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Il concerto di Bad Bunny per Apple a Milano è già nella storia

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“BeNiTo AnToNiO MaRtInEz OcAsIo / directamente del espacio” è da poco diventato uno dei miei versi preferiti del Conejo Malo. È tratto da “Yo le llego”, seconda traccia dell’album in coppia con J Balvin Oasis, uscito lo scorso 28 giugno. Rimane impresso perché Bad Bunny pronuncia il suo nome con una voce falsata, come se si trattasse di un meme. Mi piace pensare che lo faccia per sfottere stampa e giornalisti che ne fanno uso smodato, su articoli, interviste o contenuti di vario tipo. Touché. È vero però che qualcosa tra umorismo, genio, talento e personalità di Benito, deve effettivamente arrivare dallo spazio. Martedì 9 luglio, in piazza Liberty a Milano, in occasione di Up Next Live, l’ha più che dimostrato.

Up Next Live è la serie di concerti esclusivi di Apple Music, che vede come protagonisti 7 artisti selezionati dal programma Apple Music Up Next. Assieme al Conejo Malo, anche Daniel Caesar, Khalid, Ashley McBryde, King Princess, Lewis Capaldi e Jessie Reyez, i quali nelle prossime settimane saliranno sui palchi di 7 diversi Apple Store, in 7 città diverse. Ad aver reso speciale questa prima tappa della serie di eventi, è stata la potentissima energia sprigionata tra Benito e il pubblico raccolto nell’anfiteatro di piazza Liberty; un’intimità difficilmente replicabile altrove, considerato che è solito presentarsi in arene o palazzetti.

“Toda mi gente feliz, que está contenta, que se pongan en pié, que se pongan en pié!”. Bad Bunny si protende verso il pubblico, seduto sulle gradinate dell’Apple Store di piazza Liberty, a Milano, invitando tutti ad alzarsi in piedi. La cornice è decisamente intima, per un artista del suo calibro. BB è nel mezzo di “Estamos bien”, il terapeutico inno alla resilienza che ha segnato l’estate 2018, e che ogni singolo presente, in quel momento, sta cantando con il cuore in mano. All’alzarci tutti in piedi, l’atmosfera si scalda ancora di più.

bad bunny apple up next piazza liberty milano
Fotografia di Jim Nedd

Bad Bunny è un artista tutt’altro che emergente: in soli 3 anni è riuscito a fare la storia della musica in spagnolo, rendendola sempre più una costante nell’industria del pop internazionale. Assieme a colleghi come Ozuna e J Balvin, è una delle colonne portanti del genere urbano, termine ombrello per indicare l’insieme di trap en español, reggaeton e altri derivati. Solo nel 2018 la musica urbana è stata la più vista su YouTube, e su 10 video più visualizzati dell’anno, 8 erano di artisti urbani. Se oggi trap en español e urbano sono globali, e attirano come miele alle api i mercati di USA ed Europa, è anche per merito dell’artista portoricano, che a soli 25 anni ha rivoluzionato un’intera industria musicale. Oasis, con J Balvin, ha solo confermato l’enormità del fenomeno di cui entrambi gli artisti sono punte di diamante.

Tutto ciò che riguarda Benito è unico nel suo genere, proprio perché trascende la nozione stessa di genere. Il suo primo album X100PRE, uscito la vigilia di Natale 2018, è una moltitudine di riferimenti culturali, stili musicali, e input contenutistici che pochi, se non nessun altro nella scena, aveva mai racchiuso in un solo disco. D’altra parte, anche la componente visiva della sua figura è complementare alla sua musica; nell’ultimo anno le apparizioni pubbliche, video o social di BB l’hanno visto ritratto in outfit sgargianti, manicure impeccabile, e dettagli pensati per non passare inosservati. Non è mistero che, anzi, siano stati cruciali per il successo astronomico di cui è protagonista.

bad bunny up next live milano apple
La fotografia compare per gentile concessione di Apple.

Le innumerevoli conversazioni su eteronormatività, identità, fluidità di genere presenti nei suoi video—ricordiamo “Caro”—così come la ridefinizione di mascolinità, le dichiarate prese di posizione contro violenza sulle donne e omofobia, o a favore della body positivity, lasciano intendere una certa sensibilità verso queste tematiche, che è senza dubbio rassicurante. Una boccata d’aria in un’industria che, come ogni altra industria, è ancora oppressiva su più fronti. Come più volte ha specificato lui stesso, però, Benito resta un artista la cui priorità resta fare musica di qualità, e intrattenere al meglio i suoi fan. E le esibizioni live sono tra le occasioni migliori in cui è in grado di dimostrarlo.

Ho visto Bad Bunny dal vivo la prima volta, due anni fa, ai tempi “Tu no metes cabra”, “Krippy Kush” e “Soy Peor”, quando ancora veniva bookato in discoteche. Oggi il suo nome è diventato così immenso, e i numeri dei suoi show così alti, che il ristretto scenario dell’Apple Store di Milano ha suggestionato tutti fin da subito, lui compreso. Alternando brani di X100PRE—“Ni bien ni mal”, “200 MPH”, “Caro”, “Solo de mi”, “La Romana”—il suo primo, emblematico album uscito la scorsa vigilia di Natale, a featuring come “I Like It”, “Mia” o “Te boté”, fino alla hit dell’estate 2019 “Callaita”, el Conejo ha dato prova della sua immensa crescita artistica, rispetto ai primi tour internazionali, sia come performer, che come cantante. In 40 minuti circa di concerto, la sua voce non ha ceduto neanche mezzo secondo, e la carica che scaturiva da ogni suo movimento era fin troppo contagiosa. “Donde estan mis latinos?” chiede al suo pubblico, che nel frattempo si è riversato su di lui, in adorazione. Rispondiamo con un boato, Benito apprezza. Ce ne ricorderemo per un po’ di questo concerto, e speriamo anche lui.

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I Tauro Boys hanno creato qualcosa di grosso—e ora?

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In un certo senso possiamo dire che in questi due anni e mezzo i Tauro Boys li abbiamo visti crescere. Si sono presentati con un mixtape, il TauroTape1, pieno di cose che non si erano mai sentite nel rap italiano: beat che andavano dal cloud al metal passando per le musiche dei videogiochi, un intero vocabolario di espressioni oscure e reticenze che prendevano il posto dei soliti cliché spacconi del rap, un accento romano che per la prima volta andava oltre i limiti geografici della Capitale.

L’eterogenità dei brani e dello stile personale di ognuno di Yang Pava, Maximilian e Prince ha attirato nel giro di poco tempo l’attenzione di un pubblico sempre più grande. Meno di un anno fa abbiamo vissuto l’uscita del secondo Tape come una consacrazione, per via del suo stile più coerente e delle sue produzioni sempre meno lo-fi e sempre più pop, e ci siamo illusi di poter finalmente avere delle certezze sui Tauro Boys. Poi però, mentre nell’aria c’era odore di un terzo capitolo del TauroTape, a sorpresa è arrivato il primo album dei Tauro Boys, che si chiama Alpha Centauri. Questo esordio ufficiale ha ancora una volta mischiato le carte in tavola e per capire meglio che direzione stessero prendendo abbiamo deciso di cercare delle risposte direttamente da loro.

L’elemento che emerge maggiormente parlando con Yang Pava, Prince e Maximilian—il segreto del loro successo, se vogliamo chiamarlo così—è che prima di essere tra i rapper più interessanti del momento sono tre amici che sono cresciuti insieme e durante il percorso hanno iniziato a fare musica. Se gli si chiede dei loro colleghi il discorso va a finire sul Virgilio, il liceo classico capitolino frequentato da altri nomi illustri della scena romana, come alcuni membri della Love Gang e della Dark Polo Gang. Se gli si chiede delle collaborazioni non si citano rapporti di lavoro, ma si arriva sempre a parlare di “fratelli” e di come si sono conosciuti da ragazzi.

Per questo motivo è stata una scelta naturale basare il concept di Alpha Centauri sulla natura una e trina dell’omonimo sistema stellare—da quello che sono riuscito a capire da Wikipedia si tratta di un sistema composto da tre stelle, che viene però comunemente considerato come una singola stella). In questa occasione, per la prima volta, i tre rapper si sono fusi in un’unica entità omogenea * e, tra citazioni dai loro lavori passati e la “novità” dei riff pop punk su gran parte delle strumentali, in realtà già anticipata da certe cose del secondo Tape, sembrano diventati più consapevoli della loro collocazione nell’universo musicale italiano e più preparati ad affrontarne i successivi cicli solari.

Anche in questo caso bisogna evitare di ragionare sul presente dei Tauro Boys come su qualcosa di fisso e immutabile, perché è evidente che un occhio è sempre puntato al futuro e nessun cambiamento è veramente mai escluso. Sia che si tratti delle sonorità, dell’assetto del gruppo, dei concerti o persino della lingua dei loro testi. Due anni fa i giovani tori erano tutti pieni di ricordi di esperienze all’estero ormai lontani, la cornice in cui si muovono non è più Campo de’ Fiori; ma come mi dirà Prince nelle prossime righe “i gusti cambiano e siamo cambiati noi”.

* Dato che era un casino sbobinare tutto in modo ordinato vogliamo rispettare questo concetto, abbiamo preferito lasciare le risposte al plurale senza specificare chi dei tre stesse parlando, salvo qualche eccezione.

tauro boys alpha centauri
La copertina di Alpha Centauri dei Tauro Boys, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Noisey: Alpha Centauri è il vostro primo vero disc. Avevate previsto di arrivare all’esordio su major già dopo due mixtape o avete colto al volo un’occasione? E vi chiedo anche se possiamo considerare chiuso il capitolo TauroTape o se lo porterete avanti in parallelo.
Tauro Boys: Ci sono arrivate varie offerte ai tempi, poi dipende da te se vuoi subito sposarti a una realtà più organizzata o se ci vuoi arrivare dopo. Comunque le opportunità arrivano. Noi abbiamo deciso di lavorare con Thaurus, che sembrava tra le realtà migliori con cui iniziare un percorso più definito. Poi allo stesso tempo ci hanno lasciato la massima libertà artistica, quindi non ci siamo sentiti vincolati: ci hanno dato dei mezzi più maturi e consapevoli per lavorare a un disco. Per quanto riguarda il discorso dei tape, non si può mai sapere. Sicuramente il TauroTape come concetto non è stato assolutamente abbandonato: possiamo dire che Alpha Centauri sia una cosa che ha spezzato la linea perché tutti si aspettavano il Tape3. Però diciamo che non è stato accantonato, è stato solo anticipato da Alpha Centauri.

In base alla vostra esperienza qual è la differenza tra fare un mixtape e fare un disco? E cosa ne pensate della situazione mixtape nel rap italiano?
Banalmente la differenza è che un tape è un concetto molto più libero, che ti serve per sperimentare: se vuoi prendere una base di Travis Scott e ci vuoi fare un pezzo sopra, lo fai. Il disco invece è un po’ più personale. Devi avere un concetto, un’idea, qualcosa di tuo. È questa la differenza tra i tape e Alpha Centauri. Nei mixtape ci sono anche tracce sconnesse l’una dall’altra, invece nel disco c'è una linearità. L’ultimo a fare mixtape veramente fighi in Italia e che ci ascoltavamo noi è Gué Pequeno coi suoi Fastlife; altrimenti la Dark Polo Gang, quando faceva gli album a coppie erano considerati mixtape, anche se poi i beat erano inediti. Gemitaiz e Madman sono gli unici ad aver fatto i mixtape in stile americano… ne hanno fatti otto, porcoggiuda! I più bravi a fare quello possiamo dire che sono loro. Per noi il tape voleva dire avere uno spazio, una raccolta di brani in cui sperimentavamo.

A proposito di “linearità” su disco, con Alpha Centauri avete virato su una nuova wave vicina al punk rock anni 2000…
Già avevamo iniziato con il TauroTape 2, diciamo che più che altro c’è stato un cambio di assetto interno. Ci siamo presentati in una maniera più omogenea e strutturata, cosa che prima magari veniva un po’ meno. Già aver fatto tutte le tracce di questo disco in tre è stato un messaggio: è proprio il concetto di Alpha Centauri, uno e trino, questa galassia composta da tre stelle ma che risulta come una stella sola, quindi abbiamo provato ancora di più a fonderci. Poi c’è la possibilità che nel prossimo progetto, qualunque esso sia, ci sarà più attenzione alla singola stella del sistema.

tauro boys alpha centauri

I riferimenti che vengono fuori banalmente sono sempre blink-182 e Sum 41. Voi che gruppi ascoltavate di quella scena?
In realtà ci ascoltavamo più un altro tipo di rock, ad esempio i Red Hot Chili Peppers, gli AC/DC o i Muse. Il pop punk non l’abbiamo mai ascoltato troppo, non volevamo riprendere quell’immaginario; più che altro ne riprendiamo il background, dato che siamo sempre figli di quella generazione. Quando passavano certi gruppi in radio li ascoltavamo anche per riflesso, il nostro lavoro è prendere tutta quella roba che ci ha influenzati da quando eravamo piccoli e farla un po’ più nostra, senza stare troppo a pensare a chi prendere come riferimento. Andiamo in studio e molto spesso partendo dal beat viene fuori una cosa e arriviamo a dire “ah cazzo, sembriamo i Sum 41”. Se riprendi quelle sonorità tocchi le corde di tante persone anche inconsciamente: sentono una canzone dei Tauro Boys e gli richiama qualcosa del loro passato.

Parliamo di Roma. L'impressione da fuori è che la scena locale funzioni come una sorta di ciclo, chi raggiunge l’apice tende la mano a un artista emergente e così via: penso a come Side Baby sia diventato un po’ il padrino del rap romano o alla vostra vicinanza alla Love Gang.
È vero che un po’ funziona così, ma nel nostro caso gli artisti che hai citato, la Love Gang e Side, li conoscevamo e c’è un rapporto diverso. Ora come ora di nostri amici o persone più piccole di noi che ci stanno vicino e fanno rap non ne abbiamo, quindi non ci viene da ragionare in quel modo. Con Ketama e Side è un discorso a parte, siamo tutti cresciuti negli stessi licei, nelle stesse zone e siamo amici da dieci anni: noi eravamo tra i primi ad andare ai loro concerti quattro anni fa quando erano meno conosciuti, quindi è nato un rapporto di fratellanza, supporto e rispetto. La scena romana che citi tu è nata molto casualmente, si è creato un gruppo di gente che veniva più o meno tutta dal Virgilio, da Trastevere, quindi lo spingersi a vicenda è stato abbastanza automatico. Ora come ora però ci deve ancora essere qualcuno dopo i Tauro Boys: se arriverà un nostro amico che non si è ancora imposto ma sta facendo musica e stava al liceo con noi lo spingeremo volentieri.

Cosa ha significato per voi lasciare Roma per trasferirvi a Milano? Cosa vi manca di più di Roma?
Ci mancano gli amici. Gli amici e le abitudini. Comunque Milano è diventata la nostra base lavorativa, quindi per tutto ciò che non è lavoro preferiamo ancora Roma.
Yang Pava: Io sono ancora romano! Sto facendo ancora su e giù, ma di base sto a Roma. Ho mantenuto questa formula perché alla fine i Tauro Boys sono sempre stati divisi: prima due in Olanda e uno a Roma, adesso due a Milano e uno a Roma, quindi manteniamo sempre il doppio contatto mantenendo vari satelliti in giro.

tauro boys alpha centauri side baby

Visto che avete citato anche la dimensione internazionale, Maximilian, una particolarità del vostro primo Tape erano le tue strofe in tedesco che però hai abbandonato già dal Tape 2: qual è il motivo di questa scelta? Pensi che in futuro ci possano essere delle collaborazioni tra i Tauro Boys e qualche artista straniero?
Maximilian: Mi auguro vivamente di sì, anche perché abbiamo tutte le carte in regola per poter approcciare artisti internazionali. In realtà sul tedesco ti dirò che non l’ho mai veramente parlato: lo capisco e lo so pronunciare perché sono nato in Germania e ho molti parenti che stanno ancora là. Però mi piace molto il rap tedesco quindi ai tempi del Tape 1, in cui appunto ci sentivamo di voler sperimentare di più, mi volevo togliere questo sfizio di poter fare una canzone o delle barre in tedesco. Poi, come dicevamo prima, non abbiamo mai detto che la fase Tape sia finita quindi non è detto che i Tauro Boys abbiano smesso di parlare altre lingue. Che ne sai che domani non facciamo un disco in tedesco o in polacco?

Yang Pava, la prima volta che vi ho ascoltati mi hanno subito colpito i vostri testi e in particolare l’originalità delle tue strofe per le espressioni utilizzate e per la loro enigmaticità. Come nasce un testo dei Tauro Boys? Tutto ha un senso o c’è una certa dose di nonsense e dobbiamo smettere di cercare risposte?
Yang Pava: Ti dico subito che tutto ha un senso, quindi purtroppo dovrete continuare a rompervi la testa finché non trovate il significato. Ovviamente io posso dare indizi, molto spesso dico mezze frasi che però si concludono sempre in un mio ragionamento. Di nonsense ogni tanto ce n’è, ma molto poco, la maggior parte delle cose incomprensibili sono più metaforiche; questo lo dico per quanto riguarda i pezzi miei, ma in generale un po’ tutto il nostro stile è metà veritiero e metà veritiero in senso metaforico. C’è sempre un mezzo significato, il nonsense a tutti noi non ci fa impazzire, però magari può apparire quando dico qualcosa di molto personale che possono capire solo Prince e Max, che sono i miei fratelli. Poi il pubblico dice "Ok, ma di chi stai a parlà Pava?”. Ad esempio quando in "Hold Up" dico “sto con nonna Mary, Isola Tiberina” sto parlando letteralmente di mia nonna.

Prince, confrontandomi su Alpha Centauri con amici che vi ascoltano abbiamo notato tutti un’evoluzione sia vocale che di personalità per quanto riguarda le tue parti. Hai notato anche tu qualche cambiamento? E da cosa è motivato?
Prince: Mi fa piacere perché invece molti contestano un’involuzione, cioè da quest’anno tra i messaggi che mi arrivano non ci sono solo complimenti, anche se nulla di allarmante. Dipende sempre se uno è fan della roba che è uscita con questo disco o se è fan dei Tauro della prima ora. Però credo ci sia stata un’evoluzione di tutti quanti, io ho cambiato un po’ stile perché i gusti cambiano e siamo cambiati noi.

tauro boys alpha centauri

Sarete sicuramente al corrente dell’esistenza di comunità online di vostri fan come “Tauroposting” su Facebook. Ci siete mai entrati? Cosa ne pensate?
Ogni tanto ci mandano dei meme che escono da lì, però nessuno di noi tre ci sta dentro anche se lo conosciamo. Pure su Instagram abbiamo delle pagine meme, sono carine. Ci piace avere un contatto diretto con i fan: dopo i live siamo i primi a scendere dal palco per chiacchierare, abbracciarci e farci le foto. Diciamo che nell’internet non c’è quel tipo di contatto che cerchiamo coi fan, anche perché c’è un po’ uno spacco tra chi era solo fan del Tape 1 e chi ha continuato a supportarci, dal vivo invece sono tutti supporter. Però ci fa piacere che si sia creato qualcosa anche online, se si parla di noi vuol dire che abbiamo creato qualcosa di grosso.

Su Alpha Centauri il vostro producer di fiducia Close Listen è stato affiancato da altri produttori. Quanto considerate Close un punto fermo dei Tauro Boys nonostante non sia un membro ufficiale?
Il rapporto con Close è sempre stato un rapporto soprattutto di amicizia, ci siamo beccati con Michele agli albori del Tape1, ci siamo conosciuti perché lui aveva uno studio e da lì è iniziata un’amicizia e una collaborazione molto stretta. In Alpha Centauri c’è Nick Name, che è il cugino di Pava. Poi abbiamo avuto Zollo di nuovo e Peppe Amore, ma gli altri sono Kenzo che c’era anche nel Tape1 e Prince, questo ragazzo molto bravo. Tornando al discorso mixtape e disco, c’è stata anche un’apertura, un’uscita dalla zona di comfort: noi abbiamo fatto i due tape sempre con Close come unico principale produttore e Tutti Fenomeni come unico feat. Poi abbiamo un po’ sperimentato chiamando altre realtà che abbiamo conosciuto in questi anni a Milano o in generale facendo musica e che non sono legate sempre e solo al mondo dei TauroTape.

Con il vostro esordio su major ci sarà anche un’evoluzione dei live dei Tauro Boys? Com’è stato per voi adattare la vostra musica al palco?
Per ora i live sono la parte su cui dobbiamo allenarci di più, anche se ormai con questo anno di rodaggio con più di 20 date abbiamo messo un po’ a posto lo schema. Sicuramente è la parte più bella, dove possiamo dare energia al pubblico e il pubblico può dare più energia a noi. Dal tour del Tape 2 ci sappiamo abbastanza fare sul palco, siamo più disinvolti rispetto alle prime date; ma non abbiamo avuto il tempo materiale di stacco per lavorare ai live e dargli un taglio unico, cosa che secondo noi arriverà. Abbiamo bisogno un attimo di respirare, ché tra il TauroTape 2, il Tape Tour, Alpha Centauri e Alpha Centauri Tour non abbiamo avuto un momento di stacco. Ce lo prenderemo e poi spaccheremo i culi pure là.

Tommaso è su Instagram.

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I migliori mixtape del rap italiano

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Tre giorni fa mi è arrivato un comunicato stampa che recita così: “MACHETE batte un record dopo l'altro! MACHETE MIXTAPE 4 è l'album più venduto della settimana in Italia e conquista il primato italiano di streaming in una settimana su Spotify!” Un risultato clamoroso per un prodotto clamoroso, ma anche parole strane da leggere. Perché—signora mia—c’erano tempi in cui la parola “mixtape” e le parole “venduto” e “primato” manco stavano nella stessa stanza. Il punto è: che cos’è un mixtape?

La risposta non c’è, perché le parole con il tempo cambiano significato. Un tempo era letteralmente una musicassetta, un tape, con dentro un mix di pezzi curati da un selezionatore. Poi gli artisti hanno cominciato a chiamare così quelle cose fatte un po’ per gioco in cui prendevano beat di altri e ci rappavano sopra, magari un po’ tutti assieme, regalandole ai fan. Quando è arrivato internet le hanno messe in free download. Quando sono arrivati Myspace e YouTube ce le hanno caricate sopra. Oggi che ci sono le piattaforme di streaming non ci sono più—perché la musica la ascolti lì, non la scarichi, e lì se sei famoso e usi un campione non tuo ti tirano giù il brano prima che tu possa dire “skrr”.

Salmo, Slait, Hell Raton, Low Kidd e tutti i rapper e producer che hanno partecipato al MACHETE MIXTAPE 4 hanno indubbiamente fatto un mixtape. Hanno apparecchiato la tavola e, come si fa in Scandinavia, l’hanno riempita di tramezzini e panini e polpette e marmellate creando uno smörgåsbord su cui ogni minimo appassionato di rap italiano poteva ragionevolmente gettarsi famelico. Ma lo hanno fatto con le modalità dell’era in cui viviamo: con la qualità e l’approccio di un album, come hanno detto loro stessi, e mettendolo in streaming.

Abbiamo colto l’occasione per fare un listone dei mixtape più importanti della storia del rap italiano. Non è onnicomprensiva, un po’ perché non ha senso scegliere qual è il migliore e un po’ perché alcuni sono letteralmente scomparsi. I siti da cui si scaricavano, le piattaforme su cui erano stati caricati, in alcuni casi non esistono più—e chissà se YouTube continuerà a ospitarli per sempre. (EA)

I testi sono stati realizzati da Elia Alovisi, Vincenzo Marino, Niccolò Murgia, Federico Sardo, Simone Zagari.

DJ Double S – Lo Capisci L'italiano!!? (1997)

dj double s lo capisci italiano
Una fotografia di Lo Capisci L'Italiano!!? di DJ Double S, su YouTube ci sono un po' di cose ma intero su internet non si trova

Il mixtape nel senso più profondo del termine: una musicassetta, un selezionatore, brani clamorosi da tutta Italia: “Nella luce delle sei” dei Sangue Misto, “Solo Hardcore” dei Colle Der Fomento, “E uno, due, tre, quattro” de La Famiglia, “Anothasounwantess” degli OTR. Una reliquia che richiama un periodo puro, di affermazione, quando questa cosa qua del rap era pura cultura sotterranea.

Robba Coatta – La Banda Der Trucido (1997)

la banda der trucido
Clicca sulla sfocatissima copertina de La Banda Der Trucido per ascoltarlo su YouTube

Nel 1997 il rap underground a Roma era fortissimo, e ruotava intorno al Rome Zoo, quando ancora si trattava di una crew unica che metteva insieme il giro Robba Coatta e quello dei Colle der Fomento. Probabilmente il momento di maggiore fulgore di quella scena è testimoniato su questo mixtape veramente storico.

Teste Mobili – Dinamite Mixtape (2001)

teste mobili dinamite mixtape
Clicca sulla copertina di Dinamite Mixtape per ascoltarlo su YouTube

C’è un senso di dolore, panico e tensione che attraversa tutti e 23 i brani di questo storico mixtape. Le strofe di Shezan Il Ragio sono deliri febbricitanti, Fibra e Nesly Rice sono due facce complementari ma ugualmente bloccate in una smorfia malata, i beat sono pura muffa di suono.

Mondo Marcio – Fuori Di Qua (2004)

mondo marcio fuori di qua
Clicca sulla copertina per ascoltare Fuori Di Qua per ascoltarlo su YouTube

Ogni volta che si parla di Mondo Marcio sembra sempre siano necessarie una premessa e un affresco del contesto storico. E invece mi limiterò a dire che la frase “Uomo, sono pronto al grande salto: il mio mondo non è questo, il mio è un altro” è esattamente il giro di prova prima della MTV Generation del nostro rap di metà duemila—di cui questo EP è un po’ una sintesi per basi, feat e tutto. Scusate per l’affresco storico.

Porzione Massiccia Crew & Club Dogo – PMC VS Club Dogo The Official Mixtape (2004)

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L'ormai storica collaborazione del 2004 tra la Porzione Massiccia Crew (PMC) di Bologna e la Dogo Gang di Milano è stata un All Star Game. Jake, Guè, Inoki, Marra, Rischio, Vincenzo da via Anfossi, Gianni KG e altri, tutti al massimo splendore, rivisitano le vecchie basi di Don Joe e Shablo, oltre ai prestiti da icone quali J Dilla, Premiere e Obie Trice. Non è un semplice tape, è un culto.

Marracash – Roccia Music (2005)

roccia music vol 1
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Roccia Music resta tuttora un lavoro enorme, probabilmente l’apice della Dogo Gang in quanto tale, e di conseguenza fra gli apici del rap italiano. C’è dentro uno dei pezzi più belli di Jake La Furia (“Serpi”), alcune delle cose più belle di Marra, e anche una loro collaborazione indimenticabile (“Le voglio piene”, nientemeno che su base di Tiziano Ferro).

Brokenspeakers – The Secret Mixtape (2007)

brokenspeakers-secret-mixtape
Clicca sulla copertina per ascoltare The Secret Mixtape su YouTube

Uno spaccato che spacca del suono di Roma prima che tutto esplodesse davvero. I Brokenspeakers accolgono tra le loro tracce giganti come Noyz Narcos e il Chicoria, leggende underground come Er Costa e Matt Er Negretto—e fanno rappare Coez, che in “Continuo Così” pare di nuovo quello degli inizi.

Crookers – Crookers Mixtape (2007)

crookers mixtape
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A posteriori, è stato uno dei dischi più influenti e più avanti usciti in Italia nell’ultimo decennio (anzi, ormai di più). L’inizio della blog house, della fidget, di un sacco di contaminazioni che, in ambito Crookers, partivano decisamente dal rap. Liberissimo, divertente e divertito, freschissimo.

Xtreme Team – Affare Romano (2007)

Xtreme Team Affare Romano
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Canesecco, Gemitaiz, D-Skills: un accrocchio di menti che creò, per qualche anno, una serie di progetti che hanno lasciato il segno nell’underground romano. In questo primo “street album” erano acerbi, ma era il loro bello. E c’è sopra quella pazzia di “Nun Di De No”, e se non vi viene da sorridere a sentire quelle voci rappare su “Let’s Go” di Trick Daddy—a sua volta nata da “Crazy Train” di Ozzy Osbourne—non avete un cuore.

Noyz Narcos & DJ Gengis Khan – The Best Out Mixtape (2008)

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Clucca sulla copertina di The Best Out per ascoltarlo su YouTube

Sangue e merda, rime e sudore. Noyz Narcos al suo apice, con una lista di featuring che fa paura—Fabri Fibra, Inoki, tutto il cucuzzaro romano con Chicoria, Duke Montana, Cole, Gast, Er Costa, Il Turco... e un feat con Miss Violetta Beauregarde, "Merda Cousins", personaggio che rappresenta una piccola grande storia controversa dell'underground italiano.

Emis Killa – Keta Music (2009)

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Clicca sulla copertina di Keta Music per ascoltarlo su YouTube

Questo è probabilmente il lavoro che serve ascoltare per capire perché Emis Killa è uno dei rapper più importanti d’Italia. Piaccia o meno quello che ha fatto dopo, il suo talento tecnico è indiscutibile, e in questo lavoro—pubblicato da appena ventenne—viene fuori in tutta la sua forza. Un pezzo su tutti? “Era meglio ieri”.

Gemitaiz - Quello Che Vi Consiglio (2009)

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Clicca sulla copertina di Quello Che Vi Consiglio per ascoltarlo su YouTube

L'inizio di una saga epica, i primi mattoni di una delle carriere monumentali del rap italiano, una presa di posizione: "Le basi americane spaccano il culo! / Io sopra ci spacco il culo! / E sicuramente viene più bello de cento dischi tua". E anche, già che ci siamo, "Se, bestemmio sui pezzi, 'sti cazzi tanto stanno su MySpace / Nun me 'nculo nessuno".

Luche – Poesia Cruda Mixtape Vol. 1 (2010)

Poesia Cruda Mixtape Vol. 1
Clicca sulla copertina di Poesia Cruda Mixtape Vol. 1 per ascoltarlo su YouTube

Già (quasi) dieci anni fa, come dice Luché nel suo nuovo disco interpolando la hit di Poesia Cruda Mixtape Vol. 1, “So Frisc (Gucci Prada e Fendi)” con Coco, ai tempi Corrado. Per tematiche e tono, il cambio di passo per il rap napoletano.

DJ Nais – Sono Cazzi Miei (2011)

dj nais sono cazzi miei
Clicca sulla copertina di Sono Cazzi Miei per ascoltarlo su Rockit

Semplicemente un gioiello dimenticato. Legato a Mondo Marcio, Big Fish e Fabri Fibra, DJ Nais nel 2011 pubblica questa raccolta di brani in cui rapper italiani scrivono su grandi beat del rap italiano—il tutto tenuto assieme da Fibra, host del progetto e voce più presente. Ed è così che possiamo sentire Fibra che rappa su "Festa Festa" dei Crookers, Dargen D'Amico su "Suona Ancora" di Neffa, Ghemon su "Puro Bogotà" dei Dogo. Un lavoro unico e irripetibile.

Gemitaiz & Madman – Haterproof (2011)

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Clicca sulla copertina di Haterproof per ascoltarlo su YouTube

Gli incastri come arte, le rime come felicità, la nascita di una delle amicizie e collaborazioni più importanti della storia del rap italiano. Ma d’altro canto si poteva già capire dal fatto che solo nella prima traccia c’erano robe tipo energumeno-aculeo-noumeno e Gem che accoglie l’ascoltatore nel “nostro multidegrado / Tra tumulti, urti, bombe e vari furti allo Stato”.

Mecna – Bagagli a Mano (2011)

mecna bagagli a mano
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Tutto il valore di Mecna in poche tracce: umile arroganza, intimità e cieli stellati, parole così semplici e genuine che fa bene ascoltarle ("Le Cose Buone"), scelte di beat fuori dai giochi per la media nazionale (Flying Lotus in "Tuta Spaziale"). E soprattutto "Avril 14th" di Aphex Twin come base di quel capolavoro del rap italiano tutto che è "31/7", suo più grande classico e punto d'inizio della "trilogia dell'estate".

Roccia Music – Genesi (2011)

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Clicca sulla copertina di Genesi per ascoltarlo su Spotify

La nascita di un progetto ambizioso e le prime avvisaglie dell'esplosione di Lauro, The Night Skinny e CoCo, l’inizio del nuovo Luche, il tutto sotto l’egida di Shablo e Marracash. Il progetto è scomparso, ma le sonorità cupe che lo hanno caratterizzato hanno plasmato il futuro della scena.

Achille Lauro – Barabba Mixtape (2012)

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Clicca sulla copertina per scaricare Barabba Mixtape

Fa strano dirlo adesso, dopo la samba trap, Pechino Express, Sanremo e il successo rock di "Rolls Royce", ma Barabba di Achille Lauro è stato l'esordio più d’impatto nel rap degli anni Dieci. Epico nella musica e diretto nelle rime, Lauro racconta storie di disagio sincero, ancora oggi validissime.

Caneda – Nato Nell'Acqua Mixtape (2012)

caneda nato acqua
Clicca sulla copertina per ascoltare Nato Nell'Acqua su YouTube

Un notturno del rap italiano. Per le strade fumose di Milano, Caneda procedeva con passo di pachiderma e si mangiava la concorrenza con una voce roca e una scrittura allucinata—il congiuntivo sbagliato di “Dio non è al momento raggiungibile”, la notte nel panino di “Eroi”, l’enumerazione di zarri di “Craxi Era”.

Gué Pequeno – Fastlife Mixtape Vol. 3 (2012)

fastlife mixtape vol 3
Clicca sulla copertina per ascoltare il Fastlife Mixtape Vol. 3 su YouTube

Il Guercio all’apice della sua essenza: grosso, enorme, scorretto, visionario. Su “Man Down” di Rihanna, su zarrate di Jason DeRulo, su uno scurissimo Tyga. Con Jake, Salmo, Ghali ed Ernia ancora nei Troupe d’Elite, Emis Killa, Gemitaiz. Ritornelli memorabili (“Amore o Soldi”, “Forza Campione”) e una serie di punchline semplicemente epocali (“Prima dei dogo il rap italiano faceva schifo”).

Ultimi AED – UA Mixtape (2012)

ultimi aed UA Mixtape
Puoi anche cliccare sulla copertina di UA Mixtape ma non succederà niente, perché completo non si trova da nessuna parte su internet

Ci sarà un motivo se Tedua, Izi e mezza scena ligure parlano degli Ultimi AED come di un gruppo a cui devono tutto. Nelle rime di Moreno e Nader, insieme a Axel Spleen, Dala e si sente sia la controversa deriva pop dei primi anni Dieci del rap italiano sia l’eco lontano dell’arrivo della nuova scuola.

Ghemon – Aspetta Un Minuto Mixtape (2013)

ghemon aspetta un minuto
Clicca sulla copertina per ascoltare Aspetta Un Minuto Mixtape su YouTube

L’ultima volta che Ghemon ha fatto il rap. Poi è uscito dalla crisalide di beat e flow ed è diventato farfalla con orchIDEE, ma fino a qua si fingeva sborone col sorriso, usava beat di Knxwledge per correrci sopra come il Cobra Tovalieri. E poi c’è quel capolavoro segreto che è “Scusa”.

MadMan – MM Vol. 1

madman mm vol 1
Clicca sulla copertina per ascoltare MM Vol 1 su YouTube

MadMan comincia MM Vol. 1 scusandosi con i suoi fan per averci messo così tanto a farlo: è un piccolo momento di umiltà prima dello scoppiare dell'ego, della tecnica, dell'orgoglio—da "Freaks" in poi MadMan ha cominciato un'operazione di demolizione lirica dei suoi avversari che non si è più fermata.

Unlimited Struggle & Blue Nox – Blue Struggle Mixtape (2013)

blue struggle mixtape
Puoi cliccare sulla copertina del Blue Struggle Mixtape ma non succederà niente perché su internet non c'è più, però puoi guardare i pezzi che ci sono dentro e ascoltarli a uno a uno.

Blue Struggle non è una release di pezzi originali, bensì una sorta di “Best Of” congiunto (mixato da DJ Tsura) di Unlimited Struggle e Blue Nox, due crew affini per mood e qualità, unite da un denominatore comune: Ghemon. Insieme a lui troviamo Mecna, Johnny Marsiglia, Hyst, Egreen, Stokka & Madbuddy, Kiave, Mistaman e Nex Cassel. Una dichiarazione d’intenti, un manifesto del rap di cuore.

Lazza – K1 Mixtape (2014)

lazza k1 mixtape
Clicca sulla copertina per ascoltare K1 Mixtape su YouTube

Se oggi Lazza è uno dei re delle punchline dello stivale è perché ha messo in chiaro fin da subito, con questa pietra miliare di Blocco Recordz, che cos’era il suo rap: skill, orgoglio e una leggerissima voglia di mettere “nomi di rapper non validi / Sopra la lapide di questa merda di rap italiano”.

Machete Crew – Machete Mixtape 3 (2014)

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Clicca sulla copertina del Machete Mixtape 3 per ascoltarlo su Spotify

Una versione più affilata, chirurgica, incazzata e completa dei primi due capitoli. Uno statement che trova la sua realizzazione più completa in "Battle Royale", un vero e proprio classico del rap italiano tutto.

IZI – Julian Ross Mixtape (2015)

izi julian ross
Clicca sulla copertina per ascoltare Julian Ross Mixtape su Spotify

Il gioiello della corona dei mixtape di IZI, l’ultimo prima di quella telefonata che lo rese prima attore e poi stella. Già connesso con Sfera Ebbasta e supportato dai suoi compagni liguri—Sangue, Nader Shah, Disme, Kemaho—Diego metteva sul banco un enorme dono per la melodia (“La Mia Banda”) e la volontà di mostrarsi fin dal primo attacco: “Sto a mio agio se collasso in ospedale in corridoio / Muoio fatto, non c'è spazio per i cani in obitorio”.

Ketama126 & Pretty Solero (Tama & Sean) – Dieci Pezzi (2015)

ketama pretty solero dieci pezzi

L’origine dell’immaginario della Love Gang 126 sta qua, tra Peroni da 66 alzate al cielo come trofei e polmoni neri di fumo. Come oggi, Dieci Pezzi è un lavoro con due anime: la trap catramosa e Ketama che rappa roba tipo “vengo a sgozzarti puttana”, la malinconia delle chitarre acustiche di “Un gradino”.

Sfera Ebbasta & Charlie Charles – XDVR (2015)

xdvr
Clicca sulla copertina di XDVR (Reloaded, perché quella vecchia non la troviamo più) per ascoltarlo su Spotify

Probabilmente la singola uscita più importante nel rap italiano degli ultimi anni, nonché il disco di Sfera che possono digerire anche i puristi. Piccolo brag: è uscito proprio su Noisey.

Dark Polo Gang – Crack Musica (2016)

dark polo gang crack musica
Clicca sulla copertina per ascoltare Crack Musica su YouTube

L’esplosione del fenomeno più forte del rap italiano degli ultimi anni, i più discussi, i più chiacchierati. Parte tutto da qui, tuttora secondo molti il loro lavoro migliore. “CC”, “Swisher”, “Cavallini”, “Mafia”… Tutte le prime hit della gang che hanno dato inizio al mito sono qui.

Tedua – Orange County Mixtape (2016)

Orange County Mixtape
Clicca sulla copertina di Orange County Mixtape per ascoltarlo su YouTube

Se Aspettando OC era un’avvisaglia, Orange County è la conferma: Tedua è un fuoriclasse. Gli ospiti del tape non si contano sulle dita di due mani (Charlie Charles, Sick Luke, Rkomi, Sfera, Ghali, Izi e tutta Wild Bandana) e i singoli bomba nemmeno (su tutti “Lingerie”, “Wasabi Freestyle”, “Buste della spesa” e “Lezione”). Flow matto, proprietà di linguaggio enorme, talento cristallino.

Tauro Boys – TauroTape1 (2017)

taurotape1
Clicca sulla copertina del TauroTape 1 per ascoltarlo su Spotify

Il primo progetto dei Tauro Boys danza tra salti in alto linguistici e scelte musicali coraggiose in soli 8 pezzi e 19 minuti. Ha creato una nicchia e rafforzato la scena rap romana dal basso nel momento in cui DPG e 126 stavano esplodendo. Edgy quando vuole esserlo, ha lanciato tre dei migliori liricisti della nuova scuola.

Machete Crew – Machete Mixtape 4 (2019)

machete mixtape 4
Clicca sulla copertina per ascoltare il Machete Mixtape 4 su Spotify

Semplicemente un nuovo modello di mixtape, perché è prodotto come un album. Ci sono comunque gli skit epici—Massimo Pericolo che caga a casa di Marracash è subito storia—i freestyle registrati col telefono, le pillole che ti lasciano voglia di prenderne ancora e ancora, la velocità di registrazione ed esecuzione. Ma la qualità, il formato, la piattaforma e i risultati di un’uscita da major.

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Bassi Maestro ci ha portati in giro per NoLo, il quartiere più controverso di Milano

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Il 17 gennaio 2015 sono tornato a Milano dopo anni che non ci venivo perché ero incuriosito da un concerto. La città non la conoscevo per niente, c’ero stato tipo una volta in gita scolastica alle elementari, altre due volte da adolescente a bighellonare per il centro e un paio di volte a suonare: non sapevo distinguere il nord dal sud e non sarei stato capace di trovare i Navigli neanche con un bastone da rabdomante. Il concerto era in una palazzina occupata, i gruppi che suonavano erano fichissimi e l’atmosfera era incredibile: si aveva l’impressione di essere in una zona veramente anarchica, con gente di ogni provenienza e ogni identità libera di prendere spazio, fuori dalla stanzetta del centro sociale, attraverso la strada e dentro il parchetto di fronte (oggi tristemente delimitato da una recinzione).

Quando, sei mesi dopo, ho iniziato a lavorare per VICE e a venire a Milano tutte le settimane, la mia prima preoccupazione è stata di ritrovare quel posto. Così ho scoperto che si trovava lungo viale Monza, nella parte Nord-Est di Milano, in una zona in cui tanto per cominciare sembravano abitare tutte le persone interessanti che conoscevo e si tenevano concerti e attività varie sempre con il mio metodo preferito dell’informalità e dell’autogestione—ma su cui allo stesso tempo giravano storielle dell’orrore di criminalità e violenza.

bassi maestro intervista north of loreto nolo milano giuseppe romano
Viale Monza

Poco tempo dopo una mia amica mi raccontò che lei e altre due o tre persone avevano creato la pagina Facebook Yolo in NoLo perché volevano qualcosa per tenere aggiornati gli amici sulle attività del quartiere per il quale avevano inventato questo buffo nome, ironicamente ispirato a SoHo. Solo che NoLo gli è sfuggito di mano. Il seguito della pagina crebbe esponenzialmente e velocissimamente. Poche settimane dopo il post che, in modo innocente, celebrava “già 108 like!”, NoLo era su Google Maps e su Internet ne parlavano tutti.

bassi maestro intervista north of loreto nolo milano giuseppe romano
Piazza Morbegno

Da quel momento North Of Loreto è diventato una certezza della Milano post-Expo, un quartiere visto come esempio di una riqualificazione virtuosa in cui la città hipster incontra quella reale, dove su via Termopili, che il martedì puzza di pesce, puoi farti uno spritz nel bar storico con i vecchietti del quartiere o una birra artigianale nella nuova taproom, oppure puoi prendere una Moretti al bangla e portartela nella galleria d’arte dove c’è una mostra di fanzine fotocopiate.

Tra i sociologi c’è già chi individua i segni della gentrificazione. È facile immaginare che cosa succederà a un’area di Milano così richiesta e così di moda: mentre gran parte della sua popolazione si gode i suoi aspetti più vitali e ruvidi, sporcandosi le mani nei suoi luoghi e vivendo in maniera attiva l’aggregazione e la creatività che ci si respira, sempre più persone vogliono consumare NoLo, colorarsi dei toni caldi della sua luce riflessa, comprarsi l’illusione della vita creativa senza creare un bel niente.

bassi maestro north of loreto nolo
Bassi Maestro e l'autore al mercato di via Zuretti

Chi invece qua ci vive e ci crea è Davide Bassi, conosciuto ai più come Bassi Maestro, che insieme a pochi altri eletti ha dato il via alla lunga e travagliata stagione dell’hip-hop italiano, trascinandolo attraverso la sua esistenza underground e accompagnandolo fino all’emersione nella cultura popolare del nostro paese. In trent’anni di carriera, il DJ, producer e rapper ha fatto tutto: dischi epocali, collaborazioni con i migliori della scena, programmi di culto in radio e su internet, ha addirittura partecipato al Festival di Sanremo. Era giunto il momento di una svolta.

north of loreto album cover
La copertina di North Of Loreto, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

A maggio 2019 è uscito il suo ultimo progetto, una cosa completamente nuova che a partire dal nome si lascia alle spalle la storia di Bassi Maestro e prende una strada nuova: North Of Loreto. Se a un primo impatto può sembrare una virata netta dal suono-Bassi, anche semplicemente per la totale assenza di rap sulle basi, in realtà si tratta di un ritorno alle origini: funk, Detroit-sound, boogie—in pratica il suono anni Ottanta che, campionato, scratchato e rimiscelato, ha fatto da fondamenta per la musica hip-hop per come la conosciamo.

bassi maestro intervista nolo north of loreto giuseppe romano
Bassi Maestro in via Lesa

Ho incontrato Bassi sulle strade di NoLo dietro la promessa di una gita turistica nella sua zona accompagnata da un DJ set itinerante, fatto con un piccolo giradischi portatile giocattolo. Siamo partiti dai muri pieni di graffiti dietro il mercato di via Zuretti: “Supa MC della Cricca dei Balordi viveva proprio qua, alla fine di via Venini, già negli anni Novanta. Ci beccavamo tutti a casa sua, andavamo nella pizzeria sotto casa, al bar Tender che ai tempi si chiamava Los Hermanos… insomma, nel corso di vent’anni abbiamo davvero visto la zona cambiare”. Il suo studio Press Rewind è lì dal 2008, quando nessuno pensava a nomi esotici e hip.

Ai tempi era un quartiere molto crudo, mi racconta Bassi. In piazza Morbegno di sera gli spacciatori bloccavano la strada, e d’estate non c’era nessuno in giro. “Il vero cambiamento non è arrivato con le aiuole rifatte o la rotonda, ma quando la gente ha iniziato a investire sull’aspetto sociale. Lì s’è creato un senso di comunità e di appartenenza per il quartiere”. È stato questo che lo ha spinto a creare una serata di musica senza impegno, un giovedì sera al bar sotto casa, non calcolato, con il DJ “non sul palco, ma tra i tavolini del bar, come succede a Berlino”. È la serie The Mixtape, che si svolge al GhePensiMI, uno dei locali-simbolo della “nuova” NoLo.

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L'autore, Bassi e il proprietario dell'enoteca Lu Mieru

Attraversiamo il tunnel sotto i binari della stazione Centrale, passiamo davanti allo studio di Bassi e arriviamo in via Venini. Portiamo il giradischi dentro l’enoteca Lu Mieru. Mentre gira il nuovo singolo di North Of Loreto "Cruel Summer", Bassi mi spiega che la genesi del progetto ha a che fare proprio con quei DJ set. “Avevamo voglia di tornare a fare le serate che piacevano a noi, non quelle che ci venivano richieste. Sarà stato circa sei anni fa in altri piccoli locali in giro per Milano, poi ci siamo spostati al GhePensiMI. Lo spirito era quello di liberarsi dagli schemi, di non sentirsi legati a suonare determinate cose." La questione della libertà in musica torna spesso nei suoi discorsi. "Per quindici anni ho fatto DJ set in discoteca, ma ho dovuto smettere perché non ce la facevo più. Non riuscivo più a divertirmi, perché l’idea di serata hip-hop in discoteca è cambiata. A me non è mai interessato, per dire, il reggaeton, ma oggi se a una serata hip-hop non suoni il reggaeton è un flop. La mia concezione di rap è quella legata alla black music, non alla musica latina—non so nemmeno come suonarla quella roba, non la conosco”.

bassi maestro nolo north of loreto giuseppe romano
L'autore, Bassi Maestro e due bicchieri di rosato

Grazie a queste performance settimanali totalmente libere e informali, invece, Bassi ha ritrovato il piacere di suonare la musica che pareva a lui, di rovistare tra le sue migliaia di 45 giri funk, soul, boogie e disco. Non è difficile capire che la musica di North Of Loreto viene proprio da qua. Mandiamo giù "Henny & Gingerale" di Mayer Hawthorne con un bicchiere di vino rosato, e ci spostiamo verso viale Monza.

È la mia parte preferita di questa zona: all’altezza della metro Pasteur ci sono le case occupate di via dei Transiti (e il centro sociale galeotto di cui parlavo a inizio articolo) e lungo il marciapiedi si incontrano in pochi passi pezzi di Cina, India, Perù, Turchia. Più che in qualunque altro luogo del quartiere, qui è evidente la trasformazione in atto: tra i ferramenta e i minimarket, spiccano nuovi ristoranti alla moda mentre i bar strillano sulle lavagne le birre artigianali del mese.

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Bassi attacca un adesivo davanti al mercato di via Crespi

Entriamo nel mercato coperto di via Crespi, un monumento alla tradizione popolare della zona in cui resistono i banchi di frutta, verdura, carne e formaggi vicino a bar frequentati dagli studenti e dai giovani creativi della zona. Ci sediamo a tavola alla Taverna dei Terroni, e ordiniamo porzioni giganti di mozzarella e verdure fresche, che fuori ci sono 40 gradi.

“Questa è una cosa che faccio da tanti anni: nel periodo del primo Crookers Mixtape avevo un progetto parallelo chiamato Mister Cocky, con cui facevo set di roba elettronica. È roba che ho sempre ascoltato, perché la house music di Chicago va a braccetto con l’hip-hop in America, mentre da noi sono sempre state viste come cose separate.”

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Bassi invidia i peperoni dell'autore

In effetti il mondo della discoteca, del ballo, e il mondo hip-hop sono rimasti separati a lungo. Tra metà e fine anni Novanta, la scena era un ambiente in cui la gente si immergeva totalmente, da cui non si usciva mai. Bassi ci tiene a ricordare che la cultura personale e la musica che fai sono due cose diverse: “Molti mi criticano dicendo che ho rotto le palle per anni con ‘solo hip-hop’, ed è vero. Io vivevo di quello e ho fatto solo quello per anni. Farlo era come una religione per me, poi a casa mi ascoltavo anche i Nirvana, ma la musica su cui lavoravo era solamente hip-hop, negli anni della sua massima creatività.”

E del resto qualunque fenomeno culturale non ha basi su cui appoggiarsi se le persone che lo alimentano si riferiscono soltanto al suo interno. È come una bolla di risonanza, fenomeno che ha distrutto la consapevolezza e il dibattito politico nell’era dei social media: bisogna allargare la propria base culturale il più possibile perché sia solida. “Per uno come me, con gusti così eclettici, è difficile dare un’identità forte a un progetto. Con North Of Loreto ce l'ho fatta: al di là di alcune influenze italodisco, è un disco inequivocabilmente black, però non voglio darmi limiti. Potrebbe evolversi in una vera e propria band, potrei far uscire un pezzo house puro in stile Chicago 1985. Chissà. Questo è un inizio.”

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Bassi Maestro davanti al suo studio

Tra un boccone e l’altro, traccio un parallelo con Liberato: un altro progetto che prende un suono elettronico che viene da lontano e lo innesta in un contesto specifico e locale. Lui aggiusta il mio tiro su un altro orgoglio napoletano: i Nu Guinea. “Anche loro venivano da un ambiente diverso, quello della minimal berlinese, ma hanno creato un progetto per onorare le loro radici, un po’ per passione e un po’ per gioco, senza calcoli. E hanno trovato un filone d’oro in maniera del tutto indipendente. Liberato invece mi sembra un progetto più calcolato.”

I due progetti hanno in comune il fatto di essere portati avanti da digger che amano scavare a fondo nella storia della musica che amano. “Loro sono più focalizzati con la roba anni Settanta e io con quella più Ottanta, ma ovviamente andiamo molto d’accordo. Il lavoro che loro, insieme al loro collettivo, hanno portato avanti con Napoli Segreta, io l’ho fatto per trovare i sample più originali da mettere nei miei vecchi album. Sono stato in Est Europa, in America a pescare cose gospel mai sentite…” Eppure su North Of Loreto c’è zero sampling. “È stata una sfida, ho voluto fare proprio l’opposto di quello che avevo fatto fino a quel momento. Mi sono detto: suono tutto—e deve suonare tutto coerente con quell’immaginario. Se avessi usato dei sample sarebbe stato troppo facile.”

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Bassi Maestro mette Kool & the Gang al Bici & Radici

In un’epoca in cui abbiamo a disposizione più o meno tutta la storia della musica senza dover fare alcuno sforzo, mi sono spesso chiesto che senso abbia fare musica dichiaratamente retrò come questa. Voglio davvero ascoltare un clone di una cosa fatta negli anni Ottanta quando ho accesso diretto alla musica anni Ottanta? Secondo Bassi, è una questione di specificità. Da come ne parla, in North Of Loreto ha sicuramente inserito un livello di lettura “per esperti”, gente che come lui ha una conoscenza enciclopedica di certa black music e fra i solchi potrà trovare esattamente quella sfumatura di suono che ha amato in quei particolari album. È un disco quadrato, solido, che non si perde in deviazioni particolari, ma resta sui binari di un sound ben definito.

E del resto in questo modo si stabilisce un contatto più profondo con il proprio pubblico, cosa importante in un momento in cui il rap è il genere più ascoltato—e quindi il più corrotto. “Io vengo da un mondo dove stai sempre a pensare alle visualizzazioni. È pieno di gente che fa musica che non le piace, lavora con gente che non le piace, partecipa a eventi che non le piacciono. Piuttosto che fare musica così, vado a lavorare in banca e suono nel tempo libero.”

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Aprendo la serranda del GhePensiMI

La conversazione prosegue, aspettando il conto, parlando dell’importanza della genuinità nella musica. Secondo Bassi è fondamentale ed è anche il segreto del successo: “Guarda Max Pezzali,” mi dice. “Fa musica di merda, ma non c’è un briciolo di artificio in lui. Per quello funziona così bene. Se ti riascolti ‘Come mai’, ti rendi conto che sta roba un grande autore che decide di fare una marchetta non sarebbe mai capace di scriverla. E la forza del rap è che è ignorante, ignorante ma genuino.”

Prima di andarcene ognuno per la nostra strada, ci fermiamo per un caffè a Bici & Radici, in piazza Morbegno. C’è il tempo per un ultimo disco e per soddisfare la mia curiosità sulle playlist lo-fi house che imperversano su YouTube. C'è un punto di contatto tra di loro e North Of Loreto? “L’ho sentita quella roba,” dice Bassi, “ma preferisco cose prodotte con più consapevolezza, con un senso. La grande differenza è che chi fa queste cose non va alla fonte, quindi cerca di dare un sapore anni Ottanta ma con i suoni sbagliati. Per me è più facile perché ci sono cresciuto, ma credo che sia importante fare uno sforzo di ricerca. Queste cose hanno più o meno la stessa funzione di ascoltare i suoni della natura.”

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L'autore e Bassi al GhePensiMI

Ci lasciamo con un amaro al GhePensiMI, tornando a dove North Of Loreto ha in un certo senso avuto inizio. Parliamo della risposta del pubblico: è stata dura per i fan di Bassi accettare una svolta in cui il rap è soltanto un vago retrogusto? “All’inizio avevo paura che non avrebbero capito, ma suonando in giro mi sono reso conto che il pubblico ha capito bene questa storia. Nessuno mi chiede di suonare le mie vecchie hit, ballano e basta.” Interviene Matteo, uno dei gestori del bar: “Al MI AMI ha suonato subito dopo Ensi, quindi era davanti a un pubblico prettamente hip-hop. Eppure ho visto tutti ballare come pazzi, senza farsi troppe domande.” È la forza di una musica che si lascia alle spalle la struggle e il messaggio e punta all'esaltazione, alla gioia e anche, perché no, a un piacevole senso di nostalgia—più o meno le stesse sensazioni che ti dà passeggiare per il tuo quartiere quando è pieno di vita. È l’altra faccia della strada.

Tutte le foto sono di Giuseppe Romano. Seguilo su Instagram.

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Massimo Pericolo ha fatto un live di "Amici" da lacrime

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Massimo Pericolo è al momento impegnato nel suo primo tour live e se non siete riusciti ancora ad andarlo a vedere 1) SBRIGATEVI e 2) abbiamo una sorpresa per voi. È infatti appena uscita una clamorosa versione live di “Amici”, il pezzo con cui si chiude Scialla Semper, registrata per i ragazzi di Deposito Zero Studios.

La band che suona il pezzo, in una versione inedita, sono i 72-Hour Post-Fight. Ci militano Palazzi D'Oriente, il produttore di ‘Sabbie D’Oro’, ma anche Fight Pausa, che come Xqz e Crookers ne ha curato la co-produzione. Sentirli esibirsi insieme è incredibile: niente basi registrate, niente playback, solo rime e musica. Quello che un vero live dovrebbe essere.

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Apple ha organizzato una performance a/v con Not Waving e Croatian Amor

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"A Vision of Sound" è quello che l'agenzia Threes che l'ha organizzata chiama una "esperienza", e non ci viene in mente un termine migliore. In piazza Liberty, nell'anfiteatro dell'Apple Store, giovedì 18 luglio si esibiranno in una performance multisensoriale due artisti tra i più interessanti del panorama elettronico internazionale.

Not Waving, vecchia conoscenza della Italian New Wave, abruzzese di stanza a Londra, fondatore della ottima etichetta Ecstatic e straordinario sperimentatore tra ambient, techno e post-punk, presenterà Futuro, la colonna sonora che ha composto per The Waldorf Project di Sean Rogg, una incredibile performance artistica che coinvolge tutti i cinque sensi.

Croatian Amor, anche lui fondatore di una premiatissima etichetta chiamata Posh Isolation e artista che ha scoperchiato cervelli in tutto il mondo con i suoi live, porterà in anteprima una versione audio/video del nuovo album Isa, che esplora la terra di mezzo tra salvezza e apocalisse.

L'ingresso è gratuito, ma occorre registrarsi: apri questo link per farlo e partecipare a un'esperienza unica.

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La FSK ha riportato la trap italiana a tre anni fa, ma non è un esempio

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Compton, contea di Los Angeles. In un capannello di gente pronto ad ascoltarli, due MC si preparano prima di sfidarsi in una battle di freestyle. Uno dei due contendenti è girato di spalle rispetto al telefono che riprende la scena, sembra stia cercando la concentrazione adatta per la sfida. Lentamente si gira verso di noi che guardiamo lo schermo. Nella finta indifferenza della gente attorno a lui, palesa che si sta iniettando in vena prima di iniziare la battle. Scuote la testa china e sibila, la gente attorno a lui esplode in un’ovazione, e biascicando inizia a rappare.

Questo è un solo un capitolo della tragica storia di Cadalack Ron, un freestyler americano noto anche come il nome di "Methadone Don". Sebbene affermerà successivamente che quella iniettata in quella battle non fosse eroina ma semplicemente Gatorade, la sua è una storia di dipendenza e di malessere. Finisce il 23 gennaio 2016 con la sua morte per cause mai rese ufficiali—ma che viene naturale ricondurre a un'overdose.

È che storicamente l'eroina non ha avuto un impatto devastante sul rap e i rapper, fatta eccezione per Ron e qualche caso isolato come Chris Kelly dei Kris Kross. Ma sebbene nell'immaginario musicale collettivo sia una droga rock e bianca—Janis Joplin, Sid Vicious, Kurt Cobain, Nikki Sixx— in realtà l'eroina e gli oppioidi suoi derivati stanno uccidendo un sacco di gente negli Stati Uniti, e in particolare all'interno della comunità nera.

Allargando il campo, quindi, in questo fenomeno rientrano altre tre recenti decessi illustri, tutti legati in qualche modo al fentanyl—"un oppiode sintetico creato negli anni Sessanta come antidolorifico per i pazienti malati di cancro [...] ne basta una piccola quantità per causare un’overdose anche in tossicodipendenti ormai assuefatti all’eroina", scriveva Mattia Salvia su queste pagine. Quelli di Lil Peep, Mac Miller e Prince, tutti e tre morti per overdosi di fentanyl e altre cose.

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Uno screenshot dal teaser di FSK TRAPSHIT, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

In Italia tutto questo ci sembra molto lontano (anche se in realtà il fenomeno-fentanyl esiste già nel nostro paese), almeno a livello di vita reale. Perché in musica, sia nei testi che nei video, di oppioidi ce ne sono eccome, citati come simbolo e per costruire un immaginario. È il caso della FSK Satellite, un gruppo di tre ragazzi lucani che ha annunciato il suo album d'esordio FSK TRAPSHIT, uscito venerdì, con un teaser decisamente truce di cui si è parlato molto negli ultimi giorni.

Il video, per quanto breve, racconta in modo molto diretto usi e consumi delle trap house come ce le immaginiamo, tra coltelli, pastiglie di Alprazolam e sostanze cotte in padella. Non è però la prima volta che il rap italiano si spinge in questi territori: Ketama126 ha mostrato eroina nel video di “Lucciole”, rappresentandola in modo desolato e sporco, come una condanna, con un disclaimer iniziale che raccontava come il video fosse mera cronaca e non incitamento. Si parlava di eroina in “LLCD” dei Club Dogo, con Don Joe che raccontava: “Resta l'eroina sul mio braccio, ho un'altra fitta al petto”. Fibra la nominava nei suoi testi volutamente pulp: tra i suoi “Cento modi per morire”, il migliore era "con la droga, un mix di pasticche, eroina ed altra roba”.

Date queste premesse, il teaser della FSK ha comunque fatto quello che presumibilmente si era prefissato di fare: scioccare e/o far parlare di sé. Alla cosa ha contribuito enormemente Salmo, che nelle sue Instagram stories ha ammonito, senza accusare direttamente la FSK, di non fare video “in cui vi fate i pippotti e vi fate di eroina” in quanto sono comportamenti che possono influenzare i fan e portarli al consumo di droghe pesanti. "Fate in modo che il vostro trend sia la musica, il vostro talento, non queste cazzate con l'eroina e la cocaina", ha detto.

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La copertina di FSK Trapshit, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify. Fotografia di Young Goats ed Enrico Rassu

Salmo ha certamente ragione a condannare l’uso di droghe pesanti, specialmente alla luce delle morti di cui si è parlato prima. Il tono mi ha però sorpreso, sebbene lui stesso abbia esordito citando Paolo Brosio come termine di paragone da cui distanziarsi. Ascoltando rapper come quelli citati qua sopra sono cresciuto sviluppando un gusto per il pulp—ed è per questo che gasare così tanto quando uscì un disco crudo ed esagerato come The Island Chainsaw Massacre, in cui Salmo rappava: "Oggi mi sveglio in un suicida, la famiglia in rovina, ricercato per omicidio, rapina e spaccio di eroina". E in quel caso, come per Fibra, i Dogo e Ketama126, non ho mai pensato che stesse dando il brutto esempio, semplicemente che stesse raccontando qualcosa.

Seguendo questo ragionamento, il racconto sporco e 'peccatore' della FSK mi sembra una forma d’arte—magari involontaria, ingenua, sbagliata—proprio come i testi di cui parlavamo prima. E soprattutto credo che FSK TRAPSHIT, teaser a parte, funzioni perché riporta la trap al centro della trap, suggerisce il mondo di droghe e angoscia delle origini disperate del genere. E questa cosa ha un valore perché in Italia "trap" è diventato un termine-cappello svuotato di significato che indica qualsiasi cosa uscita dopo il 2016.

La FSK riprende infatti per sommi capi un immaginario dimenticato da parte del pubblico: quello della prima Dark Polo Gang. Quando comparì sui nostri radar ci si chiedeva se c'erano o se ci facevano, si rideva o ci si esaltava delle loro uscite esagerate, ci si esaltava o scandalizzava per i loro "baci in bocca come i mafiosi". E oggi, in "Canottiera White", Sapo ci dice proprio che la FSK va "in giro come i mafiosi". Sono passati solo tre anni da Crack Musica: pochi, ma abbastanza da permettere a chi si rifà a quel modello di stupire di nuovo, di creare buzz e incuriosire.

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Fotografia di Young Goats

Arriva però un momento in cui si deve a scindere la musica dal racconto, vero o falso che sia. Se (ed è un ENORME se) si soprassiede sull’utilizzo inutile di epiteti razziali, FSK TRAPSHIT rimane un disco sorprendentemente solido. Chiello è l'anima emotiva, Sapo il suo estremo opposto, Taxi B sta al centro, giocosamente estremo e strano. Le cose che dicono sono il nulla, se non per un costante double entendre sulla droga e l’amore e su come queste cose conducano in modo diverso alla perdizione. Il tema è un classico, dalla mitica “La mia signorina” di Neffa, alla più recente “Linda” di Emis Killa. Ma la FSK si concentra meno sugli effetti diretti della dipendenza e più sull’effetto delle conseguenze inattese che essa provoca, come dimostra soprattutto "Melissa P". Ma il punto è un altro: la musica.

FSK TRAPSHIT è quasi interamente prodotto da Greg Willen, sebbene a volte rinunci al suo super producer tag, e compie scelte molto coraggiose, quasi contro la corrente del mercato. Rinuncia spesso alla formula-base della trap italiana degli ultimi tre anni e cerca una nuova matrice street, a tratti caricaturale, che si esprime in singoli come “No Spie”, “La prova del cuoco” e “Pickup”. Ma c’è anche un pezzo club come “Catene Jesus”, la produzione americana old school di "Canottiera White", i Death Grips-ismi di "UP". Greg Willen dimostra così di avere una cifra stilistica propria e che, detto semplicemente, non c'è bisogno di scimmiottare Charlie Charles e Sick Luke.

Anzi, è proprio Willen il collante che tiene insieme le tre anime della FSK: l’esagerazione stile Dark Polo Gang, la pazzia incomunicabile alla Young Signorino, l'emo rap di SoundCloud, che del resto sono tre tra le correnti andate meglio nell’ultimo periodo. In tutto questo rimane chiaro come il loro racconto e l’immagine che proiettano sul pubblico voglia essere scandalosa. Allo stesso modo è difficile riuscire a prendere le loro parti e difendere alcune scelte linguistiche non rispettose da parte di Sapo, Chiello e dell'ospite Rosa Chemical—che presumo facciano parte della stessa strategia.

fsk trapshit
Fotografia di Young Goats

È una questione che abbiamo già dovuto affrontare, quella dei rapper bianchi e italiani che usano epiteti razzisti. Non consideriamo propriamente razzista chi li usa in questo contesto, perché sappiamo che l’intento non è quello di insultare, umiliare o sminuire le persone nere. L’intento è di appropriarsi del linguaggio e della cultura hip-hop nera e urbana degli Stati Uniti. Il discorso è che quella parola è una parola che, oggi più che mai, in Italia si trova a essere carica di odio e di cui, ne siamo sicuri, gli stessi rapper che i nostri vogliono “omaggiare” con questo comportamento non ammetterebbero l’uso da parte di un bianco.

È per questo che ci sembra inappropriato, superfluo e anche stupido usarla. Il privilegio dei rapper italiani è di trovarsi a rivolgersi a un pubblico che non conosce l’oppressione razziale, perché è composto in stragrande maggioranza da persone bianche disposte a liquidare l’uso di questa parola come una scelta stilistica o una provocazione. Il motivo per cui gli FSK si sentono liberi di usare la parola “ne**o” è che vivono in una società in cui le persone nere sono marginalizzate. Hanno cose più gravi a cui pensare, senza dubbio, ma dire che questa mancanza di sensibilità non aiuta è un eufemismo.

Dalla nostra prospettiva privilegiata, ascoltare FSK TRAPSHIT è un po' come affacciarsi alla finestra di un palazzo del quartiere malfamato della tua città, osservare con attenzione i drammi quotidiani delle persone che ci stanno dentro e a volte ci stanno pure sotto. Soldi, se possibile molti. Droga, affetti e una vita veloce. Parolacce, ignoranza. Una vita esagerata al punto da essere a tratti caricaturale, ma anche problematica, ma anche paradossalmente intrigante.

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Abbiamo chiesto a un avvocato che cosa rischia A$AP Rocky

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Pochi giorni dopo il concerto allo SMASH festival in Svezia, A$AP Rocky si sarebbe presentato di sua spontanea volontà alla polizia per essere interrogato dopo essere rimasto coinvolto in una rissa per strada a Stoccolma, in parte ripresa dal suo staff e da alcuni testimoni. In seguito è stato fermato e, al momento in cui scriviamo, è ancora sotto custodia cautelare da parte delle autorità svedesi in qualità di indagato per aggressione.

Stando a quanto si capisce dall'Instagram di Rocky, il tutto è avvenuto il 3 luglio: un gruppo di uomini avrebbe seguito Rocky e la sua crew per diversi isolati e uno di loro avrebbe aggredito la guardia del corpo del rapper con un paio di cuffie, finendo per romperle. Il video ripreso da un passante e pubblicato dalla pubblicazione svedese Aftonbladet rivela lo scontro da un angolo diverso, in cui sembra che Rocky getti a terra con violenza uno degli uomini. L'avvocato di Rocky, Henrik Olsson Lilja, nega ogni accusa e la settimana scorsa ha detto a Reuters che "stiamo lavorando duramente e siamo convinti che il pubblico ministero prenderà una decisione in favore del mio cliente una volta che verrà a conoscenza di tutti i fatti".

Il 5 luglio la corte d'appello svedese ha negato la richiesta di rilascio immediato, ritenendo il rapper a rischio di fuga e richiedendo che restasse in carcere per le due settimane del processo. In un appello alla Corte Suprema svedese, Olsson ha sostenuto che il pubblico ministero non avesse giustificato propriamente perché Rocky sarebbe stato a rischio di fuga, e che le conseguenze della sua detenzione—compreso l'annullamento di varie date europee, tra cui quella italiana, e altre opportunità mancate—avrebbero dovuto avere un peso maggiore. Lunedì, la Corte Suprema svedese ha rifiutato di prendere in esame il caso.

Da quando Rocky è stato arrestato, diversi artisti si sono schierati con il rapper, dichiarando che avrebbero escluso la Svezia dai loro tour. I fan sui social media hanno coniato hashtag virali tra cui "FreeRocky" e "JusticeForRocky", e Rocky ha ingaggiato un avvocato difensore famoso.

La detenzione di Rocky sottolinea una delle maggiori differenze tra il sistema giudiziario svedese e quello americano: l'inesistenza della cauzione. In questo senso funziona come in Italia. Se la corte emana un ordine di custodia cautelare, il sospettato deve essere detenuto. Rocky, a questo punto, è soltanto un indagato e non è imputato di alcun reato. L'indagine si dovrebbe concludere il 19 luglio, giorno nel quale il pubblico ministero deciderà se imputarlo formalmente o meno.

Secondo Dennis Martinsson, Senior Lecturer di Scienze Giuridiche all'Università di Stoccolma, i casi con soggetti svedesi seguono tutti lo stesso processo. Prima un pubblico ministero deve convincere una corte distrettuale che il sospettato deve essere messo sotto custodia cautelare, spiegando il motivo per cui sarebbe necessario. La corte distrettuale a quel punto approverà o meno la mozione, e stabilirà una data in cui l'accusa dovrà formalmente imputare l'indagato oppure rilasciarlo. In ogni caso, un'udienza o una "rinegoziazione" della custodia cautelare è prevista circa ogni due settimane.

Nel caso di A$AP Rocky, quella data è il 19 luglio. Nonostante sembri probabile che l'indagine finisca quel giorno, è possibile che l'accusa svedese tenti di ottenere una proroga della custodia. Martinsson prevede che succederà una di queste due cose: o il pubblico ministero deciderà di denunciare formalmente Rocky, cosa che porterà a un'udienza in merito due settimane dopo, oppure tenterà di negoziare un secondo ordine di custodia cautelare, che potrebbe risultare in ulteriori 14 giorni di detenzione oppure, in caso non venisse approvato, nel rilascio di Rocky. Ma c'è anche una possibilità che l'accusa lasci cadere del tutto il caso, rimettendo Rocky in libertà.

Al contrario di quello che dicono alcuni siti, Martinsson dichiara che il reato in esame è quello di aggressione, meno grave dell'imputazione di rissa aggravata originariamente richiesta dall'accusa e respinta dalla corte distrettuale di Tingsrätt. Tuttavia, ci ha tenuto a sottolineare che la detenzione di Rocky non è dovuta a un'imputazione; Rocky è soltanto sotto indagine. Secondo Martinsson, tanto la rissa aggravata quanto l'aggressione risultano nella "reclusione dell'indagato", e non c'è alcun limite di tempo ufficiale per questo tipo di reclusione. Per un caso particolarmente complicato, dice, un indagato può restare sotto custodia cautelare anche per un anno, anche se è raro.

Al di là del polverone che ha scatenato, Martinsson sostiene che la sequenza di eventi che ha portato all'arresto del rapper gli sembra relativamente "normale", nulla di straordinario. Se Rocky viene formalmente accusato di aggressione il 19 luglio, subirà un processo nel giro di due settimane; se viene dichiarato colpevole, può aspettarsi tra i tre e cinque mesi di prigione. Secondo Martinsson, "non è possibile che gli diano il massimo della pena" come è stato riportato da alcuni giornali americani, che hanno ripreso l'informazione dal profilo Instagram di A$AP Ferg.

Nel frattempo, ha iniziato a circolare una petizione su Change.org che ha guadagnato quasi mezzo milione di firme nel giro di due giorni. Non c'è dubbio che la pressione dell'opinione pubblica sulle autorità svedesi stia crescendo, noi terremo d'occhio i tribunali per capire come andrà a finire.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.


Pinewood Festival si sposta sulla spiaggia per Pinewood Beach

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Pinewood, il festival che ha animato L'Aquila a giugno scorso, raddoppia e diventa Pinewood Beach 2019. Il grande festival del centro Italia si arricchisce di una nuova esperienza live immersa nella splendida cornice della riserva naturale di Punta Penna, a Vasto (CH). 25 e 26 luglio: due giorni di mare, sole e musica, all'interno dell'area concerti di Baja Village, noto locale della città di Vasto, un'oasi naturale tra le più belle e selvagge dell'Adriatico. Dopo Pinewood Festival, si va al mare per Pinewood Beach 2019.

Protagonisti della prima edizione: M¥SS KETA, Nu Guinea, Massimo Pericolo, Speranza, Voina, Gomma, MasaMasa, Pippo Sowlo, B. Puntato, Blackbox Crew.

All'interno del festival ci saranno spazi per gli espositori, installazioni artistiche e aree dedicate a food/drink.

Pinewood Beach sarà in riva al mare di Vasto il 25 e 26 luglio. Acquista i biglietti su Ciaotickets e segui l'evento su Facebook.

pinewood beach 2019

Abbiamo intervistato la grafica di LIBERATO

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Qualche anno fa a VICE arrivò una mail che proponeva la premiere del video di "9 MAGGIO" di LIBERATO. Per una serie di eventi sfortunati a quella mail non rispondemmo mai, ma fin da subito ci rendemmo conto di essere di fronte a qualcosa di grande. Poi, poco tempo fa, ce ne è arrivata un'altra. Ci proponeva di parlare con la persona che del progetto-LIBERATO ha curato la grafica.

Quando penso a grafica e musica mi viene in mente una cosa sola, la cover di In the Court of the Crimson King dei King Crimson, un disco che mio padre quasi mi forzò ad ascoltare quando avevo 14 anni e che mi ha fottuto il cervello per sempre. Un'illustrazione incredibile che corre lungo tutto il packaging e che rappresenta alla perfezione un disco folle. Ogni volta che la riguardo penso al fatto che per me sarebbe un grandissimo traguardo quello di riuscire a disegnare una cover così, in grado di resistere ai segni del tempo, e soprattutto al passaggio delle tendenze in materia di comunicazione visiva.

Grafica e musica sono due entità estremamente complementari. Due discipline che dialogano e si confrontano su un terreno espressivo differente ma con la finalità di raggiungere un obiettivo comune, quello di creare un legame indissolubile. Qualcosa che alla sola vista di una cover ti ricordi esattamente la prima traccia del disco, o viceversa che all’ascolto di una hit ti aiuti ad immaginare esattamente un’immagine precisa, distinta ed evocativa. Se un progetto musicale risulta iconico è infatti anche grazie all’immagine che lo accompagna.

Al sistema visivo delle cover si aggiunge quello puramente simbolico dei marchi collegati ad artisti e band. Una sintesi ancora maggiore e in grado di condensare in pochi tratti tutta la storia e l'iconografia di un intero progetto artistico. Così prendono vita e si propagano attraverso decine di anni di vita i marchi di Aphex Twin o del Wu-Tang Clan. Simboli che per la loro resilienza rispettano a pieno quel dogma, tipico di alcune scuole di grafica, per cui un buon logo debba durare nel tempo prima che essere ben disegnato.

Musica e grafica si muovono quindi nella stessa direzione. A volte il percorso è frutto di collaborazioni stabili, in altri casi di pura casualità, o ancora, talvolta sono prodotte dalla stessa mano. Esistono poi dei casi ancor più rari in cui nonostante l’immaginario visivo potente si conosca poco dell’identità di chi si trova davvero dietro un progetto artistico. Ed è questo il caso di LIBERATO, un progetto che ha utilizzato le potenzialità dei media artistici a 360° per creare un’aura fatta di mistero e un simbolismo estremamente iconico—dai video alla fotografia, passando per i visual delle poche e calcolate apparizioni live. In tutte queste fasi non si può non notare un sistema fatto di vere e proprie icone che hanno contribuito alla fortuna del progetto stesso.

Abbiamo intervistato Rocio Mateos, graphic designer che quelle icone le ha progettate, per capire meglio da dove arrivino tutti gli input del progetto e in che modo sia nata la collaborazione con un musicista che non ha mai manifestato pubblicamente la sua identità.

liberato grafica magliette
LIBERATO goods design di RM

Noisey: Ciao Rocio! Com’è nata esattamente la collaborazione? Cosa sapevi del progetto LIBERATO prima di accettare?
Rocio Mateos: Non sapevo nulla, men che meno il napoletano. Borut, il mio ragazzo, mi disse che c’era questo artista napoletano che lo aveva contattato per sapere cosa ne pensasse della sua musica e che bisognava spingerlo. Il progetto era una bomba ed era totalmente alieno al panorama musicale. Poco dopo servivano delle grafiche e mi chiesero se ero interessata. Lo ero, perché quando qualcosa mi piace e mi stimola non mi tiro indietro, costi fare qualche ora extra alla sera sul computer o lavorare nel weekend.

Da quel momento sono entrata a far parte di una famiglia che è cresciuta nel corso di questi anni ma che non ha nulla da spartire con un progetto di marketing o operazioni commerciali strutturate a tavolino. Siamo solamente un gruppo di professionisti che in una maniera un po’ rocambolesca hanno iniziato a collaborare tra loro nello stesso progetto ed ora condividono qualcosa che trascende il lavoro stesso.

Sono cosciente che a molti piace immaginarci nella sala riunioni di un qualche edificio di una major, coordinando a nostra volta vari team di esecuzione ma alla fine la cosa è molto più semplice di così. Se vuoi molto più romantica: ci sono gruppi Whatsapp, messaggi vocali infiniti alle quattro del mattino, nottate a mettere a punto il proprio lavoro e tanto amore per il progetto.

liberato chi è
Foto di Vincenzo Schioppa, campaign di NSS Factory, styling di Antonella Mignogna, grafiche di RM

Da graphic designer a graphic designer, quali sono i tuoi riferimenti visivi? Chi sono i tuoi progettisti preferiti e per quale motivo?
Domanda difficile, dal momento che devo condensare discipline e periodi differenti in poche righe i primi nomi che mi escono sono quelli imparati sui libri rispetto al numero di creativi che vedo ogni giorno via internet. I miei preferiti sono artisti fondamentali come Victor Moscoso, Herb Lubalin, tutta la crew di Push Pin e tra di loro ovviamente Milton Glaser. Proprio la sua visione pionieristica nell’interpretare e applicare la grafica con diverse tecniche ha fatto si che dopo 50 anni ci ritroviamo ancora qui a omaggiarlo in maniera più o meno cosciente. Aggiungerei gli italiani Bruno Munari, Ettore Sottsass o Enzo Mari, pilastri fondamentali del design che mi han fortemente impressionato dal primo momento che li ho scoperti.

Poi l’Art Deco, tutto ciò che è connesso alla Bauhaus e personaggi femminili come Clarice Cliff o la poliedrica Sonia Delaunay. Sicuramente il mio successivo interesse per la moda, il disegno industriale e la ceramica viene da qui e dalla Wiener Werkstätte, gente che nei primi del 900 già figurava l’arte fuori dai musei applicandola a vari aspetti del disegno industriale e dei tessuti.

Grazie alla musica ho scoperto Peter Saville, uno capace di mescolare cose vettoriali o dei crop su di un quadro rinascimentale e poi ottenere vere e proprie icone. In più il suo lavoro non solo su FAC51 ma anche su Haçienda mi ha fatto capire come la grafica può dare un “imprint” ad un club, è il caso del recente “Good Room” con il mitico Braulio Amado o di altre realtà come Kaiku o De School. Altro referente in questo mondo è stato Yves Uro, mente creativa dietro il club KU, la sua capacità di capire alla perfezione il mood della Ibiza degli anni 80 pur vivendo a Parigi mi è sempre stato d’ispirazione ed esempio. Moebius e Pazienza assieme ad altri nelle graphic novel, ad oriente Keiichi Tanaami per la psichedelia e Ikko Tanaka per la sintesi.

Se dovessi pensare ad un'etichetta con un bel merchandising ti direi Public Possession. Per quanto concerne la moda dico Matthew Williams, Raf Simons, Fergus Purcell con Aries e Ashley Williams, Misha Hollenbach and Shauna Toohey di PAM mi han sempre affascinato per la freschezza grafica. Ancora, Marine Serre, Yoon Ahn di Ambush, Undercover, Sacai… sono davvero troppe!

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CD cover & packaging design di RM

Come sei arrivata al simbolo della rosa? Qual è l’idea dietro questo elemento e cosa rappresenta per te?
Arrivare alla rosa è stato abbastanza facile ma di sicuro il concepimento non si è basato sulle classiche chiacchierate che si fanno quando si inizia a lavorare ad un progetto di immagine corporativa con un confronto veloce e ripetuto. LIBERATO mi è comparso dal nulla con un suono specifico e potentissimo, con dei testi che cantano l’amore in napoletano e con l’anonimato a chiudere tutto. Pochi paletti ma ben definiti, diciamo non un progetto come tanti.

Oltre al suo Tumblr non avevo molti altri input e mi sono fissata su 4 concetti: Libertà, Amore, Napoli e Freshness. In automatico mi è uscita la rosa perché è un’icona molto riconoscibile da sempre. Da sola non rappresenta nulla, la vediamo ovunque e ne siamo pure stufi. Dal logo di un ristorante al simbolo romano per raffigurare Venere, dalla maglietta di un amico alla cover dei Depeche Mode. L’amore e le sue spine o il ricordo di una rivoluzione, è tutto o niente, è il nostro quotidiano, alla fine non è il significato stesso della rosa ma quello che rappresenta quando si converte in un simbolo. In questo caso doveva solamente accompagnare IX - V (9 Maggio) ma poi cover dopo cover ha iniziato a prendersi il suo spazio per diventare l’icona del progetto.

liberato gaiola portafortuna
Cover design di RM

Un altro elemento iconico nella comunicazione di LIBERATO è la scritta alle spalle del suo bomber. Qual è la genesi di questo lettering? Sembra essere molto radicato nel background visivo della città, nella quale le scritte dei gruppi ultras sono un elemento fondamentale, è così?
La prima cover è stata una sorta di test per capire se c’era connessione per lavorare assieme, doveva trasmettere il suo messaggio ed accontentare me a livello grafico. Quando, dopo i primi test, abbiamo cercato di avvicinarci maggiormente all’immaginario ultras quasi mi è esplosa la testa. Sono molto legata al periodo degli anni Venti, e quindi pure a quei caratteri, ma quello che vedevo era solo un font fascio. E LIBERATO è tutto tranne che fascio.

Solo in un secondo momento ho capito l’importanza e la presenza di quelle lettere in giro per le strade di Napoli, mi è piaciuto il collegamento ed ho iniziato a lavorare a dei piccoli ritocchi alle lettere per tirarle un attimo fuori dal contesto curva e connotarle meglio nel mondo LIBERATO. Mancando l’artista, tutti gli elementi proposti e poi rilanciati nei video di Francesco Lettieri, dalla rosa al personaggio incappucciato con il Bomber fino alle scritte degli ultras in giro per la città, riescono nell’intento primario di dare priorità alla musica senza metterci una faccia, un sesso o un’età. D’altro canto LIBERATO è tutti noi.

Quali altri simboli della città hanno caratterizzato l’identità visiva del progetto LIBERATO? E in che maniera ti sei rapportata come progettista a una città così complessa e multiforme per prendere ispirazione?
È curioso perché la prima volta che sono stata a Napoli avevo 16 anni ed ero in gita di scuola da Madrid, ci sono ritornata solo l’anno scorso di nuovo assieme al mio ragazzo ed alcuni amici e sono uscita pazza! Fino a prima tutto era filtrato dal racconto di terze persone con tutte le implicazioni e le proprie opinioni personali, una volta che ci sono arrivata sono stata travolta da questa mezcla di mille cose tutte in una sola volta, eclettismo allo stato puro. La gente, l’architettura, il mix mediterraneo di culture, la scaramanzia, il cibo, i neon con le madonne, il caos, i turisti, il rumore dei motorini e delle macchine che ti sfrecciano vicino, il misticismo, le mura dipinte, il profumo del bucato steso nei vicoli—tutte queste sono informazioni.

La città è iconografica per sé, piena di vita e autenticità. Ogni angolo ti da un input in più e quando stai lì c’è una tensione nell’aria come pochi altri posti al mondo, vorresti restare sempre sveglio per godere di ogni attimo. O la ami o la odi. È vero che all’inizio sapevo che ogni cover necessitava qualcosa di nuovo però ero tranquilla perché già da fuori la città riesce a dare molto pur non conoscendola molto—e in più c’erano i video di Francesco con gli styling di Antonella che riuscivano a rendermi poco a poco sempre di più chiara l’idea estetica da dare o da proporre.

liberato pop up store
Produzione di NSS Factory, art direction di RM

Il rapporto tra grafici e committenti, e artisti musicali in questo caso, è un tema molto interessante dal quale sono nate tante collaborazioni note. In che modo ti sei relazionata ad un committente come LIBERATO del quale pubblicamente ancora non si conosce l’identità? Ci sono degli aneddoti interessanti del rapporto che hai con lui?
La relazione tra noi due è stata facile fino dal primo momento, abbiamo avuto fortuna di incontrarci. Non è qualcosa che succede spesso in questo mondo, quindi se accade bisogna averne cura. LIBERATO è un buon leader: ha idee chiare e spesso risponde con un si o con un no alle proposte che si fanno, si fida del gusto delle persone che lo circondano perché sa che quello che facciamo lo facciamo bene e per la miglior riuscita del progetto. Ha unito varie teste competenti creando un gruppo solido e spesso siamo connessi tra di noi senza saperlo. Siamo sulle stesse frequenze e questo fa che il team sia potente.

Ci sono parecchi aneddoti, spesso legati alla scaramanzia e al simbolismo. Me ne viene in mente uno riguardo la copertina del disco… cercavamo un elemento che accompagnasse la rosa nella cover, dandole inquietudine e forza. Dopo vari innesti e tentativi l’unica cosa che sono riuscita a mettere è stata quella banda rossa, in quanto—appunto—richiamava il colore del corno portafortuna, quel rosso atavico che da sempre richiama la forza, il fuoco e il sangue. Dal momento che gliel’ho venduta così, essendo lui di una proverbiale scaramanzia, l’idea è passata alla prima! Poi ho cercato di lavorare sul packaging in modo che in mancanza di foto, press kit, testi eccetera, almeno la forma fisica del supporto sarebbe stata un bell’oggetto da collezione. Così abbiamo messo lo sticker a mano pure su quello. Il bello poi è stato vedere come il pubblico, che è un mondo a sé, ha metabolizzato quelle immagini finendo con l’ipotizzare delle teorie assurde

liberato pop up shop
Produzione di NSS Factory, art direction di RM

Quali sono, tra i lavori che hai svolto per il progetto, quelli di cui vai più orgogliosa e perché?
Mi sono proprio divertita nell’ultima parte del progetto, dal disegno del packaging del disco in poi c’è stato un momento in cui non ci fermavamo più con le idee nuove per i gadget: dalle magliette ai grinder, dai tattoo temporali al tape per chiudere gli imballaggi. È stato intenso ma molto emozionante.

In generale mi piace lavorare al merchandising. Mi piace la grafica tessile e sperimentare con tecniche ed applicazioni nuove. In più dal momento zero sono entrata in contatto con Daniele, che magari non è conosciuto come altre persone all’interno del team ma è una figura chiave, un Mr. Wolf della situazione. Gestisce l’artista durante i live e la settimana dopo ti scova una macchina Heidelberg degli anni 80 per stampare i poster del disco. Fa succedere le cose, è bello lavorare con lui!

Per concludere, i due pop up store sono stati una bomba. Ho fatto la direzione artistica del progetto ma senza la produzione impeccabile di NSS non sarebbe stato possibile realizzarli, anche perché i margini di tempo erano strettissimi. Volevamo l’esperienza fisica del mondo di LIBERATO e credo ci siamo riusciti. Sono orgogliosa perché il progetto ha qualità ed è alieno a molte dinamiche classiche, è vissuto e gestito in maniera carbonara dalla musica al live show, dai video all’estetica visuale ma nello stesso momento e curato con molta attenzione ai dettagli.

liberato pop up shop magazzini liberati
Produzione di NSS Magazine, art direction di RM

Raccontaci un po’ di te: dove sei nata, che cosa fanno i tuoi genitori, quali sono stati i tuoi studi, com’è stata la tua carriera finora.
Sono di Madrid, ci sono tornata dopo aver vissuto all’estero per un po'. Mentre studiavo disegno grafico lavoravo in un'agenzia che si dedicava soprattutto al web design e due anni dopo, in maniera fortuita, il mio portfolio di illustratrice e graphic designer mi ha dato l'opportunità di lavorare in Italia per un brand di moda. È li che ho iniziato il mio percorso in questo settore. È stata un esperienza formativa assolutamente positiva, sia nel personale che nel professionale. Ho imparato un sacco su tecniche di stampa, tessuti e ho conosciuto gente meravigliosa e tra loro il mio ragazzo.

Dopo 4 anni e mezzo sono ritornata in Spagna, ho fatto una scelta lavorativa che non vedevo per niente come definitiva ma devo riconoscere che in questo periodo sono riuscita a conciliare una nuova esperienza con molto più tempo vicino alla mia famiglia e cari amici. Qui sono arrivata con una posizione nuova e più responsabilità, affiancata ad un bel team ho imparato tanto sugli equilibri interni di una azienda e tutte le cose positive e negative che ne conseguono. Chiaramente, tutta questa esperienza accumulata mi è servita nel momento di gestire vari aspetti del progetto LIBERATO. Dalle classiche stampe per le magliette alle cover, dal disegno dei pop-up store alla comunicazione grafica passando per tutti gli elementi fisici che hanno accompagnato la release del nuovo album. Insomma, mi sono ritrovata ad avere abbastanza competenza per gestire l’aspetto grafico a 360° di un artista e in più proporre a mia volta nuove idee.

liberato pop up shop magazzini liberati
Produzione di NSS Magazine, art direction di RM

In che modo restare anonima insieme al progetto ha impattato il tuo stato mentale?
Sicuramente vivere in Spagna ha aiutato molto a non avere pressioni. È stato un peccato, ad esempio, perdermi i pop-up store, però perlomeno non ho vissuto l’analisi della mia vita e delle mie amicizie come invece sarà successo sicuramente ad altre persone coinvolte. In più qui a Madrid sono stata così lontana dal fenomeno che se casualmente ne parlavo con qualche amica stretta comunque non aveva (e non ha ancora) idea per chi stessi lavorando.

Per me scrivere R.M. non è mai stato un problema. La cosa è nata carbonara e per molto tempo è andata avanti così. Quello che a me interessava di più era avere la possibilità di fare quello che volevo con un progetto iniziato da zero. La mia “uscita dall’ombra”, se così si può dire, è stata decisa in comune con tutti. In più le volte che sono stata in Italia e quindi ho tastato dal vero il feedback del progetto sulla gente ho potuto godermi la cosa in maniera naturale e senza gli occhi puntati su di me. Non ha prezzo infatti vedere come alcune cose abbiano preso una piega inaspettata: un sacco di gente si è tatuata la icona della rosa e le varie interpretazioni che la gente ha dato alle grafiche mi è piaciuto molto, dal finto indizio del rettangolo rosso al merchandise “pezzotto” visto a Napoli e al concerto di Roma.

liberato pop up shop magazzini liberati
Produzione di NSS Factory, art direction di RM

Come hai fatto a dire ai fautori del progetto che volevi rendere pubblica la tua identità? Com’è stata la conversazione?
È stata una decisione appunto presa a lavoro terminato e con l’appoggio di LIBERATO, ne abbiamo parlato prima. Non sono una protagonista nata, sono una pessima PR per il mio proprio lavoro e il solo scrivere queste quattro righe mi è costato parecchio. Preferisco stare dietro ad uno schermo ma non succede nulla di male se dopo aver fatto bene il mio lavoro faccio un passo in avanti e mi presento.

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Leggi anche:

Guarda The People Versus Zoda

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Zoda faceva lo Youtuber, poi ha iniziato a fare il rapper. Si vede che ha una vera e propria passione per YouTube e le orde di assassini che abitano la sezione commenti di ogni video con un minimo di rilevanza. Abbiamo deciso di accontentare la sua sete di odio invitandolo in redazione a rispondere alle invettive che i suoi hater gli hanno lanciato dopo aver visto i video di "Black Widow", "Comete" (feat. Side Baby) e "Luna e Sole".

Guarda il video qua sopra e iscriviti al canale di Noisey Italia per non perderti le nostre prossime uscite.

Nello spericolato mondo dei sosia di Vasco Rossi

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C'è un vecchio articolo di VICE che parla del fenomeno degli imitatori di Elvis europei, un trend che in certe parti del nostro continente non ha mai smesso di funzionare e che coinvolge principalmente uomini di una certa età dalla vita non proprio esaltante, che si muovono più che altro tra bar malfamati e addii al celibato trash. C'è un paradosso di fondo che nel vedere le foto risulta ridicolo: lo spirito del re del rock'n'roll, dell'alieno dal bacino d'oro, trascinato nel metaforico fango di un'esistenza ai margini.

Di tutt'altra pasta è la realtà raccontata da Vasco Dentro - Prova a essere me, il libro pubblicato di recente dal fotografo Ray Banhoff che raccoglie le foto e le storie di decine di italiani comuni che hanno deciso, per passione e in certi casi anche per lavoro, di essere Vasco Rossi. Sarebbe facile tracciare il parallelo con gli aspiranti Elvis, ma la differenza con l'altro re del rock di cui parlavo all'inizio, oltre ad alcuni decenni di carriera in più, è che Vasco è un uomo del popolo, tutto il contrario di un dio dorato che fluttua a un livello irraggiungibile. Per i suoi imitatori, sosia o emuli non si tratta di vivere un sogno da rockstar per un'oretta durante il weekend: chi inforca il cappellino e gli occhiali tira fuori il proprio Blasco interiore, quella parte di sé che è un po' sfrontata, un po' poetica, un po' fatta—in un urlo liberatorio che suona più o meno tipo "eeee".

vasco dentro

Ray, che all'anagrafe si chiama Gianluca, è un fotografo e scrittore che ha lavorato per Riders, City, Playboy, Radio 105, Virgin Radio Italia e RMC, tra gli altri. Il libro, che oltre alle foto contiene anche diversi scritti che raccontano le storie dei soggetti, si può preordinare su Crowdbooks. Ci siamo fatti passare qualche foto in anteprima e abbiamo rivolto alcune domande all'autore.

vasco dentro

VICE: Con quale idea avevi iniziato il progetto e che cosa hai imparato portandolo a termine? Ray Banhoff: È nato tutto da un'esigenza personale. Avevo appena perso il lavoro e lasciato Milano in pochi giorni, dopo che per anni avevo fotografato solo persone famose e poi eccomi lì, a 35 anni, tornato in provincia in Toscana dove non mi prendevano a lavorare nemmeno da McDonald's. Martina Spagnoli, che è la mia compagna e la mia editor, mi trascinò in Puglia per distrarmi un po'. Una sera vedemmo uno vestito da Vasco che si esibiva in un baretto. Una bomba, la gente piangeva, le coppie si baciavano, sembrava di assistere a un documentario sull'Italia—ma dal vivo. Il cantante incarnava Vasco. Era un muratore, un uomo semplice, parlava solo in dialetto, eppure aveva una grinta e una potenza sbalorditive. In quel momento mi dette forza. Lo ammiravo. Avrei voluto avere le sue palle. Le palle di stare lì su un palco, di affrontare la vita con la sua grinta. Lui se la godeva, mentre io ero un groviglio di ansia e paranoia per il mio conto in rosso. Decisi di fotografarlo perché volevo ancora un po' della sua adrenalina. Avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa che mi tenesse a galla. Questo progetto mi ha fatto uscire dalla palude e riprendere fiducia in me e nel mio lavoro.

Non è un libro su Vasco, lo dico sempre. Vasco è un pretesto. Mi sono messo a cercare e ho scoperto che in Italia c'erano decine di cloni di Vasco, alcuni con un seguito da rockstar, altri completamente amatoriali. Li volevo collezionare e raccontare per primo. Mano a mano che li fotografavo, nel corso di due anni e di vari cambiamenti nella mia vita, mi rendevo conto che era un lavoro importante. Ma è stata Martina a credere fin da subito che dovesse diventare un libro. Lei lo ha visto e assemblato, ha scelto le foto. Nessun editore era pazzo abbastanza da farlo perché è un libro ibrido tra racconto e fotografia (ci sono 100mila battute di testo), ma per fortuna abbiamo incontrato Stefano Bianchi di Crowdbooks e lui ha subito capito il valore di tutto questo e ci ha dato carta bianca.

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Che cosa hai capito di Vasco osservando i suoi cloni?
Quello che già sapevo studiando i suoi testi. Lui è un simbolo di cui la gente ha bisogno, perché parla di emozioni vere, perché è caduto e si è rialzato (droga, arresti, amori finiti, amici persi, tradimenti), perché è sempre stato vicino a ciò che canta. Oggi lo osannano tutti, ma per anni è stato deriso, messo in un angolo, considerato un loser. E non ha mai mollato, anzi, in quegli anni ha scritto le cose migliori. La gente questa sofferenza la prova tutti i giorni e in lui ha trovato un megafono. Quando ha cominciato a riempire gli stadi è stata una rivincita per tutti. È schietto e parla schietto e tutti lo amano per la facilità con cui lo fa. Il suo messaggio è talmente forte che la gente lo percepisce anche quando a portarlo sul palco è un tizio di 135 kg (l'ho incontrato). È come se avvenisse una trasfigurazione, qualcosa di speciale, i Vaschi canalizzano il messaggio del Vasco vero.

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Quale soggetto ti ha colpito di più tra quelli che hai fotografato?
Sono legato a tanti di loro, le loro storie sono ben raccontate nel libro. Di pancia ti dico Tonio Pappadà, un ex calciatore salentino, perché mi ha fatto piangere. Mi ha fatto imbucare a un matrimonio in una masseria in cui suonava per una coppia che si era conosciuta al suo concerto. È salito sul palco senza che la sposa sapesse nulla e quando lo hanno visto sono tutti impazziti. Gli sposi ballavano e lui cantava per loro mentre i bambini facevano casino e gli anziani mangiavano e filmavano col cellulare. Sembrava un film di Sorrentino. Tonio, mentre cantava "Stupendo" in mezzo alle damigelle e ai camerieri, piangeva. Aveva perso la sua compagna, anche lei fan di Vasco, e in quel momento di sicuro pensava a lei. Io non ne sapevo niente, ma ti giuro che mi sono commosso. Credo di aver pianto meno di dieci volte nella vita.

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Che messaggio vuoi dare con questo libro?
Questo è un libro sul riscatto. Alcuni dei soggetti saranno sicuramente visti come dei freak, ma sai che ti dico? Oggi siamo ossessionati da un'idea di figaggine che sostanzialmente non esiste. Uno sta bene ed è felice quando è se stesso. I miei Vaschi sono gagliardi e godono di quello che fanno e per me sono degli eroi. Molti di quelli che ho scattato hanno fatto di questa passione un lavoro, alcuni ci campano proprio e penso sia un bellissimo esempio di come credere in se stessi e reinventarsi. Vasco Dentro è un manuale per chi si è smarrito e non sa come fare a ritrovarsi.

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Pre-ordina Vasco Dentro - Prova a essere me su Crowdbooks.

Tutte le foto sono tratte dal libro Vasco Dentro di Ray Banhoff.

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Ghali che attacca Salvini in un pezzo con Stormzy è pura gioia

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Non c'è un punto esatto da dove tutto questo è cominciato ma potremmo metterne uno nel 2015, quando Gué Pequeno fa uscire Vero. Nella tracklist c'è "Interstellar", un pezzo con Akon, cioè un uomo con una pagina Wikipedia fantastica e una voce capace di sciogliere i corazon moradi del mondo intero a forza di "na, na, na, na". Il brano è luminoso come l'alba sulle strade di Milano, quelle su cui Gué rappa di aver fatto nascere la sua "poesia sporca". La voce di Akon è come cemento di miele tra i mattoni della "coscienza morta" di Gué. Archi e pianoforti, una batteria che ti dà le spintarelle, un'atmosfera da titoli di coda di un kolossal.

Proprio quell'anno escono "Cazzo Mene" di Ghali e XDVR di Sfera e, più o meno coscientemente, insieme ai loro amici Charlie, Izi, Tedua, Rkomi, DPG eccetera danno inizio a una nuova era del rap italiano. Quella che abbiamo chiamato "La Nuova Scuola", quella in cui abbiamo finalmente colmato il gap culturale, geografico e temporale che aveva sempre tenuto in una bolla porosa la nostra scena. E ci siamo riusciti per un paio di motivi. Il primo è il fatto che Instagram ha reso molto semplice i contatti tra gli artisti, in Italia come nel mondo. Il secondo è che le etichette, una volta messi sotto contratto questi ragazzi, si sono rese conto che 1) magari era il caso di dargli una mano e 2) avrebbero avuto una reciproca spinta dei propri artisti in territori differenti.

Abbiamo cominciato piano, spingendoci in Francia e in Spagna. Ci furono Sfera e SCH, Cinisello e Marsiglia, con "Cartine Cartier" e "Balenciaga". Nel 2017 ci fu Side Baby che si mise a trappare en el Vaticano coi Los Santos. E poi Rockstar, nella sua edizione italiana e internazionale, con quel momento di svolta per la scena italiana tutta che è stata Quavo dei Migos su "Cupido". E poi, nell'edizione internazionale, anche Rich The Kid—e Miami Yacine dalla Germania, Tinie Tempah dal Regno Unito, Lary Over da Puerto Rico a suggerire quello che poi sarebbe successo. Cioè l'esplosione della latin trap e l'affermazione di Sfera come autorità in quella scena, quel percorso che lo ha portato da "Pablo" con Rvssian fino a "Machika" con J Balvin e G-Eazy. Insomma, roba da milioni, e milioni, e milioni, e milioni di views.

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Sfera Ebbasta e J Balvin nel backstage del Mamacita Festival a Milano, fotografia di Enrico Rassu, cliccaci sopra per guardare tutte le sue foto di quella serata

Intanto gli altri non sono stati fermi. Zoda ha fatto un pezzo con scarlxrd prima dell'esplosione di "HEART ATTACK". Tedua si è spinto in Francia per stringere la mano a Sofiane e poi, insieme a Fedez, si è buttato sulla traccia insieme a Trippie Redd. Emis Killa si è trovato 6ix9ine sul disco. Vegas Jones ha flirtato col rockettone da classifica degli OneRepublic. Egreen ha coronato il sogno di chiunque ami l'hip-hop facendo un pezzo con Masta Killa, una persona che ha qualcosa a che fare con le parole "Wu", "Tang" e "Clan".

E intanto Ghali, zitto zitto quatto quatto, lavorava con un gigante francese come Lacrim. E poi con quel mastodonte del rap albanese che è Noizy. E adesso, per stringere perché sennò faccio la lista di tutti i rapper che hanno mai collaborato con degli artisti non italiani, è finito su un remix di "Vossi Bop" insieme a Stormzy. Ed è una cosa molto importante per due motivi: 1) Stormzy sta ora al rap inglese come Quavo stava a quello americano quando è uscita "Cupido" e 2) Ha un testo iper politicizzato, cosa non nuova per Ghali ma decisamente apprezzabile.

Motivo 1, spiegato: Stormzy è ENORME nel Regno Unito, e ha cominciato a esserlo da quella volta che si mise con i suoi amici a fare un freestyle per strada con il beat che usciva da un paio di casse. Si chiamava "Shut Up" ed è diventata un classico istantaneo dell'hip-hop tutto. Da lì è stato tutto un crescere, perché è riuscito a far uscire il grime dalla sua dura corazza ancor più di quanto ha fatto Skepta. E ci è riuscito principalmente con un disco intitolato Gang Signs & Prayer, un album che prendeva la tradizione delle ends londinesi e le ficcava come mai nessuno aveva fatto prima in un contesto ambizioso, complesso ma accessibile e narrativamente solido. Con le dovute proporzioni, un po' come aveva fatto Kendrick Lamar con il rap di LA.

E poi Stormzy ha cominciato a fare una cosa che gli rende onore, cioè non stare zitto di fronte alla merda del mondo. Sul palco dei BRIT Awards del 2018, una cerimonia leggermente importante, fece un freestyle in cui attaccò la prima ministra Theresa May e il governo per la gestione del disastro della Grenfell Tower, incendio in cui morirono 72 persone. E lo fece in un modo perfetto per entrare nella storia.

Prima fece "Blinded By Your Grace Pt. 2", un pezzo gospel di quelli capaci di risvegliare l'ipotesi dell'esistenza di un Dio nel brutto del mondo, bagnato da una pioggia scrosciante. Poi si tolse la maglietta e, a petto nudo, cominciò a rappare.

Yo, Theresa May, dove sono i soldi per la Grenfell?
Cosa? Pensavi ci fossimo scordati della Grenfell?
Siete criminali, e avete il coraggio di chiamarci selvaggi...
Dovreste finire in prigione, dovreste pagare i danni,
Dovreste perdere la casa in un incendio e capire come ci si sente.

E poi fece "Big For Your Boots", il pezzo più incendiato del disco. Risultato? Nel giro di qualche giorno il governo inglese rispose ufficialmente al freestyle, chinando il capo. Ora Stormzy sta per pubblicare il suo nuovo e secondo album. Ha appena fatto l'headliner a Glastonbury, il festival più importante del Regno Unito. È stato il primo rapper inglese della storia a farlo. "Vossi Bop", il singolo di lancio, è una dimostrazione di stile e forza—record di stream per un rapper inglese in una settimana, primo posto in UK.

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La copertina del remix di "Vossi Bop" di Stormzy con Ghali, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify

Oggi di "Vossi Bop" sono uscite una serie di remix. Uno con i tedeschi Bausa e Capo, uno con gli svedesi Aden e Asme, uno con la norvegese LAUREN. E poi uno con Ghali, che poteva tranquillamente mettersi nel curriculum un feat con Stormzy e a posto così, e invece ha scritto una strofa di quelle che non gli venivano fuori da tanto. Lo ammette pure lui all'inizio:

"Compro villa a mamma con un pezzo pop / Anche se l'ultimo anno ho fatto qualche flop"

Metterla sulla fragilità e l'onestà è una mossa che fa onore a Ghali, soprattutto dato quello che succede appena dopo, cioè una splendida strofa rap che fa nomi, prende posizioni e dice cose—tutto quello che ci ha fatto innamorare di lui dai tempi di "Dende" e "Wily Wily". "Salvini dice che chi è arrivato col gommon / Non può stare .it ma stare .com / Anche se quando consegnavo pizze ai campi rom / Mi lasciavano più mance degli artisti pop", dice Ghali, con una rima un po' naïf ma perfettamente coerente con lo stile inclusivo, scanzonato che ha sviluppato negli ultimi anni.

E poi, però, alla fine va sul concreto: "Alla partita del Milan ero in tribuna con gente / C'era un politico fascista che annusava l'ambiente / La squadra da aiutare a casa propria praticamente / Forse suo figlio è pure fan che mi guardava nel mentre". Non fa nomi, qua, ma i rapporti di Salvini con alcuni membri di un gruppo ultras della curva del Milan—quel luogo in cui sembra dimenticarsi che odia il crimine e in nome del suo cuore rossonero viene fotografato con colui che avrebbe altrimenti chiamato un "venditore di morte"—sono documentati.

E insomma, Ghali non sarà Stormzy e Salvini non sarà (pheeew!) Theresa May, ma scegliere di scrivere una cosa così su un pezzo così con un rapper così è pura gioia. E pure il ritornello con il francese e l'arabo. Tutto bello, bravi tutti, continuiamo così.

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Ho provato a divertirmi al Jova Beach Party

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Il benvenuto alla data di Cerveteri del Jova Beach Party lo dà una scritta appena fuori dalla zona del live: "No lavoro gratuito". Un'allucinazione? No, un riferimento al fatto che, come riporta Jacobin, ai concerti in spiaggia di Jovanotti lavorano volontari che scambiano 16 ore del loro tempo in cambio di due pasti e un gadget. E che tutto è partito proprio da un volantino rilasciato dal comune di Cerveteri, la tappa a cui mi trovo. Nel dubbio, comunque, anch'io mi sento un po' martire sotto il sole: sono le 15, sono in carovana per le strade afose e blindate del lido insieme a migliaia di persone e questo festival mi sa già un po' di tour de force.

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Benvenuti al Jova Beach Party!

Oltre alle polemiche sul volontariato ci sono quelle di Legambiente e di Reinhold Messner sull'effettivo impatto ambientale dell'evento—che, va comunque detto, è organizzato insieme al WWF. E insomma, mentre io e la mia amica Maria Giulia passiamo i tornelli penso che dovrò chiedere ai fan se almeno a loro interessa qualcosa di questa storiaccia. All'ingresso vero e proprio, un arco color arcobaleno, ne incontriamo già tantissimi: si scattano foto che neanche alla Torre di Pisa. Io per folclore decido di emularli, ma con risultati deludenti.

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L'autore indica il cielo.

Entriamo che i primi ospiti, gli Ackeejuice Rockers, stanno per finire ma ci troviamo subito davanti nientepopodimeno che il Jova, che si prodiga in presentazioni di rito. È vestito in maniera eccentrica e ha un panama enorme in testa. Più tardi uscirà con dei pantaloni argentati. E poi un cappello da capitano. Ormai il suo personaggio è questo: ossessione per l'AFRICA (rigorosamente in caps), aria da capopopolo ma stravagante perché comunque le uniformi no, una specie di Willy Wonka del pop italiano. Tutto inclusivo, positivo, a metà fra il santone e il domatore di circo. Sul palco si toglie subito sassolini dalle tasche scarpe: "Questo è un evento organizzato con il WWF. Ambientalisti coi fatti, mica con le chiacchiere".

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Ci sono tre palchi al Jova Beach Party, dice il Jova. Quello su cui si trova, lo SBAM! e il Kon-Tiki—"un palco dedicato alla ricerca dell'inutile, che è bellissima", dice. E se lo dice lui gli crediamo, ma dispiace un po' per le band che ci suonano sopra, che magari un po' di utilità la cercano con la loro musica. E poi: "Il Jova Beach Party nasce dalla follia. Ma nulla di grande è mai stato fatto senza follia". Bene: sono le 16, fa un caldo allucinante e probabilmente l'unica follia è la nostra che abbiamo scelto di venire a ballare così presto.

Attaccano Devon & Jah Brothers, un gruppo reggae di Rimini, ma visto che siamo a un "Beach party" e la fila all'ingresso ci ha provati andiamo nella parte di spiaggia riservata per il bagno. La situazione è da vacanza fantozziana: il lembo di sabbia è minuscolo, sovraffollato all'inverosimile e a fatica si trova un angolo per lasciare il proprio zainetto. Proprio come nelle migliori spiagge libere dello Stivale.

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La spiaggia del Jova Beach Party di Cerveteri

Individuiamo uno spiraglio, ci tuffiamo e iniziamo a conoscere i nostri compagni d'avventura. Chiara, Roberta e Matilde lo dicono subito: "Siamo venute per Jovanotti, del resto non ci importa granché. Questa musica è piacevole come sottofondo, ma poco altro". Poi chiedo del volontariato, se la storia le ha turbate, cose così. Loro non hanno "seguito la vicenda". Mi sa che, a un concerto pop come questo, la questione dei volontari non è granché popolare.

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Chiara, Roberta e Matilde

La conferma arriva dopo. Simone, qui per accompagnare la fidanzata, è uno dei "curiosi": "Una delle mie band preferite sono gli Afterhours, anche se Jova non mi dispiace", mi dice, ma sul volontariato nicchia. Facciamo un altro giro sulla questione, mentre ci dirigiamo verso 'sto famigerato Kon-tiki stage in slalom fra asciugamani e persone, e il risultato è lo stesso: nessuno tra gli spettatori sentiti pare interessato alla vicenda.

Soprassediamo per sfinimento, anche perché Lorenzo ha raggiunto i Devon & Jah Brothers per una jam. La sua presenza risveglia le folle e neanche i più disinteressati resistono al richiamo. Gli unici a non muoversi sono i duri e puri, asserragliati sotto il palco principale dove il Capo si esibirà alle 20:30: per loro la festa rimarrà un sottofondo. Carina la performance, anche se quando il Jova torna nel backstage la situazione è la stessa di prima: atmosfera rilassata, volume non altissimo e non troppi spettatori a seguire. Pure perché il Kon-Tiki stage è in mezzo al nulla e sotto il sole: non è facile sopravvivergli.

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La jam del Jova

Il mood, almeno in queste prime ore, è chiaro: complice l'afa regna un velato disinteresse, con le coscienze risvegliate solo dalle sortite di Lorenzo puntuali anche con gli ospiti successivi. Lui qui è nel suo mondo, una specie di Dio fra adepti devoti al suo merchandising, come ci ricorda una enorme riproduzione della preistorica Venere di Willendorf che torreggia sulle nostre teste assolate.

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Mitomania a parte il villaggio è ben costruito, anche se non troppo originale: oltre a una vastissima area food, il resto è in mano a stand di sponsor come in ogni grandi festival che si rispetti. Corona si presenta con una scultura di un'onda del mare composta da bottiglie di plastica per denunciare la presenza di plastica nelle nostre acque. Teoricamente sarebbe un'installazione di cui non c'è da ridere, eppure c'è chi ci si fa i selfie. Ah, il dark tourism.

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"Franco, sorridi e dì 'oceani inquinati!'"

Il leitmotiv di ogni angolo del festival—se non fosse ancora chiaro—è l'ambientalismo o, comunque, uno spirito propositivo segnato da quel politically correct tipicamente jovanottiano. Il pubblico è composto da millennial, rigorosamente "fan di Jovanotti" e rigorosamente vestiti da spiaggia.

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Il pubblico del Jova Beach Party

In pochi, mi dicono, frequentano feste al mare diverse da un aperitivo domenicale. Quando ci mettiamo in fila per i token—la moneta interna di praticamente ogni festival, e anche del Jova Beach—abbiamo la conferma che non si tratta di habitué da eventi simili. "Ma se a fine serata mi avanzano dei token che posso fare?", domanda allo staff il tipo davanti a me. "Niente, non sono rimborsabili". "Ah. Che sòla", mugugna andandosene. Saggio le abitudini dei fan anche con Giuseppe, a cui chiedo se frequenta festival. "Sì, ne ho fatti tantissimi. Uno di quelli a cui mi sono divertito di più è il Festivalbar". Forse mi sono spiegato male io.

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Giuseppe, al centro, e i suoi amici

Sono quasi le 18, fa un caldo impressionante e siamo a rischio insolazione. Oggettivamente non è facile proseguire se non si è animati dal sacro fuoco del Cherubini. Scopriamo così le "zone ombra", le cui promesse sono un mezzo bluff: sono piccole e ovviamente pienissime. Lì comunque conosciamo Elena e Martina, due ragazze in cerca di riparo: "È una bella faticaccia, però se sei fan di Jovanotti fai il sacrificio". Ecco: una questione privata da fan, diciamo. Qualche metro più in là, a proposito di fan, incontriamo uno che a occhio e croce è tipo il sosia di Jovanotti.

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Lui se la gode e non teme il sole, al contrario di chi improvvisa zone d'ombra lungo un bel muretto.

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Le zone d'ombra improvvisate

Nel frattempo i musicisti si susseguono e, dopo aver fatto una doccia, mi ricordo che in fondo sono qua a fare il reporter e mi metto a ballare. L'atmosfera è ancora quella: Jovanotti appare e scompare, scherza, presenta gli ospiti, improvvisa con loro. Lancia video-messaggi pro-ambiente, sia suoi ("Dobbiamo lasciare questo posto meglio di com'era prima") che di italiani eccellenti. Ne arriva uno di Renzo Piano: "Il bello di costruire castelli di sabbia". Se solo ci fosse spazio sulla spiaggia, giuro, ne faremmo uno adesso.

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Il pubblico del Jova Beach Party

Mentre mi scuoto sotto il sole, mi ricordo che come in ogni data anche stasera ci sarà un ospite a sorpresa. Quindi scrollo un pochetto e scopro che sarà Gianni Morandi. Un po' deluso, dato che avrei preferito er fijo, chiedo un po' in giro che cosa ne pensa la gente. Approccio tre ragazze che stanno effettivamente ballando da ore. Sono Asia e le sue amiche. Mi raccontano di essersi divertite soprattutto perché "qui c'è ogni tipo di musica", ma per l'ospite speravano in meglio. Mi dicono di ascoltare "di tutto", ma invece di chiedere che cosa ne pensano dell'opera di Arvo Pärt e del city pop giapponese decido di cambiare interlocutore. La risposta che ottengo è "pensavo peggio". In linea di massima pare che comunque l'ospite non importi molto. Il focus resta Jovanotti: quando attacca, quando appare, cosa fa.

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Il pubblico del Jova Beach Party

Qualcosa si muove dopo le 18 con il DJ newyorkese Nickodemus, che la butta sulla dance. Il pubblico inizia a essere davvero partecipe: sulla sabbia si vedono un sacco di splendidi zarri, oltre ai primi over 30 e ai millennial di prima. Tutti sono accomunati dal merchandising del Jova, un'ossessione che prende forma di fascette, magliette e cappelli. Visto che i miei compagni d'avventura sembrano pieni di energie, mi chiedo se un cappellino con scritto JOVA copra e rigeneri più di quanto faccia il mio panama.

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Un fan del Jova al Jova Beach Party

La festa, comunque, sembra davvero una festa e non un live. La gente la vive tranquilla: volano Corona almeno quanto i suddetti cappelli, ma sono tutti lucidi, sobri, educati e rispettosi della situazione. Si balla come si ballerebbe a un party in spiaggia, anche se ovviamente c'è chi si tiene stretto la prima fila e chi rimane per cazzi suoi. A fine serata si conteranno quarantamila paganti, e cercare un comportamento uniforme sarebbe assurdo. Semmai, l'unica omogeneità, qui, sembra essere l'adorazione per il Nostro e il suo merchandising.

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Un devoto del Jova tocca il Jova ed è molto felice

Poi c'è l'immancabile componente trash del matrimonio. Lorenzo, con fascia da sindaco zebrata, unisce una coppia per ogni data. Purtroppo questa è la prima volta in cui gli sposi ci hanno ripensato e il momento passa in cavalleria. Se non altro, per soddisfare i nostri pruriti, il Capo ci racconta la vicenda: i "fortunati" di ogni data sono stati sorteggiati otto mesi fa, senza riserve, così che quando il disertore la scorsa primavera ha deciso di lasciare la compagna sull'altare non c'è stata possibilità di sopperire. Rimarremo a bocca asciutta, ma almeno inizia una shitstorm—ovviamente politically correct—sul guastafeste: "Se un ragazzo ci prova con voi stasera dicendovi che si chiama Federico evitatelo: potrebbe essere lui", dice il Jova scherzando, bruciando così qualsiasi chance di limonare a tutti i Federici single presenti.

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La security impedisce agli altri fan del Jova di toccare il Jova

A questo punto il mancato cerimoniere e i suoi improvvisano "Serenata Rap", mentre io assisto alla scena con accanto due signore che urlano "sei bellissimo" a Saturnino, il celebre bassista, che stranamente non ha addosso del merch del Jova ma una maglietta di Unknown Pleasures.

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Nella foto: la reazione media del pubblico alla presenza di Saturnino

Dopo la cumbia dei Los Wembler's de Iquitos è finalmente ora di cena: siamo esausti, ma il clima è diventato respirabile e l'area concerto è spaziosa. Benny Benassi apre il main stage ("Quello con l'impianto forte"), ed è allora che iniziano ad arrivare davvero tutti: i genitori coi bambini, chi ha staccato da lavoro, i liceali. Alle otto e venti è il momento del Jova, che però più che un concerto fa una performance. C'è un po' di consolle e un po' di chitarra, un po' di solismo e un po' di band. Tiene la cassa dritta, mette su il sirtaki e poi "Get Lucky" dei Daft Punk. Un bambino accanto a noi canta a squarciagola con la madre, vestita rigorosamente Jova.

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I fan del Jova durante il concerto del Jova. Notate un cappellino?

Dietro partono trenini, cori e abbracci. Un ragazzo bacia una ragazza: probabilmente non si chiama Federico, ma non me la sento di disturbare il loro limone per chiederglielo. Insomma, è tutto molto godibile da tutti, e quindi perfettamente riuscito.

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Non-Federico che bacia una ragazza.

E così finisce il mio Jova Beach Party, stremato dalla giornata mentre ballo per inerzia sotto il mio panama. Il cappellino Jova, capisco uscendo, è solo per i veri adepti. Per noi estranei esiste solo il caldo.

Patrizio è su Instagram.

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Francesco Zappalà: perché l'Italia non è un paese per DJ

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Poco tempo fa mi sono preso qualche giorno di vacanza per andare a Tropea, in Calabria; un po' perché il mare lì è bellissimo, un po' per andare a trovare una mia amica, tornata ad abitare in Italia dopo un periodo a Berlino durante il quale ha conosciuto un uomo, se ne è innamorata e ci ha fatto uno splendido bambino. Quest'uomo è Francesco Zappalà.

Zappalà non ha bisogno di presentazioni, essendo stato nei Novanta una vera e propria icona del DJing: vincitore della DMC Competition contro, tra gli altri, Giorgio Prezioso e Lory D, sarà l'unico italiano ad arrivare al secondo posto alla Battle for World Supremacy a New York, così come anche ai campionati mondiali alla Wembley Arena di Londra. Oltre ad aver girato tutte le discoteche più importanti del mondo col suo stile acrobatico, è stato un grandissimo divulgatore della musica elettronica in Italia.

Proprio nei giorni in cui mi trovavo a casa sua è emersa la notizia del fallimento della storica discoteca Cocoricò di Riccione, tempio della techno italiana nel corso degli anni Novanta. Ovviamente il rapporto di Francesco con il Cocoricò è stato intenso, quindi abbiamo deciso di fare una bella chiacchierata partendo da quella che sembra una vera e propria chiusura di un cerchio sia artistico che umano.

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Francesco Zappalà al Cocoricò

Siccome sei stato frequentemente ospite e animatore del Cocoricò, mi farebbe piacere sapere cosa pensi del suo fallimento.
Con la chiusura del Cocoricò quest’estate si chiude un po’ un'epoca. È la fine di un declino, in un certo senso, l’onda lunga della techno e di un modo di fare clubbing che in Italia aveva preso piede e poi per un motivo o per un altro si è smontato, per usare un termine diplomatico. Il Cocoricò lo vidi nascere nell’estate del 1989, partecipando alla Walky Cup Competition. Ancora ero un DJ di scratch con un orecchio alla house music, genere che stava montando alla grande. Quell'estate Rimini e Riccione erano in subbuglio.

Qual è stato il tuo percorso prima di arrivare là? Facciamo un po’ di storia.
Il mio background parte un po’ più indietro, a metà degli anni Ottanta. Da ragazzino sentivo l’hip hop, che era una musica di rottura, e tra l’altro era quella che serviva per fare i contest di scratch. Quindi arrivo da là e dal british pop: Nik Kershaw, Depeche Mode, tanto per citare i più famosi.

Quando parli di contest ti riferisci alle cose con Radio DeeJay?
Sì, proprio la Walky Cup a Riccione. Che tra l’altro era una gara molto prestigiosa, anche perché c’era un premio in danaro di cinque milioni di lire, non era una garetta, veniva gente da tutta Italia a farla. Avrei voluto suonare house music, ma per me era difficile perché ero confinato nella categoria dei DJ da gara. Ero un DJ da un quarto d’ora, insomma. Quando vinsi il titolo andai in giro per l’Italia a fare la mia tournée e tutti si aspettavano di vedere lo Zappalà dei piatti. Mettevo i dischi sui piedi, scratchavo acrobaticamente… Con Radio DeeJay però fu l'unica collaborazione, poi passai a lavorare con Rete 105, come proprio DJ techno. Alla Walky Cup però ricordo un giovane Fiorello...

... A fare il gigione tra le consolle, ricordo perfettamente.
Era una situazione molto simpatica. C'era anche Linus e altri grandi personaggi agli albori della loro carriera, mentre noi eravamo 'sti DJ pazzi, non solo io, c’era per esempio Digital Boy che portava i primi campionatori, oppure DJ Lelewell alias Daniele Davoli (che poi fondò i Black Box) che faceva una performance molto goliardica. Quella gara la vinsi io, poi Cecchetto intuì la spettacolarità di quella edizione e in un paio di pomeriggi ci fece registrare tutti.

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Francesco Zappalà al DMC World Contest 1990, clicca sulla foto per vedere il video

Quindi erano due contest distinti.
Sì, uno televisivo, che durava due minuti, e quello serale che prevedeva il premio in denaro, per il quale avevamo poco meno di un quarto d’ora per fare l’esibizione.

E com'era?
C'era un bel clima. Ricordo che quando andavo a dormire passavo davanti a questo locale che mi dicevano che sarebbe diventato di tendenza, ma non mi dicevano neanche il nome. Era quello che poi sarebbe diventato il Cocoricò. C’era la punta della piramide grezza, non era ancora nemmeno rivestita. Avrebbe aperto l’anno dopo. A partire dagli anni novanta è iniziato un trend al quale molti locali si sono ispirati. Io poi ho avuto la fortuna di lavorare a Match Music, costruendomi una certa credibilità come DJ di musica elettronica. Tentavo di scrollarmi di dosso questa caratterizzazione da DJ hip-hop che mi era stata data.

Quando hai avuto questa svolta storica?
Immediatamente. Prima delle gare il mio obiettivo era fare il DJ, quindi mi sbattevo per fare le feste, me le organizzavo. A Roma fui il primo DJ in vetrina, nel negozio della Energie.

La nostra generazione, soprattutto quella romana, era di stampo Energie. Anche se non eri del tutto aderente a quel tipo di estetica prima o poi dovevi farci i conti.
Erano punti d’incontro. Feci quei cinque o sei mesi, con l’obiettivo di fare musica, fare ballare. Andavo a prendere i dischi nei negozi della zona e così Paolo Zerletti di Mixup mi diede delle VHS di gare tra DJ. A Energie c'era uno schermo gigante, che per l'epoca in un negozio di abbigliamento era un'attrazione incredibile, e cominciai a mettere questi video sul megaschermo. Rimasi folgorato. Sempre in quel periodo vidi dal vivo, nella stessa sera, Run DMC, Public Enemy e Derek B al Palatenda Strisce.

In che anno?
Penso fosse l'88. Fu una bomba. Vidi DJ scratch con la cintura da campione, che si arrampicava sulla consolle… insomma, sono tornato a casa e ho iniziato a imitarlo. Visto che ci riuscivo, mi sono buttato nella mischia. Per me è stato un trampolino, invece l’impresario appena dopo aver vinto il titolo di campione mi vedeva già finito. Ho dovuto ritagliarmi spazi e credibilità per impormi anche in quello che mi piaceva, che era la musica house più techno. Io ascoltavo l’acid house, la new beat, poi arrivò l’ambient… sembrava che ogni anno ci fosse un genere nuovo. Ma in fondo era sempre la solita house music che si districava in vari micro generi, stava germogliando.

Poi è arrivata Rete 105.
Venni chiamato da Rete 105 perché forse mi vedevano come una risposta allo strapotere di Albertino.

Strapotere di cui abbiamo scritto ampiamente quando, per Radio DeeJay e per lui, si è chiusa un’era con il suo passaggio a m2o.
Certo. Ma mentre Albertino è sempre stato più commerciale, io ero sull'onda dei rave più estremi, quelli della scena romana. Avevo già le idee abbastanza chiare: volevo mettere roba tipo Lil Louise o Adamski e promuovevo anche artisti italiani come Leo Anibaldi. Fu una collaborazione breve, circa un anno e mezzo. Però oggi, a bocce ferme, riconosco che ero un po’ troppo estremo per il loro target.

francesco zappalà 2002
Francesco Zappalà nel 2002, clicca sulla foto per ascoltare un suo set al Jaiss

E dopo 105 che facesti?
A quel punto arrivò la svolta. Avevo fatto una serata al Cyborg e chiamai Gabon, che all'epoca faceva questo after chiamato Exogroove al Momà, che era a pochi chilometri. Lo chiamai e gli dissi che volevo suonarci perché avevo bisogno di farmi vedere in posti come quello. Suonai intorno alle nove, fu un grande successo e conobbi un bel po’ di promoter. Lì cominciai a farmi i contatti che poi a metà anni Novanta mi portarono al mio periodo d'oro.

Poi hai anche avuto a che fare con Aphex Twin, vero?
Dopo 105 feci l'inviato per Match Music, che doveva essere un po' il programma erede di DeeJay Television. Così mi trovai all'Energy '93 con un operatore in uno dei backstage più belli a livello techno che abbia mai visto. C’erano Carl Cox, Sven Vath... e la ciliegina sulla torta fu Aphex Twin. Lui fece un live come non ne ho mai più visti. Sai quegli eventi unici che dici "ammazza, c’ero anche io"? Dopo che tutti avevano suonato a manetta, lui si mise lì nella posizione del loto, in terra, quasi coperto dalle macchine, tutti 'sti computer aperti, 'ste macchine svitate... Mi dissi: "Mo' je menano!"

Sarebbe stata una possibilità non da escludere!
Invece è sceso un religioso silenzio: bellissimo, c’erano proprio i buttafuori che prendevano le macchinette fotografiche dal pubblico, si avvicinavano quasi in silenzio per non disturbare, facevano le foto e ritornavano indietro. Fu tutto avvolto da una magia unica.

È qui che inizia la tua storia d'amore con il Cocoricò?
A metà anni Novanta non ero ancora riuscito ad andare oltre ad alcune apparizioni al Morphine con Davide Roccalò. C’era Loris Riccardi come art director, vulcanico e creativo, ricordo la collaborazione con il grandissimo Maurizio Arcieri e Cristina, i Krisma, che a quel punto si erano messi a fare anche techno. Però non riuscivo a fare questa benedetta piramide.

Incredibile! Nonostante il tuo palmares?
Le cose cambiarono intorno al '96 con Ferruccio Belmonte. Lui mi tirò dentro il venerdì come resident insieme al grande DJ Ricci. Nei vent’anni successivi ci sono stato spesso. Nel 2001 ero proprio resident fisso. Fu una grande esperienza. Negli anni di Loris, il Cocoricò era un vero locale di rottura.

Suonando là hai un po’ assunto quell'aura mitica di trasgressione che accompagnava il locale.
Loro contavano molto sulla trasgressione. Era il linguaggio dei primi anni Novanta. Mi ricordo che una volta sono entrato e nel pavimento c’erano dei figuranti o animatori letteralmente “ibernati” in questi cubi simil-ghiaccio, e tu gli passavi sopra [ride]. Un’altra volta sono entrato e mi sono trovato in mezzo a quarti di bue grondanti sangue, proprio in mezzo alla gente, lungo il percorso che portava alla Piramide! Era sempre roba dall'impatto molto forte.

Era un locale unico.
Era ambito da tutti. Era un delirio, però bello. Era curato nei minimi particolari, un locale pensato per questo genere e con questa filosofia. Sono state annate molto interessanti.

Ecco, ma quelle annate non combaciano con la tua carriera di producer? Perché in realtà tu sei un DJ, ma poi sei passato a fare cose tue.
Da producer ho fatto il percorso inverso. Perché le porte della produzione mi si sono aperte con la Media Records a cavallo della mia esperienza di DJ da gara, quindi nel mio momento di massima pubblicità, quando venivo raccontato come il DJ italiano che andava in America o a Londra a misurarsi coi migliori. E quindi mi affiancarono un team di persone e feci subito un paio di hit commerciali in cui saccheggiammo selvaggiamente dai Roar a Bobby McFerrin, e non mi sembra che siano neanche arrivate cause a riguardo.

Speriamo che non arrivino dopo questa intervista!
Magari gli è pure piaciuto… [ride]

Per molto meno i KLF si sono ritrovati quasi al gabbio.
All'epoca si rischiava grosso e in generale si rischia grosso anche oggi. Comunque, tornando alla storia: nel Novanta, diciamo, ho fatto questo paio di produzioni commerciali con loro, ma poi mi sono subito rotto le palle perché volevo fare techno. Così ho cancellato tutto e mi sono aperto uno studio. Io sono un producer appassionato, ho sempre collezionato le 808, 909 tutte le cose che servivano per fare la house e la techno, però non sono mai stato veramente prolifico. Una traccia l'ho beccata però, "GSM", fatta in coppia con Paolo Kighine, quella ci ha dato delle soddisfazioni. Ho visto che ci sono DJ più giovani che la suonano ancora in giro per il mondo.

francesco zappalà memorabilia cocoricò
Francesco Zappalà al Cocoricò

Evidentemente hai seminato bene.
Però sono sempre stato molto arido come producer, sia perché voglio fare le cose che assolutamente piacciono a me, ma soprattutto sono troppo pigro per farle uscire. Quindi ho sempre pubblicato poco.

Al Cocoricò proponevi anche le tue tracce?
A volte sì, anche al Jaiss, altro club di riferimento in Toscana. Questi erano i club dove facevo i miei esperimenti musicali. Un altro fu l’Insane, nel quale cominciavo sempre dal Dat. All’ epoca non c’era nemmeno il CD. Sperimentavo, poi qualcosa usciva.

Ultimamente tu sei anche tornato al Cocoricò per una serie di serate chiamate "Memorabilia". Qual era la situazione?
Vedere il Cocoricò pieno dà sempre una soddisfazione speciale, e poi è bello sapere che c'erano persone che lo frequentavano venti o trent'anni fa, ma anche giovanissimi. Ragazzini dai 16 ai 20 anni che però sono cresciuti col mito del Cocoricò, cercando la musica dell'epoca.

Qual è stato il problema del Cocoricò secondo te?
Non so se fosse il problema, ma un problema è stato il tentativo di cavalcare eccessivamente il richiamo internazionale della consolle senza coltivare realmente una figura portante che potesse essere di riferimento per un club così importante. Non voglio togliere nulla al grande Cirillo DJ resident che ha passato la vita là dentro. Però se avessero investito, per dire, sulla mia figura non ci sarebbe stato bisogno di fare il Memorabilia. È stata la cultura troppo esterofila a portare alla chiusura. Si facevano serate con DJ talmente importanti che avevano prezzi improponibili anche per un locale importante come il Cocoricò. Quando non hanno più potuto rischiare così grosso, hanno messo in piedi questo Memorabilia.

Ma forse c’è anche dell'altro che ha portato a questo crollo verticale?
Non posso sapere bene tutte le dinamiche. Posso solo dire che ho lavorato con tutte le gestioni del Cocoricò. Con me sono sempre state persone serissime, poi però ho letto qualche mese fa che erano stati pignorati i marchi, quindi probabilmente c'erano problemi che io nemmeno immagino. Ti posso dire che fossi stato io l’art director non avrei chiamato gente come Salvatore Ganacci. Tu lo conosci?

No.
Eh, infatti. Manco io sapevo chi fosse. Ed è meglio non saperlo mai.

Addirittura?
Ci sono dei DJ a cui non avrei mai fatto mettere piede al Cocoricò, anche per rispetto della sua storia, della sua sacralità. Per noi DJ techno il Cocoricò è stato un tempio. Ci ha dato tanto e ci ha dato la possibilità di dare tanto alla gente.

A questo proposito, parlando di trascinatori delle masse, ho visto che hai rifatto anche cose con il mitico Franchino.
Ho lavorato più con Francesconi al Jaiss, però sì, alla prima serata all'Imperiale c'era Franchino. Sto parlando del Franchino furioso dei tempi d’oro, all’Imperiale da mezzanotte a mezzogiorno, gli afterhour quando ancora nessuno aveva idea di cosa stava succedendo. Ogni tanto ci si incrocia ancora, ma abbiamo agenzie diverse quindi non ci sono tante occasioni di collaborare. Tra l'altro la figura del vocalist al Cocoricò non è mai esistita.

Ah vero, questa è un'altra caratteristica molto peculiare del posto.
Sì, lo rendeva diverso da tutti gli altri. Mentre imperversavano queste voci carismatiche, come Franchino, Francesconi, Tony Bruno, Merlino o il Principe Maurice, al Cocoricò c'era solo musica. Col memorabilia poi è stato rotto questo tabù, perché essendo un'operazione di recupero degli anni Novanta filologicamente la presenza di un vocalist è sacrosanta.

francesco zappalà memorabilia cocoricò
Francesco Zappalà al Cocoricò

Secondo te la figura della discoteca ha ancora un senso oggi? Vedi delle evoluzioni? Tra l’altro tu hai avuto anche una parentesi berlinese.
Io ho la mia idea complottista, cioè che a metà dei Novanta il movimento techno/acid che si basava su afterhours e feste all'aperto stava per prendere davvero piede, ma sono successe un po' di cose che l'hanno fermato. C’è stata molta repressione: un anno in particolare, in una settimana purtroppo morì un ragazzo al The West e una settimana dopo un altro ragazzo all’Exogroove, cosa che di fatto chiuse i giochi. C’erano le mamme antirock, un movimento molto attivo che nonostante il nome dichiarò letteralmente guerra alla discoteca in quanto tale, e da lì è stato un lento declino. Lento perché l'onda era troppo forte, ma ormai nel 2019 in Italia la cultura del clubbing s’è quasi persa. Negli anni Novanta in una regione come la Toscana c’erano almeno cinque locali che facevano duemila persone a sera, di sabato. Oggi questi locali hanno praticamente tutti chiuso. E tutta la gente che ama la techno l’ho rivista a Berlino.

Quando ci sei andato?
Nel 2010. Mi sentivo un po’ in gabbia in Italia, con la testa da DJ ma senza più le masse da far ballare. C’era una desolazione culturale a livello di suono. Sembrava che esistesse solo tutto su internet. Si era persa la cosa di andare a cercare i dischi a Londra o ad Amsterdam, il gusto di avere della musica che avevi solo tu, con la gente che ti seguiva tutte le settimane per sentirlo. A metà degli anni Duemila tutti hanno cominciato a fare i “producer”, tutti avevano tutta la musica del mondo. Io stesso ho abbandonato il vinile per un po’, facendo dei live con Ableton. Poi nel 2010 ho notato che erano già quattro anni che non raccoglievo i frutti sperati da tutto questo mio mettermi in discussione.

Comunque è più che giusto rinnovarsi, sperimentare nuovi linguaggi.
Però io devo stare in pace con me stesso, devo fare qualcosa che mi piace. In quel periodo mi sono intrippato con Ableton, a fare a fare una cosa live molto articolata che poi ho rivisto qualche anno dopo allo Space fatta da Carl Cox, in maniera anche abbastanza elementare. E pareva che fosse sceso il Padreterno, mentre io non ottenevo nulla!

Eh, i grandi classici dell'ignoranza collettiva, della superficialità spacciata per stile.
Diciamo che non sono riuscito a prendere quel treno, o meglio non sono riuscito a conquistarlo come ero abituato a fare. Cioè stando davanti alla gente facendola ballare. Negli anni Duemila non bastava più, era entrata la comunicazione pesante, un modo di produrre a larga scala. Così me ne sono andato a Berlino perché qui non vedevo sbocchi. E lì mi sono ritrovato nella stessa atmosfera che c'era da noi vent’anni prima. Lì la gente vuole fare festa, sta lì per la musica, il DJ neanche si vede, devi chiedere in pista chi sta suonando e neanche ti rispondono. Quindi l’underground me lo sono andato a vivere a Berlino. Respirandolo, cavalcandolo, buttandomi via, stando al Panorama bar per tre giorni di seguito, però mi sono rifatto le orecchie. E soprattutto sono arrivato alla conclusione che invece la magia per quanto riguarda i DJ come me è quella di mettere i dischi, cosa che a Berlino è molto apprezzata. Alla fine sono andato a Berlino per vedere dove andava la musica, ma soprattutto per riscoprirmi DJ di vinile.

E quando te ne sei andato via da Berlino?
Nel 2016 circa, perché lì ho conosciuto la mia compagna Serena e insieme ci siamo trasferiti al caldo del Sud Italia per crescere il nostro Giorgino, che è il nostro capolavoro.

E ora da Berlino ci porti un nuovo lavoro, giusto?
Sì, è uscito un mio nuovo disco da dieci giorni, realizzato tra Berlino e Torino con Sviz e uscito per la sua etichetta Easy Life. È grazie a lui se è uscito, io come ti dicevo prima sono un po' pigro. Ho fatto un sacco di collaborazioni anche a Berlino, però non mi sono mai preoccupato di far uscire i dischi. Infatti era tanto che non uscivo in vinile.

Come vedi il futuro del DJing?
Il futuro me lo immaginavo di più quando avevo trent’anni. Adesso, sinceramente, cerco di capire il presente. Oggi vedo che ci sono molti altri generi più in voga a differenza della techno, quindi se vuoi fare successo come producer c’è la trap. Però se dovessi dare un consiglio sarebbe di iniziare con le basi e appassionarsi a fare musica oggi conoscendo tutto il percorso, che tutto sommato è breve.

Quindi in qualche modo reinventare il presente.
Per quanto mi riguarda, scavando nel mio passato e riattingendo dal vinile ho ritrovato gli stimoli giusti per ascoltare la musica. Perché è un modo più istintivo di capire la musica, attraverso una copertina, un nome, un'etichetta. Ho massimo rispetto per la tecnologia perché mi ha permesso di fare il producer, però dietro il vinile c’è ancora quel tocco di umanità. Ma questo è come lo percepisco io, la nuova generazione magari ritrova la stessa cosa anche in chi produce il suono in digitale, ma io penso che mi specializzerò sempre di più in quello che so fare: il suono analogico, la bassline che gira, una 909 a cassa diritta. Voglio morì così [ride].

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo: Italian Folgorati.

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Ecco i nuovi nomi del Club To Club 2019

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Vi avevamo già detto che il Club To Club 2019 prometteva bene, e oggi, a 100 giorni dall'inizio del festival, è arrivato un nuovo annuncio che arricchisce ulteriormente la line up. Ecco la seconda ondata di nomi che saliranno sul palco a Torino dal 30 ottobre al 3 novembre:

Battles / Floating Points / Helado Negro / Issam / Samà / Spencer D (DJ set Kankyō Ongaku, Japanese Ambient, Environmental & New Age Music 1980-1990) / Spime.Im / 72-HOUR POST FIGHT

Nell'artwork qua sotto c'è l'elenco completo (finora) degli artisti che si esibiranno, per vedere il programma diviso per giorni e acquistare i biglietti visita il sito di Club To Club.

club to club 2019

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I migliori video di Hype Williams, il regista più importante del rap

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In Italia non è molto conosciuta, ma Megan Thee Stallion è una rapper che sta facendo molto parlare di sé negli Stati Uniti ora come ora. Da poco ha annunciato una cosa intitolata Fever: Thee Movie, un video che sembra ispirato ai film blaxploitation degli anni Settanta—uno dei riferimenti di Quentin Tarantino nella creazione di Kill Bill, per intenderci. Nel trailer compaiono due rapper che hanno lavorato con lei al suo ultimo album, DaBaby e Juicy J, ma la cosa veramente interessante è la scritta che compare alla fine: "A Hype Williams Film".

Ecco, Hype Williams è un regista di culto. A partire dal suo primo video, "Can It Be All So Simple" del Wu-Tang Clan, si è costruito una carriera trasformando semplici pezzi rap in opere d'arte visuali, e gli artisti che li cantavano in icone. Il tutto senza seguire mode, ma facendole: prima di lui nessuno si sarebbe sognato di usare un fisheye in un video rap, o di giocare dividendo lo schermo in più parti. Per intenderci, i trucchetti visivi di Tierra Whack non sarebbero potuto esistere se Williams non avesse gettato le sue fondamenta ormai venticinque anni fa.

A partire dal nuovo millennio i video a sua firma sono stati sempre meno, ma ognuno è a suo modo memorabile: "Rock the Boat" di Aaliyah, "Diamonds from Sierra Leone," di Kanye West, "Check on It" e "Blow" di Beyoncé—e ora Fever: Thee Movie. Mentre lo aspettiamo, però, ecco qua sotto una selezione di dieci suoi lavori degli anni Novanta, il decennio che lo ha affermato per sempre come un titano del videomaking hip-hop.

The Notorious B.I.G - "Mo Money Mo Problems" (1997)

"Mo Money, Mo Problems" comincia in un ambiente improbabile: una pista da golf con Puff Daddy che vince un torneo, mesi dopo la prima grande vittoria di Tiger Woods ai Masters. Puff attribuisce il suo successo a un amico speciale: "Stavo avendo un po' di problemi alla 17esima buca, ma il mio amico B.I. da lassù è venuto giù e mi ha detto di stare tranquillo..." Uscito pochi mesi dopo la morte di Notorious B.I.G., "Mo Money, Mo Problems" mette in mano a Puff Daddy e Mase la torcia di Bad Boy. Il video tratto da Life After Death onora la vita e la leggenda di Biggie guardando verso il futuro mentre il duo incede con arroganza in abiti lucidi e Rolex. "Più soldi fai, più problemi hai", dice Biggie in un filmato d'archivio inserito in mezzo alle scene.

Missy Elliott - "Sock It 2 Me" (1997)

Missy Elliott cantava di roba mega arrapante in "Sock It 2 Me", ma un video ultrasexy sarebbe stato troppo facile. Missy invece sceglie un trattamento spaziale che avrebbe fatto invidia a Buzz Lightyear. Da Brat e Timbaland si uniscono al cosplay e surfano sul pianeta simil-Marte abitato da Missy.

Missy Elliott - "The Rain (Supa Dupa Fly)" (1997)

Sono passati più di 20 anni e nessuno è ancora riuscito a ballare sotto la pioggia risultando più sexy di Missy. "The Rain" ha creato attimi epocali: il vestito da Omino Michelin, i cameo di Total e Lil Kim, l'Hummer—tutto fatto con questo esplicito scopo. "L'obiettivo del video era di creare qualcosa di così estremo che sarebbe rimasto impresso nel cervello dei consumatori per sempre," ha detto la stylist June Ambrose in un'intervista a Elle del 2017. Insomma, un esempio di come Hype e Missy hanno sfidato le convenzioni visuali di genere all'interno della scena hip-hop.

Busta Rhymes - "Put Your Hands Where My Eyes Can See" (1997)

Non appena ci si rende conto che Busta Rhymes si sta facendo lavare i denti da due donne nel video di "Put Your Hands Where My Eyes Can See", diventa evidente che non è il solito video rap brutale tipico dei tardi anni Novanta. Dopo aver visto il film di Eddie Murphy del 1988 Il Principe cerca moglie mentre mixava il disco, Busta ha contattato Hype per mettere in piedi un remake del film. "Ho detto a Hype: 'Voglio rifare da capo Il Principe cerca moglie e io voglio essere Eddie Murphy'", ha raccontato nel 2012 in un'intervista a XXL. Il rapper di Brooklyn stima il costo del video attorno agli 800 mila dollari—nemmeno troppo per farsi inseguire da un elefante dentro un palazzo nel centro di Manhattan.

DMX, Nas - Belly (1998)

"Belly" non è un videoclip, ma è evidente che Hype ha mantenuto lo stesso approccio con il suo primo lungometraggio. Il suo intro si può considerare una delle scene più iconiche di tutti i tempi, con DMX e Nas che entrano dentro uno strip club illuminato solo da luci viola indossando lenti a contatto ultraviolette. Il film, che resta uno dei più importanti gialli con un cast solo composto da persone nere, è la prova che il talento di Hype andava ben oltre i videoclip.

Missy Elliott - "She's a Bitch" (1999)

Se pensavate che la combinazione di Missy e Hype non potesse diventare più futuristica di "Sock It 2 Me" e "The Rain", il duo alza l'asticella con "She's a Bitch". Il video è monocromatico, una netta inversione di marcia rispetto ai vivaci colori che di solito accompagnano Missy. Ma non è meno innovativo dei precedenti. Qui sfoggia una testa rasata, uno stile da lei chiamato "ghetto S&M". Nel video, lei e il suo corpo di ballo sono militanti e sfidano il significato di "bitch".

Jay-Z - "Big Pimpin" (1999)

Hype Williams porta la canzone di Jay-Z nelle Indie Occidentali, durante il Carnevale di Trinidad. Il video ha un'aura spontanea, anche se Too $hort ha raccontato che c'è stato un po' di caos dietro le quinte in un'intervista dello scorso anno. Secondo il rapper californiano, Pimp C non era riuscito ad arrivare a Trinidad per girare insieme a Jay-Z, e ha filmato la sua parte a Miami.

Nas - "Hate Me Now" (1999)

Hype Williams considera la versione originale di "Hate Me Now" di Nas e Puff Daddy come la "This Is America" del suo tempo. Secondo il regista il video, che usa i due rapper per rimettere insieme la crocifissione di Gesù Cristo, è stato ampiamente modificato prima di arrivare in TV. "Il primo taglio di questo video era la cosa più bella che fosse mai stata vista", ha detto Hype durante un panel al Red Bull Music Festival Director's Series. "A causa di chi era Puff e di dove stava andando, doveva avere una licenza speciale per non avere vincoli nel girare questo video. Quello che faceva durante le riprese e non erano talmente radicali messe a tempo con la sua musica, che non saprei nemmeno descriverle, ma a questo punto la cosa più bella che abbia mai visto è Puff come effetto speciale, la stessa cosa che vedo succedere a Childish".

Busta Rhymes - "What's It Gonna Be?" (1999)

Se gli 800 mila dollari di "Put Your Hands Where My Eyes Can See" non ti hanno fatto strabuzzare gli occhi, scommetto che ci riuscirà la sua collaborazione con Janet Jackson in "What's It Gonna Be?". Stando a voci di corridoio, il video, che mette insieme sessualità e afrofuturismo, sarebbe costato oltre due milioni di dollari per gli effetti di computer-grafica che fanno sciogliere i due in una pozza di sperma.

TLC - "No Scrubs" (1999)

Appena quattro anni dopo "Scream" di Micheal e Janet Jackson, in cui i due fratelli se la prendevano con il mondo, quello delle TLC è un "urlo" a sé—ma l'oggetto della loro frustrazione sono gli uomini sbagliati. Il gruppo si sente al sicuro nella sua zona scrub-free, dove non devono accontentarsi di nulla di meno di quello che desiderano. In una intervista del 1999, Lisa "Left Eye" Lopes ha rivelato che la visione di Hype era di rappresentare le personalità delle componenti del gruppo in ognuna delle scene soliste. "[...] Abbiamo una parte individuale per ognuna, su un set individuale, quindi è un po' come se ognuna avesse il suo mondo privato", ha detto.

Una versione di questo articolo è comparsa originariamente su Noisey US.

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I Two Door Cinema Club sono sopravvissuti all'indie

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C'è stato un periodo in cui l'indie rock britannico dominava il mercato musicale europeo. Non è passato neanche troppo tempo da allora, una decina d'anni—qua in Italia uscivamo matti perché non potevamo comprare i numeri nuovi dell'NME, facevamo la fila fuori dai palazzetti per adorare Alex Turner ed era una gara a chi scovava prima di tutti la next big thing del Regno Unito. Erano gli anni della rubrica "HYPE" di Deer Waves, gli anni in cui si ballavano i Joy Division e si celebrava l'ironia, gli anni delle immense compagnie, gli anni a stringersi le cosce nei Cheap Monday.

Tutto questo, a un certo punto, ha cominciato a ibridarsi con l'elettronica. Venne fuori il nu rave dei Klaxons e dei Late Of The Pier, venne fuori Intimacy dei Bloc Party e In This Light And On This Evening degli Editors, vennero fuori i Test Icicles di Dev Hynes (che poi sarebbe diventato Blood Orange). È una storia—che ho raccontato qua—finita relativamente male, con un sacco di band che sembravano promettere gli sfaceli e invece sono rimaste cristallizzate nelle poche, splendide cose dei loro esordi.

La più grande eccezione viene da Bangor, nell'Irlanda del Nord, e si chiama Two Door Cinema Club. Venne fuori con un singolo intitolato "I Can Talk", un missile di chitarrine e risvoltini che fece innamorare mezzo mondo—compreso Kanye West, che ne pubblicò il video sul suo epico blog dell'epoca, quando era tutto polos and backpacks. Uscì su Kitsuné, piccola casa di moda ed etichetta francese che mise il suo nome proprio su questo momento di incontro tra indie e club pubblicando compilation e singoli su cui comparivano nomi come Crystal Fighters, La Roux, Is Tropical e, appunto, i Two Door.

two door cinema club i can talk
Uno screenshot dal video di "I Can Talk" dei Two Door Cinema Club, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Invece di fare un album di debutto della madonna e poi svanire di disco in disco, i nostri amici del club del cinema a due porte hanno avuto la classica carriera da rock band che ce la fa. Cioè sono andati in tour senza mai fermarsi per sei anni, pubblicando di mezzo un secondo album più che onesto, hanno scazzato male finendo in rehab, si sono ritrovati e hanno continuato a fare quello che facevano prima—tra cui altri due album, di cui uno appena uscito, False Alarm—ma in modo più adulto, sano e pacato. Ed è probabilmente per questo che Alex Trimble, il loro cantante, si prende un bel bicchierone d'acqua gasata invece che una birra nel pub di Londra Nord in cui lo incontro.

Abbiamo quasi la stessa età, io e Alex. Una cosa che ci accomuna, mentre parliamo, è che ci sentiamo benedetti per quello che la vita ci ha messo di fronte: una carriera nel campo che più ci appassiona. Un'altra è lo stress causato dal fatto che per farla, questa cosa qua, dobbiamo stare attaccati a internet. Io ci sto lo stesso, e ci scrivo, pure adesso. Lui invece si è staccato e lo ha usato come punto di partenza per scrivere i testi di questo nuovo disco—che è quello dei trent'anni, e quindi anche della maturità, ma pure delle incertezze. Però suona felice, tutto anni Ottanta. Perché il punto è la gratitudine per essere sopravvissuti al tritacarne della fama e delle mode nell'era contemporanea, mica altro.

two door cinema club
La copertina di False Alarm dei Two Door Cinema Club, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Noisey: Ricordo ancora l’emozione che provai quando trovai il video di “I Can Talk”, non mi ricordo dove. Pensai “Oh mio dio, devo assolutamente farli sentire ai miei amici". All’epoca eravate ancora su Kitsuné, no?
Alex Trimble: Sì, quello fu il primo video che facemmo per loro. Ci aiutò un sacco e Megaforce, la compagnia che lo curò, all’epoca era ancora piccola. Abbastanza da potercela permettere.

Ah! Lo stesso studio che ha fatto “The Greeks” degli Is Tropical, anche loro all’epoca su Kitsuné. Quel video spettacolare coi bambini che si ammazzano!
Sì! Essendo anche loro francesi fu Kitsuné, che ha un sacco di agganci, a metterci in contatto. Ma a quel video successe una cosa importante: Gilles, il ragazzo che gestiva l’etichetta, si appassionò alla musica quando conobbe i Daft Punk negli anni Novanta. E gli fece vedere “I Can Talk”, e loro lo fecero vedere a Kanye West, che lo postò sul suo blog.

Quando ancora Kanye aveva un blog!
Sì! E così arrivò a un sacco di gente. All’epoca ci eravamo trasferiti a Londra da un paio di anni, avevamo appena mollato la scuola, avremo avuto 20, 21 anni. Eravamo cresciuti in una piccolissima cittadina in Irlanda del Nord e all’improvviso ci trovavamo tra la mani un singolo che passava in radio e un video super visto. E così cominciammo ad andare in tour, a girare in Europa. Poi ci chiamarono negli Stati Uniti, sarà stato il 2009.

Le chitarre erano iper melodiche, il pezzo era catchy.
Sì, ascoltavamo un sacco i Bloc Party da ragazzini. Silent Alarm è uscito quando avevamo 16 anni e l’anno dopo avevamo formato una band.

Ci sta di dire che nella vostra generazione di band siete tra quelli che hanno resistito di più e meglio al passare degli anni? Ci sono un sacco di gruppi che sono semplicemente svaniti.
Non so cosa sia successo, ma mi piace pensare a quanto sia bello che diverse delle band a cui venimmo affiancati all’epoca stanno uscendo con nuovo materiale quest’anno: i Bombay Bicycle Club, i Foals, i Vampire Weekend. Il fatto che è il 2019 e siamo ancora qua è piuttosto forte. E devo dire che forse siamo stati un po’ fortunati con il primo album.

Come mai?
All’epoca non avevamo un batterista, e quindi decidemmo di usare una drum machine. E firmammo con Kitsuné, un’etichetta che pubblicava più elettronica che altro, proprio nel momento in cui l’elettronica stava cominciando a diventare più popolare delle chitarre.

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I Two Door Cinema Club nel 2010, foto promozionale dell'epoca

Penso che quegli anni siano stati definiti proprio dall’ibridazione tra indie ed elettronica. Una coda lunga del nu rave, l’ascesa della blog house.
Certo, ascoltavamo I Klaxons o i Late of the Pier, ma in realtà la questione era che non avevamo un batterista! Non avevamo altra scelta… e così cominciammo con una drum machine, che gestivo con un portatile. Poi scoprimmo i sintetizzatori, e Kev si mise a suonarci le linee di basso, e cominciammo a collegarci la chitarra. All’inizio ci sembrava ci mancasse un membro del gruppo, ma con il passare del tempo ci siamo resi conto di quanto ci ha liberati. Oggi comunque abbiamo un batterista, che è con noi da più di dieci anni.

Prima dei Two Door vi chiamavate Life Without Rory. Sono andato a cercare i vostri pezzi su Myspace e mi sono reso conto che non ci sono più, finiti anche loro perduti nel passaggio di server che ha ucciso un sacco di musica di quei tempi.
C’è ancora qualcosa su YouTube, credo! Non avevamo nemmeno così tanti pezzi, all’epoca stavamo ancora imparando a scrivere. Una sera dovevamo suonare a Belfast, ci chiesero di suonare per ultimi… e avevamo solo quattro canzoni. In qualche modo riuscimmo a farle durare un quarto d’ora, e alla fine non importò niente perché c’erano dieci persone a vederci. Eravamo MOLTO lenti. Ma riuscimmo a tirare fuori un EP e da quel gruppo ci portiamo dietro la consapevolezza che fare musica era quello che volevamo fare per vivere.

Quando sceglieste di mollare la scuola eravate coscienti di quali sarebbero state le conseguenze?
All’epoca ci pensavo, sì. Tutti a scuola me lo ricordavano ed entrambi i miei genitori sono insegnanti. Insomma, come ti dicevo venivamo da una piccola cittadina in una piccola nazione. Le probabilità che tutto questo sarebbe successo erano davvero poche, Ad ogni modo, provammo tutti a iscriverci all’università. A me non presero! Mi bocciarono all’esame…

Forse era il destino a dirti che andare a scuola non era cosa tua!
Non avevo le idee chiare. Volevo studiare arte, dipingevo e scattavo foto, ma quello che volevo davvero fare era suonare in una band. Quindi pensai di iscrivermi a un corso di musica, magari diventare un produttore, un ingegnere del suono. Ma per farlo serve studiare matematica e fisica, che non sono roba mia. Mi bocciarono a entrambi, e finì lì, mentre Ken e Sam vennero presi. Ad ogni modo, il piano era di prenderci un anno, e se le cose non fossero andate loro avevano comunque il loro posto in università, e io mi sarei iscritto ad arte. Non so se eravamo davvero convinti o se lo avevamo fatto per tranquillizzare i nostri genitori… Kev era fortunato, ha un fratello maggiore che fa il musicista, e quindi la sua famiglia lo ha sempre supportato.

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La copertina di Tourist History, il primo album dei Two Door Cinema Club, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Quale fu il momento in cui vi rendeste conto che in effetti le cose stavano andando bene?
È stato un processo lento, ma molte cose sono successe molto velocemente all’inizio. Nell’estate del 2007, a liceo finito, cominciammo a metterci tutto. Scrivevamo canzoni ogni settimana, le registravamo e le caricavamo su internet. Contattavamo chiunque. Mandavamo mail ad agenti ed etichette e uno, Dave Wallace, ci contattò. Aveva appena cominciato a lavorare per Primary Talent, l’agenzia con cui lavoriamo ancora oggi. Noi, super felici, accettammo e lui ci organizzò un tour per settembre. Partimmo con questa band, gli Iglu and Hartley, che avevano una sola hit, “In This City”. Fu il nostro primo tour, comprammo un furgone, e da lì piano piano è successo tutto. Nei mesi successivi conoscemmo Kitsuné, suonammo all’estero per la prima volta, in Francia e Germania. Sei mesi dopo eravamo in uno studio a Londra Ovest a registrare il nostro primo album. Poi, una volta uscito quello, non è successo niente per sei mesi, un anno! Eravamo una piccola band, su una piccola etichetta, con un piccolo management e pochi soldi.

In Italia c’era comunque hype per quello che facevate. Blog che coprivano quello che succedeva negli Stati Uniti, piccole sacche d’interesse che condividevano link su Rapidshare. Ed era un po’ l’ultimo periodo in cui si poteva ancora scoprire nuovi gruppi in quel modo.
I blog sono stati un sacco importanti per i nostri inizi. Non c’era hype attorno a noi nell’industria musicale.

Esatto, perché l’hype veniva dalla gente che vi ascoltava.
Sì! Non passavamo in radio, le riviste non ci cagavano, i social media non esistevano veramente. E quindi c’erano i blog! Persino l’idea stessa dei blog era nuova. Ricordo che quando suonammo in Germania e ci trovavamo di fronte gente che sapeva i nostri pezzi, un centinaio, rimanemmo… affascinati.

Se riascolti Tourist History oggi, che cosa ti passa in testa?
Mi è capitato da poco, dato che stiamo mettendo insieme il nostro nuovo live. Era da tanto che non lo ascoltavo. E suoniamo spesso dal vivo quei pezzi, ma è diverso, dato che ogni volta che li esegui fai qualcosa di diverso. L’impressione che ho avuto è che tutto suonava davvero giovane. La mia voce, il modo in cui cantavo, i testi che scrivevo… cose che non noto quando suono dal vivo, perché suonare una cosa così tante volte te la rende naturale, istintiva. Ma lo erano, perché avevo 17 anni quando le ho scritte, e quest’anno ne ho fatti 30. È passato un sacco di tempo. Ma da qualche parte nella mia testa questo tempo non è mai passato.

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La copertina di Beacon dei Two Door Cinema Club, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

C’è questa storia che si ripete spesso per cui i primi dischi sono il frutto di anni di lavoro, mentre i secondi nascono in periodi di tempi molto stretti. Fu così anche per Beacon, giusto?
Oh, certo. Tourist History non andò poi così bene nel primo anno dopo l’uscita, e dopo un anno di tour decidemmo di fermarci per scrivere il secondo. E proprio in quel momento ci nominarono per un award di MTV America. Ed era una roba enorme, perché si trattava di ragazzi della nostra età che ci ascoltavano e votavano per noi. Andammo alla cerimonia ad Austin, Texas, suonammo un pezzo e vincemmo. Così cominciarono a chiamarci, e quel tour che si sarebbe dovuto fermare andò avanti per un altro anno e mezzo. Poi arrivò il momento di scrivere il secondo album, ma non avevamo il tempo che credevamo di poter avere. E non avevamo soldi! Quindi ci trasferimmo tutti in una casa a Glasgow, dove costruii uno studio nel seminterrato. Avevamo tre mesi e ogni giorno vivevamo insieme. Stavo sveglio fino a tardi a scrivere in camera mia, registravamo demo ogni giorno fino ad avere dieci, undici canzoni. E poi conoscemmo Jacknife Lee.

Ecco, Jacknife Lee è stato una persona fondamentale per la vostra carriera. Come lo conosceste?
Fu una persona del nostro management a presentarcelo, che conosceva il suo manager.

Come ci si sente a delegare a qualcun altro il controllo di una cosa che sta andando così bene?
Bé, è quello il punto. Io non avrei mai delegato niente a nessuno, quindi dovevo incontrare una persona che avrebbe lavorato CON noi. La prima volta ci sentimmo su Skype e una delle prime cose che ci disse fu “Voglio fare quello che voi volete fare. Non ho un mio sound che vi voglio imporre.” Ed è vero, perché ha registrato dischi epici con gli Snow Patrol, roba più d’avanguardia, roba elettronica. Era in un gruppo punk, i Compulsion. Ha fatto roba basata su campionamenti. Ed era irlandese come noi. Ci invitò a Los Angeles e registrare con lui fu davvero semplice.

Dopo anni passati a lavorare con producer così grandi, che cosa ti resta del fai-da-te? Perché in fondo è da lì che avete iniziato ed è così che oggi, il 99% delle volte, si comincia a fare musica.
È un modo di fare che adoro. Insomma, all'inizio registravo in soffitta in casa dei miei. Lo stesso vale per Jacknife... e poi il suo studio è quasi come una grande cameretta. Lo ha tirato su in una piccola casetta accanto alla sua, e quindi ti trovi a registrare la batteria in cucina, dove la mattina ti fai il caffè. C’è uno stanzone con un computer, ok, ma a parte quello è una casetta piena di dischi e strumenti. Non è uno studio professionale.

Avete parlato un sacco della pausa che vi siete presi dopo la fine del tour di Beacon e dei problemi personali che avete affrontato. A forza di discutere della questione, non è un po' diventata una storiella che vi raccontate? O parlarne così tanto vi ha aiutato ulteriormente?
Abbiamo fatto il nostro ultimo concerto a dicembre 2013. Non abbiamo parlato fino all’inizio del 2015. Io e Kev ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, Sam a Londra. Ne avevamo bisogno, perché erano anni che vivevamo insieme 24 ore al giorno. Quando ci siamo ribeccati abbiamo dovuto conoscerci di nuovo e, bevendo una cosa, ci siamo resi conto che avevamo dei problemi, cose che non ci piacevano l’uno dell’altro. Rabbia. Abbiamo fatto delle sessioni di terapia di gruppo. E intanto sia io che Kev stavamo gestendo i nostri problemi personali con la droga e l'alcool. Ci stavamo già facendo aiutare da dei professionisti e ci rendevamo conto che stava funzionando.

Quando siamo arrivati a dover fare nuovi gire di interviste ne abbiamo dovuto parlare ancora, ed ancora. Permettere a quel dialogo di proseguire ci ha aiutato molto, capita di ricevere nuovi spunti e interpretazioni. Ma oggi come oggi nemmeno ci pensiamo, è parte della nostra storia e tutto quello che abbiamo passato… sono felice che sia successo. La prima parte è stata orribile, ma oggi non saremmo amici altrimenti. Non siamo più vicini come quando avevamo quindici anni, ma da quando siamo nella band il nostro rapporto è il migliore di sempre. E tutti sono felici delle loro singole vite. Sam e Kev si sono sposati, io convivo con la mia partner a Londra.

Ho trovato un'intervista del Guardian che vi descrive come personaggi: "l'edonista ansioso", "il casalingo sotto pressione", "l'aspirante artista erudito". E insomma, mi ha fatto strano.
Io ci sono abituato. Penso che molti giornalisti vogliono riassumere una band per spiegarla al lettore, ma vogliono anche qualcosa che suoni bene. Non mi ritrovo sempre in quello che scrivono di me, in passato leggevo un sacco le interviste o le recensioni. Non lo faccio più. È come stare sui social: c’è del bello e del brutto, ma non credo che ti faccia bene. Nemmeno il bello. Ti senti bene per un secondo, ma finisce lì.

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La copertina di Gameshow dei Two Door Cinema Club, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Se sul vostro terzo album Gameshow scrivevi molto, ironicamente, delle vostre esperienze tra amici sul nuovo disco parli molto di gioventù che se ne va: "Se non dovessi sentirmi più giovane di così, fammi vedere la porta". Stai cominciando a sentire il passare del tempo?
Mentre scrivevo pensavo soprattutto a un passaggio generazionale, che percepivo più intensamente di quanto mi fosse mai successo. I teenager e i ventenni stanno dominando il mondo ora, specialmente all’interno della cultura pop... è il classico discorso del passaggio di responsabilità dall’alto al basso: sono i consumatori a decidere quello che è popolare, in ogni ambito e più che mai. I giovani stanno ereditando il mondo in un senso più tangibile che mai, e io sto venendo a patti con questo shift, non mi sento vecchio ma mi sento anche di non capire molte delle cose che stanno succedendo. Capisco la tecnologia, la uso per lavoro! Ma a differenza di molte persone della mia generazione non uso i social, e quindi mi sento un po’ ignaro di tutto quello che sta succedendo a livello di cultura pop ora come ora. Uno dei discorsi principali di questo disco è: mi sento giovane, ma il mondo sta lavorando per farmi sentire più vecchio di quello che sono.

In “Break” dici "Potrei dare forma al rock and roll / Ma tutto quello che mi torna indietro è un eco ancora più forte". Che cosa volevi dire?
Quel pezzo durava quattro minuti, quando l'ho scritto. L'ho fatto sentire a Jackinfe, con cui c'è un patto di fiducia per cui può essere completamente onesto, e mi ha detto che effettivamente era una cosa che avevo già fatto in passato. Quindi ci siamo messi a rilavorarlo, lui l'ha fatto a pezzi, e io quindi a riscrivere il testo... e ho cominciato a scrivere proprio del fatto che stavamo facendo questa cosa. L’eco sono io che provo a ripetere me stesso. E un altro pensiero che stavo facendo in quel periodo era che anche noi avevamo, in fondo, ispirato qualcuno. Ci sono in giro band che suonano come i Two Door, come Tourist History. Mi stavo rendendo conto che siamo in giro da dieci anni e abbiamo giocato il nostro ruolo, per quanto piccolo, e cambiato qualcosa nella musica pop. Anche se non sento di meritarmelo. Non mi sembra vero.

"Nice To See You" è un pezzo piuttosto triste, e anche lì torna l'idea del passare del tempo, ma attraverso l'incontro con una persona che non vedi da tempo.
Molto di questo disco parla di come internet ha cambiato le nostre vite. Incontrare qualcuno dopo tanto tempo, una volta, poteva essere come conoscere una persona completamente nuova. C’era tutta una serie di cose da scoprire, condividere e raccontarsi. E ora non più, dato che puoi seguire chiunque. È come se il non-vedersi non abbia un vero valore, che tanto ci si followa. E poi, mi capita spesso di incontrare persone che sanno chi sono, e io non conosco. Lo noto specialmente quando torno in Irlanda e vedo amici con cui andavo a scuola... sanno tutto della mia vita. Che siano sui social o no, lo sanno. Perché magari mi hanno visto in TV, comprato un disco, letto su un giornale. Sapere che la mia vita è così esposta, che io lo voglia o no, è strano. Ma sta diventando meno… eccezionale. Perché tutti vivono all’aperto.

E così ci viene voglia di prenderci una pausa dai social media, se non di abbandonarli completamente. È una cosa che sta succedendo, sia tra i millennial che tra i ragazzi della Generazione Z.
È una cosa che tutti dovrebbero provare. Non ho niente contro i social di per sé, ma devi usarli se ti fanno stare bene. È lì il punto, ci fissiamo con le novità ma non tutti i progressi sono necessariamente “reali”. I social stanno rendendo la tua vita migliore? Risponditi e poi decidi cosa fare.

Il vostro rapporto con i social ha influito sulle dinamiche che hanno portato al disfacimento della band?
Non tanto, perché se suoni in una band sei in una bolla. Non è necessariamente bello... è che non senti niente. Noi avevamo un calendario e degli impegni. Succedevano cose incredibili, ma era come se non riuscissi a rendermene conto e apprezzarle. Facevamo concerti, vendevamo dischi, giravamo il mondo, ma non so se l'ho fatto davvero. Stavo solo seguendo un'agenda. Quando ci siamo fermati mi è caduto addosso tutto, nel bene e nel male. Un momento pensavo “Cazzo, abbiamo suonato davanti a 20.000 persone!” E poi “Cazzo, ma non siamo più amici!” Era un saliscendi, e poi mi sono schiantato. I social mi fanno la stessa cosa. Li ho usati per qualche anno, mi sono preso una pausa, stavo bene. Poi avevo ricominciato per pura FOMO, ma poi ho ricominciato a usarli sempre meno. Non ho chiuso i miei account, sono ancora lì, ma sarà un anno che non li uso. E faccio più cose che mai. Esco di più. Vado al cinema. Vado ai musei. Leggo libri. E mi sento come se stessi migliorando a personal relationships. Vedo più gente, perché ho BISOGNO di vederla.

Su "Nice To See You" c'è pure Open Mike Eagle, un rapper underground della madonna che sinceramente non mi sarei mai aspettato di sentire su un vostro disco.
Nemmeno io! Allora, Jacknife ha una collezione di dischi assurda. È un'ossessione, ma ci sta dato che in fondo farli è il suo lavoro. Ogni giorno prima di metterci a scrivere ci svegliavamo, facevamo un caffè e passavamo qualche ora a parlare e ascoltare dischi. Così è venuto fuori Open Mike... non ascolto molto hip-hop, ma lui ha qualcosa di diverso, è tutto tranne che simile a quello che c'è in giro adesso, sia a livello musicale che tematico. E la stessa cosa è successa con i Mookomba, una band dello Zimbabwe che avevamo ascoltato e deciso di campionare. Quando li ho cercati su Google per trovare un contatto a cui chiedere il permesso ho visto che sarebbero arrivati a Los Angeles la settimana successiva. Quindi gli ho mandato una mail chiedendogli di venire in studio, era la prima volta che facevo qualcosa del genere... e hanno accettato. Quindi, tutto preso bene, ho fatto la stessa cosa con Mike Eagle. E ha accettato. Insomma, è stato semplice. Bastava chiedere!

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Guarda The People Versus Beba

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Spoiler: in questo video a un certo punto viene pronunciata la frase "il rap non è per femmine". Noi su questo argomento abbiamo scritto fiumi di parole nel corso degli anni, ma nulla è efficace come una rapper che spacca per confutare quell'argomento. Beba spacca, e lo fa da anni, facendo a pezzi gli hater a colpi di freestyle e singoli potentissimi.

Verrebbe da pensare che ogni malalingua fosse stata zittita dalla sua incendiaria performance su Real Talk o almeno dalla sua strofa su "Io può" con Salmo e Jack The Smoker sull'ultimo Machete Mixtape, ma gli hater hanno la testa dura. Così Beba è dovuta venire di persona in redazione per spiegare a questi stronzi come funziona. Guarda il video di The People Versus Beba in cima al post e ricordati di iscriverti al canale YouTube di Noisey così ne possiamo fare ancora.

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I migliori passaggi dell'autobiografia di Luchè, 'Potere: Il Giorno Dopo'

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Luchè ha da poco pubblicato una nuova versione del suo ultimo album Potere intitolata Il giorno dopo , accompagnata da un'autobiografia realizzata insieme a Rosario Dello Iacovo. Come avevamo scritto per la sua uscita, il disco "è una dichiarazione di intenti, un disco pieno di strada, di vite complicate e di riflessioni mature, anche se con la maturità non c’è la voglia di sedersi sugli allori, ma invece la spinta a sfidare se stessi percorrendo nuove strade e rimanendo al passo coi tempi.

Ecco: nel libro Luchè si racconta seguendo esattamente queste coordinate: strada, una vita complicata, riflessioni mature, spinta a migliorarsi. Io non ho letto poi tanti libri di rapper, ma devo dire che questo è davvero una cosa ben fatta, e probabilmente lo è per due motivi. Il primo è il pubblico: non ho dati esatti a riguardo, ma la mia impressione è che si rivolga a un gruppo di lettori non propriamente adolescente e quindi possa permettersi complessità che sarebbero state altrimenti tagliate via da un editor. Il secondo è la vita dell'autore, che segue la più classica delle strutture zero to hero.

Luchè cresce nel nulla rugginoso e marcio della periferia nord di Napoli. Marianella, Scampia, Secondigliano. Armi, spaccio, truffe. La sua prosa procede per episodi: ricordo quello, ho visto questo. Le persone compaiono all'improvviso, come il mondo quando una palpebra si spalanca. Compagni di una vita come Geeno e Corrado aka CoCo. Il venditore di palloncini e giochi da spiaggia, Ciro, che gli insegna l'idea di lavoro. Fabio, Marracash, fratello a distanza, e i ragazzi dei Dogo. Rosario D-Ross e la sua compagna Star-t-Uffo, a cui affida la musica dei dischi della sua rinascita artistica. E Antonio, 'Ntò, che con lui ha fatto quella cosa di enorme importanza per l'Italia intera chiamata Cosang.

Tutti loro Luchè li racconta con passione e sentimento, e poca paura di dire le cose come stanno. Parla di litigi e scazzi nei dettagli, dalla volta che si tentò di forzare una reunion dei Cosang a quella in cui si sentì trascurato all'interno di Roccia Music, dal featuring mai successo percepito come mancanza di rispetto da parte di un giovane della Nuova Scuola alle difficoltà incontrate nella stesura dei suoi lavori solisti. E poi ci sono gli amori, snocciolati come albicocche o un po' troppo dolci o un po' troppo acerbe, mai davvero realizzati e fonte di ispirazione per la scrittura.

Perché poi è quello il punto: Luchè è una persona che scrive, sia in rima che no, e di rime ne mette molte lungo il corso del libro. Spiega come sono nate delle canzoni, e nell'ultimo capitolo non si vergogna di inserire interi testi all'interno della narrazione—che tanto poi quella della sua vita e quella della sua musica si sovrappongono. Abbiamo avuto la possibilità di pubblicare alcuni passaggi dalla sua autobiografia. Potete leggerle qua sotto e ascoltare Potere cliccando sulla copertina.

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Clicca sulla copertina di Potere: Il giorno dopo per ascoltarlo su Spotify

Sui primi anni della sua carriera:

"In questi anni viviamo uno stato mentale di repressione assoluta, zero opportunità. Nessuna ragazza, non un sentimento, solo un filo di speranza a tenere in piedi le nostre vite. Crescere nella periferia nord di Napoli può essere considerato sia una punizione divina che un biglietto vincente della lotteria. [...] A un certo punto, gli scantinati occupati con i rubinetti inchiodati al muro diventano normalità. Giocare a carte nel sottoscala di un palazzo è tutto quello di cui abbiamo bisogno, perché fa sentire l'America vicina anche se in America non ci siamo ancora stati."

"Siamo con la Panda di Mario. Guido io e prendiamo Via Campana, diretti a casa sua nella 167. All'improvviso uno scooter ci taglia la strada, mentre un altro ci supera e si mette davanti. [...] Mario prova ad aprire lo sportello, ma uno di questi non gil dà neanche il tempo e lo richiude con un calcio. Poi un altro tira fuori la pistola, prima rompe il finestrino con un calcio e poi il metallo è freddo. Disegna un cerchio perfetto sulla mia tempia. Ma io, la scena, la guardo dall'alto. Come se stesse accadendo a un altro, mentre il vento che arriva dal mare mi accarezza il viso e mi restituisce la sensazione netta di essere vivo. Arriva anche qui, fra questi palazzi di periferia. Qui dove la vita non vale niente. Dove si muore per uno sguardo di troppo, una miserabile partita di droga non pagata, la maldicenza di un infame, oppure perché stai semplicemente parlando con una ragazza."

Sul primo periodo a Londra:

"Non sono mai stato il tipo da rapine o cose del genere, quel mondo non mi attira. Provo invece attrazione per chi usa il cervello per fare soldi, le truffe e i pacchi. I pacchi nel nostro gergo sono vendite fasulle dove, nel pacco che ti porti a casa, non c'è quello che credi di aver comprato ma una lattina di Coca Cola o un mattone dello stesso peso del prodotto originale. Trascorro molti anni della mia gioventù per le strade di Londra a fare i pacchi. Vendo vestiti classici prodotti in Cina, spacciandoli per abiti firmati o fatti a mano in Italia. Questo lavoro si chiama 'o magliar', un business che solo noi napoletani facciamo in quasi tutto il mondo."

Sui Cosang:

"Noi [Cosang] siamo solo veri: raccontiamo la violenza del posto in cui siamo cresciuti, dove continuiamo ad abitare e dove, proprio a cavallo dell'uscita di Chi more pe' mme, esplode la cosiddetta Prima faida di Scampia [...] È una guerra, ma il fatto che il nostro disco esca nello stesso periodo è solo un caso, perché i pezzi sono stati scritti molto prima: la testimonianza che non siamo noi a essere violenti, ma costretti a crescere dove omicidi, agguati, militarizzazione del territorio, coprifuoco, sopraffazione, sono il quotidiano che dobbiamo ingoiare come se fosse la norma."

"E poi io penso che la vita di strada napoletana non sia solo camorra, ma soprattutto arrangiarsi. È innanzitutto furbizia che nasce dalle privazioni. È la cazzimma di chi sa che i soldi devono venire fuori per forza, a furia di mangiarsi a morsi la vita. La nostra musica non è giornalismo, ma la poesia cruda di chi ha perso un fratello."

"Io e Antonio abbiamo un carattere molto difficile. Quando scatta una lite dura un mese, usiamo termini eccessivi e sbagliati, smettiamo di parlarci. Non c'è l'atmosfera serena per lavorare a un progetto così importante, è una situazione che si fa progressivamente insostenibile. [...] Meglio che resti il ricordo di quei due splendidi album, veri al cento per cento fino al midollo, piuttosto che sporcarlo con un disco in cui noi stessi non sappiamo dove vogliamo andare."

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Le fotografie compaiono per gentile concessione dell'ufficio stampa di Luche

Sulla sua attività imprenditoriale:

"Di sicuro i miei punti di riferimento, con tutto il rispetto, non sono gli imprenditori locali o gli artisti italiani, ma gente come Jay-Z, P. Diddy o Jimmy Iovine. Sono persone che hanno cambiato il corso della musica anche proponendo idee che andavano in direzione diverse, hanno fatto capire a tutti che la creatività è alla base del progresso e che, dando fiducia ad altri, costruendo team solidi e volenterosi, senza paraocchi e limiti mentali, si possono inventare cose nuove, dare importanza a oggetti dimenticati, come per esempio le cuffie della Beat."

Sul fascino di Londra:

"Ovviamente [a Londra] vivevo in periferia, quindi tutto ciò che avevo sempre sognato era lì sotto i miei occhi. Ricordo ancora quando molti anni prima vidi il video di Dr. Dre feat. Snopp Dogg, "Still D.R.E.", dicendo a me stesso: anche io voglio vivere così, su una Cadillac cabrio a pompare rap tutto il giorno con tre mulatte mezze nude vicino. Quel video mi spinse a dire ciao alla mia realtà fatta di repressione, ignoranza, squallore, per cercare la luce che mi rendesse vivo. Quando gli eventi s'intrecciarono e mi portarono a Londra, feci il primo passo verso l'oasi che tanto desideravo."

Sul periodo in Roccia Music:

Quando esce "GVNC", le reazioni sono miste. Tutti riconoscono la bomba che è, ma alcuni non sono pronti per questo sound che non ha precedenti in Italia. Se non il primo, è sicuramente tra i primi pezzi trap prodotti nel nostro paese, o almeno quello che fa più parlare di sé. Forse il nostro look molto dark è fin troppo avanti per l'Italia, che proprio in quei mesi si sta, con tante difficoltà, riaffacciando allo street rap dopo anno di ironico e trash. [...] Durante le riprese del video, però, accade una cosa che mi prende male. A un certo punto, senza che io ne sappia nulla, vedo tutti allontanarsi e poi stappare due bottiglie a un tavolo dove sono appoggiati due contratti: quello per Achille Lauro e quello per Fred De Palma. Resto colpito dal fatto che nessuno me l'abbia detto, ma soprattutto perché nessuno mi ha mai fatto firmare una carta, come a voler dire che non c'è pericolo o timore di perdermi, che non valgo così tanto."

Guarda la nostra video intervista a Luchè:

Su Secondigliano e Scampia:

"Ricordo una salumeria molto nota sul Corso di Secondigliano, chiamata 'E femmeniell', dove andavano a pranzare con panini e frittate di maccheroni tutti i boss, i capi piazza e gli spacciatori di Scampia. Ricordo uomini di cinquant'anni baciare ragazzini di quindici per poi sussurrargli all'orecchio "salutami tuo fratello". In quel caso era il fratellino piccolo di un caro amico di amici, uno dei primi morti della faida di Scampia scoppiata nel 2005. Gli spararono mentre guidava il suo scooter, davanti agli occhi della figlia che invece era in una macchina dietro. Lui non veniva da una famiglia povera, il padre era benestante ma divenne uno dei migliori uomini di Di Lauro. Si narra che fu ucciso dal suo migliore amico. I Cosang presero spunto da questa vicenda per scrivere "Amic Nemic"."

"Ricordo un appartamento a Scampia, dove mi sono svegliato ogni mattina per tre anni con le urla dei tossicodipendenti che avevano appena comprato l'eroina nel complesso popolare Bakù, di fronte a casa mia. Ricordo l'esercito di centinaia di tossici che ogni giorno scendeva dai pullman che collegavano il centro di Napoli, la zona della Stazione Centrale e molte altre parti della città a Scampia. [...] Ricordo le aiuole ai lati dei marciapiedi, dove in pieno giorno si aiutavano a farsi l'uno con l'altro, mentre i ragazzini camminavano verso casa di ritorno da scuola. Era tutto normale, gli studenti neanche ci facevano più caso. Per non parlare degli spari nella notte, delle lavatrici buttate giù dai balconi quando ci si opponeva alla polizia durante un arresto. Come fai a ignorare tutto questo? Anche se non vivi quella vita lì, sei comunque parte di quel dolore e devi solo farne il tuo punto di forza."

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Le fotografie compaiono per gentile concessione dell'ufficio stampa di Luche

Sul suo primo amore:

"Quando avevo sedici anni, m'innamorai di una ragazza bellissima che tutti volevano e che per qualche motivo strano s'infatuò di questo ragazzo taciturno, vestito male, col piercing al naso e i capelli lunghi. Lei mi ferì come nessun'altra prima, mi dissero che durante una gita a scuola mi aveva tradito col suo ex, infatti poi ci tornò insieme poco dopo. [...] Le mie delusioni d'amore mi hanno sempre dato la carica per scrivere dei pezzi e per andare avanti, in tutto quello che facevo, mi hanno sempre spinto a lottare per vendicarmi. Infatti, per molti anni della mia vita e forse ancora oggi un forte senso di vendetta mi scorre nelle vene, e a volte prego che resti sempre così, non riesco a immaginare dove prendere la mia energia, se non dalla rabbia."

Su una quasi-reunion dei Cosang e "Fin Qui":

Salgo sul palco e inizio a fare il mio show, tutto ok fino a quando inizia "Int 'o Rione". Mentre sto rappando vedo con la coda dell'occhio un gruppo bello grosso di persone salire sul palco con in braccio una persona. Era Antonio che preso dall'euforia di tutti gli artisti che stavano nel backstage si era trovato improvvisamente catapultato sul palco! [Luchè interrompe il concerto, abbraccia 'Ntò e ci si scatta una foto] Mi faccio mille pensieri ma cerco di mantenere la calma, inizio a pensare che sia stato tutto fatto apposta per rovinare una possibile reunion dei Cosang che metterebbe paura a qualsiasi altro rapper napoletano in ascesa. [...] La mattina dopo scrivo "Fin qui" di getto, con il mio telefono che squilla incessantemente per l'accaduto della sera prima. Il beat mi prende più del solito, inizio a formulare un flow diverso, più melodico ma più sentito, è come se stessi iniziando a recitare la mia energia sul beat.

Su una data a Casal di Principe:

"Mi stupisce moltissimo che anche qui conoscano tutti i miei pezzi a memoria, pure canzoni più intime e difficili come "Il mio ricordo" o "Rispettiva ammirazione" dei Cosang di cui io a stento ricordo la strofa. Lì capisco che la gente non è stupida, ma viene sottoposta a un istupidimento di massa che è il frutto di una strategia della gestione del potere attraverso la comunicazione. [...] C'è bisogno di esempi positivi, penso tra me e me, di persone che sappiano raccontare storie, che abbiano il dono di saper narrare, come posso averlo io. E allora si scopre che anche chi non ha un grado d'istruzione elevato o ha fatto delle scelte forzate di vita criminale può riuscire a cogliere il senso delle cose e delle parole."

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