketing di Joe.

Con Joe parlo a Milano, a novembre. È la Music Week e lui deve presentare il disco dal vivo per la prima volta in Santeria Social Club. A rispondere alle mie domande ho trovato un ragazzo determinato, certo, ma con un’etica del lavoro e una maturità tanto artistica quanto umana rare: “Non me ne faccio niente di quindici minuti di fama, io voglio i soldi e il rispetto duraturi, e penso che si possano ottenere solo rimanendo se stessi. A me interessa che la gente venga ai miei live, che il mio pubblico si espanda sempre di più e che le emozioni che voglio trasmettere vengano recepite”.

Dopo più di mezz’ora trascorsa a parlare di problemi generazionali, rispetto e masturbazione ci siamo salutati, e io gli ho fatto l’in bocca al lupo per il live che si sarebbe tenuto dopo qualche ora. È andata così.

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La copertina di Marketing di Joe Scacchi, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Noisey: Fa un po’ strano, nasci e cresci a Roma, sia fisicamente che artisticamente, ma la presentazione del disco la fai a Milano.
Joe Scacchi: In “METAL” Tommy dice “Prendere Roma, poi dopo Milano”: è proprio questo l’obiettivo. A Roma ci siamo mossi un bel po’, abbiamo fatto tanti live, il Rock In Roma. Ora è il momento di Milano, domani sarà il turno di qualche altra città. Vogliamo espanderci il più possibile.

Spesso alle serate di Milano mi capita di vedere molti volti della scena romana.
Siamo un gruppo che si conosce da una vita, andavamo al liceo Virgilio a Roma con Ketama, Side, la Tauro. Poi però col passare del tempo la musica, pur rimanendo uno sfogo e un bisogno di espressione, ha iniziato a diventare un business e non solo un passatempo, e qui sono usciti i problemi di Roma. Lì ci sono tutte le vibe, quella cosa che ti fa venire voglia di fare musica; però è una città ferma e questo si nota nel momento in cui devi andare a droppare il disco da qualche parte, non c’è situazione. A Milano c’è fermento.

A proposito di amici, in Marketing c’è quasi tutta la 126 ed è ormai palese la vostra fratellanza. È bello vedere un po’ di rapporti genuini in un’industria spesso pronta a scannarsi.
Penso che questo sia quello che ci contraddistingue. Con quelli della 126 mi vedevo e mi vedo praticamente tutti i giorni a Trastevere, e sono stati proprio loro a darmi una mano e a spingere per questo lavoro, a gasarsi per fare le tracce insieme. Siamo riusciti a starci tutti per bene poi, ogni collaborazione ha un senso. Marketing è molto cupo e la 126 ci calza a pennello, sia quando parla di strada che quando parla di sentimenti, le mie due essenze.

Si vede e si sente che vi conoscete.
Guarda, i featuring a tavolino con persone che nemmeno mi conoscono né rispettano non li farei. Sono convinto che fare mosse casuali giusto per creare un po’ di hype non funzioni.

"In questo mondo tutti provano a fare più cloud possibile, mille post, hype, ma a me pare che si stiano tutti dimenticando che il fulcro della questione qui è la musica."

Mi stai dando conferma di ciò che pensavo, cioè che il titolo Marketing sia un doppio senso ironico, una presa per il culo.
Esattamente. In questo mondo tutti provano a fare più cloud possibile, mille post, hype, ma a me pare che si stiano tutti dimenticando che il fulcro della questione qui è la musica. Gli artisti che rimangono al top nel tempo, che dalla musica ci guadagnano, sono quelli che mettono al centro di tutto, sempre e comunque, la musica. Poi è chiaro che anche io ho promosso il disco, ho fatto delle mosse, ma è stato tutto naturale e bilanciato, senza strafare. Ho fatto la mia musica, senza scendere a compromessi, vi ho mostrato la mia faccia e ora vi presento il disco che si chiama Marketing, ma che è solo musica.

Di pari passo col concetto di marketing, c’è quello di successo. Il tema dei soldi torna parecchio nei tuoi testi.
È una sorta di vendetta per me, di rivalsa. Tanti credono che con il rap i soldi si facciano facilmente, ma non è così. Bisogna sudarseli e noi ce li stiamo sudando, stiamo provando a cambiare le nostre vite e questo per me, che vengo da una famiglia umile, è un obiettivo importante. Non so se mi sono spiegato…

Ti sei spiegato benissimo, e anzi hai toccato tantissimi argomenti di cui ho discusso qualche giorno fa con uno psicologo per musicisti. Ti cito un paio di passaggi per farti capire: “Mi sembra che tutti desiderino ardentemente questa fama, perdendo però di vista il tramite con cui si cerca di raggiungerla, ossia la musica” e “la gavetta […] sembra ormai scomparsa dalle narrazioni, ma in realtà esiste ancora”.
Penso sia un discorso generazionale, non solo legato al rap. Anche io faccio parte di questa cosa, ma essendo del 1995 sono un po’ a cavallo tra Millenial e Gen Z. Oggi vedo tantissima emulazione, nei canoni di bellezza, di vestiario, e anche nella musica ovviamente. Ma se continuiamo a copiare quel rapper e se le ragazze provano ad assomigliare a quella modella poi è tutto uguale, piatto, noioso. Si emula per cercare di avere lo stesso successo di chi ce l’ha fatta prima di noi. Io sono l’esatto opposto, sono un outsider, ma nonostante questo grazie al disco stanno arrivando solo amore e rispetto e ne sono felicissimo.

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Fotografia di Melania Andronic

Tornando un attimo al concetto di outsider. Tu fai un rap scuro e street, che ricorda la prima ondata del 2015, quella di XDVR e Full Metal Dark. Quel sound si è un po’ perso per strada, ma tu ci sei rimasto fedele.
Ho notato che spesso l’oscurità dei miei testi non viene molto calcolata: droga, ragazzi che perdono le prospettive per il futuro, desideri infranti, questa pseudo-depressione generazionale. Io ‘sta roba la voglio nei testi perché è la mia vita, è quello che ho attorno. Non può essere tutto rose e fiori, e se il disco viene apprezzato significa che c’è bisogno anche di roba cupa, di uno sfogo… vedo tristezza nella gente.

Come mai sia tu che Tommy avete deciso di fare dischi solisti quest’anno? Comunque nell’intro dici che “il Wing Klan è ancora in piedi”.
Già da due anni facciamo canzoni soliste, è un bisogno artistico; prima di essere un duo siamo persone diverse. Calcola poi che in questo modo abbiamo tre progetti: c’è il mio, più scuro, il suo, più introspettivo, e il progetto comune che racchiude un po’ il tutto, ma in uno stile diverso. Nei prossimi mesi riporteremo al centro il Wing Klan, con un disco che faccia salire il livello.

Mi sembra anche un processo molto utile per non ripetersi e per sperimentare.
Assolutamente, e poi c’è anche la competizione naturale. Ci si sprona a vicenda. Io e Tommy ci conosciamo da quando abbiamo quindici anni, ci vogliamo un bene della madonna.

"Droga, ragazzi che perdono le prospettive per il futuro, desideri infranti, questa pseudo-depressione generazionale. Io ‘sta roba la voglio nei testi perché è la mia vita, è quello che ho attorno."

Il tuo rap è molto cinematico: le immagini sono molto forti, oscure, proprio come l’artwork del disco. Tra l’altro mi è piaciuto un sacco quel verso dove dici “non sto facendo rime sto facendo un quadro”, perché è proprio vero.
Ti cito Noyz Narcos: “La gente vuole il sangue come nello schermo”. In musica c’è sempre ‘sta cosa che non si può dire questo e non si può dire quello, e a me non è mai piaciuto. Quando i pittori dipingono, i registi girano un film, gli scrittori scrivono un libro, hanno tutti massima libertà espressiva e possono raccontare ciò che vogliono. E io voglio lo stesso per me e la mia musica. L’immaginario deve essere a completa disposizione dell’artista.

Come scrivi i tuoi testi?
Inizialmente mi muovevo in maniera abbastanza casuale, mi beccavo con gli altri e scrivevamo insieme, a volte partendo da una base o da un concetto, ma spesso veniva tutto fuori sul momento. Per Marketing volevo fare una cosa un po’ più ragionata. In “Billy” per esempio mi sono paragonato a Billy The Kid, come una persona che sta rubando ma che sta restituendo il bottino sotto forma di musica.

A livello musicale NIKENINJA ha fatto un gran lavoro. Marketing spacca perché ha un sound ben definito, coeso, ma ogni traccia è diversa dall’altra.
NINJA riesce sempre a capire cosa vogliamo io e Tommy, insieme e separati. Considera che io e lui abbiamo lavorato un annetto all’album, ma sempre a casa sua. Avevamo anche iniziato a mixarlo con una produzione da cameretta. Poi però è subentrato Crookers che ci ha dato una mano pazzesca.

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Tommy Toxxic aka Goya e Joe Scacchi, fotografia di Melania Andronic

E infatti volevo proprio chiedertelo. Phra e Nic Sarno hanno fatto solo una base nel disco (“Adrenalina”), ma ho visto che hai ringraziato Phra pubblicamente su Instagram.
Sì ci siamo conosciuti e si sono presi subito bene per il progetto, si sono fomentati tanto che quel giorno stesso abbiamo fatto “Adrenalina”. Poi hanno deciso di aiutarci nel mix e nel master, per far uscire il disco dalla cameretta e farlo suonare forte, ancora più duro.

Nei tuoi pezzi parli spesso di sostanze, ma dici anche che la droga fa schifo e che non rende l’uomo migliore. È un argomento che tiene spesso banco nella narrazione mediatica, spiegami un po’ meglio cosa ne pensi tu.
Ti dico che personalmente è anche grazie al rap se sono riuscito ad analizzare determinate situazioni della mia vita, e a capire che non era aria. Sono sempre riuscito a stare fuori da questo problema dell’utilizzo di sostanze che definirei generazionale… sai, tipo la moda degli psicofarmaci o l’abuso fatto per noia. È una merda. Pensa agli anni Settanta, in cui comunque c’era meno informazione: la gente andava a sentirsi Jimi Hendrix e si prendeva gli psichedelici anche per ribellarsi allo stato, mettendo insieme rivoluzione e spirito ricreativo. Adesso invece non ci sono né rivoluzione né divertimento, sembra che tutti vogliano assopirsi, svuotarsi. Poi oh, io semplicemente racconto quello che vedo, canto quello che mi sta attorno. Gli insegnamenti veri arrivano, o dovrebbero arrivare, dalla famiglia. Chi dice che i ragazzi si drogano perché ascoltano rap sa benissimo che sta dicendo una gigantesca cazzata.

E la fissa per i porno invece? Nomini un botto di siti nel disco…
Ha! Le tipe mi scrivono tante volte in DM per dirmi di fare un porno, ci ho scherzato un po’ su. E poi basta anche con questo perbenismo tipicamente italiano e cattolico. Basta demonizzare la sessualità, basta con i pregiudizi. Viva la sessualità libera, viva la masturbazione!

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Carl Brave vs Frah Quintale è il nostro Mayweather vs Pacquiao

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Circa 48 ore dopo, posso affermare con certezza che il primo grave errore che ho commesso verso il Red Bull SoundClash è credere che sia una sfida tanto per dire. "Vuoi andare a vedere Frah Quintale e Carl Brave scontrarsi a Napoli?", mi avevano detto. A me era parso un evento figo, sì, ma non mi aspettavo una battaglia senza pietà. Con quei patatoni di Carl e Frah si fa per giocare, pensavo, mentre un Italo in clamoroso ritardo mi avvicinava alla città con il più alto tasso di tensione calcistica del momento.

A farmi intuire che ciò che mi ero immaginata nulla aveva a che fare con la realtà, sono stati la sfilza di chiamate e messaggi da parte dello staff Red Bull e dei vari uffici stampa, impanicati per quei 40 minuti in più non previsti dalla tabella di marcia. “Appena arrivi", ed è stato il testo comune inviatomi da 3 persone diverse, "fiondati su un taxi e digli di volare”. Sono una persona che detesta dal profondo delle viscere di essere in ritardo, quindi così mi avevano detto di fare e così ho fatto: ho detto a un tassista a Napoli di volare.

"Con quei patatoni di Carl e Frah si fa per giocare, pensavo, mentre un Italo in clamoroso ritardo mi avvicinava alla città con il più alto tasso di tensione calcistica del momento."

Ho temuto per la mia vita? Certamente. Ho pensato ai miei cari? Insomma: in realtà ero concentrata su me stessa, e penso fosse quella cosa chiamata istinto di sopravvivenza. Il mio fotografo Kevin Spicy è stato di qualche aiuto? No. Ho imparato qualcosa da questa esperienza? Sì, “che quando a Napoli giocava Maradona a fare il posteggiatore abusivo si prendeva come oggi in due settimane di lavoro” e “Trump è ‘nu strunz”.

Terminata la corsa un po’ in stile Pechino Express ho attaccato, invece, a correre a piedi, per raggiungere il primo dei miei intervistati, Frah Quintale. A colpirmi è stato l’autore di Regardez-Moi, album che proprio allo scoccare della mezzanotte di quel giorno avrebbe compiuto due anni, perché aveva grossomodo la mia stessa faccia ma non era appena schizzato ai 120 superando a destra in strade allagate da un mese di diluvio.

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Guardate che patatoni. Fotografia via Red Bull

E così, alla mia scema domanda “come va”, s’è infine dipanato il mistero del SoundClash: si respirava una tensione vera. E la si leggeva pure un po’ sulla faccia di Frah, che mi ha detto di essersi “svegliato alle quattro e non sono riuscito più a dormire fino alle sei. La sfida la sento, è qualcosa che mi innesca cose diverse rispetto a un normale live”.

Non ne avevo idea, ma Francesco mi ha spiegato che “siamo tutti, io e i ragazzi della band, in ballo da mesi per questo evento”. Mesi? “Sì, perché al di là di suonare i nostri pezzi, ci hanno messo di fronte a tutta una serie di prove, come la cover, il riarrangiamento di nostre canzoni in stili diversi, i duetti. Una bella mole di lavoro, un live di due ore. Ovviamente siamo gasatissimi, vogliamo spaccare, ma ci arriviamo davvero fusi”.

"Mi sono svegliato alle quattro e non sono riuscito più a dormire fino alle sei. La sfida la sento, è qualcosa che mi innesca cose diverse rispetto a un normale live” - Frah Quintale

Allontano un attimo Frah dalla cappa della gara per dirgli che Auroro Borealo, mio amico oltre che suo collega e fan, mi ha detto di lui che è arrivato al successo solo e soltanto perché la musica è la cosa che ama; perché ha l’esigenza di farla, divertendosi. Gli chiedo se è vero o se in realtà voleva solo fare i soldi. Frah ride e mi mostra un orologio Casio, dicendo che rappresenta perfettamente quanto gliene frega di quella parte lì della faccenda. “Sapevo che la musica era la mia cosa, ma che ci sarebbe voluto lavoro e impegno per farla diventare il mio lavoro. E sì, sono arrivati anche degli agi, ma non sono il calciatore con la villa, manco da lontano”.

E gli effetti perversi di questa velocissima notorietà? “Hai molti più fake amici. L’interesse di tante persone che prima della mia 'esplosione' sapevano della mia esistenza e non mi cagavano, poi magicamente hanno iniziato a far squillare il telefono a manetta. Bisogna essere bravi a tenersi vicine le persone che sai che sono lì perché ti conoscono davvero, che ti hanno supportato quando intorno c’era il deserto”.

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Frah Quintale, fotografia via Red Bull

Dato che stiamo parlando del lato oscuro del successo, chiedo quindi a Frah se apprezza l'apertura della musica da cui viene ai temi della salute mentale, e lì si accende. "È davvero figo, in generale, che nuovi argomenti, che non siano gli stilemi classici del rap, tipo 'il mio stile, il tuo stile, io ho le rime più fighe, tu fai schifo', siano entrati nel linguaggio. Se ci pensi è sempre stati un genere molto legato ai giovani, e se ci sono ragazzi che stanno male ma ascoltano solo gente che dice quanto sta da dio e quanti soldi fa, non so se possano ricevere un aiuto. È giusto che il rap si apra e si guardi intorno. Trovo sia bello quando la musica è connessa al tempo in cui essa stessa vive: anche in passato, quando si stava di merda, trovavi i dischi belli incazzati, quando si stava bene c’era più colore nella musica, mi piace l’idea di un racconto coerente”.

Oggi, però, il tema dei temi è il cambiamento climatico: come si fa a renderlo in musica? “Secondo me è possibile. Io racconto soprattutto di me, no? Beh, io nell’ultimo anno ho smesso di mangiare carne, e potrebbe anche essere che lo racconti in un prossimo pezzo”. L’ultima cosa che riesco a chiedere a Frah è di condividere con noi il supplizio di dire chi sono gli artisti italiani più influenti del decennio. “Bassi, Club Dogo, Sfera, Coez, Calcutta, Club Dogo, I Cani, Salmo, MYSS KETA di brutto—anche per un discorso sul femminismo, che qui è un po’ povero di rappresentanti. Lei ha davvero fatto un lavoro gigantesco partendo da zero. Sei anni fa faceva la stessa roba che fa adesso ed è bello che abbia martellato sul continuare a farla. Se adesso sta volando così magari significa che siamo noi ad essere più pronti a capire delle cose”.

"Il rap è sempre stato molto legato ai giovani, e se ci sono ragazzi che stanno male ma ascoltano solo gente che dice quanto sta da dio e quanti soldi fa, non so se possano ricevere un aiuto." - Frah Quintale

Allo scoccare dell’ottavo minuto di intervista, un Frah mormorante frasi su quanto sarebbe stato bello “andare in baita” invece che a fare la millemilesima prova mi è stato sottratto, mentre il team Red Bull m’ha fatto segno di seguirli in una corsa marziale verso la parte opposta del PalaPartenope—corsa che ha evidenziato non solo la mia scarsissima forma fisica ma pure la tendenza a rallentare i gruppi a casa dei continui inciampi in cose a caso.

Sempre inciampando, ovviamente, sono arrivata nel camerino di Carl Brave, bianco come il Korova Milk Bar, dove sono stata invitata a cazzeggiare poco e partire con le domande. In quel vortice di frenesia, però, Carlo era l’incarnazione dello sciallo: "Sto in forma, mi sono svegliato a mezzogiorno, ho appena preso il caffè e aspetto di fare le ultime prove, soprattutto quelle con i guest”.

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Carl Brave, fotografia via Red Bull

Quando gli dico che raramente ho incontrato qualcuno di così tranquillo prima di uno show, ride e mi spiega che in realtà era “molto ansioso, ma tipo che ai primi concerti avevo un panico terrificante e così mi facevo il boccione di vodka prima e pure sul palco, poi sono passato al boccone di vodka solo sul palco e oggi sono arrivato allo spritzettino, appena prima di salire”.

Da ansiosa persa, gli chiedo come si fa a fare un percorso di gestione di un sentimento così poco controllabile, almeno per me: “Secondo me bisogna cambiare la prospettiva, e imparare a trasformare ciò che ti agita, nel mio caso il live, in un momento di sfogo. Quindi ora ho l’ansietta, quella bella, ma molto di più la voglia di sfogarmi di provare quell’emozione che ti regala il palco. E poi, ovviamente, suonando tanto come ho fatto io in questi due anni, affini pure il mestiere, ecco”.

"Ai primi concerti avevo un panico terrificante e così mi facevo il boccione di vodka prima e pure sul palco. Oggi sono arrivato allo spritzettino, appena prima di salire” - Carl Brave

Che cosa porta via, invece, dalla vita normale l’essere sempre in giro? “Nel successo ci sono un miliardo di lati insidiosi. La gente cambia la percezione che ha di te, e sembra una cazzata ed invece è una cosa grossa. Fa male quando lo vedi in persone che conosci da tempo, che ti si approcciano realmente in modo mutato in base ai riscontri che hai ottenuto”. Ma non può, gli chiedo, anche succedere che un musicista per primo cambi, dopo la fama? “Certo, però io mi sento sempre Carlo, Carlone. Poi magari non me ne accorgo e quelli che mi stanno attorno pensano sia diventato pazzo. Poi faccio un sondaggio, che mi interessa”.

Con alle spalle il management che mi accerchia sempre più chiedo a Carlo quali, per lui, sono i valori che gli hanno permesso di dire di essere rimasto lo stesso: “Sono rimasto io perché sono sempre stato così: ossessivo nelle cose che faccio, senza tanti fronzoli. Non sono attaccato agli oggetti, mi piace vivere la musica e di musica e sono felice di poter non fare altri lavori, oggi, ma solo il musicista”.

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Shablo, Carl Brave, Francesca Michielin e Max Gazzé, fotografia via Red Bull

Gli riferisco che con il suo rivale s’è ragionato di come la gamma di temi trattati nella loro musica si sia ampliata molto, andando a toccare anche cose intime che un tempo sarebbero state tabù. Lui interviene al volo: "è un grandissimo valore questa apertura verso argomenti come la fragilità, il disagio, il malessere. Parlarne aiuta sempre, specie se ad ascoltarti ci sono ragazzini. Penso che se un rapper che ami, ma anche un cantante pop, ti racconta del suo stare male, ti regala un nuovo punto di vista. Come quando vai dallo psicologo e ti fa vedere le cose in modo nuovo. Detto ciò, è importante a patto che tu sappia di cosa stai parlando. Sarebbe sciatto dire vai, parliamo del cambiamento climatico che è il trend del momento, senza sapere poi veramente un cazzo sulla faccenda. Lo devi volere davvero, non lo devi fà per furbizia”.

Captato perfettamente il messaggio fatto di sguardi sgranati che me ne dovevo andare, ho chiesto anche a Carlo il suo artista del decennio, e lui senza nemmeno farmi finire la frase ha quasi urlato “tha Supreme”. Con un sorriso ebete per la risposta appena ricevuta, ho abbandonato il luogo dello scontro—non che avessi scelta, peraltro—perché ci sarebbero da lì a poco state le prove con gli ospiti, e guai a far trapelare chi fossero.

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Coez e Frah Quintale, fotografia via Red Bull

L’intervallo tra la fine delle interviste più corte della mia vita da giornalista—battute solo dai 3 minuti cronometrati Fernando Alonso, ma questa è un’altra storia—e l’inizio del SoundClash è un ricordo opaco, fatto di tuffi ad angelo in vassoi di crocchè di patate, fiori di zucca fritti e viaggi in metropolitana. Alle 21 spaccate il PalaPartenope sold out s’è ballato tutto il set della conterranea Rossella Essence e alle nove e mezzo precise Ema Stokholma ha dato il via alla gara. Palco blu per Frah Quintale, in compagnia del grandioso Ceri. Palco rosso per Carl, accompagnato da una big band di 8 elementi—mica cotica, insomma.

La gara, ma gara vera, comincia con tanto di dissing, anche se nei ranghi: “Carlo, questa nemmeno con l’autotune la riesci a fare!” “Frah, la senti? Questa è musica suonata con gli strumenti, la riconosci?". Il tutto si svolge in quattro round, preceduti da un quarto d’ora nel quale i due per scaldare il pubblico potevano fare il cazzo che gli pareva.

“Carlo, questa nemmeno con l’autotune la riesci a fare!” “Frah, la senti? Questa è musica suonata con gli strumenti, la riconosci?"

Nel primo round ci si è affacciati a X Factor con la cover, un pezzo piuttosto noto dal titolo “Nel blu dipinto di blu”. Carl l’ha fatta un po’ reggae e un po’ ska, Frah l’ha resa un brano soul. Io, da giornalista imparziale, non posso in alcun modo pronunciarmi, quindi dirò solo che lo ska mi piaceva molto ottomila anni fa. A fine esibizione le tremila persone del PalaPartenope erano limati a fare casino per misurare il vincitore con l’applausometro, ingegnoso strumento di tortura per gli over 30.

Il secondo round non l’ho tanto capito—so solo che si chiamava Takeover, e in pratica i due sfidanti dovevano iniziare una canzone che veniva terminata poi dall’avversario, ma secondo me non avevano capito bene manco loro. E comunque in quel mentre ero distratta dalla visione di un signore cinquantenne grondante sudore ma in perenne stato cinetico che tirava come un folle da una sigaretta elettronica di quelle che puzzano di culo, preoccupata per la sua sorte.

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Frah Quintale, Mahmood, Coez e il suo team, foto via Red Bull

La terza fase mi è piaciuta molto, anche perché dopo aver confidato allo Spicy i miei timori per il signore di prima—con appresso pure figlio e figlia—e essermi sentita rispondere “ma sticazzi”, me ne sono battuta anche io. Quindi ho ascoltato con cura il round Clash, quello dove gli artisti dovevano riarrangiare tre propri successi in generi diversi: blues, reggaeton e dance. Carl Brave ha cantato “Camel Blu”, “Malibu” e “Vita”, mentre Frah Quintale “8 miliardi di persone”, “Floppino” e “Gravità”.

Sul finale però c’è stata poca gara perché nel round “Wild Card”, cioè quello dei guest, Carl Brave ha portato sul palco Shablo per “Non ci sto",—mentre un Marracash senza senso veniva proiettato alle loro spalle, con grande sgomento di tutti noi, e per tutti noi intendo me e l’ufficio stampa di Red Bull Soundclash—Francesca Michielin per “Fotografia”e Max Gazzè per “Posso”.

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Il pubblico del PalaPartenope, fotografia via Red Bull

Ma è stato sul palco di Frah Quintale che, permettete, sono stati calati gli assi veri, perché per primo è arrivato un tale di nome Silvano, in arte Coez, per i “Nei treni la notte”, e “Faccio un casino” e poi, Mahmood, ovvero l’autore di “Soldi”, aka il brano italiano più ascoltato dell’anno, che per altro ha fatto, con l’aggiunta di “2%” . E se i round, come ci ha informati una Ema che non ha scaldato granché i cuori dei napoletani, sono finiti in parità, il boato finale per l’uno e per l’altro ha fatti vincere Frah Quintale a Undamento tutta.

E il mio racconto, cari lettori di Noisey, finisce qui, perché no, non sono andata all’after parrty a raccogliere un po’ di umori a caldo (tranne quello di Mecna, che era con me in zona stampa e che tifava per una delle due fazioni ma non dirò quale, ma che era convito avrebbe perso), bensì mi sono diretta sotto una pioggia tropicale al baracchino delle sfogliatelle, riflettendo sul fatto che, in generale nella vita, anche quando si gioca un’amichevole, perdere è sempre una merda.

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"Milano è un posto di merda", ma ci ha dato il disco indie più bello dell'anno

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C'è questa cosa che la morte non sta solo a Venezia, in letteratura, ma un po' in tutte le città in cui la si vuol mettere. Quando la metto a Milano, io la metto nell'opera di Antonio Moresco.

Moresco a Milano ci vive, in Porta Romana. Ci cammina, la notte, di strada e da solo. Finisce in risse, parla coi dimenticati, si aggira senza meta. Lo faceva anche da giovane, quando viveva in periferia, in una casetta di due stanze con moglie e figlia. All'inizio lavorava seduto sul cesso, per non svegliarle. È diventato scrittore già vecchio. La trilogia che ha segnato la sua vita—Gli esordi, Canti del Caos e Gli increati—è un iper-romanzo che parla del rapporto tra vita e morte, luce e merda.

Il protagonista, che è uno ma più di uno come Gesù Cristo, a un certo punto comincia a peregrinare tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, confusi dalle scosse di un sisma divino. E gira anche per una Milano sospesa tra esistenza e inesistenza; una Milano increata, popolata da personaggi senza nome che però hanno un nome. L'uomo che pesta le merde, l'account, il copy, la bambina, il Matto, il Gatto, il traslocatore, la donna che grida, l'ispettore Lanza, il ginecologo spastico.

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La copertina di MILANO POSTO DI MERDA dei Giallorenzo, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Faccio un salto, e quei personaggi buffi ma anche inquietanti, ognuno con una storia che comincia e finisce da sé ma che ne formano una comune, mi ricordano quelli che cantano i Giallorenzo nel loro disco MILANO POSTO DI MERDA. "Che titolone!", direte voi. Un po' sì, mai in realtà ha senso. Perché non è una sparata, ma una scritta che i ragazzi del gruppo—Pietro, Fabio, Marco, Giovanni—vedono tutti i giorni alla stazione di Dateo, che sta a Milano Est, vicino a casa loro.

È difficile mettere cos'è questo disco in pochi paragrafi, proprio com'è difficile convincervi che l'opera di Antonio Moresco vi cambierà la vita se la leggete, perché è pienissimo di cose e livelli e significati. Fondamentalmente, tutto nasce quando i ragazzi si rendono conto che al quinto piano del loro palazzo è morto un tipo, il signor Giallorenzo. E scoprono che era, essenzialmente, "un figlio di puttana odiato da tutto il mondo."

E così lo raccontano. E insieme a lui raccontano altri personaggi off di Milano, nomi che chi si sente di qua ha visto, conosce o dovrebbe conoscere—Kevin Ragazzo Superdotato, il rasta che fa le foto, il signor Perindani. Esseri umani che, come i personaggi di Moresco, si aggirano in un mondo tra i mondi e attirano con le loro storie, calamite narrative, le storie degli altri. Nel nostro caso la storia è quella di Pietro, che canta e scrive i testi, e dei suoi amici. E la morte del signor Giallorenzo è il canale attraverso cui passa il flusso della sua storia.

I ragazzi si rendono conto che al quinto piano del loro palazzo è morto un tipo, il signor Giallorenzo. E scoprono che era, essenzialmente, "un figlio di puttana odiato da tutto il mondo."

Chi è che aveva già usato la morte per raccontare le cose? I Tre Allegri Ragazzi (appunto) Morti, che Pietro mi cita come uno dei nomi da cui nasce la musica dei Giallorenzo. Mi dice anche Vasco Brondi, e i Cosmetic, ma anche molto emo. E poi, e questo è un punto importante, una cosa che in Italia ancora mica c'è tanto come riferimento, cioè il suono lo-fi venuto fuori anni fa negli Stati Uniti attorno a etichette come Orchid Tapes e Run For Cover.

In Italia non c'è mai stato un vero emulo di cose come (Sandy) Alex G, i Teen Suicide e tutti i progetti di Sam Ray, gli Elvis Depressedly. Musica che sa essere tenera e gnucca allo stesso tempo, disperata e piena di speranza, registrata con il deretano. E una cosa che suona così, in Italia, suona dirompente e unica in quella zuppa che chiamiamo "indie italiano" e in cui c'è un po' di tutto, dalle primizie alle verdure che se non le usavi ora erano lì lì da buttare nell'umido.

La cosa che rende i Giallorenzo delle belle verdurone mature e colorate è il loro andare oltre il fare-le-canzoni. Non stanno a dire che stanno male e vivono nella metropoli e amano e basta, ma lo mettono in un concept, che è anche una fanzine con i testi del disco e una storia che li unisce. Si sono fatti lo sbatti di fare una cosa vera, pensata, che racconta il senso di fascino e terrore della grande città per chi viene dalla provincia. E lo fa tramite persone che la gente considera matte, ai margini, e in realtà ha dentro lo spirito delle vie e dei palazzi e di tutti quelli che ci conducono dentro l'esistenza.

E insomma, quest'anno in Italia, in quella zuppa di cui sopra, nessuno ha fatto niente di simile. Ne abbiamo parlato un po'.

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Fotografia di Luca La Barbera

Noisey: Voi altre interviste ne avete già fatte?
Pietro: Solo una telefonica con il giornale di Brescia! Il tipo è stato un grande, mi fa "nel mio streaming si sentiva un po' male, poi immagino che nella versione definitiva si sentirà bene."

Come ti fa sentire un commento del genere, da parte di una persona non abituata a questo sound?
Fabio:
Era quello che ci eravamo prefissati di fare. Pietro voleva registrare il disco con GarageBand dall'iPhone, poi per fortuna ci siamo ci siamo messi d'accordo per registrarlo decentemente in uno studio e poi rovinarlo. Ma sai, quelli che mi hanno fatto inquadrare il suono sono i Teen Suicide, e un commento così a me soddisfa. Forse però la persona non appassionata a queste cose non è prontissima.
Pietro: A livello di streaming il disco è andato meglio di quanto ci aspettassimo. Sono pochissimi, ma per la roba marcia che facciamo è assurdo. Ci sono persino gli amici di mia sorella che si prendono bene, gente a cui non frega un cazzo di 'sta roba. C'era un po' l'idea di provocare, dato che viviamo un tempo fatto di pop e rock perfetto, modaiolo, da Scuola Indie.

"Il nostro è un disco così marcio che ti obbliga ad ascoltare davvero le canzoni. Non hai nient'altro se non le canzoni."

Scuola Indie, playlist di Spotify in cui tra l'altro siete stati inseriti.
Fabio:
Siamo la pecora nera!
Pietro: Ci hanno già relegato in basso... comunque, dopo aver finito il disco mi sono reso conto di aver fatto questa cosa. Un disco così marcio che ti obbliga ad ascoltare davvero le canzoni. Non hai nient'altro se non le canzoni. E persone che hanno meno paranoie musicali e vanno a meno concerti punk di me hanno apprezzato proprio questa cosa. Mio cognato, ad esempio.

Il fatto che un disco così venga inserito in quel contesto è una bomba. C'è un potenziale di sorpresa per l'ascoltatore non abituato a quel sound, è una porta aperta verso nuovi suoni.
Fabio: Per il cultore di turno può essere una bella sorpresa trovare un disco come questo in un calderone come Scuola Indie, certo. E invece l'orecchio non esperto ci riconosce qualcosa di diverso.
Marco: Per me è comunque un disco molto coerente: è così marcio che crea una sorta di isola attorno ai personaggi che raccontiamo. Questo è un concept sull'isolazionismo, sulla solitudine, sulla cupezza.
Pietro: A me gasa un botto il fatto che in Scuola Indie sia uscita anche "Raffreddore" di Maggio, e c'è dietro Ste che fa screamo e urla peso. Abbiamo un po' messo un baco nel sistema.

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Fotografia di Marco Previdi

Secondo voi, come mai solo nel 2019 in Italia siamo arrivati a fare un disco indie che suona come il vostro?
Pietro: Io ho il mito degli americani, ma più che gli Elvis Depressedly mi trovo a imitare un Babalot, che ha fatto dischi che hanno da insegnare anche in America, o un Francesco De Leo degli inizi. Ce l'abbiamo un indie pop lo-fi italiano, e già dal 2001. E noi ce ne appropriamo in modo violento.
Giovanni: Mettiamoci anche il primo Caso, tutte urla e chitarre.

Però è un valore, in questo caso, appropriarsene. Nel rap si fa spesso critica a chi copia gli americani, ma qua siamo in un campo di gioco diverso.
Pietro:
Magari in Italia il lo-fi è sempre stato pop, o punk. Noi abbiamo cercato di prendere un'estetica punk, ma fare un disco pop.

"Ce l'abbiamo un indie pop lo-fi italiano, e già dal 2001. E noi ce ne appropriamo in modo violento."

MILANO POSTO DI MERDA è un concept album, no?
Pietro:
Un concept accidentale. Io mi sono accorto progressivamente di questo feel, all'inizio volevo solo fare un disco che suonasse come gli Elvis Depressedly. Poi mi sono beccato con Enrico Molteni al basso e Clara Romita alla batteria e volevamo fare gli Snail Mail. Alla fine loro non avevamo minimamente tempo di stare dietro a me, quindi ho chiamato i miei amici... e sono passati due anni. In tutto questo tempo mi sono reso conto che c'era qualcosa che accomunava i pezzi, e non solo la città di Milano ma degli squilibrati della città di Milano. Poi tutto ha fatto il giro ed è diventato io che parlo dei matti di Milano per parlare, alla fine, di me.

Il punto è che ti accorgi che è un concept solo se leggi la fanzine che avete creato, in cui più o meno raccontate una storia. "Giallorenzo" è il nome di un signore che è stato trovato morto in cima al palazzo dove vivete.
Giovanni:
Sì, noi un giorno siamo tornati a casa e c'era chiunque: polizia, pompieri, ambulanze. Abbiamo scoperto che avevamo un quinto piano nel condominio, e io vivevo lì da quattro anni. E lì c'era una persona morta da due mesi e mezzo, che abbiamo scoperto essere questo Claudio Giallorenzo, che era un figlio di puttana odiato da tutto il mondo.

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Fotografia di Marco Previdi

Ok, quindi chi è il signor Giallorenzo?
Giovanni: Lavorava nell'aeronautica militare lì accanto e ha passato la sua vita a rendere la vita difficile alle altre persone del condominio, cercando di truffarli in qualunque modo. Aveva cagato sullo zerbino dell'inquilina del primo piano, le aveva lasciato un biglietto con scritto "Spero ti venga un cancro al buco del culo". In quattro anni nessuno di noi lo ha mai visto, è questa la roba assurda. Ed è stata proprio la tipa del primo piano a chiamare la polizia, perché la tipa della lavanderia le ha detto che aveva le camicie del Giallorenzo da tre mesi.
Pietro: C'è pure quest'elemento romantico, l'unica che si è ricordata di lui è stata la sua nemica.

Ma come avete fatto a sapere tutte queste cose di lui?
Pietro:
Lui era uno che denunciava tutti, ha fatto spendere un sacco di soldi a un sacco di persone per le cause che intentava. Ed era un accumulatore seriale, è stato trovato morto circondato dai suoi rifiuti.
Giovanni: E "118", il primo pezzo, parla proprio di questo.
Marco: Tre settimane fa abbiamo rinnovato il contratto e il padrone di casa ci ha tirato fuori proprio Giallorenzo. E non ha la minima idea che ci chiamiamo così e che abbiamo fatto un disco.

"Un giorno siamo tornati a casa e c'erano polizia, pompieri, ambulanze. Al quinto c'era una persona morta da due mesi e mezzo, che abbiamo scoperto essere questo Claudio Giallorenzo, che era un figlio di puttana."

Com'è che "Giallorenzo" è diventato poi il vostro nome?
Pietro: Prima sapevo solo che avevo dei pezzi che parlavano dei pazzi di Milano, alcuni veri e alcuni inventati. Poi però mi sono reso conto che non volevo fare un disco sociologico, una Spoon River. Volevo parlare di me, e quindi ho collegato tutto, e questo Giallorenzo serve in ultima istanza per dire: sono io. Non è un altro che guardo da fuori. Quindi chiamarci "Giallorenzo" è stata la scelta più facile del mondo. Ce l'hai sopra la testa, non l'hai mai visto ma sai che è esistito, e in ultima analisi sei tu.
Marco: È l'ennesimo pazzo di Milano, forse quello più vicino a noi—escludendo Bonti, che è il migliore amico di Pietro, a cui è dedicato un altro pezzo.

I vostri riferimenti sono completamente diversi rispetto a quelli dell'indie italiano da Calcutta in poi, no? Sono curioso di vedere come il mondo itpop vi possa comprendere.
Pietro:
Per trovare una cosa positiva, ora è tutto più divertente. Negli ultimi dieci anni abbiamo smesso di essere tristi, prima c'era l'idea che per fare la musica alternativa dovevi essere un cazzo di preso male e vivere un vita di merda.

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Hey, ma quello è Generic Animal! Fotografia di Marco Previdi

C'è della presa male in ciò che fate, ma non è distruttiva. È una presa male presa bene.
Giovanni:
Noi veniamo da quell'emo lì, quella nostalgia continua ed eterna.
Pietro: Il più grande riferimento su questa cosa sono i Cosmetic. Una roba sincera, spontanea, dolorosa, che ha a che fare con il mondo hardcore, ma in cui se devi essere sincero fino in fondo finisci con l'accordo maggiore e non quello devastante. C'è sempre, invincibile dentro di te, una cosa che resiste al nichilismo.

Voi venite da Bergamo e Brescia: che cosa vi fa venire voglia di chiamare Milano "un posto di merda"? Nella fanzine parli del "grande nulla agricolo" e lo contrapponi alla "città-destino".
Pietro:
È una citazione di un nostro amico regista e autore teatrale, Nicolò Valandro. Ha una serie di sketch di stand-up comedy che girano attorno al concetto di "grande nulla agricolo", e lui viene da un nulla ancora più grande del nostro: la bassa bergamasca è l'inizio di quel nulla che va a finire dove sta lui, tra Ferrara e Ravenna.

"Negli ultimi dieci anni abbiamo smesso di essere tristi, prima c'era l'idea che per fare la musica alternativa dovevi essere un cazzo di preso male e vivere un vita di merda."

Detto questo, per farla più semplice: come avete vissuto il trasferimento a MIlano?
Giovanni:
Credo che nessuno di noi abbia avuto un abbraccio caldo dalla città. Tutti volevamo vivere qualcosa di nuovo per l'università, ma non è mai come la vuoi il quinto anno delle superiori. Ho capito che c'era qualcosa nell'odio per Milano posto di merda solo la prima primavera che ho vissuto in città.
Fabio: Io quando sono arrivato volevo cambiare, vivere una città grande. Veniamo da Sarezzo, ai piedi di una valle, alle superiori andavamo in città a Brescia, sapevo un po' cosa aspettarmi da una metropoli. Arrivare qua è stata quasi una riscossa personale. Ed è strano, perché le persone con cui ho passato l'adolescenza odiano Milano. Non c'è parcheggio, lo smog, i palazzi, che merda... è un sentimento che non ho mai avuto.
Pietro: Non è mai una critica alla città di per sé, è... una provincia interiore. E lo dici, rovini tutto, spieghi il disco dei Giallorenzo, e non è più interessante ascoltarlo. Per me c'è stato un rapporto sinusoidale: all'inizio sei preso bene, perché pensi che quando andrai a vivere con i tuoi amici a Milano cambierà tutto. Poi succede davvero e ci rimani di merda, perché è anche un periodo della vita in cui ti succedono anche altre cose. E quindi le sovrapponi alla città in cui vivi, e la odi per quello. Poi ti abitui, ti rendi conto di stare vivendo cose fighe e ti senti a casa. Magari girando per l'Italia poi torni a dire "Milano posto di merda", ma come dicevi "Bergamo posto di merda" all'inizio. Credo sia proprio questa sinusoide a spiegare il rapporto con le cose che sono davvero "casa".

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Fotografia di Marco Previdi.

Il rap accetta il brutto della città e lo glorifica, mentre la musica con le chitarre tende a scontrarcisi.
Pietro:
Banalmente perché il rap viene davvero dalla merda di Milano. Noi siamo borghesi lombardi che usano la chitarra perché è un di più. L'unica cosa che Sfera Ebbasta poteva fare era il rap. È proprio un rapporto sociologico diverso.

E invece, tornando ai personaggi che raccontate: chi è il signor Perindani?
Giovanni: È un personaggio vero e conosciuto, e il testo è pura biografia.
Pietro: Fuori dal meme, è un signore che ha studiato filosofia in Statale negli anni caldi della vita universitaria. Non si è mai laureato, ha lavorato in ATM ma si reputa un grande matematico, filosofo e storico dell'arte. La sua vita, oggi, è girare per la città a fermare ragazzi alle manifestazioni o nelle università. È un complottista e ha varie tesi sul signoraggio bancario, sul plutonio nelle cose, sulle scie chimiche... ma soprattutto è convinto di aver trovato questo metodo che correggerebbe il calcolo proporzionale del rapporto tra eletti ed elettori nel parlamento, che secondo lui è sbagliato proprio nella Costituzione, anche se nella Costituzione non c'è. Poi dice che suo nonno ha disegnato la stazione Centrale di Milano, cosa anche probabile, e fa mega ridere perché in tutti i suoi volantini ha una firma in cui si definisce "specializzato in filosofia della relatività, studioso e critico d'arte, specializzato in pittura di mare." E che cosa vuol dire? Niente, è uno di quei grandi ideologi che si trovano in giro. Era anche a Lume mentre facevamo il soundcheck prima di un concerto.
Marco: Va detto che noi sappiamo il senso del nostro lavoro, che non è quello di insultare queste persone. Però magari lui stesso no, e anche uno che ascolta il pezzo magari ci ride e basta.

"Credo che la cosa più vicina al senso della vita che conosco sia l'essere amati. Ed è un riassunto di quello che vuol dire l'emo: non essere nostri fidanzati a vicenda, ma mettere in circolo le cose."

Chiudi la fanzine con una precisazione: "Se dall’incontro con questo documento doveste trarre una visione del mondo incentrata sull’esigenza affettiva, va tutto bene, è così che funziona. Siamo disponibili a condividere le nostre esigenze affettive, consapevoli che l’obbiettivo è vederle salvate, non risolte."
Pietro:
Ho scritto quella fanzine che ero stato lasciato al telefono due giorni prima. L'unica attività che riuscivo a fare in biblioteca non era studiare o scrivere canzoni ma scrivere la fanzine, che quindi è nata in un momento di particolare sensibilità affettiva. Il momento magico in cui tutta la vita ti sembra collegata al fatto di essere voluto da una persona sola. Poi sai che non è vero, ma ci sono momenti in cui pensi che il senso della tua esistenza sia dato dal fatto che tu mi conosci. Credo che la cosa più vicina al senso della vita che conosco sia l'essere amati. Ed è un riassunto di quello che vuol dire l'emo: non essere nostri fidanzati a vicenda, ma mettere in circolo le cose. Perché è l'unico modo per guardarle in faccia per quelle che davvero sono. Cose che nessuno può risolvere, ma che posso condividere con tutti.

Chiunque abbia girato a Milano ha visto i graffiti su Kevin Ragazzo Superdotato, ma forse non tutti hanno avuto la fortuna di incontrare il Rasta che fa le foto.
Giovanni:
Abbiamo anche una foto con il rasta che fa le foto, ma l'abbiamo pubblicata senza il suo viso.
Fabio: Io una volta me lo sono visto davanti, ai Tre Allegri Ragazzi Morti al Carroponte. È mega lento nelle cose che fa, ma è superdisponibile. Lui sapeva di essere conosciuto su Facebook, gli ho chiesto perché faceva le fotografie e lui mi ha risposto semplicemente "Massì, ogni tanto me le guardo". E la cosa bellissima è che dopo che gli abbiamo chiesto la foto, lui ha tirato fuori il suo cellulare in un sacchetto di juta e ha voluto fotografare la foto dal nostro cellulare.
Pietro: Immaginati l'archivio del rasta che fa le foto, se esistesse. Sarebbe l'opera d'arte più incredibile degli ultimi dieci anni di Milano. Credo ci sia tutta la mia vita da quando sono arrivato qua, in quelle foto.

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Fotografia di Marco Previdi
Parli di Milano come "La città più figa d’Italia”, ma la prima cosa che dici all'inizio della fanzine è “Siamo ragazzi sfigati”: ma davvero? Perché?

Pietro: I miei vecchi capi mi prendevano in giro sul nome "Milano posto di merda", tipo "il classico titolo da uno che non ce la vuole fare, pieno di risentimenti..." ma per me è proprio questo è il contenuto. Metterlo bianco su nero era un po' una paraculata, dire "Hey, persona che sta leggendo la fanzine, non guardare a questo titolo in modo provinciale. Leggilo con il distacco di chi sa bene che scrivere MILANO POSTO DI MERDA è solo un modo per affermare di essere sfigato tu. Non che tu sei superiore.
Giovanni: Un incipit umile, insomma.

È che questo titolo per me ha un valore. Ti prende dentro, tutto in caps, con un luogo comune dell'indie italiano—la presa male, la metropoli, il piangersi addosso. Però quando lo apri non ti trovi una banalità, ti trovi una mina. È un po' come un titolo di VICE.
Pietro: A parte che è una scritta vera, nella stazione di Dateo. E la vediamo ogni giorno.
Giovanni: Non è stato tanto fare il titolo provocatorio, è stata una cosa che ci ha colpiti subito. Molti ci avevano scoraggiato, dicendoci che saremmo sembrati la band finta punk che dice "merda", gli adolescenti. Noi abbiamo subito insistito, perché dietro a quella scritta c'era un mondo accidentale che si è riflesso nel disco.

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Kendrick Lamar farà un concerto al Rock in Roma

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Kendrick Lamar ha annunciato un concerto in Italia. Il rapper di Compton si esibirà il 7 luglio 2020 a Roma per il Rock in Roma. È una notizia molto bella, dato che l'unica volta che Kendrick era passato dalle nostre parti era nel 2013, ai Magazzini Generali di Milano, per il tour di good kid, m.A.A.d. city. La data, all'epoca, non andò nemmeno sold out.

Questo può significare solo una cosa: il nuovo album di Kendrick, il seguito di DAMN., è in arrivo. E per una volta pure noi potremo vederlo eseguito dal vivo.

Ci sono due tipi di biglietti: il golden circle costa 85 euro, mentre i biglietti "posto unico" costano 65 euro. Saranno disponibili sul sito del Rock in Roma e su Ticketone dalle ore 10.00 di lunedì 2 dicembre. Il concerto è organizzato da Humble Agency.

Due anni fa avevamo fatto un pezzo in cui ci chiedevamo perché i grandi rapper internazionali non venivano mai dalle nostre parti quando venivano in tour in Europa—bé, finalmente sembra che anche il nostro mercato sia diventato abbastanza florido da attirare leggende del calibro di Kendrick. Bravi tutti.

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