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Quello di Maggio e Tanca non è emo rap, è terapia

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È mercoledì e a Milano piove tantissimo. Maggio sbrocca subito e ci racconta la sua avventura, a me che lo devo intervistare e a Tanca, che fa la musica su cui lui rappa. Ha dovuto prendere una Enjoy da dove vive, a nord della città, e tra tergicristalli, strade sbagliate, le mappe del telefono statiche che non si muovevano, ci ha messo una vita, guidando così, a sensazione, come ci dice ridendo.

Maggio, semplificando, fa rap. Ma potrei dire anche emo rap. Ed è tra i pochi, in Italia, a farlo con riferimenti solidi—non l'emo mainstream ma quello che nasce negli spazi di comunione, quello fai-da-te, quello registrato con due soldi e portato in tour in un furgone scassato. Quello di Raein, La Quiete, Fine Before You Came. Qualche tempo fa, con Tanca a fare le basi, ha pubblicato un EP che si chiama Manuale di sopravvivenza per fiati corti. Io sono qua con lui per capire qualcosa di più su quello nuovo, che si chiama I nostri fallimenti.

maggio i nostri fallimenti
La copertina de I Nostri Fallimenti di Maggio e Tanca, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Inizio chiedendogli della prima traccia, quella che dà nome al disco. Maggio, che chiacchiera davvero un sacco, mi dice che "era per spiegare l'idea del progetto, e introdurre quella che sarebbe stata poi l’analisi del fallimento dai vari punti di vista. Quel momento in cui ti sta bene, e lo vedi come una fase di passaggio; quello in cui è superato; quello in cui lo stai affrontando, e comunque provi fastidio”.

Ed è così che posso spiegare questa musica: quella di due ragazzi che raccontano con tutta la naturalezza e la leggerezza del mondo quanto ci rode il culo quando falliamo (Ma che fastidio / se fallisco / Che schifo / se poi non finisco il disco, in “Raffreddore”) sia di quando in realtà ci diciamo che va tutto bene, perché in fondo Sbaglieremo ma non sbaglieremo, come dice il ritornello de “I nostri fallimenti”.

La musica di Maggio e Tanca è quella di due ragazzi che raccontano con tutta la naturalezza e la leggerezza del mondo quanto ci rode il culo sia quando falliamo.

Più parliamo—e parliamo tanto—e più inizio a vedere questo EP come un momento di passaggio, e di consapevolezza di questo passaggio. Come quando dopo una giornata di merda realizzi che proprio non ti va di stare male. “Orgoglio” nasce così: a maggio piace raccontare come è nata, e quindi me lo racconta.

“Era proprio una giornata di merda, senza un motivo. Il mio coinquilino provava a dirmi ‘dai, guardiamoci un film’. Era il 2018 e io neanche riuscivo a guardare bene la tv, non riuscivo a concentrarmi. E io ho detto no, perché mi dava fastidio, adesso scrivo un pezzo, ed è uscito 'Orgoglio'. Piuttosto di star lì [e dire] adesso mi sfogo con 30 miliardi di persone, siccome l’ho fatto nella mia vita, adesso basta”.

maggio rapper
Maggio, fotografia di Alecio Ferrari

Tanca è più taciturno di maggio, ma è evidente che questo suo silenzio non nasca da una mancanza di cose da dire, piuttosto da una quasi completa concordanza con le parole dell’amico. Infatti annuisce e dice che “è la tua voce che ti dice ‘adesso riprenditi’. Ok, te lo possono venire a dire anche gli amici, ma fin quando non sei tu stesso…”

“Orgoglio” è una traccia molto importante, insieme a “I nostri fallimenti” segna infatti i confini del disco. Maggio l'ha messa come ultima proprio “per alleggerire un po’ il tutto e dire: comunque tu continua a fare le tue cose. Che è un po’ la parte opposta dell’intro”. È un pezzo rassicurante, una boccata d’aria, un momento per fermarsi un attimo e darsi una pacca sulla spalla. Siamo tutti ok / sei contento: / tu sei quello che farei.

"A un certo punto così non vivi più pensando che quel pensiero negativo sia la tua vita, ma un pensiero che hai nella tua vita in quel determinato momento." - Maggio

Qui Maggio mi racconta che, invece di dirselo da solo, si è immaginato una terza persona che gli dicesse tu sei quello che farei, che è una cosa molto difficile da dire a qualcuno. Un po' come dire “tu in questo momento stai incarnando quello che io vorrei fare, non pensare che sei un coglione”, mi spiega.

Iniziano a delinearsi sempre di più le ragioni che sono dietro questo loro modo di fare musica, che io definisco “terapeutico” mentre, un po’ ridendo un po’ no, dico a loro che quando li ascolto sto bene, magari soffro per cazzi miei ma sto bene. Dico loro che per venire qui oggi ho dovuto spostare il mio appuntamento con lo psicologo. Ridiamo e ci diciamo che in effetti è come se non lo avessi spostato: quello che stiamo facendo insieme, in questa stanza a parlare di musica, è terapia.

Maggio, fotografia di Alecio Ferrari
Tanca e Maggio, fotografia di Alecio Ferrari

E maggio mi parla della sua esperienza, che è un po’ quella di tutti e guarda caso anche la mia: “in verità è partito tutto come terapia mia, la mia stessa vita era messa lì per essere analizzata in una maniera un pochino più pratica. A un certo punto così non vivi più pensando che quel pensiero negativo sia la tua vita, ma un pensiero che hai nella tua vita in quel determinato momento”. Torna indietro nel tempo, a momenti che suonano familiari e vicini: la terapia fatta a Roma che gli ha permesso di trovare il coraggio di trasferirsi, i primi tempi a Milano a ripetersi “vabbè è tutto ok, ma in verità non era tutto ok”.

La terapia diventa così il modo per avvicinarsi a se stesso nella maniera più sincera e oggettiva possibile, talmente oggettiva che anche le altre persone possono riconoscersi nelle sue parole. E da qui scatta quell’elemento che io ho trovato terapeutico della loro musica, musica che in primo luogo è “terapia per me”, dice Maggio, “perché vedo che mi posso ritrovare negli altri e poi gli altri si ritrovano in me. C’è un’unione che non è scontata. Non vorrei che la gente si divertisse e basta, infatti noi non abbiamo l’obiettivo che sia così. Finché io mi sento così, sarà così”.

"Vedo che mi posso ritrovare negli altri e poi gli altri si ritrovano in me. C’è un’unione che non è scontata. Non vorrei che la gente si divertisse e basta." - Maggio

Mi ritrovo davanti a due ragazzi della mia età con le pare dei ragazzi della mia età, che hanno trovato qualcosa da dire e il modo in cui farlo a partire dalle cose che hanno dentro, analizzandole per poi restituirle al mondo con la consapevolezza ripetuta del “è tutto ok”. E questo disco è proprio il prodotto dell’incontro di “due falliti”, come mi dice Tanca mentre ride, “che vogliono semplicemente esprimere questa cosa cercando di far capire a chi ascolta che va tutto bene”.

Se maggio lo fa con le parole, Tanca lo fa con la sua musica, una musica che ha dovuto alleggerire tantissimo, cercando di “capire come non diventare pacchiano se uso sonorità del genere mischiandole alla trap o all’hip-hop”. Tanca infatti prima di trasferirsi a Milano suonava in una band post-hardcore: “chitarra, suonavo e urlavo, quindi quando ci siamo sciolti sono arrivato qua e ho pensato: mò che faccio? Tra l’altro quando ho conosciuto lui, all’inizio non gli facevo i beat, gli mixavo solo la voce”.

Maggio, fotografia di Alecio Ferrari
Maggio, fotografia di Alecio Ferrari

Qui ridendo Maggio mi dice che addirittura lo pagava perché si sentiva in colpa, e poi: “se parlassi su altri beat, non so se sarei così”, e anche “quando faccio un pezzo io, quasi indirettamente parlo anche di lui, parliamo per entrambi, suoniamo per entrambi”. E questo è il punto d’incontro tra parole e musica, tra maggio e Tanca, tra Roberto e Stefano.

“Quello che facevamo era parlare della musica che ci piaceva” dice Tanca. “In camera cantavo un botto i Do Nascimiento” dice maggio, e poi i Raein, i Riviera. In “Raffreddore” ha messo una citazione proprio da “Cosa rimane”, dei Riviera: Che quello che hai fatto per me / ancora non sai quanto vale. E poi ancora i Fine Before You Came, i Gazebo Penguins tra gli italiani, di cui maggio apprezza soprattutto l’ironia dei testi, perché “per quanto possano essere malinconici, a me lasciano sempre un bel sorriso. Io non riesco a fare finali tristi”.

I nostri fallimenti è un altro dei tanti momenti della vita di passaggio, in cui è ok che stai male ma non è che hai tanto voglia di stare male. E allora scrivi un pezzo, e poi si ricomincia da capo.

I Do Nascimiento—una band di ragazzi liguri che ha vissuto solo d'estate, per un po', e ha una discografia che dura circa 20 minuti—invece Tanca non li conosceva. Glieli ha fatti scoprire maggio quando si sono incontrati a Milano, e la sua reazione è stata sobria e misurata: “ho detto ok, io per un mese ascolterò solo questo disco”. E così è stato. In “Orientarsi con le stelle”, la prima traccia del loro primo EP, Tanca campiona “Fiato” e maggio ci rappa sopra. Ma l’influenza dei Do Nascimiento a me non sembra aver esaurito la sua spinta. Quel ma se mi trovo qua adesso / io non lo devo a te // ma se rinuncio a tutto questo / io non lo devo a te in “Fiato” mi ha ricordato tantissimo “I nostri fallimenti”, perché sembra essere un po’ l’equivalente di Sbaglieremo ma non sbaglieremo. Maggio è d’accordo con me e ride, trova che ci sia lo stesso concetto anche in “Latte versato”, ma giura di non averlo fatto apposta. Poi ci sono stati gli American Football e i Modern Baseball, per maggio, non tanto per come suonano, mi dice, ma per i testi, che se li è mangiati.

Questo tema, nella nostra chiacchierata, sembra essere ricorrente: fare le cose di getto perché ci viene così, e solo dopo attribuirgli un significato, nascosto o più esplicito. Come può esserlo quell’etichetta di emo rap che hanno accettato senza ribellarsi troppo, ma con anche la consapevolezza che è solo “per darti dei contorni, che in fondo non servono neanche”. I nostri fallimenti è così semplicemente quello che è: un altro dei tanti momenti della vita di passaggio, in cui è ok che stai male ma non è che hai tanto voglia di stare male. E allora scrivi un pezzo, e poi si ricomincia da capo.

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Asp126 e Ugo Borghetti sono i più veri di tutti

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Scusatemi una lunga citazione all'inizio, ma:

Amo Roma, la strada e in tutte le sue forme. Non mi fido di chi dorme, me fido solo dei fratelli con cui bevo e magno. E da morto non dite che ero un santo, ma un bastardo che stava sempre 'mbriaco. Bevo birre in un angolo da solo come un appestato, bevo tanto e fumo per reprimere tutta 'st'angoscia che non mi fa dormire. Sogno il giorno che ti rivedrò aspettarmi su una panchina in piazza.

Ugo Borghetti scrive così, con il male dentro. Nel suo corpo ci sono pezzi di vetro, infilati tra i muscoli a farli sanguinare, ficcati nella gola a raspargli la voce. Ci sono finiti negli anni di quelli che chiama "danni"—proprio così, "facevo i danni". La vita di strada come scelta, TSO, comunità, ansia nera, e poi gli amici. La gang dell'amore, che gli ha insegnato che cos'è l'amicizia.

Tra questi amici Asperino, Asp, è il più tenero. O almeno così mi sembra, parlandogli e ascoltando le parole che mette sulla traccia. È l'unico di loro laureato ("Pretendo che sia messo agli atti che sono il dottor Asperino!"), fa il cuoco nel ristorante della sua ragazza, scrive barre col sorriso anche quando si sente il cuore pesante. Perdonatemi quest'altra citazione.

E poi 'sta mattina, ma che bomba di giornata Il sole mi bacia le occhiaie. Ed esse triste è curiosamente bello. Così mi pare, ma non so il perché.

Ma non so il perché. Che è un po' la risposta che Asperino dà quando gli faccio delle domande—come gli è venuta quella barra lì? Come vive quella cosa là? Boh, la vive e basta. Non è che si fa tante pippe mentali. Al contrario di Ugo, che invece le paranoie le prende per mano e le porta con sé ogni singolo giorno che si alza dal letto.

E quindi il fatto che abbiano fatto un disco insieme, Senza Ghiaccio, è proprio bello. Perché sono persone quasi opposte e quindi è bello sentirle rappare insieme, sì, ma anche perché sono i due artisti più off della Love Gang. Quelli più naïf e difficili, quelli più divertenti e disturbanti. Quelli meno, perdonatemi il termine ma dopo ne parliamo, vendibili.

asp126 ugo borghetti
Fotografia di Beatrice Chima

"Sono nato a Roma in una situazione familiare tranquillissima", mi dice Ugo. Poi si corregge: "Cioè, tranquillissima... magari nel tempo lo racconterò con la musica." Usa la classica immagine del piatto caldo di pasta in tavola per spiegarmi che cosa mi vuole dire. "Quello che ti porta avanti nella vita sono le scelte", continua, "uno può avere pure il padre plurimiliardiario, ma se scegli de campà de impicci, non chiedi mai un euro a tu madre e ti fai i cazzi tuoi, la famiglia o i soldi non cambiano niente."

Ha capito, Ugo, che sto cercando di capire da dove viene tutto il marcio che canta, la sfiducia nella gente, in sé stesso e nel mondo che trapela dal suo rap. Che poi, "rap": lui è abbastanza dubbioso sul termine. "Io ho sempre scritto appunti, però non ho mai avuto l'idea de fà rap. C'era un amico mio de San Giovanni, er Paure1, che ha fatto pure delle tracce con Gianni Bismark... quando ero regazzino lo pijavo pe 'r culo perché rappava. Io mi sentivo roba totalmente differente: er Suarez, Lino Nacapito, Chicoria, Muggetto... roba che non capisci se non hai un background di strada."

Ugo, insomma, adorava le seconde linee del rap romano, almeno per come è percepito al di fuori di Roma. Quelle brutte, sporche, per pochi, ma proprio per questo vere. "La prima volta che ho scritto una barra è stata con Franchino", continua. "Stavamo alle scale sotto casa di Asperino, ancora me lo ricordo. Lui è salito a casa per pijà il computer." La barra in questione? Sta qua sotto.

"Nei miei sogni amici che porto a spalla dentro 'na bara / Un'altra guardia come Raciti, sogno mortale / In giro per Trastevere co 'na cicciona spaziale".

Già dalle prime parole, è puro Ugo Borghetti. "Franchino ci ha volato tantissimo,", continua, "e da là me sono reccato 'Periodo d'oro' a casa mia... e ho detto boh, provamoce. Magari continuo a scrivere e fà i dischi e tra sei mesi me metto a pulì er culo alle vecchie, a pulire i cessi." È proprio come canta in "SAD!" con Joe Scacchi: "L'ennesimo hotel, sto girando l'Italia / Ma non aumenta il mio conto in banca / Indossare tutti i giorni una maschera." Non si sente un rapper, Ugo: si sente un ragazzo che è finito a fare il rapper nonostante i suoi problemi.

Gli chiedo dei soldi, quelli futuri che evoca ad Asperino in "Gin Tonic: "io c'ho ventisett'anni. Comunque devi pensà a qualcosa che te fa guadagnà, e col modo mio de scrittura... a meno che me dice una botta de culo questo qua non potrà mai essere il mio lavoro principale", mi dice. La sente, la sua età, Ugo, e si fa delle domande. Mi racconta che gli era passata la voglia di fare tutto, da quando si era reso conto di non avere comunque un soldo in tasca e di essersi rimesso a fare i danni che aveva smesso di fare.

Ugo ringrazia Asperino, Franchino, suo fratello, Bomba Dischi, il loro amico Degaz aka Emphashishi. "Asperino è un santo, me lo devo tatuà al centro del petto. Devo ringrazià il cielo e tutti se è uscito 'sto disco."

asp126 ugo borghetti senza ghiaccio
La copertina di Senza Ghiaccio di Asp126 e Ugo Borghetti, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

"A scuola andavo abbastanza bene, finché so andato alle elementari e alle medio ero uno forte, bravo e intelligente. Alle superiori però ho inizato a fammi le bombe... ti inizia a piacere quella roba un po' più malandrina", mi spiega Asp quando gli chiedo di raccontarmi da dove viene. "I figli di papà, i precisi, quelli inquadrati, non stanno simpatici a nessuno. Quindi abbiamo provato un po' tutti a fare i malandrini, mica solo io."

Per lui la musica, più che una passione, è stata una costante all'interno delle sue amicizie. Mi spiega che Ketama, che conosce fin da quando aveva 7 anni e andava a catechismo insieme a lui, è sempre stato il suo "esperto di musica", quello che gli passava i gruppi da sentire—"Andando a strigne, la prima cosa che ho sentito e ho sentito mia è stata il TruceKlan", spiega. E quindi quando si è messo a registrare pezzi con il resto della banda.

"I figli di papà, i precisi, quelli inquadrati, non stanno simpatici a nessuno. Quindi abbiamo provato un po' tutti a fare i malandrini, mica solo io." - Asp126

"Quando ci siamo messi a fare rap sul serio, eravamo un po' accoppiati—Ketama col Solero e io con Franco", mi racconta Asp, il cui nome compare come featuring già in Dieci Pezzi, la prima vera uscita discografica della 126. Ma la sua poetica comincia a venir fuori da "Tarallucci & Vino", tre minuti e mezzo di pura romanità trasteverina in salsa enogastronomica insieme proprio a Franco e Ugo Borghetti. "Vino a brocche, pecorino a tocchi, semolino gnocchi / E se morimo per i panzerotti", rappava Asp, ripreso nel ristorante in cui oggi lavora. Quel pezzo stava in Asso di Guasconi, un progetto mai finito di cui restano ad oggi sei pezzi su YouTube.

Ugo, gli amici, lo chiamano Bebbo. "Di fama lo conosco da quando c'ho 14 anni, all'uscita de scola mia lui era uno di cui se parlava. Era uno che faceva i danni", mi dice Asp quando gli chiedo come ha conosciuto il suo compagno di disco, ultimo entrato nella 126 in ordine di tempo. Mi spiega di una epica sagra del vino a Marino dove hanno legato per la prima volta. "A un certo punto è diventata tipo l'Oktoberfest senza regole, anche se ora l'hanno un po' ripulita. Da un punto di vista etico è pure mejo, succedeva de tutto... Una volta un tipo stava a piscià sotto a una balconata grossa, gli cascò il telefono e la gente da sopra gli tirava le bottiglie. Poi alla fine scialla, avevamo riso tutti, ma era potenzialmente pericolosa. Per me era poesia, mi piaceva andà là a vedè ste cose."

asp126 ugo borghetti
Fotografia di Beatrice Chima

Che poi, la carriera nel rap di Asp finora è stata un po' così—un lasciarsi trascinare dal flusso della vita seguendo il suo ritmo. Esistere in strada, parlando con le persone, stringere legami. Il punto è questo, non il successo: "A me dei soldi non frega un cazzo, ma non ne faccio un fatto morale, non è che dico che sto mejo io de quell'altri. Forse sono solo più cojone", mi spiega quando gli chiedo dei soldi futuri di cui parla Ugo in 'Gin Tonic'. Mi piace molto di più essere apprezzato, sentirmi dire 'bravo'. Poi mi mantengo da solo da un po', a prescindere dalla musica."

Ugo interviene: "Io pure all'inizio c'avevo 'sta cosa, all'inizio dicevamo sticazzi dei soldi. Poi mi è presa un po' la fobia recentemente. Ma perché magari vedi gente che non vale veramente 'na lira, a livello musicale o de testi. Però loro riescono a campà col rap. E allora io dico, perché io no?" È lo stesso concetto che sta in una sua barra, “'Na vita di impicci, ma in tasca niente / Du' interviste e ve siete scordati tutti quanti da ndo' venite”?

"È esattamente quello", risponde lui. "Mi rendo conto che è magari un problema mio, preferimo più esse coerenti che magari vende er culo pe fà 'na traccia. Ma penso che con la coerenza prima o poi ci magnerò pur'io. Personalmente vorrei comincià a farli i sordi, mi sono un po' rotto il cazzo della gente che dice bravo ma poi quando c'è da comprare dieci euro n'sii comprano, capito?" Asp interviene, col sorriso: "I soldi ce li dovete dare, però non perché li vogliamo, capito?"

"Preferimo più esse coerenti che magari vende er culo pe fà 'na traccia. Ma penso che con la coerenza prima o poi ci magnerò pur'io" - Ugo Borghetti

"Palazzi" è l'unico pezzo solista di Asp all'interno di Senza Ghiaccio ed è notevole in quanto è la prima volta che sento un ragazzo italiano scrivere barre sulla crisi degli affitti e la gentrificazione. "40 MQ / 900 d'affitto", fa il ritornello; "Ce vonno chiusi in casa / E invece noi sempre in piazza / Ce vonno rinchiude' in palazzi / Dentro quartieri senza le piazze", continua. È un pezzo che ribalta la classica narrazione dei palazzoni e delle periferie come luogo d'origine del rap, base di partenza per un percorso di rivalsa: "Tirano su un altro mostro de cemento / Pe' mettece la gente dentro", canta Asp.

"Uno che fa un lavoro qualsiasi perché non deve poter vivere nel centro della città dov'è nato, nel quartiere o nella via dove sono nati i suoi genitori?", mi racconta Asp, che paga effettivamente 900 euro per un appartamento di 40 mq a Trastevere, il quartiere dov'è nato. "La mia proprietaria di casa è una pazza, io sono l'unico che ce vive. Gli altri sono tutti americani che pagano 100 euro a notte, hai capito? Nella Roma dei sampietrini ci può dormire solo chi paga 100 euro a notte? Che vor dì, che quindi i poveri devono stà tutti quanti in dei posti in culo al Signore? Senza i mezzi pubblici?"

asp126 ugo borghetti
Fotografia di Beatrice Chima

La Roma di Asperino è quindi ancora romantica, ma anche un po' triste e intrisa di nostalgia. Si sente tanto in "2009", un amarcord tutto cannette e rap dalle casse del computer: "Andavamo alle serate, tornavamo a casa a piedi / Mi ricordo che l’asfalto non sembrava così grigio". Ugo gli fa da contraltare nero: dieci anni fa, lui stava male. "La terapia non basta / Ma Roma era sempre la stessa / Tombini pieni de merda / Travestiti e puttane a Caracalla". E ancora, "Davamo le botte manco sapevamo qual era la sostanza / Poi qualcosa cambia / I primi attacchi di panico e crisi d’astinenza."

Chiedo a Ugo da dove venga tutto questo livore, e lui si apre: "Tutti nella vita viviamo la stessa merda. Asperino in quel periodo viveva la sua, io vivevo la mia. Il 2009 è stato il primo anno che ho vissuto in comunità. TSO e tutto. Ci tengo a dire che sono convinto che sia solo un modo per rubà i soldi." Ugo, mi dice, aveva problemi con le rivotril, una benzodiazepina, e di essere entrato in comunità con le migliori intenzioni: "non facevano altro che ingozzarmi della stessa medicina. Dopo 9 mesi avevo solo imparato il dosaggio, i nomi dei farmaci."

Ugo continua: "Te mettono là dentro in un reparto de 11 metri, quello che te dicono è 'Ok, disegna i puntini' come se stai alla materna. Te trattano come 'no scarto della società. Io sono entrato lì dentro sapendolo, che ero uno scarto della società. Uno deve cambià de testa. I farmaci manco t'aiutano, sono soltanto un sostitutivo." Viene anche difficile per uno come me, che di lavoro racconta le vite degli altri, a continuare il discorso—mi viene solo da citare altre parole di Ugo, a sottolineare il valore di tutto ciò che fa: "Vorrei avere la spocchia de 'sti rapper e scrive' testi der cazzo / Dove dico che 'sta merda spacca".

"Te mettono là dentro in un reparto de 11 metri, quello che te dicono è 'Ok, disegna i puntini' come se stai alla materna. Te trattano come 'no scarto della società. Io sono entrato lì dentro sapendolo, che ero uno scarto della società" - Ugo Borghetti

Il pezzo che incarna meglio Senza Ghiaccio, credo, è quello che lo chiude. Si chiama "Campare di Campari": Asp tira in mezzo subito il Vichingo, storico abitante di Trastevere, grande bevitore di Campari, incarnazione dell'anima del quartiere, morto nel 2018. Vorrebbe fare come lui, dice, "E contare sui passanti / E campa' come i cristiani". Che cosa vuol dire? "L'insegnamento condiviso che abbiamo avuto dallo stare così tanto tempo per strada, a conoscere gente, a parlare con gli assurdi, con quelli che ti insegnano a evitare e invece tu ti ci butti, è la bellezza del vivere assieme", mi spiega lui. "Il vichingo campava dell'affetto della gente che lo conosceva."

E così, senza che io lo imbocchi, Asp mi rivela un significato del nome della crew di cui fa parte: Love Gang è affetto, prima di tutto. "Mò nella musica, e non solo nel rap, passa sempre di più un messaggio assurdo, cioè che vince chi c'ha i sordi, la tipa con le zinne rifatte. Ma magari non perché è figa e ci vuole stare davvero, perché se la porta appresso", spiega. "Per averci tutti 'sti sordi e 'ste cose gli affetti li devi mettere in secondo piano." La vera sfida è continuare a tenere l'affetto al primo posto, non ottenere certificazioni.

asp126 ugo borghetti
Fotografia di M. Gaia Marotta

"Se uno c'ha una fanbase di 400.000 persone grazie al cazzo, il problema sarebbe se il disco d'oro non lo fai", interviene Ugo. "Pure 'sta simbologia—ma che cazzo me ne frega, devo fare il disco d'oro facendo musica di plastica? Se faccio disco d'oro è perché sto facendo quello che vuole la gente, quello che piace a tutti. A me non me interessa, perché se piaccio a tutti divento un meme, com'è successo co 'Ansia'. Preferisco piacere a dieci persone, e che ognuna mi dia cinque euro e mi dica 'bravo'. Non voglio gente che mi segue perché sono un personaggio."

E ancora: "Tutta 'sta gente che ti tagga co "MORTI DI FAME CON IN TASCA LE LAME", o "A KETÀ STO A RECCÀ"... io non ci trovo nulla di divertente fratè. Io quando scrivo "Metà de gli amici so tossici e l'altri so morti" e la gente lo fa come un meme pe ride, a me rode il culo. Io penso siano più prese pe 'r culo. Sai magari quanto ci ho pensato io prima di scrivere una cosa?" Asp è d'accordo: "Se ti piacciono le cose così vere, crude, traumatiche e traumatizzanti che ti dice Ugo Borghetti sei uno che c'ha il fuoco dentro, così come noi."

"Io con loro ho trovato una fratellanza e un senso di amicizia che non avevo mai vissuto", conclude Ugo, dopo un'ora e passa che stiamo parlando. "De stacce sempre, in ogni caso. Tra di noi è sana competizione, quando vedo i miei amici che spaccano il palco io mi emoziono, so sincero. Io non so se ce la farei a cantare 'Ieri l'altro' senza piagnere. Tutto il tour che ho fatto con Franchino, le prime 7 o 8 date ho pianto tutte le volte."

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In questo decennio violento e razzista la black music ci ha insegnato a lottare

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Per tutto il decennio passato, l'America è stata divisa in due. Con Barack Obama è arrivata l'idea di un'utopia "post-razziale", utopia che abbiamo visto crollare nel 2015 quando Donald Trump ha annunciato la candidatura a presidente. To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, pubblicato tre mesi prima della discesa in campo di Trump, era un lamento per la posizione ambigua della nazione a quella divisione.

Usando il linguaggio del rap, del jazz e del funk—generi sviluppati da musicisti neri—Butterfly racconta la storia di un valore profondamente americano: la libertà. Per oltre un'ora, Lamar evidenzia i parallelismi tra la tratta degli schiavi e l'industria dell'intrattenimento, in cui, ironicamente, la cultura nera è ancora vista come moneta di scambio. La scrittura, brutalmente sincera e attuale, fotografa problemi come il razzismo istituzionalizzato con canzoni come "Alright", adottata come inno ufficioso del movimento Black Lives Matter. Nel corso dell'album, una frase viene ripetuta sei volte: "Mi ricordo che eri combattuto, avevi perso la tua influenza / A volte ho fatto lo stesso". La ricerca di Lamar, tuttavia, era legata a doppio filo alla responsabilità che deriva dall'essere un artista nero durante un periodo di malcontento sociale e politico. "How Much a Dollar Cost?" non era soltanto il titolo di una canzone, ma una sfida lanciata ad altri musicisti.

Usando il linguaggio del rap, del jazz e del funk—generi sviluppati da musicisti neri— Butterfly racconta la storia di un valore profondamente americano: la libertà.

In conseguenza all'impegno di To Pimp a Butterfly per offrire un valido commento culturale, Beyoncé, Solange, Kanye West, Frank Ocean e Rihanna hanno tutti pubblicato album provocatori e avanguardistici durante l'ascesa di Trump come candidato presidente, riportando in auge la tradizione della musica nera come musica di protesta. Per Kanye West e Frank Ocean creare controversie non era una novità, ma con questi album Beyoncé e Rihanna hanno deviato dalla strada di pop star apolitiche che avevano aperto in precedenza. Perché proprio adesso?

Le morti di Trayvon Martin e Michael Brown, entrambi adolescenti disarmati, avevano dato alla luce il movimento Black Lives Matter, che poneva il problema della protezione delle persone nere nella società americana. "Alright" parlava senza filtri proprio di questo. "Ni**a e noi odiamo la polizia / Ci vuole ammazzare per strada, sicuro", rappava Lamar. I nomi di Freddie Gray, dei nove fedeli della chiesa Mother Emanuel di Charleston, di Sandra Bland e altri venivano aggiunti agli hashtag in ricordo degli americani neri che erano stati uccisi solo perché il colore della loro pelle veniva percepito come una minaccia. Black Lives Matter fu la Persona dell'Anno per TIME nel 2015, pochi mesi dopo la morte di Brown. Ma nonostante la crescente influenza del movimento, le persone nere in America continuavano a morire.

beyonce lemonade
La copertina di LEMONADE di Beyoncé, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Mentre l'influenza dell'organizzazione cresceva, Obama si avvicinava alla fine del suo mandato, e i riflettori erano tutti puntati su di lui. Nel 2015, Obama ha difeso il movimento. "Penso che chiunque sia in grado di capire che tutte le vite importano", ha detto durante un panel sulla giustizia tenuto alla Casa Bianca. "Penso che con l'espressione 'Black Lives Matter' gli organizzatori non vogliano suggerire che le vite degli altri non importano". Eppure, gran parte dei candidati alla presidenza nel 2016 non la pensava come lui.

Il repubblicano Ben Carson pensava che ci fossero "colpe di tutte le parti", mentre Ted Cruz chiamava il movimento "inquietante" e "vergognoso". Democratici come Hillary Clinton evitavano accuratamente l'argomento, rendendo Bernie Sanders l'unico candidato a pronunciare esplicitamente la frase "Black lives matter". Ma Donald Trump non ha avuto peli sulla lingua quando si è trattato di esprimere la sua posizione. "Penso che siano un problema", Trump ha detto, intervistato da Bill O'Reilly. "Il fatto è che tutte le vite sono importanti". Il comportamento razzista di Trump è ben documentato e la prospettiva di vederlo alla guida della Casa Bianca a mettere in pratica queste idee era alquanto ansiogena.

Il comportamento razzista di Trump è ben documentato e la prospettiva di vederlo alla guida della Casa Bianca a mettere in pratica queste idee era alquanto ansiogena.

Prima di correre per la presidenza, Donald Trump era un imprenditore immobiliare di New York con un potere immenso. Nel 1973, il Dipartimento di Giustizia denunciò Donald e Fred Trump (suo padre) per "aver mentito sulla disponibilità di appartamenti per i neri", contravvenendo alla legge sul diritto alla casa del 1968. Vent'anni dopo, i pregiudizi di Trump non erano più nascosti. Comprò una pagina in quattro giornali newyorkesi dopo che Yusef Salaam, Kevin Richardson, Antron McCray, Raymond Santana e Korey Wise, oggi conosciuti come Exonerated Five, furono accusati di stupro e violenza contro una donna che faceva jogging a Central Park.

Nel suo annuncio, Trump chiedeva l'esecuzione dei cinque adolescenti—nonostante l'assenza di tracce di DNA che li collegassero al reato. "RIDATECI LA PENA DI MORTE. RIDATECI LA NOSTRA POLIZIA!" recitava la pagina di giornale. Col senno di poi, sembra preannunciare quel "Make America Great Again" che ha accompagnato la sua presidenza, rappresentando lo stesso bisogno di ritornare a un passato storico immaginario.

La campagna elettorale di Trump è stata spacciata per patriottismo e lui ha passato anni a tentare di distruggere ogni cosa che non fosse allineata alla sua definizione di America.

La campagna elettorale di Trump è stata spacciata per patriottismo e lui ha passato gli anni precedenti a tentare di distruggere ogni cosa che non fosse allineata alla sua definizione di America. Tre anni dopo l'insediamento di Barack Obama, Trump ha cominciato a mettere in discussione pubblicamente la sua cittadinanza. "Non puoi fare il presidente se non sei nato in questo paese", ha detto nel 2011. "Al momento, io ho dei dubbi". Il magnate dell'immobiliare diventato star dei reality sosteneva di aver fatto partire un'indagine per poter vedere il certificato di nascita del presidente e anche i suoi voti all'università.

Alla fine è saltato fuori che il certificato di nascita di Obama era vero e Anderson Cooper non è stato in grado di trovare alcuna prova del fatto che questa indagine di Trump fosse realmente avvenuta—e Trump non ha fornito alcuna prova a suo sostegno. Il suo attacco al Capo dello Stato, oltre al suo pregiudizio di lunga data verso la comunità nera, ha creato un senso di terrore percepito addirittura dalle maggiori star dell'hip-hop.

Beyoncé rannicchiata sul tettuccio di un'auto della polizia di New Orleans che affondava non era una semplice provocazione, ma puntava il dito contro la stessa violenza di stato denunciata da Black Lives Matter.

Nel 2016 Beyoncé festeggiava 20 anni di carriera, perfettamente concepita per conquistare le masse. Era sexy, a volte buffa e pericolosamente innamorata, ma mai esplicitamente politicizzata fino a "Formation". La cantante di Houston ha pubblicato uno sconvolgente video diretto da Melina Matsoukas che ritraeva alla perfezione gli effetti della violenza della polizia nelle comunità nere. Beyoncé rannicchiata sul tettuccio di un'auto della polizia di New Orleans che affondava non era una semplice provocazione, ma puntava il dito contro la stessa violenza di stato denunciata da Black Lives Matter mentre allo stesso tempo tributava un omaggio alle famiglie nere ancora sfollate a dieci anni dall'uragano Katrina.

Una delle scene centrali del video ha una fila di poliziotti in assetto antisommossa schierati davanti a un ragazzino nero che balla, illustrando la differenza tra la minaccia percepita e una vera minaccia. Cantando la canzone durante l'intervallo del Super Bowl il giorno dopo vestita in abiti che ricordavano il partito rivoluzionario delle Pantere Nere negli anni 60, i conservatori hanno detto che il suo messaggio era "anti-polizia". Beyoncé non era d'accordo. "Ma mettiamo in chiaro le cose: io sono contro la violenza della polizia e l'ingiustizia, si tratta di due cose diverse", ha detto in una intervista del 2016 per ELLE Magazine.

"Ma mettiamo in chiaro le cose: io sono contro la violenza della polizia e l'ingiustizia, si tratta di due cose diverse" - Beyoncé

"Formation" è stato solo il preludio per la musica di protesta di Beyoncé; l'uscita di Lemonade, il suo sesto album in studio, ha continuato a seguire le briciole sul sentiero del suo primo singolo. "Freedom", con Kendrick Lamar, è l'unica altra canzone che chiama in causa direttamente il tumulto in corso. "Farò una rivolta, una rivolta oltre i vostri confini / Chiamami a prova di proiettile", canta. Invece di riempire Lemonade di retorica politica come Butterfly, Beyoncé ha parlato di attivismo con parole tutte sue.

La parte di Lemonade che lo fa amare di più è che risulta il suo album più intimo, che squarcia il velo della sua maschera di perfezione. L'album è incentrato sull'infedeltà, cosa che ha fatto emergere dei sospetti sul suo matrimonio con JAY Z. Ma la sua rabbia era chiarissima. Veniva a galla in canzoni come "Hold Up" e traboccava nel duetto con Jack White di "Don't Play Yourself". Il disco è un'ode alla femminilità nera del Sud, e il più grande momento di trasparenza per la cantante. Magari non è stato una protesta così diretta come Butterfly, ma lei ha scelto di onorare l'essere nere e donne in un momento in cui il mondo non stava facendo lo stesso.

Mentre Beyoncé usava Lemonade per parlare delle grandi ingiustizie, A Seat at the Table di sua sorella Solange è un disco più intimo, che racconta le quotidiane microaggressioni subite dalla comunità nera—in particolare dalle donne nere. Era "esausta di come va il mondo", ma aveva abbastanza forza per cacciare le mani bianche dal toccare i capelli neri. L'album grondava ansia: in alcune canzoni, come "Cranes in the Sky", erano state scritte fino a otto anni prima della loro uscita. Solange le ha provate tutte: ha ballato, ha dormito, ha provato a trasferirsi in altri stati, ma non poteva liberarsi della sensazione di essere nera in America.

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La copertina di A Seat At The Table di Solange, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

"Ricordo di aver pensato a ["Cranes"] come metafora della mia transizione—questa idea di accumulare sempre di più, sempre sempre di più, era quello che stava succedendo nel nostro paese in quel momento, tutto un costruire senza voler guardare in faccia quello che stava succedendo davanti ai nostri occhi", aveva detto a Beyoncé in Interview Magazine. "E otto anni dopo, è davvero interessante che ora siamo di nuovo qui, a non vedere che cosa sta succedendo nel nostro paese, a non voler mettere in prospettiva tutte queste brutte cose che ci guardano dritte in faccia".

Uscito poche settimane prima dell'elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, A Seat at the Table suonava tanto disperato quanto Butterfly. Era l'album che trovava le parole per descrivere la perdita di speranza, l'idea di non sapere se avresti mai visto un'altra famiglia nera al potere. Solange ha usato l'album per placare questi pensieri di incertezza, dando alla comunità nera il potere di credere che le nostre storie avessero un valore e uno spazio loro, dipingendo ritratti di sua madre, suo padre e di Master P. Adottando il mantra della linea di streetwear anni Novanta "Fatto da noi, per noi", Solange non produceva un album per le masse. "Non sentirti male se non puoi cantare con me / Accontentati di avere tutto il mondo il mondo per te", canta, rivolgendosi all'uomo bianco. "Questi siamo noi / Questa roba è per noi / Certa roba non la puoi toccare".

La musica nera è sempre stata una forma di resistenza e continuerà a esserlo anche dopo la fine dell'amministrazione Trump. Ha resistito ai campi di cotone, all'epoca di Jim Crow e alla guerra in Vietnam.

Che il loro messaggio fosse voluto con la stessa forza delle sorelle Knowles o meno, gli artisti neri hanno rappresentato il caos del 2016. In The Life of Pablo Kanye West sperimentava con il gospel usando elementi della chiesa afroamericana, conosciuta come luogo sicuro per la comunità in periodi di tumulto politico, in canzoni come "Ultralight Beam" e "Father Stretch My Hands". In "Pt. 2" urla "Voglio solo sentirmi liberato", e lo volevamo anche noi, ma questo incontro (poi diventato amicizia) con Trump quello stesso dicembre ci ha fatto chiedere da cosa il rapper di Chicago volesse fuggire.

La liberazione era un filo che correva anche lungo ANTI di Rihanna, anch'esso in opposizione al suo personaggio pop estremamente curato degli anni precedenti. L'album allargava il ventaglio di quello che una donna nera nel pop poteva fare; per esempio, poteva fare un album in cui portava con orgoglio la sua lingua creola delle Bahamas come una medaglia in una canzone come "Work", o poteva coverizzare i viaggioni psichedelici dei Tame Impala.

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La copertina di ANTI di Rihanna, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Quella stessa flessibilità, esercitata da un artista come Frank Ocean fin dall'inizio della sua carriera, si vede in Blonde, uscito in agosto dello stesso anno. Anche nei testi di Ocean, anche se a tratti comici, si viene riportati alla pesantezza del mondo. "Versane uno per A$AP, R.I.P Pimp C, / R.I.P Trayvon, quel ni**a è uguale a me", canta in "Nikes". Gli album che sono stati la colonna sonora del 2016 erano ancora in grado di catturare gli elementi del dolore nero, anche se quei momenti stavano passando.

La musica nera è sempre stata una forma di resistenza e continuerà a esserlo anche dopo la fine dell'amministrazione Trump. Ha resistito ai campi di cotone, all'epoca di Jim Crow e alla guerra in Vietnam. Il successo commerciale raccolto da Marvin Gaye quando è passato dalla ultra-sexy "Let's Get it On" a "What's Going On", un disco socialmente impegnato, ha spianato la strada ad artisti come Beyoncé e Solange perché creassero opere che avessero un significato più profondo della loro posizione in classifica. "Quello che importava era il messaggio", aveva detto Gaye. "Per la prima volta, mi sono sentito di aver qualcosa da dire". Si è sempre detto che l'arte migliore viene dai maggiori tumulti, frase che sembra confermata da quello che abbiamo visto accadere nel 2016, ma è difficile non chiedersi anche: che cosa creerebbero gli artisti neri se venisse loro concesso di vivere?

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

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Abbiamo fatto serata con la Love Gang a Milano

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Due anni fa, un fine settimana, eravamo andati con un gruppo di ragazzi romani a fare serata nel loro quartiere, cioè Trastevere. Si chiamavano 126, come i gradini della scalinata su cui si trovavano sempre a fare le cose che i ragazzi fanno. Poi, a un certo punto, hanno cominciato a chiamarsi Love Gang. Prima ancora si facevano chiamare Guasconi. Li aveva scoperti il Chicoria, che guardacaso era il loro idolo quando, da piccoli, ascoltavano In The Panchine. Li passò al suo amico Sandro, che aveva un'etichetta chiamata Smuggler's Bazaar.

Da allora sono successe tante cose che sembra passata un'era geologica. Tre di loro sono stelle della nuova musica italiana! C'è stato Rehab di Ketama! Stanza Singola di Franco! Romanzo Rosa del Solero! Cuore Sangue Sentimento di Drone! Senza Ghiaccio di Ugo e Asp! Il Rock In Roma! Kety di Ketama! E quindi ritrovarci tutti assieme all'Apollo di Milano per la serata conclusiva dell'Havana Tour In Da Club è stato il momento per parlare un po' di questi dischi, e tutto quello che c'è stato in mezzo—la storia di un gruppo di amici che ha resistito al successo.

Da tutto questo uscirà un video sul nostro canale YouTube, un episodio di Noisey Meets con tutta la Love Gang—con un po' di Franco in meno perché è dovuto scappare a esibirsi con Venerus, il che è un ottimo motivo per assentarsi. Nel frattempo, però, potete vedere qua gli scatti della serata a cura di Federico Tribbioli. Siamo prima in un appartamento palesemente di proprietà della Chiesa, e poi ci incamminiamo verso l'Apollo per la serata. A wild Noyz Narcos appears.

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I DARRN non sanno che cosa stanno facendo, ma lo stanno facendo bene

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Che cosa fanno i DARRN? Bé, loro non lo sanno bene. All’inizio sono silenziosi, un po’ titubanti, e non sanno bene come rompere il ghiaccio, ancora più ragazzi che musicisti. Li incontro a Milano nel bar che ospita le dirette di Radio Raheem, dove di lì a un’ora hanno in programma il loro primo DJ set in radio. Sono un po’ spaesati, appena arrivati dalla stazione Centrale pieni di bagagli e strumentazione che gli servirà la sera, per aprire il concerto dell’amico e compagno di etichetta Venerus.

Se dovessi dire io quello che fanno, direi che fanno un’elettronica dai bassoni rotondi, di chi si potrebbe lanciare sulle orme di Flume come di Baths, ma che allo stesso tempo ha scelto la via un po’ più facilona. Perché su quell'elettronica che potrebbe avere molti spunti schiaffa dei testi ancora piuttosto acerbi e molto leggeri con una voce effettatissima e sempre un po’ mesta. Ma a loro che musica piace? Che cosa dicono di fare? “Sicuramente hip-hop, poi tutto quello che è post-hh, post-r'n'b, post-elettronica, tutto quel mood nostalgico, elettronico, soul… in realtà non sappiamo ancora dirlo manco noi di preciso dov’è che vogliamo puntare. Ci piace fare musica. Vedremo”.

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La copertina di Chimica dei DARRN, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Dario, Dennis e Cristian, i DARRN, si sono conosciuti tre anni fa. Dario, il cantante, ha fatto scuola di canto per un semestre e il suo insegnante lo ha "linkato" con Dennis quando ha capito che condividevano gli stessi gusti. E da allora è successo che è nata una band, e che ci sia un nuovo EP, Chimica, il seguito di Musica Da Camera, uscito a fine primavera: “Abbiamo cominciato a lavorarci a fine estate”, continua Dario, “ma non avevamo ancora deciso cosa volessimo fare." Insomma, il dubbio come costante.

Quest'estate Dario però aveva conosciuto Gemitaiz nel backstage dopo un suo concerto. Racconta: "Mentre bevevamo e ci raccontavamo cazzate tra romani ignoranti, mi fa oh fra', quand’è che famo un pezzetto insieme? E io ovviamente gli rispondo che lo famo quando cazzo te pare fratè, e due giorni dopo stava a casa nostra. Cioè, noi produciamo in… una camera. Camera sua”. “Camera mia”, prende la parola per la prima volta Dennis, i suoi dreadlock raccolti disordinatamente dietro la nuca, “12 metri quadri. E infatti grande Gemitaiz perché è venuto, super tranquillo, non gliene fregava niente di stare in un ambiente diverso, di non avere lo studio”. Quel pezzo ora esiste: si chiama "Random, ed è quasi funktronica. Per trenta secondi Gem alza il tiro, si fonde con quei bassoni gommosi e si contrappone al timbro più mite e sommesso di Dario.

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DARRN, foto di Roberto Graziano Moro

Però è anche vero che i DARRN stanno cominciando, e collaborare con dei ragazzi che si sono appena affacciati sulla scena vuol dire proprio questo, finire a scrivere e fare demo in una camera, e ritorniamo all’inizio. Dennis spiega così il loro inizio: "Io e Cristian ci siamo messi a studiare un po’ di più per lavorare a beat e basi, poi è arrivato Dario e sulle basi abbiamo iniziato a metterci cose sopra”. Quali debbano essere queste cose, non lo hanno ancora deciso neanche loro: per ora “Allen”, pezzo di apertura di Musica Da Camera, a detta degli stessi ragazzi parla poco di Allen Iverson, e più di un paio di scarpe, ma forse è “Ologramma”, il pezzo con il drumming secco più in evidenza, che dà qualche indicazione più precisa e scandisce chiaramente che "siamo irrazionail / se ci ascolti poi ti fai del male."

"Non avevamo ancora una direzione creativa all'inizio, abbiamo iniziato a svilupparla insieme", si inserisce Cristian dall'altro lato del tavolino. E da questa frase parte una considerazione molto più ampia, che abbraccia non solo l’intero progetto musicale, ma tutto il suo retroterra, perché i ragazzi non hanno come orizzonte (solamente) il mondo dell’hip-hop, ma c’è tanto altro, fin dalla propria line-up. Una band formata da due produttori e una voce non si incontra spesso, ancor meno in Italia (dove a caldo mi vengono in mente solo i Materianera), e infatti l’elettronica non è solo lo sfondo dei DARRN, ma ne è il vero cuore pulsante.

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DARRN con Venerus e Gemitaiz, foto di Roberto Graziano Moro

Alla musica si aggiunge anche una forte componente visual, data dalla collaborazione con il veneto Giacomo Carmagnola. Dario racconta: “L’abbiamo conosciuto nel 2017 perché eravamo andati a masterizzare un pezzo da Stabber, e lui che è un bel nerd ha visto che ce la cavavamo. Ci ha preso sotto la sua ala. Non abbiamo firmato niente, era un’amicizia dettata dalla musica, ci ha fatto un po’ da padrino musicale e ci ha fatto conoscere Giacomo. Lui ha ascoltato le poche tracce disponibili all’epoca e in amicizia ci ha dato delle grafiche, senza farci pagare nulla. Perché è uno bravo, e costerebbe parecchio."

Ed effettivamente il taglio dato dal ragazzo trevisano è molto interessante, si basa sulla glitch art, l’arte dell’errore digitale. Più nello specifico, Giacomo si è orientato soprattutto sul pixel sorting, l’effetto “cascata di pixel”, che ha usato per dare una conformazione visiva a tutto il materiale dei DARRN. "Non è il quarto DARRN,", specifica però Dario, "è un amico, e la nostra idea è quella di appoggiarci a grafici che ci piacciono, di dare qualche nostro piccolo input a degli artisti che ci piacciono e che loro poi possano creare qualcosa per noi”. Insomma, “siamo dei nerdini anche per le grafiche”.

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La copertina di Musica da Camera dei DARRN, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

“Giacomo sta in Veneto, per cui con lui abbiamo sempre dovuto collaborare a distanza”, spiega Cristian, “e dopo un po’ il fatto di non stare tutti nello stesso posto durante il processo creativo si sente. Per questo vorremmo affidarci ad amici nostri che stanno a Roma. Non è che vogliamo diventare un collettivo, però vogliamo lavorare tutti insieme nello stesso momento e nello stesso posto quando viene creata la musica”. Questo approccio non può non farmi pensare ai port-royal, produttori e post-rocker genovesi che in formazione avevano un regista, che si occupava di stendere gli storyboard e girare i video dei loro pezzi, creandone dei cortometraggi su cui ho lasciato più o meno tutte le lacrime della mia adolescenza. “Quello sarebbe una bordata assurda, sarebbe fighissimo avere qualcuno che gira mentre noi scriviamo la musica”, dice Dario.

"Più volte ci siamo ritrovati a dirci dai, facciamo un pezzo che suoni così, e non ci riuscivamo mai."

“Una volta che il pezzo è fatto uno si immagina quello che vuole, ma è durante la sua costruzione che succede quella cosa speciale”, dice Dario, ora più animato che mai. Segno che in quella camera i ragazzi davvero vivono qualche cosa, per cui mi viene naturale chiedere di più e scoprire come si sviluppano le loro canzoni. Una cosa su cui Asian Fake ha spinto molto è stato dire che ogni volta che i ragazzi cercavano di scrivere musica con un obiettivo particolare in mente finivano con il buttare via tutto e ricominciare da capo. “È vero, più volte ci siamo ritrovati a dirci dai, facciamo un pezzo che suoni così, e non ci riuscivamo mai! Aprivamo il progetto, facevamo quelle quattro battute su cui rimanevamo ore e ore senza riuscire ad andare da nessuna parte e buttavamo via tutto. Funzioniamo solo se non ci diamo dei paletti, ogni volta che lo facciamo ci blocchiamo!”, dice Dennis, anche lui molto preso.

Forse è per questo che l’approccio dei DARRN è così internazionale, a livello di basi, e quando lo dico i ragazzi a momenti si commuovono: “Speriamo, grazie mille, magari”. A livello testuale, però, la cifra è molto italiana. Non tanto perché il cantato è nella nostra lingua, ma per i riferimenti, l’approccio, il tono. Un contrasto interessante, ma anche una cosa voluta oppure una casualità? Dario, autore dei testi, ridacchia e risponde con la massima onestà: “Vorrei inventarmi delle storie, ma… Giochiamo molto sull’improvvisazione. Tipo, Dennis prende una chitarra, strimpella un giro di accordi e poi passa ad altro, e io lo fermo e gli chiedo di tornare indietro e di rifarlo e ci scrivo sopra”.

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DARRN, foto di Roberto Graziano Moro

A quanto pare però sono il primo ad aver detto che il cantato è molto italiano: “Spesso la gente mi dice sbiascichi zì, non si capisce un cazzo. Cerco di concentrarmi anche su questo, ma è piuttosto snervante, lo slang è una cosa che ci nasci, io so’ de Roma, manco ce fa caso uno, no?” Appunto. Poi di slang nelle sue canzoni Dario non ce ne mette a parte qualche fra’, ma è l’attitudine un po’ sensibilona e un po’ coatta che conta.

Ma cosa ci fa una chitarra nello studio di una formazione electro e hip-hop? Risponde Dennis: “La usiamo sempre, anche dal vivo. L’intenzione però non è quella di arrangiare i pezzi dal vivo, cioè, se per due minuti nel brano la chitarra non c’è, io sul palco per due minuti...” Ti guardi le palle. “Esatto”. Interviene Dario: “Insomma, c’ha due pedaliere grosse come ‘na casa, una pure per gestire gli effetti sulla mia voce. Quindi in realtà fa tanto, anche quando pare che non fa niente”. Dopo averlo sentito nominare sono curioso di capire chi sia: il pubblico dei DARRN? “Ci rivolgiamo a gente che vuole… aprirsi”, dice Dario quasi timidamente.

"Ci rivolgiamo a gente che vuole… aprirsi. A noi piace la vulnerabilità. Non siamo dei fantocci cui piace farsi vedere super fighi, siamo tre ragazzi tranquilli."

“A noi piace la vulnerabilità. Non siamo dei fantocci cui piace farsi vedere super fighi, siamo tre ragazzi tranquilli. Una cosa che secondo me si sta perdendo, musicalmente, è la voglia di essere se stessi e in culo a quello che pensa la gente. Ci piace fare musica nostalgica. Spero non troppo, perché la gente ogni tanto me lo dice ah, ‘sta roba rompe le palle, è moscia. Ragazzi, io non sono happy. Non siamo happy”. Sfondate una porta aperta, sono un metallaro, di roba happy dalle mie parti ne gira poca (e a questo commento se la ridono di gusto tutti e tre). Forse è per questo che ho apprezzato “Abra”, collaborazione con Venerus molto in linea con la proposta dal profumo retrò e crepuscolare su cui fa perno la sua poetica. Lo stesso Venerus ha detto di aver composto la sua strofa nell’arco di una serata in compagnia di una bottiglia di vino.

Però le persone che li ascoltano danno un riscontro importante: “Sono poche, però le persone che ci scrivono ci dicono cose diversissime, ci raccontano i viaggi che si sono fatti, addirittura un ragazzo ci ha detto che si è fatto un trip con l’acqua ascoltando 'F2', che ha un synth acquosissimo. E questo ragazzo si è sognato di stare dentro un acquario e di essere osservato dall’esterno”. Cristian continua: “Ci piacerebbe che ciascuna persona che ci ascolta si ritrovasse in uno dei nostri pezzi”.

DARRN, foto di Roberto Graziano Moro
DARRN, foto di Roberto Graziano Moro

È quasi ora della diretta in radio, per cui faccio un’ultima domanda: carichi per la serata che li aspetta? “Sì, tantissimo”, Dario dimentica i trip con l’acqua e torna subito serio. “Un sold out a Milano, e poi sappiamo che chi va a vedere Venerus è gente che la musica vuole ascoltarla, e noi vogliamo provare a parlare a queste persone, non con le persone che vogliono solo fare… la cacca”, e scoppiano tutti e tre a ridere di nuovo. Dario si era incartato in un discorso da cui non sapeva più come uscire, ma non è una banalità. Ci sono un sacco di modalità per fruire della musica: può essere uno svago, un sottofondo, un elemento per fare festa, e l’ascolto consapevole e attento è solo uno dei mille modi in cui si può ascoltare musica. “Ecco, sì, vorremmo che il nostro fosse un pubblico di ascoltatori, persone che si concentrano sulla musica”, con o senza trip negli acquari, quelli sono secondari.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Abbiamo fatto ascoltare tha Supreme ai nostri genitori

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"tha Supreme, il rapper-cartoon scala le classifiche: È anche fenomeno web: primo su YouTube e Spotify Canta un mix di italiano, inglese e suoni onomatopeici"

Quello che avete appena letto è il titolo scelto dal Corriere Della Sera per il suo articolo su tha Supreme. Sarebbe facile farci due battutine, no? Perché noi lo sappiamo bene, noi, chi è! Siamo qua dall'inizio! Hai postato cringe bro! No, no, aspetta: Ok boomer! HAHAHAH!

No, ecco. È bello che tha Supreme sia arrivato un po' ovunque, dalla TV ai quotidiani nazionali—che quindi si sono messi a spiegare ai loro lettori che cos'è quello scarabocchio che i loro figli idolatrano, e perché ci sono delle sue statue in stazione a Milano e Roma, e perché usa tutti quei numeri nei titoli, e soprattutto che cacchio sta dicendo.

"Non scandisce le parole e le frasi criptiche hanno bisogno di essere interpretate", continua il Corriere, che cita poi "blun7 a swishland": "Come il verso «Swisho un blunt a swishland, bling blaow, come i Beatles», che avrebbe a che fare con un sigaro di cannabis, il bagliore dei gioielli e i Fab Four di Liverpool."

Come facciamo a sapere tutto questo? È che da VICE siamo abbonati al Corriere e ogni giorno ce ne arriva una copia in redazione, ma vi dobbiamo confessare che la nostra office manager sbuffa ogni volta che si rende conto che nessuno l'ha cacato di striscio, dato che ogni mattina alle 9:30 ci attacchiamo agli schermi dei nostri computer e chi ci sposta più, sicuro non della stupida carta stampata. L'unico modo che abbiamo di reagire a tha Supreme, a delle persone più anziane di noi che parlano di tha Supreme, è fare come si fa su internet: con i pezzi d'opinione e/o le battute.

Dato che il pezzo d'opinione l'avevamo già fatto, restavano quindi le battute. E quindi abbiamo coinvolto in un'indagine sociologica i nostri genitori, che appartengono alla fetta della popolazione a cui il Corriere si rivolge. Abbiamo voluto capire che cosa passa nella mente dei signori e delle signore di mezza età quando sentono questo ragazzo dire che a scuola fumava marijuana, quindi figlio di puttana, stai lontano dai miei guai.

PATRIZIA, 63 ANNI

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La signora Patrizia insieme al marito, che è il signor Giuseppe, che parla appena dopo. Foto della figlia, che è una delle autrici.

Noisey: Ciao Patrizia! Chi sei?
Patrizia: Imprenditrice turistica, mamma di tre figli e nonna di due nipoti. La mia passione è la cucina, specialmente i dolci, e mi piacciono i film thriller. Sono originaria della provincia di Benevento, ma vivo a Vada (Livorno) da circa quarant’anni.

Che musica ascolti di solito?
Ascolto tutta la musica, specialmente la radio in macchina—non amo ascoltare musica mentre faccio altre attività. Così su due piedi dico Battisti e Baglioni, ma non ho un vero artista preferito.

Avevi mai sentito parlare di tha Supreme prima d'ora?
No.

Bene, ti facciamo sentire "scuol4". Dicci che cosa ne pensi. Ti piace?
Piacere no, ma c’è un testo interessante e una melodia abbastanza orecchiabile. È una canzone da analizzare e capire, non la prendi per quello che è come una canzone neomelodica che parla d’amore, o commerciale. È una canzone “da contenuto”, secondo me.

Questa canzone è davvero molto famosa. Perché secondo te?
Perché è anticonformista nel conformismo. Oggi tutti i giovani fanno le stesse cose, mentre questo rapper non segue la tendenza e per questo piace. Questa canzone si rivolge a un pubblico di ragazzi che hanno tutti le stesse problematiche ed è inserito nello stesso contesto: a tutti la scuola va stretta, tutti si fanno di marijuana, si vestono tutti allo stesso modo, ma alla fine, presi singolarmente, vorrebbero essere tutti dei contestatori come il rapper. Lui dice quello che tutti i ragazzi pensano, ma che nessuno vuole dire. Tutti vogliono seguire la moda, l’ultimo telefonino, Instagram, perché siamo tutti vittime di questo conformismo, ma singolarmente i ragazzi sono contestatori. E la canzone piace perché ti puoi immedesimare un quello che dice il rapper, che si ribella a questo sistema, denuncia il non voler essere parte del coro.

Wow, grazie dell'analisi! Passiamo a "blun7 a swishland". Ti piace?
Sì, perché c’è molta musicalità. Nel rap di solito c’è molto “blablablabla”, invece qua c’è ritmo, c’è musica, c’è melodia.

“Swisho un blunt a Swishland, bling blaow, come i Beatles / Blessin' tic tac, le prendo dal mattino”. Che cosa significa secondo te?
"Le prende dal mattino” cosa? Ipotizzo che possano essere le idee.

Ti piace la sua voce? Molti la trovano fastidiosa.
Con questo autotune non si sente il suo vero timbro, quindi è alterata. Però per me non è fastidiosa.

"A tutti la scuola va stretta, tutti si fanno di marijuana, si vestono tutti allo stesso modo, ma alla fine, presi singolarmente, vorrebbero essere tutti dei contestatori."

GIUSEPPE, 71 ANNI

luciano
Il signor Giuseppe ascolta tha Supreme. Foto della figlia, che è una delle autrici.

Noisey: Ciao Giuseppe, raccontaci un po' di te.
Giuseppe: Sono Esposito Giuseppe, per tutti “Beppe." Sono nato il 28/02/48, origini beneventane, ma risiedo nella provincia di Livorno dal ‘52. Lavoravo nel settore della ristorazione turistica con una mia attività, ma adesso sono pensionato e vivo a pochi metri dal mare livornese. Ho l’hobby del pollice verde, soprattutto per gli alberi di limone.

Chi sono i tuoi artisti preferiti e come ascolti musica?
Pink Floyd, Lucio Battisti e i Queen. Ma sono un amante di tutta la musica, anche classica. La ascolto principalmente in radio.

Avevi mai sentito parlare di tha Supreme prima d'ora?
Di? Dazio? Cos’è, musica?

È il ragazzo che ha fatto questa canzone, "scuol4". Ti piace?
È fuori dai miei tempi. È una musica che chiamerei “globalizzata”, non Italiana, non esprime nulla della nostra tradizione musicale. Tutto questo “uehuehueh” senza senso, molto nasale, per me è no. È un misto tra una tarantella e una cantilena araba. Se la musica deve essere un’emozione, questa sembra più una ribellione della musica. Non mi dice nulla.

"È una musica che chiamerei “globalizzata”, non Italiana, non esprime nulla della nostra tradizione musicale."

E perché piace a così tante persone, secondo te?
Ma perché è il genere del momento, un “blablabla” di parole di contestazione senza amore. Questa canzone non mi rilassa, anzi, mi mette addosso dei pensieri. La droga, la scuola di oggi, il ragazzino all’ultimo banco... questo invece di aiutare i ragazzi, li deprime.

Tu che cosa ascoltavi quando andavi a scuola per sentirti ribelle?
Ai tempi miei, per me, non c’erano canzoni che creavano dentro di noi, nel nostro animo, moti di contestazione. Io la musica l’ascoltavo per stare bene. Per me era amore, libertà, non contestazione, ecco, perché non avevo la spinta alla ribellione.

Ora ti facciamo sentire "blun7 a swishland". Che cosa ne pensi?
Per i tempi che corrono, sì, mi è piaciuta. Ma se devo giudicare in base alla musica dei miei tempi no, perché non mi ci ritrovo. Mi sembra una musica “araba”. Mi ricorda, come si chiama quell’altro, Ghali. Adesso secondo me va molto di moda fare musica che ha richiami orientali, e questo ragazzo è molto influenzato da questo modo di fare.

"Per me non ha senso, è uno che al mattino si sveglia e dice cose a caso. Tanto adesso va di moda fare musica così e allora spara senza senso..."

“Swisho un blunt a Swishland, bling blaow, come i Beatles / Blessin' tic tac, le prendo dal mattino”. Che cosa significa secondo te?
Per me non ha senso, è uno che al mattino si sveglia e dice cose a caso. Tanto adesso va di moda fare musica così e allora spara senza senso...

Però cita i Beatles! Magari li ascolta, ha studiato, li conosce...
Mah, per me è solo un “bla bla bla”.

Perché secondo te tha Supreme piace così tanto ai giovani?
Per i ragazzi lui è come un paravento dietro il quale possono sentirsi sicuri. La sua musica è per loro una sorta di liberazione del loro stato d’animo, si immedesimano nei suoi testi. Poi anche perché la sua musica è trasgressiva e le sue verità sono tipiche della sua età e, quindi, del suo pubblico. Gli adulti dovrebbero capire però questi messaggi per capire meglio i giovani.

Definiresti "rap" quello che hai ascoltato?
Queste sono più musiche di contestazione, di mal di vivere! Per me questo è rap, ma è un rap che va bene per un certo tipo di persone, non per me. Non voglio sentire storie che parlano di droga, di ragazzi con problemi, eccetera... mi mette quasi tristezza. La musica, per me, deve essere allegria. Qua non c’è amore.

GABRIELLA, 75 ANNI

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La signora Gabriella mangia una pizza. Foto del figlio, che è uno degli autori.

Ciao Gabriella! Chi sei e che cosa ascolti?
Sono Gabriella e vengo da Milano. Più o meno, perché sono nata in provincia di Verbania, sul Lago Maggiore. La musica mi piace abbastanza tutta, ascolto quello che mi capita. Meno quella rap, eccetera, però dipende. Può piacermi anche quella. Se devo dirti un'artista, ti dico Gianna Nannini.

Come ascolti musica di solito?
In televisione, se c'è qualche programma o concerto. O se mi capita di sentire la radio. Qualche volta posso anche mettermela io, ma raramente. Spotify, streaming e YouTube non so neanche cosa sono.

Hai mai sentito parlare di tha Supreme prima di questo momento?
No. Chi è? Un cantante, un programma?

È il nome di un rapper, come se fosse "Fedez". Questa canzone si intitola "6itch" ed è insieme a un altro ragazzo che si chiama Nitro. La vuoi sentire con il testo davanti?
No, se è in italiano anche senza testo.

Però mi sa che si capisce poco... vediamo. Dura due minuti e mezzo.
(Sbuffa)

"Questo gergo così volgare, pesante... a me ormai dà fastidio. La prima ti fa ridere, la seconda la ascolti, adesso basta."

Bene! Questo disco sta avendo un successo senza precedenti ed è molto amato dai giovanissimi. Ti è piaciuta la canzone?
Mi piace la musica, che è un po' diversa dalle solite canzoni... che poi, "canzoni", boh, di questi rapper. Il fondo della musica è un po' diverso. Il ritmo delle parole è sempre uguale. Sempre uguale, noiosissimo ormai.

“Double cup, falla te o fammi un tè, fai un po' te, basta che scende l'ansia, mamma”. Che cosa sta dicendo secondo te?
[ride] Di fargli un tè? La double cup... è la doppia porzione? Non so poi io se loro hanno un doppio significato! Per me è un caffè doppio.

La canzone si intitola "bitch". Sai che cosa significa?
No, so solo che è una spiaggia.

No, non "beach". "Bitch", con la "i". Letteralmente vuol dire "cagna", per estensione vuol dire "puttana". Pensi che sia un termine ok da usare in un pezzo?
No, anche perché ormai tutti questi termini volgari, pesanti, sono diventati noiosi. Questo genere di canzoni ormai sta in piedi solo perché usa questo vocabolario, ai ragazzini piace perché per loro questa è la trasgressione. Questo gergo così volgare, pesante... a me ormai dà fastidio. La prima ti fa ridere, la seconda la ascolti, adesso basta.

Secondo te quello che hai sentito è "rap"?
Non lo so se è "rap", si chiama così. Sento che questo ritmo ormai è uguale per tutti.

Secondo te perché i ragazzini impazziscono per tha Supreme?
Ormai tutti ascoltano questo tipo di musica. È sempre uguale, li prende, non hanno in più da pensare. È solo un sottofondo. Il ritmo del cantante è sempre il solito, e probabilmente a loro piace perché hanno sempre questa tonalità nelle orecchie.

C'è molta gente che considera fastidiosa la sua voce, tu che cosa ne pensi?
Non ho un termine di paragone con gli altri, per cui non saprei. Io li metto un po' tutti allo stesso livello, forse perché non lo capisco e sono sempre stata prevenuta. Non mi dice più di tanto, non sento neanche se la sua voce è diversa da quella degli altri.

Ok, ora ti facciamo ascoltare "m8nstar". Ti piace?
Era noiosa. Ripeteva sempre le stesse cose, sempre lo stesso argomento, siamo sempre lì. La trasgressione, la volgarità.

Quando dice “Sono una moonstar, vengo dal cielo, sì, faccio kaboom, yah / Tu che fai puff, yah, gua' che il talento non si compra col Prime”, che cosa vuole dire secondo te?
Non lo so. Immagino si riferisca a qualche droga o qualcosa di eccitante.

No, questa non parla di droga!
Che strano.

LUCIANO, 70 ANNI

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Quel capellone del signor Luciano a Londra qualche anno fa, in uno scatto d'epoca gentilmente fornito dalla figlia.

Ciao Luciano! Grazie di essere qua. Chi sei?
Luciano: Ho 70 anni e sono di Parma. Mi sono laureato in Lingue, ho lavorato come broker per gran parte della mia vita, ma ho anche fatto l’insegnante di equitazione e quando ero ancora studente universitario il tuttofare, compreso il vocalist in un club di Londra. Oggi sono in pensione, sto molto tempo con i miei due nipoti e mi sono appassionato alla cucina e alla chitarra, che sto studiando da qualche anno.

Che cosa ti piace ascoltare di solito e come lo ascolti?
I cantautori italiani come De Andrè, Lucio Dalla, De Gregori, ma anche il rock. I Beatles, Patti Smith, Bruce Springsteen e i Queen. Gianna Nannini. Ascolto la radio e uso i CD.

Avevi mai sentito parlare di tha Supreme prima d'ora?
No, mai.

Bene, questa è "swin6o", insieme a Salmo. Cosa ne pensi?
Conosco Salmo! Non è nelle mie corde ma se lo passano in radio non cambio, a differenza di altri rapper. Questo pezzo aveva una bella melodia, allegra, divertente.

Prendi questa parte del testo: “Twen-twenty-four sono i miei flow / Uh, solo in questa song, oh, wo-oh, wow / Swing-swing-swing-swing-swing-swingo le parole”. Che cosa significa secondo te?
Mi riporta al futurismo di Marinetti.

"So che la Sprite è una bibita, ma che cosa c’entri non ne ho idea."

Bene! Passiamo a "7rapper ma1". Ti piace?
Mi ricorda uno di quei film degli anni Sessanta dove c’erano i fotogrammi he andavano velocissimi. Questa musica me la immagino di accompagnamento a quella frenesia.

Che cosa vuol dire secondo te "Fai un po' scuola con la moda trap, Maka' e Sprite"?
Non lo so. So che la Sprite è una bibita, ma che cosa c’entri non ne ho idea.

Grazie! Ti sembra che quello che hai ascoltato sia "rap"?
Non lo classificherei nella trap o nel rap, mi sembra che abbia delle sonorità diverse, complesse, “metallizzate” e che proprio perché diverse meritano di essere ascoltate.

Perché secondo te tha Supreme piace così tanto ai giovani?
Credo che la ragione per cui i giovani si appassionino ad alcuni artisti è sempre da un lato il sentirsi capiti e rappresentati, dall’altro amare quel tipo di sound che ti fa essere parte di una corrente. Come quando c’erano i rockabilly, oppure i mods e via così.

ROMANA, 66

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La signora Romana in uno scatto d'epoca, gentilmente fornito dalla figlia.

Ciao Romana! Presentati ai nostri lettori.
Romana:
Ho 66 anni e insegno inglese alle superiori. Laureata in Lingue, come mio marito. La mia grande passione da quasi sei anni a questa parte sono Zoe e Rocco, i miei nipoti. Amo anche viaggiare, anche se raramente in aereo perché mi terrorizza.

Come descriveresti i tuoi gusti musicali?
Mi piace il pop. Apprezzo Beyoncé e Lady Gaga. Grazie a mia figlia però ho ascoltato ogni genere possibile. Mi piacevano abbastanza alcune cose, tipo i Cure o quegli altri... gli Smashing Pumpkins. Altre zero, come il punk. Tra gli italiani di oggi mi piacciono Tiziano Ferro e Marco Mengoni.

Avevi mai sentito nominare tha Supreme prima di adesso?
No.

Ti facciamo ascoltare "sw1n6o", con Salmo. Sai che è stato lui a scoprire tha Supreme, quando aveva solo 16 anni? Che ne pensi?
Salmo lo conosco un po’ di più, anche se non saprei dirti il titolo di un suo pezzo. Questa canzone m’è piaciuta, m’ha fatto venire voglia di ballare, proprio carina. Se mio figlio a 16 venisse preso da Salmo sarei solo felice. Se la musica fosse quello che vuole fare nella vita, perché non dovrei?

Bene, questa invece è "7rapper ma1". Che ne pensi?
Mi è piaciuta meno ma comunque non è stato un brutto ascolto. Il significato è troppo ermetico per me, non so cosa voglia dire. Si tratta di gergo che capiscono i ragazzi—come è giusto, perché a loro si rivolge.

Molti trovano irritante la sua voce, tu che ne pensi?
No, non mi ha irritata, l’ho ascoltato volentieri.

tha Supreme fa rap, secondo te, o diresti che è qualcosa di diverso?
Forse per il tipo di testo sì, è rap, ma la musica è diversa, originale.

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Che musica usano gli italiani per rimorchiare su Tinder?

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Io sono uno di quei paleomillennial che vedono complotti dappertutto e, vi dirò, a me ‘sta cosa delle app per incontri sa tanto di controllo sociale. Non è solo paranoia, andatevi a vedere il report di fine anno di Tinder, sanno tutto di noi! Sanno che principalmente la voglia di scopare ce l’abbiamo mentre frequentiamo l’università. Sanno che per apparire profondi parliamo di cambiamento climatico. Sanno che per trasmettere un’aria di disimpegno proponiamo sempre una pizza e una birra per il primo appuntamento, cosa che ha anche il bonus di farci apparire body positive—ma i vostri colleghi vi vedono il giorno dopo in pausa pranzo con una carota e uno Jocca.

Le app hanno cambiato più o meno tutto. Il pensiero di uno sconosciuto o una sconosciuta che ti si avvicinano al bancone di un bar chiedendoti che cosa stai bevendo, sei sei solo/a o se ti sei fatto/a male quando sei caduto/a dal paradiso oggi più che farci ingrifare ci spaventa. Ma una cosa è rimasta sempre la stessa: non si rimorchia senza musica. Per questo i profili Tinder hanno la possibilità di inserire nella bio una canzone (che a me piace immaginare parta in autoplay come in un vecchio profilo MySpace) insieme alle tue foto e alla tua descrizione: niente funziona meglio della musica per allentare i jeans altrui.

Nel report 2019 di Tinder è inclusa anche la classifica degli artisti più citati nelle bio degli italiani e delle italiane. Al primo posto c’è Post Malone, ma compaiono anche artisti italiani come Gemitaiz e la crew di Machete. Che cosa possiamo scoprire dell’italiano allupato osservando la musica che sceglie come richiamo? Abbiamo provato a rispondere a questa domanda.

10. J Balvin

È bello vedere un artista reggaeton nelle prime dieci posizioni perché significa che su Tinder c’è una nutrita popolazione di persone che sanno scopare. È infatti un dato di fatto che chiunque abbia la passione dei ritmi caraibici trasformerà il tuo letto in Disney World. Se ti imbatti in un profilo che cita J Balvin, il mio consiglio è di ridurre al minimo le chiacchiere e assicurarsi di fare un giro su quei genitali.

Purtroppo è l’unico artista latino della classifica, ma del resto se Tinder fosse così pieno di gente che scopa da dio in questo momento io non starei scrivendo l’articolo e voi non stareste leggendo.

9. Queen

I Queen sono una cosa bellissima. Hanno tutto: la musica semplicemente bella, al di fuori di mode e stili; la contagiosa sfacciataggine; il senso dell’umorismo; l’apertura verso la diversità e la sperimentazione. Chi ama i Queen non può non rappresentare queste cose. Se è gay.

Se è etero, invece, ti farà sicuramente due palle così con la musica classica, i grandi artisti di una volta che loro sì che avevano qualcosa da dire, e i prodotti per la cura della barba: da evitare.

8. Gemitaiz

Di una cosa possiamo stare certi: se cita Gemitaiz nella sua bio, fuma le canne. Probabilmente è una persona easy, buona se cercate compagnia per giocare alla PlayStation col bong appoggiato di fianco al divano, poi dopo un po’ si sa che si finisce a scopare, ma così, in tranquillità, senza stare troppo a impegnarsi. Se si mette a dire cose “profonde”, skippate senza pietà.

7. MACHETE

Ascoltando il Machete Mixtape 4 il sesso è davvero l’ultima cosa che mi viene in mente. A meno non si tratti di un maschietto che ha perfezionato “la Massimo Pericolo”, la tecnica per levarsi il preservativo, direi che con questa colonna sonora swipo a sinistra di brutto.

6. Arctic Monkeys

Hey ciao, anche tu sei qui come esperimento sociale? No, no, certo, anch’io, non sto cercando nessuno, sto bene così, single, coi miei dischi… Anche tu collezioni dischi? Hai Whatever People Say I Am in vinile grigio trasparente con gli inserti neri?! Ci sei al concerto dei Canova sabato prossimo?

5. Drake

Drake non fa una canzone un minimo sexy o che perlomeno esprima sentimenti umani da “Hotline Bling”. Se usate Drake per rimorchiare siete androidi e volete rubarmi il DNA per sostituirmi. Non solo swipo a sinistra ma disinstallo del tutto la app e chiamo i servizi segreti.

4. Billie Eilish

Si sa che Billie Eilish può comparire solo nella bio di una ragazzina emo di 13 anni, ma lei non è su Tinder. Chi sono quindi tutte queste persone che usano Billie per comunicare? Ascoltate me: sono le loro mamme single in cerca di un’avventura. Swipissimo a destrissima.

Se invece è un uomo a citare Billie Eilish le opzioni sono due: o è un pervertito che vuole attirare le giovanissime in una trappola, o è un gran buongustaio perché Billie Eilish è effettivamente una degli artisti pop migliori degli ultimi anni.

3. Pink Floyd

OK BOO—aspetta un secondo. Di quali Pink Floyd stiamo parlando? Costruiamo una agevole tabella:

  • Pink Floyd con Syd Barrett (primo album): è una persona sensibile, con un animo naïf, propensa al consumo di sostanze psichedeliche e quindi che stai aspettando swipa a destra subito;
  • Pink Floyd di Dark Side of the Moon: ok, è un album meraviglioso, ma davvero non potevi trovare qualcosa di più specifico di semplicemente “uno degli album più belli della storia”?—dai, impegnati un po’. Swipe left.
  • Pink Floyd di The Wall: OK BOOMER

2. Travis Scott

Comunque adesso che siamo arrivati al secondo gradino del podio possiamo dire che la reputazione degli italiani come persone calde e sensuali è davvero in pericolo? Dopo J Balvin non c’è più niente di sexy in questa classifica. Travis Scott è bravo, ma l’unica cosa sexy della sua vita era Kylie Jenner, e ora non ha più nemmeno lei. Se voglio passare una serata con uno che salta sui tavoli, mi fa perdere le scarpe e ha il disturbo dell’attenzione, esco a cena con un labrador.

1. Post Malone

Una canzone di Post Malone nel mio profilo Tinder dice due cose: che sono vivo nel 2019 e che appartengo alla razza umana. Tentare di esprimere la propria personalità tramite Posty è come farlo attraverso un mobile IKEA, impossibile. Ti swipo a destra solo per aprire la chat e dirti di farti degli interessi veri e una vita vera prima di trasformarti in un rotolo di carta da parati.

Giacomo è fidanzato e non è su Tinder, ma puoi seguirlo su Instagram. Se sei uno degli artisti italiani citati in questo articolo e per caso finisci a leggerlo, sappi che si fa per scherzare.

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La scena gabber italiana è in crisi?

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L’hardcore in Italia è in declino, ma la colpa non è del pubblico. Almeno così la pensano molti dei protagonisti della scena musicale hardcore made in Italy, esplosa negli anni Novanta con i suoi epicentri nel nord Italia.

In particolare le zone di Brescia e Bergamo sono state per anni popolate dai gabber, i cultori dell’hardcore riconoscibili esteticamente per le tute acetate Adidas, le polo, le Air Max Classic ai piedi, i bomber e la rasatura totale o laterale. Dai Novanta fino ai primi Duemila, l’hardcore e i gabber non hanno conosciuto momenti morti. Ora invece sembra essere incominciata una discesa inesorabile.

Tanti addetti ai lavori sono d’accordo su una cosa: il motivo numero uno della crisi dell’hardcore da noi è l’avversione che le istituzioni stanno dimostrando contro questa realtà. “Nella zona di Brescia e Bergamo il pubblico ama ancora l’hardcore ma è spaventato e stufo delle perquisizioni. Sono cinque anni che veniamo martoriati. Ci sono sempre controlli nei locali", mi racconta Andy The Core, uno dei dj più seguiti della scena italiana.

"Nella zona di Brescia e Bergamo il pubblico ama ancora l’hardcore ma è spaventato e stufo delle perquisizioni."

Molti locali che facevano hardcore sono stati chiusi si sono visti la licenza revocata, dice Andy, e ormai in Italia si parla di meno di una dozzina di eventi all’anno: “Negli anni Novanta c’erano molte più serate, la gente il sabato sera andava a ballare, punto, e quindi c'erano più club. Noi, come pubblico, non aspettavamo altro che il weekend per andare ad ascoltare e a ballare la nostra hardcore, senza quasi nemmeno guardare chi suonava. Quelle poche cassette e cd che si compravano o copiavano venivano consumate”, afferma Samuele dei The Sickest Squad, duo di dj osannato sia in patria sia all’estero.

Il suo socio Jacopo annuisce con occhi nostalgici: “Sì, in passato una cassetta con la registrazione di dj set hardcore qualsiasi veniva trattata come un oggetto sacro”. Mi raccontano di come negli anni Novanta il locale era pieno anche solo con il resident dj. “Oggi se non chiami almeno due o tre ospiti hai trenta paganti”.

Le cose sono cambiate, come per tanti altri generi e settori. La differenza, per chi lavora a stretto contatto con la scena, sta nei pregiudizi legati alla cultura hardcore. È per questo che i permessi ai locali scarseggiano mentre i controlli si moltiplicano. “Per dire, all’ultima edizione dell’E-Mission Festival [il festival più importante hardcore e hardstyle che si svolge al Florida di Ghedi] è arrivato l’ispettorato del lavoro”, mi racconta Andy The Core.

"Non aspettavamo altro che il weekend per andare ad ascoltare e a ballare la nostra hardcore, senza quasi nemmeno guardare la line up."

Intanto gli arriva un messaggio vocale su WhatsApp: “Ciao Andy, mi ha appena chiamato il ragazzo che gestisce il posto dove sabato dovevamo fare la festa. È saltato tutto, non si fa più”. Il motivo? Controlli da cui sono emerse cose non in regola. A parlare non è il proprietario di una discoteca da cinquemila persone a sera. È un ragazzo che ha organizzato una festa per settanta persone.

Nonostante sia giusto assicurarsi che tutto sia a norma di legge e sicuro, specialmente in luoghi in cui si svolgono eventi con numerose persone, i ragazzi con cui parlo non sanno più dove sbattere la testa. Dai dj ai promoter fino ad arrivare ai buttafuori, tutti si ritrovano in una situazione difficile, in primis economica, perché la serata salta quasi sempre.

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Matt Muscarella e Simone Paradiso, aka The Melodyst

Polizia, carabinieri e ispettorato del lavoro trovano sempre un motivo legittimo per fermare tutto. Norme di sicurezza non rispettate, lavoratori non in regola, stupefacenti: sono tutti validi argomenti per far saltare una serata e per chiudere un locale, questo è indiscutibile. Però tutto ciò—secondo chi lavora a stretto contatto con la scena—sarebbe una conseguenza della situazione critica in cui è impantanata l’hardcore in Italia e fa parte di un effetto domino che ha portato questa musica a una situazione di stallo, una forte crisi che non le permette di diventare una realtà culturale ed economica. Come invece è successo altrove.

“L’hardcore è nato in Italia e in Olanda. A noi sta stretto, mentre là sull’elettronica ci hanno creato un business. I festival portano un turismo pazzesco, basti pensare al Tomorrowland”, spiega Andy. “Dal Florida allo Shock di Paesana allo Chalet di Torino, quasi tutti i locali di musica hardcore sono stati chiusi o almeno toccati in qualche modo”.

Non si tratta quindi di un cambiamento di gusti? Secondo Andy e tanti altri impiegati dell’hardcore, assolutamente no. Anzi: “la scena hardcore italiana è viva. Il pubblico italiano all’estero è tantissimo e ciò significa che l’interesse c’è. Però sono costretti ad andare all’estero alle feste perché l’Italia non può proporgli quello che propone l’Olanda”.

"L’hardcore è nato in Italia e in Olanda. A noi sta stretto, mentre là sull’elettronica ci hanno creato un business. I festival portano un turismo pazzesco, basti pensare al Tomorrowland."

In Italia il movimento hardcore resiste, quello che manca sono gli spazi, gli eventi, i luoghi. I “templi” in cui celebrare il rito hardcore scarseggiano. L’unico che ancora è vivo e vegeto è lo storico Number One, che però rimane una mosca bianca. Molti altri hanno chiuso i battenti o stanno per farlo.

“Ormai è sempre più difficile trovare eventi di livello in Italia, anche perché è sempre più difficile organizzarli. Però c’è una marea di gente che ogni weekend prende un aereo e va a ballare nei grossi eventi europei”, mi racconta Daniele Ferrari aka Tetta, dj e organizzatore di eventi. “Bisognerebbe organizzare un evento di grosso livello in qualche palazzetto o fiera. Smuoverebbe qualcosa. Purtroppo penso sia quasi impossibile, non è facile trovare chi accetta di utilizzare la propria struttura per manifestazioni hardcore”.

Uno dei problemi dell’Italia è che i clubber sono visti come fattoni anziché cultori di un genere di nicchia. I gabber poi ciao, sono l’anticristo. In realtà “il pubblico hardcore è freak ma non così folle come si pensa. È molto più rispettoso di quanto si possa credere”, secondo Andy the Core. “La trasgressione ovviamente c’è. Alla fine degli anni Novanta e inizio Duemila c’erano i Rotterdam Terror Corps con ballerine totalmente nude che si sputavano il fuoco addosso, per esempio. Adesso ci sono i Greazy Puzzy Fuckerz che si lanciano dildi gonfiabili sul palco. È hardcore, fa parte del gioco”.

Matt Muscarella, dj e producer per The Melodyst, Monkey Bizness e Points of Authority, confessa che tra le cose più forti viste nell’arco della sua carriera c’è stato un momento di sesso orale da parte della moglie del dj che stava suonando a un altro dj sotto il palco. Samuele Gozzo e Jacopo Stevanato, meglio conosciuti come The Sickest Squad, dominano la scena da ben quindici anni con la loro Frenchcore. Eppure quando gli chiedo di dirmi qual è stata la cosa più trasgressiva mi rispondono: “il pogo finale del Number One, ormai vietato da anni dallo stesso proprietario”. E, precisa Samuele, “pogo che oltretutto è sempre esistito nella scena metal e punk”.

Mario Basalari, il proprietario del mitico Number One, a fine serata negli anni d’oro si impossessava del microfono e raccomandava ai ragazzi di non farsi male. Un atteggiamento che ricorda quasi un capo Scout o un allenatore di calcio, non il proprietario del club italiano numero uno in cui ballare una musica percepita come sinonimo di trasgressione ed eccessi.

Niente corpi immolati, gente che beve sangue e via dicendo. Ma perché allora l’hardcore fa così paura?

Quindi niente corpi immolati, gente che beve sangue e via dicendo. Ma perché allora l’hardcore fa così paura? Non possiamo credere che c’entri la droga: ormai dov’è che non si trova? “È ovvio che ci sia illegalità alle serate. Ma in qualsiasi locale trovi chi esagera. A Woodstock ne sono successe di tutti i colori, niente era in sicurezza, eppure è ricordato come uno degli eventi migliori di sempre. E probabilmente lo è stato davvero”, mi dice Tetta, che organizza eventi da oltre vent'anni.

“In realtà la cosa più trasgressiva è l’abbigliamento molto eccentrico di parte del pubblico e il modo di ballare", continua, "Per molti è incomprensibile che si possa sopportare questa musica per così tanto tempo senza assumere droghe. Non capiscono che è proprio la passione per questa musica la droga, ciò che induce la gente a fare chilometri e sacrifici pur di andare a ballare e divertirsi insieme a tanti altri ragazzi con gli stessi gusti”.

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Matt Muscarella aka Monkey Bizness

L’aggregazione, la condivisione, il sentirsi parte di una famiglia: questo è il motore che avvia l’hardcore, come ogni scena musicale. Secondo Matt, però, l’hardcore “ormai è in una bara. Mancano i chiodi ma c’è già il coperchio appoggiato sopra. È quasi morta, come tutta la nightlife italiana e la sua cultura”. Crede che lo Stato italiano negli ultimi dieci anni stia usando ogni mezzo per estirpare dall’Italia la cultura underground, il clubbing, l’hardcore, la techno. E fa ovviamente l’esempio di Rimini, Riccione e di tutta la riviera Romagnola.

Con l’hardcore sta succedendo la stessa cosa, dice, la medesima crocifissione che ha sacrificato il Cocoricò e tante altre culle della cultura alternativa. “L’hardcore lo stanno riducendo a niente, gli tagliano le gambe in qualsiasi modo. Se un ragazzino ha una canna, chiudono il locale. Ed è ovvio che, dove ci sono giovani, c'è qualche irregolarità. Eppure anche nella scena rap succede la stessa cosa, ma porta più soldi. Quindi forse viene tollerata maggiormente”, continua Matt.

"L’hardcore lo stanno riducendo a niente, gli tagliano le gambe in qualsiasi modo. Se un ragazzino ha una canna, chiudono il locale."

Non che per lui i controlli siano inutili, anzi. Ma è il modo. Matt Muscarella vive ormai quasi in pianta stabile a Rotterdam e ha notato che lì le cose sono diverse, anche solo a livello di feeling. “All’estero nessuno ha paura delle forze dell’ordine. Non vogliono intimorire, non vogliono imporsi. In Olanda e all’estero in generale ho la sensazione di protezione quando c’è una pattuglia. Fanno in modo di farti capire che sono lì per proteggerti. E in Italia? Spesso c’è pieno di agenti in borghese per trovare due cannette."

Matt continua: "I ragazzi poi si stufano: a furia di essere perquisiti e controllati, passa la voglia di andare in quel locale. Anche quando non ti trovano nulla, è sempre una cosa che pesa, molto pressante. L’esperienza di essere perquisito durante una serata non la auguro a nessuno. A me da ragazzino è capitato fuori dal Cocoricò. Non mi hanno trovato nulla ma ti assicuro che è stata una situazione bruttissima”.

"La discoteca viene chiusa se trovano della droga perché viene automaticamente ritenuta luogo pericoloso. Ovviamente il problema non si risolve così: chi spaccia va da un’altra parte."

Per il dj e organizzatore di eventi Daniele Ferrari, “i controlli sono fondamentali perché la serata si possa svolgere in sicurezza. Purtroppo però credo che spesso non siano finalizzati alla prevenzione ma solo alla repressione. Quello che ultimamente sta accadendo è questo: la discoteca viene chiusa se trovano della droga, perché viene automaticamente ritenuta luogo pericoloso. Ovviamente il problema non si risolve così: chi spaccia va da un’altra parte. E il club, che non ha nessuna colpa, ne paga le conseguenze. Oltretutto senza avere nessuna arma per combattere questa situazione”.

Samuele dei The Sickest Squad ha assistito a decine di controlli e perquisizioni nei locali in cui lavora. “A volte i controlli sono corretti e nel pieno rispetto delle persone, altre volte chi è controllato si sente quasi come se fosse un delinquente. E non trovo sensato emettere un’ordinanza qualche ora prima di un evento hardcore che vieta l'uso di alcolici nel raggio di 600 metri intorno alla discoteca. In questo modo si distruggono imprenditori, si mettono in ginocchio attività, si danneggia il mestiere del promoter che investe decine di migliaia di euro a ogni evento”.

Il suo socio Jacopo aggiunge: “Abbiamo visto decine di pattuglie in fila fuori da una discoteca. Cosa che forse non vedi nemmeno allo stadio con cinquantamila persone”. Anche Andy the Core ha assistito a tantissimi controlli durante le sue serate: “Sono stato perquisito più volte pure io. Perfino alla rotonda davanti al Florida dove dovevo suonare.”

“Abbiamo visto decine di pattuglie in fila fuori da una discoteca. Cosa che forse non vedi nemmeno allo stadio con cinquantamila persone”

Tutto questo ormai si applica però a poco più di una decina di eventi all’anno. Secondo Andy the Core, per ridare vitalità all’hardcore basterebbe “un’apertura mentale da parte delle istituzioni. Se si permettesse ai locali e ai palazzetti di organizzare questo tipo di eventi, crescerebbe la cultura. E oltre a vantaggi economici, questa operazione comporterebbe anche vantaggi sociali: i giovani hanno bisogno di posti dove ascoltare musica, sentirsi liberi e avere così una valvola di sfogo”.

E parlando di vantaggi economici, potrebbe portare guadagni con più zeri dei cerchi olimpici. In Olanda l’hardcore è un’industria da milioni di euro all’anno. I Q-dance Party olandesi sono eventi da cinquantamila biglietti, organizzati come luna-park in mezzo ai campi. C’è addirittura gente che studia all’università per diventare coreografo dei Q-dance Party, come mi racconta Matt Muscarella.

Per Andrea Gavinelli servirebbe "una più larga distribuzione delle serate sui locali italiani. Per ora è relegato in Piemonte, Lombardia e Liguria”. Invece Samuele dei The Sickest Squad vorrebbe “che l'hardcore entrasse nelle televisioni, nelle pagine dei giornali o anche solo nelle riviste musicali. È un genere come un altro e come tale deve essere trattato”.

Oltre ai pregiudizi dell’italiano medio contro l’hardcore, andrebbero abbattuti anche quelli di chi ascolta hardcore ma snobba le serate italiane, preferendo quelle all’estero. In Italia ce ne sono poche, è vero. Ma quando si riesce a farle bene, lasciano il segno. Tutti quelli cui ho chiesto di raccontarmi “la serata” mi hanno parlato di hardcore de noantri, targato Italia.

“Il Florida è casa mia, tutte le serate lì sono emozionanti. La prima volta che ho suonato in main stage, quando ho fatto lo show case del primo album Kill Somebody e ho suonato in totale otto ore, è stato pazzesco. Era l’E-mission del 2015, sono entrato al Florida che era giorno e sono uscito all’alba”, mi racconta Andy the Core. Anche i The Sickest Squad ricordano come top il loro primo concerto in Italia al Florida: “Locale sold out e atmosfera incredibile. Nessuna rissa, nessun problema, tutti con il sorriso”.

“Il Florida è casa mia, tutte le serate lì sono emozionanti."

Se l’Italia capisse che nelle varie migrazioni all’estero di cervelli, mode e divertimenti quella che ci rimette è sempre lei, forse smetterebbe di combattere contro i mulini a vento. E finalmente quei mulini li costruirebbe in casa, per ricavarci qualcosa come in Olanda. Però siamo un Paese da mulino bianco che ha deciso di accogliere solo turismo di famiglia, spazzando via decenni di storia di clubbing entrati nel mito più a livello internazionale che nazionale.

Quello che le istituzioni dovrebbero capire, però, è che il turismo di famiglia si basa su figli che cresceranno e che avranno bisogno di valvole di sfogo, come tutti i giovani. La storia ci ha insegnato che reprimere non è mai risolutivo, anzi. E non parliamo solo di storia del clubbing, purtroppo.

Camilla è giornalista, scrittrice e autrice televisiva. Seguila su Instagram.

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La prima intervista di Tommy Dali, il nuovo talento dell’R&B italiano

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“Stai scherzando? Certo che mi sento sotto pressione. È una pressione che ho cercato, l’ho voluta, certo, ma la sento sempre. Forse è un bene comunque, rendo meglio così” mi dice Tommy Dali quando gli chiedo come sta vivendo le giornate frenetiche di questo novembre.

Siamo seduti su un piccolo divano sul terrazzo dove vive con sua madre, che stamattina è al lavoro, a Firenze. Questa è la prima intervista che Tommy fa nella sua vita: “Siccome dovevamo anche fare delle foto mi sono fatto prestare un po’ di vestiti dai miei amici”, dice mentre si apre il giubbotto visto che oggi in città, per la prima volta dopo settimane, c’è un sole pallido che scotta. “Di mio ho addosso soltanto le mutande”.

“Siccome dovevamo anche fare delle foto mi sono fatto prestare un po’ di vestiti dai miei amici. Di mio ho addosso soltanto le mutande.”

La pressione di cui Tommaso mi parla è più che comprensibile: la scorsa primavera ha pubblicato il suo primo EP, Personale, col nome di Tommy D4li. Si aspettava l’accoglienza che normalmentecapita all’opera prima di ogni artista molto giovane e così è stato, almeno all'inizio: reazioni miste da parte di conoscenti e altri musicisti della sua città, qualche centinaio di streaming, dei bei complimenti e la voglia di fare ancora di più.

"Ma un pomeriggio", mi racconta, "avevo appena finito di guardare un'intervista di Rkomi su Youtube quando vedo che su Instagram mi ha appena seguito Simone Pizzoccolo, che lavora per Thaurus ed è il suo manager. Mi scrive che durante una riunione la riproduzione casuale di Spotify ha fatto partire un mio pezzo a caso. Si sono gasati, si sono ascoltati Personale. Mi chiede se possiamo vederci a Milano”.

tommy dali firenze

Tommy Dali ha vent'anni ed è nato e cresciuto in un quartiere che si chiama Campo di Marte, a nord-est della periferia di Firenze, dove ci sono lo stadio della Fiorentina e villette a schiera separate dalle case popolari da un cordone d’asfalto che è viale Malta. In mattinata ci troviamo qui con un gruppo di amici per fare qualche foto. In questo parchetto, che è a poche centinaia di metri da casa sua, Tommy e gli amici ci hanno praticamente passato l’adolescenza, sempre insieme. “I miei amici sono veramente la mia famiglia” mi dice Tommy quando li raggiungiamo: “Sono loro che insieme a mio padre hanno sempre creduto nella mia musica, mi hanno spinto a tenere duro quando anche io forse pensavo di mollare."

Tommy continua: "C’è questo mio amico che avevamo iniziato a chiamare Benvenga perché ha questa attitudine sempre positiva, e poi questo è diventato proprio un motto: è sempre benvenga, qualsiasi cosa capiti, benvenga. Sono i miei fratelli. Dopo i primi live la scorsa estate sono venuti con me nel backstage e ci siamo spaccati di brutto, facevamo un casino… Alla fine però è bello che sia così, no? Siamo veri, le nostre serate sono sempre state così. Benvenga è uno stile di vita”.

"C’è questo mio amico che avevamo iniziato a chiamare Benvenga perché ha questa attitudine sempre positiva, e poi questo è diventato proprio un motto: è sempre benvenga, qualsiasi cosa capiti, benvenga."

Quando gli chiedo chi è, invece, il “preso male” del gruppo, Tommy ride. Dopo una breve discussione con gli altri confessa che, forse, quel ruolo è proprio il suo, anche se preferisce usare la parola "riflessivo". Non mi aspettavo, in realtà, una risposta diversa: dall’emotività e dalla malinconia di cui mi parla Tommy prende a piene mani per metterle nei suoi pezzi. Nel pezzo più forte di Personale, che si chiama “‘99” come il suo anno di nascita, Tommy dice a un certo punto “Mi sono detto più volte di stare lontano da te, mi sono aperto le nocche le volte che ti rivedevo; ma tu mi càl-mà-vì”.

Lo dice così, tagliando la parola in tre sillabe e mettendo l’accento tonico su tutte quante, come se lo stessero strozzando, come se riconoscere che “mi calmavi” fosse un’ammissione troppo grande per sputarla fuori con un respiro solo. Da quando l’ho sentito la prima volta ho pensato che fosse un’immagine lucidissima di quello che, immagino, si può chiamare tormento amoroso. Questa vena—personale, appunto—percorre tutto l’EP: frasi rotte che sono immagini precise (“Cuore spezzato, tutto d’un fiato, non mi ricordo più quello che è stato”), dilatate e poi contratte dalla voce di Tommy, morbidissima.

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Dal primo contatto con Thaurus alla firma passa pochissimo. Subito dopo i primi veri live, in giro per l’Italia, tra festival estivi. “La prima volta a Follonica ero nel backstage e mi stavo veramente cagando sotto, però cercavo di tenere a bada l’ansia, di non darlo a vedere. Tant’è che Mirko si è avvicinato per chiedermi come facessi a stare così tranquillo prima di un live. È stato un momento surreale: Rkomi è uno degli artisti italiani che ascolto di più, ce l’ho sempre in cuffia. Ha una scrittura che spesso mi fa pensare 'cazzo, mi sento esattamente così.' Mi ha chiesto di aprire alcune date del tour, la prima proprio qui a Firenze, e ne sono onoratissimo”.

Nella sua famiglia, mi racconta, la persona che più ha creduto in questa cosa della musica è sempre stato suo padre, che chiamano da sempre “il Puma”. “La passione che ho per la musica sicuramente me l’ha passata lui: quando ero piccolo mi faceva ascoltare tutta la roba per cui stava in fissa, per cui un sacco di hip-hop americano—Biggie, Tupac, gli Outkast—e cantautori italiani come Pino Daniele, Lucio Battisti, Lucio Dalla. E poi Michael Jackson: per lui avevo veramente un’adorazione, lo ascoltavo in continuazione a cinque, sei anni, senza averlo mai visto in faccia… Per me era una specie di entità senza corpo, un dio”.

tommy dali firenze

Dati questi riferimenti, è difficile stabilire se Tommy sia un cantante pop, un rapper o qualcos’altro. Lui stesso, quando glielo chiedo, mi dice che trova difficile tracciare una linea, forse perché la sua musica non nasce dal rap ma dal canto. “Quando ero piccino non stavo mai in silenzio, cantavo in continuazione. Me lo ricordo perché faceva ridere, gli adulti certe volte mi prendevano in giro: 'ma quanto cazzo canti?' mi dicevano. Poi un giorno per caso mentre giocavo a pallone e canticchiavo una signora mi ha detto che ero bravo e avrei dovuto prendere lezioni. Allora io la sera sono andato a casa dal Puma e gli ho detto: io voglio cantare.”

A quel punto inizia a prendere lezioni da Eric, un amico del “Puma” che gli insegna i fondamentali—come gestire la respirazione, i primi passi—e diventa di fatto il suo primo collegamento con il mondo della discografia. Mi racconta di alcuni "produttori di Milano che cercavano un ragazzo a cui fare cantare un pezzo scritto da qualcun altro in inglese", di una raccomandazione di Eric, di un viaggio fin là per chiudere il pezzo. "Il testo di quel pezzo però non mi piaceva, quindi alla fine chiesi ai produttori se potevo provare a scriverci sopra io in italiano, tornato a Firenze”.

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Di quel pezzo alla fine non si fa niente ma quei produttori, che lui chiama "Gio e Fab", oggi si chiamano Marquis e sono i ragazzi che mettono suoni sotto la sua voce. Di lì a poco inizia a prendere forma Personale. Scrivere in italiano, mi dice, è stato fondamentale nell’evoluzione dei pezzi: “Ho sempre scritto: anni fa provavo a farlo in inglese, ma poi mi sono reso conto che è difficilissimo riuscire a esprimerti bene in una lingua che non è la tua."

"Non ho mai avuto bisogno di forzarmi a scrivere per avere il testo di una canzone, e spero di non doverlo fare mai, anche se so che per altri artisti funziona", continua Tommy. "Per me è come seguire una scintilla: quando c’è qualcosa che mi dà l’ispirazione—un pensiero per il ritornello, un pezzetto di melodia—inizio a scrivere e non riesco a fermarmi finché non ho finito”.

"Mio cugino, che era qualche anno più grande di me, ha fatto un incidente in motorino proprio qui in viale Malta e non è sopravvissuto. [...] Dico 'La voce rimbalza sulle pareti ma spero che arrivi a te' proprio perché certe volte vorrei parlargli."

Spesso, la scrittura è semplicemente un mezzo per sfogarsi. Il pezzo più denso e doloroso di Personale, “Smoking Gold”, parla di un lutto familiare capitato qualche anno fa. “Ho avuto un periodo di buio, in cui ho mollato questa cosa della musica, e ho smesso di andare da Eric. È stato un periodo difficile: mio cugino, che era qualche anno più grande di me, ha fatto un incidente in motorino proprio qui in viale Malta e non è sopravvissuto. Lui era ‘95 ed era quello che mi aveva insegnato a fare le prime cose da grande, quello che mi ha passato le prime canne…”

È con lui e con il suo riflesso che Tommy parla nel pezzo: “Mi è sembrato di rivederti dentro ad un film, no / Mi guardo allo specchio, più cresco più ti somiglio” è un riferimento reale, perché la somiglianza, mi dice, crescendo si sta facendo impressionante. Certe volte vedersi allo specchio è straniante, perché riconosce il volto del cugino sovrapposto al suo. “Più avanti, nello stesso pezzo, dico 'La voce rimbalza sulle pareti ma spero che arrivi a te' proprio perché certe volte vorrei parlargli. Penso che sia una cosa che capita a molti dopo un lutto, ma è come se avessi paura che la mia voce non riesca ad arrivargli”.

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La necessità che sta dentro a questo modo di scrivere permea tutto Personale, che coerentemente al titolo è un lavoro intimo al punto di essere quasi diaristico. Mentre parliamo di “‘99” inizio a parlargli d'amore e, esattamente come se gli avessi chiesto per favore di leggere il suo diario delle medie, lui mi dice che è un argomento troppo privato per un'intervista, “se non è un problema”. È tutto sommato la risposta migliore che potesse darmi. “Mia mamma ha iniziato a crederci solo di recente, che io possa davvero fare qualcosa con la musica: prima lo vedeva come un passatempo e cercava di tenermi coi piedi per terra. Giustamente, anche se io le ho sempre promesso, come a mio padre, che ce l’avrei fatta ad arrivare in alto”.

Quando ha detto a sua madre dell’intervista di oggi, mi racconta, lei è andata a cercare su Google chi stesse venendo a intervistare suo figlio. “Ha visto che è gente seria si è tranquillizzata, ha anche letto l’articolo dove si parlava di Firenze, in cui l’autore diceva bene di me. Da quando ho firmato con Thaurus e si è resa conto che delle possibilità concrete ci sono. Si sforza di farmi vedere che anche lei c’è e mi sostiene”.

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Quando torno a chiedergli della pressione che sente, che è poi l’argomento da cui siamo partiti, ora che ha in progetto un EP o forse un disco (“Ma quando ti dico disco io penso a un album vero, completo dall’inizio alla fine, che dura almeno un’ora. Prima è meglio uscire con una cosa più piccola”) finisce per dirmi una cosa che mi fa sorridere, semplicemente perché è la cosa che meno penseresti di sentire da un musicista esordiente in cui stanno cominciando a credere un sacco di persone: “Diciamo così: non so se c’è qualcosa che mi spetta, però so cos’è quello che voglio e so che mi sto rimboccando le maniche per arrivarci”.

Nel suo singolo nuovo, che si chiama "Primo Bar" ed è un pezzo costruito su suoni cupi e pieno di angoscia, Tommy canta “La bella vita ci aspetta come aspettavo mio padre, le notti in cui lo trovavo disteso a terra ubriaco” e questo verso probabilmente completa quello che ha detto a me a proposito delle sue aspettative su quello che verrà dopo. Parla anche, inevitabilmente, delle ansie che accompagnano le possibilità grosse che hai davanti, ma dice anche, comunque benvenga.

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Fotografie dalla Tauro Night di Roma

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C'è chi ai concerti resta fermo e passa tutto il tempo col braccio alzato a fare video e rovinare la serata a tutti quelli che ha dietro e chi, invece, chiude gli occhi e si lascia trasportare da quello che succede. Solo che ogni tanto "quello che succede" è "aprire un buco nel pubblico e poi lanciarsi molto forte gli uni contro gli altri", come è stato alla prima Tauro Night a Roma. "Tauro Night", quindi—ma perché? Perché non era solo un concerto dei Tauro Boys per spingere dal vivo i pezzi di Alpha Centauri, cioè il loro ultimo progetto, ma una festa con un po' di amici.

I primi sono stati i DJ di FUCKYOURPARTY, cioè quel collettivo a cui è capitato addosso il SoundCloud rap italiano quando l'algoritmo della piattaforma ha deciso di far partire la loro "Rieti Chiama" proprio dopo "Medicine" di Side. Scelta più che sensata dato che è proprio lì, sul SoundCloud italiano, che i Tauro e il loro beatmaker principale Close Listen hanno costruito la loro estetica, il loro stile e il loro seguito attorno a parole come "nostalgia", "malinconia", "post-internet", "melodia", "pop punk".

È poi venuto il momento del live del Wing Klan. Soci dei Tauro dai tempi del liceo, Tommy Toxxic e Joe Scacchi hanno fatto un bel mischione di estratti dai loro brani insieme e dai loro dischi solisti, Ghost e Marketing. Una bella botta di oscurità prima di accendere le luci del rap di Pava, Prince e Maximilian, che data l'occasione speciale sono rimasti sul palco per un'ora e mezza. A un certo punto è salito sul palco come guest Nick Name, dietro alle basi di alcuni brani del trio come “Argentina” e “Liebe”: il producer ha accompagnato alla chitarra i Tauro per versioni acustiche di “Dieci Ragazze”, con il sample dei Sum 41 come nella primissima versione demo, e “2004-2005” in una versione super emo.

Abbiamo qua sotto qualche scatto della serata a cura di Jacopo Severgnini. Dopo averli guardati, sappiate che potrete essere anche voi nella stessa situazione questo venerdì al Circolo Magnolia di Milano per la seconda Tauro Night—e sul nostro Instagram c'è un modo per venirci con un trattamento speciale.

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Chi sono gli artisti italiani più influenti del decennio?

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Compilare le liste delle cose più influenti e/o belle del decennio è stato tanto fantastico quanto terribile.

È stato bello rendersi conto di come le cose si sono evolute, riascoltare dischi che dieci anni fa ci esaltavano e renderci conto che—hey, erano davvero importanti, alla fine. È stato brutto rendersi conto di come di certe cose splendide ci siamo tutti dimenticati, e anche notare alcuni problemi del sistema—per esempio, la drammatica scarsità di diversità nelle liste che sono venute fuori alla fine. È stato anche brutto rendersi conto che era impossibile rappresentare davvero tutto e tutti.

Per il prossimo decennio, quindi, speriamo che ci siano 1) meno cazzi 2) più diversità 3) più rappresentanza 4) più cose sempre più nuove. Per questa cosa di Best Of Decennio siamo limitati alla musica italiana perché di liste sulle cose del mondo ce ne sono già a caterve. Avremo tre pezzi: questo sugli artisti, uno sui dischi e uno sulle canzoni. Lungo l'articolo ci sono link ad articoli in cui avevamo parlato di quelle cose quando sono uscite. Ciao!

ACHILLE LAURO

Nel 2012, quando pubblicò Barabba, Achille Lauro era un rapper truce e cattivo, un po' come la Roma che gli aveva dato i natali. Poi cominciò a vestirsi da donna, a rappresentare un certo modo di unire fluidità e brutalità—un po' come Young Thug stava facendo negli Stati Uniti. L'esperienza in Roccia Music e i due mixtape pubblicati tra 2014 e 2015 sancirono il suo arrivo nelle alte sfere del rap; Ragazzi Madre dimostrò che poteva camminare sulle sue gambe, affiancato da Boss Doms, al ritmo di quella che chiamava "samba trap". E poi l'idea di chiamare "glam" la loro musica, e infine quella di fare una mossa controcorrente: fare rock, quando fuori tutto è trap. E fare "Rolls Royce". E fare Sanremo, senza saper cantare.

C'è Pitchfork che ha scritto nella sua lista di canzoni del 2019 che ormai, con il pezzo giusto, qualsiasi artista può ricevere tutte le attenzioni del mondo in un attimo. Il problema è poi riuscire a mantenerle nel tempo. Il valore dell'arte e del personaggio di Achille Lauro lungo il corso del decennio sta nella sua capacità di reinventarsi continuamente senza perdere in credibilità. Anzi: magari in perderla, la credibilità, ma guadagnando quella di nuove e sempre più grandi parti di pubblico. (Elia Alovisi)

CALCUTTA

La prima volta che ho visto Calcutta era giugno 2016 e rimasi subito spiazzata dalla quantità di persone presenti al concerto, ma soprattutto dall’euforia corale che univa tutti. Ecco, la forza di Calcutta sta proprio nell’essere diventato un punto di riferimento nella musica italiana che unisce tutti, nel bene e nel male. Calcutta è come la Juventus: che tu lo ami o lo odi, sicuramente ne stai parlando e ti fa sentire parte di un qualcosa di importante che sta accadendo. Come ci è riuscito forse non lo sa nemmeno lui, eppure il suo Mainstream (2015) ha segnato un punto di svolta per la musica indie.

Non solo il suo talento cantautorale che riesce a diventare pop di qualità—e qui l’ironia del titolo—ma soprattutto la sua capacità di mettersi a nudo attraverso immagini quotidiane tanto genuine quanto enigmatiche in cui chiunque si può immedesimare, creando una narrazione collettiva condivisibile ed empatica. Calcutta è come quell’opera d’arte che ti fa incazzare perché avresti potuto farla tu. Eppure non l’hai fatta, e se anche ci provassi non sarebbe la stessa cosa. Perché tutti vogliamo scomparire in un abbraccio, ma Calcutta l’ha detto sinceramente, in quel modo disarmante che riesce solo a lui. Talmente schietto, quasi banale, che quasi non capisci perché ti piace, eppure continui ad ascoltarlo. (Cecilia Esposito)

CARL BRAVE X FRANCO126

Naaa Naaa Ancora Che Stamo Pellaaaria Eeh Eeh Eeeh. Da quando questi due sono entrati nelle nostre vite con Polaroid (2017), ci siamo sentiti tutti un po’ più romani. Carl e Franco non solo hanno sancito il primo compromesso musicale tra autotune da trap e indie cantautorale, ma hanno soprattutto creato un immaginario collettivo da adottare. Non sono stati i primi e non saranno gli ultimi a cantare di sventure esistenziali e cuori infranti ma, con i loro testi e le loro personalità, sono riusciti a creare istantanee vivide di vita quotidiana in cui tutti possono immedesimarsi.

I testi di Carl Brave e di Franchino, che sembrano nati per essere scritti sulla Smemoranda, hanno catturato il pubblico grazie proprio alla loro capacità di immortalare uno stato d’animo di una generazione—un po' malinconico e un po' no. Ovviamente l’anima romanesca e quell’aria da eterni combinaguai che hanno stampata in faccia sono state la loro Z di Zorro con cui hanno segnato la camicia della nuova scena indie italiana. Una versione aggiornata dei vecchi stornelli romani, che buttano tutto in caciara e strappano sempre un sorriso anche quando non rimane che piangere. (Cecilia Esposito)

CATERINA BARBIERI

Pause, ripartenze, attese, stasi e picchi emotivi: le composizioni elettroacustiche di Caterina Barbieri hanno il grande merito di essere al contempo fotografia e negativo del decennio appena trascorso. Tra arpeggi modulari minimali e ambienti sonici, l’artista indaga le interconnessioni tra uomo, macchina e intelligenze artificiali, inducendo l’ascoltatore in stati di ipnosi cosciente subito perturbati da cambiamenti inattesi che, nel loro impercettibile divenire, sconvolgono. Grazie ad un immenso talento compositivo e ad una rara attenzione per la sfera umana dell’elettronica, Caterina Barbieri si è confermata tra le migliori musiciste contemporanee mondiali, regalandoci momenti musicali di rarissima e preziosa bellezza. (Simone Zagari)

COSMO

Con Cosmo è nato un ibrido unico nella nostra musica: metà popstar e metà producer, con un piede nella serate itpop e l'altro nei club della provincia e d'Europa, e se ne avesse un altro ancora sarebbe pure nelle radio. Ci ha messo un po' a trovare l'equilibrio fra le parti—più o meno la gavetta coi Drink to Me e l'esordio solista, Disordine. Ma poi, nel 2016, con la hit "L'ultima festa" e relativo album, con dentro un pezzone a più facce come "Le voci", è riuscito a fondere melodia italiana con cassa in 4/4, sintetizzatori e club culture. Prima che, ovviamente, Cosmotronic non rendesse liquido e tremendamente affascinante il non-confine fra i due mondi. E se, vent'anni dopo i Subsonica, tutto ciò non è una rivoluzione per l'elettronica, lo è sicuramente per il pop italiano. (Patrizio Ruviglioni)

DARK POLO GANG & SICK LUKE

Vi rivelo una cosa: sulla chat della redazione di Noisey, un tempo, c'era un messaggio che compariva ogni mattina che ci si loggava. Diceva "Buongiorno, e ricorda che se la Dark Polo Gang è famosa è solo colpa tua". Era solo una gag sul fatto che alcuni di noi non hanno mai sentito davvero questa cosa della nuova scuola a tutti i costi come una cosa loro, e quindi ci si rideva sopra. Però penso sia un buono spunto per spiegare perché oggi siamo qua a dire che Tony, Wayne, Pyrex, Side e Sick Luke sono tra gli artisti italiani più influenti del decennio.

La Dark Polo Gang non poteva lasciare indifferenti. Usava parole nuove e buffe, che o ti sembravano stupide oppure affascinanti e spaventose come gli alieni. Ti intratteneva, quando la seguivi su Instagram, e lo faceva sia che ti sentivi un piskelletto suo seguace sia che spizzavi le sue storie per farti una risata o incazzarti. Sulle canzoni diceva cose esagerate, palesemente finte, e così facendo gasava e scandalizzava in egual misura. La Dark generava reazioni qualsiasi cosa facessero, e come nessuno aveva fatto prima di loro.

Lo dimostra il fatto che l'oggetto culturale più celebre di questa cosa che è Noisey, che quando è cominciato il decennio manco esisteva, è il The People Versus Dark Polo Gang. Non un approfondimento, un'intervista, una recensione, un'inchiesta, una segnalazione, una storia. Semplicemente cinque bori di Roma lasciati liberi di insultare gente che li odia e scherza sulla loro musica, assurdamente e involontariamente rivoluzionaria. (Elia Alovisi)

GUÈ PEQUENO

Dopo aver fatto fare il salto di qualità al rap italiano con i Club Dogo negli anni Duemila, negli anni Dieci Gué ha intrapreso una carriera solista che si è svolta interamente in questo decennio. Il bello è che ha anticipato e cavalcato tutte le tendenze che hanno fatto del rap la musica più forte in Italia, quanto non era mai stata. Il vero e proprio padrino della nuova scena nonché uno dei pochissimi artisti che, pur con quindici anni di carriera alle spalle, è ancora in grado di fare uscire cose che possono tranquillamente essere considerate tra le sue migliori in assoluto. Un esempio, che per puro caso ha un titolo perfetto per spiegare quanto è assurda la sua consistenza artistica? “Come se fosse normale”. (Federico Sardo)

HEROIN IN TAHITI

Tra le cose più belle negli anni Dieci della musica italiana c’è sicuramente il Dal Verme di Roma (purtroppo ora chiuso) e la “scena” che intorno a esso si è generata: è stata chiamata in molti modi diversi, ma forse a contare è soprattutto la musica che ha prodotto. È in quel contesto che vengono fuori gli Heroin In Tahiti. Tra Sun City Girls, Quicksilver Messenger Service, tradizione italiana e Morricone gettati insieme nell'abisso, il duo Mattioli-De Figuereido lascia a questo decennio una serie di capolavori che resteranno nel tempo. Pietre miliari per quando, tra qualche decennio, qualcuno scriverà un libro su quello che è accaduto nell’underground in questi anni. (Federico Sardo)

HOLIDAY INN

Tra tutti i progetti usciti dalle catacombe di Roma Est a inizio anni Dieci, era difficile immaginarsi che proprio gli Holiday Inn sarebbero diventati un caposaldo dell’underground nazionale. La loro musica è semplice e primitiva, basata su un organetto, una drum machine e una voce, tutto iperdistorto da un vecchio amplificatore. Muovendosi sulle strade dello Stivale su una vecchia BMW, il duo ha preso il concetto di concerto punk e l’ha incrociato con il rave, con il rito orgiastico, con la sessione di allucinogeni. Ogni volta che scendono dal palco, quando ce n’è uno, si lasciano dietro una massa confusa di corpi e menti spogliate, liberati, incapaci di riconoscere uno schema o una regola nella musica e nella vita. (Giacomo Stefanini)

I CANI

La storia de I Cani è la storia di un artista sfuggente. Niccolò Contessa, quando nel 2010 fece "Wes Anderson" e "I Pariolini di 18 Anni" e le caricò su internet senza metterci un'immagine sua o qualsiasi altra informazione sul progetto, forse non sapeva che aveva appena 1) acceso la curiosità di buona parte della scena indie italiana, che questa cosa dell'anonimato funziona sempre e 2) cominciato a creare un nuovo modo di parlare delle cose: autoreferenziale, semplicione, ma proprio per questo brutalmente vero e sentito da tutti quelli che ci si rivedevano. Cioè la scena indie italiana di cui sopra.

Ma Sorprendente esordio a parte, Contessa dimostrò presto che non era solo un descrittore di luoghi e tipi umani. Di "ironico" lui non voleva fare niente, disse. Niccolò Contessa era solo un cantautore di Cristo. E infatti Glamour fu un momento di transizione verso quell'opera rarefatta che è Aurora, composto da canzoni affascinate dal fatto che gli esseri umani esistono, e stanno in un mondo esiste che sta in un universo che esiste. Le ultime che ha fatto, praticamente. Perché poi ha scritto con altri, per altri, Contessa. Probabilmente si era rotto il cazzo di sentirci parlare così tanto delle sue cose e costruirci sopra significati a cui lui, sinceramente, manco aveva pensato. E se è qua, è perché con I Cani ha sì fatto grande musica, ma anche subito quel modo di parlar-delle-cose per polemikette che ha segnato questi ultimi dieci anni. (Elia Alovisi)

LORENZO SENNI

Prendete i buildup della trance più sfacciata in voga negli anni Novanta e provate a immaginarli decontestualizzati, privati del drop e delle percussioni, coiti interrotti potenzialmente infiniti eppure ancora visceralmente inclini alla danza. È pura follia, lo so, ma proprio per questo il sound minimale di Lorenzo Senni ha saputo stravolgere il mondo della musica elettronica, e non solo. L’iconica trance puntinistica e destrutturata di Lorenzo ha elevato la musica da ballo a concetto e performance, facendole rivivere una nuova giovinezza nella sua reinterpretazione. Quei synth e quegli arpeggiatori, oggi di casa Warp e arrivati persino a Black Mirror: Bandersnatch, sono divenuti un simbolo degli anni dieci, ormai marchio di fabbrica e punto di riferimento per l’elettronica mondiale. (Simone Zagari)

MARRACASH

Tra tutti gli artisti che hanno incarnato la trasformazione del rap italiano da cultura underground a sistema dominante, Marracash è quello rimasto zitto più a lungo. Dieci anni fa era fresco di uno dei primi esordi su cui una major aveva investito considerevolmente, tanto da permettergli di portare un paio di elefanti in quartiere. Rispose con un momento di bulimia artistica: due album, un mixtape e una trasmissione televisiva in poco più di due anni.

È in quel periodo che Marra, forse, si è reso conto che qualcosa non andava. Che aveva dentro un disco buio, contorto e barocco come Status. Che voleva anche scoprire qualcosa, oltre che farla, e così prese sotto la sua ala prima Achille Lauro e poi Sfera Ebbasta. Che se non aveva niente da dire o da mostrare su Instagram, allora poteva anche non dirlo e non mostrarlo. Lotta dietro le quinte, con la sua stessa testa e con il lavoro di artista. Si trasforma, Marra, e diventa grande. Tra alti e bassi nascono Santeria e Persona, i due dischi che sanciscono il suo ritorno e la sua vittoria. È l’unico rapper in Italia, Marra, ad aver avuto una parabola simile. Una di quelle che usano le storie più belle per catturare per sempre il cervello e il cuore delle masse. (Elia Alovisi)

MYSS KETA

Non so bene come sia nata MYSS KETA, ma credo che all'origine lei e le ragazze di Porta Venezia, così come tutto Motel Forlanini, fossero una cosa che un gruppo di amici hanno voluto fare per divertirsi e divertire parlando di tre cose che gli appartenevano: la milanesità, la cultura pop e la queerness. Solo che proprio perché gli appartenevano, pian piano, un sacco di gente si è resa conto che aveva di fronte qualcosa di genuinamente eccitante.

Nel giro di tre anni, MYSS KETA e il suo collettivo sono diventati uno dei fulcri attorno a cui ruotano i satelliti dei creativi musicali milanesi. Sui suoi dischi ci sono le nuove popstar come Mahmood, le eccellenze dell'indie come Any Other e Birthh, le leggende della musica italiana come Gabry Ponte, un personaggio pop ed esponente della cultura trans come Elenoire Ferruzzi, e praticamente tutti i rapper disponibili a Milano nel momento in cui registrava PAPRIKA.

Quando poi, quest'anno, KETA ha pubblicato una nuova versione de "Le ragazze di Porta Venezia" mettendoci dentro le sue nuove amiche—cioè un campionario di artiste che va un po' di qua e un po' di là a casaccio per il mercato musicale italiano—mi è pure venuta voglia di darle il ruolo di grande aggregatrice di forza femminile. Che poi dire che le cose sono "femminili" in musica è brutto, secondo me ("il rap femminile", "le donne dell'elettronica"). Però se c'è una cosa di cui mi sono reso conto stilando queste liste del decennio è che in Italia ci sono tanti, troppi cazzi nella musica. Anzi, ci sono quasi solo cazzi. E se quindi un'artista capace di spaccare e far ridere e far emozionare come MYSS KETA viene raccontata anche come fulcro associativo ed esempio da seguire per rendere meno noiosa ed eteronormativa questa musica che ascoltiamo, ben venga. (Elia Alovisi)

NU GUINEA

La rinascita dell'estetica e dell'immaginario di Napoli lungo questo decennio passa per Gomorra e tutto il rap che ha ispirato e inglobato, per il progetto LIBERATO, ma anche e soprattutto per i Nu Guinea. Dietro questo nome ci sono Massimo Di Lena e Lucio Aquilina, partenopei trapiantati a Berlino che prima nella capitale tedesca e poi nel mondo intero hanno portato la tradizione musicale della propria città d'origine. Nel loro progetto, i due guardano alla tradizione dei Settanta—Pino Daniele, James Senese e tutto il Neapolitan sound—ma anche al funk e alla disco sepolti nei dischi del progetto Napoli Segreta, così come all'elettronica. Il risultato è un mix ballabile, agiografico, sintetico eppure suonato: dentro ha cori, fiati e altri strumenti veri. Sono il gruppo italiano più internazionale, fresco e giocoso. La ripartenza della tradizione napoletana, insomma. (Patrizio Ruviglioni)

SALMO

Quello che hanno fatto Salmo e Machete—quindi anche Hell Raton e Slait, e all’inizio pure En?gma—è sempre andato oltre la musica. Non che quella non fosse importante, anzi: senza anni di militanza nelle chitarre e nell’hardcore Salmo e tutta la sua squadra non avrebbe mai sviluppato la sua identità artistica, che ha sempre trovato un senso di ordine e comunanza nella brutalità e nei diti medi contro l’ordine costituito. Di album in album e di Machete Mixtape in Machete Mixtape, Salmo si è affermato come esempio di integrità artistica, rapper provocatore ma senza strafare, portatore di un gusto per l’estremo ma non troppo.

Come nome più visibile di Machete, poi, è anche simbolo della visione artistica del suo collettivo. Quella per cui è giusto continuare a includere nuovi nomi tra le proprie fila, diversificare la propria identità, lavorare a partire dalla musica ma anche al di fuori della musica. E poi c'è quella cosetta dell'aver messo il proprio nome sulla prima produzione di tha Supreme. E quell'altra, che ancora non è successa, di San Siro. (Elia Alovisi)

SFERA EBBASTA & CHARLIE CHARLES

Se “la trap è il nuovo pop” il merito è principalmente di Sfera Ebbasta e Charlie Charles. Cinque anni fa, in quella stanza di Cinisello Balsamo, sarebbe stato assurdo solo pensarlo ma oggi i beat di Charlie sono al servizio delle major e Sfera appare in radio e in TV. Volenti o nolenti i banger melodici di XDVR, Sfera Ebbasta e Rockstar hanno definito il sound della seconda metà del decennio nazionale, riuscendo là dove nessuno era riuscito mai: portare una ventata d’aria fresca nel mainstream e spodestare la tradizione cantautorale italiana. (Simone Zagari)

TROPICANTESIMO

Non è una band, non è un DJ set, non è una club night. Tropicantesimo è un cerchio magico dentro al quale si realizza un’utopia. Il collettivo capitanato da Hugo Sanchez e Lola Kola è costantemente nel mezzo di una performance. Lo è mentre riempie il posto in cui si trova di foglie, piante e teli di raso, montando allo stesso tempo la postazione del DJ Hugo, con movimenti lenti e un fare a metà tra il mistico e l’annebbiato dall’oppio. Lo è dopo 8 ore ininterrotte di musica lenta e densa come melassa che avviluppa tutti i presenti e li trasporta in un pianeta lontano dove il tempo procede a passo di tartaruga e la musica non ha barriere, in cui il tropicalismo brasiliano può convivere con l’industrial, il post punk e la house music. Nessuno esce da Tropicantesimo senza una nuova consapevolezza di sé, della musica e del modo in cui è possibile vivere la notte, o il giorno, o il non-tempo, tanto non importa. (Giacomo Stefanini)

WOW

Salvo qualche fortunata eccezione, l’indie nostrano ha sempre avuto la tendenza problematica a uniformarsi molto velocemente, sia a livello sonoro che soprattutto di testi, ai modelli di successo del momento, soffocando l’originalità di molti artisti. Gli WOW invece hanno iniziato con un EP lo-fi cantato in inglese per poi lanciarsi in un esperimento meraviglioso: prendere le atmosfere della canzone italiana anni Sessanta e delle colonne sonore cult anni Settanta per renderle compatibili con gli anni Dieci. Il risultato sono tre dischi uno più bello dell’altro, il commovente esordio Amore, il più psichedelico Millanta tamanta e il più cupo Come la notte. Il duo romano ha mostrato una via diversa per l’underground italiano del decennio, che avrebbe forse meritato più attenzioni. (Tommaso Tecchi)

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Marracash è il supereroe del rap italiano

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La settimana scorsa Marracash è stato protagonista di un evento della serie Niente di Strano, organizzata da BuddyBank e Tidal, dividendo il palco con Frah Quintale. Le fotografie di questo articolo sono state scattate in quell'occasione da Ludovica De Santis.

I supereroi sono diventati più interessanti di prima quando hanno smesso di essere invincibili, e per alcuni rapper in fondo vale lo stesso discorso. Le loro storie sono una versione amplificata e esagerata delle nostre, momenti negativi compresi. Per questo, a volte, la cosa più interessante è guardare dietro la maschera.

I supereroi sono diventati più interessanti di prima quando hanno smesso di essere invincibili, e i rapper sono un po’ dei supereroi dei nostri giorni.

Persona, oltre a essere il titolo del disco di Marra e del film di Ingmar Bergman citato al suo interno e sulla copertina, è la parola latina che significa "maschera". E in inglese "persona" significa "personaggio". Ecco, e che cosa c’è nella vita di un personaggio di successo quando i riflettori si spengono, o quando non si sa più bene che cosa fare e perché? Quando non si è più sicuri di se stessi? Quando, nonostante il successo, si vivono grossi momenti di down? È a tutte queste domande, e a alcune altre, che risponde il quinto album di Marracash.

Nel 2005, ai tempi di Roccia Music, il percorso di Marra poteva sembrare quello di tanti rapper. Certo, era uno dei più bravi, e fu tra i primi a passare da un certo tipo di underground al successo mainstream. Almeno in apparenza, fino al 2011 la sua carriera sembrava potersi riassumere con il titolo di un suo album, a sua volta una citazione de L'odio: Fino a qui tutto bene.

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MARRACASH LIVE PER NIENTE DI STRANO

Una produttività regolare, singoli che andavano in radio, tour, collaborazioni. Nel giro di qualche anno Marracash, grazie alle sue indiscutibili doti tecniche e di scrittura, era diventato uno dei principali rapper d’Italia. Poi, però, succede qualcosa. Tra il suo terzo e il suo quarto disco passano quattro anni, un tempo molto lungo per il mercato e soprattutto per il rap, che nello stesso momento stava giusto entrando nell'era dello streaming.

È il 2015 quando esce Status, un disco fortissimo, il suo migliore fino a quel punto. Anzi, il miglior disco di uno dei migliori rapper italiani. Riascoltato oggi, sembra che il suo autore vesta un’armatura, una corazza. Marracash ci vuole ribadire che lui è il numero uno, e ci riesce.

Su Status Marracash ci vuole ribadire che lui è il numero uno, e ci riesce.

Quello è un anno cruciale per il rap in Italia, in cui le cose cambiano molto. Tutto subisce un’accelerazione. Sarebbe però un errore mettere Marracash in contrapposizione rispetto alle nuove leve: ci sono rapper della vecchia guardia che sembrano avere fatto della diversità rispetto ai giovani il loro unico selling point. Quello Marracash non ha mai fatto. Basti pensare che proprio quell'anno è lui che, insieme a Shablo e attraverso Roccia Music, ripubblica l’album di esordio di Sfera, prima uscito solo in free download, e gli spalanca di fatto le porte nell’industria discografica ufficiale.

Nel suo modo di essere artista ci sono però due grandi differenze rispetto alla nuova scuola. La prima è che dal 2015 in poi non sono passati due mesi senza che arrivassero al successo nuovi nomi, nuove crew, nuove realtà; e che per rimanere al passo questi hanno dovuto produrre tantissimo, non fare passare un mese senza qualche nuova uscita. Marracash fa un disco nel 2016 con il socio di sempre Gué Pequeno, Santeria, a cui segue un tour, e poi rimane in silenzio fino a pochi mesi fa.

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MARRACASH LIVE PER NIENTE DI STRANO

Una seconda differenza sono i social network. Per i rapper contemporanei, le story di Instagram non contano meno della musica. La creazione del loro personaggio, passa da lì. Sono decine di story quotidiane che i follower sorbiscono come puntate istantanee di una serie televisiva, formidabili strumenti di autopromozione. Marracash è un rapper che non ama i social network e che non condivide la sua quotidianità nelle story.

Tutte queste sono scelte di vita, ma anche scelte molto rischiose nel mercato contemporaneo. C’è un altro elemento che può aggiungere insicurezza: quando non fai niente, non sbagli. Puoi rimanere seduto per sempre sugli allori del passato.

Fino a poco tempo fa Marracash non era sicuro di riuscire mai a fare un disco nuovo, non era sicuro di riuscire a trovare stabilità nella sua vita e non era sicuro di molte cose.

Fino a poco tempo fa Marracash non era sicuro di riuscire mai a fare un disco nuovo, non era sicuro di riuscire a trovare stabilità nella sua vita e non era sicuro di molte cose. Persona è la prova che è in grado di fare un disco enorme in tre mesi, mettendoci però dentro il vissuto di anni. È un disco che richiede attenzione, non da pompare in macchina. È anche pesante, sicuramente maturo. Sono cinquanta minuti di colloquio con una persona che ti parla di cose importanti. E questo lo rende un disco importante non soltanto per il suo autore, ma anche per lo stato di salute del rap in Italia.

Marracash non è il rapper della vecchia scuola, il rapper che si mette in contrapposizione rispetto ai giovani—basti ascoltare "SUPREME". Però ha fatto un lavoro credibile per tutti. Perché nonostante il suo sia un genere in cui la scrittura è fatta di continue metafore, citazioni e giochi di parole, dopo i trent’anni in Italia si fa fatica a prendere sul serio il rap.

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MARRACASH LIVE PER NIENTE DI STRANO

Questo disco potrebbe essere l’occasione per un cambiamento, in questo senso. Grazie a Persona profondità e grandi numeri potrebbero viaggiare di pari passo, come testimoniato dai dati sugli streaming, dai numeri pazzeschi registrati su Genius e dall’incredibile sequela di sold out già in programma per il Forum di Assago.

Persona è la prova che non sappiamo mai cosa ci riserverà il futuro. Che è l’unico motivo per continuare a andare avanti. "Non conta quanto hai perso prima, nella tua vita/ Chi ti ha fottuto l'autostima, chi ti incasina / C’è sempre un modo ed una chance / Finché nel petto suonerà." Se non è da supereroi questo, non sappiamo cosa lo sia.

Come dicevamo all'inizio, Marracash ha cantato davanti a una piccola folla in un ufficio al diciannovesimo piano della torre Unicredit. Il live era il sesto ed ultimo della serie Niente di Strano, organizzato da BuddyBank e Tidal, ed è stato davvero una figata. Lo potevi vedere in streaming su YouTube in diretta, ma se te lo sei perso non preoccuparti perché tanto puoi rivederlo qua sotto.

Quali sono gli album italiani più belli del decennio?

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Compilare le liste delle cose più influenti e/o belle del decennio è stato bello ma anche brutto. Il bello è stato rendersi conto di come le cose si sono evolute, riascoltare dischi che dieci anni fa ci esaltavano e renderci conto che—hey, erano davvero importanti, alla fine.

È stato brutto, invece, rendersi conto che ci eravamo dimenticati di cose splendide, e anche notare alcuni problemi del sistema-Italia—per esempio, la drammatica scarsità di diversità nelle liste che sono venute fuori. È stato anche brutto rendersi conto che era impossibile rappresentare davvero tutto e tutti. Per il prossimo decennio, quindi, speriamo che ci siano 1) più diversità 3) più rappresentanza 3) più cose sempre più nuove.

Per questa cosa di Best Of Decennio siamo limitati alla musica italiana perché di liste sulle cose del mondo ce ne sono già a caterve. Abbiamo tre pezzi: questo sui dischi, uno sugli artisti e uno sulle canzoni. Lungo l'articolo ci sono link ad articoli in cui avevamo parlato di quelle cose quando sono uscite. Ciao!

Tre Allegri Ragazzi Morti - Primitivi del futuro (2010)

I Tre Allegri sono fra i pionieri e i veterani dell'indie italiano. Suonano dal 1994 eppure, nonostante dopo di loro siano arrivate generazioni di nuovi musicisti, non hanno perso il loro fascino. E ci sono riusciti soprattutto perché hanno trascorso l'ultimo decennio a cambiare stile e sonorità restando sempre coerenti con i loro valori di base—la gioventù, l'andare contro, il fascino del mondo. Primitivi del futuro è l’album più riuscito di questa nuova fase: punk-rock storico rinfrescato dal reggae, in un momento in cui contaminarsi poteva anche essere un tabù. E con la loro poetica in grande spolvero: ideali, insicurezze, corpi che si strusciano, morte. (Patrizio Ruviglioni)

Ufomammut - Eve (2010)

Gli Ufomammut sono in giro da vent’anni e da vent’anni sono una delle versioni più giuste del rock, del doom e dello stoner italiano, e negli ultimi dieci finalmente il mondo intero l’ha capito. Con una formazione a tre, forti solo di chitarra, basso, batteria e pedaliere infinite, la band alessandrina ha sfornato un capolavoro dietro l’altro, firmando con una delle etichette più prestigiose del panorama doom/stoner/post, la Neurot dei Neurosis. Eve è un concept album sulla figura di Eva costruito su un’unica traccia divisa in cinque movimenti in gran parte strumentali, su cui Poia, Vita e Urlo fanno di tutto: soffrono, riflettono, incantano, evolvono, ma soprattutto spaccano i culi. Bonus: a latere della loro attività musicale, gli Ufomammut sono anche Malleus, uno dei collettivi artistici più apprezzati anche negli States, dove già diverse volte sono stati invitati a curare delle mostre personali. (Andrea Bosetti)

Uochi Toki - Cuore amore errore disintegrazione (2010)

Che coss’è l’amor? Non bisogna chiederlo al vento ma a Napo e Rico, gli Uochi Toki, che dopo quasi dieci anni insieme si sono inventati questo artefatto qua, dieci brani legati da un unico titolo e un unico tema: relazionarsi tra innamorat* e amat*, o anche solo infatuat* e oggetto dell’infatuazione, definiti dal contesto. Il loro album appena prima si chiamava Libro Audio, ma non che non lo sia anche questo, e forse di più. E procede per sovrapposizioni e spostamenti, slanci, sia nel testo che nella base, a creare una musica e una prosa con una consistenza simile al magma. Che brucia e fa male, però è anche molto affascinante. Come l’amore, che è sempre e comunque la cosa che più ci è piaciuta cantare in questa nostra nazione qua. (Elia Alovisi)

Be Forest - Cold. (2011)

Ad inizio decennio c’è stato un glitch che non solo ha fatto sì che un mix di post punk, dream pop e shoegaze tornasse d’attualità, ma anche che ai maggiori interpreti anglosassoni di questo revival venisse associata una band proveniente da una città di centomila abitanti tra Marche e Romagna. Con il loro disco d’esordio Cold., i Be Forest hanno attirato l’attenzione del pubblico internazionale, arrivando a fare lunghi tour negli USA e a suonare nei blasonati studi della KEXP. L’oscura coerenza stilistica fatta di ritmi martellanti, riff di chitarra che sembrano registrati nello spazio e voci angeliche, ha reso questo album un momento unico nella discografia italiana e ha puntato i riflettori sulle allora molto floride scene provinciali. (Tommaso Tecchi)

Crookers - Dr Gonzo (2011)

Parlando di italiani che hanno spaccato all’estero bisogna ovviamente menzionare i Crookers. Dopo quel remix di “Day ’N’ Nite” di Kid Cudi il duo milanese ha vissuto un momento di picco clamoroso suonando nei maggiori club del mondo e pubblicando un album, Tons of Friends, con ospiti come Major Lazer, will.i.am e persino Pitbull. Dr Gonzo, del 2011, è stato però il disco dell’affermazione definitiva: dentro c’è tutto il suono dei Crookers fatto di electro, blog house, hip hop e dancehall. Un ritorno al clubbing che non necessita di star mondiali, ma anche l’ultimo lavoro prima che il progetto diventasse solista e si rispostasse in Italia per la gioia di Massimo Pericolo. Per capirci meglio, Dr Gonzo è uscito su Southern Fried e Mad Decent, etichette rispettivamente di Fatboy Slim e Diplo. (Tommaso Tecchi)

I Cani - Il sorprendente album d’esordio dei Cani (2011)

Basterebbe l'iconica strofa finale di "Hipsteria" per spiegare perché questo album è fondamentale per il decennio appena trascorso. È forse il primo disco proto-indie di successo, con la sua attitudine underground sapientemente mitigata da synth ed electropop orecchiabile, ma soprattutto, è una fotografia perfetta di un’intera generazione. In undici tracce, i testi brillanti di Niccolò Contessa immortalano perfettamente le paure, le mode, le velleità, gli amori, le difficoltà e tutto ciò che ha caratterizzato i giovani italiani di questi primi Duemila. A distanza di quasi dieci anni, questo album suona ancora attuale e specchio collettivo di un modo di essere. (Cecilia Esposito)

Raein - Sulla linea d’orizzonte tra questa mia vita e quella di tutti (2011)

Il modo in cui i Raein dicono le cose, che poi è simile a quello dei loro fratelli La Quiete, è uno dei pochi per cui userei la parola “poetico” senza sentirmi di aver usato il termine a cazzo. Pubblicato gratuitamente e mezzo a sorpresa, Sulla linea d’orizzonte è un compendio del motivo per cui lo screamo italiano ce lo invidiano in tutto il mondo—il grido liberatorio e capolavoro di tensione che è “Se la notte sogno sogno di essere un maratoneta”, il lento crescendo di “Nirvana”, la dolce e lunga coda di “Come Materia Infinita”. È anche grazie a questo album che ci sono ancora gruppi che portano avanti questa forma musicale. (Elia Alovisi)

Verdena - WOW (2011)

Il fatto che i Verdena si facciano vivi poco, solo quando serve, non ce li deve far dimenticare. Il loro Wow è forse il vertice del rock italiano dal 2010 a oggi: illuminato dalla riscoperta pionieristica di Lucio Battisti (i Verdena!) e sporcato col pop, eppure ancora contorto, coi chitarroni e le distorsioni in bella vista. Nell'epoca dell’hype e della parcellizzazione delle uscite, loro hanno pubblicato questo doppio album pieno di grandi canzoni, alternativo, generoso negli spunti e spericolato nei riferimenti. Per quando non avremo niente in cui credere, ci resteranno sempre loro. (Patrizio Ruviglioni)

Dargen D’Amico - Nostalgia Istantanea (2012)

Quanto avrebbe poco senso oggi un album rap con due pezzi da venti minuti? Poco, per l’appunto. Ma Dargen D’Amico è sempre stato—ed è tuttora—un modello di persona che le cose le guarda un po’ da un’altra prospettiva. Il caso ha voluto diventasse un rapper, e i rapper che guardano le cose da un’altra prospettiva sono rari, e quindi preziosi, e quindi è per questo che Nostalgia Istantanea ha un valore enorme. Un disco senza pretese ma al contempo pretenzioso. Una contraddizione, proprio come il suo autore. “Se Dio si incarnasse ancora / Finirebbe su una croce tutta nuova / Ripreso dai telefonini in aria / Ecco che cos'è la nostalgia istantanea”, cantava, ed è bello leggerci un piccolo presagio degli otto anni che sono passati da allora. (Elia Alovisi)

Voices From The Lake - Voices From The Lake (2012)

Un album che gioca in Champions League, composto da due professionisti già rispettatissimi nelle rispettive carriere singole, qui alle prese con un progetto che ne ha fatto esplodere a livello mondiale la potenza messi in coppia. Donato Dozzy e il sodale Neel sono cresciuti nella scena del clubbing capitolino underground, allenandosi nell’ingegneria del suono e dei field recordings. Cuciono assieme quel che più amano, un flusso etereo di ambient, techno, dub, dilatazione spaziale ed evaporazione del reale allo stato atmosferico. Un’esperienza immersiva e senza fratture di ascolto e meditazione, uscendo dal corpo facendosi spirito per cercare un contatto con gli elementi della natura. Dozzy e Neel sono tribali, ancestrali, suonano cose che viaggiano al centro della Terra dove tutto nasce e da dove tutto prende forma. Se “Voices From The Lake” fosse un universo, Donato e Giuseppe ne sarebbero i Deus ex machina, creatori di mondi paralleli impalpabili. (Laura Caprino)

Craxi - Dentro i battimenti delle rondini (2012)

La storia della musica è costellata di esperimenti situazionisti, one-night stand musicali che vorremmo venissero replicati e invece niente. I Craxi ne sono un esempio perfetto: Enrico Gabrielli e Luca Cavina dei Calibro 35, lo splendido cantautore Alessandro Fiori e Andrea Belfi sono le quattro menti dietro a uno dei migliori supergruppi italiani di cui non avete mai sentito parlare, e che con il più noto Bettino hanno poco a che fare. Dentro i battimenti delle rondini è il loro unico album, così come unico era il loro sound che, tra ritmi isterici, fiati distorti e narrazioni allucinate, ha fatto innamorare la me diciannovenne—che all’epoca, neopatentata, adorava cantare in macchina: “Ok, mi bevo un altro bicchierino di rosso, poi vado a pisciare nel mestruo/Ok, ripasso i canti anarchici: la nostra patria è il mondo intero, parapapapa/Se non mi fermano i carabinieri sarà una buona serata anche per me, mi piace guidare da sbronzo, sono il mio passeggero.” Ascoltatelo, è invecchiato benissimo. (Giada Arena)

Noyz Narcos - Monster (2013)

Se Noyz Narcos è un diamante, Guilty è l’inizio della sua sgrezzatura ed Enemy è la sua definitiva levigazione. Monster è quello che ci sta in mezzo—con un piede nel sangue e nella merda e un altro nella maturità, che il sangue e la merda le sa capire e trasformare in arte. C’è tutto Noyz e l’ultimo TruceKlan in queste sedici canzoni, dalle distorsioni e le pance squartate di “Alfa Alfa” alla serenata arrugginita che è “My Love Song”, dalla street life di “Hasta La Muerte” alla narrazione di appartenenza di “Attica”. (Elia Alovisi)

Marnero - Il sopravvissuto (2013)

I Marnero sono ciò di cui abbiamo bisogno. Lo erano ieri, lo sono oggi, e visto come stanno andando le cose lo sarebbero anche domani, se un domani ci fosse. Eppure sono loro stessi a chiarire che il domani non c’è. Niente, ma proprio niente, è stato più incisivo e puntuale della poetica dei Marnero nel descrivere quanto hanno fatto schifo gli anni Dieci. Quel misto tra hardcore anni Novanta e influenze post-tutto (post-hc, post-metal, post-rock e soprattutto post-ritegno) che racconta le cose dall’unico punto di vista possibile: quello di chi è sopravvissuto, ma ha perso. Ogni frase de Il Sopravvissuto, o più probabilmente ogni frase dei Marnero rimbomba come una sentenza ineluttabile, una lettura lucidissima e incontrovertibile del nostro tempo. Sarà per questo che il gruppo bolognese gode della stima e del supporto di gente come Nicola Manzan (Bologna Violenta) e dei Wu ming. E quindi tutto bene, dai, a parte la vita... (Andrea Bosetti)

Wow - Amore (2014)

Amore è la genesi del progetto degli WOW: rispolverare Nada e Patty Pravo, ma anche Piero Umiliani e i Goblin, per creare un suono senza tempo, che non ha paura di rallentare per disegnare atmosfere e dare il giusto peso alle parole evocate. Con un titolo del genere il rischio di sembrare banali e poco ispirati era massimo, ma non c’è un singolo istante del disco in cui musica e testo non si fondano per rappresentare le tante sfumature di questo termine così inflazionato. Amore è arrivato prima della metà del decennio e in questo momento storico in cui l’odio sembra avere la meglio e le parole vengono trattate come carta igienica, prendersi mezz’ora per riascoltare questo album farebbe bene a tutti. (Tommaso Tecchi)

Madman & Gemitaiz - Kepler (2014)

All'uscita di Kepler, Gemitaiz e Madman erano la coppia d'assi del rap italiano. Erano i Gemelli Derrick, Mancini e Vialli, un dynamic duo inarrestabile. Il loro primo album ufficiale come coppia, dopo Haterproof e l'EP Detto Fatto, era attesissimo. L'apertura super aggressiva con "Il giorno del giudizio" e "Non se ne parla" non smentiva minimamente le aspettative. Invece di essere solo una lunga e impressionante cavalcata autocelebrativa sul loro successo, la magia vera di Kepler si consumava nelle ultime tracce: "Diario di bordo" e soprattutto "I don't care". È lì che la coppia non nasconde di avere problemi che molti dei loro ascoltatori non avrebbero mai immaginato potessero avere. "Io non avevo un bel niente a parte i problemi nella mia testa / Adesso da quando stanno nell'album sono di un altro / Cosa mi resta?" Difficile rispondere, ma a noi resta un album incredibile. (Riccardo Primavera)

Populous - Night Safari (2014)

Verso la metà degli anni Dieci tutte le produzioni elettroniche e i DJ set su territorio nazionale sembravano orientati verso la cosiddetta world music: una cosa nuova per l’industria italiana, una proverbiale ventata d’aria fresca dovuta all’anima e alla natura di quello specifico sound. Night Safari di Populous è stato un po’ l’emblema di quel momento, di quelle atmosfere difficilmente recintabili in confini geografici e sonori definiti. Scuri bassi 808 scuotono sonorità ariose e tropicali prese in prestito da Africa, Sudamerica, Asia e chissà dove, facendo convivere una propensione melodica squisitamente pop e l’invito a danze infinite. (Simone Zagari)

Valerio Tricoli - Miseri Lares (2014)

Tra le pieghe dei suoni che formano i dischi di Valerio Tricoli ci sono vaghi sentori, presenze sorprendenti. Possiamo chiamarla musica elettroacustica, o anche musica ambient, o anche improvvisazione, ma non cambia niente: nessuno in Italia, come in buona parte del mondo, è riuscito a creare musica così spettrale, sospesa tra estrema chiarezza e complessità latente. Miseri Lares, uscito per l'etichetta del suo amico e grande estimatore Bill Kouligas, è la sua opera più inquietante—le voci e gli scoppiettii di "La Distanza", l'improvviso battito metallico a metà di "In The Eye Of The Cyclone", il dolce trapano che sembra accendersi e spegnersi lungo "Le Qoeleth". (Elia Alovisi)

Sfera Ebbasta & Charlie Charles - XDVR (2015)

L’esordio di Sfera e Charlie è uno dei pochi album per i quali si può tranquillamente e con cognizione di causa parlare effettivamente di trap in Italia, parola decisamente abusata nel raccontare il “nuovo rap italiano”. Ormai siamo abituati a un artista luminoso, colorato, felice, celebratorio: per le orecchie che sono arrivate a lui dal 2017 in poi potrebbe essere una sorpresa riscoprirne il lato più scuro e paranoico, ma è in questo disco che stanno i pezzi che ne hanno rivelato il talento. (Federico Sardo)

Father Murphy - Croce (2015)

Un sottotitolo di questo disco potrebbe essere La Passione della Psichedelia Occulta Italiana. I Father Murphy, duo (a partire da questo disco) veneto che a cavallo tra anni Zero e anni Dieci aveva rappresentato il lato più oscuro e inaccessibile della nuova musica sperimentale italiana, con Croce si concettualizzano al massimo, in un viaggio buio e inquietante dentro il senso di colpa cattolico. In Croce si trovano soltanto schianti, riverberi, litanie e meditazioni: di musica ce n’è pochissima, di atmosfera invece a palate. Sul Golgotha di questo disco, dal sangue raccolto sotto la Croce, è nata una nuova generazione di musicisti che portano avanti un modo unico al mondo di fare psichedelia. (Giacomo Stefanini)

Iosonouncane - DIE (2015)

Iosonouncane è senza dubbio uno degli artisti più interessanti ad essere emersi dall’underground italiano in questi anni Dieci e DIE è un disco monumentale che ha colto tutti di sorpresa. Dentro c’è tutto quello che ci auspichiamo per la nostra musica indipendente nel futuro, soprattutto per quanto riguarda il tentativo di creare qualcosa di unico e la maniera di rendere omaggio a grandi come Dalla e Battisti. Mentre tanti cantautori e band si limitano ad emulare artisti inarrivabili, Iosonouncane è riuscito ad utilizzarli come base per un lavoro molto personale e con pochi punti di riferimento, dove l’elettronica, gli strumenti analogici e i testi criptici collaborano in maniera eccellente. Ah, e dentro c’è pure una hit molto radiofonica. (Tommaso Tecchi)

Calcutta - Mainstream (2015)

Tralasciando i cloni che ha generato, e che comunque dicono molto del suo impatto, Mainstream è stato l'album che ha scritto per sempre il nome di Calcutta nella storia della nostra musica, nonché il primo, grande successo culturale di un artista appartenente al fu indie italiano. Oggi quello che resta è un disco pop cristallino: col ritornello di "Gateano" da cantare a squarciagola, gli arrangiamenti ammiccanti al lo-fi di "Cosa mi manchi a fare", i bridge in stile britpop e i testi iconici dal taglio generazionale di "Frosinone" Ma nel 2015, quando uscì, fu uno spartiacque che, con la sua estetica, mandò per sempre in crisi il vecchio pop, quello dei talent e delle major, dimostrando che qualcosa di "diverso" era, forse, possibile. (Patrizio Ruviglioni)

Tedua - Orange County Mixtape (2016)

C’è questa cosa molto difficile da fare, quando fai qualsiasi tipo di arte, che si chiama world building. È quel processo per cui non racconti solo una storia ma crei uno spazio fisico, emotivo e storico in cui quella storia si dipana e ramifica. Tipo: Il Signore degli Anelli o Il Trono di Spade non sono romanzi e basta, sono mondi con una loro storia e mitologia. Bene, nessuno nella nuova scuola ha saputo creare un mondo con il suo rap come Tedua, che ha disegnato i confini del suo, che è un po’ una California dell’anima, attorno alla Liguria e alla Lombardia. Li ha popolati di una gioventù spudorata, di caldo che brucia la sabbia e l’asfalto, di un gruppo di amici pieni di gioia e dolore. (Elia Alovisi)

Dark Polo Gang - Crack Musica (2016)

Lo dico? Lo dico: l’album che ha spaccato in due l’Italia. Chi li amava, chi li odiava, chi non capiva che sentimenti provare; ciò che è certo, però, è che tutti parlavano della Dark Polo Gang e del loro mixtape più rappresentativo. Crack Musica è stato un lavoro di rottura su tutti i fronti, dal sound oscuro forgiato dai beat di Sick Luke agli argomenti trattati da Tony, Side, Pyrex e Wayne con quel linguaggio alieno e quell’attitudine perennemente in bilico tra il serio e l’ironico. Tracce come “C C”, “Mafia” e “Cavallini” hanno posto le radici per i trend degli anni a venire, rampa di lancio per la trap tutta e principio di un successo incalcolabile. Tutto questo oggi non esiste più, ma Crack Musica simboleggerà sempre l’inizio di qualcosa di rivoluzionario. (Simone Zagari)

Krano - Requiescat In Plavem (2016)

Gli anni Dieci avevano trasformato il garage rock italiano in un genere da barzelletta. Per fortuna dai monti del Veneto è arrivato Krano, la barba lunga e l’aria di uno che è un po’ di tempo che non parla con nessuno, almeno non in italiano. Requiescat In Plavem è un disco unico, intimo, registrato su nastro, in casa, dal suono polveroso e vintage, ispirato al country, al folk e dall’attitudine low-budget anni Novanta. Ed è cantato tutto nel dialetto di Valdobbiadene, che anche se non lo capisci comunica una tale sincerità che non si può non restarne colpiti. Poi mettici che Krano è uno che è capace di scrivere, suonare e registrare una canzone per davvero, e ottieni uno dei dischi con le chitarre più belli del decennio. A livello mondiale, intendo. (Giacomo Stefanini)

Marracash & Gué Pequeno - Santeria (2016)

L’incontro tra due dei più grandi talenti del rap italiano ha generato quello che a tutti gli effetti si può già definire un classico. Pezzi old school e pezzi trap, testi introspettivi e testi leggeri, molti stili diversi ma una scrittura sempre di livello altissimo, che tra giochi di parole, metafore e citazioni non fa che ricordarci che si tratta di due tra le penne più forti d’Italia. E che la vendibilità non deve per forza andare di pari passo con la scarsa qualità. (Federico Sardo)

Carl Brave x Franco126 - Polaroid (2017)

Se in Italia parliamo di graffiti pop, cioè di un genere che unisce il nuovo pop e l'hip-hop, gran parte del merito di questo disco. Polaroid di Carl Brave e Franco126 è l'anello mancante di cui avevamo bisogno ma che non sapevamo di volere, nonché l'apripista al successo di un colosso come Coez o di Frah Quintale. E, nonostante adesso i due artisti abbiano preso strade diverse, resta un gioiello per tanti motivi: il flow morbidissimo, le basi suonate come un bignami lo-fi dell'itpop, i testi instant-romantici di una generazione social e disillusa. Le "noccioline" dell'aperitivo, lo schimico "dallo zozzone", tu che sorridi sempre "ma si vede che t'annoi". Un cumulo di frasi cult con un’anima nera post-adolescenziale (la spettrale "Lucky Strike", la cupa "Enjoy", la malinconia di "Per favore"), dentro storie di romana quotidianità in cui succede tutto—e alla fine non succede niente. (Patrizio Ruviglioni)

Caterina Barbieri - Patterns of Consciousness (2017)

In una società afflitta da overload informativo e deficit dell’attenzione, Patterns Of Consciousness di Caterina Barbieri ci obbliga a fermarci, a prenderci del tempo. Le composizioni ambient dell’artista, tra pad e arpeggi modulari, fluiscono lente e meditative, astraendo l’ascoltatore dalla frenesia quotidiana e mettendolo a tu per tu con il suo io interiore. Patterns Of Consciousness sa essere ora caldo ora siderale, doloroso e al contempo confortante, sempre e comunque ascetico e commovente. (Simone Zagari)

Coez - Faccio un casino (2017)

Coez, è riuscito a passare dal rap al cantato, poi al rap-pop, per arrivare all’Itpop prima di molti e farlo anche bene. Sì, perché se Calcutta sta all’indie, possiamo dire che Coez sta all’Itpop. Silvano è planato, non senza rischio di cadere, su questi generi per atterrare sano e salvo al suo Faccio un Casino, un album che ha sancito la liberalizzazione definitiva del mondo “indie” nel pop. Complici melodie leggere, ritornelli azzeccati e frasi perfette per caption da Instagram, Coez ha dimostrato che si può fare del buon pop da radio senza fare un casino, ecco. Il successo dell’album, infatti, è dovuto certamente a una produzione accattivante e a versi killer che ancora cantiamo sotto la doccia, ma soprattutto al fatto che Coez è rimasto prima di tutto Silvano. Tra sfighe, vita vera e amori cantati in rima, la sua persona traspare da ogni singola traccia dell’album e un artista che è se stesso in ogni suo lavoro non può non piacere. (Cecilia Esposito)

Ketama126 - Rehab (2018)

Verso la fine del decennio, mentre la trap pura iniziava ad essere un po’ ridondante, un rapper romano con alle spalle già qualche mixtape si è presentato al grande pubblico con Oh Madonna, un disco che dava una rinfrescata al suono della nuova scuola senza rompere così nettamente con il rap tradizionale. Con l’album successivo, Rehab, Ketama126 ha invece trovato la sua dimensione definitiva portando in Italia le influenze dell’emo rap statunitense. Tra gli elementi decisivi di questo disco c’è il fatto di aver letto in anticipo dove si stava dirigendo questo genere dopo lo scossone della trap, il superamento di ulteriori tabù nei testi musicali italiani, soprattutto in quanto al tema della droga, e ovviamente il contributo dato al successo della Love Gang. (Tommaso Tecchi)

Gabber Eleganza - Never Sleep #1 (2018)

Alberto Guerrini irrompe sulla scena inventandosi un progetto che è una specie di scatolone dei ricordi della cultura Gabber: fanzine, illustrazioni, dresscode e hardmusic, portati a conoscenza da una nicchia di cultori al grande pubblico. Gabber Eleganza è un omaggio a un movimento underground tra i più resistenti d’Europa, una dedica d’amore alla sua estetica di teste rasate e tute dell’Australian. Editando il famoso logo dell’italiana Permaflex, Guerrini lancia il motto “Never Sleep”, sostituendo al materasso su cui riposa in pigiama l’omino disegnato una pasticca di ecstasy. L’EP è una rivisitazione al 2018 dell’hardstyle, modellata sull’eco techno berlinese—che di Guerrini è casa, e sulla destrutturazione elettronica. Perchè Gabber Eleganza è un’agiografia di un mondo a parte, di un pezzo di universo radicale, e come tale lo rende accessibile a chi, nel 2018, del Number One di Brescia non ha mai sentito parlare. Un dipinto della Gabber come controcultura, in cui si dorme poco e si sogna tanto. (Laura Caprino)

MACHETE - MACHETE MIXTAPE 4 (2019)

Il MACHETE MIXTAPE 4 è la celebrazione del successo di un progetto iniziato molti anni prima da un gruppo di ragazzi sardi a cui piacevano le cose violente, le punchline e il grezzume. Con il passare del tempo hanno accolto persone da tutta Italia nelle loro fila, e così sono diventati tanto variegati da guadagnare il rispetto di vecchi e giovani, veterani ed esordienti. E così si accoppiano nomi, si incrociano destini, si esalta un pubblico intergenerazionale. Si fanno incontrare Massimo Pericolo e Fabri Fibra, si ridà luce alla carriera dei Linea 77, si lanciano l'una contro l'altra le melodie storie di tha Supreme, Tedua e Nitro. Si scrivono hit su hit, senza soluzione di continuità. (Elia Alovisi)

Marracash - Persona (2019)

Il disco che tira le fila della carriera di Marracash e la esplode—in senso assonometrico—agli occhi dell'intera nazione. Tutte le parti del corpo e dell'arte di Marra sono lì, insieme, davanti ai nostri occhi. Un ragazzo capace di usare il cazzo, annusare il sangue e allenare muscoli ed ego, ma con un cuore enorme che continua a battere, un'anima tenera, uno stomaco che sa stringersi. Lungo il corso della sua carriera, non erano mai state così chiare ed evidenti. Così come il suo peso culturale e artistico, suggellato da enormi risultati di critica e pubblico. (Elia Alovisi)

PSICOLOGI - 2001 (2019)

Drast e Lil Kaneki sono stati svezzati entrambi da SoundCloud, uno spazio musicale dove le grida belluine e l'intimismo adolescenziale da chitarra acustica convivono come se fosse la cosa più naturale del mondo. Quando si sono concentrati sulle secondo, però, hanno trovato senza volerlo una formula perfetta per cominciare a raccontare la loro generazione—figlia di divorzi ma piena d'amore, sfiduciata dal mondo ma attiva e volenterosa. Gli PSICOLOGI sono l'affermazione della vita e dell'impegno sull'apatia e il menefreghismo. (Elia Alovisi)

Pufuleti - Tumbulata (2019)

Ma chi se lo sarebbe aspettato che a fare il primo disco rap italiano sperimentale, pazzo, destrutturato e brutalmente eccitante dopo anni e anni di egemonia della nuova scuola e della tradizione sarebbe stato un ragazzo quasi del tutto tedesco? In Tumbulata di Pufuleti c'è la voce di un ragazzo che con gli argomenti del grande rap contemporaneo—il successo, la rivalsa, i soldi, la moda, gli amici e i nemici—non c'entra assolutamente niente. È espressione pura, il rap di Pufu, un frullatore mediatico e culturale in cui il linguaggio si disfa e si concretizza nell'underground più vero. (Elia Alovisi)

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Quali sono le canzoni italiane del decennio?

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Compilare le liste delle cose più influenti e/o belle del decennio è stato bello ma anche brutto. Il bello è stato rendersi conto di come le cose si sono evolute, riascoltare dischi che dieci anni fa ci esaltavano e renderci conto che—hey, erano davvero importanti, alla fine.

È stato brutto, invece, rendersi conto che ci eravamo dimenticati di cose splendide, e anche notare alcuni problemi del sistema-Italia—per esempio, la drammatica scarsità di diversità nelle liste che sono venute fuori. È stato anche brutto rendersi conto che era impossibile rappresentare davvero tutto e tutti. Per il prossimo decennio, quindi, speriamo che ci siano 1) più diversità 3) più rappresentanza 3) più cose sempre più nuove.

Per questa cosa di Best Of Decennio ci siamo limitati alla musica italiana perché di liste sulle cose del mondo ce ne sono già a caterve. Abbiamo tre pezzi: questo sulle canzoni, uno sugli artisti e uno sugli album. Lungo l'articolo ci sono link ad articoli in cui avevamo parlato di quelle cose quando sono uscite.

IOSONOUNCANE - “La Macarena Su Roma” (2010)

Ok DIE, ok il concept album à la Lucio Battisti, ok tutto, ma il pezzo più straordinario mai scritto da Jacopo Incani—in arte Iosonouncane, senza alcun dubbio uno dei migliori cantautori della nostra generazione—è "La Macarena Su Roma". Non è una canzone: è un’allucinazione di nove minuti e mezzo, la narrazione quasi cinematografica (sicuramente catodica) della discesa nella follia dell’italiano medio, spettatore passivo e lobotomizzato di telegiornali mediocri e trasmissioni volgari—vi ricordate i trenini di Buona Domenica? Ascoltata oggi, ha un valore quasi archeologico nel raccontare perfettamente nevrosi, frivolezze e frustrazioni di un’Italia sedotta dall’illusione della “libertà è partecipazione” poco prima dell’esplosione dei social media (e della piattaforma Rousseau). (Giada Arena)

Fabri Fibra - “Vip in Trip” (2010)

Uno dei pezzi più significativi del 2010 ha un testo che dice “Pa pa para para pa pa para” e “Perepé qua qua, qua qua perepé”. Ma dato che lo firma Fabri Fibra, e dato che dice anche parecchie altre cose, eccoci qua a parlare di "Vip in Trip", primo singolo estratto da Controcultura. Un pezzo che resta, oltre che per il suo giro di basso, per il modo in cui fa quella materia delicatissima che è la satira sociale. Fibra non ha timore di nominare partiti: “Pensi che la beva come chi, come chi vota Lega?” E scende una lacrima, che la Lega del 2010 era ancora quella della secessione e di Bossi. Inoltre, Fibra dimostrava il dono della preveggenza: "Ho un amico che si chiama da solo / Si manda i messaggi con su scritto tesoro/ Si guarda allo specchio dicendo 'ti adoro' / Vorrei dirgli 'ma trovati un lavoro'." E insomma, è così che sono nati gli influencer. (Carlotta Sisti)

Mecna - "31/07" (2010)

Siamo davanti a un apice del Mecna-pensiero: un rap tristissimo su un amore vissuto fra malinconia, orgoglio e WhatsApp. Il lavoro, le ferie, le vacanze. Tu da solo, lei in giro. "La leggenda del 31, tipo fine, fuochi d'artificio. / Sto pensando al mare dall'ufficio". È il Corrado più duro e riuscito: una base asciutta che è "Avril 14th" di Aphex Twin, la produzione grezza, il testo urgente con un crescendo ("Quanto manchi?") da antologia che è un pugno allo stomaco. Dentro "31/07" ci sono dieci anni di relazioni sfasciate, storielle del liceo ed ex fidanzate a cui tanti hanno dedicato questo pezzo. E la sua magia è soprattutto qui: nella condivisione. (Patrizio Ruviglioni)

Noyz Narcos - “Zoo de Roma” (2010)

Da romana, spesso mi chiedo: cos’è la romanità? Non è quella dei cliché, delle fontane settecentesche inquadrate nei film o dei salotti bene, ma è quella dei palazzi, delle buche, degli autobus che prendono fuoco e dei decenni di attesa per avere una casa popolare. È un mix di nichilismo, rabbia, rassegnazione, ironia, “coatto pe’ necessità” insomma, e Noyz è il suo perfetto cantore, il Francesco Totti del rap capitolino. In “Zoo de Roma” racconta senza troppi giri di parole la Roma dell’era Alemanno, l’inizio di una decadenza che sembra non essersi ancora conclusa—così come non si è conclusa l’ascesa di Noyz, che con Guilty si è messo al centro della scena e, dieci anni dopo, è ancora lì. (Giada Arena)

Dargen D’Amico - “Malpensandoti” (2011)

Dargen prende la macchina e va a Malpensa a prendere, dopo mesi che non la vede, una persona con cui condivide una cosa che è amore, però un amore di quelli un po’ complessi. Mentre guida ci rimugina, ci sdigrigna i denti, ci sorride e ci fa venire i brividi per come spiega bene quello che fanno le distanze alle persone. È solo una lunga strofa, senza ritornello—se non in fondo, quando viene fuori un gioco infame di distanze, nel corpo e nella mente, che “non so se sei lontana o vicina / come i bimbi la TV”. (Elia Alovisi)

Gué Pequeno - “Il ragazzo d’oro (feat. Caneda)” (2011)

Il suono è quello crudo e minimale che comincia ad andare in America. I testi sono crudi e potenti, senza giri di parole e con uno stile di scrittura super diretto. La ripetizione da parte di Caneda della parola “bianco” torna per trenta volte. Un pezzo che nel 2011 era semplicemente troppo avanti, e diventa una hit grazie ai fan e grazie a Internet, quando le radio non erano ancora decisamente pronte a questo genere di cose. (Federico Sardo)

Salmo - “L’erba di Grace” (2011)

Le prime impressioni sono molto importanti e Salmo ha ben pensato, ormai otto anni fa, di dire al rap italiano che era arrivato a rompergli i coglioni con una produzione drum & bass col basso bello wonky e un testo che cola sangue da ogni barra. Forse senza volerlo, ci spiega le coordinate della sua voce, quella che aveva allora appena cominciato a conquistare l'Italia. "E tutto sembra fuori posto tranne il mio disordine", cantava, suggerendo lo scontro tra il suo ego che sgomita e il mondo con cui si relaziona e la scena in cui esiste. E ancora, "L'Italia e la sua musica per checche isteriche / Se la mia voce è nel tuo pc, schizza sangue dalle periferiche", detto tutto veloce sulla base che si ferma, come a voler sottolineare il senso profondo di queste parole. (Elia Alovisi)

Verdena - “Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme” (2011)

"Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme" ha un arrangiamento stupendo, una melodia che ti manda in orbita. È un pezzo fuori dal tempo, non perché invecchia benissimo ma perché non invecchia proprio. È un mantra tantrico, con la parte ritmata che ti invischia in un loop ai limiti dell'erotico. I Verdena sono ragazzi di poche parole nella vita reale, ma quando scrivono i loro testi non sense ci danno dentro eccome. "Razzi" non cambia il discorso; però, più di altre volte, le parole sono—e non riesco a trovare un termine più figo da recensore vero—“giuste”. Suonano come un vespro, sembrano pittura su tela, nera e rossa. E ti fanno sentire come se Roberto Benigni non fosse mai esistito. (Carlotta Sisti)

Emis Killa - “Parole di Ghiaccio” (2012)

Il 2012 era una vita fa, eppure sotto al video di “Parole di ghiaccio” i commenti più quotati sono ancora “chi la ascolta nel 201x?”. Siamo di fronte ad uno dei pezzi simbolo del primo Emis Killa, quello che flirtava col pop e che metteva i sentimenti in rima. La fine di una relazione tempestosa si posa su un giro di pianoforte e su un beat vecchia scuola firmato da Big Fish, Zangirolami ed Erba, culminando in un ritornello impossibile da dimenticare. Nella sua urgente e sincera semplicità, “Parole di ghiaccio” è diventata la ballad più iconica del rap italiano. (Simone Zagari)

Club Dogo - “P.E.S. (feat. Giuliano Palma)” (2012)

Il primo grande merito di “P.E.S.” è stato quello di riesumare Giuliano Palma, e anche se siamo in tempi di ok boomer, mi salgono i porconi se non sapete chi sono i Casino Royale. Giuliano, che ai tempi in cui metteva la voce in “Aspettando il sole” di Neffa si faceva ancora chiamare “The King”, era finito in un mesto dimenticatoio. E poi sono sono arrivati Joe, Guè e Jake a proporgli di fare la voce soul in un pezzo rap che parla di un videogioco. Operazione svecchiamento che sulla carta sarebbe potuta finire malissimo—un momento di raccoglimento per i Due di Picche, composti da Neffa e J-Ax e durati meno di una mano di briscola—ed invece è diventata una figata. E i Dogo erano in formissima, sia nelle parti più sbraco che in quelle più emo: "Dedicato a chi ha il diploma eppure non lavora / Dedicato ai miei fratelli con lavori strani / Tipo che iniziano la sera fino all’indomani / Per comprare nuove Nike e giochi della Play”. (Carlotta Sisti)

Fine Before You Came - “Sasso” (2012)

C’è stato, per qualche anno, uno smuoversi di persone e sentimenti in tutta Italia. Una rete di persone che ha costruito una scena che c’entrava con le parole “emo”, “punk”, “DIY”. C’è ancora, quella scena, ma il suo momento di apice è stato quello in cui sono uscite cose come “Sasso”. Il suo lento incedere, come una calamita, attira a sé chi ha una di quelle sensibilità per cui i pugni chiusi nelle tasche, la pioggia e le matasse che non si riescono a sbrogliare sono generatrici di brividi. (Elia Alovisi)

Pop X - “Cattolica” (2013)

Davide Panizza e i suoi amici hanno fatto la cosa più difficile di sempre nel far musica, cioè fare una cosa che suona tutta semplice e naïf ma ha una poetica così complessa e splendida in tutte le sue sfaccettature che è un casino da spiegare. Non credo ci sia modo migliore per farlo se non con una cosa che ho già scritto sulla canzone che meglio contiene questa dicotomia, cosa che ora copio-incollo. "Stai qui con me nell'acquario di Cattolica" è una frase all'orizzonte degli eventi, e una volta pronunciata le leggi della fisica smettono di aver senso. Puoi trovare "una morte parabolica", la tua "essenza più ecologica", "una memoria psichedelica", e tornare (o arrivare?) al tempo indefinito "in cui correvi senza mutande, in cui c'avevi tre anni e ti importava di niente". E un bambino che si impiastriccia con la sabbia mezzo nudo e corre felice e piangente senza motivo è l'immagine giusta, credo, per spiegare quello che Pop X vuole comunicare. (Elia Alovisi)

Fast Animals & Slow Kids - “A cosa ci serve” (2013)

Le cose che dicono i Fast Animals And Slow Kids sono di quelle che fanno provare un senso di repulsione a chi è un po’ cinico, serioso, intransigente, sia nella vita che nei consumi culturali. Ci sta che quando le chitarre crescono e crescono, le voci si fanno coro, e nel silenzio prima della carica Aimone grida “LO SO CHE È MEGLIO SE ESPLODO!” vengano i brividi brutti. Però ci sta anche che vengano quelli belli, no? Quelli che accettano l’esagerazione, il pathos, la hybris, i gesti plateali, se fatti da persone che li fanno perché, sotto sotto, davvero li fanno sinceramente. E nessuno che suona con le chitarre, in Italia, ha saputo creare un campo sentimentale forte come questo negli ultimi dieci anni. “A cosa ci serve se non ci crediamo più”, no? (Elia Alovisi)

Clap! Clap! -"The Rainstick Fable" (2014)

Quando il Guardian ha chiesto a Cristiano Crisci che canzone metterebbe al suo funerale, lui ha scelto "The Rainstick Fable" perché "è un pezzo pieno di bassi", e quindi perfetto per fare casino un'ultima volta. Bassi a parte, è un'ottima scelta: l'estratto perfetto da Tayi Bebba, suo LP d'esordio a nome Clap! Clap!, ariete che gli ha permesso di sfondare i cancelli della scena elettronica internazionale a forza di ibridazioni transnazionali. Nella sua musica ci sono la tradizione italiana, le percussioni dell'Africa dell'ovest, la footwork, campionamenti che arrivano da ovunque. Se ne accorse il DJ della BBC Gilles Peterson, che cominciò a supportarlo. Se ne accorse Paul Simon, quel Paul Simon, che lo fece lavorare ad alcune sue tracce. Ce ne siamo accorti noi, che ancora oggi balliamo ai suoi ritmi frenetici, con le casse toraciche che vibrano. (Elia Alovisi)

C’Mon Tigre - “Federation Tunisienne De Football” (2014)

Nel 2014, “Federation Tunisienne De Football” e l’omonimo album in cui è contenuta sono stati un piccolo miracolo di contaminazione: non solo hanno segnato l’esordio dei C’Mon Tigre, polimorfo e validissimo collettivo di musicisti, ma hanno contribuito a far sbocciare nel nostro paese delle sonorità che poco hanno a che vedere con l’occidentalissima musica che siamo abituati ad ascoltare. Per capire cosa intendo, basta guardare il video che accompagna il pezzo: una partita di calcio, dei piedi nudi, elefanti, sabbia, colori. La musica dei C’Mon Tigre è così: la ascolti e ti senti sulla pelle il calore del sole, l’odore del Mediterraneo. (Giada Arena)

Claver Gold - "Soffio di Lucidità" (2014)

"Il compromesso che non ho accettato già da prima / Altrimenti troveresti la mia faccia in copertina." Sta tutto qua, in queste due semplici frasi, Claver Gold. Un rapper che è rimasto orgogliosamente fedele alla tradizione dell'hip-hop ma senza mai chiudersi in una mera difesa di un piccolo regno—Claver accoglie. Con le sue rime ti tira da una parte e poi da un'altra. Ricorda a quelli come me, che scrivono ora, che "Su riviste e su giornali qui non conta quanto vali / Sono tutti buoni amici quando paghi e quando sali", e nel giro di qualche barra parla della "Calamità di un guaio sceso nel gelo a Gennaio". Tutto a un tratto ti rendi conto che è un amore: "Sopra il mio cuore d'acciaio venne la tua calamita". E che è amore ogni cosa di cui canta, Claver. Amore per sé stessi, per l'amicizia, per i valori, per la propria Terra, per la bellezza. (Elia Alovisi)

Ghemon - "Adesso sono qui" (2014)

Semplicemente il primo pezzo del nuovo Ghemon. Quello che un tempo cantava Qualcosa cambierà e poi ha cantato Qualcosa è cambiato, ma non era cambiato davvero. Dentro continuavano a fluttuargli fantasmi, i suoi piedi erano bloccati a terra dalla tradizione del rap. "Un’altra parte di me spingeva per venire fuori, ma non era accettata [dalla scena]", ha detto quest'anno, e "Adesso sono qui" è esattamente il momento in cui è venuta fuori. "E non mi importa più di tutto ciò che è stato / Non c'è la rabbia e la paura che mi ha spaventato", canta Ghemon, che adesso è qua e lo resterà sempre. (Elia Alovisi)

Maruego - “Click Hallal” (2014)

Qui comincia tutto. Se pure Maruego in seguito è stato superato in popolarità da molti suoi colleghi, nell’estate del 2014 il suo modo di fare rap sembrava arrivato da un altro pianeta. Prodotto dai 2nd Roof e appoggiato da nomi di peso come quelli di Gué, Caneda e Tormento, Maru è stato il primo a farsi notare facendo qualcosa di assolutamente diverso in Italia, il primo a percorrere la strada che poi ha portato all’esplosione definitiva delle sonorità trap. (Federico Sardo)

Riviera - "Camminare sui muri" (2014)

Uno dei motivi per cui l'emo italiano non si è evoluto tanto negli ultimi dieci anni è che molte delle nuove leve si sono limitate a provare a rifare le cose che gli avevano sinceramente trafitto il cuore di bellezza. Al netto del valore della loro musica, tanti gruppi nati negli anni dopo Sfortuna dei Fine Before You Came si sono risolti in un disco, un EP, qualche concerto e niente più. I Riviera, invece, sono ancora qua. Perché sono tra i pochissimi ad essersi costruiti un'identità, una fanbase, un immaginario condiviso ma innegabilmente loro. La tromba, le sfuriate, la dicotomia io-te, le immagini assurde ma perfette—come quella che chiude la loro hit "Camminare sui muri", cioè "Coi lacci rotti ho fatto un nodo che mi servirà, da traccia per il mio ritorno, sembra stretto." Ancora oggi, sentirla dal vivo è ricordarsi perché l'emo sa accendere così tanto l'anima. (Elia Alovisi)

Calcutta - “Che cosa mi manchi a fare” (2015)

Dopo quel 27 settembre 2015 l’indie in Italia non è stato più lo stesso. Col cuore in mano, Calcutta urlava che non gli importava di non essere più amato e che avrebbe solo dovuto reimparare a camminare da solo. Un’immagine tanto semplice quanto evocativa che immediatamente ha affascinato tutti, anche il grande pubblico. Perché in meno di 3 minuti Calcutta ha dato a una generazione un inno d’amore amaro, schietto e allo stesso tempo nazionàl-popolare, che ti fa sentire capito, meno solo, perché anche tu, come tutti gli altri che cantano questa canzone, stai vivendo quelle emozioni. È un brano che può essere di tutti e di nessuno allo stesso tempo, in cui chiunque può rivedersi, ma allo stesso tempo non riusciremo mai a capirlo veramente, un po’ come l’amore. Ed è per questo motivo che lo abbiamo scelto come nostro canto di vittoria dei cuori infranti. (Cecilia Esposito)

Machete - “Battle Royale” (2015)

Un loop ipnotico di otto minuti e mezzo tutto bassi e batteria su cui MadMan, Nitro, Rocco Hunt, Salmo, Bassi Maestro, Hell Raton, En?gma, Noyz Narcos, Rasty Kilo, Gemitaiz e Jack The Smoker (ok, tirate pure il fiato adesso) danno il meglio di sé. “Battle Royale”, emblema della famiglia Machete e del loro concetto di Mixtape, è LA posse track del decennio, certo, ma è anche qualcosa in più. Queste 11 strofe senza ritornello sono genuina comunione d’intenti, l’incarnazione di un modo di intendere e fare rap che troppo spesso oggi sembra scomparso. Quando ne avremo abbastanza dei social, del gossip e dello spettacolo sono sicuro che ci ritroveremo tutti qui, alla vera essenza di ‘sta roba. (Simone Zagari)

Dark Polo Gang - “Cavallini (feat. Sfera Ebbasta)” (2015)

Prima del 2015 il rap mainstream in Italia si divideva tra pochi nomi che si erano costruiti una credibilità negli anni—come Fabri Fibra, Marracash e i Club Dogo—e nomi relativamente nuovi che si erano fatti trascinare troppo presto nel giro di Sanremo. Poi sono arrivati due mixtape che hanno sbloccato la situazione: Full Metal Dark della Dark Polo Gang e XDVR di Sfera Ebbasta. Mentre le rispettive fanbase crescevano con una rapidità senza precedenti, tanti critici e ascoltatori presi in controtempo provavano a difendere quello che consideravano “il vero rap” contro la trap. " Cavallini", il singolo in cui finalmente le due realtà, Roma e Milano, si incontrano, è uno schiaffo ai conservatori e una sentenza su come la musica italiana sarebbe cambiata da quel momento in poi. (Tommaso Tecchi)

MYSS KETA - “Le ragazze di porta Venezia” (2015)

Il 19 ottobre 2015 un gruppo di ragazze portò scompiglio a Milano, nel quartiere di Porta Venezia. Era un’emergente Myss Keta con le sue ragazze che, con le loro provocazioni, diffusero la loro voglia libertà in città. Ma era solo l’inizio. Il brano è diventato un vero manifesto al femminile, una sorta di Girls Just Wanna Have Fun degli anni Duemila. Con ironia e provocazione, e una buona dose di trash intelligente, questo brano è stato per Myss Keta il passo a gamba tesa per diventare un’icona femminista e LGBT+ del nostro decennio. La forza del brano sta nel suo essere un inno di libertà e spensieratezza, ma anche di affermazione e lotta a colpi di tacco a spillo per tutte le persone che, in un modo o nell’altro, si sentono un po’ ragazze di Porta Venezia. Il resto è storia—oppure leggenda. (Cecilia Esposito)

Bello Figo - “No Pago Affitto” (2016)

Correva l’anno 2016, di lì a pochi mesi Matteo Renzi avrebbe perso il referendum costituzionale e fatto cadere il governo, e in piena polemica anti-migranti l’Italia conosce le prime fake news su suite d’hotel con wi-fi debole, pagate dai contribuenti per i richiedenti asilo. Bello FiGo, che fino a poco prima si limitava a dire cose nonsense e ripetere nomi di vip nelle sue canzoni, decide insieme al fido GynoZz di tirare fuori lo stunt del decennio, trollando tutto il paese con un singolo rappato dal punto di vista di un immigrato viziato e scroccone. Long story short: un mese dopo Bello FiGo è ospite di una trasmissione di Belpietro e dabba Alessandra Mussolini in diretta nazionale. Swag barca. (Tommaso Tecchi)

Cacao - “Brasilio” (2016)

“Brasilio” dei Cacao è un pezzo che fatto esplodere più teste di Ken il Guerriero. Chiunque abbia mai visto il duo ravennate dal vivo si ricorda esattamente come si è sentito quando è partito questo pezzo. La formula della band (a base di basso, chitarra ed effetti) è talmente essenziale che quando beccano la combinazione giusta di ripetitività, orecchiabilità e ballabilità sintetizzano una perla perfetta di musica assolutamente libera e originale. Lo dico? Lo dico: una volta ho ascoltato questa canzone mentre ero fatto di LSD e, giuro, sono stato su Saturno. (Giacomo Stefanini)

Cosmo - "L'ultima festa" (2016)

Uno spartiacque si è delineato in Italia nel dominante genere chiamato “It-pop”. Da un lato il cantautorato melodico/sentimentale Calcuttiano e Thegiornalistiano; dall’altro, la scanzonata energia positiva di Cosmo, rara specie di arcobaleno umano che, seppur sonoramente rientrante nella macrofamiglia dell’indie nostrano 2.0, ha saputo sperimentare qualcosa di fresco lavorando su produzioni elettroniche interessanti, anche approfondite nel collettivo di Dj e musicisti Ivreatronic di cui è fondatore. “L’ultima festa” è l’inno di questo cambiamento, del passo in là fatto oltre la linea, diventato immediatamente tormentone radiofonico, balneare, di ogni comunione-cresima e battesimo sino alle sagre di paese. Tradizione vuole che, durante l’esecuzione del pezzo, Cosmo inviti sul palco il pubblico a cantare e ballare con lui sotto una pioggia di coriandoli luccicanti, trasformando il palco in un pogo degno del più ardito Tagadà. Non sarebbe mica giusto definirla, altrimenti, una festa. (Laura Caprino)

Izi - "Chic" (2016)

Un ragazzo ligure che vive alla giornata e scrive barre da anni riceve una chiamata da una casa di produzione romana. Nel giro di un attimo è il volto di un film sul rap italiano che oggi è meglio dimenticare, ma ha il merito di avergli dato la piattaforma per cominciare a modellare la sua identità artistica. Con la rilavorazione di "Chic" pubblicata nel suo esordio Fenice, Izi mette in chiaro con enorme potenza le coordinate della sua arte: vignette e ricordi, creazione di dialoghi, slancio verso l'interno. Quelle che poi affinerà in Pizzicato e porterà a compimento nello splendido groviglio che è Aletheia. (Elia Alovisi)

Luche - “Che Dio Mi Benedica” (2016)

Ci ha messo tanti anni, Luche, a prendersi la sua città, la sua regione e l’Italia. È dovuto passare per separazioni dolorose, trasferimenti all’estero, giochi di potere, false partenze. “Che Dio Mi Benedica” è il risultato di tutte le sue esperienze, un perfetto riassunto del vissuto del suo autore. Ma anche il momento in cui ha dimostrato di saper scrivere un classico senza dover parlare di strada, senza doversi dipingere inscalfibile, senza usare il dialetto. E ce l’ha fatta con un brano scarno, sorretto da una chitarra acustica, perfetta per esprimere una semplice verità: “Ma come puoi amare un altro se non sai amare te stesso?” (Elia Alovisi)

Ghali - “Wily Wily” (2016)

La prima cosa in assoluto che ho amato di Ghali quando ha smesso di essere Ghali Foh è che non sembrava aver alcun bisogno di scimmiottare i rapper americani. La seconda è che nelle pochissime interviste che ha rilasciato in quel periodo non ha detto niente a nessuno, svicolandosi dal tentativo dei vari Fazio e Saviano di fare di lui una voce politica. Non ce n’era, d’altronde, alcun bisogno, perché in “Wily Wily” c’era già tutto quello che Ghali aveva da dire sull’argomento. E lo aveva fatto su una produzione incredibile di Charlie Charles, giocandosi la carta dell’interlinguismo con intelligenza, senso delle cose e con stile. "Stile": parola che può parere sciatta ma che io credo sia una sorta di sesto senso che ti porta a scrivere "Son venuto in pace / Questa guerra, questa merda / Giuro, wallah, fra' non mi piace / Io sono un negro, terrorista / Culo bianco, ladro bangla e muso giallo / Trasformo Baggio in un posto più bello", e ad immaginarti tutto questo cantato nel deserto della Giordania, alle porte di Petra. (Carlotta Sisti)

I Cani - “Sparire” (2016)

Difficile scegliere il brano più rappresentativo de I Cani. Perché proprio Sparire? Perché è l’unica degna conclusione che ci meritiamo. Ultima traccia dell’ultimo album della band, Sparire è una riflessione amara e nichilista sull’esistenza umana. Dopo tre album che immortalano e analizzano, con ironica critica, un’intera generazione di giovani italiani, l’unica soluzione possibile è la lucida accettazione che, qualunque cosa facciamo, alla fine dobbiamo sparire. Tra citazioni cinematografiche, riferimenti biblici e struggenti note di un pianoforte, Contessa si arrende a capire il genere umano e cerca di abituarsi all’idea di dover scomparire. E, ironia della sorte, alla fine è sparito davvero. (Cecilia Esposito)

Night Skinny x Rkomi - "Fuck Tomorrow" (2016)

"Il disco di Rkomi sarà il nuovo Illmatic. Sei il nuovo Nas italiano, fidati di me", dice una voce registrata all'inizio di "Fuck Tomorrow" di Skinny e Rkomi, pubblicata sullo scadere del 2016 e poi inserita in Pezzi. Nei tre anni che sono passati da allora, Mirko non è diventato il nuovo Nas italiano. La sua voce unica e il suo rap immaginifico non hanno perso valore, ma si sono circondate dei cuscini del pop. Questo brano, invece, ha dentro il Mirko che avrebbe fatto (e può ancora fare) l'Illmatic italiano. Quello che butta immagini da brividi sulla traccia come se fosse la cosa più semplice del mondo, quello a cui viene naturale unire strada e pensiero. Non è un caso che il beat sia di Skinny, il producer che meglio ha saputo cogliere la sua essenza e meglio gli ha permesso di tirarla fuori, e di regalarcela. (Elia Alovisi)

Tedua - “Buste Della Spesa” (2016)

“Buste della spesa” è stata tanto il trampolino quanto l’oracolo del percorso artistico di Tedua, e basta citare l’incipit del pezzo per capirlo: “Se mi ricordo quando fottevate Tedua, beh / Ne è passato di tempo / Oggi tu hai l'ansia fallimento / Il flow, frà, farà a tutti voi da esempio”. E il buon Mario ha mantenuto la parola, dando l’esempio a suon di flow, lessico, metriche e contenuti, imponendosi come uno dei rapper di punta della nuova scuola. Non vi conveniva fottere Tedua nel 2016, oggi ancora meno. (Simone Zagari)

Charlie Charles - “Bimbi” (2017)

Proprio nel momento in cui la “Nuova Scuola” è all’apice del suo splendore, l’ennesima produzione perfetta di Charlie Charles (questa volta pubblicata con in calce il suo nome) ospita contemporaneamente le sue stelle più luminose: Izi, Rkomi, Sfera, Tedua e Ghali. “Bimbi” è un all-in, uno spartiacque tra ciò che era prima e ciò che è stato dopo: un producer che avrebbe vinto Sanremo e cinque rapper che avrebbero preso strade diverse in major, ma che nel 2017 hanno voluto un beat di Charlie e l’hanno saputo usare. (Simone Zagari)

Coez - “La musica non c’è” (2018)

Nel 2017, quando in giro non si sentiva altro, ho odiato "La Musica Non C'è". Poi col tempo ho realizzato che farsi odiare è un talento che hanno i veri tormentoni, e sono stato contento che a rompermi le scatole fosse Silvano – che ha fatto la gavetta nel rap e ha un'idea coerente di musica. La verità è che l'estetica del nuovo pop italiano è in questo pezzo qui, col ritornello sing-along, le frasi d'amore già pensate per le caption di Instagram, i giochi di parole e la produzione "a sottrazione" di Niccolò Contesa. Non c'è niente di nuovo, è semplicemente la sintesi più efficace possibile fra rap, pop, itpop e graffiti pop. E dimostra perché, di questa wave, Coez ha in mano lo scettro. (Patrizio Ruviglioni)

Coma_Cose - "Anima Lattina" (2017)

La magia che Fausto Lama e Francesca California hanno creato con "Anima Lattina", in quella stanza bianca tutta vuota in cui hanno girato il suo video, nasce dalla comprensione che per essere "pop" il rap non deve per forza piegarsi in obbrobri radiofonici—le rime e la malinconia dei millennial possono innestarsi anche su una musica popolare costruita sui riferimenti dei grandi cantautori e del pop barocco. (Elia Alovisi)

LIBERATO - “NOVE MAGGIO” (2017)

Ognuno custodisce un guilty pleasure musicale, un pezzo che spacca in due la playlist dei preferiti e non si rivelerebbe mai, potendo compromettere curriculum forbiti di noise destrutturata e rumore bianco. A LIBERATO si deve tutto il merito di aver portato alla luce del sole, abbasc’ a Mergellina, l’amore per la tradizione neomelodica napoletana, ingiustamente relegata in un gap spazio-temporale che parte dai classici di Roberto Murolo e, non si sa bene come, termina in Alessio e Gigione. Col volto coperto canta in dialetto partenopeo mescolando inglesismi, scrive d’amor perduto rispettando i temi sentimentali tipici del genere e fonde step elettronici a morbidezza R&B. Soprattutto, scolpisce nella pietra iconici versi che, se fossimo al liceo, avremmo immortalato sulle pagine della Smemo lamentandoci di una cotta non corrisposta: “ Nun m' sentì, nun m' pens' / Tengo o' core ca’ nun può purtà paziènz”. Leggendario. (Laura Caprino)

Mana - "Crystalline" (2017)

C’era un tempo in cui Daniele Mana si faceva chiamare Vaghe Stelle e si muoveva silenzioso nell’underground elettronico italiano, elevandone la caratura artistica. Nel 2017, poi, la virata: il moniker viene abbandonato per fare spazio al nuovo ed emblematico progetto Mana, che debutta sulla prestigiosissima Hyperdub proprio con il singolo “Crystalline”. Synth taglienti e l’eco di percussioni lontane tracciano una linea sottilissima tra artificiale e naturale, donando la meritata consacrazione internazionale ad una delle figure più importanti dell’elettronica tricolore. (Simone Zagari)

Squadra Omega - "Le Oscillazioni Dell'Universo Giovane" (2017)

Fare un collettivo di improvvisazione e creare album pazzeschi con costanza per anni non è un gioco facile a cui giocare, a meno che tu non sia la Squadra Omega. Il loro Materia Oscura, uscito nel 2017, è un esempio a cui possono guardare tutti i musicisti italiani che rifiutano la forma-canzone, e "Le Oscillazioni Dell'Universo Giovane" è la traccia di 18 minuti che lo chiude. Come si era detto allora, "è una progressione caotica che mette insieme squilli free jazz, oscillazioni elettroniche e arpeggi acustici in una vera propria danza intergalattica alla fine della quale si sente il bisogno di ricominciare immediatamente da capo". (Elia Alovisi)

Sfera Ebbasta - “Cupido (feat. Quavo)” (2018)

Rockstar è il disco che sancisce definitivamente il trionfo del rap italiano degli anni Dieci, diventando l’album più ascoltato in assoluto nel 2018 nel nostro paese. Uno dei suoi pezzi cardine è quello che presenta il featuring non di una vecchia gloria o di un nome minore, come siamo spesso abituati a vedere da queste parti quando si tratta di collaborazioni internazionali, ma di uno dei rapper più famosi del mondo. (Federico Sardo)

Any Other - “Walkthrough” (2018)

Adele Nigro ne ha fatta di strada dall’album Silently. Quietly. Going Away, e in punta di piedi è arrivata nel 2018 con il suo “secondo debutto” Two, Geography, un album denso e stratificato, che ha confermato Any Other come uno dei progetti più interessanti da portarci nel prossimo decennio. Prendete "Walkthrough" un brano con dei fiati quasi jazz e un piano che squilla qua e là, ma prima di tutto una confessione intima, quasi violenta di una donna, Adele, che si mette a nudo per i suoi ascoltatori, e soprattutto per se stessa. Non è mai facile parlare d’amore, soprattutto quando ha lasciato dolore, ma Any Other sembra sacrificarsi nel farlo come espiazione delle proprie colpe e condivisione della propria sofferenza per poter andare avanti. Come quando a denti stretti grida I asked you: "Fuck me as hard as you can" / I wouldn't feel anything. Ci vuole coraggio per dire una cosa simile a chi si ama, ma ancora di più per ammetterlo a se stessi—per poi rinascere. (Cecilia Esposito)

Holiday Inn - “Torbido” (2018)

La canzone che chiude il primo vero album degli Holiday Inn è un prisma che ha fatto materializzare un arcobaleno di versioni e remix, un inno per un sottobosco italiano che ha il potenziale per diventare una scena a sé. Realtà come Tropicantesimo, Blak Saagan, Acchiappashpirt, che hanno partecipato alla compilation di cover, vanno oltre il genere, oltre ogni schema, e con la propria musica mostrano un coraggio artistico che non si vedeva da anni nell’underground italiano. E ho il sospetto che “Torbido” abbia qualcosa a che vedere con questo. “Il Torbido / Meglio se non ce l’hai / Sennò tiralo fuori / Può confonderti, sta a te / Non finire male”. (Giacomo Stefanini)

Nu Guinea - “Je Vulesse” (2018)

Non esiste radio, dj set, festival (anche internazionale), in cui questa traccia non sia stata suonata ininterrottamente per un anno, quasi due. I Nu Guinea esplodono con una solarità partenopea irresistibile e una fucina di hit napoletane che riprende l’eredità musicale più interessante della città: il funk, il jazz, la disco. Dal vivo o in cuffia, “Je Vulesse” è una traccia di cui ci si innamora per forza dalle prime note, illuminando la giornata con riff anni Settanta e gorgheggi da usignolo della cantante Fabiana Martone. Quando Lucio Aquilina e Massimo Di Lena hanno deciso di virare la propria carriera nella techno minimal in favore di una rivisitazione dello stile e del sound della terra da cui provengono, forse non erano consapevoli che avrebbero composto uno dei pezzi più rilevanti per la musica italiana del decennio. E forse è questo il bello, perché un fortissimo entusiasmo e o’ cor’ e’ Napule’ sono l’anima spontanea e irriverente di “Je Vulesse”, e di tutti i Nu Guinea. (Laura Caprino)

Madame - "Sciccherie" (2018)

A 16 anni, Madame ha rovesciato le regole del sistema del rap applicato alle donne. A lei di quello che gli ascoltatori del rap si aspettano da una rapper non frega niente. “Sciccherie”, il suo secondo singolo, lo dimostra: un’originalità naturale, dato che se a quell’età fai uscire un pezzo senza avere dietro nessun burattinaio, allora quella è proprio la tua cifra stilistica. Un’intelligenza raffinata e una spiccata ironia, elemento spesso inserito in maniera troppo facilona nella musica italiana. “Sciccherie” è il solo pezzo che, pure in un buon momento per le artiste che fanno rap, rimarrà come davvero significativo in quanto pezzo di una rapper, perché ha l'impatto di una palla da demolizione. Demolisce luoghi comuni super noiosi come le droghe (“Io non mi drogo, sciolgo le pastiglie digestive”), e l’essere bone e fare strage di tipi. Lei canta “Uscire con l'abito nero e sciccherie / Mentre metto cose per sembrare come quelle un po' più fighe”. (Carlotta Sisti)

Speranza - "Chiavt a Mammt" (2018)

A volte bastano un type beat afrotrap, una maglia di Feghouli, una sdraio da lanciare nel mare e una canzone nel cuore per fare la storia. "Chiavt a Mammt" di Speranza è, prima di tutto, un pezzo che si stampa nella testa di chi lo ascolta immediatamente, anche solo per l'effetto che fa il suo titolo gridato con il raspino in gola nel ritornello. Ma poi, se ci si mette a leggere bene le parole che Speranza smitraglia dalla bocca, si scopre la voce di un ragazzo dalla storia unica. Risultato di un incrocio di culture e lingua, Ugo Scicolone è un concentrato di ibridazione, credibilità, umiltà e slancio creativo. Tutte cose di cui il rap italiano, a fine decennio, aveva un bisogno disperato. (Elia Alovisi)

Young Signorino - "Mmh ha ha ha" (2018)

Nel 2018 ho intervistato Dua Lipa, e mi ha parlato di Young Signorino. Quando è uscito il pezzo con relativo video si è creato un dibattito nel quale è intervenuto perfino Simon Reynolds. Per quanto il brano sia rappresentativo del suo autore soltanto fino a un certo punto, per quanto il suo autore ne sia rimasto un po’ vittima, per quanto si sia poi scoperto che la base non era originale… Ci sono tanti “per quanto” che si possono dire, ma resta un pezzo dall'impatto fortissimo e completamente alieno, che non poteva lasciare indifferenti. Ha fatto parlare mezza Italia, dai bambini agli anziani alle televisioni, e ha fatto identificare “la trap” con i tatuaggi in faccia e con il linguaggio sincopato fatto di puro suono di questo brano assurdo. (Federico Sardo)

Massimo Pericolo - “7 Miliardi” (2019)

Sullo scadere del decennio il rap italiano è all’apice e quasi tutti i nomi che fino a poco tempo prima erano ancora esordienti di belle speranze sono diventati delle star. All’improvviso arriva un ragazzo incazzato nero, che grida come non si sentiva da tempo, e riporta il rap allo spirito brutto, sporco e cattivo da cui si stava un po’ allontanando. Con i suoi altri pezzi confermerà anche di saper fare ben altro e sigillerà un talento purissimo, ma la botta di “7 Miliardi” non ce la dimenticheremo facilmente. (Federico Sardo)

Mahmood - “Soldi” (2019)

E chi se lo aspettava che ci saremmo presi pure Sanremo? “Soldi” ha tutto quello che deve avere un grande pezzo pop internazionale contemporaneo. Innanzitutto Dardust e Charlie Charles, due producer che vengono da diversi mondi e modi di fare, oltre che generazioni. Poi un ragazzo con una voce di Cristo, così da rendere felici anche quelli che la prima e unica cosa a cui fanno caso è quella. Infine, il fatto che il ragazzo con la voce di Cristo non sia solo un interprete ma anche una persona con un’identità artistica forte, una storia da raccontare, un futuro che è un piacere immaginare. (Elia Alovisi)

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In 'Stanze di Vita Quotidiana', Francesco Guccini è il nonno della trap

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Questo articolo fa parte di Italian Folgorati, la serie di Demented Burrocacao che racconta gli angoli più strani, le gemme nascoste e gli artisti più scoppiati della musica italiana.

Carissimi aficionados di Italian Folgorati, ci siamo lasciati l’ultima volta con i dubbi di Tenco sul “cambiamento”. In effetti, a volte capita che la gente cambi idea, strada, discorso ma non sempre per qualcosa di edificante. Soprattutto nel cantautorato i voltafaccia sono diffusi e a volte scioccanti: pensate all’Umberto Balsamo berlusconiano. Ma c’è anche chi non cambia mai e nonostante questo è tacciato a più riprese di tradimento.

È il caso di Francesco Guccini, ultimamente tornato alla ribalta dopo un lunghissimo silenzio con un inedito, "Natale a Pavana", contenuto in un disco tributo a lui dedicato dal nome di Note di viaggio. Sorvolando sul valore del suddetto, di Guccini si sta parlando perché, intervistato, ha ammesso candidamente "Mai stato comunista, sempre stato azionista: i miei riferimenti erano Giustizia e Libertà”. Per chi mastica poca storia della politica italiana, non parliamo di azionisti di borsa, ma di questo movimento.

guccini note di viaggio
La copertina di Note di Viaggio di Francesco Guccini, più o meno. Se proprio vuoi ascoltarlo su Spotify, clicca sulla copertina

Il nostro manda al mittente anche il mito che fosse anarchico, asserendo che "La locomotiva" fosse semplicemente la descrizione di un fatto storico. Non farebbe una piega, visto che gran parte degli anarchici preferivano associarsi nella lotta militare antifascista con le formazioni di Giustizia e Libertà.

Nonostante l’impegno contenuto in certe canzoni, Guccini ha sempre dato l’idea di essere uno cui non fregava un cazzo di niente se non di scrivere. Sia in letteratura che in musica, è sempre stato perso in un vissuto senza tempo in cui ci si rifugia nei classici letterari e nel recupero di quello che non esiste più. Lo dimostra la sua fissa per l’antico dialetto pavanese.

Nonostante l’impegno contenuto in certe canzoni, Guccini ha sempre dato l’idea di essere uno cui non fregava un cazzo di niente se non di scrivere.

La stessa "L’avvelenata" sembra chiara nel suo messaggio stile "Non rompetemi il cazzo”, sintetizzata negli immortali versi “Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare? Godo molto di più nell'ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare. Se son d'umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie, di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo." E poi via così, fino alla "voglia di bestemmiare".

Eppure a sostenere Guccini sono sempre stati i conservatori di sinistra, nostalgici e desiderosi di avere sempre davanti a loro l'immagine del loro ideale duro e puro farsi carne. Questo implica una certa superficialità nell'analizzare il nostro schivo cantautore, che fa slalom tra i pregiudizi come un’anguilla infastidita. Proprio per questi è spesso stato sul cazzo anche ingiustamente a molti pischelli, tra cui me medesimo, almeno prima di ascoltare prove come quella che stiamo per analizzare.

Guccini sarebbe una specie di nonno dei trapper. Togliete gli psicofarmaci, metteteci il vino, una buona dose di rancore e insofferenza, e il risultato non cambia.

Nelle sue recenti esternazioni, Francesco chiarisce invece dei concetti da un certo punto di vista scandalosi ma da altri innovativi e coraggiosi. Punto primo, non ascolta più musica; il che per un cantautore è assurdo, volendo offensivo per i colleghi. Punto secondo, afferma che le uniche cose sensate oggi giorno forse le dicono solo i rapper. Punto terzo, è contento che i giovani oggi ascoltino ancora la sua musica, perché pare la ascoltino davvero.

Secondo questa ricostruzione Guccini sarebbe una specie di nonno dei trapper. Uno che in qualche modo vive il suo quotidiano in un eterno, noioso presente e che fa a meno di tutta una serie di sovrastrutture alle quali slaccia il bavaglio. Togliete gli psicofarmaci, metteteci il vino, una buona dose di rancore e insofferenza, e il risultato non cambia. E c’è un album in particolare che dimostra che Guccini era distante dalla sua generazione già mille anni fa, probabilmente profetizzando quello che viviamo ora: Stanze di vita quotidiana, probabilmente il più odiato della sua carriera.

guccini stanze
La copertina di Stanze di vita quotidiana di Francesco Guccini, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Stanze esce nel 1974, dopo un disco registrato parzialmente dal vivo. Se fino a quel momento Guccini poteva essere considerato serioso, Opera Buffa ne rappresentava un aspetto diametralmente opposto: quello dell’ironia, del goliardico, del grottesco. Lo faceva in modo così spiccato che quelli che mal sopportano la poetica del nostro non potranno che elevarlo a capolavoro. Basti come esempio la storia de "La Genesi", nella quale viene dipinto un Dio rincoglionito che cerca di inventare la TV e invece gli viene fuori la Terra. C'è da spezzare però una lancia per i suoi arrangiamenti pirotecnici, curati da Ettore De Carolis dei mitici Chetro & Co.

Il famoso detto "Ridi pagliaccio col cuore infranto", però, viene confermato proprio da Stanze, il disco in cui Guccini decide di abbracciare il baratro invece di girarci intorno. Giù la maschera: la vita è semplicemente una rottura di palle che si consuma giorno dopo giorno. E che fine ha fatto il Guccini barricadiero? C’è mai stato? Evidentemente no.

Giù la maschera: la vita è semplicemente una rottura di palle che si consuma giorno dopo giorno.

Guccini ricorda Stanze come uno di quelli che non avrebbe mai rifatto, nato in circostanze irritanti e in una situazione psicologica difficile, sballottato a cazzo tra Roma e Milano dal suo produttore—che poi altro non era che Pier Fabbri dell'Equipe 84, all'epoca band in piena sbandata sperimental-progressive e probabilmente in piena emulazione post-barrettiana. Pare che Ares Tavolazzi, il bass hero ex Area, se ne sia andato dalle session sbattendo la porta quando il nostro Fabbri gli chiese di eseguire un suono giallo, il che non può che rimandare alle sinestesie deliranti di Syd.

C’è una ricchezza di arrangiamento e di suoni, in Stanze, con una predominanza di marimbe, trombe, strumenti inusitati. È psichedelico, in una maniera piuttosto borderline. Suona vecchio stile in partenza, ma in una maniera in cui anche il nuovo è già vecchio giacché nuovo. O forse, più semplicemente, suona senza età. I testi di Guccini, pregni di umore leopardiano esistenzialista, previsione delle sensibilità millennial in brodo primordiale, hanno così una controparte frizzante ed esotica.

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Francesco Guccini, fotografia di pubblico dominio via Wikimedia Commons

Ecco, i testi. Sono sospesi tra euforia e disperazione, sembrano la descrizione di un trattamento terapeutico a base di antidepressivi e benzodiazepine. E in questo sono assolutamente contemporanei. Certo, c’è il discorso tecnico alla Guccini tutto endecasillabi, ottonari e perfezioni metriche, ma possiamo leggerlo come una logorrea di chi vuole svuotare la parola per—appunto—creare delle stanze vuote che vanno riempite dall’ascoltatore con il proprio bagaglio umano di malessere.

Tornando alle analogie con certe epopee trap, Guccini canta in un tono quasi monotonale, come se non avesse l’anima, come se avesse una stanchezza farmacologica appesa alla lingua. Tutto è privo di senso, in questo disco. È uno svacco assoluto, e il testo della “Canzone delle osterie di fuori porta” ne è un manifesto.

I suoi banali giri armonici sono il perfetto contraltare ad uno stato d’animo diretto: “Ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino / Le carte, poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino / Ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta / Non ho utopie da realizzare, stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta.” Versi che scatenano l’applauso, soprattutto se confrontati con la roba finta-combattiera di ieri e di oggi.

E se le osterie sono cimiteri, figurarsi la vita. Nella “Canzone della triste rinuncia” pare di sentir cantare Side Baby.

E se le osterie sono cimiteri, figurarsi la vita. Nella “Canzone della triste rinuncia” pare di sentir cantare Side Baby: “E forse sto morendo e non lo so capire / O l’ho capito e non lo voglio dire / Rimangono le cose senza falso o vero / E la rinuncia triste a quello che io ero.” Sono versi che mettono a nudo uno stato dell’essere che si frantuma contro lo spesso acciaio dei tempi moderni. L’organo che apre il pezzo è quasi un drone, nella sua piattezza. La ritmica ossessiva e spezzata potrebbe facilmente essere sostituita da una 808. Una marimba di inserisce nel flusso, e il suo scheggiarsi vitale serve solo a dare più importanza al nulla siderale, al pasticcio squagliato dell’esistenza che ti fa muovere sempre dentro a una prigione: “Non è il coraggio che ti far dir di no, è solo un’altra scusa”, canta Francesco, accompagnato da un siderale sintetizzatore Eminent e riccioli elettronici sublimi.

Chissà se da Guccini si possa passare a Gucci? A giudicare dal tono di “Canzone della vita quotidiana” mi sembra di non straparlare. La base accenna a un funky evaporato, poi ammantato dall’onnipresente sintetizzatore ma anche da organi particolarmente gelidi. Mon si salva nulla: “Le usate confidenze di malattie o di sesso dove ciascuno ascolta sol se stesso / Finzioni naturali in cui ci adoperiamo per non sembrar di esser quel che siamo / Consolati pensando che inizia e già è finita / Questa che tutti i giorni è la tua vita” Sono parole che ricordano le prese a male del Wing Klan, mentre l’epico finale sembra catturato dalla musica di un videogioco digitale.

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Francesco Guccini nel 1972, fotografia di pubblico dominio via Wikimedia Commons

Ma poi ecco “Canzone per Piero”, in cui sembra tornare un po’ di “normalità Gucciniana”, anche se l’atmosfera compressa non è certo rassicurante. Se la musica è una specie di versione spappolata della Starriana “Don’t Pass Me By” dei Beatles, nel testo Guccini sembra cedere il testimone alle generazioni di oggi con un’onestà quasi insostenibile: “Chi glielo dice a chi è giovane adesso / Di quante volte si possa sbagliare / Fino al disgusto di ricominciare / Perché ogni volta è poi sempre lo stesso? / Eppure il mondo continua e va avanti con noi o senza / E ogni cosa si crea su ciò che muore / E ogni nuova idea su vecchie idee, e ogni gioia su pianti.”

Sì, ma l’amore? In Stanze ovviamente è fatto di abbandoni e di superficialità. “Canzone delle ragazze che se ne vanno” si snoda in uno strano country che a un certo punto si ibrida con percussioni di mondi lontani, tanto che vengono in mente a un certo punto i Tears For Fears di “Change”. Intanto violini e chitarre suonano in eccesso, come se ci fosse una gastrite in atto più che una musicalità diffusa, una cattiva digestione da coma alcolico. Si uniscono al coro anche vocette pitchate e prove di forza di vari strumenti, e tutti soffrono desiderando la fine di una canzone che non finisce invece MAI.

“O sera, scendi presto! O mondo nuovo, arriva! / Rivoluzione, cambia qualche cosa!"

L’ultimo brano, “Canzone delle situazioni differenti”, è un delirio. Ci sono una chitarra e un violino in delay. C’è il solito Eminent. Ci sono i fiati. Sembra di sentire un hypnagogic pop con pizzichi di Thaiboy Digital che finisce scassarsi come la qui citata “scatola meccanica per musica è esaurita” in un inutile massimalismo. Parole sante quelle di Guccini, in questo caso, che ci sentiamo di condividere: “O sera, scendi presto! O mondo nuovo, arriva! / Rivoluzione, cambia qualche cosa! Cancella il ghigno solito di questa ormai corrosa mia stanca civiltà che si trascina.”

La visione di uno scontento Guccini che legge fumetti mentre la tipa lo prende in giro vale tutto il brano. Lo immaginiamo non solo immerso nelle pubblicazioni USA, e quindi a quel tempo simbolo del capitale, ma anche nei manga. Immerso in un buco spaziotemporale evocato dalle chitarre in reverse psicolabile, nel pianoforte honky tonky nervosissimo e squagliato come una droga in una boccetta. Insomma, siamo di fronte a una sintesi di tutti gli arrangiamenti folli di Stanze. Altro che “album in cui non esiste una sola nota irrazionale,” come dichiarò all’epoca uno stizzito Guccini.

Finisce qui un’opera che forse solo oggi possiamo comprendere in pieno, dato che all’epoca fu bersaglio di critiche e venne accolta da un generalizzato rifiuto.

Finisce qui un’opera che forse solo oggi possiamo comprendere in pieno, dato che all’epoca fu bersaglio di critiche e venne accolta da un generalizzato rifiuto. Anche i sassi conoscono la storia della recensione di Enrico Bertoncelli su Gong, che oggi possiamo ribaltare con stupore: sì, perché se il giornalista voleva buttare merda sul disco invece, rileggendola dopo anni, troviamo negli aspetti per lui negativi un aspetto positivo in un’ottica postmoderna e distopica.

Non ci credete? Leggete qui: “La poesia è un pezzo di carta da consegnare al pubblico e non mai un esercizio di rabbia/purificazione intima, la musica è una vecchia stampa con cui tappezzare il salotto dell'acquirente e meno che mai la scintilla individuale del 'mi piace' o dell''io la penso così'. Francesco Guccini non appartiene più a se stesso: e finisce col ripetersi, regalando una ‘pianta topografica’ della propria anima tanto diffusa quanto vana. I suoi testi sono senza magia, nudi, freddi, con piccoli rami sfrondati dall'albero francese o dall'America anni Trenta-Cinquanta, che già sappiamo sino all'ebbrezza: noiosi, addirittura”

Non è forse la recensione che tutti vorremmo per un disco uscito nel 2019? Certamente. E se qualcuno crede che il lunatico Guccini possa essere inserito in chissà quale categoria è lui stesso a rispondere nelle note del disco, che sembrano scritte per i posteri: “Non ci sono né trascendenze, né messaggi; le canzoni sono cose semplici anche se si possono fare ugualmente con molta serietà come ancora spero o mi illudo di fare". Amen, parola di San Francesco.

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Ha ancora senso andare contro la trap per difendere l'hip-hop italiano?

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Avete presente quelle pagine che su Facebook pubblicano aforismi abbinati ad una foto in bianco e nero di un personaggio famoso random? Ecco, immaginatevi un bel “Solo gli stupidi non cambiano idea” in Comic Sans, ma al posto della faccia di Vin Diesel metteteci quella di Nicholas Fantini, in arte Egreen.

Egreen è un rapper vecchia scuola, di quelli duri e puri che l’underground ce l’hanno nell’anima, ma che col tempo ha saputo smussare i suoi angoli più spigolosi. Ce l’ha detto lui stesso nel maggio scorso, in occasione della pubblicazione di Entropia 3: “Ero contro tutto, un estremista totale, iper purista. Negli anni ho sempre cercato di levarmi, un pezzetto alla volta, questo inutile senso di appartenenza estremo. Secondo me oggi questi allarmismi disfattisti, conservatori e retrogradi non portano a nulla di buono”.

Egreen è un rapper vecchia scuola, di quelli duri e puri che l’underground ce l’hanno nell’anima, ma che col tempo ha saputo smussare i suoi angoli più spigolosi.

E infatti ecco arrivare, proprio sul finire del decennio, il suo nuovo singolo dall’emblematico titolo “Ho sbagliato”. Il pezzo mette in discussione tutta la carriera pregressa del rapper e le sue convinzioni: “Ho creduto nell’Hip-Hop italiano / L'hip-hop italiano / Bella sòla, bella presa per il culo” e ancora, su una base dal sound tutto 808 e hi-hat a raffica, “In Italia sei un fallito se trappi a trent'anni, ti prendono in giro / Ma è solo in Italia che ‘sta merda è per i bimbi dell’asilo nido”.

Ma se anche un samurai depone la spada, quali certezze ci rimangono? Puristi, Vecchia, Nuova e Nuovissima Scuola, featuring, trap, soldi, numeri. Dato che non si capisce più niente abbiamo provato a fare chiarezza sulle posizioni dell’underground all’interno del rap game attuale facendo qualche domanda a persone che potrebbero essere dirette interessate: Chicoria, Dargen D’amico, Jack The Smoker, Macro Marco, DJ Fede, Mace, e Egreen stesso.

"L'hip-hop italiano / Bella sòla, bella presa per il culo." - Egreen, "Ho sbagliato"

Partiamo da un errore comune. Fra tradizione e innovazione non c’è dualismo né tanto meno una faida in corso, su questo gli intervistati sembrano essere tutti d’accordo. È proprio la coesistenza di entrambe che spinge a creare musica di livello e a creare sana competizione. Secondo Macro Marco forse è proprio qui il nocciolo della questione, nel non dover dialogare per forza nell’ottica di un bene comune ma nel pensare a fare bene le cose, con professionalità e personalità.

Più che un problema di vecchi vs giovani, sarebbe più salutare discutere con “punti di vista diversi”, come li chiama anche DJ Fede, nell’ottica dell’arricchimento reciproco e con la voglia di fornire al pubblico un ampio ventaglio di scelte, tutte qualitativamente alte.

egreen ho sbagliato
L'artwork di "Ho Sbagliato" di Egreen, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Prendiamo Guè e Marra, per esempio: due astri del rap, due “avanguardisti” come li chiama Chicoria, che si sono cimentati con determinate sonorità prima ancora che diventassero un trend, e che ora si divertono a rappare su ogni tipo di base. Per un fiero sostenitore dell’innovazione come Mace questa è una cosa normalissima, ma anche chi continua a spingere l’old school come Fede ammette la fattibilità di rinnovarsi senza sfigurare né tanto meno “vendersi”.

Ciò è possibile perché, a detta di Macro Marco, la musica che fai è un po' una carta di identità: ogni tot si rinnova cambiando foto e formato, ma non il nome né i segni particolari. Ci si può quindi adattare ai tempi che corrono senza per forza snaturarsi, soprattutto quando si è artisti con la A maiuscola. Come sottolinea Egreen, infine, la musica è un lavoro e rimanere sul mercato (con un prodotto artisticamente coerente) è un pregio, non un difetto.

"La musica che fai è un po' una carta di identità: ogni tot si rinnova cambiando foto e formato, ma non il nome né i segni particolari." - Macro Marco

Nonostante molti pesi massimi si siano già cimentati con questo tipo di sound, però, la percezione comune è quella a cui accenna Egreen in “Ho sbagliato” e cioè che la trap, o comunque qualsiasi modo innovativo di fare rap, sia roba da ragazzini. Jack The Smoker lo vede come un fatto appurato considerando che ai concerti trap l’età media è bassa e che le classifiche sono mosse da ragazzini; Dargen invece riconduce il problema a una questione di “vizi privati e pubbliche virtù”, perché la trap tra gli adulti si ascolta di nascosto mentre i ragazzi sono più coerenti e spensierati proprio grazie alla loro giovane età.

Come ci ricorda Marco, però, probabilmente la verità sta nel mezzo: è “una cosa più vicina ai giovani, dato che è esplosa in un momento in cui il mercato musicale ed extra musicale viravano in una determinata direzione. Proprio nello stesso identico momento, questa nuova generazione ha spontaneamente preso il genere come il trend da seguire”. Ma tanto lo sappiamo tutti che “alla fine, poi, l'ascoltano tutti. Giovani e meno giovani. Provando a trovare dentro qualcosa che si avvicini ai propri gusti”.

"Sai quanti adulti negli anni Sessanta in America pensavano che il rock fosse un fenomeno passeggero? È una storia ciclica, ovunque nel mondo." - Mace

Mace, invece, tira in ballo corsi e ricorsi storici: “Sai quanti adulti negli anni Sessanta in America pensavano che il rock fosse un fenomeno passeggero? È una storia ciclica, ovunque nel mondo. Non solo nella musica, le grandi novità vengono catalizzate dai giovani (o dalle persone più curiose) e bistrattate dagli altri, che ormai si sono auto-costruiti il loro castello di certezze e hanno paura a rimetterlo in discussione. Fino a che un fenomeno cresce a dismisura e non si può più ignorare”.

Anche Dargen si è accorto che oggi un mese vale un anno e che escono due artisti rivelazione a settimana; è palese che sia successo “qualcosa di strutturale” nella musica italiana. Le nuove e le nuovissime leve del genere spopolano ovunque, sono riuscite ad accaparrarsi la fetta più grossa del mercato discografico spodestando il cantautorato e ottenendo molto più successo commerciale e mediatico dei loro predecessori. Viene quindi spontaneo chiedersi come questi ultimi abbiano vissuto il passaggio del testimone.

Bé, la stanno vivendo tutti bene, molto bene. La rottura apportata nel 2015 da quella che Jack definisce “generazione di Sfera” è stata una fase di passaggio che ha attirato una fetta di pubblico che prima non ascoltava rap. Secondo DJ Fede è tutto un percorso di mutazioni, siano esse evoluzioni o involuzioni, conseguenza di trend planetari che sarebbe stupido contrastare; quello che si può continuare a fare, però, è creare un’alternativa di qualità. Anche Marco è d’accordo: “sono sempre nate cose nuove, come altre cose sono lì, da sempre, e non hanno certo intenzione di scomparire, anche se non sono sotto le luci dei riflettori”.

Egreen vede tutto in un’ottica estremamente positiva, considerando poi che “c’è molto talento, i linguaggi cambiano ma di base la sostanza è la stessa: ragazzi che hanno qualcosa da dire”. Chicoria è della stessa idea e si dice entusiasta, portando a galla anche le competenze tecniche di alcuni dei nuovi talenti che spesso producono i beat “una cosa impensabile per tanti MC degli anni 90”.

“Se fanno du mijoni de story su Instagram e poi hanno fatto n’album che puzza” - Chicoria

È anche vero però, continua il Chico, che tanti altri giovani “se fanno du mijoni de story su Instagram e poi hanno fatto n’album che puzza” perché, come nota DJ Fede, oggi molti sono più web star che artisti. La figura del rapper outsider che ha vissuto Jack è scomparsa ma d’altronde, citando Mace, “Video killed the radio star, no? Tutto il mondo è in metamorfosi. Continuamente”.

È altrettanto innegabile che i contenuti delle canzoni abbiano subito un cambiamento. Come affermano il Chicoria e Fede, la forte connotazione politica da centri sociali dei Novanta si è persa per strada, ma è pur vero che l’immaginario cittadino e la voglia di fare i grossi è sempre stata una caratteristica costante del genere. Ed è proprio questo aspetto che piano piano, nei primi 2000, è venuto fuori aprendo a 360° lo sguardo sulla cultura giovanile, favorendo l’esplosione del cosiddetto storytelling di strada: esempi sono Co’Sang, Club Dogo, TruceKlan.

“La musica si adatta perché l'arte manifesta i tempi” - Dargen D'Amico

E se la cultura giovanile oggi è caratterizzata da apparenza e materialismo, non è di certo colpa del rap. “La musica si adatta perché l'arte manifesta i tempi” (Dargen) e “anche se oggi il tempo non è che sia proprio dei migliori, sarebbe sbagliato parlare di evoluzione o involuzione” (Marco). “Oggi, a parte rari casi, la linearità del testo non è importante, ci si muove più per immagini, si arriva a fine pezzo e si fa fatica a capire cosa è stato detto. Ma si tratta proprio di un altro modo di scrivere” (Jack), “e oggi come ieri, c’è chi scrive da Dio e chi fa cagare” (Mace).

Chi si è saputo distinguere della Nuova Scuola è rimasto sulla cresta dell’onda, stimolando la nascita artistica di un’ondata di artisti che sono ormai già un culto affermato: Madame, Psicologi, Shiva, Massimo Pericolo, Speranza. Il rap scevro di qualsiasi messaggio sembra ormai avere vita breve e tutti sono felici delle nuove maestranze talentuose.

È che troppo spesso ci si lascia abbagliare da tutto il contorno mediatico, dai gioielli, dai social, ma alla fine “il rapper fa il rap, parla tramite le canzoni e le sue canzoni parlano per lui. Nel bene o nel male” perché “è la musica che conta, il resto è aria fritta” (Marco); e “la buona musica cammina con le proprie gambe” (DJ Fede). Era così negli anni Novanta e nei Duemila, è stato così nel decennio appena conclusosi e, ci scommetto, sarà così anche in quello che verrà.

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Le 50 canzoni italiane del 2019

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Ciao, abbiamo preparato una lista di 50 pezzi che ci sembra raccontino bene l'anno che abbiamo appena passato. Sono le migliori canzoni italiane del 2019? Non necessariamente. Non è una classifica, è più un riassunto cronologico di pezzi che ci sono sembrati importanti, significativi o anche solo, semplicemente, belli. Stanno anche tutti in una playlist su Spotify.

Lungo il corso della lista trovate anche dei link ad articoli e video che abbiamo fatto quest'anno. Qua trovate invece la stessa cosa, ma con le canzoni internazionali. Pronti? Via.

Franco126 - "Ieri l'altro"

Il pezzo più strappalacrime, scarno e meglio riuscito di Stanza Singola. È un ricordo d'infanzia di un amico scomparso—come ci ha detto Ugo Borghetti, "Io non so se ce la farei a cantare 'Ieri l'altro' senza piagnere." Ed è il pezzo che chiude il piccolo documentario che abbiamo girato con Franco a Roma.

Gomma - "Fantasmi"

"Fantasmi", ci ha detto la persona che l'ha scritta, è un pezzo che parla di sentirsi inadeguati in mezzo alle persone, di senso di colpa. È il manifesto di un album cupo, opera della maturità di una belle band con le chitarre ancora più promettenti d'Italia.

Gianni Bismark - "Università (feat. Franco126)"

Il pezzo che tira fuori il succo amaro che sta dentro a quel melograno ammaccato dalla vita che è il rap di Gianni Bismark.

Mahmood - "Soldi"

Come abbiamo già detto, "Soldi" di Mahmood, Dardust e Charlie Charles è la vittoria della nostra generazione musicale nel tempio della tradizione musicale italiana. Tutto qua.

Achille Lauro - "Rolls Royce (feat. Boss Doms & Frenetik&Orang3)"

Come si reinventa una carriera e ci si crea un nuovo linguaggio nello spazio di neanche tre minuti.

Giorgio Poi - "Stella"

La musica di Giorgio Poi è, in quell'ampio campo chiamato itpop, una delle poche che sono riuscite a crearsi un sound e una voce uniche. "Stella" ne è un manifesto.

Mace & Ckrono - "Vroom Vrau (feat. MC Bin Laden)"

Due dei producer e DJ più forti d'Italia vanno in Brasile e fanno una hit baile funk con uno degli MC più forti del mondo. Ci sembra abbastanza, no?

C'mon Tigre - "Mono No Aware"

Otto minuti di svisate senza alcuna geografia per concludere il ritorno di uno dei collettivi più difficili da inquadrare della storia recente d'Italia? Cantato in un inglese più che credibile? Per noi è sì.

Massimo Pericolo - "Sabbie d'oro (feat. Generic Animal)"

Il pezzo che ha dimostrato all'Italia intera che Massimo Pericolo non era solo calci in faccia e fanculo la scuola, mi fumo la droga. "Ha messo d'accordo tutti", come ci ha detto lui stesso nel suo episodio di People Versus.

Lazza - "Re Mida"

Il 2019 è stato l'anno in cui Lazza è diventato qualcosa di più di "un rapper con le punchline" o "il rapper che suona il pianoforte". "Re Mida", la traccia che dà il titolo al suo album, è il suo fiore artistico che sboccia.

72-HOUR POST FIGHT - "LOST MY"

Di un pezzo come "LOST MY" e dell'album da cui è tratto la musica italiana aveva proprio bisogno—ibrido tra elettronica, jazz e black music, ipnotico, strumentale.

PSICOLOGI - "Polvere da sparo"

Il fuoco dei diciott'anni, la voglia di spaccare tutto e non arrendersi alla nullafacenza, un ritornello memorabile. La meglio gioventù.

Zyrtck - "MAJIME"

Una piccola sorpresa del SoundCloud rap italiano—Zyrtck dice così tante cose e le dice in un modo così memorabile che non importa neanche il contenuto.

Yonic South - "Wild Cobs"

C'è tutta una scena con le chitarre iper bella tra Brescia e Mantova. Si costruisce attorno a termini come "garage" e "psichedelia", e "Wild Cobs" degli Yonic South è la sua espressione più coinvolgente e riuscita finora.

Coma_Cose - "MANCARSI"

Con "MANCARSI", singolone riuscito alla perfezione di HYPE AURA, i Coma_Cose hanno portato all'apice la loro poetica fatta di milanesità, vita urbana, amore mezzo spensierato, nostalgia, giochi di parole e sorrisi. Sarà bello vedere che cosa si inventeranno adesso.

Quentin40 - "Botti"

La realizzazione della promessa che era "Thoiry", e l'opportunità di lasciarsi finalmente dietro il peso di quella grande hit. È con brani come "Botti" che Quentin40 dà lezioni di stile, scrittura e cuore.

MYSS KETA - "LE RAGAZZE DI PORTA VENEZIA REMIX (feat. Elodie, Priestess & Joan Thiele)"

E chi l'avrebbe mai detto che dopo anni di gavetta tra via Lecco e via Melzo, tra le file delle ragazze di Porta Venezia sarebbero entrate così tante persone? Nessuno, ed è per questo che questa canzone è qua—a riconoscere un progetto più che riuscito.

Tauro Boys - "Ready For War (feat. Knowpmw)"

Gli ibridi tra pop punk, emo, SoundCloud Rap e trap sono arrivati anche in Italia, e "Ready For War" è la cosa migliore che hanno generato finora.

Radical - "Navicella"

A volte non serve reinventare la ruota per fare un pezzo memorabile. Basta avere l'orecchio per la melodia e partire per lo spazio.

Izi - "Dolcenera"

Il rap che si fa cantautorato senza perdere nemmeno un grammo del peso emotivo dell'originale, la Genova del passato e quella del presente che si incontrano.

Venerus & MACE - "Love Anthem, No 1"

Quest'anno Venerus ha fatto tutto il possibile per portare un modello di R&B diverso dal solito in Italia—e ci è riuscito molto bene, come dimostra "Love Anthem, No 1".

Caterina Barbieri - "Arrows of Time"

Un'introduzione al mondo di Caterina Barbieri e alla sua pratica strumentale, puro suono da ascoltare a occhi chiusi.

Ketama126 - "SCACCIACANI (feat. Massimo Pericolo)"

L'incontro tra Brebbia e Roma, tra Love Gang ed Emodrill, tra due delle persone che sono diventate sinonimo di autenticità nel rap italiano—con una produzione di classe di Crookers e Nic Sarno a metterci un fiocchetto sopra.

Pippo Sowlo - "Re: Inoki"

Il Drake della capitale voleva dissare Inoki, ma poi si è reso conto di essere un cojone e ha fatto un pezzo e girato un video incredibile. Se non ridi ascoltandolo sei morto dentro.

CoCo - "Vorrei"

Quando CoCo parla come in "Vorrei" apre finestrelle sui desideri che non abbiamo la forza di tirare fuori dal cervello prima e dalle corde vocali poi. Tanto meglio se lo fa un beat tanto accogliente quanto dispettoso come questo di Geeno.

LIBERATO - "NIENTE"

I lieti fini sono una noia, nelle storie d'amore, ed è per questo che "NIENTE" di LIBERATO è così forte. Dopo balli, tira e molla, dichiarazioni, canti e grida, resta solo il suono di un respiro solo, stanco, arreso.

Pufuleti - "Cicogna"

"Carabinieri anticloro / Dal Mount Wasabi con il mio figliolo / Duemila anni fa venne sull'onda come un pizzaiolo / Superfico, Pufuleti donnaiolo / Contro santi, senza miracoli / I miei ragazzi mi portano a Napoli". Una cosa unica per il rap italiano, e neanche viene dall'Italia.

Madame - "17"

La riconferma del talento cristallino di Madame dopo l'exploit di "Sciccherie", il pezzo che ci fa stare tranquilli sul suo futuro creativo.

Tommy Toxxic aka Goya - "Morto a dicembre"

Un notturno riuscito alla perfezione. Su un beat pachidermico di NIKENINJA, Goya lascia libera la mente e la penna, si giostra tra interlocutori reali e immaginari, si guarda dentro senza ben sapere che cosa troverà ma con un cattivo presentimento.

MACHETE - "Yoshi (feat. Fabri Fibra)"

Quest'anno MACHETE ha sfornato hit su hit—scegliamo "YOSHI" perché ci sembra quella che ha messo d'accordo tutti, ma tutto il Mixtape da cui è tratta si meriterebbe di stare qua.

FSK SATELLITE - "UP"

La sezione gabber è un nuovo classico del rap italiano? Staremo a vedere, ma intanto questa gloriosa produzione di Greg Willen è stata trattata benissimo dalla FSK, che ha cristallizzato il suo valore nel glorioso grido "I SOLDI NON CI BASTAN / LA DROGA NON CI BASTA / PRIMO PENSIERO È MAMMA / SECONDO FSK".

Stormzy - "Vossi Bop (Remix) [feat. Ghali]"

La più grande collaborazione Italia-UK di sempre.

Aya Nakamura - "Pookie (feat. Capo Plaza) - Remix"

Una delle poche tracce che quest'anno è stata nelle orecchie di tutti per un sacco di tempo. Fortuna vuole che sia una hit, e il momento di connessione Francia-Italia più riuscito dai tempi di Sfera ed SCH.

Sick Luke - "Since A Little Kid"

"Since A Little Kid" è davvero semplice, ma davvero ben fatta. Cloud rap da manuale, puro miele per le orecchie, e uno dei pochissimi pezzi rap italiani in inglese davvero riusciti.

GIALLORENZO - "RASTA CHE FA LE FOTO"

Non è scontato fare dischi con le chitarre con riferimenti inediti per la tua nazione. E poi farli così piacevoli all'ascolto da poter convincere anche gli occasionali. E unire le canzoni in un concept ben fatto. E scriverci pure una fanzine. E fare un pezzo come questo, tutto saltelli e balzi al cuore.

Night Skinny - "Mattoni (feat. Noyz Narcos, Shiva, Speranza, Guè Pequeno, Achille Lauro, Geolier, Lazza, Ernia, Side Baby, Taxi B)"

La posse track dell'anno, coronazione della gloriosa fotografia dello stato della scena nel 2019 che è Mattoni di Skinny, un generatore di punchline e meme.

Don Joe - "Cos'è l'amore (feat. Ketama126 & Franco126)"

Un sogno che si realizza per ogni romano—le due voci principali della Love Gang insieme al Califfo, il tutto orchestrato da uno dei producer storici dell'hip-hop italiano.

Tommy Dali - "'99"

La voce che si spezza, la nascita di una nuova speranza dell'R&B in Italia, un pezzo che potrebbe anche non dire niente da quanto lo dice bene—solo che lo dice, eccome.

Marracash - "Quelli che non pensano (feat. Coez)"

Già è molto bello che Marra abbia riesumato un classico del rap italiano. Poi è ancora più bello che ci abbia scritto sopra un testo lucido, brutale e spietato su tutto il brutto del mondo, dei nostri tempi e dell'Italia. Ne parla anche nell'episodio di Noisey Personal, se non l'avete visto.

wuf - "Maiden"

Non è facile spiegare perché un pezzo lo-fi hip-hop è meglio di un altro, ma wuf sembra avere qualcosa in più nel marasma di producer senza nome che massaggia il cervello collettivo di internet. "Maiden", note di pianoforte sorrette da un fischio tremolante, ne è un buon esempio.

Abby 6ix - "Jail of Milan 2"

Di solito i sequel non sono efficaci come gli originali, ma Abby 6ix è riuscito a ricreare la magia dell'originale e a farci credere, con il suo flow brillantemente monocorde, che davvero in Barona si può crescere come ad Harlem.

Enzo Dong - "Limousine (feat. Tedua)"

"Ci eravamo promessi di stare insieme alla fine di tutto." Vi ricordate quanto sembrava tutto puro tre anni fa, quando Enzo e i ragazzi della Nuova Scuola erano all'inizio delle loro avventure? Un pezzo come questo, realizzato e ascoltato oggi, è da brividi, e il migliore di Enzo finora.

Tutti Fenomeni - "Valori Aggiunti"

Un capolavoro del nuovo Tutti Fenomeni, un ragazzo che ha una scrittura di quelle che escono di un po' dai confini in cui tutti, in un gioco di imitazioni reciproche, abbiamo deciso di disegnarci attorno. "Voglio incidere solo dischi brutti / Così sarò sicuro di piacere a tutti", come dice lui. "Andiamo a fare il mondo bello."

Lil Jolie - "Farsi Male"

Il primo pezzo non su SoundCloud di una delle voci più malinconiche e dolorose del SoundCloud italiano—e, giustamente, è davvero molto malinconico e doloroso. E ben fatto, grazie anche alla produzione di Close Listen e alla penna di Vipra.

Geolier - "Yacht (feat. Luche)"

Un padre e un figlio, artisticamente parlando, che si ritrovano sulla stessa traccia. Emanuele, il debutto di Geolier, è pieno di momenti emozionanti ma è in questo che si sente il testimone del rap campano passare di mano in mano.

Paky - "Rozzi"

Lo street rap esiste ancora, gli inni di quartiere e di città esistono ancora. Tutto qua.

maggio & Tanca - "Raffreddore"

Invece di un emo rapper che fa il verso agli americani, abbiamo un emo rapper con il suo grande amico chitarrista e producer che prende ispirazione dal nostro, di emo, e ci fa pezzi convincenti e laceranti e bellissimi come questo.

tha Supreme - "m12ano (feat. Mara Sattei)"

Questo pezzo è qua perché è il più semplice di 23 6451—due fratelli, melodia, una storia come tante. Un momento di equilibrio nel turbine di innovazione che è la musica di tha Supreme.

Vegas Jones - "Follia del Mattino"

Vegas e Boston George hanno pubblicato La Bella Musica quasi dal nulla, e l'hanno fatto così in fretta che non abbiamo fatto a tempo a organizzarci per renderci conto di quanto sia una conferma del valore della loro coppia artistica. Ah, e "Follia del Mattino" è un titolo bellissimo.

Andrea Laszlo De Simone - "Immensità (Suite)"

25 minuti che sembrano usciti da quando la musica italiana non doveva fare le canzoni ironiche di tre/quattro minuti su tutti i più noiosi stereotipi sulle città, le relazioni, quelle cose lì.

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Le 50 canzoni internazionali del 2019

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Ciao, abbiamo preparato una lista di 50 pezzi che ci sembra raccontino bene l'anno che abbiamo appena passato. Sono le migliori canzoni straniere del 2019? Non necessariamente. Non è una classifica, è più un riassunto cronologico di pezzi che ci sono sembrati importanti, significativi o anche solo, semplicemente, belli. Stanno anche tutti in una playlist su Spotify.

Lungo il corso della lista trovate anche dei link ad articoli e video che abbiamo fatto quest'anno. Qua trovate invece la stessa cosa, ma con le canzoni italiane. Pronti? Via.

NLE Choppa - "Shotta Flow"

Che cos'ha di speciale "Shotta Flow"? Niente. È un pezzo bello street. Ha dei video con dei ragazzi giovani che fanno vedere le armi in quartiere. Ha un beat semplicissimo. Ha creato un balletto virale. Ha regalato al suo autore un contratto milionario. Puro 2019.

Lizzo - "Juice"

Il più grande crossover tra pop e black music degli Stati Uniti quest'anno, una hit istantanea che suona già senza tempo, il pezzo della definitiva consacrazione di Lizzo.

Polo G - "Pop Out (feat. Lil Tjay)"

La forza di Polo G è quella di far incontrare easy-listening e complesse dinamiche di strada, ma senza mai scadere in stereotipi né banali esagerazioni. Anzi, come in "Pop Out", raccontando il tutto in maniera onesta e consapevole, con una sofferenza lancinante e una realness tangibile.

Helado Negro - "Running"

Il 2019 è stato l'anno in cui abbiamo iniziato un po' più di prima a renderci conto che l'ansia è una cosa seria, di cui si può parlare e per cui si può chiedere aiuto. Ed è anche grazie a brani come "Running", scritta per calmare l'ansia del suo autore, che è stato così.

James Blake - "Mile High (feat. Travis Scott & Metro Boomin)"

Un esempio di come l'hip-hop, l'indie e l'elettronica si possono influenzare reciprocamente per creare cose nuove, fresche ed emozionanti.

Sleaford Mods - "Discourse"

Andrew Fearn e James Williamson continuano a sputare odio e disgusto per il Regno Unito in cui vivono e, per estensione, per le destre e il capitalismo. E riescono a farlo suonando catchy as fuck.

Gunna - "Who You Foolin"

Una produzione di Wheezy perfetta costruita su una chitarrina trillante, su cui Gunna dimostra di aver trovato una sua voce—ok, l'influenza di Young Thug si sente ancora, ma il modo in cui l'MC di Atlanta butta insieme le parole è puro relax per i timpani e la mente.

Dave - "Black"

Quando anche in Italia faremo pezzi così intelligenti e profondi all'interno di dischi ambiziosi ma anche di successo allora potremo dire di avere davvero una scena coi controcoglioni. Fino ad allora, teniamo la testa bassa.

Little Simz - "101 FM"

In Italia abbiamo una visione ristretta del rap inglese, ma dischi come quello di Little Simz sono fondamentali per capire che c'è un mondo intero oltre il grime. "101 FM" è il suo pezzo meglio riuscito, un brano impossibile da ascoltare restando fermi.

Juice WRLD - "Fast"

"Fast" è un esempio di come Juice, e per estensione una certa fetta del grande rap americano, aveva imparato la lezione dell'emo mainstream dei primi anni Dieci per creare mine sentimentali.

Billie Eilish - "xanny"

Qualsiasi cosa Billie abbia fatto quest'anno è suonata rivoluzionaria in un contesto pop, ma sono i pezzi più sussurrati e distorti come "xanny" che dimostrano quanto siano cambiati i gusti del grande pubblico.

billy woods + Kenny Segal - "Spongebob"

Un capolavoro di produzione da parte di Kenny Segal, costruita sul velluto di una semplicissima linea di basso, reso perfetto dalle strofe visionarie di billy woods.

Holly Herndon - "Eternal"

Un coro di voci, un'intelligenza artificiale, una canzone d'amore all'interno di un disco che racconta senza volerlo la società ipercontrollata e asfissiante in cui viviamo.

Rosalía, J Balvin, El Guincho - "Con Altura"

Il pezzo con cui Rosalía ha attraversato l'Atlantico e si è affermata nel mondo della musica latina contemporanea.

Koffee - "Rapture"

Con "Rapture" e gli altri pezzi dall'EP a cui dà il nome, Koffee ha dimostrato che il reggae è ancora vivo e sa ancora regalare nuovi spunti e sfumature alla formula decennale con cui è sempre stato fatto.

Lil Nas X, Billy Ray Cyrus - "Old Town Road - Remix"

La storia più 2019 dell'anno, quella che ha infranto ogni record possibile nelle classifiche statunitensi e sdoganato la pratica dei remix nel pop internazionale.

Claude Fontaine - "Cry For Another"

Un pezzo che reinventa il dub e lo mette su un'impianto indie rock statunitense. Niente di rivoluzionario, ma davvero bello da ascoltare.

King Gizzard & The Lizard Wizard - "Planet B"

Un pezzo thrash metal che parla della crisi climatica a partire da uno degli slogan più usati nelle proteste di Fridays For Future. Dato che siamo su VICE, potevamo non metterlo?

PNL - "Deux frères"

"Le monde ou rien", cantavano i PNL nel 2015 dalle Vele di Scampia. Su Deux frères si sono resi conto che neanche dominare il mondo può farli stare bene.

Tyler, The Creator - "EARFQUAKE"

Possiamo ancora definire Tyler, The Creator "un rapper”? Probabilmente no—e meno male, perché il suo nuovo album IGOR mostra una nuova e coraggiosa direzione, esemplificata alla perfezione da "EARFQUAKE".

Institute - "Anxiety"

Un commento su YouTube dice "these guys are 43 years too late"—magari è anche vero, ma ce ne fossero di band che suonano punk così, oggi.

slowthai - "Northampton's Child"

Il momento in cui slowthai si è tolto le vesti dello spaccatutto e si è messo a nudo, raccontando la sua storia da brividi.

Mac DeMarco - "Preoccupied"

Un pezzo che ha dentro tutta l'ansia dei millennial che non ne possono più di stare su internet e sui social media, e che magari vorrebbero solo levarsi di culo e stare nelle praterie immense della Bible Belt. Però non possono, perché ci lavorano, perché lo fanno tutti. Se solo avessero un po' di coraggio.

Vampire Weekend - "This Life"

Non era per niente scontato che i simboli dell'indie rock newyorkese dopo gli Strokes non mollassero un colpo nel 2019—e invece Ezra Koenig se ne è uscito con un'altra serie di pezzi che fanno tornare il cuore e il pensiero a quando gli Stati Uniti non sembravano un buco infernale.

black midi - "953"

Chi l'avrebbe detto che nel 2019 si potevano ancora fare cose con le chitarre che nessuno aveva mai sentito?

Ozuna - "Te Soñé de Nuevo"

Non è facile buttare fuori hit su hit senza perdere un colpo, ma Ozuna lo fa sembrare la cosa più semplice del mondo. "Te Soñé de Nuevo" è il suo pezzo più bello di questo 2019, e uno dei più azzeccati della musica urbana contemporanea.

Denzel Curry - "RICKY"

Un pezzo biografico da brividi per uno dei rapper più sottovalutati della nostra generazione.

King Princess - "Cheap Queen"

Dopo aver droppato alcuni dei singoli più belli del 2018 in cui, guarda caso, raccontava benissimo l'esperienza queer nella nostra epoca, King Princess l'ha rifatta con "Cheap Queen"—brano che dà il titolo e il la al suo bellissimo esordio solista.

(Sandy) Alex G - "Hope"

Alex G non è più un ragazzino con la chitarra che si registra da solo le canzoni. Cioè, non lo è mai stato—quello era il modo semplice con cui attirava gli occasionali. La realtà è che ha sempre saputo scrivere pezzi brutali come "Hope", schiaffi emotivi che ti fanno venire voglia di continuare a prenderne ancora ed ancora anche se parlano di morte.

J Balvin & Bad Bunny - "La Canción"

Questo è stato l'anno in cui due pesi massimi più forti della musica urbana hanno deciso che magari scontrarsi non era una buona idea. Forse era meglio fare un disco insieme, e in mezzo alle hit per muovere il culo metterci una canzone—"La Canciòn"—piena di alcool e dolore che fa venire i brividi.

Kate Tempest - "People's Faces"

Un lumicino di speranza dopo uno dei dischi più brutali e veri della nostra epoca. Tutto qua.

Charli XCX - "Gone (feat. Christine and the Queens"

"Gone" è tutto quello che vogliamo dalla musica popolare oggi—sincerità, bellezza, melodia, sperimentazione, ibridazioni. E un ritornello memorabile.

Freddie Gibbs & Madlib - "Crime Pays"

C'è un motivo se si diventa pesi massimi del rap americano, no?

Burna Boy - "African Giant"

Pezzi come "African Giant" dimostrano che chi pensa che l'Africa sia ancora solo un'influenza da dichiarare e i suoi artisti solo forza creativa da sfruttare hanno torto marcio: l'Africa non ha bisogno dell'Occidente per spaccare.

HAIM - "Summer Girl"

Ok, "Summer Girl" è un plagio di "Walk On The Wild Side", ma è stata un respiro d'aria fresca in un'estate martoriata da crisi politiche, paure varie per lo stato del mondo e disagio.

Megan Thee Stallion - "Hot Girl Summer (feat. Ty Dolla $ign & Nicki Minaj"

L'affermazione a livello mainstream di una nuova stella del Southern Rap, capace sia di scrivere barre da brividi che di far ballare un'intera nazione e generare meme su meme. Che poi è una cosa importante, oggi come oggi, diciamolo.

BROCKHAMPTON - "IF YOU PRAY RIGHT"

Vi ricordate quella cosa per cui la black music nasce in buona parte dal gospel, no? Ecco, "IF YOU PRAY RIGHT" è il risultato tematico e sonoro di decenni e decenni di evoluzione, ed è commovente.

Duki - "Goteo"

A volte ci scordiamo che l'America Latina è un continente intero, e che quindi non dobbiamo fermarci ai suoi nomi più in vista per esaltarci—"Goteo" dell'argentino Duki ha il potenziale per essere una hit internazionale.

Bon Iver - "Naeem"

Non era scontato che Justin Vernon continuasse il percorso di decostruzione musicale che aveva intrapreso con 22, A Million senza stancare, e invece. "Naeem" è un capolavoro di speranza ed emozione.

Lana Del Rey - "hope is a dangerous thing for a woman like me to have - but I have it"

Prima Lana era una femme fatale patriottica. Oggi è un'artista completa, impegnata e padrona della propria sessualità. Al termine del viaggio introspettivo fra acque tenebrose che è il suo ultimo album, Lana conserva la speranza e chiude il cerchio con uno spiraglio di luce.

JPEGMAFIA - "Jesus Forgive Me, I Am A Thot"

Quest'anno JPEGMAFIA ha fatto il salto di qualità. Cioè, intendiamoci: sono anni che grida e sputa contro qualsiasi cosa, e perde sudore in giro per il mondo. Ma oggi ad ascoltare mine come "Jesus Forgive Me" ci sono migliaia e migliaia di persone, non cento esaltati.

DaBaby - "INTRO"

Il pezzo più forte di DaBaby finora, il primo in cui non spacca e basta ma spacca e ci fa emozionare raccontandoci la sua vita.

Danny Brown - "Theme Song"

Una canzone ubriaca, stanca, destrutturata, stramba—proprio come il suo artista, che a oltre 40 anni dimostra che si può essere nelle prime linee del rap contemporaneo anche senza voler spaccare a tutti i costi.

Lous and the Yakuza - "Dilemme"

"Dilemme" ha sporcato di trap il pop francese—proprio come ha fatto Rosalía in Spagna e nel mondo. Un vortice di bellezza, strada e danza, sfarzo e semplicità, stile e malinconia.

Floating Points - "Last Bloom"

Floating Points è diventato una leggenda dell'elettronica e del clubbing internazionale pubblicando solo due album in dieci anni. Ci sarà un motivo, no? Se non è chiaro, basta ascoltare "Last Bloom"—un compendio di tutti i motivi per cui la sua musica sfugge alle descrizioni, dato che ha dentro di tutto.

FKA twigs - "mary magdalene"

Nel suo ultimo disco, Twigs racconta la sua esperienza di donna divorata e definita dal patriarcato—e lo fa meglio di chiunque altro, e "mary magdalene" è il pezzo in cui lo fa meglio.

Earl Sweatshirt - "EAST"

Impenetrabile, affascinante, apocalittico: Earl Sweatshirt è il prodotto del mondo di oggi e "EAST" è come suonerebbe tutto il rap se non fossimo ancora qua a convincerci che va tutto bene.

Have a Nice Life - "Sea of Worry"

Non è facile scrivere un classico come Deathconsciousness e avere ancora la capacità di far venire i brividi di terrore e ansia a chi ti ascolta, ma con "Sea of Worry" gli Have a Nice Life ce l'hanno fatta benissimo.

Lil Uzi Vet - "Futsal Shuffle 2020"

Una produzione spaziale con echi di Lorenzo Senni per il primo singolo tratto da Eternal Atake di Lil Uzi Vert, un fiume di parole da cui è un piacere farsi sovrastare, una outro leggendaria che campiona l'iper-memata intervista di Nardwuar a Uzi.

Stormzy - "Audacity (feat. Headie One)"

Un passaggio del testimone del rap inglese dal suo nome più brillante di sempre a uno dei suoi nomi più promettenti di sempre.

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La canzone italiana che aveva previsto il disagio di questo decennio

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Dobbiamo veramente prendere sul serio le classifiche “del decennio” che vediamo circolare in giro? Voi sapete come la penso, ma mai mi sarei aspettato che stavolta avrebbero scomodato dieci anni interi invece dei soliti circoscritti deliri sul miglior disco dell’anno. A questo punto, poiché stiamo in ballo e pure in bolla, vi dico io qual è la canzone che riassume il decennio in tutto e per tutto.

Non è straniera, come potete intuire dal fatto che siamo su Italian Folgorati: è infatti italianissima, e non è stata nemmeno composta e pubblicata nel decennio succitato. E il suo autore è uno di quelli che nei radar della “modernità” è sempre stato fuori tiro. Stiamo parlando di “Nel 2000” di Pierangelo Bertoli.

Italian Folgorati si è sempre concentrata nell’analisi di interi album di inediti, ma per questa volta è doverosa un’eccezione. Faremo zoom solo su questa traccia come se fosse un nostro regalo di Natale, una sorpresa inaspettata alla quale togliere il fiocco. Tra l’altro è proprio parlando di una mitica compilation di Natale che tirammo fuori per la prima volta il nome di Bertoli.

Pierangelo è sempre stato un cantautore incazzereccio. Comprensibile, dato che era costretto su una sedia a rotelle a causa di una poliomelite contratta da bambino.

Certo che la visione di Bertoli di Natale non è mica per famiglie o tendente alla presa a bene, anzi. L’incipit era “Quando è arrivato dicembre viene Natale / È l'anno vecchio è marcio e degradato / mi sembra a volte che sia giunto il giorno.” D’altronde Pierangelo è sempre stato un cantautore duro e puro, disincantato, comunista fino al midollo, socialmente impegnato, vicino alla sinistra extraparlamentare riottosa e sempre abbastanza incazzereccio. Comprensibile, dato che era inoltre costretto su una sedia a rotelle a causa di una poliomelite contratta da bambino.

Nato in una famiglia che non aveva neanche la radio, motivo per il quale dovette imparare i rudimenti della musica dall’esterno e da autodidatta, il cantautore di A muso duro è un esempio di forza, coraggio e coerenza, nonché a volte di autoironia. Un esempio è la sua esilarante comparsata con Elio e Le Storie Tese in “Giocatore mondiale” e il titolo di un suo disco, Sedia elettrica, che parla da solo.

Bertoli è capace di scrivere testi affilati come una lama nella sua ferma denuncia realista, ma è anche autore di canzoni d’amore prive di fronzoli e piene di speranza. Non si può dire però, nonostante la popolarità raggiunta con brani quali “Pescatore" ed “Eppure soffia”, totem della canzone ecologica italiana, che a livello sonoro fosse un innovatore. Anzi, la sua musica ricalca delle orme country/folk rock dalle quali difficilmente si separa, e quando lo fa i risultati sono spesso discutibili, come nella qui citata “Italia d’oro”.

pierangelo bertoli
La copertina di Dalla finestra di Pierangelo Bertoli, cliccaci sopra per ascoltare "Nel 2000" su YouTube

Bertoli era anche talent scout, e nella sua storia c’è questa macchia di aver diffuso e amplificato la musica di Ligabue. Luciano gli rende infatti oggi omaggio nei live con una versione di "Eppure soffia" superiore alle interpretazione dei suoi stessi brani. Fortunatamente Pierangelo, quando si fece scrivere pezzi da lui, scelse quelli che forse sono i più interessanti della produzione del Liga, ovvero “Figlio di un cane” e “Sogni di rock n’roll”, che però anche qui ricalcano sonorità rockeggianti a stelle e strisce abusate.

Molto prima però, nel 1984, esce un disco di Bertoli chiamato Dalla finestra. Non brilla per chissà quali novità, ad eccezione dell’utilizzo indiscriminato di una batteria elettronica Simmons a pad settata su un preset qualsiasi. Però contiene la perla: “Nel 2000” è infatti totalmente sintetica, con tanto di ossessiva bassline, tappeti sintetici e arpeggiatori sinuosi da fare invidia alle migliori cose di Roberto Colombo e compagnia bella.

Siamo di fronte a una visione del futuro che, letta adesso, è una perfetta descrizione del decennio che sta per finire, come se improvvisamente Bertoli fosse entrato in una macchina del tempo e fosse tornato indietro a raccontarcelo. Non ci credete? Eccovi un analisi passo passo del testo.

Nel 2000 tante idee saranno diventate una parentesi
Superate dal progresso, annullate dal processo della sintesi
Nel 2000 cambieremo le cambiali che saranno spiritose e digitali

In effetti il tentativo di far sparire punti di vista sul mondo è oggi più che mai palese. Revisionismi, negazionismi, ridimensionamenti forzati dal “processo della sintesi” sono di inquietante attualità. Lo stesso vale per le “fatture digitali”, le “domiciliazioni bancarie” e tutte queste belle cose qui, presentate come un qualcosa di imprescindibile e volto a migliorare la vita di tutti, rese spiritose dalle propagande pubblicitarie anche se in realtà sono l’ennesima inculata—mi si perdoni il francesismo.

il 2000 è il risultato di un innesto combinato già da adesso
è un curioso esperimento coronato da immancabile successo
è l'insieme di una scelta post-moderna
è un filosofo privato della lanterna

Nel suo viaggio back to the future il nostro Pierangelo si rende conto che negli anni Ottanta era già tutto predisposto per un’ascesa drammatica della tecnologia, anche se allora sembrava a misura d’uomo e all’acqua di rose. Mai sottovalutazione fu più perniciosa. La “scelta postmoderna” non è altro che internet come descritto da Edward Docx, il quale crea—per l’appunto—filosofi che parlano senza sapere di cosa, mischiando le carte come capita con certi rossobrunismi di casa nostra, o con quelli che vorrebbero essere progressisti ma cadono nel generalismo. La lanterna non la si usa più neanche per illuminare le case, figuriamoci un pensiero.

Nel 2000 l'osservanza sarà il metro per vedere tutti uguali
Sia davanti alla famiglia che nel cuore delle leggi universali
Nel 2000 sarai stata inseminata da una roba radio-telecomandata

Siamo di fronte a quello che i media propagandano oggi: l’uguaglianza, non come accettazione delle diversità individuali ma come imposizione autoritaria e dittatoriale, per cui tutti devono obbedire ciecamente a uno status il quale non prende più in considerazione il caos e le variabili della vita. Tutto oggi avviene con una leggerezza quasi brutale. Anche nella procreazione non ci sono contraddizioni e controindicazioni, fare i figli è come ingoiare una caramella grazie ai prodigi della tecnica. Il Bertoli abortista di “Certi momenti” qui si scaglia contro i produttori in serie di “carne da cannone,” un po’ come Huxley ne Il mondo nuovo, individuando i rischi di una società che controlla tutto, anche le nascite e la loro psicologia.

Sei miliardi di persone come tante mignottone
Saran pronte ad accettare ogni ordine speciale
E saremo più leggeri, liberati dai pensieri
Incapaci di protesta, senza grilli per la testa

Bertoli torna da un pianeta oramai decimato per ovvi motivi—evidentemente prevede il futuro della crisi climatica, oggi di miliardi di persone ce ne sono sette—ma la questione non cambia. Tutti oggi sono pronti a prostituirsi per soldi e potere, che poi sono solo le briciole di quello che accade in cima alla piramide. Per farcela accettano di tutto nell’illusione di poter arrivare chissà dove, vivono in una condizione di leggerezza innaturale, che in effetti impedisce una vera protesta se non quella a breve termine e già calcolata dalle autorità. Per quello che meriteremmo, stiamo tutti lavorando gratis. E invece di mandare tutto all’aria siamo ben contenti di alzare lavatrici al cielo chiedendo la riapertura delle fabbriche che falliscono.

Non più magri, non più grassi, niente alti, niente bassi
Tutti seri ed impettiti, sei miliardi di partiti
Luccicanti canne vuote di strumenti senza note
Sempre intenti a funzionare su uno schema razionale

Il tentativo di inculcare nella testa della gente dei modelli irraggiungibili porta oggi a un boom della chirurgia plastica e ad uniformare visi e corpi, sia anche solo con i filtri di Instagram e i selfie scattati dalle giuste posizioni. Miliardi di persone che se ne fottono degli altri per cui l’individualismo non è di stampo anarchista ma piuttosto becero capitalismo in cui la follia è da sopprimere perché la forma deve prevalere sul contenuto. Quello che predicano tutti i manager della terra, oggi.

Nel 2000 non si troverà opposizione
Nel 2000 avremo una unica opinione
Nel 2000 le risate saran solo programmate e generali
Con il giusto sovrapprezzo passeranno perversioni personali
Nel 2000 avremo un cambio di cultura e una genesi contraria alla natura

In effetti non ci sono opposizioni oggi se non quelle legate al virtuale, il che è tutto dire, e per virtuale vale anche l’opposizione di piazza senza basi solide. L’opinione è quella che viene divulgata dagli organi dell’informazione e assorbita come vera. L’umorismo è indotto, come quello di Striscia la Notizia, tanto che anche le peggio tamarrate di cattivo gusto, tramite meme, si condividono su Whatsapp per “far ridere”. E se paghi su internet puoi fare quello che vuoi, anche scoparti i bambini. Il cambio di cultura generale prevede che si possa fare a meno dell’Amazzonia, che si possa schiacciare gli esseri umani solo per il profitto personale che viene prima di qualsiasi discorso oggettivo sugli equilibri del mondo.

Un computer di quartiere porterà direttamente dentro casa, sia la spesa giornaliera
Che i concetti elaborati dalla NASA
Nel 2000 sarà tutto uniformato, pertinente, freddo, asettico, mondato
Scaricate le tensioni, abbattute le emozioni, imbottiti di calmanti
Psicofarmaci ambulanti
Voleremo senza pesi verso esotici paesi
In un Eden straperfetto finché durerà l'affetto
Scivolando sul pianeta in un'estasi completa
Chi lontano, chi vicino, a seconda del quattrino
Nuova stirpe di guaudenti psico-pillol-dipendenti
Si godranno lo splendore di una stirpe superiore

Qui si descrive con precisione internet, Amazon, l’evaporare della scelta analogica e il passaggio al tutto e subito digitale. È una previsione e descrizione della generazione trap, tutta stories e sciroppi porpora tesa all’ottundimento? Come non pensare all’isolazionismo di oggi per cui è possibile andare in qualsiasi isola sperduta ed esotica “scivolando sul pianeta” solo con un click su Google Maps? E in effetti la differenza di classe oggi fa anche la capacità della dipendenza, del distacco dalle emozioni materiali, di una stirpe superiore che di queste emozioni può fare senza gettandosi nella droga dei dati online e nella droga reale. E intanto ovviamente i poveracci assumono la calce, spendendo quello che non hanno per paradisi artificiali. E poi il gran finale:

Nel 2000 tu mi parlerai in giapponese
Nel 2000 non avremo più pretese.

Ovviamente a Bertoli non interessa il giapponese in sé quanto la moda del Giappone preso come esempio in contesto HD. Gli interessano l’immaginario futuribile e le potenzialità economico-avveniristiche di quel paese, lanciato verso una pericolosa accelerazione. Si riferisce al modello lavorativo che annulla l’individuo per un nazionalismo esasperato, all’esterofilia coatta per cui dell’Italia non si sa più nulla a livello di storia e cultura ma di un paese come il Giappone tutto. Perché in fondo chissenefrega, la distopia oramai è un valore, il disastro un orizzonte da augurarsi, l’annullamento di sé e delle proprie radici un fatto spontaneo. Prende, insomma, il testimone critico dei The Stalin di “Stop Jap”, e lo lancia nella nostra penisola.

La scrittura di Bertoli in questo brano è costruita come una moneta a due facce. Da una parte si sente la voce del moralista che se la prende col malcostume dei progressi tecnici lanciati a doppia velocità dal turbocapitalismo. Dall’altra non fa altro che redigere una descrizione accurata di un presente che è così e basta. Ognuno tragga le sue conclusioni e stia dalla parte che preferisce.

Non possiamo accusare Bertoli di essere stato un boomer, ma piuttosto di aver descritto da lontano una montagna ora a noi talmente vicina che non riusciamo a vederne i contorni. Comunque, decennio di merda o meno, è giunto il momento di salutarlo e di augurarci buone feste. Lo faremo con le parole dello stesso Pierangelo. Il vento soffia ancora, tutto sommato. Niente paura.

Auguri vecchi amici, buone feste.
Vi ho sempre amato molto e non lo dissi.
Vorrei vedere un mondo senza ladri,
Politicanti, preti e pregiudizi.

Cosi Natale è il tempo degli auguri
E l’anno vecchio va buttato via.
Speriamo che sarà la volta buona,
che avremo il più bell’anno che ci sia
.”

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Il disco dimenticato che racconta i segreti musicali della Milano da bere

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Alla fine di ogni anno solare esce sempre qualche dato che ti fa saltare sulla sedia. Questa volta il motivo del mio balzo è stato la notizia che Milano sarebbe al primo posto in Italia per qualità della vita. Da bravo romano mi sono detto: ma quale vita? Tranne poche eccezioni, personalmente trovo la capitale lombarda cosparsa di Zyklon B a livello culturale.

C'era però un tempo in cui Milano pullulava di agitatori culturali, di sobillatori e terroristi sonori. Si nascondevano nelle pieghe delle illusioni della Milano da bere degli anni Ottanta e riuscivano nonostante questo a flirtare con i grandi nomi del design, della fotografia e della moda.

C'era però un tempo in cui Milano pullulava di agitatori culturali, di sobillatori e terroristi sonori.

Uno dei principali documenti di questa situazione storica musical/politico/ multimediale è la compilation Matita Emostatica, uscita nel 1981 e fino a poco fa difficile da reperire. Oggi invece grazie all’impegno della Spittle, etichetta sempre alla ricerca di recuperi di perle sepolte nel fango del tempo, possiamo riacquistarla.

Credo sia un'operazione importantissima perché Milano si riappropri della sua storia e dell’equilibrio importantissimo tra underground e mainstream, tra serio e faceto, tra pubblicità e situazionismo tout court al di fuori delle solite menate commerciali.

matita emostatica
La copertina di Matita Emostatica, cliccaci sopra per ascoltare la compilation su Spotify

Iniziamo subito dalla copertina, una splendida serigrafia a cura del celebre Roberto Masotti, famoso per essere il fotografo che ha immortalato le vicende della ECM Records, la mecca delle etichette Jazz. E il fotografo ufficiale del Teatro alla Scala. E autore di scatti a John Cage, Arvo Pärt e Demetrio Stratos. E autore di installazioni e video, tra gli altri, per i Matmos.

Il titolo, scritto in caratteri che riecheggiano i fasti delle pubblicità anni Trenta, evoca da subito il manifesto d’intenzioni del disco. L'obiettivo è cicatrizzare le ferite di una città, e giocoforza di un paese intero, a colpi d’inventiva. Vediamo allora chi sono queste menti illuminate sdraiate regalmente in questi solchi.

L'obiettivo di Matita Emostatica è cicatrizzare le ferite di una città, e giocoforza di un paese intero, a colpi d’inventiva.

Le danze si aprono con "Chameaux Tunisiens" di Angelo Viaggi: chi era? Nelle note di copertina si legge che egli lavorava in uno studio di registrazione nel quale ebbe modo di frequentare band come i Camaleonti, i New Dada di Maurizio dei Krisma, e i Corvi. La sua traccia è una sorta di afrobeat new wave, tutto chitarra distorta direttamente nel mixer, percussioni e syndrum passate nell’eco con tanto di xilofono, un basso pulsante in levare e un pianoforte che fa capolino mordendo la partitura.

Per parafrasare il cognome del suo autore, è un viaggio che viene però troncato dopo soli due minuti e ventuno secondi per lasciare il posto ad un rock n’ roll bagnato di new wave ad opera della Baker Street Band. E chi sono? Bé, tali Dave Baker e Chuck Fryers, già nella Treves Blues Band dell’armonicista Fabio Treves, già neò supergruppo prog milanese L’Enorme Maria insieme a Lucio “Violino “ Fabbri della PFM e Alberto Camerini. A loro si unisce il bassista/cantante Tino Cappelletti, poi session man per Mike Bloomfield, Eugenio Finardi, Rocco Tanica, Tolo Marton e via discorrendo.

baker street band
La Baker Street Band in una fotografia d'epoca

L’energico trio si fa largo a colpi di chorus come un’alternativa blues elettrica ai Duran Duran, e poi laszia spazio al patron del progetto, ovvero Al Aprile con i suoi Electric Art. Al è il produttore della compilation, ma non solo: giornalista musicale di grido e lui stesso musicista, leggenda vuole che dissuase Battiato dall’usare un nomignolo più “fashion” come ragione sociale.

Oltre ad aver suonato con lo stesso Battiato, Juri Camisasca, Giorgio Gaslini ed essere stato membro della seminale Naïf Orchestra, fece parte dei geniali Fontana, nelle cui file militava anche Maurizio Marsico. Con i fratelli La Bionda registrarono un 45 giri incredibile nell’area del synthpop italiano, uscito nell’81, che diede praticamente il via agli esperimenti mainstream dei Righeira.

"Rock da camera, rock portatile, rumori del rock, punk jazz, e ancora…"

La traccia presente in Matita Emostatica, ovvero "Frattonove Under the Sky", è come descritta nel disco un esempio di "rock da camera, rock portatile, rumori del rock, punk jazz, e ancora…" con una lungimiranza che prevede quasi i Cheer-Accident, storico nome dell'etichetta Skin Graft, a con le sue commistioni tra ipnosi e tempi spezzati, con tanto di voce tenorile piazzata a caso.

Un gioiello che fa spazio subito dopo agli Alphaville di Luca Majer e Franco Bolelli, il tecnico del suono dei mitici Magazzini Criminali, compagnia teatrale fiorentina. E com'è il pezzo? Bé, è una serie di nove microframmenti di brano uniti tra loro da un insopportabile, e per questo eccezionale, acufene sintetizzato tra percussioni sub programmate, chitarre no wave e sfracelletti sperimentali estremi quanto succosi.

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La copertina di Architettura Sussurrante, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Il nostro Luca, anche lui parte dei Fontana e presente nella storica compilation Architettura Sussurrante del grandissimo architetto e designer Arturo Mendini, è stato collaboratore dello Studio Azzurro, scrittore di libri musicali e giornalista di settore: ma soprattutto, pare, inventore di brevetti mondiali di tecnologia per il caffè espresso.

I Le Jour Prochain invece suonano una darkwave pestona tra i PIL e i Rats, primordiale, grezza e caratterizzata da un inglese volutamente maccheronico e sguaiato. Nelle sue file troviamo Stefano Comazzi, nei Novanta produttore di technona tipo Grey Area e presente anche nella compilation Gathered targata 1982, che conteneva un ricco campione della new wave/metal del periodo, sotto l’egida di Claudio Sorge.

"Non ce ne frega un cazzo: facciamo pezzi dei mitici Sessanta perché possiamo suonarli con lo stesso stato d’animo che ha il vecchiardo quando canta 'Romagna mia'."

Il lato B si apre invece all'insegna dell'alcolismo musicale. Il motto di Rocky Schiavone and the Gangsters, tratto dalle note di copertina, è "non ce ne frega un cazzo: facciamo pezzi dei mitici Sessanta perché possiamo suonarli con lo stesso stato d’animo che ha il vecchiardo quando canta 'Romagna mia' o il piccolo infante che ulula 'Candy Candy'".

La matrice Skiantos è ben evidente, ma è spruzzata di rock steady/ska/dub e non si perde in tecnicismi inutili. In questa cover di "Nessuno mi può giudicare" si vedono i prodromi della ben più paracula formula dei BlueBeaters, ma con un livello di cazzoneria inarrivabile.

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Monofonic Orchestra, fotografia promozionale

I misteriosi OFF-SET seguono a ruota con un brano di elettronica assurdista e giocattolosa, erede dei Devo come dei Residents: nessuna nota infatti sugli elementi coinvolti in questo “ghosting” musicale. Troncati col machete, sono l'introduzione al brano-feticcio dell’ album, ovvero "Lucy’s First Appointment" della Monofonic Orchestra aka Maurizio Marsico.

Il pezzo è basato su un arpeggio rock'n'roll al pianoforte, sul quale si adagia una frase rubata a un jazzista che gli espertoni dovranno indovinare, ma che vi dico io qua visto che siete lenti: trattasi di "Cool Blues" di Charlie Parker, trasformata in un pattern a incastro. Completano il tutto una drum machine e uno snare di quelli fastidiosissimi. La struttura del pezzo è ispirata agli esperimenti eretici di Lennie Tristano, il primo a usare l’overdub nel jazz fottendosene dei puristi.

Dai solchi di Matita Emostatica escono i fumi di una Milano delirante, più da pere che da bere, che si opponeva alla qualità della vita in superficie.

Dal jazz smontato si passa al blues rock elettrico, con gli Stumblers che si cimentano in una cover fracicona del classico "Last Clean Shirt", che probabilmente è la cosa più normale di questo disco. A terminarlo è infatti la traccia "Automatic Guitar" di Roberto Masotti, il designer della copertina, dedicata nientepopodimenoche a Pete Cosey, mitico chitarrista del periodo elettrico fine settanta di Miles Davis.

Quattro minuti e trenta di chitarra noise/no wave martoriata sulla base di una specie di assurdo maranzano sintetico bucacervello ottenuto non si sa come. Siamo di fronte a un must che supera il tempo e lo spazio. D’altronde nel 2011 uscì un libro dallo stesso titolo, opera proprio del succitato Luca Majer, dove questi due elementi erano gettati come palline contro al muro, con tanto di “colonna sonora” contenuta in un CD che di questo disco può essere considerato una vera e propria appendice.

Dai solchi di Matita Emostatica escono i fumi di una Milano delirante, più da pere che da bere, che si opponeva alla qualità della vita in superficie e tirava fuori l'immondizia da sotto il suo tappeto senza paura di scontri frontali. È che a volte la qualità di una città non sta tanto nella vita, quanto nella morte di quelli che ne hanno fatto la storia. Come dice Al Aprile, "si tratta di cambiare semplicemente punto d’osservazione. Dimensione. Si è sempre ascoltata una sola faccia della rock'n'roll music e le possibilità di rovesciare il suono appaiono d’un tratto inaspettate”. Che si possa fare la stessa cosa oggi con Milano?

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