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Vieni a farti due chiacchiere con noi e Nitro a Sonora Radio Fest

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La fregatura di scrivere di musica per lavoro è che le tue opinioni, i tuoi ragionamenti e i tuoi consigli spesso sembrano per finire in una specie di vuoto. Certo, ci sono i commenti sui social, ma discutere nei commenti fa diventare pazzi. Tu sei lì che sproloqui su questa o quella canzone, e vorresti che qualcuno ti sproloquiasse indietro, ma capita di rado.

Per questo siamo contentissimi che questo weekend ci abbiano invitato a Sonora Radio Fest, l'evento che si terrà nell'Antico Convento San Francesco di Bagnacavallo (RA) con un programma fitto di conversazioni, conversazioni vere, su radio, musica, giornalismo e sul mondo della comunicazione in generale. Tra gli ospiti ci saranno professori, autori della radio e della TV, ci sarà Wad di Radio Deejay, ma anche artisti come Nitro, Maria Antonietta e Vasco Brondi. E poi ci saremo noi.

Il nostro editor Giacomo Stefanini parlerà con il pubblico di come funziona Noisey, si farà una chiacchierata con Wad e Marco Villa (autore di E poi c'è Cattelan!) su come cambia la musica dalla radio al web e infine parteciperà a una specie di intervista collettiva a Nitro. Così speriamo di fare il pieno di conversazioni reali e poter tornare a scrivere su Internet più forti di prima.

Oltre a tutti questi talk, ci sarà anche il reading di Maria Antonietta, il concerto di Fulminacci e uno sleep concert a cura di Leonardo Passanti. L'ingresso è gratuito e la Romagna è un posto bellissimo. Per consultare il programma completo, vai sul sito di Sonora Radio Fest.

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La prima intervista di Lil Jolie, da SoundCloud alle stelle

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Ieri stavo perdendo tempo guardando stories su Instagram quando sono arrivato a quelle di Lil Jolie, che si chiama Angela e ha 19 anni. Le ho aperte e mi sono trovato davanti uno screenshot del testo di "Doing It Wrong" di Drake, uno dei pezzi più belli di quel capolavoro delle emozioni e della malinconia ma fatti con il rap che è Take Care. Angela aveva scelto le parole più forti di quel pezzo, forse di tutto l'album:

Viviamo in una generazione in cui non siamo innamorati, e non stiamo insieme / Ma ci impegniamo proprio a sentirci come se stessimo assieme / Perché abbiamo paura di vederci insieme a qualcun altro

Drake aveva 25 anni quando ha scritto quelle parole, ma funzionano ancora—sia per chi di anni ne ha 30 che per chi ne ha 15. Internet è entrato con violenza in ogni ambito dell'umano, e quindi anche nelle relazioni umane: connessi a chiunque ma soli e ansiosi, mandiamo segnali di fumo ad amori ipotetici, sempre pronti a sperimentarne di nuovi. E quindi è bello, e brutto, che quelle parole abbiano toccato Angela, una che canta parole come "internet ci ha divisi".

Che poi, lo cantavano prima i Tauro Boys. Perché il beat del pezzo in cui lo dice era loro, e lo ha prodotto Close Listen—che è anche il suo, di produttore. Ma a lui, e ai suoi pezzi in cui parla di com'è oggi amare quando l'amore non si vede, ci è arrivata piano piano. L'inizio sta in un paesino vicino a Caserta.

lil jolie
Lil Jolie, fotografia di Francesco Marchini

"Non mi definisco casertana, lì ci dormo solo. Sono cresciuta a Napoli, è da 14 anni che sono sempre lì", mi racconta. "Al secondo anno di liceo mi sono resa conto che ero diversissima dai miei compagni di classe. Ero la strana, mi vestivo diversa. Sono stata la prima a farmi il septum, i tatuaggi, mi vedevano male." E così prende un pullman e in mezz'ora è a Napoli, dove si incontra con ragazzi e ragazze che fanno parte di un gruppo Facebook che frequenta. Il caso vuole che è lo stesso gruppo in cui stanno alcune delle più grandi speranze del SoundCloud Rap italiano.

"Ci stavano Marco e Alessio degli Psicologi. C'era Zyrtck, che allora non faceva musica ma ballava. Ci trovavamo a Piazza Plebiscito, poi all'Orientale", mi spiega Angela, che però allora non faceva musica. Cioè, in un certo senso sì: aveva studiato chitarra da piccola e faceva le cover acustiche su YouTube. "Mi ascoltavo Asia Ghergo, le facevo anch'io. Una mia cover di LIBERATO aveva fatto 50k visualizzazioni", mi racconta Angela. "Ero fomentatissima! Ma oggi ho tirato giù tutto."

"Io sono sempre stata amante del rock, amavo i Pink Floyd e i miei compagni non sapevano manco chi fossero"

"Io sono sempre stata amante del rock, amavo i Pink Floyd e i miei compagni non sapevano manco chi fossero", continua. "Sono stata una delle prime che ha ascoltato Calcutta, gli altri ci sono arrivati con molta calma. E suonavo alle assemblee con il mio gruppo. Gli Oasis li ho pompati per molto tempo al liceo. Papà ascolta De André, Guccini... magari da piccole dicevo 'leva sta lagna', ma sono cose che sento mie. Di musica campana adoro Enzo Avitabile." Close la interrompe: "Gigi D'Alessio!" E lei convinta: "No, quella non è musica! Neomelodico e musica popolare sono due mondi opposti. Il neomelodico no, assolutamente. Papà la definiva la musica della camorra. Non mi rivedo in quello, mentre nella musica popolare sì. Mi sento molto legata alle mie radici."

Ecco, le radici: è un rapporto strano, quello che Lil Jolie ha con il luogo da cui viene. Ci dorme e basta, ma ci torna sempre. "Sto nella Terra dei fuochi, tutti quanti fin da quando ero piccola mi dicevano di andarmene, che lì non c'è futuro. Ma almeno adesso non riuscirei ad andare via. Io e i ragazzi della mia generazione qua siamo cresciuti, qua abbiamo fatto le nostre prime esperienze, qua tutto." E sono quelle che lei canta nei suoi pezzi—gli amori semplici ma che sembrano un sacco difficili. I primi, quelli che fanno più bene e più male.

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Lil Jolie, fotografia di Francesco Marchini

Il primo pezzo che ha su SoundCloud non è il più vecchio che ha scritto, perché un po' li ha cancellati. Si chiama "SANGUE DAI POLSI" e ha un testo di una semplicità disarmante: "Affogo dentro alle paranoie qui dentro a 'sto letto / E passa il tempo ed è già buio pesto." Ci sono "pillole", "rose", "tatuaggi", un arpeggio suggerito, come schiacciato da un cuscino: echi di Lil Peep? "Sì, assolutamente", mi dice Angela, "Nessuno è mai riuscito a fare quello che faceva lui. Scriveva proprio quello che sentiva... la chiave è quella. Dovevi fare la sua vita per scrivere quelle cose." C'era da aspettarselo, dato l'artwork della sua "Pills & Chains".

Tutto è cominciato davvero per caso: "Ho conosciuto un ragazzo di SoundCloud, KidHakku, che mi ha chiesto di provare a cantare su una base. Mi è piaciuto quello che stavo facendo... e così è cominciato". SoundCloud è un giro piccolo, in cui i contatti sono facili e spontanei, e così il suo nome d'arte ha cominciato a girare all'interno della scena—Coma la aiuta a registrare, fa pezzi con un'amica che vive a pochi chilometri dal suo paese, Valeshnishna. E si incrocia anche con quello di Close Listen, che fa i beat per i Tauro Boys, cioè il gruppo che più c'entra con l'immaginario della comunità e con il nuvolasuono ma, allo stesso tempo, non c'entra del tutto—perché ha fatto il salto al di fuori del giro, con un'etichetta vera e un ufficio stampa vero e Spotify e tutto quanto. E così anche lei comincia il percorso che la porterà qua, oggi, a parlare con me, e con un pezzo che esce per la Warner.

"Sto nella Terra dei fuochi, tutti quanti fin da quando ero piccola mi dicevano di andarmene, che lì non c'è futuro. Ma almeno adesso non riuscirei ad andare via"

"Lei mi ha convinto sul lato umano, oltre che su quello musicale", spiega Close, "Le mandavo beat che non usavo e lei ci scriveva tre pezzi al giorno, e me li rimandava nel giro di un'ora. E quindi mi son detto, 'lei vuole per forza fà 'sta robba". Alle sue parole semplici per amori difficili si è poi messo a contribuire anche Vipra, la penna dei Sorrowland, un altro gruppo che usa i sentimenti e internet come waypoint della loro navigazione musicale—e così è nato il team che fa Lil Jolie insieme a Lil Jolie.

Che poi, "fa"—diciamo che "contribuisce a". Perché alla base c'è sempre l'amore, che è l'unica cosa di cui Angela scrive, oggi. E c'è internet, che ci ha divisi. "Tutte le canzoni che ho scritto nell'ultimo periodo vengono da una storia andata male", spiega Angela, "Stavamo nello stesso gruppo. Litigavamo, lui pubblicava le chat... rendeva tutto mediatico. A me dava fastidio questa cosa, perché lo fai per avere approvazione dagli altri. Arriva un punto in cui non ce la fai più e ti esce spontaneo scrivere quello che pensi. E quindi lo fai."

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Lil Jolie, fotografia di Francesco Marchini

Sono gli stessi sentimenti che vengono fuori da "Farsi Male", il pezzo per Warner di cui sopra, il primo veramente ufficiale—un pezzo che dice tutto quando dice "Ma l'amore è per gli adolescenti / E nei problemi ci cresciamo finché non ci vanno stretti". Nel beat non ci sono più le chitarrine di scuola Gothboiclique ma un pianoforte lento, un accenno di sintetizzatori che quasi sono archi—è una cosa che parte da SoundCloud e lo rende diagonale, senza genere, adatto a infilarsi nelle playlist sia che siano sull'indie italiano che sul rap che sul pop.

E così, sulla forza di tracce da 10, 20k stream su SoundCloud, Angela si è trovata, nel suo piccolo, a dover gestire l'essere un'artista su Instagram oggi: "Ho avuto un impatto che non mi aspettavo", continua, "Alcuni commenti... pensi, siamo nel 2020 e succedono ancora queste cose perché sono donna? Insulti, gente che mi scrive "tu stai dove stai perché chissà cos'hai fatto. All'inizio mi prendeva proprio male, contattavo Close, il mio manager... 'guarda 'sto stupido che mi ha scritto'. Loro mi fermavano, ma la voglia di rispondere era tanta." Sono le tristi regole del rap, le invidie di cui tutti cantano—ma poi, parlare di "rap" per Lil Jolie è corretto?

Quando glielo chiedo lei mi dice, convinta, "no". E basta. Me lo dice a Milano, vicino ai Navigli, lontana dal suo paese che non è il suo paese e in una città che non è la sua città. E i suoi che ne pensano? "Papà cerca di non trasmettermi ansie. Mamma all'inizio prendeva il rosario in mano, è una classica cosa campana... Diceva 'Oddio, ma perché non potevo avere una figlia normale?' Poi però si è tranquillizzata, ho invitato a casa il mio manager... gli facciamo salsiccia e friarielli." Le radici sono profonde nella terra, i rami puntano in su, verso dove chissà.

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Fare musica che parla del cambiamento climatico è un casino

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"Non c'è un pianeta B / Apri gli occhi, renditene conto"
- King Gizzard & The Lizard Wizard

Uno dei cartelli più in voga alle manifestazioni per il cambiamento climatico va dritto al punto e recita "There is no planet B". Non c'è dubbio che "Siamo in 7 miliardi e siamo in Massimo Pericolo" sia più accattivante, ma a volte per colpire la mente e la pancia di chi legge è meglio dire una cosa semplice e vera: abbiamo solo questa Terra, e se continuiamo a rovinarla alla lunga moriremo tutti una terribile, terribile morte. O almeno, chi non è estremamente ricco.

Nessuno sarà del tutto al sicuro quando, come dicono in inglese, la merda colpirà il ventilatore; ma i poveri saranno quelli che soffriranno prima e di più. Poi magari chi avrà un sacco di soldi potrà prendere una navicella spaziale e fondare una colonia su Marte mentre la Terra brucia, no? Perché è proprio di questo che parla il nuovo disco di un gruppo di australiani pazzi che si chiama King Gizzard & The Lizard Wizard, una delle poche band che sanno ancora usare le chitarre per fare cose fighe e innovative per un pubblico ampio.

"Marte è per i privilegiati, la Terra è per i poveri / Marte, lentamente, si terraforma / La Terra è stata deformata"

Tutto il disco, che si chiama Infest The Rats' Nest, è attraversato da un senso di disperazione ambientale. Un ragazzo senza un soldo resta sulla Terra inquinata a ingrassarsi di birra mentre, in cielo, i ricchi si costruiscono un nuovo pianeta. Allevamenti intensivi generano orde di mucche deformi mentre "l'arrogante essere umano strappa arti dal mondo". Nel sozzume del bestiame gonfio di medicine i virus imparano a resistere agli antibiotici, così da finirci tutti una volta per tutte. E questo solo nel lato A del disco; nel secondo, un gruppo di ribelli viene scacciato dal pianeta e cerca di salvarsi colonizzando Venere. Non finisce bene.

"Passo un sacco di tempo a pensare al futuro dell'umanità e a quello del Pianeta Terra. Naturalmente questi pensieri entrano nei testi", ha dichiarato il loro frontman Stu MacKenzie parlando del disco, che è la cosa più violenta e pesante che i King Gizzard hanno mai fatto. Hanno sempre parlato della fine del mondo, ma attraverso il filtro della fantascienza. E l'ambiente era già entrata nei loro testi recenti, nello specifico dalla prospettiva degli animali—"Fishing For Fishies" parlava di quanto fosse un peccato pescare, "Acarine" era cantata dalla prospettiva di un'ape malata. È la prima volta, però, che la crisi climatica diventa il tema portante di un loro disco.

king gizzard lizard wizard infect
La copertina di Infest The Rats' Nest dei King Gizzard, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Che poi, "loro"—un po' di chiunque. Perché la crisi climatica è una di quelle cose davvero difficili da concepire e accettare. È vera, sappiamo da decenni che c'è, ma solo ora che il tempo si fa sempre meno e figure come Greta Thunberg è entrata con prepotenza nelle nostre coscienze e nella discussione pubblica. Abbiamo incominciato a renderci conto tutti dell'impatto che tutto ha sul nostro pianeta, dal modo in cui ci spostiamo ai vestiti che mettiamo alle cose che mangiamo. E anche internet stesso, e quindi—per restare in tema—quello che ascoltiamo in streaming, i video che guardiamo su YouTube, questo articolo che state leggendo.

Essendo una cosa enorme ma complessissima, divisiva e invisibile, il cambiamento climatico sfugge all'immediatezza del testo di una canzone di protesta. È qualcosa di più inaccessibile della guerra in Vietnam nel 1968, dell'apartheid in Sud Africa, della mafia in Sud Italia—ma paradossalmente è vicinissimo a tutti noi, anche se solo in prospettiva. In guerra magari non ci andrai mai né tu né i tuoi figli, ma con la crisi climatica a un certo punto dovrai averci a che fare. E quindi è più difficile parlarne e scriverne: dalle tragedie si tirano fuori i capolavori, certo, ma è molto più difficile chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e fuggire dai problemi.

Dalle tragedie si tirano fuori i capolavori, certo, ma è molto più difficile chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e fuggire dai problemi.

Escludendo le canzoni vagamente ambientaliste residue del folk dei decenni passati e le operazioni di beneficienza, c'è una grande penuria di musica che cerca di trovare un modo per riflettere la realtà della crisi climatica. Il rischio è di fare cose come "Domani" degli Artisti Uniti per l'Abruzzo: cose che fanno bene al mondo ma davvero, davvero cringe. Ci è cascato da poco il rapper e comico Lil Dicky, che ha fatto un pezzo per salvare la Terra che si chiama "Earth" ed è roba da film della Disney, se nei film della Disney ci fosse Justin Bieber che si paragona a un babbuino dicendo di essere "come un uomo, ma con il buco del culo più largo". È davvero brutto.

Non sono brutti invece i pezzi dei King Gizzard, come quelli di altri artisti di prim'ordine che negli ultimi anni hanno provato a parlare del mondo invece che d'amore, baci, del sole, del mare e del vento fresco dell'estate. Una è ANOHNI, già Antony Hegarty, che in HOPELESSNESS è riuscita a rendere capolavori di pop elettronico d'avanguardia cose molto complesse come l'ottusità di chi minimizza l'impatto del riscaldamento globale sulle nostre vite, la brutale divisione tra esperienza umana contemporanea e natura, il senso di colpa e di impotenza di chi si sente responsabile del degrado del mondo—donna malata di cancro, nel testo della conclusiva "Marrow".

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La copertina di HOPELESSNESS di ANOHNI, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Come hanno notato i nostri colleghi americani in un pezzo simile a questo ma che non, Björk sta parlando della crisi climatica senza parlare della crisi climatica almeno da un paio di album, Biophilia ("Amore per la vita") e Utopia. I suoi testi vanno un po' in tutte le direzioni ed è difficile trovare al loro interno un messaggio chiaro, ma l'amore per il pianeta e la natura è una calda luce che pervade tutta la sua opera—e diventa palese in "Náttúra", pezzo cantato in islandese con Thom Yorke come ospite, altro musicista che scrive testi che c'entrano con l'ambiente senza dirlo esplicitamente da anni. Andate a rileggervi i testi di "Idioteque", "2+2=5" e "Bloom", se non ve ne siete mai accorti.

Un conto però è fare canzoni che parlano dell'ambiente, un conto è farle sulla crisi climatica. C'è una lunga lista su Wikipedia di canzoni il cui messaggio è "salviamo la Terra" o "la Terra sta andando in vacca", ma la stragrande maggioranza è stata scritta in un tempo diverso dal nostro. Non c'è un momento preciso in cui il clima si è palesato in tutta la sua incomprensibile immensità, ma sicuramente è ora. Già nel 1991, per dire, i Megadeth facevano un conto alla rovescia per l'estinzione; già nel 1984 gli Iron Maiden scrivevano dell'orologio che segna l'apocalisse. Ma oggi "estinzione" e "apocalisse" hanno un significato diverso, più vicino e inquietante. E quindi scriverne è più difficile, fastidioso.

Oggi "estinzione" e "apocalisse" hanno un significato diverso, più vicino e inquietante. E quindi scriverne è più difficile, fastidioso.

La soluzione? Ce ne sono tre, principalmente. Dimenticarsi dei problemi e scrivere di cazzate è una, la più semplice. Prendersi male e cantare il proprio intimo in mezzo al mondo che brucia è un'altra, ed è sicuramente potente per il suo potenziale evocativo e distruttivo—"Siamo sette miliardi, frega un cazzo degli altri", insomma. L'ultima, la più difficile ma per questo la più bella, è trasformare la crisi climatica nel sangue della scrittura, buttare su una pagina e in una canzone le paranoie e le preoccupazioni che tutti, in un modo o nell'altro, proviamo per provare a trovarci un senso, sentirci meno soli.

Ah, oppure possiamo fare la versione metal del discorso di Greta Thunberg alle Nazioni Unite e devolvere i proventi in beneficienza. Non sarà una gran cosa a livello artistico, ma almeno un minimo di bene lo fa.

I King Gizzard & The Lizard Wizard suoneranno dal vivo il 15 ottobre all'Alcatraz di Milano.

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Ma che c'entra Mecna con Sick Luke?

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La settimana scorsa Mecna e Sick Luke sono stati i protagonisti del primo della serie Niente di Strano, organizzata da BuddyBank e Tidal. Prima del loro show abbiamo fatto una chiacchierata con loro: eccola qua sotto.

Arrivato al disco numero cinque, il quinto in sette anni, credo che Mecna non abbia bisogno di grandi presentazioni: Mecna è, un po’ per davvero e un po’ perché semplificare aiuta a gestire il magma caotico dell’esistenza, il rapper-che-parla-d’amore, e lo è per definizione. Anzi, i pezzi con cui è più noto—la cosiddetta “Trilogia dell’estate” per esempio, o alcuni singoli del mio suo disco preferito, Laska, come “Faresti con me” o “Vieni via”—gli hanno guadagnato il titolo di rapper preso male. D’altra parte, non avremmo potuto pensare altro, sentendo frasi come “E che fatica non trovarsi più nel letto / Dimenticarsi l’amore per ricordarsi il sesso” oppure “Non sarò disco d’oro, ho perso le forze / Ma ho scritto le canzoni con dentro le cose nostre”? O anche la semplicità della richiesta “Faresti con me quello che non faresti con nessun’altro?”.

Però adesso è successo Neverland, un album che ha confuso un po’ le acque, dato che i suoi beat sono tutti a cura di Sick Luke. Cioè, in sintesi estrema, del produttore (e di una delle menti) del gruppo rap che ormai quattro o cinque anni fa ha spaccato il modo di fare rap in Italia, creandone uno completamente altro, alieno e controverso: la Dark Polo Gang. L’annuncio di questa uscita, che è un vero e proprio disco collaborativo, ha quindi instillato parecchia curiosità anche in quella fetta di ascoltatori di rap che per età, per temi o per mood non sarebbero il pubblico di riferimento di Mecna.

Su quale sia esattamente il pubblico di riferimento di un rapper come Mecna mi interrogo ogni sei mesi circa da qualche anno a questa parte.

Inciso: su quale sia esattamente il pubblico di riferimento di un rapper come Mecna mi interrogo ogni sei mesi circa da qualche anno a questa parte. La collocazione più ficcante che gli ho trovato finora è che principalmente Mecna è un rapper che piace agli universitari che ascoltano l’indie italiano (categoria in cui per onestà intellettuale confesso di non riconoscermi fino in fondo) e, in effetti, non credo sia un caso che io l’abbia visto live per la prima volta al MI AMI di tre o quattro anni fa, quando ancora la commistione tra hip-hop e cantautorato che oggi va per la maggiore stava in una fase embrionale.

Ma va detto che il rap melodico, l’emo-rap e tutte le ramificazioni di questa cosa che oggi nel nostro mercato discografico va molto forte, sono figlie anche del modo in cui Mecna tra i primi ha provato a rappare sfilandosi la maschera del duro e mostrando una certa forma di vulnerabilità, della messa in mostra estrema, quasi emo, dell’interiorità. Il tutto su basi scarne e basate su idee poco italiane, come l'EP Bagagli a mano—che aveva dentro, per dire, beat di Aphex Twin e Flying Lotus.

Quindi, andando oltre l'idea "HEY LA DARK POLO E MECNA", il suo matrimonio artistico con Sick Luke ha senso—perché Luke è un beatmaker italiano ma formato all'estero, con una mentalità che gli consente di essere credibile sia quando fa la trap buia come la notte o i pezzi cloud rap di scuola svedese o i pezzi con il chitarrista de I Cani. E insomma, il giorno prima che il disco uscisse ufficialmente io, Mecna e Sick Luke abbiamo fatto delle chiacchiere su questo loro disco nuovo. Stanno qui sotto, insieme ad alcune indicazioni precise sulla migliore modalità per ascoltarlo (coi Kleenex, tanto per cominciare).

mecna sick luke neverland
La copertina di Neverland di Mecna e Sick Luke, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Di tutti i nomi della scena rap italiana i vostri due sono tra quelli che sulla carta avrei fatto più fatica ad accostare: come è nata questa collaborazione? So che la prima intenzione era fare insieme un pezzo solo, "Akureyri", e che poi siete finiti a scrivere un disco intero.
Sick Luke: È stato molto spontaneo. Dopo che abbiamo chiuso “Akureyri” a distanza eravamo presi bene, ci siamo beccati in studio da me e gli ho fatto ascoltare un po’ di beat. Inizialmente volevamo fare un EP. A un certo punto però avevamo troppa roba per un EP e abbiamo deciso di continuare, fare un vero e proprio collabo disco, tipo Metro Boomin e Nav.
Mecna: in realtà il team di produzione comprende anche Alessandro e Valerio che suonano live con noi stasera.*
Sick Luke: Ognuno si è portato il suo musicista, tipo i Pokémon. Lui Cianci e io Bulla.

Musicalmente come vi siete trovati, anche sul piano delle reference, degli ascolti?
Sick Luke: Anche se non sembra abbiamo tantissimi punti di contatto, lui in realtà è molto hip-hop perciò è stato facile. Nella nostra musica prendiamo direzioni diverse, però negli ascolti stiamo su cose che combaciano.

In copertina invece c’è una fotografia: un occhio verde su cui sta venendo applicata una lente a contatto azzurra. Io ho dato una mia interpretazione, ma volevo chiedervi qual è il significato che ha per voi.
Mecna: L’artwork è mio ma lo scatto è di un fotografo americano, e secondo me è una bella metafora per Neverland: per me vuol dire “guardare la realtà con un’altra ottica”, ma gioca anche sul dualismo—la questione del doppio filtro—perché su questo disco siamo in due con anime molto diverse che si “filtrano” a vicenda.
Sick Luke: Però è un’immagine aperta, come un quadro: non c’è un’interpretazione sbagliata, questa è semplicemente quella che piace a noi.

Il titolo del disco invece chi lo ha scelto?
Mecna: L'ha scelto Luke. Io non avrei voluto dare—per continuità, visto che non l’ho mai fatto—il titolo di un brano a tutto l’album, ma poi mi ha convinto.
Sick Luke: L'ho chiamato e gli ho fatto uno spiegone: "Questo disco è un viaggio, un concept…”. quando lo ascolti entri in un mondo parallelo, è una cosa-che-non-c'è e che non è mai stata fatta prima: quindi è proprio neverland. L’atmosfera poi è molto dreamy, secondo me era perfetto. Non l’ho proposto perché c’era il pezzo che si chiamava così. Anzi, all’epoca non aveva neanche la forma che ha ora.

“È un disco da ascoltare in tre occasioni, secondo me: con la tua ragazza, quando hai appena litigato con la tua ragazza o quando c’è una che ti piace e lei non ti s’incula. È quella la wave.”

Che è quasi quella di una posse track.
Mecna: L'idea di metterci sopra tanta gente è venuta a Luke quando il pezzo era già chiuso, ed era la mia strofa e basta. A me l’idea gasava, anche perché sono tutti artisti con cui non avevo mai fatto nulla e che all’epoca avevano fatto uscire relativamente poco.

Il mood generale del disco secondo voi qual è?
Sick Luke: È un disco da ascoltare in tre occasioni, secondo me: con la tua ragazza, quando hai appena litigato con la tua ragazza o quando c'è una che ti piace e lei non ti s'incula. È quella la wave.
Mecna: Comunque il leitmotiv è sempre l'amore.

L'uscita di domani invece come la vivete, avete ansie, aspettative? Luke mi sembra tranquillissimo per queste cose, Mecna forse un po’ meno.
Sick Luke: Avoja! io so che alcuni hanno delle aspettative su quello che dovrei fare, che dovrei fare solo i dischi d’oro eccetera, ma a me non interessa. Il progetto della mia vita non è fare ori e platini: se arrivano ben venga, ma quello che importa a me è di fare buona musica. Voglio poter sperimentare, divertirmi.

Notavo che Neverland è ricchissimo di campioni. Night Skinny ci diceva che l’uso dei sample è una figata, e che dovrebbe tornare.
Sick Luke: Ha ragione! Io ho sempre campionato, da ragazzino mi sono pure tatuato un campionatore sul polpaccio perché pensavo che avrei sempre fatto solo quello, che non avrei mai suonato… “Akureyri” è un campione degli Arcade Fire, dalla colonna sonora del film Her. “Canzone in lacrime” è un campione, anche “Si baciano tutti”. Comunque è vero che la trap da noi campiona poco, all’estero invece Metro Boomin per esempio campiona a stecca. Da noi fanno suoni senz’anima. Dark Polo Gang, che è il mondo da cui provengo, non è senz’anima: tutti i miei beat hanno un mood oscuro che ricorda gli anni Settanta, i film di Lucio Fulci, di Dario Argento… i campioni sono la wave.

Il disco si chiude con “:(” che sul finale ha un vocale quasi motivazionale di Luke, dove dici a chi ascolta “Fa’ quello che ti pare, non ascoltare gli altri”.
Sick Luke: Esatto, motivazionale. Per me invece è importante trasmettere il "Fate quel cazzo che volete", soprattutto in Italia. Secondo me poi “Faccina triste” è anche il pezzo con cui si può iniziare ad ascoltare il disco, funziona come apertura.
Mecna: Sono stato io a voler inserire quel vocale, ci tenevo che si sentisse anche la sua voce. In questo disco Luke è uscito in maniera più umana, anche se forse non è la parola giusta, ed è la veste in cui l’ho conosciuto io.

Voi vi scrivete spesso su Whatsapp, vi mandate i meme?
Sick Luke: Io sono molto old school, se vedo che mi stai mandando un vocale di un minuto ti telefono, per me scriversi è una cazzata. Mi piace parlarti al telefono, beccarti in studio… Di meme invece ne mando pochi solo perché io sono già un meme! Però dovrei iniziare a farli su Mecna, quei meme che fanno i ragazzini adesso coi cartoni animati presi male, con Bart Simpson che piange ascoltando un suo pezzo.

Mecna prima mi dicevi che il filo conduttore nei tuoi dischi è sempre l’amore, e c’è anche una barra in cui dici “Non fare un disco se non stai soffrendo”. Sei veramente sempre innamorato quando fai musica?
Mecna: Per me è l’unico motore possibile, l’unica occasione in cui sento il bisogno di fare musica: la voglia di esprimere quel tipo di interiorità e di emotività. Non per forza sto soffrendo o mi hanno lasciato, però l’amore è il punto di partenza. di base parlo solo di cose che ho vissuto, c’è sempre una persona, una destinataria reale dietro ai testi. Magari non è la stessa in ogni canzone, però c’è sempre.

"Non è che se sei maschio non puoi essere sensibile o sei omosessuale. Come se fosse un insulto poi, nel 2019. "

Parli di donne in un modo che è totalmente anti-macho, lontanissimo dallo stereotipo del rapper spaccone, sessista.
Sick Luke: Ieri è stato assurdo, per la prima volta mi è arrivato un beef su di lui. Mi hanno commentato su instagram con una citazione di Gué: "'Sti cantanti italiani sfigati, sempre innamorati, una tipa li ha sempre lasciati". A me non è mai arrivato questo tipo di negatività.
Mecna: Commenti così ne ho sempre avuti mille: sul fatto che sono sempre preso male, che sono melodico…
Sick Luke: Io ti vedo un po’ Drake, sempre sotto per una pischella.
Mecna: Sono felice di vedere che ultimamente anche molti altri artisti da questo lato si sono addolciti. Secondo me fa parte dell’essere umano, non è che se sei maschio non puoi essere sensibile o sei omosessuale. Come se fosse un insulto poi, nel 2019.
Sick Luke: Chi mi segue dalla Dark me lo ha detto, ma perché fai un disco così, tutto preso male, ma a me non frega un cazzo. Poi bisogna precisare che questo non è nemmeno triste come gli altri.
Mecna: Secondo me quello che traspare davvero dai testi è un messaggio di forza, di speranza. Poi chi vuole limitarsi a leggere i titoli e a dire “Sei sempre preso male, hai rotto il cazzo” è libero di farlo, bella lì.

Anche Tedua nella sua strofa su " Non dormo mai" dice "Da ragazzino ascoltavo Mecna e Luché perché mi piace il rap poetico". Questa definizione di “rapper poetico” la senti tua?
Mecna: Me lo hanno sempre detto, però più che poeta mi sento rapper. Comunque, non vedo perché dover dare un'etichetta per forza. Nei miei dischi c'è sempre stata un’alternanza tra pezzi solo rap e pezzi soprattutto pop.
Sick Luke: Magari dopo questa intervista vai in studio e registri un disco trap…

Alla fine che definizione daresti di cos’è la trap?
Sick Luke: Per me la trap è quando parli di droga. Se parli di droga sei trap, punto. Calcutta è trap perché parla di tachipirina, per esempio.

Ultima domanda: in “Akureyri” dici una cosa...
Mecna: "Non ho più messo quelle dannate Vans dopo l'ultimo giorno di agosto"

Ecco: è una citazione di “31/08”, sì?
Mecna: Certo. Le Vans nuove mi distruggono i talloni, ho smesso del tutto di portarle. È anche una metafora: le cose, come le scarpe, non sai mai dove ti colpiscono, ma ti fanno sempre male all'inizio.
Sick Luke: Non lo so. Io metto solo Balenciaga, sono le più soffici.

* Come dicevamo all'inizio, il live di cui parla Mecna è il primo della serie Niente di Strano, organizzato da BuddyBank e Tidal, ed è stato davvero una figata. Dal diciannovesimo piano della torre Unicredit di Milano abbiamo sentito le chitarrine dolci di Birthh mentre il sole tramontava su tutta la città, e poi per la prima volta in live tre dei pezzi nuovi di Neverland (suonati dalla formazione al completo Mecna, Sick Luke, Alessandro Cianci e Valerio Bulla). Lo potevi vedere in streaming su YouTube, ma non preoccuparti perché tanto puoi rivederlo qua sotto.

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Slowthai è il rapper più punk di tutti

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Slowthai si esibirà alle OGR di Torino mercoledì 30 ottobre per Club to Club—puoi venirci comprando un biglietto oppure puoi tentare la fortuna commentando un nostro post su Instagram. Segui la nostra copertura di Club to Club prima del festival, succederanno tante cose.

Tyron Frampton—slowthai per gli amici—doveva nascere il giorno di Natale, ma è arrivato una settimana in anticipo. Non è un grande fan di questa festività e del suo barbuto rappresentante ufficiale, Santa Claus anche conosciuto come Babbo Natale.

Sopra al violino di "Slow Down", le sue rime si mescolano con il veleno: “Il boiler si è rotto il giorno di Natale / Chiedo a Santa "Perché la mia vita va così?" / Scriverò "riscaldamento" sulla mia prossima letterina / Fanculo Santa, fa un freddo cane". È la prima traccia del suo EP Runt—il disco che lo ha trasformato da emergente pronto a farsi strada in UK a potenza del rap mondiale da tenere d'occhio.

“Un uomo entra in casa tua dal camino e si mangia i tuoi biscotti e beve il tuo latte? È una rapina!" esclama oggi nel giardino di un pub di Shadwell, dove stiamo sorseggiando birra. “Dirò ai miei figli che nessuno può entrare in casa nostra e soprattutto nessuno può bere il nostro latte! Loro si metteranno il loro bel pigiama, passeremo una bella serata insieme e poi il giorno dopo quando si sveglieranno troveranno tutti i regali che vogliono perché sono stati bravi e perché il papà gli vuole bene".

I suoi concerti selvaggi e sudati di solito finiscono con lui in mutande e calzini, appeso alle impalcature delle luci o alle balconate.

Nonostante di solito ci si riferisca a lui come un rapper, slowthai rientra perfettamente nella nuova ondata di artisti che si rifiutano o non hanno alcun interesse a farsi definire da un genere, come Octavian, 808INK e Kojey Radical. I suoi concerti selvaggi e sudati di solito finiscono con lui in mutande e calzini, appeso alle impalcature delle luci o alle balconate, che urla 'Fanculo la regina' davanti a una enorme bandiera inglese, come se fosse un vecchio cantante punk. Inoltre, i suoi testi si muovono con facilità tra i seguenti argomenti: la sua vita da piccolo spacciatore, bere il tè con sua nonna, abitare in una roulotte dentro al parco di Butlins, amore e persone che devono "levarsi dal cazzo".

E poi c'è il suo flow, incredibilmente versatile. In "Polaroid" ricorda il Dizzee Rascal di Boy In Da Corner su un beat scuro e grime, mentre nella traccia che chiude l'EP, "Call My Own", canta un ritornello su un piano freddo e minimale. Nonostante le differenze fra le tracce, la sua voce si riconosce all'istante. Non sarebbe un'iperbole dire che la sua voce non assomiglia a quella di nessun altro. Ma qual è la sua storia?

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Foto: Aidan Cullen

Quando slowthai parla, lo fa lentamente—il nome lo ha preso da un soprannome che gli avevano dato da bambino per come parlava. Oggi, si perde tra una parola e l'altra prendendo tangenti fantastiche—a un certo punto si lancia in una storia che parla di un cecchino che prende di mira Theresa May, una moglie che assassina suo marito con il brodo, una fatina e Elmo dei Muppets che salta fuori senza motivo. Ma quando rappa è un'altra storia: il suo flow può essere rapido e acuminato e sa esattamente cosa vuole dire e come dirlo.

Forse per quanto suonano varie le sue canzoni, le sue influenze non sono ben definite. Quando gli chiedo che cosa ascoltava da giovanissimo, risponde che era in fissa con il grime ma poi si mette a cantare "Coconut" di Harry Nilsson, una canzone che ha scoperto guardando Le Iene da bambino. Sorridendo sornione, mi dice che "la scena dell'orecchio" era la sua preferita. Le colonne sonore dei film sono alla base di una buona fetta dei suoi gusti musicali, ma garage e jungle erano colonne portanti a casa sua, e sua zia per un periodo è stata insieme al proprietario di un negozio di dischi.

"Se una persona mi fa sentire un pezzo death metal io lo ascolto, magari mi carica così tanto che finisco per lanciarmi contro un muro di testa, che problema c'è".

Poi, naturalmente, ci sono gli elementi più punk della sua musica, che lui attribuisce al tempo passato con il suo fratellastro "indie". "Ascoltavo le band con lui, e ovviamente ai tempi gli dicevo 'ma sei matto, che cazzo è sta merda', ma invece oggi penso che sia una figata!". Il genere non importa per slowthai, tutto quello che conta è che gli piaccia. "Se una persona mi fa sentire un pezzo death metal io lo ascolto, magari mi carica così tanto che finisco per lanciarmi contro un muro di testa, che problema c'è".

Anche se il rap di slowthai racconta alla perfezione le storie e gli scenari elaborati dal suo cervello, i suoi video trovano il modo per aggiungere contenuti alla sua visione. Prendiamo quello di "Ladies", contenuta nel suo primo EP, che potete vedere qua sotto. C'è una scena in cui lui è nudo e rannicchiato di fianco alla sua fidanzata completamente vestita. L'immagine è potentissima, anche solo per la sua rarità nella cultura pop, ma fa anche riferimento all'iconico scatto di Annie Leibowitz che ritraeva John Lennon e Yoko Ono 15 ore prima che lui venisse ucciso. Poi c'è "North Nights", un'esperienza completamente diversa, fatta di riferimenti ai film preferiti da slowhtai: The Shining, Blair Witch, Arancia Meccanica, L'Odio. “Non so se è la mia curva dell'attenzione”, dice ridendo, in riferimento ai suoi video così elaborati, "ma non mi piace leggere. Sono una persona più visiva".

Giusto per dare un po' di contesto, slowthai è cresciuto in una casa popolare a Northampton con sua madre e quattro fratelli e sorelle. Ha passato gran parte del suo tempo mettendosi nei guai—niente di serio, ma abbastanza da rendere il suo tatuaggio preferito la scritta "sorry mum" fatta a mano sul petto. "È la frase che pronuncio più spesso", dice con un sorriso. Il suo torso è pieno di tatuaggi sparsi: uno in stile prigione russa dice "Forever Bruh", poi c'è "Sometimes" scritto in stile titoli di testa dei Simpson, la testa della Gioconda con "Smile" scritto sulla fronte. Il suo primo tatauggio è stato una piccola nota musicale sul polso che si è fatto da solo con un ago e inchiostro di china quando aveva 13 anni.

“La mamma di mio fratello maggiore—che non è la stessa che ha avuto me—era andata via e lui aveva organizzato una festa. Aveva lasciato una finestra aperta e io sono entrato da lì. Erano tutti tipi indie in fissa con i tatuaggi stick and poke, così io e una ragazza ci siamo messi lì e ce ne siamo fatti uno da soli. Ero fattissimo", aggiunge ridendo. "Sono tornato verso le 5 e alle 7 mia madre mi ha svegliato per andare a scuola, non mi ricordavo nemmeno di averlo fatto. Cercavo di grattarlo via perché ero troppo giovane, ma ovviamente non funzionava. Così mi tiravo giù la manica per nasconderlo". Sua sorella minore ha trovato il suo kit per tatuaggi e ha provato a farsi un cuore sul polso, ma le è venuto talmente male che quando sua madre se n'è accorta non ha avuto il coraggio di punire nessuno dei due.

Al momento, la sua vita si svolge per metà a Northampton e per metà a casa della sua ragazza a Londra Ovest. Quando parla della famiglia di lei, il suo affetto traspare chiaramente. "Mi hanno rimesso in salute, sia mentalmente che corporalmente. Non sapevo niente di tutta questa roba", dice, parlando del cibo biologico che ha appena comprato da Whole Foods. "Costa un sacco ma è molto più buono, ti fa sentire meglio. Bacche di goji". Il ragazzino che faceva gli scherzi ai vicini di casa scappando fra i palazzi popolari, insomma, oggi mangia bacche di goji a Kensington. Eppure, guardando quello che ha fatto fino a oggi, pare che sia soltanto all'inizio, e pare anche che non abbia competizione. Come ha detto in una delle migliori tracce dell'EP, "GTOMF", "preparatevi alle botte".

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE UK. Nel frattempo Slowthai l'ha fatto, un disco—si chiama Nothing Great About Britain ed è una fotografia perfetta del Regno Unito e del suo rap nel 2019. Lo dovresti ascoltare, e dovresti venire a Torino a sentirlo dal vivo. Noi te l'abbiamo detto.

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Il rap italiano ha un problema di droga?

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Trash Secco è un artista visivo, scrittore e videomaker romano che ha lavorato con molti esponenti della scena rap italiana e internazionale: Noyz Narcos, Achille Lauro, Marracash, Ketama126, Onyx. La sua estetica è estremamente cruda e riconoscibile, e le sue opere sono spesso incentrate sulla vita di strada, anzi, più specificamente, di borgata. Il suo gusto truce ha messo i suoi video al centro di polemiche per come mostra senza filtri, per i detrattori "glorificandola", una vita fatta di droga, vandalismo e autodistruzione.

In Italia, il rap è al centro di un polverone mediatico: c'è chi, anche dentro alla scena, accusa alcuni rapper di trattare il tema della droga con troppa leggerezza, spingendo i propri fan più giovani all'abuso senza un'adeguata informazione. Trash Secco, sentendosi chiamato in causa, ci ha mandato un articolo in cui chiarisce la sua posizione al riguardo. Avvisiamo i lettori che in questo articolo si parla esplicitamente di abuso di droga.

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Ketama126 sul set del video di "Rehab", girato da Trash Secco

I tabù sono come le fobie. Chi più e chi meno, siamo ossessionati da determinate immagini; a volte l'impressione negativa è talmente forte che cerchiamo di farle scomparire, inavvertitamente rendendole più forti. Se pensiamo alla società come a un agglomerato di pensieri, un tabù è una fobia dell'immaginario collettivo—solo che queste paure, queste psicosi ataviche non siamo noi a provarle, ma ci vengono imposte quotidianamente dai media, dai film, dai libri, e ce le tramandiamo per generazioni. È per questo che ritengo doveroso per un artista, che sia pittore, che sia scultore, regista o cantante, cercare di varcare quella trincea mentale e mettere in discussione i nostri limiti, far vedere quello che c’è dietro la censura e portare alla luce anche, anzi soprattutto le tematiche più scabrose, anche se questo significa autoproclamarsi un problema per la società.

Nella mia breve ma intensa carriera ho sempre cercato di spingere tutti gli artisti che orbitavano intorno a me a fare quel passo “falso”, quell’impresa coraggiosa che poteva glorificare o sputtanare tutta la loro carriera. Con molti ho intrapreso dei veri e propri percorsi artistici durati anni: prendiamo ad esempio Achille Lauro, con cui ho creato l'immaginario che lo ha identificato fin dagli esordi, dai video alle scenografie dei concerti, fino ai monologhi recitati nei dischi. È chiaro che più si avvicinava alla vetta della scalata al successo, più si allontanava dalle mie suggestioni, distaccandosi gradualmente dal bisogno di eccedere, di sorprendere, di spaventare.

Il suo esempio è la prova di come il sistema delle etichette discografiche, del mondo televisivo e adesso anche delle condizioni di servizio dei social controllino quello che è accettabile o meno, pescando i personaggi dall’oceano della musica indipendente e snaturandoli, rendendoli sempre più uguali l’uno all’altro. Così esercitando il “volere” di un immaginario collettivo artificiale, ci rassicurano con qualcosa di già visto e di già sentito (ecco gli accordi delle canzoni pop sempre uguali, stessi ritornelli, stesse melodie), per non destabilizzarci con qualcosa di nuovo, di differente, di diverso, di eccessivo… di angosciante.

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Quando un artista musicale firma un contratto con un'etichetta, comincia un percorso tortuoso fatto di limiti, censure e paletti di ogni genere, c’è un vero e proprio elenco di cose da non far vedere nei video. Questo vale anche per le produzioni cinematografiche, sia chiaro, anche se in modo meno invasivo, ma è infatti responsabilità dell’autore cercare di portare quello che pensa e che vuole dire al grande pubblico aggirando la censura. Il rap, come tanta altra musica in passato, è stato vittima di censure continue—ricordo video musicali su MTV dove mancava mezzo testo per quante imprecazioni venivano eliminate. Ma penso che ora dire due tre parolacce e qualche bestemmia qua e là non basti più a provocare, il linguaggio di strada è ormai radicato nel nostro immaginario collettivo più che mai—sbaglio o ho sentito qualche conduttore usare "bitch" anche a Sanremo? Ovviamente nessun rapper riuscirebbe ad eguagliare Funari in quanto a linguaggio scorretto, quindi penso che si debba giocare le proprie carte su altri campionati e cercare di trovare la propria identità attraverso il proprio territorio, e tramite la propria identità trovare anche i propri tabù, invece di prendere in prestito tutto dagli americani.

Ma ora parliamo di questa benedetta droga nei video rap. “Non basta una premessa del cazzo per non incitare a fumarsi le bottiglie”: penso che questo commento pescato da Noisey sotto il video di “Lucciole” di Ketama126 per il suo episodio di The People Versus racchiuda molte verità e molte sfaccettature di questo argomento. Secondo me "Lucciole" è un video è molto coraggioso, un’opera che ha ben poco di banale e che ultimamente vedo riflessa nei video di artisti più giovani come la FSK, ma anche in "7 Miliardi" di Massimo Pericolo. Insomma, “abbiamo sdoganato (di nuovo) la stagnola” e l'abbiamo messa davanti a milioni di utenti.

Mostrare così apertamente situazioni in cui si consuma droga pesante comporta anche delle grosse responsabilità e soprattutto è una macchia indelebile sulla propria immagine, guarda il povero Noyz che si ritrova ancora insulti gratuiti ("tossico di merda", ecc.) su qualsiasi cosa pubblichi, nonostante negli anni si sia decisamente ammorbidito, anche se resta un esempio di coerenza artistica nonostante la fama e le major. Ovviamente né Noyz e né Ketama si sono mai esposti personalmente sull’argomento droga, nonostante sia una presenza ingombrante nelle loro canzoni. È difficile parlare di un argomento del genere senza essere linciati e diventare facile preda dell’opinione pubblica e dei benpensanti, ma dall'altro lato è anche difficilissimo non cadere in retorica spicciola. Così il narcos-rap ha continuato ad esistere spavaldo, senza troppe spiegazioni, tramandandosi di generazione in generazione, sempre sul filo del fraintendimento.

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C'era da aspettarsi che prima o poi un artista di spicco dicesse la sua sulla questione, e infatti è arrivato Salmo. “Essere schiavi di una sostanza non fa di voi dei fighi, ma degli sfigati,” aveva detto in una Instagram story. "Ma quanto cazzo siete stupidi nel 2019 a farvi di eroina? [...] Esiste dagli anni Settanta, vi siete accorti di che cazzo ha combinato? [...] Almeno fatevi gli affari vostri, non fatelo vedere a questi ragazzini". Quello di Salmo è un discorso abbastanza semplice, che su alcuni punti mi trova anche d’accordo. È proprio qui la forza del suo approccio: chi avrebbe potuto contestare queste ovvietà? Eppure alcuni artisti sentono il bisogno di toccare questi argomenti. E non parliamo solo dei più giovani italiani che ho citato qua sopra, ma anche del “vate” A$AP Rocky, che quasi contemporaneamente a "Lucciole" aveva fatto uscire il suo video “Herojuana Blunts”.

Il problema di una dichiarazione pubblica del genere è che, come la censura di cui parlavo all'inizio, crea un ambiente favorevole per la proliferazione di un virus sociale: l'omertà. Sul video di "Lucciole" non è stata detta una parola, neanche un'intervista. L'unica volta che se ne è parlato è proprio in quel botta e risposta in The People Versus Ketama126 in cui Ketama ha alzato le mani: “Nel video mi si vede fumare le canne e basta”, sottraendosi a qualsiasi responsabilità. Non prende nessuna posizione, anzi, continua dicendo: “Penso che nel video si veda abbastanza palesemente lo squallore della situazione, quindi dovrebbe essere quello a invogliarvi a non usare, poi ognuno è libero di fare quello che gli pare”. Anche qui vediamo che, con la stessa semplicità di Salmo, dichiara che la droga fa male, fa schifo e non si deve usare. Come la scritta sul pacchetto di sigarette “il fumo fa male” dovrebbe convincere il fumatore a non fumare.

Posso vantarmi di aver sperimentato quasi tutto quello che c’è sul mercato, mescolando droghe come quando cerchi di fare la 10 Hit Combo su Tekken 3 schiacciando tutti i tasti a caso.

Cosa non funziona in questo approccio? Ci sono vari punti da affrontare.

Innanzitutto penso che i social media o le “promo-interviste” come The People Versus non siano il campo da gioco giusto per discutere temi delicati come questo, infatti assolvo Ketama per quella non-risposta. Tematiche così serie devono essere affrontate con ricerche appropriate, non nello spazio di una Instagram story, chiudendo l'argomento senza margine di replica.

Possiamo ringraziare Internet per questo: se la corsa è alla visibilità, per farsi vedere bisogna fare rumore. E per fare rumore bisogna urlare. E per urlare bisogna incazzarsi. E se ti vuoi incazzare per bene, ti conviene non perdere tempo a informarti, ma reagire di pancia. È così che ci ritroviamo con un giornalismo urlato e approssimativo, una politica sensazionalistica e degli artisti che sparano sentenze senza sapere di cosa stanno parlando, che c'è un album da promuovere. Grazie, Internet.

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Esistono moltissimi libri, film, saggi e documentari sul mondo della droga, e spero che ne esisteranno sempre di più, perché è un mondo sempre in evoluzione, pieno di contraddizioni e di sfumature. Nella mia umile esperienza di narconauta, ho visto il meglio e il peggio di quello che una sostanza psicoattiva può dare. Posso vantarmi di aver sperimentato quasi tutto quello che c’è sul mercato, mescolando droghe come quando cerchi di fare la 10 Hit Combo su Tekken 3 schiacciando tutti i tasti a caso, ma finivo sempre per terra. E questo mi è successo non solo perché la droga fa male, come dice giustamente Salmo, ma perché l'ho usata in modo imprudente e male informato.

Impedire a tutti di usarla è impossibile, ma si può imparare a conoscerla e a usarla nella maniera meno dannosa possibile. Affrontare un percorso di sperimentazione lisergica senza diventare dei tossici, dei criminali o, peggio, dei cadaveri, è possibile. Ed è possibile anche liberarsi da una dipendenza, ma è più difficile se mentre ci si è dentro ci si sente isolati, condannati e "sfigati". Parlo da artista/sciamano/sbomballone quale sono ora, ma soprattutto da ex tossico. Quest’anno ho salutato più di una persona per l’ultima volta, e a scriverlo mi vengono i brividi.

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Uno screengrab da "Amor Vincit Omnia" di Drone126, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube

Metti che vai a un rave, e ovviamente ti sei già fatto un paio di botte di ketch che ti eri portato da casa perché, insomma, appena arrivato devi un attimo entrare nel mood. Metti che c'è un punkabbestia francese senza denti e con un occhio di vetro, molto simpatico, che ti sventola davanti agli occhi una busta piena di pasticchette colorate, e così gliene compri un po' anche se non hai capito un cazzo di quello che ti ha detto.

Se al rave c'è una zona chill gestita da un'organizzazione tipo Nautilus, con tutti i suoi foglietti illustrativi sulle droghe, la distribuzione di strumenti puliti per assumerle e soprattutto i test per determinare la composizione delle sostanze, sei a cavallo. Tramite un comodo sistema a strisce di colore, potresti scoprire che quella pasticca è fatta al 30 percento di MDMA, e quello era ovvio, ma per un altro 40 percento si tratta di Nexus, o 2C-B, o mescalina sintetica, il che significa che se te la prendi ti aspettano due ore buone di potentissime allucinazioni visive in cui vedrai forme e colori cambiare in continuazione—senza dover cambiare la saturazione del tuo cellulare di merda, anche perché si spera che la droga ti abbia aperto la mente e tu abbia capito che lo devi buttare nel fiume quel coso maledetto. Sapendolo, allacci le cinture e buon divertimento. Ma se il test non lo fai, perché per un locale ammettere la presenza di un'organizzazione di riduzione del danno significa ammettere la presenza della droga all'interno del locale (e non sia mai! La droga fa male!), le allucinazioni potrebbero coglierti di sorpresa e rovinarti la serata, o peggio.

Se invece io sono libero di parlare delle droghe, posso dirti per esempio che non devi essere ingordo. Sei proprio sicuro di voler prendere tutte quelle pasticche in una volta? Fidati, no. E magari, se sei un pischelletto impazzito come lo ero io, fatti accompagnare alle feste da qualcuno più grande, che conosce le droghe e l'ambiente meglio di te. Altrimenti, come si dice in gergo, “ce rimani sotto”, e quando vai alla sfigatissima riunione di classe dei 30 anni non ti ricordi manco dove stavi seduto né se fosse un liceo artistico o scientifico.

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Uno screengrab da "Amore Mi" di Achille Lauro, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube

Un'altra distinzione che non è concesso fare, ma che sarebbe importante, è quella tra le droghe assunte in una situazione di festa e le droghe che fungono da compensazione emotiva. Cocaina, crack, eroina, codeina, ossicodone, Fentanil, Xanax, Red Devil: tutta un'altra esperienza. È in questo caso che lo spettro della dipendenza fa la sua comparsa. Le droghe, qui, sono una conseguenza. Le cause sono violenze subite, predisposizione psicologica, condizioni sociali, condizionamento famigliare. I motivi per cui qualcuno usa una droga anacronistica e devastante come l’eroina o il crack, sono molteplici. L'emulazione del tuo rapper preferito può portarti a provare una droga per una volta, come esperimento. Ma la tossicodipendenza non arriva per gioco e nemmeno per caso.

Questo perché la droga esiste, ci circonda, e nessuno lo dice. È un tabù, e in quanto tale, io ho sentito il bisogno artistico di parlarne.

Bisogna affrontare il mostro con tanta, tantissima informazione, fin dalle scuole, e cercare di arginarlo dove lo Stato non è in grado di, o interessato a, arrivare. Aiutiamo chi abbiamo vicino e non emarginiamo chi ha bisogno di aiuto; non offendiamo a caso su Internet chi si espone; incoraggiamo le persone a entrare nei centri di disintossicazione, anche se è un'esperienza difficile dalla quale si esce completamente cambiati. Di recente ho spinto un mio carissimo amico ad andarci, e ora è rinato.

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La locandina di 'Nefasto: Er Mostro De Zona' di Trash Secco, cliccaci sopra per vedere il film su YouTube

Il mio nome viene spesso associato alla tossicodipendenza e all'approccio post-punk, perché ho esordito sul web nel 2012 con il film Nefasto: Er Mostro de Zona, un mockumentary che voleva raccontare la fauna della suburra romana, quella che Valerio Mattioli nel suo splendido libro Remoria chiama borgatasfera (in particolare Centocelle dove nasce, muore e rinasce il movimento punk romano, vedi Centocelle City Rockers, Ranxerox di Stefano Tamburini, Frigidaire e tanto altro). Er Mostro de Zona vezzeggiava, giocava, si perdeva in maestosi giochi di ruolo con l’underground Romano, la tossicodipendenza, la promiscuità sessuale e soprattutto il vandalismo urbano (per i più colti i “graffiti”), in un'esplosione di cinismo e in stile da bad trip (quello che poi è diventato conosciuto come Trash Secco Trip). Questo perché la droga esiste, ci circonda, e nessuno lo dice. È un tabù, e in quanto tale, io ho sentito il bisogno artistico di parlarne. Ovviamente ho fatto anche altre opere più oniriche, più fantastiche o fiabesche (trovate tutto su YouTube), ma quel mockumentary è la mia opera più importante.

Viviamo in un'epoca in cui la maggior parte degli idoli musicali comunicano solo cazzate che assecondano o amplificano il sistema e il capitalismo più becero. Si pensa solo a “svoltare”, e cioè fare soldi senza fare niente e senza saper far niente (e non esiste cosa più squallida) e alla propria immagine, una proiezione idealizzata di quello che siamo. Ma che senso ha un artista se fa la foglia di fico, se non punta un riflettore sull'ipocrisia della società e della cultura dominante? Il problema non è come si parla di droga nell'arte, ma come non se ne parla nel mondo reale.

A TRASH SECCO TRIP

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Abbiamo provato a capire i Pinguini Tattici Nucleari

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Cominciamo dai fatti: i Pinguini Tattici Nucleari suoneranno al Forum di Assago il prossimo 29 febbraio. Prima di loro, altri cavalieri dell'itpop hanno alzato l’asta del microfono nel palazzetto più grande di Milano: Calcutta, i pace-all’anima-loro TheGiornalisti, Gazzelle. Il loro sbarco su quel palco, però, ha per me ancora dell’incredibile: niente di personale contro la band di Riccardo Zanotti, Elio Biffi e compagni, ma il loro grande successo resta per me un mistero.

I Pinguini non sono proprio il tipo di band che ti aspetti di vedere davanti a 12.500 persone. Forse a causa della loro immagine da eterni bonaccioni bergamaschi, anni luce lontana da quella più da figo scanzonato “à la Carl Brave”. Aggiungiamoci che non sono mai stati esaltati come “fenomeno del momento” o non hanno mai goduto dell’hype che spesso travolge molti musicisti del genere, Eppure, alla fine, i bravi ragazzi dell’Indie italiano sono arrivati fin lì. Ma come è successo?

Non è solo una fortunata serie di album e singoli, il loro carisma o la loro simpatia, tantomeno l’aver suonato in ogni angolo d’Italia dal 2012 ad oggi, fino ad arrivare al palco del Jova Beach Party. Dopo un’attenta analisi, secondo me, il segreto del successo dei Pinguini Tattici Nucleari è la loro mediocrità, ma detto senza cattiveria. Vi spiego meglio: nonostante abbiano le competenze e gli attributi per spaccare, i Pinguini si sono trovati a percorrere la strada meno battuta dell’industria musicale, ovvero quella dell’ostentata umiltà. E si sa che le cose che escono dagli schemi ma non del tutto sono quelle che, potenzialmente, fanno più rumore.

Spogli di ogni divismo rock, ma anche delle vesti da bono maledetto dell'indie, i nostri Pinguini hanno deciso di essere normali per piacere al più grande pubblico esistente—quello medio appunto.

Non è un caso, infatti, se il loro ultimo album si chiama proprio Fuori dall’Hype, come a voler dire a tutti noi che hei non ce ne frega niente della fama e del successo guardateci siamo fieri di essere noi stessi eccetera eccetera. Una dichiarazione contro il brutto-e-cattivo mondo dell'itpop e i suoi beceri meccanismi, come l’ossessione per i followers su Instagram, le playlist di Spotify e il fantomatico hype costruito a tavolino. Loro sono diversi e in quelle tre semplici parole del titolo hanno, molto molto in breve, espresso tutto questo.

Infatti sul loro Instagram, riferendosi alla canzone che dà il titolo all’album, hanno detto che "L’hype è un gioco pericoloso. Per noi la musica è altro. Non essere il più grande, il più forte, il più atteso, ma saper condividere le proprie debolezze. La canzone parla di questo, ed è dedicata alla musica”. Come a dire che nella gara a chi ce l’ha più lungo, loro non lo tirano fuori perché non sono interessati a questa puerile competizione—ma tra le righe lasciano intendere che vincerebbero contro tutti. E questo lo dimostrano in modo sottile, senza palesarlo, ma usando sempre l’inconfondibile ironia e sfiga provinciale che li contraddistingue. Perché mai prendersi sul serio o scadere in pose da divo del palcoscenico, perché loro sono semplici proprio come tutti noi.

pinguini tattici nucleari
Un'immagine dal video di "Tetris", in ricordo dei buffi e dolci anni Novanta di "Friends".

Tuttavia, non è una coincidenza se proprio il loro album anti-hype per eccellenza è anche quello più “pop” e leggero, come ha dichiarato Elio Biffi a Lettera43, e quindi per assurdo anche quello più “commerciale”. Insomma, ok fottere il sistema, ma anche loro devono guadagnarsi il pane e vendere qualche album. E, come si vede, lo sanno fare molto bene. Tutto merito di un’immagine da perfetti “normali” in cui ogni ragazzo italiano di età media tra i 16 e i 30 anni si può rispecchiare. Spogli di ogni divismo rock, ma anche delle vesti da bono maledetto dell'indie, i nostri Pinguini hanno deciso di essere normali per piacere al più grande pubblico esistente—quello medio appunto.

La strategia messa in atto, per quanto probabilmente involontaria, è più complessa di quanto sembra. Non basta parlare di vita quotidiana, tematiche sociali e amore, come faceva lo Stato Sociale: bisogna anche mettere in scena tutto quell’immaginario pop che tutti amano e conoscono. In “Antartide” vengono citati Harry Potter, i personaggi di Scrubs e Gigi d’Agostino—“Ad undici anni quando eri piccola aspettavi una lettera da Hogwarts / Per dimostrare a tutti i tuoi compagni che eri tu quella diversa da loro." In “Nonono” compaiono i Piccoli Brividi e il Festivalbar, l’apoteosi del nazionàl-popolare.

pinguini tattici nucleari verdura
Vorrei vivere in uno screenshot del video di "Verdura" dei Pinguini Tattici Nucleari / Vederti in rallenty quando corri con i carrelli della spesa al Carrefour Express

Ma qua e là compaiono anche citazioni per pochi, giusto per non deludere le aspettative di quella fascia di pubblico che, per età o per passione, non disdegna Vasco Rossi (“E ti porterei anche in America / Che ho venduto la macchina apposta” da “Monopoli”), Massimo Troisi (“Sembrava amore invece era una stronza amen” in “Sashimi”) e pure Miyazaki con la Principessa Mononoke (“Verdura”). E così, anche il pubblico dei trentenni acculturati ce lo siamo portato a casa.

Non solo tematiche popolari, ma anche il punto di vista popolare è fondamentale per la messa in scena dei Pinguini Tattici Nucleari. “Scatole”, ad esempio, parla del complicato rapporto padre-figlio che ogni generazione si è trovata ad affrontare. Il padre che vorrebbe che il figlio seguisse le sue orme, il figlio che si sente incompreso da un padre che tuttavia non vuole deludere. Ma, nonostante il talento scrittorio di Riccardo, il testo è scritto con una semplicità disarmante e una penna che non lascia nulla all’immaginazione: “Lui avrebbe voluto che facessi gli studi d'architetto / Oppure da ingegnere / Ma io volevo fare il musicista”. Tutto perfetto affinché chiunque possa immedesimarsi nel testo e fare sua la canzone.

I Pinguini sono i bravi ragazzi alla Richie Cunningham, quelli che non si fanno tutta Roma a piedi per una pischella, né tantomeno le spaccheranno la faccia se non gli darà il cuore.

Anche l’amore in chiave Pinguini Tattici Nucleari ha lo stesso trattamento. Prendete una canzone come “La Banalità del Mare”: già il titolo ammicca a “La Banalità del Male” della scrittrice Hannah Arendt:, a chi coglie la citazione, i Pinguini stanno dicendo che non sono così coglioni come sembrano. Ci sarebbe anche tutto un parallelismo semantico tra la semplicità dell’amore contemporaneo e l’idea espressa dalla Arendt, ma tutto viene eclissato da espressioni quali “Ti prego non usciamo questa sera / Restiamo qui ad accarezzare il gatto” oppure “Con te i lunedì sanno di sabato / Non ricordo neanche dove abito”. Insomma, anche in amore i Pinguini, come dicono in “Verdura”, sono i bravi ragazzi alla Richie Cunningham, quelli che non si fanno tutta Roma a piedi per una pischella, né tantomeno le spaccheranno la faccia se non gli darà il cuore.

Ed è per questo motivo che piacciono tanto a tutti. Alle ragazze, perché pure noi ci sciogliamo per quelli un po’ imbranati e romantici, che non ti portano in America, ma almeno al cinema sì. Ai ragazzi, perché non sono una minaccia, non innescano in loro la competizione o l’invidia—anzi, sono più simili a degli amici con cui farsi una partita a biliardino al bar del quartiere. I Pinguini piacciono perché non sbandierano nessun machismo cinematografico o prodezze passionali, al contrario si vantano di essere persone normali che fanno cose normali. Quindi non generano nessun complesso di inferiorità nei loro fan, perché si immedesimano perfettamente nei loro testi.

pinguini tattici fuori hype
Uno screenshot dal video di "Fuori dall'Hype" dei Pinguini Tattici Nucleari

Per non farci mancare nulla possiamo aggiungere anche i loro videoclip, sempre politicamente corretti e con l’immancabile vena (anzi, aorta) ironica che li rende simpatici anche alle nonne—chi non vorrebbe scorrazzare per il proprio supermercato di quartiere sui carrelli della spesa dopo aver guardato "Verdura"? Il video per “Fuori dall’Hype”, invece, gioca la carta emozionale, e mentre lo guardi ti domandi se per caso è partito uno spot della Apple o dell’Ikea.

A parte la comunicazione online e l’immagine da bonaccioni, un elemento fondamentale del successo dei Pinguini Tattici Nucleari è l’orgoglio provinciale. Ma potevano alzarsi al di sopra della media? Ovviamente no. E infatti non parliamo della provincia infame cantata da Massimo Pericolo o Speranza ma di quella di Bergamo, nord Italia. Ancora una volta, un paesaggio in cui regna la normalità: nessuna sparatoria, disagi sociali o difficoltà del ghetto. Solo l’innocuo nulla dell'anonimato provinciale.

Tuttavia non è una provincia di cui ci si vergogna o da cui vogliamo scappare con la mente, come faceva Vasco Brondi quando fantasticava di scappare da Ferrara e Ravenna sulle astronavi. Anzi, i Pinguini si fanno paladini dell’orgoglio di provincia, incarnando la genuinità del mondo bergamasco e sbandierando il Pota Power. Il video per il brano “Le Gentil” è forse l’esempio più rappresentativo: nell’intro, infatti, uno scienziato si rivolge al pubblico in bergamasco e alla fine del suo monologo svela il soggetto del suo discorso—la pota appunto. Sotto questo video sono molti i commenti dei fan della prima ora che ringraziano la band per l’omaggio al dialetto, che effettivamente non è molto in voga nella scena indie.

Insomma, l’idea che danno i Pinguini Tattici Nucleari è che sono arrivati al successo, senza volerlo, e forse senza nemmeno accorgersene. Se la loro immagine di bravi ragazzi anonimi della provincia bergamasca sia costruita al tavolino o no, resterà per noi un mistero. Ma quel che è certo è che con la loro banalità, i loro sorrisi sinceri e vestiti come se fosse ancora la mamma a comprargli le camicie, hanno conquistato il grande pubblico, dai ragazzini ai trentenni, dalle mamme agli ascoltatori più esigenti. Aveva ragione Lucio Dalla a dire che l’impresa eccezionale è essere normale, perché, in effetti, alla fine ti porta fino al Forum di Assago.

I Pinguini Tattici Nucleari suoneranno a febbraio 2020 al Mediolanum Forum di Assago a Milano.

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Incredibile, la TV italiana è riuscita a intervistare bene Massimo Pericolo

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Magari dico una banalità, ma fare le interviste bene è davvero difficile. È una cosa umana e di passione, che impari a fare con il tempo. Devi essere empatico, curioso, originale, ma anche incalzante e sveglio. Tipo, per fare un esempio da nerd, devi essere Nardwuar. E per fare un esempio non da nerd devi essere Daria Bignardi nell'intervista di ieri a Massimo Pericolo, nel corso della sua trasmissione L'Assedio.

Le interviste in video, poi, sono una bestia diversa. Per iscritto modifichi, fai le perifrasi, cancelli le frasi; in video al massimo tagli, però solo dove la realtà e la conversazione te lo permette. Le interviste in diretta TV sono il boss finale del giornalismo musicale—non puoi tagliare niente, devi dire tutto bene subito, non puoi andare lungo, sai di essere guardato da millemila milioni di persone in cui ci sono sì persone che ti conoscono ma anche un sacco di gente che non ti si fila e devi convincere a non cambiare canale.

massimo pericolo bignardi intervista assedio
Un'immagine dall'intervista di Daria Bignardi a Massimo Pericolo, cliccaci sopra per guardare il video su DPlay

Ora, di interviste a Massimo Pericolo ne sono già uscite un sacco—pure una sulla RAI, che ha fatto più di un milione di views su YouTube. Nonostante questo, Vane è un ragazzo che, come mette in chiaro fin dalle prime parole che dice alla Bignardi, deve ancora abituarsi alle attenzioni e alle telecamere: "A essere sincero mi sto pisciando sotto proprio", dice, e lei lo tranquillizza: "Dovremmo essere preoccupati noi!" È il colpo d'inizio di venti minuti davvero ben fatti—cosa eccezionale quando si tratta di intervistare un rapper in televisione in Italia.

In Italia, infatti, il rapporto tra hip-hop e piccolo schermo è sempre stato problematico e continua tristemente ad esserlo. Anche se ormai pure i nonni sanno chi sono Ghali e Sfera Ebbasta i loro media di riferimento—i giornali di carta, le televisioni—continuano a usare "il rapper" come facile bersaglio di polemichette su temi che generano indignazione, su tutti la droga. Negli ultimi tempi hanno fatto scuola, in negativo, il trattamento mediatico della strage alla discoteca di Corinaldo e la stupida crociata di Striscia La Notizia contro Achille Lauro e la sua "Rolls Royce"—accusata in modo completamente fazioso di essere un "inno alla droga".

I giornali di carta, le televisioni—continuano a usare "il rapper" come facile bersaglio di polemichette su temi che generano indignazione, su tutti la droga.

Ecco, la droga: quella che Pericolo dice di fumarsi dopo aver mandato affanculo la scuola in "7 Miliardi". Invece di partire da lì, dal nervo scoperto, la Bignardi mette Pericolo a suo agio: lo incalza, ma senza attaccarlo. "Chi ti senti di rappresentare?" "Ti senti sfortunato?" "Aspetta, raccontaci, qual era la situazione di sfortuna?" E poi gli lascia tempo di parlare e argomentare, permettendogli di respirare ed esprimersi senza il fiato sul collo.

Quando viene fuori la musica, poi, si parte da "Sabbie d'oro", cioè il pezzo che racconta meglio chi è Massimo Pericolo e perché piace così tanto a così tanta gente—per il suo testo che mischia poesia cruda e biografia spietata, per il suo beat vellutato, per la sua esistenza bianca accanto a quella nera di "7 Miliardi". La Bignardi la usa come spunto per fare domande difficili, ma lascia a Massimo il tempo di spiegarsi: gli chiede perché lo hanno arrestato (per spaccio), perché lo faceva (per soldi), perché ne aveva bisogno (per vivere). Non lo ferma quando dice "sbirri" o "gabbio", non fa l'avvocato del politicamente corretto quando lui spiega perché crede sia disumano chiudere persone per anni dietro alle sbarre di una cella, o tra le mura di casa propria.

Guarda la nostra intervista a Massimo Pericolo, alle Sabbie D'Oro e nei luoghi di "7 Miliardi":

Un'altra cosa bella è il modo in cui la Bignardi inquadra l'esistenza di Massimo Pericolo e della sua musica, cioè all'interno della conversazione culturale più che di quella dello spettacolo. In questa intervista il rapper non è il freak che fa musica che piace ai giovani e va spiegato ai vecchi, è semplicemente un artista. La Bignardi cita, con ottimo e triste tempismo, il critico letterario Harold Bloom: "Quello che importa è la grande letteratura, non quella che raddrizza o che dice cose politicamente corrette. Gli artisti devono raccontare il mondo, non devono aggiustarlo". E così "7 Miliardi" non è più uno spauracchio, è solo racconto e verità.

Va lodato anche il modo in cui la Bignardi parla con Pericolo di salute mentale. Lo spunto viene dalla barra "Sto metà dell'anno al buio, questo è il Polo Nord": "Sei stato depresso?", lei chiede, e lui risponde con calma e onestà. Spiega come ne è uscito e come i farmaci, presi perché prescritti da un medico, lo hanno aiutato. Quando nel discorso entra l'abuso e si fa un collegamento con la droga potrebbe scattare un allarme, anche perché la pubblicità incombe, ma la Bignardi gestisce bene la conversazione: ferma Pericolo e gli chiede di aspettare, per sviscerare meglio il tema.

Un'altra cosa bella è il modo in cui la Bignardi inquadra l'esistenza di Massimo Pericolo e della sua musica, cioè all'interno della conversazione culturale più che di quella dello spettacolo.

E in effetti, proprio questo succede: Pericolo parla di come la droga e gli psicofarmaci spaventino chi non li conosce, senza glorificarne l'abuso ma semplicemente parlando della loro realtà. Che è, coincidenza vuole, il punto del grande dibattito sul rapporto tra droga e rap in Italia e nel mondo. Non ci sono giudizi o pregiudizi, c'è solo uno spazio di conversazione che viene riempito con naturalezza da una conduttrice esperta e un ragazzo incredulo di trovarsi lì.

Perché è questo, poi, il punto—all'inizio dell'intervista, Pericolo lo dice proprio: "Appartengo a una categoria di persone che la televisione la guarda e non la fa. Sono contento per le persone che penso di rappresentare con la musica che faccio. La gente sfortunata." Ed ecco, se questo processo di rappresentazione passa da YouTube alla televisione non possiamo che esserne felici.

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La Garage Gang è culto e questa è la loro prima intervista

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Come fai a non innamorarti di una canzone che dice “Se la coca fosse il PD sarei Walter Veltroni”? A me è successo due anni fa ascoltando, appunto, “Veltroni”, della Garage Gang, punto più alto del loro progetto d'esordio Manifesto. Da quel momento in poi il duo composto da KiKo e Nerototale non ha fatto altro che cercare di sorprendermi ogni volta di più, prima scimmiottando in modo geniale i tormentoni più paraculi che si sentono in radio e poi per creando un sound unico e figlio delle influenze musicali e culturali dei due.

Per i testi vale un discorso analogo: in Manifesto ,i momenti più divertenti erano quelli in cui venivano presi di mira politici, rapper, cantanti indie o il papa, ora i brani raccontano storie personali e quotidiane della loro vita ad Acilia, frazione romana tra Ostia e l'Eur, in una maniera che non vuole essere parodistica a tutti i costi ma che in qualche modo è ancora più ironica.

Nel frattempo la Garage Gang ha messo da parte la “musica bella ideata, prodotta e registrata esclusivamente su GarageBand per iPhone”—come recitava la sua bio su Facebook—per farsi aiutare dal duo di produttori Aegeminus, che dal singolo “GG Armani” in poi è co-artefice del suo suono. E anche KiKo e Nerototale sono cresciuti, hanno perso un po’ di capelli, si sono trovati un lavoro o un corso di laurea e, probabilmente ve ne sarete accorti, sono finiti nelle storie Instagram dei vostri rapper preferiti.

Come fai a non innamorarti di una canzone che dice “Se la coca fosse il PD sarei Walter Veltroni”?

Per quanto l’etichetta fosse riduttiva e poco precisa, quando avevo parlato della nuova scena “lol rap" italiana avevo cercato di spiegare in che modo artisti come la Garage Gang sono riusciti a trovare un giusto equilibrio tra il far ridere e l’essere ascoltabili, e credo che il trittico di singoli pubblicati quest’anno renda ancora più chiaro perché il punto non è solo farsi qualche risata. “GG Armani” è piena di riferimenti a una scena simil-house che andava di moda quando facevo le medie, quando la gente si copriva di ridicolo su Netlog e tutti facevano a gara a chi aveva i Carrera più brutti. “Stellina” ha reso più chiara l’influenza della club culture sulla musica della Gang, con dei suoni che è bellissimo sentire in questo nuovo contesto e con un testo che sembra un flusso di coscienza smandibolato durante un after di provincia.

“Essere Pelati” è il culmine di questo percorso, con un titolo che svela già tutto o forse niente. Sinceramente non me la sento neanche di descrivervela, quindi guardatevi il video e leggete l’intervista per farvela spiegare nel migliore dei modi, direttamente dai suoi autori.

garage gang essere pelati
Screengrab dal video di "Essere Pelati", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Noisey: Se la coca fosse il MoVimento 5 Stelle?
KiKo: Lo deciderebbe la comunità online.

E se l’erba fosse il PD?
Nerototale: Probabilmente sarei il CBD.

Com’è nata la Garage Gang?
K: Diciamo che era un nostro progetto parallelo con cui sperimentavamo facendo canzoni solo con il cellulare su GarageBand per l’iPhone. Lo facevamo nel tempo libero: durante una cena, dopo una serata, in macchina. Tant’è che “Veltroni” l’abbiamo fatta fuori da un locale, il Rashõmon a Roma, alle 5 di mattina—infatti, se ci si fa caso, si sentono le voci delle persone in sottofondo. Il progetto poi è continuato sviluppandosi attorno a questo metodo spontaneo. Prima le produzioni le facevo tutte io con il telefono, ma da “GG Armani” in poi abbiamo iniziato a fare musica in studio con delle produzioni più elaborate…
NT: …Fatte sempre sul telefono, però da altri.

Senza insinuare che la vostra musica non sia seria, c’è stato un momento in cui avete pensato “adesso facciamo un testo più serio e tradizionale”?
K: Credo che nel nostro modo di interpretare la realtà ci sia sempre qualche livello di ironia, quindi non mi viene naturale pensare di scrivere un pezzo serio senza nemmeno una chiave ironica. È un po’ anche per via dei tempi: è tutto un po’ ironico e noi, avendo questa attitudine un po’ sarcastica e strana, ci troviamo a pensare alle cose della vita in questo modo. In ogni caso, in “Essere Pelati”, trattiamo argomenti personali, ma sempre con una verve ironica. Sono due strofe abbastanza personali, un po’ sull’identità…
NT: …Un po’ sull’identità di tutti.
K: No, più nostra. Con i nuovi progetti questa cosa forse emergerà un po’ di più.

garage gang manifesto
La copertina di 'Manifesto', cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Pensate che l’etichetta “lol rap” vi si addica o preferite un altro termine? Dove vi ponete ad esempio rispetto a Pippo Sowlo?
K: Noi preferiamo definirci più fluidi rispetto a questa etichetta. Anche perché forse la nostra musica non è neanche classificabile come “rap”. Nel disco che stiamo facendo spaziamo abbastanza, penso ci saranno poche canzoni rappate nel vero senso della parola. Pippo Sowlo spacca perché ha un’ironia che è ricercata, ma non è fine a sé stessa: mira a distruggere dei concetti culturali, a sdrammatizzarli, e quello è molto figo. Anche quello non so se lo definirei “lol rap”, è un’etichetta che non ho mai compreso bene perché in questa definizione ci rientrano un sacco di progetti diversi.

Com'è nato "Essere pelati" e cosa rappresenta per voi la calvizie? Se non sbaglio Nerototale nel video di “KiKKa” aveva un botto di capelli, cos’è successo?
NT: È successo che la mia vita è cambiata radicalmente. Prima ero un nullafacente che passava le sue giornate sul cellulare, la sera uscivo e poi rimanevo tutto il giorno a letto; poi ho iniziato a lavorare tantissimo, fino a 50 ore in quattro giorni. Quindi diciamo che lo stress ha aiutato la degenerazione tricologica e ho perso i capelli in pochissimo tempo.
K: Poi nel suo caso, quando parla di calvizie come scelta sociale o morale, è una cosa molto personale perché lui di base è solo un po’ stempiato e c’ha un po’ di piazza, però si rasa per orgoglio. Ci possono essere quelli un po’ stempiati che si tengono i capelli in testa come forma di resistenza contro la natura.
NT: L'ho accettato! Ho pensato: "Piuttosto che perdere i capelli, me li taglio io". Invece di stare lì davanti allo specchio a sistemarmi la frangettina sopra la stempiatura, flexo la stempiatura.
K: Questo secondo me spiega anche la struttura della canzone: sono due strofe e tre parti con tre stili musicali abbastanza differenti. La prima, che è la mia strofa, è più sull’identità, ho parlato di cose legate al momento in cui inizi ad identificarti come persona che sta crescendo, che sta perdendo i capelli, ma non sai ancora bene chi sei e che cosa vuoi fare. La seconda parte invece è più sull’accettazione. Poi c’è la parte finale che è un po’ una liberazione, culmina, scoppia un pochetto. Mi piaceva questa idea di crescendo.

garage gang kiko kikka
Screengrab dal video di KiKKa, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Parlatemi del video, che è appena uscito.
K: Anche il video si articola su queste tre parti: nella prima parte ci sono io vestito da vari personaggi, facendo un po’ il verso alle canzoni per cause umanitarie tipo “We Are The World” e Artisti Uniti per l’Abruzzo. Sono travestito anche per rimarcare questa cosa dell’identità. La parte di Nerototale è girata in un allevamento di beagle…
NT: …Dove in pratica vengo coccolato da questi beagle e mi prendo cura di loro. Sono vestito come un padre, ma in realtà ho palesemente 22 anni e cerco un’identità in un me più grande. C’è stato questo salto: da “KiKKa”, quando avevo tutti questi capelli ed ero così simpatico, all’essere già in pensione a 22 anni in un allevamento di beagle, vestito da padre, a lavare i beagle.
K: Poi la parte finale degenera fino al nonsense con dei modelli 3D di noi che ballano in paesaggi strani.

Visto che avete menzionato il lavoro e le sue conseguenze, come vive la Garage Gang al di fuori della sua musica, tra impiego e università?
K: Io studio scienze della comunicazione, mi sono ri-iscritto al primo anno dopo aver cazzeggiato tipo due anni sempre ad un altro indirizzo di comunicazione, perché mi interessa molto studiare e lavorare è una cosa che odio—sono mega contro, mi dà proprio fastidio il concetto di lavoro. Poi in realtà da quando sono uscito dal liceo ho fatto il cameriere, il barista, il social media manager in una piccola agenzia pubblicitaria. Ma preferisco studiare, seguire i miei interessi, la mia musica e quella di altri. Anche se magari con quello che stiamo facendo non ci stiamo guadagnando tanto preferisco comunque questo.
NT: Io sono passato dall’essere un nullafacente mantenuto al voler aggredire la vita nel mondo del lavoro. Nell’ultimo anno ho aperto un bar nel centro di Roma e quando ci saremo liberati dagli impegni del disco vorrei aprire un’altra cosa, mi sto già muovendo. Insomma, sto facendo il piccolo imprenditore: non è che lo volessi troppo fare, ci sono cascato dentro, ma è comunque una roba bella adrenalinica e quindi mi piace.

"Invece di stare lì davanti allo specchio a sistemarmi la frangettina sopra la stempiatura, flexo la stempiatura."

KiKo, tu hai fatto anche da tour manager a Ketama126, giusto?
K: Sì, perché lavoro con il Sergente, che adesso è il nostro manager. All'inizio ho fatto il suo assistente e ho avuto l’occasione di fare da tour manager a Ketama per 6 o 7 date. Mi interessa molto il lato manageriale della musica, nonostante sia più orientato verso la direzione artistica che verso gli aspetti economici e gestionali. Quel è stata un’esperienza assurda, anche perché ha dato un po’ di basi per creare il team con cui stiamo lavorando adesso al disco.

Mi sembra che certi suoni della tekno ritornino spesso nelle vostre canzoni, qual è il suo ruolo nella vostra musica?
NT: KiKo è più dell’ambiente, viene da quella roba lì. Gli piacciono le feste, va a ballare.
K: Verso i 15 anni ho iniziato a frequentare ambienti autogestiti, centri sociali e situazioni del genere, e tramite questi giri mi sono inserito nell’ambiente delle serate tekno underground, spesso illegali, e da lì ho iniziato a coltivare una passione per la club culture. Questo ritorna nella nostra musica perché parliamo molto della dimensione della festa, della vita notturna e dell’intrattenimento. "Tekno" in realtà è una definizione un po’ stretta, preferisco parlare di musica elettronica in generale. Comunque sia io che Edoardo andiamo molto spesso a ballare, molto di più ad eventi di questo tipo piuttosto che a serate trap e roba del genere.
NT: Sì, quelle non ci divertono più di tanto, anche perché a me sembra che la gente non si diverta così tanto. È una cosa un po’ forzata. Vabbè, vanno a fare i belli.
K: A parte situazioni particolari come Touch The Wood, che è sempre riuscito a farlo bene, sono un po’ come le serate dove mettono l’itpop e l’indie: manca una cultura vera e propria, come può essere per la musica elettronica. Lì c’è proprio una cultura, impari dei valori durante una serata.

garage gang
Garage Gang

Descrivete Ostia a qualcuno che, come me, non ci è mai stato. Quali sono le differenze più grosse tra stare a Ostia e a Roma?
NT: A Ostia il tempo è diverso. Ho passato gli ultimi 8 mesi a fare Ostia-Centro di continuo e ho osservato che a Ostia la gente si prende molto più tempo, non corre nessuno. Da un lato è rilassante, bellissimo, dall'altro ti mancano gli stimoli della città, ti aliena in un certo senso.
K: La rappresentazione più giusta è stata fatta, più che da Suburra, che si concentra sul lato criminale, da Caligari in Non essere cattivo. Lì Ostia è rappresentata come un posto un po’ magico, fiabesco, in cui il tempo sembra sospeso e fermo agli anni Novanta. È molto eccentrica, ma Ostia è un posto da cui non vorrei mai staccarmi.

Ultimamente i problemi di Roma sono sempre di attualità. A livello musicale, ho l’impressione che spesso chi inizia ad avere successo a Roma finisca per trasferirsi a Milano. Come vivete questa cosa e come sta Roma secondo voi?
K: L'ambiente di Roma è così folle e assurdo da far nascere molte cose fighe e diverse. Il problema è che, essendo così grande e dispersiva, è molto difficile farle comunicare tra loro e far lavorare le persone insieme. Invece a Milano le realtà comunicano meglio tra loro, tutti hanno un obiettivo comune, lavorano insieme e si riesce a raggiungere qualcosa. Roma è frammentata, stai nel tuo quartiere e odi quelli di quell’altro posto. La sua grandezza permette la nascita di tanti prodotti particolari ed eccellenti, ma non permette di lavorarci bene.

"Le serate trap sono un po’ come quelle dove mettono l’itpop e l’indie: manca una cultura, come può essere per la musica elettronica. Lì impari dei valori durante una serata."

Come funziona la collaborazione con Aegeminus, i vostri produttori?
K: Aegeminus sono due produttori di zona nostra, Acilia. Federico, il ragazzo che si occupa nello specifico della produzione, viene dalla cultura gabber, dall’hardcore e dalla techno, e questo si sente. Ci troviamo molto spesso a lavorare insieme e quello che sta uscendo ci piace molto perché c’è sempre l’attitudine di fare cose diverse, rompere un po’ gli schemi.
NT: Non ci stiamo ancora sedendo su un sound, c’è sempre una ricerca sulle culture.
K: Anche il disco che stiamo facendo, lo stiamo cambiando continuamente. Anche perché dopo aver fatto “Essere Pelati” abbiamo detto “cazzo, tutto quello che abbiamo fatto prima forse non è a questo livello”—e quindi adesso dobbiamo fare più cose di questo tipo. Ci siamo tirati la zappa sui piedi, forse potevamo farla uscire dopo.
NT: Sì, forse “Essere Pelati” ci ha messi un po’ in crisi.

L’altra sera “Essere Pelati” l’avete portata addirittura in Rai, a Stracult: com’è andata?
K: È stata una bellissima esperienza. A Max Tortora è piaciuta tantissimo, quindi le scuole medie adesso sono concluse per me. Dopo questa soddisfazione posso mandare a fanculo tutto il corpo docenti e i miei compagni di scuola perché a me m’ha propsato quello dei Cesaroni. A parte questo, quel video ha qualcosa di catartico: c’è questo playback becero e questa presenza nostra un po’ magica... Fa un sacco ridere. È un contenuto blessato.

Parlatemi di Gianni Garage , chi è? E perché da un po’ non si hanno più sue notizie?
NT: Ci avevo litigato perché mi ha risposto male e io sono una persona che tende a dare molto, non voglio che mi venga dato qualcosa indietro. Ma diciamo che non ha riconosciuto il bene che gli ho voluto e visto che sono molto permaloso ci ho litigato, ma poi ci ho fatto pace. Ci siamo abbracciati ieri, ci siamo ricongiunti.
K: Oh, meno male!
NT: In pratica lui è il mio assistente al bar, è molto simpatico, ha dei tempi comici davvero forti.
K: Investiremo molto su di lui appena avremo modo. È un personaggio molto particolare, dobbiamo ancora capire come far nascere una saga su di lui, uno spinoff della Garage Gang intorno a Gianni Garage. Però ha veramente molto talento. Non saprei come definirlo.
NT: È un prodotto della nuova Roma. Si prende cura di noi, ad esempio ieri mi ha disinfettato l’orecchio con questa salsa indiana che lui dice che è la migliore cura ayurvedica. Ci chiede sempre come stiamo, poi è sempre con me al bar quindi ci passo davvero tanto tempo. Quando Federico quest’estate ha lavorato con me al bar eravamo noi tre ed è diventato il nuovo membro.
K: Adesso continueremo un po’ con la saga su Gianni, diciamo che lui attrae proprio il bene delle persone. È un po’ un talismano. Appena avremo più risorse per i nostri tour sarà una presenza fissa con noi, nonostante poi non abbia una vera e propria funzione, non lo abbiamo mai fatto cantare.

Avete in programma di farlo?
K: Se succede spontaneamente sì, se no può rimanere come creatore di contenuti e come forma di interazione con la nostra fanbase: si presta benissimo a rispondere alle domande e a fare da volto e da filtro.

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Lous and the Yakuza farà il botto come Rosalìa, ma in francese

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Non mi piace per niente dire che un'artista è come un altro artista, dato che ogni persona che fa musica lo fa per motivi diversi, con un'identità diversa, unica e irripetibile. Però quando ho visto il video di "Dilemme" di Lous and the Yakuza il mio cervello ha premuto un grosso tasto rosso con sopra scritto, tutto in maiuscolo, "LA ROSALÌA FRANCESE".

Che poi, ho scoperto, Lous non è francese. È belga ma originaria del Congo, cresciuta tra il Ruanda e l'Europa. E poi ho scoperto che a produrre "Dilemme" è stato El Guincho—cioè, coincidenza vuole, il producer che ha orchestrato il redesign del suono di Rosalía da "MALAMENTE" in poi, e che quindi l'ha resa un nuovo modello di popstar in tutto il mondo.

La formula che ha reso grande Rosalía in tutto il mondo è la seguente: 1) smettere di cantare in inglese per forza; 2) prendere i suonini della trap e applicarli a una tradizione musicale nazionale, ma senza esagerare; 3) investire un sacco sull'immagine e sull'estetica. Per intenderci, in Italia la cosa che ci è andata più vicina finora è stata LIBERATO, se non fosse che l'assenza di un bacino di ascoltatori che parlano il napoletano a livello internazionale ha un po' frenato la sua esportazione all'estero.

Lous non fa esattamente la stessa cosa—i suoi pezzi, fino ad ora, erano ballate corali per chitarra e pianoforte. Poi, racconta, ha chiesto alla sua etichetta di contattare El Guincho, che si è preso bene con lei e ha deciso di produrle tutto l'album di esordio, che si chiamerà Gore e uscirà nel 2020. "Dilemme" è il primo singolo e, al momento in cui scrivo, è in Viral 50 Spotify italiana. Il video ha più di 500.000 views e 450.000 stream, esponenzialmente di più rispetto a quanto avesse mai ottenuto finora.

"Dilemme" è un pezzo semplicissimo e davvero bello: si butta subito nella voce di Lous, che parla—com'è ormai regola per il pop contemporaneo più avanguardista—di solitudine e disagio. Ma la musica fluttua come una piuma, sostenuta da soffi di pianoforte e banchi di nuvolette trap, contrappunto dolce all'amarezza del testo: "Se potessi, vivrei sola / Lontana dai problemi e dai dilemmi / Se potessi vivrei sola / Lontano dalle mie catene e dalle persone che amo". E poi due "na na na na", che possono capire e canticchiare tutti nel mondo, anche se il francese non lo sanno.

Il video, poi, è perfetto—come quelli di Rosalía, unisce in un vortice di bellezza strada e danza, sfarzo e semplicità, stile e malinconia. "Volevo mostrare la sua resilienza e trovare gioia, fratellanza in mezzo a quel testo triste", ha detto la regista, Wendy Morgan. E c'è anche un omaggio ad Alaa Salah, la ragazza diventata simbolo delle proteste antigovernative in Sudan quest'anno. Insomma, una cosa fatta bene.

Insomma, tenete Lous and the Yakuza sul vostro radar, perché se tutto andrà bene farà il botto. Ed è una cosa bella per la musica tutta, che forse pian piano si sta facendo meno monolitica e sporca tutto di tutto—generi, lingue, riferimenti, geografie.

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Questo fotografo ha raccontato la nascita della trap di Atlanta

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Quattro o cinque anni fa, l'hip-hop di Atlanta era al picco della sua evoluzione musicale e culturale. Grazie all'ascesa di Young Thug, Migos e Rich Homie Quan, all'arrivo di iLoveMakonnen e alla prima grande boy-band di questa generazione Rae Sremmurd, la "new ATL" era al massimo del suo splendore, finalmente uscita dall'ombra di Gucci Mane, Young Jeezy e altre monolitiche trap star. Da allora la scena ha continuato a trasformarsi, proseguendo sulla strada di un sound completamente originale e creando fenomeni come Lil Nas X.

Il fotografo e videomaker Cam Kirk nel suo libro culto del 2015 Yesterday's Tomorrow ha raccontato il 2014 dell'hip-hop di Atlanta con la stessa energia dei suoi musicisti. "Gran parte di quello che viene creato ad Atlanta è improvvisato, fatto al volo", ci ha raccontato via email. "Quindi c'è poco tempo per organizzarsi, è per questo che ho imparato ad arrangiarmi e tirare fuori le cose dal nulla nel mio lavoro".

young thug cam kirk
Young Thug mangia latte e cereali girando "The Blanguage" (foto Cam Kirk)

La forza degli scatti di Kirk è quella di non cercare a tutti i costi di mostrare il personaggio-rapper, catturando momenti di quotidianità e lasciando brillare il personaggio senza sforzi, senza inserirlo nella trita e ritrita retorica della trap house o del lusso sfrenato. E con i suoi scatti e i suoi video semplici e senza fronzoli, ha catturato l'essenza dell'ATL rap appena prima che diventasse l'ombelico del mondo hip-hop.

future by cam kirk
Future (foto Cam Kirk)

Lo stesso vale per i suoi video. Il minimalismo di "The Blanguage" dei Metro Thuggin, "Ounces" dei Migos o "Some More" di Young Thug serve a veicolare unicamente e puramente il carisma. L'obiettivo osserva questi eroi senza dire un granché, e questo li porta a comportarsi in maniera genuina, istintiva, come se nessuno li stesse guardando. Il video più famoso girato da Kirk è "Freak No More" dei Migos, ambientato nello storico strip club Magic City, di cui esplora i retroscena e i dettagli. Quando la telecamera segue una ballerina verso il palco, la osserva con lussuria e ammirazione allo stesso tempo, come seguirebbe un atleta sul campo per un documentario sportivo.

L'Atlanta di Kirk è in movimento, sulla strada verso il successo planetario. Young Thug sembra che si stia godendo la casa appena acquistata con i soldi di nuovo contratto major mangiando una tazza di Coco Pops. È così che Cam ama ritrarre i suoi soggetti: spontanei e inconsapevoli. "Nella maggior parte dei miei lavori, gli artisti non sapevano nemmeno che stessi filmando", ci ha detto.

gucci mane gucci balboa
Uno screengrab da "Gucci Balboa", cliccaci sopra per vedere il video

Un esempio è il video "Gucci Balboa", uscito nel 2015, in cui un ancora fuori forma Gucci Mane tira di box. È girato in maniera assolutamente diretta e semplice e vedere Gucci prendere a pugni metaforicamente i suoi problemi dà un senso di pace. "Quel video è rimasto sul mio hard disk per un po' di tempo". Il filmato è del 2012, ma Kirk l'ha postato solo tre anni dopo su richiesta di Gucci stesso, che in quel momento si trovava in carcere. È perfetto: un dio del rap esposto in un momento di fatica, pieno di difetti, che combatte i propri demoni. Lo stile semplice e documentaristico risulta potentissimo.

Le migliori foto di Kirk, come "Gucci Balboa", sono quelle che catturano un momento spontaneo e reale. Come Future che beve lean, Young Thug che fa colazione, Ace Hood che prende fiato nel mezzo di un allenamento in palestra, ma anche: Lil Boosie che guarda imbronciato l'iPhone durante una sessione di registrazione; Young Thug che fa due tiri a canestro; iLoveMakonnen stravaccato in poltrona che accarezza guardingo un cane, con una bottiglia di succo di mela appoggiata vicino ai piedi.

iLoveMakonnen Cam Kirk
iLoveMakonnen (foto Cam Kirk)

Le foto sono piene di piccoli dettagli che si notano proprio perché il soggetto si è dimenticato che c'è un fotografo nella stanza. Per questo sono le foto migliori per una scena che al momento aveva (e ha ancora) gli occhi di tutti puntati addosso, nel tentativo di appiccicarle addosso una narrazione forzata piena di pregiudizi.

Kirk spiega il suo metodo con una frase che è più una constatazione di fatto che una sparata: "Mi piace catturare la vera personalità dei miei soggetti più che il loro personaggio famoso". Grazie alle sue foto, anche noi possiamo dare un'occhiata all'Atlanta dietro le quinte, senza il filtro distorto e patinato del mainstream.

Una versione di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

La leggenda di Floating Points

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Ci sono artisti che riescono a fare una cosa benissimo, ma rimangono bloccati, come cristallizzati nel loro tempo e nel loro momento, e che per questo devono (o ritengono di dover) continuare a fare sempre la stessa cosa. C’è chi accetta questo compromesso, perché ha provato a farne di diverse e ha sbagliato (Four Tet, ma anche i Sigur Rós) e quindi prova a rimanere all’interno della propria comfort zone. E poi c’è chi non accetta, ma piuttosto che sbagliare si ritira, dimostrando un’onestà intellettuale rarissima, ma lasciando a secco e sofferenti i propri adepti (qualcuno ha detto Burial?).

Poi ci sono altri artisti che invece sembrano in grado di fare tutto. Sono pochissimi, ma ci sono: Robert Fripp nelle sue mille incarnazioni, Aphex Twin, gli Ulver e qualcun altro. Ecco, ho decisamente esagerato, ma Floating Points, all’anagrafe Sam Shepherd, pur non avendo rivoluzionato nessun genere musicale, almeno per ora, tende sicuramente ad avvicinarsi più a questo secondo gruppo di eletti. Il trentatreenne londinese ha pubblicato solamente due album nei suoi dieci anni di carriera, il secondo tra l’altro la settimana scorsa, ma è già uno dei nomi più riveriti e blasonati dell’intero mondo dell’elettronica. Per farsi strada in un mondo affollato, stratificato e complesso come questo in così poco tempo non basta essere bravi, bisogna avere qualcosa da dire. E il vantaggio di Floating Points è che di cose da dire ne ha tantissime, in tantissimi modi diversi. Anzi, azzardo, in dieci anni non ha mai detto due cose uguali, né ha mai detto due cose nello stesso modo.

floating points love me like this
La copertina di 'Love Me Like This', cliccaci sopra per ascoltarne un estratto su YouTube

È partito con della techno dubbata sul finire degli anni zero, che poi a un secondo ascolto scopri che non è techno dubbata, ma un tappeto house con un sacco di funk sopra, che poi a un terzo ascolto scopri che non è neanche quello, ma un insieme molto jazzy di glitch e beat. Poi ci rifletti e ti accorgi che tutte queste cose, non si sa bene come né perché, non si escludono a vicenda ma stanno insieme nello stesso EP, nella stessa traccia, e in quanto insieme maggiore della somma delle parti non sono altro che buona musica. Se Love Me Like This è un insieme perfettamente funzionante di anime altrettanto perfettamente indipendenti e all’apparenza scollegate e inconciliabili tra loro, è pur vero che l’amalgama che ne ha fatto Shepherd poggia saldamente su delle fondamenta da dancefloor, ed è proprio in questo mondo che Floating Points si è fatto conoscere inizialmente.

I suoi primi passi il producer di Manchester infatti li ha mossi come stato resident DJ al Plastic People, uno dei locali dell’underground (anche in senso letterale, era uno scantinato) londinese più influenti degli ultimi decenni. Un altro resident, tanto per dare un ordine di grandezza, era un certo Theo Parrish. E non finisce qui: Sam Shepherd al Plastic People non ci ha messo i dischi per otto anni da solo, ma in coppia con Kieran Hebden, che ha finito con il diventare uno dei suoi più cari amici. A questo punto sorge anche necessario un minuto di riflessione su quanto Hebden abbia le mani in pasta con tutti, da Jamie XX a Burial al qui presente Floating Points il riccio produttore ha veramente accompagnato qualunque rivelazione dell’elettronica inglese degli ultimi tre lustri. Bravo lui.

Quando poi il Plastic People ha chiuso, giusto per rimanere in tema, chi ha fatto un DJ set antologico mastodontico alla simbolica cifra d’ingresso di cinque sterline? Esatto, Four Tet e Floating Points, con tanto di commovente lettera aperta al locale e condivisione della setlist su Soundcloud. Io purtroppo non c’ero il due gennaio 2015 a Londra, ma ancora a quasi cinque anni di distanza quelle sei ore sono tra le più variegate e omogenee, dispersive e amalgamate che si siano mai sentite in un club. D’altronde è lo stesso Sam a dire che la cosa che più lo diverte del fare il DJ è ricontestualizzare musica che all’apparenza in un club non ci azzecca niente, e non è un caso che dei set di Floating Points si dica che “il colpevole bagliore blu di Shazam fa sempre capolino dalla tasca di qualcuno vicino alla console”.

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La copertina di 'Elaenia', cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Altro parallelismo interessante è il fatto che il primo album Shepherd sia riuscito a completarlo solo nel 2015, quasi sette anni dopo aver iniziato a nome Floating Points e subito dopo aver concluso la propria esperienza al Plastic People. Da una parte c’è sicuramente il fatto che in quel periodo ha ottenuto un PhD in neuroscienze (la ragione per cui da Manchester si è spostato a Londra a fine anni ‘00 non era legata al clubbing, ma al suo percorso di studi), dall’altra non posso credere che aver smesso con l’appuntamento fisso come disc jockey non abbia avuto un impatto su Elaenia. Perché dopo anni a suon di EP da clubber vero, fossero le atmosfere più calde e soul di Vacuum o quelle più algide e technazze di Shadows, Elaenia è un nuovo inizio, che di clubbing non ha praticamente nulla. Eppure anche in questo caso Floating Points trova la formula corretta, l’equilibrio giusto per riassumere e sintetizzare tante cose diverse, finendo per pubblicare un disco che non è ambient, non è IDM, non è dub, non è jazz, ma è tutto questo insieme e tanto altro.

Mettersi a raccontare Elaenia è una sfida persa in partenza, perché nelle sue complesse stratificazioni il primo album di Shepherd dà ancora meno punti di riferimento di quelli che davano i suoi EP: c’è ancora più roba dentro, perché dura di più, ed è anche un nuovo inizio che prende parziali distanze da tutto quello che è venuto prima. Nel senso che l’unico motivo per cui se passi da Love Me Like This a Elaenia capisci che stai ascoltando sempre Floating Points è che nessun altro sarebbe capace di mettere in un album così tanta roba diversa e farla pure suonare in modo organico. Quando però viene chiesto direttamente a lui, Shepherd, che del disco ha fatto tutto, pure la copertina costruendo appositamente un armonografo in camera sua, è candido nel rispondere: “I have no idea what this record is”.

Non pago di aver bazzicato più o meno ovunque, nel 2017 arriva una mezz’oretta di riflessioni in salsa drone/psych folk che sono forse la cosa più facile da etichettare di tutta la carriera di Floating Points. Reflections - Mojave Desert sta bene o male tutto all’interno del suo titolo: Shepherd si sposta negli USA e mette in piedi uno studio di registrazione nel deserto del Mojave assieme ai musicisti che lo accompagnano in live e si mette a lavorare. Ne esce quasi mezz’ora di musica, poi messa in immagini da Anna Diaz Ortuño, con un corto che si trova quasi interamente anche su Youtube. Ma facile da etichettare, dicevo, perché quantomeno le basi drone folk desertico sono evidenti, e i rimandi più facili sono i Barn Owl di Jon Porras ed Evan Caminiti, ma anche i loro lavori solisti (Porras d’altronde ha registrato un album che si chiama Black Mesa). La differenza ovviamente è che loro lavorano di chitarra e poi di tutto il resto, mentre Floating Points lavora di tutto il resto e poi eventualmente di chitarra, ma questo è il massimo cui ci si può spingere quando si parla di trovare dei riferimenti nel lavoro del produttore di Manchester.

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La copertina di 'Crush', l'ultimo album di Floating Points. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

A fianco di questo percorso onnicomprensivo poi, Floating Points continua ad accrescere la sua fama e di conseguenza la sua presenza a eventi e serate nei club e festival di tutto il mondo, e basta vedere la sua pagina su Resident Advisor o i suoi eventi passati su Facebook per soffrire di jet lag. Proprio da una di queste è nato questo articolo, visto che a breve Shepherd sarà headliner di una delle serate del Club To Club.

Il Lingotto sabato 2 novembre sarà una delle primissime occasioni anche per sentire il nuovo Crush, il seguito di Elaenia uscito giusto qualche giorno fa. A quanto pare l’esibizione al C2C sarà un live e non un DJ set, per cui è molto probabile che l’inglese presenterà ai clubber italiani almeno parte dell’album. Potrei tentare di raccontarne qualcosa anche qui, ma essendo uscito da pochi giorni sono ancora in quella fase in cui ad ogni ascolto scopro delle cose che prima mi ero perso. Una fase che quando si parla di Floating Points dura sempre diverse settimane.

Gli ultimi biglietti e abbonamenti per il Club To Club sono ancora disponibili sul sito del festival.

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Ormai Ketama126 è famoso, ma è ancora lo stesso?

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Quanti VIP seguite su Instagram? Io un po’. È che in un primo momento i social sembrano accorciare quella distanza tra pubblico e personaggi famosi, ma basta scorrere un po’ il feed per rendersi conto che non è proprio così. Le star ci vengono presentate sempre come esseri perfetti e inarrivabili, immortalati in pose plastiche sponsorizzate da brand che non possiamo permetterci. È gente che ce l’ha fatta e la società ci insegna che sono loro il modello a cui dobbiamo aspirare. Le debolezze e le sofferenze, problemi fin troppo umani, non sono contemplate e le ombre dei demoni non oltrepassano mai gli schermi dei nostri smartphone. E poi c’è Ketama126.

A Ketama non frega niente delle apparenze, del galateo da star-system, di fare le story da sobrio; è uno di quegli artisti che dice quello che vuole e che produce arte grazie al male che gli attanaglia l’esistenza, un inferno che nemmeno una Madonna tatuata sulla pancia può esorcizzare. Che Piero avesse fatto dell’oscenità una ragione artistica lo avevamo capito tutti grazie allo splendido Rehab, al video di “Lucciole” e alla proverbiale frase “Lei mi crede carino / Ma non sa che faccio schifo”, divenuta ormai manifesto della sua poetica.

È possibile proseguire una narrazione veritiera e priva di censure se sul tuo disco c’è scritto Sony?

Il punto fondamentale adesso, a un anno e mezzo di distanza e in occasione dell’uscita di KETY, suo quarto album e primo per una major, era capire come e se Ketama sarebbe rimasto fedele a se stesso. È possibile proseguire una narrazione veritiera e priva di censure se sul tuo disco c’è scritto Sony? È possibile raccontare ancora lo schifo quotidiano se il tuo pubblico si allarga e le attenzioni dei profani del genere si posano su di te? Come detto, a Piero non è mai importato nulla di tutto questo e, ancora una volta, ha tirato dritto per la sua strada.

Era il 2015 quando Ketama, tra boom bap e le prime sbandate trap, nel suo debut Ketam-City esponeva un’immagine potentissima, già manifesto del suo modo di fare arte: “Ho messo il cazzo nella Bocca della Verità / E lei me l’ha succhiato / Non ho problemi a metterci la mano”. Non è un caso che la stessa fotografia venga ripresa proprio in “DENTI D’ORO”, la traccia che apre KETY (“Bimbe bimbe il puto Kety è tornato / Ho messo il cazzo nella Bocca della Verità e me l'ha succhiato”), ma con una precisazione fondamentale: “Lo stesso stronzo con i denti cariati / Ora ti acceca se ride, 18 carati”.

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La copertina di Kety di Ketama126, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Quei versi, messi lì all’inizio del disco, suonano come un avvertimento. KETY esce per una major, ma l’estro del suo autore e la sua voglia di raccontarsi non verranno snaturati—e in questo senso il titolo autobiografico rappresenta già un indizio. La “Verità” intesa come verismo è da sempre il concetto fondamentale nella narrazione di Ketama che sì, adesso avrà anche i denti d’oro, ma sotto sotto conserva ancora un animo genuinamente marcio. E basta procedere nell’ascolto per rendersene conto.

“Potevo essere un tossico morto / Invece sono un tossico ricco / A 40 anni squaglio il disco d'oro / Ma non è mica detto che ci arrivo” è probabilmente la frase più spiazzante ed emblematica del lavoro. L’artista è allo specchio e tira le somme della sua carriera e della sua vita. Il successo è già arrivato e con esso i soldi e i riconoscimenti ma, ancora una volta, di tutto questo Ketama non sa che farsene. Il suo stile di vita sregolato non accetta inversioni di marcia, è un’auto senza freni lanciata nel vuoto a folle velocità e che investe tutto ciò che trova sul suo tragitto: “Più soldi, più droga, più forte / Più sesso, più vita, più morte”. Ketama vuole tutto e questo tutto non gli basta mai; di conseguenza l’epilogo immaginato non può che essere tragico.

“Potevo essere un tossico morto / Invece sono un tossico ricco / A 40 anni squaglio il disco d'oro / Ma non è mica detto che ci arrivo”

La morte in tutte le sue sfaccettature, da conseguenza di scelte autodistruttive a liberazione da una situazione insostenibile, è un tema preponderante che aveva trovato un apice espressivo in “Triste”, tra i pezzi di punta di Oh Madonna (2017). In quel secondo album, fra trap melodica e spacconeria giocosa, era già possibile trovare dei segnali anticipatori dell’evoluzione attuale di Ketama (“Quando non c'è lei mi sento un po' depresso / Prestami il tuo ferro che mi sparo adesso”) poi estremizzati dalle chitarre emo di Rehab (“Potrei andarmene domani, farla finita”), ed esasperati oggi in KETY (“Aspettando il funerale”, “Se muoio divento leggenda”, “E quando senti la paura / Prendi la .38 e spara”, “E vorrei morire adesso, ah ah / Autopsia dopo il decesso, è droga / Io non sono più lo stesso, ah ah / Lei piange sotto un cipresso, e ricorda).

Oltre alla morte c’è un’altra componente fondamentale della narrazione del rapper romano a venire esacerbata in KETY, quella religiosa. Se prima le invocazioni al cielo erano una commistione di preghiera d’aiuto e imprecazione colloquiale, ora i simboli sacri vengono accostati a immagini turpi e blasfeme, quasi a voler sottolineare come quell’”inferno in terra” abbia ormai troncato qualsiasi speranza di salvezza: “Peccati e poi mi pento, sono cristiano / Ho delinquenti e troie come Gesù Cristo / Oh, un bastardo come me tu non l'hai mai visto”, o ancora l’oscena e fortemente riuscita “Adesso vai giù / Sulle ginocchia, ehi / Sai che ti porto all'inferno con me / Tu apri la bocca”.

ketama126 tedua chris nolan love bandana
Screengrab dal video di "LOVE BANDANA", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Sarebbe facile puntare il dito e affermare che questa non è musica, che Piero è un pessimo esempio per i ragazzini, che Ketama fa schifo. A riguardo è già stato detto tantissimo, ma per sicurezza vorrei tornare su un punto fondamentale per la comprensione di un rapper “estremo”, che prima di tutto è un ragazzo di nemmeno trent’anni.

Kety non spettacolarizza, non bragga come si dice in gergo, il suo stile di vita e non incita nessuno a fare niente di quello che canta, anzi. È consapevole dei propri errori, del circolo vizioso che lo spinge verso una spirale discendente, ma è un artista e in quanto tale racconta il suo vissuto, il suo quotidiano, tanto quanto Califano raccontava l’anestesia delle sue pene attraverso un atteggiamento al limite. Ketama non è di certo il primo né sarà l’ultimo a incarnare il concetto di eccesso, è semplicemente una delle più oneste voci narranti contemporanee di uno stile di vita ben preciso: quello della rockstar bella e dannata che, in fondo, tiene banco da più di 50 anni.

Ketama è una delle più oneste voci narranti contemporanee di uno stile di vita ben preciso: quello della rockstar bella e dannata.

Ma c’è dell’altro. Sotto quella "pelle dura, sembra che ho le squame" che trova gli slanci più hardcore in schitarrate distorte, grida e featuring del calibro di Noyz Narcos (“SQUAME”) e Speranza (“PROBLEMA”), troviamo un animo gentile che vorrebbe amare e ricevere amore. Questo lato più umano è narrato da Piero nei pezzi più posati della tracklist, anche qui rafforzati dalle collaborazioni di Generic Animal (“BABE”) Massimo Pericolo (“SCACCIACANI”) e Tedua (“LOVE BANDANA”), sino al manifesto conclusivo con il sample di Franco Califano e il feat di Franco126 (“Cos’è l’amore”).

Per assurdo, ma forse neanche tanto, gli episodi meno potenti sono quelli disimpegnati e che più si discostano da quell’immaginario introspettivo vincente (“COME VA”, “GITANO”, “DENTI D’ORO”). In tutto questo è bene anche ricordare un aspetto troppo spesso passato sotto silenzio: le basi, dove non specificato, sono sempre ad opera di Ketama stesso.

L’elemento più affascinante, si fa per dire, delle multiformi facce dello stesso prisma è che, una volta entrate in contatto, esse si annullano. Tutti questi atteggiamenti sono così estremi che ogni gesto si svuota, perdendo di significato e generando un sentimento di profonda e tangibile apatia: “Non provo né amore né odio / È come se sentissi un vuoto”. Di nuovo, non c’è apparenza in questa vita né tanto meno spettacolo; Ketama è da solo sul palco e prosegue il monologo a luci spente, il suo pubblico è uno specchio.

A molti mancheranno l’effetto sorpresa di Rehab e il suo formato da otto canzoni, il più congeniale a sonorità e tematiche che facilmente diventano ridondanti, ma in generale KETY è un disco tanto piacevole quanto onesto. È la summa in cui ritrovare tutto l’immaginario visivo e musicale di Ketama, dalla trap di Oh Madonna alle chitarre emo e i fiati “jazz” di Rehab, dal rap al cantato in autotune, dalla tossicodipendenza agli amici sino al dolore e, ovviamente, all’amore.

Ketama è Piero e viceversa e insieme sono KETY, la polaroid di una situazione di degrado che recita “benvenuto in major”. Ora che quella firma è stata posta sul contratto mi viene facile ripensare a qualche anno fa, quando quel soprannome intitolava non ancora un disco ma un singolo di successo che faceva così: “Non mi avrete mai / Non sono come voi” (“Piccolo Kety”, 2017). Avevi ragione Piero, non ti avranno mai.

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Diamoci tutti una calmata sul nuovo disco di Kanye

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E alla fine è arrivato. Dopo annunci su annunci, cancellazioni, smentite, ritardi su ritardi, Jesus Is King è uscito per davvero. Da qualche giorno sta su tutte le piattaforme di streaming e per il momento non ne è ancora stato tolto (con lui—non Gesù, Kanye—non si sa mai).

A un primo ascolto Jesus Is King è stato una mezza delusione, perché è difficile essere all’altezza di un hype come quello che gli si era creato attorno. Credo abbastanza alla buona fede di Kanye, penso che nelle sue mosse ci sia più la spontaneità di un genio pazzo che (soltanto) attentissime operazioni di marketing. E che annunciare dischi che poi non escono e date di uscita che non rispetta siano cose che fa in buona fede. Come credo alle sue sbandate, come quella per Trump prima e quella per Gesù ora.

È un dato di fatto però che il suo disco precedente non era stato un avvenimento memorabile: Ye, solo sette pezzi per 23 minuti, era stato buttato lì in mezzo a una serie di cinque dischi da lui prodotti, usciti a cadenza più o meno settimanale e nonostante le bontà che conteneva non ha lasciato una grande impronta. Non ha fatto troppo rumore, e se ci pensiamo bene il rumore che dura nel tempo è una delle caratteristiche che rendono i dischi di Kanye i dischi di Kanye.

kanye west jesus is king
La copertina di 'Jesus Is King', cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Non a caso, soltanto tre mesi dopo si è cominciato a parlare di Yandhi, un album che in teoria avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere degno del nome del suo autore. Avrebbe dovuto essere il vero successore di The Life of Pablo, un altro disco lungo e magniloquente, pieno di ospiti e di mille cose diverse tra loro. Avrebbe dovuto essere il disco con cui Kanye si ricongiungeva alle radici africane, registrando sul posto (una testimonianza di questa volontà resta nella sua immagine del profilo su Twitter, che non ha ancora cambiato da allora).

Insomma, Yandhi avrebbe dovuto essere tante cose che non sono state, perché nel frattempo ci si è messo di mezzo Gesù: "Tutti volevano Yandhi / Ma poi Gesù Cristo ha lavato i panni”, rappa Kanye oggi su "Selah". Sono cominciati i Sunday Service con il coro gospel, arrivati fino al Coachella, e il nono album di uno dei nomi più importanti e influenti della musica contemporanea ha cominciato a prendere la forma che ha ora.

Chiunque sia un appassionato di black music ha—voglia o non voglia, condivida o non condivida—in casa dischi che parlano di quanto siano belli Dio e Gesù.

Il fatto che Jesus Is King sia un disco interamente dedicato al celebrare Dio e Gesù non mi disturba troppo: per quanto sia qualcosa di estremamente distante da me, la storia della musica è stracolma di cose del genere, e chiunque sia un appassionato di black music ha—voglia o non voglia, condivida o non condivida—in casa dischi che parlano di quanto siano belli Dio e Gesù.

Quello che inizialmente mi ha deluso quando ho ascoltato Jesus Is King è il fatto che fosse un’altra volta un disco breve, fatto di poche canzoni, peraltro piuttosto semplici. Non uno di quei kolossal in cui Kanye dà il meglio di sé, quelli che poi andiamo a chiamare "capolavori". È strano: nel momento in cui, a causa dello streaming oppure per manie di grandezza, molti tendono a fare uscire dischi inutilmente lunghissimi e pieni di ospiti, generi e cose diverse tra loro, generando spesso solo delle versioni meno belle di My Beautiful Dark Twisted Fantasy, l’unico dal quale avrei effettivamente voglia di sentire un disco di un’ora si mette a fare progetti semplici e che non arrivano alla mezz’ora.

A questo aggiungiamo il fatto che su undici pezzi il primo è puramente un coro gospel in cui il titolare non compare e l’ultimo non dura neanche un minuto, ed è dura a considerarli propriamente brani fatti e finiti di Kanye West. Mettiamoci anche che altri due pezzi erano già usciti in forme diverse nei leak di quest’estate, ma manca quello che era forse il più bello di quel gruppo: “We Got Love”, con Teyana Taylor. Quella che resta è davvero poca ciccia.

Poi, però, è successa la solita magia di Kanye, che un disco brutto non lo ha mai fatto e non lo sa fare. Cominciare a supportare Trump e prendersi una sbandata per Gesù, infatti, non ha rovinato quella capacità di scrittura mostruosa a cui ci ha abituato—insieme al suo team di autori, perché da un certo punto in poi i credit dei suoi pezzi hanno cominciato a sembrare i titoli di coda di un film.

L’unico dal quale avrei effettivamente voglia di sentire un disco di un’ora si mette a fare progetti semplici e che non arrivano alla mezz’ora.

E così mi viene da dire che, anche se non è propriamente il disco che volevamo, Jesus Is King è comunque un bel disco. Ascolto dopo ascolto ci si rende conto che, anche se tutto estremamente ridotto all’osso e probabilmente chiuso un po’ di fretta per uscire a tutti i costi—alcuni mix avrebbero forse meritato qualche ora in più—si tratta comunque di un bel disco. Il gospel iniziale è una buona introduzione, “Selah” è l'apertura epica che apre le danze con un mix tra Yeezus e, appunto, un gospel. “Follow God” è un grande pezzo rap classico con un flow da paura—e il solito buon vecchio trick di Kanye che rappa senza farsi problemi anche sopra le parti vocali di un sample che si ripete per tutto il brano.

“Closed On Sunday” è un pezzo un po’ minimale con una punta di elettronica che ricorda le cose più scure di Pablo, con un problemino a livello testuale a cui arriviamo dopo. “On God” è il pezzone generatore di fotta in cui riesce a essere zarro anche parlando di Gesù. “Everything We Need” è un po’ una summa del disco, ottimo esempio di come tenere insieme cori, rap e una base ridotta all’osso. “Water" è un po' moscia ma tutto sommato ok in quanto intermezzo, con quell’andamento quasi funkeggiante e il cantato un po’ “buttato via” che ricorda il Frank Ocean di channel Orange.

“God Is” è uno dei punti migliori del disco: dopo il sample pitchato che la introduce parte una vera e propria ballata in cui Kanye, su una produzione fatta di poche cose ma tutte giuste, canta come forse non ha mai fatto, ricordandoci che alla fine uno dei suoi pregi più grandi è proprio quello di essere un grande autore di melodie. “Hands On” è il pezzo in cui forse sperimenta di più sulle voci, e che più dà al disco il carattere di “album in cui gioca su cori modificati in fase di produzione”.

“Use This Gospel” ha il valore di avere sopra le strofe dei ritrovati Clipse, Malice e Pusha-T, che non stavano insieme su una traccia da nove anni, oltre che il sassofono di Kenny G: l’assurda scelta di essere così cool da potersi permettere di chiamare uno dei musicisti più storicamente "da sfigati" di sempre è puro genio, e un’altra dimostrazione del fatto che in pochi sanno scrivere melodie come questo tizio di Chicago (se non bastassero il beat, il coro e tutto il resto). “Jesus is Lord” è la chiusura, epica il giusto, che in nemmeno 50 secondi sintetizza il senso del tutto.

L’unico vero difetto di Jesus Is King sono i testi, non tanto per l’argomento che trattano, ma per il modo in cui lo fanno.

L’unico vero difetto di Jesus Is King sono i testi, non tanto per l’argomento che trattano, ma per il modo in cui lo fanno. Per forza di cose l’argomento è uno solo, ma viene trattato con pochi guizzi e creatività. Una delle cose che da sempre hanno formato l’identità dei dischi di Kanye sono le cazzate, le cose divertenti, le storie che racconta anche quando sarebbe meglio non farlo: in "Real Friends", da Pablo, raccontava del cugino che gli aveva rubato il laptop contenente dei sextape e che aveva voluto 250.000 dollari per restituirlo, per dirne una.

Insomma, in tutti i dischi di Kanye ci sono sempre state barre assurde e profondamente divertenti, elemento fortissimo della sua identità di artista e del carattere dei suoi lavori. Una a caso? "A volte vorrei che il mio cazzo avesse una GoPro / Per potermi riguardare tutto in slo-mo". Qui quella cosa manca, e molto: i testi sono quelli che potrebbe scrivere più o meno qualunque rapper nel momento in cui decidesse di dedicare un disco alla celebrazione del Padre Eterno. Uno dei pochi guizzi alla Kanye è quel “chiuso la domenica, sei il mio Chick-Fil-A”, in cui paragona Dio a una catena di fast food i cui negozi, per motivi religiosi, da sempre restano chiusi la domenica—anche se la frase ha scatenato qualche polemica perché si tratta di un’azienda nota per avere supportato economicamente alcune associazioni anti-LGBT.

Alla fine, che fosse fatto apposta o meno, il continuo rimandare l’uscita del disco ha pagato, come anche la svolta a livello tematico: negli ultimi giorni chiunque si interessi di musica, che si consideri ascoltatore di rap o meno, si è sentito in dovere di ascoltare almeno una volta Jesus Is King, anche solo per farsene un’idea. È un carattere di “disco che comunque va sentito” che Ye non aveva avuto in misura neanche lontanamente paragonabile.

Ascolto dopo ascolto è finita che anch’io, nonostante alcune perplessità iniziali, mi sono convinto che Jesus Is King sia un lavoro più che buono e che mescolare la dimensione spiritual alle produzioni di Kanye sia venuta bene—anche nella sua estrema essenzialità, anche se non è il disco che volevo io. E che ancora una volta si tratti, in fondo, di un album riuscito. Però Kanye, fidati: adesso vai un anno in Africa e torni con un disco di un’ora con 40 ospiti e fai un capolavoro vero. Hallelujah.

Federico è su Instagram.

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Blinky, le due facce di Milano e di chi vive le sue notti

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Blinky suoneranno sabato 2 novembre al Lingotto di Torino per Club To Club insieme a Chromatics, Floating Points, SOPHIE e tanti altri. I biglietti sono ancora disponibili sul sito del festival.

Milano ha due facce. Da un lato, le vetrine scintillanti di Montenapo, le settimane della moda, del design e del design della moda, gli apericena in Moscova; dall’altro, la periferia, il margine, la linea bus 90 per percorrere la circonvalla, la tuta acetata, le penne sui booster.

A metà strada fra due estremi latitudinali metropolitani, Barona (Sud-Ovest) e Crescenzago (Nord-Est), si è stretto il sodalizio fra Francesco Chiamulera e Andrea Bernardi, DJ e producer che in duo rispondono al nome di Blinky. Conosciutisi su un set fotografico e diventati immediatamente amici, in breve hanno unito le rispettive passioni e personalità per fondare un progetto sonoro sfaccettato: Francesco ai synth e chitarre, legato alla cultura UK dub, bass e dancehall; Andrea a voce e drum machine, discepolo della techno e di quelle influenze ghetto-house che la sua vasta collezione di dischi lascia intuire.

Le due anime si completano e si distinguono, tasselli di un puzzle a prima vista diversi, ma che insieme formano un quadro armonioso. L’approccio è semplice e immediato come il sound che propongono, senza giri di parole, beat catchy e linee di basso club-oriented. I due conoscono il dancefloor ed è al dancefloor che si rivolgono con le quattro tracce a comporre l’EP di debutto Syncro, partorito dopo un ritiro estivo in montagna interamente speso a studiare sintetizzatori e macchine analogiche.

Ci sono techno kick, classici elementi della tradizione house per amore di Andrea, un sample dancehall maneggiato e ritmato seguendo i bpm britannici spinti da Chiamulera. Il tutto spennellato di eco psichedeliche, dilatate nello spazio e nelle frequenze.

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Gli album di Night Skinny sono fotografie del rap italiano

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Questo articolo è realizzato in collaborazione con Ceres.

Il 5 novembre faremo una festa al Vibe Room di Milano per il lancio del video di "Mattoni" di Skinny. Potete partecipare mandando una mail con il vostro nome a festa@vice.com, se sarete stati abbastanza svelti riceverete la conferma.

Un mesetto fa, a una manciata di giorni dalla release ufficiale di Mattoni, uscivo dallo studio di Night Skinny dopo una lunga e intensa chiacchierata in cui lui si diceva gasato, ma anche in ansia per il suo primo disco major. L’aspetto che più mi aveva colpito del progetto era la sua contemporaneità, immortalata in questa frase:

Mattoni è una dichiarazione di intenti potentissima, la migliore istantanea del rap tricolore odierno”

In realtà, a mente fredda, mi rendo conto che non c’era tanto da stupirsi. Ok, anni fa la cassa di risonanza mediatica di cui godeva il rap era ben più piccola rispetto ad ora, ma col senno di poi è palese che Skinny avesse iniziato a scattare foto musicali della scena da molto tempo.

Vi ricordate il 2010? Il rap italiano era già abbastanza sdoganato, tanto da venire spesso assimilato ai tormentoni pop, sia in radio che in tv. Nel sottobosco, però, si muovevano ancora artisti fedeli alla linea, quella del rap come narrazione di situazioni poco adatte al prime time televisivo. È in questo contesto che Night Skinny, fino a quel momento conosciuto come Cee Mass, esordisce con Metropolis Stepson, il suo primo disco ufficiale.

skinny metropolis stepson
La copertina di Metropolis Stepson di Night Skinny, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Più che una fotografia questo debutto è un negativo: se da una parte l’industria cerca di spingere l’hip hop a diventare una macchina da soldi, dall’altra il beatmaker lucano si muove tra boom bap, campioni di world music e synth affilatissimi che squarciano la notte di un non-luogo post apocalittico.

Le basi sono solcate tanto da fuoriclasse italiani (Tormento, Esa, Lord Bean, Lugi) quanto da talenti d’oltreoceano (M. Saiyd, H. Priest, Mental D Tek e Vordul Mega dei Cannibal Ox) e qualche DJ (Ronin, Tayone, Myke, 2P). C’è molta America in questo disco, è vero, ma c’è anche tanta Italia, quella dal gusto cinematico e old-school che rischiava di finire nel dimenticatoio.

Metropolis Stepson è il biglietto da visita calato da Skinny sul tavolo del rap game nostrano, un gigantesco “me ne frego” rivolto ai trend del momento.

Metropolis Stepson è il biglietto da visita calato da Skinny sul tavolo del rap game nostrano, un gigantesco “me ne frego” rivolto ai trend del momento. Dal giorno 1, insomma, era già ben chiaro il mantra che avrebbe guidato Luca nella sua pluridecennale carriera: “Ho sempre fatto musica in maniera molto istintiva, seguendo la mia volontà e senza seguire ciò che sulla carta funziona”.

Stacco, balzo temporale, siamo alla fine del 2014: la parola “trap” serpeggia sulle bocche degli addetti ai lavori e dai meandri dell’internet iniziano a fare capolino dei ragazzi che rappano in maniera strana. Ma non è ancora questo il momento, prima bisogna chiudere un capitolo, e a farlo ci pensa Zero Kills.

skinny zero kills
La copertina di Zero Kills di Night Skinny, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Nel secondo disco del Nostro ritroviamo atmosfere notturne abbinate ad un sound potente, con percussioni vecchia maniera che incontrano sample inusuali. Ancora una volta a dominare le strumentali c’è una bella trafila di rapper tra storici, sensation del momento e pupilli in rampa di lancio: Ensi, Colle Der Fomento, Stokka & Madbuddy, Marracash, Noyz Narcos, Ghemon, Mecna, Achille Lauro, Nitro e tanti altri. Mettere insieme così tante tracce e così tanti MC non è roba da poco, soprattutto in un mercato che inizia a macinare profitti e che non lascia molto tempo per pensare. In questo mare, però, Skinny sembra nuotare con le bombole.

A soli sei mesi di distanza, infatti, ecco arrivare anche City Of God, una raccolta di ventisei strumentali di cui due inedite, che in realtà aggiunge ben poco a quanto detto fino a quel momento, ma che è indispensabile come un respiro di sollievo nel marasma generale. È un fermarsi e tirare le somme, preziosissimo momento che funge da spartiacque tra un prima e un dopo. E quel dopo si chiama Pezzi.

night skinny pezzi

Al momento della release avevamo definito Pezzi “il ritratto perfetto del rap in Italia nel 2017”, e a due anni di distanza c’è poco da aggiungere. Come sempre il producer parte dal suo bagaglio 90s con un approccio sperimentale che abbraccia la contemporaneità, andando a creare un lavoro intimo e personale. Rispetto al passato le basi suonano più moderne e come sempre ospitano più generazioni al microfono: i rapper della “Nuova Scuola” (Rkomi, Tedua, Izi, Ernia, Lazza) si avvicendano tranquillamente a pesi massimi (Guè, Luche, Noyz) e a qualche guest internazionale (Paigey Cakey, 67).

Come detto sopra, Pezzi rappresenta il primo passo del “dopo” nella carriera di Skinny. È il disco in cui TNS ha imparato a fare il produttore artistico di se stesso, finendo sotto i radar della critica e del mercato, riscuotendo finalmente il successo meritato senza snaturarsi: “Negli ultimi due anni circa ho capito che quando collabori con tanti artisti e li vuoi far convivere su una traccia, nell’ottica di un disco, devi scendere a dei compromessi per metterli a proprio agio. Sono sempre matto, ma ho imparato ad esserlo un po’ di meno.”

"Quando collabori con tanti artisti e li vuoi far convivere, devi scendere a dei compromessi per metterli a proprio agio. Sono sempre matto, ma ho imparato ad esserlo un po’ di meno."

Ed è proprio in quella capacità di trovare un equilibrio tra genio, sregolatezza e calcolo che si nasconde il talento di Skinny, artista capace di creare album che sono fotografia di determinati periodi della scena italiana ma che, grazie ad un tocco unico e personale, riescono a suonare ancora freschi a distanza di anni.

skinny mattoni
La copertina di Mattoni di Night Skinny, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Ed arriviamo infine a Mattoni, un producer album perfetto per il 2019 in termini di ambizione e soprattutto di qualità. Del disco si è già detto tanto e se siete qui di sicuro lo avrete ascoltato, apprezzandolo in tutte le sue sfaccettature—per questo non mi dilungherò oltre se non per aggiungere che è stato da poco certificato disco d’oro dalla FIMI.

Ah, sì, c’è anche un’altra cosa. Come ben saprete abbiamo organizzato insieme a Ceres, Luca, e a tutti voi, la realizzazione del video di “Mattoni”, la posse track conclusiva dell’album. In occasione dell’uscita del video, firmato dai ragazzi di NO TEXT, faremo una festa il 5 novembre al Vibe Room di Milano: oltre alla proiezione in anteprima della clip potrete assistere anche ad un live di Skinny, con ospiti a sorpresa. Potete partecipare mandando una mail con il vostro nome a festa@vice.com, se sarete stati abbastanza svelti riceverete la conferma. Ci vediamo lì.

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Franco Battiato aveva già previsto la crisi climatica

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Da qualche tempo, l'ecologia è tornata a essere uno degli argomenti principali ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica. Soprattutto in Italia, una mobilitazione come quella di Fridays For Future sembra veramente inedita. Eppure, a dirla tutta, in Italia c’è sempre stata una certa attenzione al problema, soprattutto nella musica, perché è lo strumento più diretto per dare l’allarme, molto più che un partito o una petizione o uno slogan.

Bene, oggi Italian Folgorati vuole fare un excursus su alcune canzoni che a nostro parere sono il contributo italiano alla lotta per un pianeta migliore o come minimo che prenda coscienza di se stesso. E quindi è giocoforza una contro-storia: tra i tanti tentativi di retrospettiva diffusi in rete, infatti, ci troviamo di fronte ad una ricerca incerta, ferma ai soliti nomi, ai classici, insomma… a una roba trita e ritrita. Siccome noi di carne, trita o no, vogliamo mangiarne il meno possibile per salvare il pianeta e non gradiamo le insalate preconfezionate, abbiamo deciso di andare un po’ più a fondo, al centro della nostra terra.

...la celeberrima "Canzone del sole", con quel mare nero che una volta era trasparente e che rappresenta la coscienza sporca dell’umanità.

Iniziamo subito a buttare giù qualche monumento: il mito di Adriano Celentano come prime mover del genere ecologista in Italia, se non proprio una balla, è sicuramente facilotto. Sì, è vero, nel 1966 con "Il ragazzo della via Gluck" Celentano rese mainstream la critica a un’industrializzazione che cominciava a schiacciare l’ambiente in Italia. Prima di lui, però c’era gente come Herbert Pagani, storico autore di praticamente il 90% della musica italiana, che nel 1965 scrisse una canzone micidiale e agrodolce (a partire dalla musica di Jacques Brel): "Lombardia", che narra appunto della dura situazione del nord Italia industrializzato. I versi “Ma quando il primo fiore dal fango nascerà / e fra le ciminiere il pioppo canterà / capirai che a novembre noi dobbiamo pagare / quel che maggio promette e giugno ci può dare / fra i grattacieli e i tram l'estate scoppierà” e il continuo riferimento a un grigiore diffuso non lascia adito a dubbi.

A partire dal 1970 Herbert diventerà, infatti, un ecologista convinto e militante, sviluppando dei progetti multimediali come l’opera rock Megalopolis—proprio a tema inquinamento. Certo, Adriano Celentano insisterà sull’ecologismo più e più volte nella sua lunga discografia tanto da poter etichettare questa sua tendenza come un'ossessione. Coerente o meno, preferiamo ricordare a “Un albero di trenta piani", una canzone come “La luce del sole” contenuta ne La pubblica ottusità del 1987. Un brano di una cupezza plumbea e apocalittica da rasentare la coldwave in cui si dipinge l’uomo intento a distruggere il mondo di suo pugno e quindi anche se stesso: Celentano (per una volta blasfemo!) se la prende addirittura con Dio per averci creato e per raccontare solo favolette nei suoi testi sacri.

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La copertina de La pubblica ottusità di Adriano Celentano, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

A seguire il molleggiato, ecco un altro personaggio pronto a schierarsi apertamente e in tempi non sospetti a favore dell’ambiente: Mogol. A parte la famosa cavalcata insieme a Battisti da Milano fino a Roma che fece parte di Linea Verde, un progetto ambientalista fondato proprio da Mogol per sensibilizzare il mondo della musica, Giulio Rapetti scrisse per Battisti alcuni testi sul tema—uno tra i tanti la celeberrima "La canzone del sole", con quel mare nero che una volta era trasparente e che rappresenta la coscienza sporca dell’umanità.

Ma il migliore, e mai ricordato, è quello che si limita a un titolo wertmülleriano ed è presente nell’album Amore e non amore del 1971, prevalentemente composto di strumentali. E infatti è strumentale anche "Seduto sotto un platano con una margherita in bocca guardando il fiume nero macchiato dalla schiuma bianca dei detersivi” il quale evoca una situazione distopica in cui lo spirito ye-ye del progresso cozza contro una natura (gli archi) che cerca di resistere drammaticamente all’assalto consumista. L'anno dopo, tra l'altro, Battisti svilupperà il concetto nel brano "Umanamente uomo: il sogno".

battiato pollution
La copertina di Pollution di Franco Battiato, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Nel 1972 invece a ribellarsi contro la sopraffazione del mondo moderno su madre terra è…Domenico Modugno. In quest’anno scrive, infatti "Un calcio alla città”, pezzo clamoroso in cui non solo decide di mandare affanculo il lavoro e il capoufficio ma inneggia al naturismo, quasi un “elfo” ante litteram con tanto di eloquente gesto nel togliersi la cravatta durante le esecuzioni del pezzo in TV. E se anche la “tradizione” della musica italiana ne ha abbastanza, ecco l’underground dell’epoca che alza la posta critica: Battiato nello stesso anno pubblica per la Bla Bla il disco Pollution, un concept album estremo tra l’elettronica e il post-progressive completamente dedicato al problema dell’inquinamento.

Il brano che annichilisce tutti i tifosi del progresso a tutti i costi è chiaramente “Ti sei mai chiesto quale funzione hai?” in cui una semplice domanda del genere rende l’uomo moderno preda di horror vacui senza fine, schiacciato com’è tra “serbatoi di produzione” e “spazi su misura”. Negli anni ottanta, insieme a Giusto Pio, registrerà un brano che ne è in qualche modo la prosecuzione, "Auto-motion", sulle onde di un synthpop intricato e neoclassico si narra, infatti, di un mondo oramai preda degli algoritmi e della liofilizzazione, di sconvolgimenti climatici nell’universo “e della Terrà non resterà che un pallido ricordo” un verso evidentemente senz’appello.

Nel 1984 Battiato narrava di un mondo oramai preda degli algoritmi e della liofilizzazione, di sconvolgimenti climatici nell’universo.

Nel 1974 è la volta degli Area, che in Caution Radiation Area, a tutt’oggi il loro disco più incompromissorio, descrivono una civiltà oramai al collasso, inquinata non solo dal punto di vista naturale ma soprattutto nella mente umana. Ecco che in brani come "MIRage? Mirage!" si evocano fumi tossici che frantumano le capacità di linguaggio e di pensiero, con dialoghi sovrapposti e dunque incomprensibili e tetri paesaggi desertici calpestati da zombie allo stato terminale. Un bis arriverà con Chernobyl 7991 del 1997 ma ovviamente con meno incisività, vista l’assenza di Stratos e Tavolazzi.

Il prog italiano è forse il più attento al tema: basti ricordare "Cemento Armato" delle Orme, nel 1971 vero e proprio manifesto contro “la grande città / senti la vita che se ne va”. Ma anche Il Volo, il supergruppo di Alberto Radius e Mario Lavezzi, nel 1974 con l’allucinato jazz rock de "La canzone del nostro tempo” spiega come sia “difficile arare l’asfalto” in un inno a una vita nomade e alla fuga dalla civiltà nelle parole (c’era da aspettarselo) di un ispirato quanto esaltato Mogol.

dalla anidride solforosa
La copertina del singolo "Anidride Solforosa" di Lucio Dalla, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Nel frattempo entra in gioco Lucio Dalla, che coadiuvato dal poeta Roberto Roversi darà vita al desolato requiem di “Anidride solforosa”: anche se ricordato spesso insieme a "Il bambino di fumo" come la sua canzone ecologista per antonomasia, molti invece dimenticano che "Il motore del duemila" la supera. Perché lì l’ecologismo è dipinto come presto assorbito dalla produzione, dal potere, diventando fonte d’insensibilità e sparizione della coscienza del "ragazzo del duemila" di cui non si conosce il futuro nonostante sulla carta sia roseo. Dalla si supererà poi nella metafora di “Com’è profondo il mare", che paragonando il pensiero all’oceano fa due più due nel verso “così stanno bruciando il mare così stanno uccidendo il mare”. Uccidere la natura è uguale a uccidere il libero pensiero, e viceversa.

Vero è che molte canzoni ecologiste si confondono nel micro genere “apocalittico” o “post-nucleare”, e a volte il confine è sottilissimo. Pensiamo infatti ad Antonello Venditti e alla sua “Canzone per Seveso” del 1976, appunto dedicata al disastro di Seveso, quando dall’azienda ICMESA vi fu una fuoriuscita di diossina che causò una delle più terribili catastrofi ambientali mai viste. Affiancato da Ivan Graziani nel particolare arrangiamento, vede strumenti che sembrano andare fuori controllo pur nell’armonia evocando scale discendenti verso l’inferno di una tragedia pop. Tragedia che negli anni ottanta non accennava a spegnersi, anzi: diventerà sempre più pesante culminando nel disastro di Chernobyl.

Dalla si supererà poi nella metafora di “Com’è profondo il mare": uccidere la natura è uguale a uccidere il libero pensiero, e viceversa.

Nel 1980 esce "Suffocation" di Vangelis, che vede ospiti i Krisma a recitare un testo agghiacciante con una musica letteralmente radioattiva a recuperare il passato di Seveso come monito verso il presente e il futuro, oramai dominato dalla nuclearizzazione. I Krisma approfondiranno questo discorso ecologico/futurista nella loro pietra miliare, ovvero Clandestine Anticipation, disco penetrato da un technopop addirittura pre-Autechre, se non proprio pre-Warp, che evoca scenari in cui, dopo un’attenta osservazione sul campo approfittando del soggiorno in luoghi tropicali, l’uomo e la natura spariscono aggrediti dalla tecnologia nelle mani di pochi arricchiti. "Water" è la traccia simbolo, con quella domanda inquietante, "Puoi lavare l’acqua?, che oggi avrebbe anche una risposta nelle ultime ricerche scientifiche stile Oleo Sponge, ma che rimane confinata in un altrettanto inquietante condizionale.

In tema di spiagge contaminate e disastri ecologici, i Righeira nello stesso anno toccheranno l’apice con "Vamos a la playa", canzone di grandissimo successo di cui nessuno ha veramente compreso il testo, fatto di “vento radioattivo “ di un “mare fluorescente” e di una bomba che esplode tramutando un paradiso terrestre in un incubo di plastica. A ruota li segue Adriano Pappalardo che nel 1982 fa uscire il singolo technopop “Giallo uguale sole”, tratto dall’album Immersione, un concept sul mare: in questo pezzo s’incita alla fuga dalla città e dai fumi tossici che rendono tutto nero a favore di spiagge incontaminate in cui l’unico scuro visibile sono gli occhi delle indigene.

righeira vamos a la playa
La copertina del singolo "Vamos a la Playa" dei Righeira, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Non sono dello stesso avviso i Matia Bazar, che nella punta di diamante Tango scrivono un pezzo postnucleare come “I bambini di poi”, nel quale le nuove generazioni si ritrovano un “sole di Sorrento sopra un mare che non c’è”, invitando a riflettere “dove sono gli eroi”. Anche la Steve Rogers Band, gruppo di Vasco Rossi, è dell’avviso che siamo vicini alla fine con l’esplicita e glamster “Neve nera”, scritta pochi anni prima proprio da Vasco come loro primo singolo ufficiale, uno dei pochi brani esplicitamente dedicati all’ambiente dal rocker di Zocca.

Di fronte a tanto pessimismo nascosto dalla patina apparentemente spensierata della canzonetta, l’Umberto Tozzi di "Eva", in piena botta sperimentale, predice una terra che collassa su se stessa (“di follia scoppierà mezza umanità”), ma è sicuro che la vita ricomincerà altrove evocando una nuova arca di Noè—la stessa di Battiato, che ancora una volta, nell'omonimo disco del 1982 dalla cui copertina in cui spicca un paesaggio stile glaciazione, strizza l'occhio ad un probabile se non necessario “Esodo".

La Bertè nel 1985 canta un testo di Bruno Lauzi privo di dubbi sul fatto che l’energia della natura trascinerà nella sua potenza tutto il male del mondo e con lui chi vuole renderla putrida.

Nell’84 Fabio Concato, invece, fa parlare in "Quando sarò grande" le nuove generazioni, che vogliono responsabilità precise dai loro predecessori: "Fammi giocare ancora sopra i campi se ce n'è / Dimmi che mi terrai con te / Fammi vedere il mare prima che cambi il suo colore / Dimmi che posso vederti pescare”: qui più che sull’ottimismo si fa leva sulla speranza. Speranza condivisa anche dalla Bertè in "Acqua" nel 1985 tratta dall’album Carioca canta un testo di Bruno Lauzi privo di dubbi sul fatto che l’energia della natura trascinerà nella sua potenza tutto il male del mondo e con lui chi vuole renderla putrida.

Tra gli ottimisti ci sono anche i Pooh, che negli anni ottanta collaboreranno direttamente col WWF distinguendosi per album prodotti con carta riciclata e iniziative di raccolta fondi per nobili cause ecologiste, probabilmente tra i pochi veramente attivi del lotto. Nel 1989 pubblicano un 12” in vinile verde con una strumentale epica che riprende certe cose dei Pink Floyd del periodo A Momentary Lapse Of Reason e che anticipa un po’ le attuali fisse green-oriented di James Ferraro: il titolo è "Concerto per un’oasi". Sul retro c'è un recupero dal disco Il colore dei pensieri, "Nell’erba nell’acqua nel vento”, in cui si è sicuri che “il mondo ha la pelle dura“ e che quindi “l’avventura continuerà”, con buona pace del Pierangelo Bertoli di "Eppure soffia", che pare pensarla in modo identico.

pierangelo bertoli eppure soffia
La copertina di Eppure Soffia di Pierangelo Bertoli, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Lo stesso Bennato in "Vendo Bagnoli", nel medesimo anno, fa ironia sull'inadempienza delle autorità rispetto alla riqualifica del territorio partenope una volta sede delle perniciose acciaierie Italsider, distinguendosi già in passato con inni para-ecologici come “La torre di babele”, “Nisida” e la furiosa "Uffà Uffà” con quei versi "Perché non provate a sfruttare l’energia del sole, oppure provate a prendere energia dal mare” diretti contro lo sfruttamento petrolifero.

Nel 1989 esce anche il 45 giri di Jo Squillo “Terra magica”, titletrack dell’omonimo album dell’anno precedente in cui aderisce agli emergenti soggetti new age con un anatema tra il rock e l’HNRG. La nostra ex eroina del punk ci porta quindi direttamente nei novanta passando per i CCCP Fedeli alla linea, autori di un brano simbolo dell’ecologia del periodo: la psichedelica e fluttuante "Campestre", presente nel loro canto del cigno Epica etica etnica pathos. Più tardi, non a caso, interpreteranno il classico brano apocalittico “Noi non ci saremo” dei Nomadi. Una semplice, ermetica e potente elegia alla natura senza atteggiamenti bacchettoni di sorta, un'accorata descrizione di qualcosa d’inarrestabile, divina e necessaria all’uomo.

"Campestre" dei CCCP: una semplice, ermetica e potente elegia alla natura senza atteggiamenti bacchettoni di sorta, un'accorata descrizione di qualcosa d’inarrestabile, divina e necessaria all’uomo.

Anche Baglioni tocca le corde dell’ambiente come tutt’uno con l’uomo nella solenne "Pace", preghiera new age contenuta nel disco della svolta, quell'Oltre registrato ai Real World Studios di Peter Gabriel e con, tra gli altri, Tony Levin dei King Crimson al basso: “L'immenso soffio dell'oceano / Mi spinge via con sé a naufragare / Su spiagge chiare / A un passo dalla vita muoiono / Conchiglie e nelle orecchie ancora il mare / S'arrampicano in cima con quei ginocchi secchi / E tutto il mondo giù respirano / Si fanno roccia / E al sole un'altra volta guardano / Poi chiudono per sempre gli occhi gli stambecchi." Insomma, non possiamo sperare nella pace se schiacciamo la natura, questo è chiaro.

Infatti egli anni 2000 il problema sarà meno peculiare nelle canzoni delle nuove leve, forse più concentrate sull’ecologia dei sentimenti e quindi sulle nevrosi come prima cosa da sanare per poi passare al salvataggio del globo terracqueo—ricordiamo in questo gli Zerozen apocalittici di "Zona Bikini". Tra le vecchie glorie a cui invece l’argomento verde sta ancora a cuore, segnaliamo i Decibel della ballata stile Sparks “La belle époque”, che descrive l’ottimismo della prima industrializzazione e quindi della tecnologia in crescita che nella sua vetrina luccicante contiene invece la guerra e la devastazione di un pianeta che va in fiamme. nell’82 invece, orfani di Ruggeri, scrissero “Valzer bianco radioattivo”, in cui anche li ironicamente si cantava dei rischi della radioattività ormai data per scontata nel quotidiano).

tofani rocchi gusto superiore
La copertina di Un gusto superiore di Paolo Tofani e Claudio Rocchi, da cui è tratta "La Macellazione", cliccaci sopra per ascoltarla su YouTube

È vero che, se in questo momento finalmente si sono tutti svegliati, c’è poca gente che veramente milita verde nelle canzoni pop. Non ci sono più le Paula Rose di "Sos Pianeta Terra" o della stranissima "Regina bomba re computer”, in cui la cosa sembra davvero imprescindibile se non patologica, oppure le sberle verbali dei Claudio Rocchi e Paolo Tofani nel mitico brano del 1980 “La macellazione” in cui viene spiattellata la sofferenza degli animali davanti ad uomini che non hanno più le mani sporche di sangue e quindi neanche la percezione del delitto poiché la carne è ben divisa dal cellophane dei supermercati. C’è Piero Pelù con l’imbarazzante ed evidentemente pelosa "Picnic all’Inferno" e il finto duetto con Greta Thunberg, ecco cosa c’è: ed è un peccato, perché una volta cantava "Peste" con i Litfiba e sembrava fosse veramente sincero sul tema.

Dite bene, questa è solo una sintetica carrellata di brani, per forza di cose pescati dal mucchio: non generalizziamo. Ma quest’odierna assenza di portavoci pop, a parte a causa dell’autoreferenzialità diffusa, non sarà dovuta al fatto che le fabbriche di dischi e strumenti musicali e pc e via dicendo inquinano a stecca? Beh, a noi basterebbe anche solo che certi cantanti non riempissero di cicche le dune o che chiamassero l’AMA per portar via i materassi. “Tanto a morire sono solo e sempre gli altri”, parafrasando Claudio Rocchi.

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La prima intervista video di Marracash su 'Persona'

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Marracash è tornato con un nuovo album, Persona, dopo tre anni di silenzio. Nel nuovo episodio di Noisey Personal lo abbiamo incontrato per parlare della sua infanzia, delle crisi che lo hanno tenuto lontano dalle luci dei riflettori fino a questo album e dell’impatto che la psicoterapia ha avuto sulla sua vita.

Marra è cresciuto in una famiglia umile in un quartiere dove l’umiltà non era un valore. Crescendo e diventando uno dei rapper più seguiti d’Italia, passando dalla strada ai dischi d’oro, ha dovuto affrontare il cambiamento di se stesso e del mondo che lo circondava. “Non sapevo più per chi combattere, perché… Le cose a cui tenevo in realtà non importavano più a nessuno”.


Persona esce il 31 ottobre.

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Ma che dobbiamo fare se la TV continua a raccontare così la trap?

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Ieri sera, tra un'intervista a Matteo Salvini e un servizio sulle case dei cardinali a Roma, la trasmissione 'Fuori dal coro' di Mario Giordano ha trasmesso un campionario di banalità sulla trap ai limiti del reale. Il servizio nasce come spot a un libro di Paolo Del Debbio, intitolato "Cosa rischiano i nostri figli"—e la risposta, secondo la trasmissione, è "rischiano di drogarsi perché glielo dicono i trapper, di parlare come imbecilli e vestirsi tutti strani."

Tutto comincia con una breve clip de "L'esercito del surf" di Catherine Spaak, anno 1964, presentato da Giordano come esempio di "musica che ascoltava da giovane lui". A seguire un breve servizio su Massimo Pericolo, con un focus su alcune delle sue barre più offensive e una serie di interviste a ragazzi che vanno a un suo concerto. Con il volto oscurato, dicono che quando lo ascoltano vogliono spaccare tutto, che "conoscono la droga" ma fumano solo erba, o che i loro genitori non sanno che sono lì.

mario giordano

A fine servizio, via con un secondo giro di "musica che ascoltava Mario Giordano da piccolo": la sigla di Heidi, cantata in playback dalla sua interprete originale, Elisabetta Viviani. Poi una voce legge con tono drammatico brevi estratti da "Serpenti a Sonagli" di Sfera e "Dolce Droga" di Young Signorino—che, tra l'altro, continua a essere usato come spauracchio di cose-dei-giovani dai media tradizionali nonostante sia decisamente più rilevante tra i trentenni che tra gli adolescenti, oggi.

Giordano e Del Debbio intervistano infine un povero ragazzo assolutamente sconosciuto che fa rap e ha probabilmente accettato di andare in trasmissione convinto, anche lui, della massima “bene o male, purché se ne parli”. Il ragazzo viene usato come interlocutore debole da Del Debbio, che attacca le sue semplici argomentazioni sulla droga e la violenza ("Tutti possono fare quello che vogliono", "Io ho ascoltato Noyz Narcos ma non stupro e uccido nessuno", "in America questa è un'industria") con banalità aizza-popolo ("Sei un ragazzo talentuoso, puoi fare qualcosa di diverso", "Fumarsi una canna non è una cosa normale", "Se c'è un coglione in America non è che ci deve essere anche in Italia").

Nell'anno del signore 2019, davvero siamo ancora qua a scrivere di quanto la TV italiana possa essere bigotta, ottusa e sciacalla? La risposta è "sì", ma con un ma.

Nell'anno del signore 2019, davvero siamo ancora qua a scrivere di quanto la TV italiana possa essere bigotta, ottusa e sciacalla? La risposta è "sì", ma con un ma. È che in casi come questi inizio a dubitare dell'efficacia del puntare il dito contro gli italiani, soprattutto anziani, soprattutto in televisione, che “non hanno capito il rap” e che lo usano come bersaglio semplice per ottenere consensi nella loro fascia demografica—oltre che indignazione (che è valuta mediatica) nei giovani che si trovano di fronte i loro discorsi. Ed è questo il punto, cioè che reagire male a una cosa può anche fare gioco alla cosa stessa. Che è la formula magica che hanno trovato le destre post-politica tradizionale oggi.

mario giordano trap

Restando nel nostro paese, è quel fenomeno per cui insultare Salvini su qualsiasi tema non fa che generare una risposta che aizza ancora di più la sua base e indigna ancora di più chi non ha ceduto alla retorica d'odio, sospetto, egoismo e tradizione da lui perpetuata. Tipo: quando Ghali ha detto una cosa contro Salvini nel remix di "Vossi Bop" di Stormzy, io ho scritto una reazione tutta esaltata; Salvini l'ha ripostata con un sorriso, e così ha convinto ancora di più la sua base che Ghali è un invidioso stupido che fa le canzoni brutte insieme alla gentaccia con la pelle nera, ancora più scura della sua.

Che tutto questo faccia schifo lo abbiamo detto dopo Bello Figo a Dalla Vostra Parte, dopo Corinaldo, dopo la polemica di Striscia La Notizia contro "Rolls Royce" di Achille Lauro, lo diciamo adesso. Ma nulla cambia, e ci troviamo ancora dei poveri attori pagati per stare su Rete Quattro a dire "flexare", "squinzie" e "sbatti" con tono gggiovane così da generare un senso di disorientamento e paura in persone a cui non appartiene il linguaggio della contemporaneità—detto in senso ampio, prendendo dentro lingua parlata, estetica, riferimenti, intenti dell'arte.

Non credo che restare in silenzio di fronte a tutto questo faccia però bene alla conversazione mediatica e, soprattutto, alla cultura.

Non credo che restare in silenzio di fronte a tutto questo faccia però bene alla conversazione mediatica e, soprattutto, alla cultura. E lo credo perché è assodato che Mario Giordano non vada preso sul serio, come ci ricorda lui ogni volta che si lancia in una provocazione consciamente stupida, come quando ha recentemente spaccato le zucche in TV perché Halloween è la festa del demonio e invece dovremmo festeggiare i santi. Ma non è sicuro che la sua audience lo capisca, e quindi noi dobbiamo dare a tutti gli strumenti per capire la futilità di argomentazioni come quelle presentate ieri sera su Rete Quattro.

E come si fa questa cosa? Spiegando e informando, ovviamente. Dicendo al lettore che il rap italiano non ha un problema di droga, che mostrare il tuo corpo nel video di una canzone non ti rende una sgualdrina, che i tatuaggi in faccia sono espressione estetica e non trasgressione pura. Ma soprattutto che i "ragazzini" sono persone che sanno distinguere tra arte e realtà: un tempo lo spauracchio era Adriano Celentano, poi è stato il rock, poi è stato il metal, poi sono stati "i rave", il reggaeton e il rap. Ma la musica non si è mai fermata, perché è sinonimo di libertà—parola che persone come Giordano piegano a loro piacere per gettare odio e sospetto nei confronti di qualcosa che non gli piace.

(Ah, e un modo per parlare bene di rap italiano in televisione c'è, eccome.)

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Guarda il video ufficiale di "Mattoni" di Night Skinny

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Mattoni di Night Skinny, uno dei capolavori del rap italiano del 2019, si chiude con una posse track epica. Nove rapper di fila, una strofa a testa: Noyz Narcos, Shiva, Speranza, Guè Pequeno, Achille Lauro, Geolier, Lazza, Ernia, Side Baby, Taxi B.

Per realizzare il video ufficiale di "Mattoni", la posse track, abbiamo chiesto ai fan di Skinny di inviarci su Whatsapp un video di loro che rappavano o interpretavano la loro strofa preferita. Per due settimane abbiamo avuto il telefono in fiamme e ci sono arrivati migliaia di video.

Abbiamo selezionato i migliori e li abbiamo girati a NO TEXT AZIENDA, che ha fatto questa cosa incredibile che potete guardare qua sopra. Il video ufficiale di "Mattoni" di Night Skinny, fatto da voi, con voi, per voi.

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