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A$AP Rocky è stato incriminato e resterà in carcere

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A$AP Rocky si trova in carcere in Svezia dallo scorso 3 luglio. Oggi la CNN ha riportato che è stato incriminato con l’accusa di aggressione, e che quindi resterà ancora in carcere in attesa di giudizio. Negli ultimi giorni il suo caso era arrivato fino al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, con Kanye West e Kim Kardashian come tramite. Trump aveva twittato che stava lavorando per liberare Rocky e aveva parlato con il primo ministro svedese.

Il pubblico ministero svedese, Daniel Suneson, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale: secondo lui l'accaduto costituisce un crimine "nonostante le rivendicazioni di autodifesa e provocazione". Ha poi aggiunto: "Va fatto notare che ho avuto accesso a più materiale rispetto a quello che è stato disponibile finora su internet. Oltre ai video, le dichiarazioni della parte lesa sono state corroborate da testimoni". L'avvocato di Rocky, Slobodan Jovicic, continua ad affermare che il suo cliente si stava solo difendendo da un'aggressione, e che quindi è innocente.

Dopo l'arresto, Rocky ha dovuto cancellare il suo intero tour europeo dopo l’arresto, compresa una data al Carroponte di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. L’idea era quella di recuperare le date a breve, ma adesso è di nuovo tutto in sospeso.

Rocky era rimasto coinvolto in una rissa in strada, di cui ci sono numerosi video, lo scorso 30 giugno. Un gruppo di uomini avrebbe seguito lui e la sua crew per strada a uno avrebbe aggredito la guardia del corpo di Rocky, rompendogli le cuffie. Un video successivo mostra Rocky spingere a terra uno degli uomini. Per fare chiarezza, abbiamo chiesto a un avvocato che cosa rischia Rocky secondo la legge svedese e riassunto il caso finora.

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Altro che basket, è il golf lo sport preferito del rap

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La settimana scorsa YBN Nahmir ha pubblicato il video di "Fuck It Up", una collaborazione con le City Girls e Tyga. Invece di girare su un macchinone, come si fa di solito nei video rap, Nahmir gira per un lussuoso campo da golf su un Hummer. Stranamente in mezzo alle buche non ci sono noiosi uomini bianchi di mezza età, cioè la gente che può permettersi di giocare a golf, uno sport che per tradizione favorisce i giocatori bianchi. Nahmir e i suoi collaboratori usano la pista a modo loro, per esempio, facendo piovere soldi su delle spogliarelliste (sì, hanno portato dei pali sulla pista da golf). Ma "Fuck It Up" non è il primo video rap si diverte ad appropriarsi dell'estetica del golf; è un trend che va avanti da decenni, come dimostrano incontrovertibilmente i video che potete vedere qua sotto.

"Mo Money Mo Problems" di Notorious B.I.G. (1997)

Nel video di "Mo Money Mo Problems", Puff Daddy e Mase si trasformano in Mase Gumbel (come Bryant Gumbel, celebre commentatore di golf americano) e Puffy Woods (come Tiger Woods, che pochi mesi prima era diventato a soli 21 anni il primo e più giovane golfista uomo a vincere un grande torneo).

Forse non sapete (ci sta) che quando Woods vinse quel torneo, il veterano Fuzzy Zoeller rilasciò dichiarazioni come: "Ditegli di non servire pollo fritto... o le foglie di cavolo, quelle robe lì che servono loro", riferendosi alla cena di festeggiamento di Woods. Insomma, insulti razzisti, dato che nella cultura americana il pollo fritto è associato alle abitudini alimentari degli afroamericani. Nel video Puff Daddy e Mase fanno ironia proprio su quella polemica, e hanno delle osservazioni da comunicare alla comunità dei golfisti: "Penso che i suoi pantaloni siano un po' troppo stretti, gli vanno su per il culo", scherza Mase sulla tenuta da golf di Puff.

"Bad Boys for Life" di Puff Daddy (2001)

Si vede che a Sean Combs il golf piace davvero. Quattro anni dopo Puffy e compagnia arrivano a sconvolgere i vicini di casa con un video pieno di star, quello di "Bad Boys for Life". Un tiro dal tetto di Diddy finisce per rompere la finestra al suo improbabile vicino: Ben Stiller. La star di Zoolander non è in grado di stare al passo con i mille soprannomi di "Poppa Diddy Pop", ma ricorda al rapper di Harlem di invitarlo al suo prossimo party.

Snoop Dogg in Starsky & Hutch (2004)

Ben Stiller e Snoop Dogg si ritrovano nel remake della serie anni Settanta Starsky & Hutch. Il leggendario rapper californiano interpreta l'informatore Huggy Bear, che si ritrova ad aiutare i suoi amici detective in una missione su un campo da golf. In una scena, Huggy fa finta di essere il caddy di un signore della droga, Reese Feldman, interpretato da Vince Vaughn—una critica a come i neri siano stati storicamente per lo più relegati al ruolo di assistenti per bianchi sui campi da golf. Ma la sua conoscenza delle mazze e delle buche gli permette di dare un importante consiglio a Reese su un tiro. "Ne capisci di golf", dice Reese, al che Huggy Bear risponde: "Ne capisco ancora di più di erba".

"Tiger Woods" di Maino (2009)

Nel 2009, la leggenda di Tiger Woods cominciò a deteriorarsi dopo uno scandalo che rovinò la sua reputazione. Fu infatti riportato che Woods avesse tradito la moglie con 120 donne durante un matrimonio durato cinque anni, un fatto che gli costò 22 milioni in sponsor perduti. Il gossip sui tabloid cambiò il significato di citare Tiger Woods in un pezzo rap; passò dall'essere una metafora per indicare un'eccellenza nera all'essere una semplice punchline.

Poco dopo lo scandalo, il rapper di Brooklyn Maino pubblicò la canzone "Tiger Woods (Get 'Em Tiger)", che racconta la sua incapacità di impegnarsi in una relazione monogama. "Man, sono un cane / Sarei fedele se potessi / Ma sono Tiger Woods, sono Tiger Woods", rappa nel ritornello.

"Tamale" di Tyler, The Creator (2013)

Il singolo di Wolf prosegue la tradizione di totale follia di Tyler; la scena del golf in "Tamale" è puro caos. Per quanto lo sport giochi un ruolo minimo nel video, piuttosto eccentrico, Tyler lo porta all'estremo. La sua versione del golf comprende lanciare le mezze e saltare giù dai golf cart come se fosse la cosa più naturale del mondo. E poi c'è il fatto che la sua linea di vestiti si chiama Golf Wang, un gioco di parole su "Wolf Gang" comparso fin dagli inizi nei pezzi della Odd Future.

"No Shopping" di French Montana feat. Drake (2016)

L'anno scorso Drake e French Montana sono tornati a lavorare insieme per "No Stylist", che, col senno di poi, è un bel passo avanti rispetto alla loro collaborazione del 2016 "No Shopping". Il video ci trasporta nella Repubblica Dominicana per El Coke Boys Clasico, un torneo di golf il cui punto è far vedere quanto French e Drake sono fighi piuttosto capire chi fa buca in quanti tiri.

I due sfoggiano baffi finti e accenti ancora più finti, finché Drake non si trova con un ferro in mano. Non eravamo sicuri che Drake fosse capace di fumare le canne o fare ginnastica, ma il fatto che giochi a golf in infradito è un segnale piuttosto chiaro che probabilmente non è capace neanche di giocare a golf.

Scarface è il rapper più fanatico di golf sulla Terra (2016)

Scarface è una leggenda del rap game e, dopo una carriera che ha toccato tre decenni, il rapper di Houston si sta facendo strada nel golf. In un documentario su VICE Sports, Scarface ha parlato di come il suo amore per il golf lo mantenga equilibrato. "Posso fregare te, ma non posso fregare la pista da golf", dice. "Il golf è il più bel gioco che non imparerai mai a giocare".

"Members Only" di Gucci Mane (2017)

Gucci è bravo a giocare a golf? Non lo sappiamo, ma a giudicare dal suo impressionante dimagrimento Guwop sembra capace di fare qualunque cosa decida di fare. In "Members Only", Gucci porta la trap sui prati immacolati di un country club, spassandosela sui prati senza maglietta. Si fa zero problemi su cosa ne pensi la comunità della sua presenza, giustamente.

"Swang" dei Rae Sremmurd (2017)

"Swang", tratta da Sremm Life 2, potrebbe tranquillamente candidarsi come canzone da festa perfetta. E infatti i due rapper del Mississippi fanno festa dappertutto, compresa la pista da golf. Con addosso abbastanza tessuto scozzese, polo e cardigan sulle spalle da riempire una scuola privata, la crew dei Rae Sremmurd è più interessata a bere birra, rollare blunt e ballare che a mettere delle palle in buca.

50 Cent pensa che 4:44 di Jay-Z sia "musica da golf" (2017)

50 Cent non si è mai fatto problemi a esprimere la sua opinione sugli altri rapper, e nessuno si può salvare dal trollaggio. In un post su Instagram (poi rimosso), il rapper di Queens dichiarava che l'attesissimo ritorno di Jay-Z, 4:44, non era proprio la sua tazza di tè. "Sembrava che dovessi indossare gli occhiali e legarmi un cazzo di maglione in vita per ascoltarlo", ha scritto. "Certi pezzi erano tipo musica da pista da golf".

ScHoolboy Q parla di golf con GQ (2019)

Se seguite ScHoolboy Q su Instagram, saprete che il suo amore per il golf non è certo un segreto. In una recente intervista con GQ, il rapper ha parlato di quanto apprezzi questo sport. "Lo dico a tutti: 'Bro, il golf è vita'". Q ora frequenta un country club a Calabasas, un quartiere ricco di Los Angeles, per praticare lo sport a cui tra le altre cose attribuisce il merito della sua sobrietà. "Il golf mi ha insegnato la pazienza, che è una cosa di cui hai molto bisogno quando hai a che fare con il music business, perché quella merda è maligna".

Una versione di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

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Già che siamo sul golf, qua sotto c'è quella volta che siamo andati con DrefGold a giocare a minigolf:

Sono stata al Sónar di Barcellona con Dardust

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Il Sónar Festival è un famosissimo festival di elettronica e rap a Barcellona, oltre che un evento bellissimo che ho gestito malissimo. Dario Faini, in arte Dardust, è uno dei produttori e autori italiani più importanti degli ultimi anni, e lo è diventato ancora di più dopo la vittoria di Sanremo per "Soldi" con Mahmood e Charlie Charles. Sono di fatto sue, tra le innumerevoli, “Calipso” sempre con Charlie, “Riccione” dei Thegiornalisti, “Pamplona” di Fibra, "Visti Dall'Alto" di Rkomi, “Se piovesse il tuo nome” di Elisa, “Nero Bali” di Michele Bravi, Elodie e Guè, “Pezzo di me” di Levante e “Partiti adesso” di Giusy Ferreri, i cui video ufficiali hanno fatto tutti insieme poco più di 400 milioni di views su YouTube.

Prima che i suoi follower su Instagram schizzassero al cielo, però, la vita e la musica di Dario si sono sviluppate attorno al pianoforte e alla musica elettronica. Quindi passare del tempo con lui a un festival che fa proprio di queste cose—e del rap—la sua linfa vitale mi è sembrata un'ottima idea. Io non ci ero mai stata e, senza bisogno di app che ti rubano i dati, al suo ultimo giorno mi ha mostrato come sarò tra dieci anni. Tutto quello che è successo prima del mio micro esaurimento nervoso è stato, invece, incredibile: ogni scenario di bordello e fattanza che mi ero prefigurata è stato polverizzato già durante la giornata di venerdì. Ma come, niente file interminabili per una birra? Tredicimila food truck di cibo di qualunque tipo, che l’anno scorso a un noto festival italiano per mangiare veg sono andata di patatine fritte o panini con solo lattuga per tre giorni? Il bicchiere di plastica, ma con cauzione di due euro, così o te lo porti a casa come gadget o lo restituisci e ti riprendi i soldi? Il braccialetto cashless ricaricabile e rimborsabile? Che matti, questi spagnoli.

Il venerdì è iniziato nel modo migliore possibile, con Lorenzo Senni e il suo nuovo progetto Stargate sul palco Red Bull, proseguito benissimo con Stormzy in sostituzione del povero A$AP Rocky bloccato in Svezia e concluso in maniera commovente dagli Underworld, ultrasessantenni che sono ancora più in forma di me e che quando suonano “Born Slippy” se non ci lasci la lacrimuccia sei amico delle guardie svedesi.

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Lorenzo Senni

Con Dardust abbiamo passato una vagonata di ore durante le quali, ovviamente, l’ho asciugato di domande, interrompendolo mentre consultava con la concentrazione di un monaco zen la app del Sónar. E se c’è qualcuno che le ha reso onore quello è Dardust, che per ogni artista che si stava esibendo andava a leggere bio, discografia, collaborazioni, tutto. Il primo impatto di Dario con la parte pomeridiana del festival, il De Dia, è stato più che felice, con qualche precisazione: "Mi piacciono i diversi ambienti che ti immergono in mondi lontani a seconda che siano al chiuso o all’aperto, ma io sono sempre alla ricerca delle cose più sperimentali, quelle catturano senza dubbio il mio interesse. Credo che la cosa migliore del partecipare a un festival sia poter assorbire vari colori, capire qual è la scena contemporanea, in che direzione sta andando, che cosa le sta accadendo: questo è l’aspetto più figo”.

Ovviamente è uno che studia, mentre guarda e ascolta: “Vado a vedere prima tutte le particolarità dell’artista, il suo background, il suo percorso. Mi piace capire il concept di ogni artista. Quando, invece, capto solo l’atmosfera, mi appassiono un po’ meno”.

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Dardust e l'autrice

Come dicevamo prima Dardust è famoso come produttore di hit che spaziano tra pop e rap, ma dietro il suo talento c'è un appassionato studioso anche della musica più difficile e underground. “Ho studiato al Gaspare Spontini di Ascoli Piceno. Sono partito dagli studi classici, ero bravo a suonare il pianoforte, poi a una certa ho fatto arrabbiare di brutto la mia insegnante e verso i 16 anni mi sono stra-appassionato all’elettronica. Sono partito dai Kraftwerk e da tutta la scena berlinese, con varie incursioni a Berlino per vivere in prima persona il clubbing che brillava là. Poi l'innamoramento da Berlino si è spostato in Islanda, con i vari Ólafur Arnalds, Sigur Rós, Björk eccetera. Tutte le diverse fasi della mia formazione musicale le ho poi riversate in Dardust”.

Ci muoviamo verso il palco Red Bull per assistere alla performance di Yakamoto Kotzuga, che amiamo tutti molto, e nel tragitto gli domando se pensa che l’essere nato in provincia sia stato uno stimolo in più o una difficoltà in partenza: “La provincia è un’arma a doppio taglio: se sei ambizioso e vuoi realizzare grandi cose alimenta la frustrazione, perché non hai a portata di mano quello che ti serve. Però allo stesso tempo può pure alimentare la fame: per emergere devi volerlo con tutto te stesso, sennò la provincia ti tarpa le ali”. Da provinciale, il discorso mi interessa, quindi non lo mollo e gli chiedo che cosa c’è stato dopo Ascoli. “Roma. In pochi lo sanno, ma io mi sono anche laureato in Psicologia, cosa che mi è servita tanto nel mio lavoro, soprattutto a livello di scrittura e percezione musicale. La psicologia mi aiuta a creare il mio mondo musicale e a immaginare l’effetto su chi mi percepisce da fuori, infatti la mia tesi era 'La psicologia dell’ascolto musicale'".

Mi viene da pensare che i suoi studi gli siano serviti anche per gestire la miriade di persone con cui collabora: “Anche, sì. Credo di avere una buona capacità di entrare in empatia con gli artisti e con i loro ego. Perché l’ego è la parte più difficile da maneggiare e per farlo bisogna essere, senza sbruffoneria, come me: low profile, essere disposti a lasciarsi contaminare e cercare di contaminare con delicatezza l’altra persona. Se lavori con umiltà e con competenza, alla fine conquisti la fiducia anche dei più egocentrici. E comunque io sento, in totale sincerità, di aver imparato a mia volta qualcosa da ognuno, specialmente dai più giovani, che magari hanno meno conoscenza, ma anche più purezza”.

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Yakamoto Kotzuga

A questo punto ci siamo immersi nella bolla onirica e ipnotica di Yakamoto e, dopo qualche minuto necessario per riprenderci da uno show che sa sospendere il tempo e lo spazio, torniamo a parlare, e ripartiamo proprio dai giovani con cui Dardust, da Mahmood a Sfera, sta felicemente collaborando. Lui si sente “un anello di congiunzione tra la generazione under-25 e quella under-35, e la cosa mi rende orgoglioso, ma non c’è solo quella componente. C’è anche il fatto che la mia ossessione è quella di invecchiare sul fronte della musica, quindi cerco sempre, come il mio mito David Bowie, di collegarmi alle nuove ondate, a ciò che di fresco spunta sulla scena. Lo trovo indispensabile per una longevità artistica. Per esempio io trovo che trap e l’urban siano stati i movimenti più rivoluzionari degli ultimi cinque anni, quelli che hanno cambiato il volto del mainstream, e anche della scena indie. Io ho grande rispetto per questi generi e per chi li ha fatti crescere, non capisco la spocchia di chi li liquida come fossero spazzatura”.

A questo punto ci separiamo: Dario e il suo manager Paolo in direzione Actress, io dalla mia amata BadGyal, che però mi spezzerà il cuore con un live molto ballato (da dio, ovviamente), poco cantato e con qualche sospetto di playback. Ricongiunta con Dardust, decido di alzare il livello di difficoltà e, sulla scia della recente polemica Salmo vs FSK Satellite, se secondo lui esistono dei limiti di natura “etica” all’espressione artistica. Di getto mi risponde che “no, non esiste un limite, anche perché nella storia della musica ci sono sempre stati riferimenti alle droghe e all’eccesso". Eppure, riflette, "forse è necessario un ragionamento più profondo, perché se il messaggio di un artista che ha potere sul proprio pubblico può creare un danno alla psicologia di un quattordicenne, ovvio che la situazione sul piano morale diventa più delicata. Forse non sono in grado di rispondere, perché sento che cado da un parte e dall’altra: da un altro penso non ci debbano essere limiti alla creatività, dall’altro penso che una responsabilità su quello che dici la devi avere. La trap, ovviamente, ha un fortissimo riferimento edonistico: personalmente, io mi appassiono di più a quello che fa Kendrick Lamar, che tra l’altro metto al primo posto dei live più belli che ho visto negli ultimi anni”.

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BadGyal

E quindi, domando mentre Max Cooper sta già incendiando il palco, sente la mancanza di un po’ più di politica nella musica italiana? “No, non mi manca la politica. Forse è perché non mi ha mai affascinato, ma non la vorrei in mezzo al discorso musicale. Mi piace, invece, quando nell’immaginario dei testi il riferimento sociale e pure politico è sottinteso, celato, non didascalico com’era per un certo cantautorato italiano”. Urlando per sovrastare l’attacco bello aggressivo di Cooper, tento un’operazione nostalgia del tutto fallimentare, facendo menzione della band Elettrodust da lui fondata nel 2000, quella con cui ha cominciato la sua carriera—ma lui scoppia a ridere e mi chiede se “possiamo evitare questa domanda”. Possiamo e dobbiamo, perché ci immergiamo nel set roboante di Cooper. Dario è insaziabile e corre a vedere Hauschka & Francesco "Burro" Donadello ma io, che sono ormai più affamata di hummus che di set, scelgo di salutarlo. Ci ritroviamo qualche ora dopo al De Noche, dove io raggiungo il picco del divertimento con Bad Bunny, mentre Dario e Paolo snocciolano live su live a cui hanno assistito.

Dato che qui il volume è altissimo, sparo le ultime domande. Chiedo se sta collaborando con Sfera a X Factor, ma non mi può rispondere; quando invece allargo il fuoco su musica e TV e sulle conseguenze della loro interazione, mi dice che “la televisione ha permesso a noi autori di tornare a lavorare, e io stesso ho iniziato a farmi notare così. Poi ho cercato nuove direzioni e nuove forme”. Ma com’è essere un autore, domando con sincera curiosità, e scrivere qualcosa che altri interpreteranno e magari non faranno come sognavi tu? “Innanzitutto io mi definisco autore, arrangiatore e produttore, perché quando scrivo un pezzo, poi seguo anche tutta la produzione. Poi, ci sono due direzioni: o si lavora a fianco dell’artista, per cui ci sono continui scambi e feedback, oppure si scrive in maniera del tutto libera, senza pensare a qualcuno. Devo dire che funzionano bene entrambi modi. Il secondo è più misterioso e ha il fascino delle cose ignote, il primo è basato su ciò di cui parlavamo prima, e cioè l’empatia”. Domanda stronza: qualche volta hai pensato che il tuo pezzo non dovesse proprio finire in mano a un certo interprete, senza fare nomi per carità? Sorrisetto imbarazzato e “sì” quasi impercettibile.

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L'autrice e Dardust

Dato che siamo agli sgoccioli e io a breve andrò da Skepta e loro da Kaytranada (mannaggia e questa sovrapposizione) chiedo al volo a Dardust che cosa lo rende più felice oggi fare, e lui non mi lascia nemmeno finire la domanda: “La dimensione piano solo con cui sto girando ora. Volevo rimettermi sotto sul piano tecnico, della disciplina e dello studio. Al mattino mi sveglio e prima di accendere lo studio mi faccio due ore di pianoforte. Questo mi permette, anche psicologicamente, di affrontare questo tipo di live molto delicato e molto più complicato di quando hai dieci sintetizzatori e tanti compagni con te sul palco. Quando sono lì, da solo, è bellissimo. Lo show si chiama Lost in Space, è un racconto di dieci pianeti, ognuno collegato a un brano. Questa forma di live mi sta permettendo di aprirmi tanto al pubblico, io che non sono mai stato tanto espansivo. Poi ci sono anche momenti di pericolo, eh, o di distrazione, che devo gestire nel silenzio con questo mare nero davanti, che so essere composto da mille o duemila persone. Intenso, emozionante, mi ci voleva”.

E lui che ha collaborato con il mondo, con chi sogna ancora di fare cose? “Il mio sogno in assoluto è collaborare con Morgan, che tutti conoscono, tranne me che non ci ho mai parlato per più di 30 secondi. Lo stimo da sempre, lui è stato davvero il catalizzatore di ciò che accadeva in un certo mondo, quello che piaceva a me, e l’ha rimodellato a suo gusto. Ci terrei moltissimo a fare qualcosa con lui”. E con l’immagine della coppia Morgan-Dardust impegnata in trip musicali che potrebbero essere davvero dirompenti, ci salutiamo, diretti verso palchi e mondi lontanissimi. Ma tempo 12 ore e, mentre io sono già in Italia alle prese con una maratona di recupero sonno, Dario mi ha già mandato il suo commento alla giornata di sabato di Sónar 2019, il primo per entrambi, sicuramente non l’ultimo per me.

Nicola Cruz mi è piaciuto molto, fedele a livello di impatto emozionale al suo lavoro, che avevo scoperto un anno fa. Di lui mi piace l’approccio organico a livello percussivo con contaminazioni sudafricane e sudamericane che vengono veicolate verso un approccio spirituale. Il concept spirituale esce fuori. Kelly Moran, pianista raffinatissima, è stupefacente perché fa un set tanto improvvisato quanto controllato dal sound design sul quale si appoggia. Lei ha questo gran piano preparato dove improvvisa con queste cellule melodiche, mentre sotto è tutto controllato da questi rumori ed effetti sempre eleganti ma di grande impatto a livello sonoro. Poi HAAi: mi è piaciuto l’equilibrio tra ricerca del repertorio underground e allo stesso tempo grande potenza al set che lo ha reso accessibile al vasto pubblico, mi è piaciuta l’energia e la carica sulla console, la fisicità e l’approccio techno a tratti violento, ma non si poteva chiudere meglio che un set così.

La producer e cantante tunisina Deena Abdelwhahed aveva delle belle influenze nord africane, e sul lato elettronico ha fatto uno show davvero potente e raffinato, su cui cantava sopra non in maniera accessoria ma dando carattere e mordente alle sue produzioni. Max Cooper lo conoscevo ma non l’avevo mai visto live e mi è piaciuto moltissimo, ha confermato quello che mi aspettavo da lui: set dettagliatissimo sul suono, a livello di beat, a livello di eufemistica, di sound design. Amo questa intelligent dance music, che sa creare il mix perfetto tra eleganza e potenza. Yakamoto Kotzuga l’avevo visto diverse volte e sul palco Red Bull ha confermato alla grande ciò che penso di lui: è uno dei pochi italiani con un carattere unico, che è stato in grado di rimanere fedele nel tempo alla sua indole, senza tradirla mai, anzi: è andato solo migliorando e il suo set ha creato un’atmosfera incredibile, con il pubblico seduto e affascinato in sala, che ha goduto dall’inizio alla fine, con grande attenzione, la dinamica dell’intero set.”

Carlotta è su Instagram.

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Guarda la nostra intervista a Mahmood dopo la vittoria di Sanremo:

Foto di rave illegali a Londra

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Se ti è mai capitato di farti fare una foto a un rave, saprai che si viene sempre malissimo. La t-shirt è lucida di sudore, gli occhi guardano in tre direzioni diverse e la mandibola è aggrappata all'arco sopracciliare. È quel tipo di cosa che dovrebbe esistere soltanto per 24 ore in una Instagram Story solo per gli "amici più stretti". Ti sei divertito, ma, mi spiace, facevi schifo.

Eppure, in qualche modo, la fotografa Claire McIntyre è riuscita a far sembrare anche i rave più sudati e claustrofobici stranamente belli. Nel corso degli ultimi due anni, Claire ha raccolto testimonianze delle sue serate a due rave di Londra est. Qui ha trovato un po' tutti, dagli studenti di arte con la puzza sotto il naso a una mamma di tre figli che usa le feste come rifugio dove dedicare un po' di tempo a se stessa. Claire dice di considerare questo archivio "una cosa da mostrare ai miei bambini un giorno".

Le ho telefonato per parlare di come le barriere di classe si annullano ai rave e del perché molti li preferiscono alle normali serate nei club.

VICE: Ciao Claire. Come hai iniziato a fotografare i rave illegali?
Claire McIntyre: Ho iniziato fotografando la scena dei club techno. Di solito non è permesso fare foto in quei posti, è vietato usare telefoni e fotocamere, così mi portavo una piccola macchinetta analogica. Nessuno la notava perché nessuno sapeva cosa fosse. A forza di fare foto così ho conosciuto un po' di gente che organizzava warehouse party e ho iniziato a fotografare anche loro.

Come facevi a non farti sgamare usando il flash al buio?
Non faccio le tipiche immagini da dancefloor. Piuttosto chiedo alla gente "Hey, possiamo andare nel corridoio?" A volte mi ignorano e continuano a ballare, altre volte mi seguono in una zona più tranquilla.

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Gente che si fa i palloncini al Bow. 2019

Parlami dei rave. Come vengono organizzati?
Di solito sono organizzati da collettivi. Sono persone che hanno lavori normali, ma nel tempo libero mettono in piedi queste cose con le proprie forze soltanto per amore della musica e della cultura. A volte ci chiedono di aiutarli a trovare un capannone o un posto da affittare, ma a volte la polizia li caccia.

Come fanno a evitare la polizia e comunque pubblicizzare l'evento?
Viene tutto coordinato tramite eventi su Facebook e messaggi. Non si sa mai quale sia la location in anticipo. Verso le 10 della sera stessa comunicano il codice postale, o mandano una mappa con le indicazioni.

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Chi si trova di solito ai rave di Londra est?
È una fascia molto varia della popolazione, cosa che trovo molto interessante. Ho fatto festa con tipici giovani di Londra est, ma anche con avvocati e un pediatra con cui mi becco molto spesso. È uno spettro variegato di persone: puoi trovare rifugiati e in certi casi anche parlamentari; il tipo di persone che mi dicono che non dovrebbero essere lì. È totalmente aperto a chiunque.

E come funziona?
Per me è davvero affascinante, perché ci sono persone in cui non ti imbatti nella vita di tutti i giorni, e distrugge completamente le barriere tra classi. Penso che siano piccole gemme che sono davvero importanti per Londra, una città ancora molto segregata in base alle classi.

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E queste feste sono sempre a base di techno?
Sì, una è un po' più "heavy" – quello che ti aspetti da una festa techno. Ma nell'altra c'è più roba sperimentale e non molto pulita; può diventare difficile mantenere la concentrazione. È tipo ket house – ketamine house. C'è una droga diversa per ogni party, ma è sempre elettronica.

Perché pensi che la gente preferisca i rave ai soliti club?
Non c'è la security all'ingresso quindi devi solo pagare 10 o 15 sterline e sei dentro. Per quanto riguarda le droghe e cose del genere, è tutto permesso quindi non devi andare in bagno per consumarle in segreto. Tutti sono disposti a condividere. Ma non sono qui per promuovere il consumo di droghe [ride].

Però sembra un posto più sicuro per consumare droghe.
Già, è quello che sto cercando di dire. Ognuno è pronto ad aiutare gli altri e nessuno va in paranoia perché la security potrebbe buttarti fuori. Ci sono solo alcune persone pagate per controllare che nessuno rubi i soldi destinati ai DJ.

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Qual è stata la più bella location che hai visto?
Di solito fanno piuttosto schifo, a essere sincera – sono solo dei capannoni. Però sono stata a un rave su una barca a Hackney Wick un paio di volte, quello è carino. Lo organizza una coppia anziana che ha deciso di lasciar usare la propria barca per le feste.

Quali sono le persone migliori che hai conosciuto e fotografato alle feste?
C'è un vecchio tizio italiano che sostiene di essere un mafioso. Nella foto indossa un abito grigio e una bombetta. E un'altra donna, madre di tre figli, che è super tranquilla e vedo a tutte le feste. È strano perché fa una vita super normale, ma ne vive un'altra di notte. È un posto davvero sicuro e la gente è molto rispettosa – l'unica cosa è che probabilmente vedi più droghe di quante ne vedresti durante una serata normale.

@nanasbaah / @clairemmcintyre

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su VICE UK.

Guarda Noisey Meets Jamil

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Jamil è il rapper più odiato della scena. Ci sono un sacco di motivi per cui lo è diventato: un po' perché è una testa calda, un po' perché non si fa problemi a dissare gli altri rapper, un po' perché ha sempre voluto fare le cose di testa sua.

Per il nuovo episodio di Noisey Meets, siamo andati a registrare un'intervista con Jamil e la Baida Army a San Vito, frazione di Verona dove è cresciuto. Lì abbiamo parlato della sua vita, della sua discografia, del rapporto con "suo padre" Vacca e di antirazzismo. Poi ci siamo spostati a casa di William, suo tour manager, e al quartiere Golosine, dove è stato girato il video di "Scarpe Da Pusher".

Jamil ci ha anche parlato di "No Racism", il suo dissing a Traffik e Gallagher, e di "Da Solo", il pezzo tratto dalla deluxe edition del suo ultimo album Most Hated con cui è andato primo in tendenze su YouTube. Guarda l'intervista qua sopra.

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Leggi anche:

Tutto quello che sappiamo sugli arresti per la strage di Corinaldo

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Sabato 3 agosto i carabinieri di Ancona hanno arrestato sette persone in quanto ritenute responsabili della strage di Corinaldo avvenuta a dicembre 2018, in cui sei persone morirono schiacciate dalla calca prima di un concerto di Sfera Ebbasta. A causarla era stato l'uso di uno spray urticante al peperoncino che aveva fatto scattare un momento di panico collettivo. Per fare ordine nella questione, abbiamo messo in ordine tutti i fatti riportati dai giornali negli ultimi giorni.

CHI SONO GLI ARRESTATI E DI COSA SONO ACCUSATI?

Come riportato dal Post, gli arrestati sono tutti residenti in provincia di Modena. Secondo l'ordine di arresto del gip di Ancona, facevano parte di una banda che derubava persone in discoteca in giro per l'Italia. Sei di loro hanno tra i 19 e i 22 anni: si chiamano Ugo Di Puorto, Raffaele Mormone, Badr Amouyah, Andrea Cavallari, Moez Akari e Souaid Haddada. È stato inoltre arrestato il proprietario di un "Compro Oro" di 65 anni. Secondo i carabinieri, inoltre, faceva parte del gruppo anche un ragazzo di 25 anni morto lo scorso aprile in un incidente stradale.

Per tutti l'accusa è di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di furti con strappo e rapina; il sessantacinquenne è inoltre accusato di ricettazione, i sei ragazzi di omicidio preterintenzionale e lesioni personali.

CHE COSA È SUCCESSO LA SERA DELLA STRAGE?

L'accaduto della sera della strage è stato ricostruito dal gip Carlo Cimini. I sette erano arrivati alla Lanterna Azzurra di Corinaldo verso le 23:50. Divisi in due gruppi, avevano cominciato a tentare di derubare i presenti, sottraendogli oggetti come collane, catenine, bracciali o orologi. Dopo aver rapinato cinque persone, però, qualcuno li aveva notati: uno di loro, Ugo Di Puorto, ha quindi usato lo spray urticante come diversivo per riuscire a fuggire. Questo ha generato, come risaputo, un momento di panico collettivo: i presenti hanno cominciato a riversarsi fuori dalla discoteca e, dati anche problemi con le vie di fuga e i sistemi di emergenza, sei persone sono rimaste morte schiacciate nella calca.

COME, DOVE E DA QUANTO OPERAVANO I COLPEVOLI?

La procura ha scoperto che tra ottobre 2018 e luglio 2019 i colpevoli avevano usato la stessa strategia del concerto di Sfera Ebbasta per compiere decine di rapine in giro per l'Italia, sempre a concerti e DJ set di musicisti molto famosi, informandosi sui locali, sulla loro capienza e sui parcheggi disponibili. Tra i luoghi in cui hanno operato ci sono stati Roma, Milano, Padova, Bologna e Disneyland Parigi.

Spesso, come ha spiegato Repubblica, si facevano accompagnare da un cinquantenne che fingeva di essere un loro genitore, obbligato ad accompagnarli dietro minacce e percosse. L'ordinanza di arresto parla di "calci, pugni, percosse mediante l'utilizzo di mazze da baseball o spegnimento di sigarette sul suo corpo". Quest'uomo ha poi denunciato uno dei membri del gruppo, portando gli investigatori verso l'individuazione dei colpevoli.

COME SONO STATI INDIVIDUATI I COLPEVOLI?

Oltre alle testimonianze dei presenti e alla denuncia del cinquantenne che ha denunciato uno di loro per percosse, la procura di Ancona è arrivata all'identità dei colpevoli a partire da un precedente: qualche mese prima un gruppo di ragazzi era stato fermato e trovato con cinque catenine appena rubate. I sospettati erano stati quindi sottoposti a intercettazioni telefoniche, ad accertamenti e alla sorveglianza delle loro automobili. I carabinieri hanno analizzato i loro tracciati telefonici, scoprendo così che la sera della strage si trovavano tutti a Corinaldo alla Lanterna Azzurra.

Repubblica ha riportato alcuni virgolettati tratti dalle "centinaia di ore" di intercettazioni: "Siamo andati a una festa fra e son morte 6 persone". "Vecchio, spray, iniziava a tossire fra, la gente che urlava, la gente che iniziava a cadere, io ho saltato tre persone fra, ho passato certe cose fra". "Andavamo avanti a sgasare. Io le facevo... per riuscire anche a non pagare fra, lo usavamo anche per non pagare. Mamma mia fra ci aveva preso la mano!" "Ti ricordi a Firenze, in Toscana, entravi... eri il maestro dello spray".

Nelle intercettazioni, i ragazzi dicono inoltre di aver incontrato Sfera a un Autogrill la sera della strage: "Se non era stato per i morti te lo giuro [...] lì, gliela faceva"; "Io lo schifo proprio come persona, ci stavo per litigare in Autogrill, lo stavo per bussare quel figlio di [...]".

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Le sigle dei cartoni animati sono lezioni di vita

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Su Netflix c’è una serie animata intitolata F is for Family che, nella sigla iniziale, ha trovato il modo perfetto per descrivere il processo di diventare grandi. La scena è un ragazzo che, dopo aver lanciato in aria il tocco alla cerimonia del diploma, inizia a volare nel cielo. All'inizio si comporta come fosse Superman, ma improvvisamente viene investito da una pioggia di oggetti: la cartolina del servizio militare, un biberon, una torta nuziale, bollette da pagare, lavoro… Insomma, una caduta libera senza controllo e senza freni, e buona fortuna se vuoi capirci qualcosa.

Demented Burrocacao—che se siete lettori di VICE conoscete benissimo come autore di Italian Folgorati, la rubrica che scava nel torbido più torbido della musica pop italiana—contro la pioggia di casini, dubbi e responsabilità della vita ha aperto l’ombrello della musica e dei cartoni animati. Nato Stefano Di Trapani nella selvaggia periferia romana di Primavalle a metà anni Settanta, da bambino Demented si rivolgeva alla TV per trovare un linguaggio chiaro, che gli spiegasse le cose importanti della vita: la lealtà, il coraggio, la giustizia, l’amore, la tolleranza, i sintetizzatori. Da grande, si è dato alla sperimentazione musicale in tutte le sue forme: dal punk-noise di Hiroshima Rocks Around e Maximillian I al folk-pop intimista di Trapcoustic, passando per il puro rumore di System Hardware Abnormal e la poesia sonora di Acchiappashpirt, ha anche collaborato con Calcutta per Forse... e The Sabaudian Tapes.

Il suo primo libro Si trasforma in un razzo missile, uscito poche settimane fa per Rizzoli Lizard, è proprio un mixtape per l’infanzia, che mette ordine in quel marasma e per farlo usa le sigle dei cartoni. È un libro tutto ambientato tra le 2 e le 4 del pomeriggio, tra l’uscita da scuola e l’inizio dei compiti. Anche le illustrazioni di Simone Tso riportano a quei momenti, con i colori a matita, l'urgenza espressiva e il soggetto, Demented, messo a fianco ai suoi idoli animati. Nella narrazione, però, protagonisti come Lupin, Lady Oscar, Capitan Harlock e Mazinger si fanno da parte e lasciano spazio ai grandiosi musicisti italiani che le loro avventure le hanno sonorizzate.

ufo robot goldrake
Un fotogramma della sigla finale di UFO Robot Goldrake, cliccaci sopra per ascoltare la playlist YouTube di Rizzoli Lizard con tutte le sigle incluse in 'Si trasforma in un razzo missile'

Quando pensiamo alle sigle dei cartoni animati, infatti, non dobbiamo pensare soltanto a Cristina D’Avena: prima di lei, molte delle storie animate giapponesi che arrivavano in Italia erano musicate da band semi-anonime, ma dietro le quali si celavano nomi fondamentali della musica italiana. Parliamo di artisti che hanno suonato con Battisti, Guccini o gli Area, che nel costruire queste sigle davano sfogo alle loro perversioni pop più oscure, cucinando futuristiche pozioni a base di funk, elettronica e rock’n’roll che sono rimaste tatuate nei cervelli di almeno un paio di generazioni.

Ken Il Guerriero, Jeeg Robot, Lamù, Ranma, Goldrake: a ognuna di queste sigle, nel libro, Demented dedica un capitolo, una tessera del mosaico di un’infanzia italiana, alla scoperta di se stesso e degli altri, che siano i bambini stranieri che si sono trasferiti al piano di sotto o l’ubriacone del quartiere dal quale la mamma ti mette in guardia. E, come l'autore, tutta la sua generazione ha le sue sigle preferite: per esempio, lo sapevate che il ritornello della terrificante "Nella mia mano" di Metal Carter è preso pari pari dalla sigla di La Balena Giuseppina?

Ho chiamato Demented per fare due chiacchiere, scoprire che cosa l’ha spinto a scrivere questo libro e che cosa ha imparato di sé e dei propri coetanei.

VICE: Cominciamo dalle basi: dove e come hai trascorso l’infanzia?
Demented Burrocacao: Sono nato a Torrevecchia, al confine con Primavalle, nella periferia Nord Ovest di Roma. Quando si pensa a Roma Nord vengono sempre in mente i Parioli, ma ci sono anche contesti molto più suburbani. A Primavalle l’atmosfera è inquietante, c’è anche l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà che contribuisce. Il libro parte dal 1978, quando avevo tre anni, da lì comincia il periodo che davvero mi ricordo.

Lì hai cominciato a usare i cartoni come àncore di immaginazione per capire meglio la realtà, insomma.
Scrivendo il libro mi sono reso conto che delle trame dei cartoni mi ricordo proprio poco. La cosa principale per me erano i suoni. Gli italiani hanno un po’ sottovalutato il potere della follia giapponese, che usava la fantasia per spiegarti la situazione reale. Non era Hanna & Barbera, che aveva l’Orso Yoghi, tutto carino; era Capitan Harlock, che lasciava tutti spiazzati. Era un cavallo imbizzarrito che non si sapeva come domare, e il problema è arrivato quando questo tipo di cartoni animati hanno avuto un grande successo inaspettato.

La vera sorpresa del libro è quanto diventi appassionante seguire la tua vicenda autobiografica.
Pasquale La Forgia, editor di Rizzoli Lizard, mi aveva fatto capire che un saggio puro sulle sigle dei cartoni animati sarebbe stato un po’ una rottura di palle. Così mi sono chiesto quale fosse l’importanza di questi lavori per me, e sono giunto alla conclusione che hanno rappresentato dei pilastri nella mia crescita sia personale che culturale, perché è grazie a loro che mi sono appassionato alla musica. E mi è venuto in mente che non tutti prendono in considerazione l’importanza di queste musiche, la gente tende a trattarle un po’ come cazzate per ragazzini.

Ma infatti è interessante vedere che tante di queste sigle sono state scritte da giganti della musica, mi vengono in mente Detto Mariano, Ares Tavolazzi degli Area
E Morricone, Micalizzi, Giovanni Tommaso dei Perigeo, Agostino Marangolo dei Goblin! E soprattutto uno scatenato Nico Fidenco, di cui avevo già parlato su VICE per le sue fantastiche colonne sonore porno. In questi contesti lui ha sfogato le parti più sperimentali della sua arte, le cose che non gli facevano fare quando si occupava di musica leggera “alta” (perché c’è questo paradosso della musica leggera “alta” e quella “bassa”, cioè le sigle e le colonne sonore)—per esempio la sigla di Bem, che è uno dei migliori pezzi dark della storia d’Italia. Per molti musicisti era un laboratorio.

È qui che entra in gioco la tua esperienza di Italian Folgorati, perché tra tutte queste sigle sei riuscito a scovare delle perle di stranezza e avanguardia considerevoli.
Per me la folgorazione è arrivata con “Shooting Star” degli Actarus, la sigla finale di UFO Robot Goldrake. Era il lato B della più famosa “UFO Robot”. Considera che ero un bambino, e non avevo mai sentito un basso che suonasse così. Manco sapevo che cosa fosse un basso fretless! Poi prendi la sigla di Ken Il Guerriero, suonata da tali Spectra: io pensavo fosse un gruppo new wave, invece si trattava di Claudio Maioli, tastierista di Lucio Battisti in Anima Latina. Spesso si trattava di session men che sfogavano le loro pulsioni da autori e tiravano fuori della roba micidiale. Ah, ecco un esempio perfetto di sigla che stava avanti anni luce: Baldios! Il Coro di Baldios, autori ufficiali della sigla, erano un progetto di Giuseppe Damele che collaborava con i Signori della Galassia, uno dei gruppi space-rock-wave più strani della storia, sempre rimasti nell’underground finché non sono stati riscoperti intorno al 2006. E poi c'erano i Band of Mara, autori della sigla di God Mars, un cartone che forse non ha visto nessuno, però praticamente loro facevano i Daft Punk in anticipo di decenni.

Nel libro infatti citi molte sigle secondo te fondamentali per un certo suono ma legate a cartoni che non hanno avuto alcun successo…
Eh sì, perché le due cose non sono per forza legate. Per esempio Daitarn, ok, è un bel funkettone, ma è più facilotto. Altre sigle invece erano più complicate, più profonde, e io mi affezionavo subito a quelle: poi se mi piaceva la sigla, automaticamente mi piaceva anche il cartone animato.

si trasforma in un razzo missile cover demented burrocacao rizzoli lizard
La copertina di 'Si trasforma in un razzo missile', cliccaci sopra per acquistare una copia del libro

A livello personale, hai riscoperto dei ricordi che erano rimasti sepolti grazie a questo lavoro?
Certo, è successo eccome. Ho iniziato pensando alle prime sigle che mi venivano in mente e creando una specie di mappa dei ricordi con situazioni, età, luoghi, persone. È stato un po’ un flusso di coscienza. Lo spartiacque è proprio “Marameo” di Stefania Rotolo, che introduceva la parte per bambini di Tilt, il programma Rai. “Le favole di un tempo sono roba da museo / e se tu me le propini io ti faccio marameo!” voleva proprio dire che noi bambini con quelli della generazione precedente non riuscivamo a comunicarci, e invece i cartoni (dopo quella sigla di solito andava in onda Capitan Harlock) ci dicevano le cose come stavano. Niente principe azzurro, niente fatina: era il momento di riprenderci il nostro spazio nella storia.

Il tuo libro parla perlopiù delle sigle storiche degli anni Settanta e Ottanta, come ti sembra che sia cambiato il panorama della musica nell’animazione oggi?
Anche oggi escono sigle interessanti, molto virate sull’elettronica tirata o sul pop lisergico. Però negli ultimi anni il problema è che si è messo l’accento sulla quantità invece che sulla qualità. Se dovessi fare una mappatura dei cartoni animati recenti, c’è tanta roba che mi esalta, però è roba originale giapponese. Non si è più disposti a investire per trovare musicisti italiani che spacchino e far fare le sigle a loro, al massimo si mette una voce italiana sull’originale giapponese, come era già stato fatto per Ranma. Il motivo, oltre alla questione economica, è che a livello tecnico e musicale, anche pop, i giapponesi al momento sono a un livello assolutamente irraggiungibile dagli italiani, anche se qua forse non ce ne rendiamo del tutto conto. Ma le loro sigle sono insuperabili.

Ma parliamo di Cristina D’Avena, che per gente della mia età è sinonimo di sigle dei cartoni. Nel libro non compare poi così tanto, descrivi un mondo molto più grande di lei.
Il motivo, banalmente, è che parlo di una fascia temporale in cui lei non era ancora la regina indiscussa. A un certo punto poi il suo successo ha asfaltato praticamente tutti, lei compresa, perché si è ritrovata a fare sigle dozzinali. Prendi “Siamo fatti così”: certo, è famosissima, l’ha scritta il figlio di Mina, Massimiliano Pani, però non è che l’ascolti e dici “wow, che pezzone” [ride]. A un certo punto è diventata una questione meramente commerciale. Per questo nel libro non occupa una posizione predominante, perché all’epoca di cui parlo era ancora così. Era una fra le tanti cantanti di sigle.

Tu parli con grande leggerezza delle sigle dei cartoni come influenza fondamentali per molta musica italiana, ma è una nozione davvero assurda a pensarci. Credi che sia vero?
Beh, ti ricordi quando i Decibel avevano beccato la stessa melodia di “Robin Hood” di Cristina D’Avena? Poi, se ci pensi, moltissimo itpop è chiaramente influenzato dalle sigle dei cartoni anni Novanta. Calcutta stesso faceva delle feste a Latina in cui metteva anche le sigle dei cartoni. Per questa generazione, è un po’ come per noi risentire le vecchie canzoni italiane anni Sessanta, quelle di Edoardo Vianello: “La tremarella”, “Abbronzatissima”, “I Watussi”. Resti di un tempo spensierato che non c’è più—ma con un suono che spacca ancora oggi.

Se vuoi leggere altre cose di Demented, da' un'occhiata alla sua rubrica su VICE Italian Folgorati e seguilo su Instagram, Facebook e Twitter.

L'illustrazione di Lupin è di Simone Tso, per gentile concessione di Rizzoli Lizard.

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6ix9ine ammetterà che alcuni suoi testi sono minacce ad altri rapper, pare

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Un’investigazione pubblicata da Complex ha rivelato nuovi sviluppi sui problemi legali di 6ix9ine, al momento in carcere e in attesa di processo dopo essersi dichiarato colpevole di numerosi capi d'accusa. Come riportato, il rapper ha deciso di collaborare con le autorità nel processo che lo vede coinvolto e ora è stato chiamato ad ammettere che i suoi testi contengono minacce ad altre persone. Una è Anthony “Harv” Ellison, accusato di averlo rapito e derubato nel 2018. Una è Aljermiah “Luke” Mack, uno spacciatore. La terza è Trippie Redd, suo ex collaboratore.

Documenti governativi affermano infatti che “un collaboratore di giustizia”—presumibilmente 6ix9ine—testimonierà di aver offerto 50.000 dollari per l’omicidio di Ellison e che i testi di alcune sue canzoni vanno a dimostrare la sua condotta criminale.

I pezzi incriminati sono tre. Uno è “GUMMO”, che conterrebbe una minaccia al tour manager di Trippie Redd (“KB, you a loser, ni**a, up that Uzi, ni**a”). Le autorità vorrebbero infatti inserire nel processo un'aggressione che 6ix9ine e i suoi fecero a Trippie a novembre 2017, così da dimostrare l'esistenza di precedenti violenti da parte loro.

Un altro è “KOODA”, il cui ritornello sarebbe una minaccia al rapper Casanova, con cui 6ix9ine e i suoi hanno avuto uno scontro finito in una sparatoria nel 2018. La parte del testo incriminata è il ritornello: "N****s runnin’ out they mouth but they never pop out / Mobbed out, opps out, we gon’ show what we about / All my n****s really gang bang". L’obiettivo dell’accusa è dimostrare che mentre Casanova si limitava a minacciare 6ix9ine e la sua gang, questi avrebbero effettivamente realizzato le minacce contenute nei loro testi.

Infine c'è "BILLY", il brano di apertura dell'unico album di 6ix9ine, che si apre con un monologo del suo manager Shotti, anch'egli coinvolto nel processo: "These n****s just runnin' out they fuckin' mouth, man / Follow protocol, Blood, get in they fuckin' chest, n***a / We the fuckin' M.O.B., n***a / These niggas bleed different / We don't bleed, n***a / We make n****s bleed, Blood". In questo caso, 6ix9ine testimonierà che queste minacce sono riferite a Mack e Casanova, rei di avere messo in dubbio le sue capacità di gangster.

Insomma, 6ix9ine andrà ad ammettere che le minacce contenute nei suoi testi erano vere minacce, coerentemente con la sua scelta di collaborare con le autorità. Se di solito le parole dei rapper vengono usate contro di loro, stavolta è invece un rapper a usarle contro altri imputati per diminuire la propria pena.

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Guarda The People Versus Elettra Lamborghini

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"Pem Pem", "Mala", "Tocáme": i video di Elettra Lamborghini sono un mondo bellissimo in cui si twerka sulle macchine della polizia e Pitbull ti saluta dicendo "sciao bèla". Ma anche il migliore dei mondi possibili ha le sue imperfezioni, e per "imperfezioni" intendiamo "gli hater che ti insultano la famiglia nei commenti".

Per il nuovo episodio di The People Versus abbiamo chiesto a Elettra Lamborghini di rispondere ai commenti sotto alcuni dei suoi video su YouTube. Lei lo ha fatto con molto stile e, soprattutto, è rimasta affascinata da quanti di voi se la vogliano bombare.

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I momenti più leggendari di Woodstock, cinquant’anni dopo

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Non tutti sanno che, negli anni Cinquanta, i giovani non esistevano. C’erano solo i bambini e gli adulti. Fu il rock’n’roll, a fine decennio, a dare il via alla categoria dei giovani nell’Occidente ricco: una fascia di popolazione che avrebbe consumato una cultura nuova, che metteva tematiche adulte come il sesso, la musica e la poesia nella situazione non-adulta della festa, del gesto avventato del ballo. Prima del rock’n’roll, l’universo di una persona maggiorenne aveva due orizzonti: il lavoro e la famiglia. Il rock’n’roll aggiunse al cocktail sociale il terzo elemento: né bambini né adulti, i giovani erano la perfetta macchina consumatrice perché avevano i soldi ma non avevano famiglie o responsabilità a cui pensare. Potevano spenderli in cose per sé.

Quello che non ci si sarebbe aspettati, vedendo i giovani timidamente agitarsi nelle balere come puledri appena nati, era che pochi anni dopo quella dei giovani statunitensi sarebbe diventata una vera e propria cultura. Il cocktail di Guerra Fredda, lotta per i diritti civili degli afroamericani, poesia beat, rock’n’roll e diffusione delle droghe spinte dal vento del proibizionismo, diventa esplosivo. Dalla nuvola di polvere, come un Pig Pen dallo sguardo spiritato, escono gli hippie.

Ora noi non sappiamo più com’è che ci si sente quando si ha una speranza nel futuro, perché tanto per cominciare il cazzo di pianeta sta andando a fuoco, poi non sappiamo bene chi abbia il potere su questa Terra ma sappiamo per certo che ci odia e da quando esistono i social network abbiamo scoperto che è pieno di stronzi dappertutto. A differenza nostra, la generazione hippie ha ben chiaro chi è il nemico e come combatterlo. I nati nel boom post-Seconda Guerra Mondiale hanno il tempo e l’hummus politico-culturale giusto per creare una grande controcultura, che terrà banco nella seconda metà degli anni Sessanta e lentamente scomparirà nella prima metà dei Settanta. Il suo punto più alto e rappresentativo, allo stesso tempo Zenith della cultura e coacervo dei più banali stereotipi? Ma Woodstock, naturalmente. Il festival di “pace e musica” che si è svolto esattamente 50 anni fa in un terreno di campagna a Bethel, stato di New York.

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Due hippie a Woodstock, foto di Derek Redmond e Paul Campbell via Wikimedia Commons / CC BY-SA 3.0

Nei giorni tra il 15 e il 18 agosto 1969 infatti si è tenuta la più leggendaria tre giorni di musica di tutti i tempi. Sul palco, nel mezzo di un terreno di quasi 2500 metri quadri, sono salite 32 band. A causa della pioggia e di vari problemi organizzativi, i concerti che dovevano concludersi domenica sera sono andati avanti fino a lunedì a mezzogiorno, quando Jimi Hendrix ha chiuso la manifestazione scendendo dal palco e svenendo dalla stanchezza.

Gli organizzatori (i due promoter Michael Lang e Artie Kornfeld con i finanziatori Joel Rosman e John P. Rosman) si aspettavano circa 50 mila persone; ne arrivarono 400 mila. Le strade erano così intasate che per far raggiungere ai musicisti l’area del festival toccò noleggiare degli elicotteri. Le contee vicine dichiararono lo stato di emergenza e nella popolazione della campagna circostante scattò la psicosi anti-hippie. Eppure, nonostante i problemi, il fango, le lamentele dei musicisti che non si poterono esibire all’orario prestabilito, Woodstock è rimasto nella storia come l’ultimo vero momento di pace e armonia all’interno del movimento hippie. Il fuoco della sua leggenda è stato alimentato anche dal mitico film dell’evento, che va visto almeno una volta nella vita ed è su Amazon Prime.

Woodstock è stato l'ultima volta che i giovani hanno pensato di poter cambiare qualcosa con la musica, la cultura e l'amore. Presto, il caso Manson (agosto 1969), la strage di Altamont (dicembre 1969) e la sparatoria all'università di Kent State (maggio 1970) pianteranno i primi chiodi nella tomba del movimento hippie.

Per festeggiare il 50esimo compleanno del festival e dimenticarci della terribile debacle di Woodstock50 (una specie di nuovo Fyre Festival per pensionati) abbiamo deciso di raccogliere cinque momenti tra i più storici e rappresentativi dell'Aquarium Rock Festival, Tre giorni di pace e musica. Insomma, Woodstock.

COUNTRY JOE MCDONALD CHE PRENDE METAFORICAMENTE A CALCI GLI HIPPIE

country joe mcdonald woodstock
Country Joe che suona “I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag” a Woodstock, clicca sullo screenshot per vedere il video su YouTube

Era l'una di sabato pomeriggio e i concerti erano già slittati drammaticamente. A un certo punto sarebbe stata ora di far suonare Carlos Santana e la sua band, ma leggenda vuole che fossero tutti incapacitati dall'LSD, così per prendere tempo fu messo sul palco Country Joe McDonald, che aveva già in programma un concerto con la sua band The Fish il giorno dopo, ma accettò di suonare un po’ di canzoni in acustico mentre quei fricchettoni tentavano di riprendere contatto con la realtà. Il suo set pomeridiano si chiuse con il leggendario inno anti-guerra “I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die Rag”, ma il numerosissimo pubblico di Woodstock, probabilmente esausto, seguiva la performance da seduto o sdraiato sul prato. Country Joe non la mandò giù; dopo aver fatto gridare “FUCK” a tutti e 400 mila i giovani partecipanti per avere la loro attenzione, ricominciò la canzone e li esortò dicendo: “Sentite, non so come vi aspettate di riuscire a fermare la guerra se non riuscite nemmeno a cantare più forte di così, siete in 300 mila stronzi qua, voglio sentirvi cantare!”. Funzionò, a parte la cosa di fermare la guerra.

JANIS JOPLIN CHE CANTA VIA I SUOI DEMONI

janis joplin woodstock
Screenshot da un video di Janis Joplin live a Woodstock, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Ad agosto ’69, Janis Joplin aveva appena finito di registrare il suo primo album dopo aver lasciato Big Brother and the Holding Company, I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama! e stava affrontando un brutto periodo a causa della sua dipendenza da eroina e alcol. Avrebbe dovuto suonare nel pomeriggio di sabato 16 agosto, ma a causa di tutti i vari ritardi e problemi organizzativi la sua performance si spostò in avanti di circa 10 ore e quando salì sul palco, intorno alle 2 di notte, Janis faticava a reggersi in piedi e la sua voce era roca e impastata. Una volta preso in mano il microfono, però, la magia di Woodstock trasformò la sua performance in una delle più sentite e devastanti di sempre, culminata in “Piece of my Heart” seguita da “Ball & Chain” come bis che, come si vede nei filmati del concerto, ebbe un finale a cappella da brividi.

IL BATTERISTA DI SANTANA

michael shrieve santana woodstock
Michael Shrieve impegnato nel suo mitico assolo, clicca sullo screenshot per vedere il video di "Soul Sacrifice" live a Woodstock

Dicevamo che Santana e la sua band avevano dovuto posticipare l’esibizione per ripigliarsi dal trip. Ai tempi erano una band relativamente sconosciuta da quelle parti, famosi solo a livello locale nella zona di San Francisco, e quando salirono sul palco fattissimi, carichi di percussioni e con un batterista che sembrava in ritardo per la scuola dovevano essere davvero una strana visione. Carlos Santana dichiarò poi di essere stato talmente fatto durante questo concerto che credeva che la sua chitarra si fosse trasformata in un serpente, e del resto a chi non è successo? Nonostante questo, il loro concerto fu a dir poco devastante. Super energico, coniugava la psichedelia di Hendrix con i ritmi afro-caraibici dilatando tutto in jam senza fine. Il momento più incredibile fu “Soul Sacrifice”, come testimonia il film, durante la quale il giovanissimo batterista Michael Shrieve si lanciò in un assolo di batteria di due minuti e mezzo che a differenza di quasi tutti gli altri assoli di batteria della storia è divertentissimo, psichedelico e lascia a bocca aperta chiunque.

SLY AND THE FAMILY STONE

sly and the family stone woodstock
Screenshot dal video di Sly and the Family Stone che suonano "I Want To Take You Higher" a Woodstock, cliccaci sopra per vedere il video su YouTube

Sly & The Family Stone erano un po’ un’anomalia all’interno del festival, perché erano l’unica band a staccarsi così nettamente dagli stili di folk e rock predominanti e portarono il loro nerissimo soul-funk davanti a un pubblico di hippie abituati a roba decisamente meno energica. Nel 1969 era uscito Stand!, il loro album di maggior successo, e Sly e famiglia erano al top della forma. Si esibirono intorno alle 4 del mattino, e non ci fu più verso di dormire (anche perché dopo di loro in scaletta c'erano gli Who, ma questa è un'altra storia). La loro performance è dai più considerata la migliore di tutti e tre i giorni: la band era una cascata di suono, con tantissimi elementi di ogni razza e genere, vestiti in maniera ancora più eccentrica del resto degli artisti, con un’energia del tutto nuova. Assistere a “I Want To Take You Higher” con Sly nei panni di un Elvis Presley spaziale dal pianeta Black Panther deve aver cambiato la vita a qualche migliaio di presenti.

“STAR SPANGLED BANNER” DI JIMI HENDRIX

jimi hendrix woodstock
Jimi Hendrix a Woodstock, clicca sullo screenshot per vedere il video di "Star Spangled Banner" su YouTube

C'è un'intervista di Jimi Hendrix al Dick Cavett Show, che era un po' il David Letterman dei tempi, risalente a settembre 1969, quindi meno di un mese dopo Woodstock, in cui il presentatore gli chiede del suo "inno americano suonato in modo poco ortodosso". Hendrix lo interrompe: "Hey, a me non sembrava poco ortodosso. A me è parso bello, tutto qui. Sono americano e ho suonato l'inno americano, ce lo facevano cantare a scuola, quindi è stato un ritorno all'infanzia".

A Woodstock, l'inno americano è diventato un pilastro della protesta pacifista: la chitarra distorta di Hendrix romba come un caccia, fischia come un missile ed esplode come una bomba. Non c'è rappresentazione migliore del movimento hippie: libero e idealista ma divorato dal sistema. Nemmeno cinque anni dopo, il movimento hippie che avrebbe dovuto fermare la guerra e portare l'amore nel mondo era soltanto una moda come un'altra. Ma Woodstock resterà per sempre un esempio di come sarebbe potuta andare.

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A$AP Rocky è colpevole di aggressione ma non andrà in carcere

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Una corte svedese ha trovato A$AP Rocky colpevole di aggressione dopo che il rapper di Harlem aveva partecipato a una rissa con un uomo sulle strade di Stoccolma lo scorso giugno—ma non dovrà andare in carcere grazie alla sospensione condizionale della pena.

I due coimputati del rapper, Bladimir Corniel e David Rispers, che fanno parte del suo entourage, sono stati anche loro condannati per aggressione con la condizionale.

Rocky, che in realtà si chiama Rakim Mayers, si era dichiarato non colpevole, sostenendo di aver agito per legittima difesa. Ha passato quasi un mese sotto custodia cautelare, venendo costretto ad annullare diverse date del suo tour tra cui quella di Milano, prima di venire rilasciato in attesa del verdetto.

L'accusa aveva sostenuto durante un'udienza il mese scorso che A$AP Rocky e i due uomini avessero attaccato la vittima Mustafa Jafari "deliberatamente, insieme e d'accordo".

“L'aggressione non è stata di natura tanto seria da richiedere una sentenza restrittiva", ha dichiarato la corte alla stampa. "Agli imputati è quindi assegnata la sospensione condizionale della pena".

Rocky era stato arrestato il tre luglio e il caso aveva causato anche un piccolo incidente diplomatico in seguito al coinvolgimento di Donald Trump. Il Presidente USA infatti aveva chiesto il rilascio del rapper su Twitter e aveva anche telefonato al "molto talentuoso" Primo Ministro svedese Stefan Löfven per convincerlo.

Ma le autorità svedesi hanno comunque imputato Rocky e Löfven ha dichiarato al New York Times che "in Svezia, siamo tutti uguali davanti alla legge".

Alla corte è stato comunicato che a causa della rissa Jafari avrebbe subito danni ingenti, tra cui una costola rotta e tagli sulla testa, le braccia e le gambe che hanno richiesto il ricovero in ospedale e l'applicazione di punti di sutura.

Jafari chiede 139,700 corone svedesi (13.000 €) come risarcimento per i suoi infortuni, salari persi e danni all'immagine.

Cover: ASAP Rocky indossa una felpa batik fuori dal Loewe durante la Paris Fashion Week - Menswear Spring/Summer 2020 il 22 giugno 2019 a Parigi, Francia. (Foto Christian Vierig/Getty Images)

Una versione di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

A$AP Rocky recupererà il concerto in Italia nel 2020

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A$AP Rocky è tornato in libertà dopo la disavventura di luglio scorso, quando era stato arrestato per rissa in Svezia e non aveva potuto completare il suo tour europeo, annullando anche la data italiana che era prevista per il 17 luglio all'interno della rassegna Music Is My Radar. Fino a oggi non era sicuro se e quando sarebbe tornato, ma l’agenzia Radar Concerti ha appena annunciato con un post su Instagram che il concerto si farà, anche se non prima di inizio 2020.

La data dell’evento deve ancora essere confermata, ma l’agenzia ha fatto sapere a tutti i possessori del biglietto di luglio che "potrete ottenere il rimborso del biglietto acquistato […] contattando i rispettivi circuiti di prevendita”. Inoltre, “per sdebitarci di tutti i disagi”, Radar ha organizzato una "PRESALE ESCLUSIVA che darà diritto ad una prelazione di 24H nell'acquisto del futuro show italiano di A$AP Rocky”. Quindi, insomma, tra i vari disagi si può dire che tutto si sta mettendo per il meglio. Vai sul sito di Radar Concerti o sul loro profilo Instagram per scoprire tutti i dettagli sul rimborso del biglietto e la prevendita esclusiva.

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Siamo andati al concerto di Massimo Pericolo in un cannabis club a Barcellona

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Se vi siete mai fatti un giro sui profili Facebook e Instagram di VICE (e ci auguriamo di sì) saprete che gran parte delle persone che commentano i nostri articoli pensano che il nostro lavoro comporti fondamentalmente tre cose: drogarci, scopare e ascoltare rap (e scrivere articoli al riguardo). È un po’ esagerato, ma non è del tutto falso. Per questo, quando abbiamo avuto l’opportunità di andare a un concerto rap dentro un cannabis club ci siamo presi benissimo e abbiamo prenotato un aereo.

Massimo Pericolo dentro un cannabis club è una di quelle tempeste semi-perfette che non potevamo ignorare. Venerdì 16 agosto verso ora di pranzo eravamo dentro al G13 Club di Barcellona. Ci siamo subito resi conto che non ci trovavamo davanti a un coffee shop all’olandese, ma a una cosa più vicina a un centro giovanile, con gente tranquilla che fuma e ride sui divani o gioca a biliardo. C’è un piccolo bancone su cui sono disposti vari tipi di erbe, un palchetto per un DJ e un’atmosfera famigliare. Le persone non sembrano “clienti”, e infatti non lo sono: sono socie.

g13 cannabis club
Consigliamo la Gelato

Davanti a un piatto di ottimo cibo catalano, il presidente del club Mattia Loetscher ci spiega un po’ come funziona: “Tanto per cominciare c’è da dire che la cannabis in Spagna rimane illegale al di fuori di uno spazio privato”, inizia, facendoci sussultare. Significa che puoi fumare dentro casa, ma non puoi comprare, vendere o portarti in giro niente. È in questo piccolo pertugio legislativo che si infilano i cannabis club: circoli privati di proprietà di associazioni i cui soci condividono lo spazio e l’erba che si consuma solo lì dentro.

Mattia è nato a Chiasso, al confine tra Svizzera e Italia, dove tra il ’97 e il 2004 è stato legale coltivare e vendere la cannabis. Andando al liceo in quegli anni in Italia, a Varese, la sua “carriera” è iniziata abbastanza presto. “Vivevo in un supermercato dell’erba e passavo il confine tutti i giorni: era naturale soddisfare le richieste dei miei amici, poi degli amici degli amici”, ci ha raccontato. “Nei 20 anni successivi la marijuana è stata la mia attività principale”. A Barcellona ci è finito perché, dopo una vacanza, ha capito che il modello del club era quello che cercava: non un semplice negozio né un coffee shop per turisti, ma un luogo di aggregazione.

massimo pericolo live g13 club barcelona
Massimo Pericolo e XQZ al G13 Club

“G13 é molto di più che un luogo dove rifornirsi di erba, è un lifestyle brand e una piattaforma di lavoro artistico e culturale”, ci spiega. Dentro al club si muovono vari musicisti, artisti, videomaker e skater ai quali viene offerto, ok, anche da fumare, ma anche uno spazio e una piattaforma in cui sperimentare. Grazie al loro lavoro, G13 è diventato uno sponsor per alcuni skater della scena del MACBA di Barcellona, ha creato un team di produzione che presto avrà un vero e proprio studio di registrazione all’interno del club e partecipa all’organizzazione di live anche in altri locali di Barcellona e addirittura a Ibiza, dove G13 ha una serata reggae/hip hop fissa dentro allo Zoo Project. Insomma, attorno a quei vasetti pieni di cime gira tutta una serie di forze creative.

massimo pericolo live g13 club barcelona

Passiamo gran parte del pomeriggio a parlare di depenalizzazione delle droghe. Mattia ci spiega che non è semplice come fare una raccolta firme: è l’ONU che deve riclassificare la cannabis, che al momento è registrata nella stessa tabella di alcuni oppiacei tra cui l’eroina. Secondo lui, questa rivoluzione è imminente, visto anche la recente richiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Nelle settimane successive a questo cambio ci sarà una corsa generale verso questo mercato. Bisognerà creare un intero settore dal nulla proprio come è successo nell'ultimo anno in California”, rischiando che il business finisca in mano a “multinazionali con interessi milionari”, mentre a guidare la reintroduzione della marijuana nella società dovrebbero essere consumatori e attivisti. Per questo, nonostante i rischi, lui e i suoi soci hanno investito in un club a Barcellona: per farsi trovare pronti.

massimo pericolo live g13 club barcelona

A Barcellona siamo arrivati il 15 agosto, e girando per la città non abbiamo potuto fare a meno di notare la quantità impressionante di italiani in giro per strada. Ce ne sono molti tra i soci del cannabis club? “Il tessuto sociale del club è molto eterogeneo. Gli italiani potrebbero essere circa il 30% degli iscritti o forse anche meno. Vengono anche tanti americani, nordeuropei, russi, mediorientali”. Ci facciamo una tessera anche noi e ci assicuriamo che il prodotto locale sia all’altezza in vista del concerto. Siamo curiosi di vedere come andrà stasera: il locale, che per essere un cannabis club è piuttosto spazioso, confrontato con un normale locale per concerti sembra piccolissimo, e i concerti di Pericolo sono piuttosto selvaggi. Ma di cose per rilassarsi ce n’è un armadio pieno, e ci ritiriamo per una doccia e un paio di tapas.

massimo pericolo g13 club barcelona

Quando Massimo Pericolo sale sul palco, non c’è spazio neanche per respirare e sembra di stare dentro un cassetto delle mutande, ma al posto delle mutande ci sono un centinaio di ventenni che sghignazzano con le palpebre a mezz’asta. Nonostante l’atmosfera iper-pressurizzata, non mi sono mai sentito più al sicuro in vita mia.

“Non sono più abituato a suonare in posti così piccoli”, esordisce Vane salendo sul minuscolo palchetto del G13. “Sono più agitato davanti a cento persone che davanti a duemila”. Si gira verso XQZ che si occupa delle basi e dice "manda qualcosa dai". Da quel momento in poi, davanti a un pubblico che all'inizio non sa bene come comportarsi – un po' perché è fattissimo e un po' perché è piuttosto surreale vedere un rapper che ha spaccato così tanto negli ultimi tempi su un palco di due metri per uno a 30 centimetri dalla tua faccia – comincia la magia di un concerto rap, e il bello è che in un posto così il palco è tutto il locale. Ci mettiamo un pezzo o due a renderci conto che Massimo Pericolo ha bisogno di un'energia completamente diversa a quella a cui siamo abituati, sia noi che lui, con folle molto più ampie. Meno si è, più casino si deve fare. Più casino si fa, più casino si vuole fare. Risultato: il concerto perfetto.

massimo pericolo g13 club barcelona
Massimo Pericolo dopo il concerto al G13 Club

Arriva il momento di "Scialla Semper" e c'è solo una cosa da dire, riguarda un certo periodo della vita di Pericolo, quando è finito nei guai proprio per l'erba. Tra l'altro lui non fuma più, ce l'aveva già detto, ma è facile immaginare quale sia la sua posizione sulla depenalizzazione delle droghe (tutte le droghe, precisa). "Liberi tutti", urlato prima di iniziare "Ansia", è un messaggio che ci emoziona ancora quando lo sentiamo da un rapper di oggi.

Il concerto prosegue scaldandosi tra "Scacciacani", "Cocco", "Sabbie D'Oro", "Amici" fino a culminare con l'ovvio delirio di "7 Miliardi". Forse è una banalità da dire, ma visto così da vicino Massimo Pericolo è ancora più vero: nella sua voce e nei suoi occhi c'è l'emozione e la presa bene e la gratitudine per questa gente che è venuta a vederlo. "Siete tutti italiani, sembra di stare a Varese". A un certo punto del concerto succede una cosa inaspettata: "Per una strana combinazione di eventi stasera qua c'è anche mia madre", dice ridendo. Racconta di come sia stato difficile il loro rapporto tra il divorzio, i traslochi, la galera, dice che le vuole bene e poi le raccomanda di scansarsi e mettersi al sicuro perché adesso parte "Cella senza cesso" e inizia il pogo.

massimo pericolo g13 club barcelona
Massimo Pericolo e crew dopo il concerto al G13 Club

È una serata quasi da sogno. Senza esagerare, per molte persone la marijuana è una medicina per il corpo, la mente e lo spirito; la sua illegalità rappresenta uno stress costante e giornaliero. Poter passare una serata senza "l'ansia per l'erba", godendosi il concerto di uno dei rapper migliori che ci sono in giro al momento, e in più beccarlo in una dimensione così intima e umana che nel pubblico c'è pure sua madre è un'esperienza gioiosa, una di quelle cose che ti danno la forza di aprire le porte del G13, uscire per strada e affrontare tutte le rotture di palle della vita quotidiana per un altro po'.

Ringraziamo G13 Club per l'ospitalità. Se sei maggiorenne e vuoi visitarlo, registrati sul sito e segui il suo profilo Instagram.

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Oggi sono 10 anni dalla fine degli Oasis, speriamo non tornino più insieme

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Manca poco all'inizio del concerto degli Oasis a Parigi, terzultima data del tour del 2009 per l'album Dig Out Your Soul. Dopo l'ennesima litigata col fratello-collega Noel, Liam Gallagher tira una prugna in camerino in segno di stizza. Poi se ne va. "Se fosse finita lì, sarebbe stata una grande uscita di scena", racconterà l'altro anni dopo. E invece no: Liam rientra, prende in mano una chitarra "a mo' di ascia" e la distrugge. Sembra fuori controllo, ed è la goccia che fa traboccare il vaso dei rapporti già tesissimi fra i due. Cinque minuti dopo gli Oasis non esistono più: Noel ha lasciato la band decretandone lo scioglimento, "con un po' di tristezza e grande sollievo". Ma non avrebbe “potuto lavorare con Liam un solo giorno in più".

Tutto questo avveniva dieci anni fa, il 28 agosto 2009. Il concerto di Parigi fu annullato insieme alle date rimanenti, tra cui quella di Milano prevista per il 30. Una rosicata bella e buona per l'Italia, che non ha potuto dir loro l'addio—e anzi si è vista strappare dalle mani un concerto attesissimo, oltre che un'ultima possibilità di gridare in coro "SOOOOO SEEELLI CHEEEN UEEEIT". Scherzi a parte, la nostra è una delle comunità di fan più grandi del mondo, quindi: solidarietà.

Non era la prima volta che Noel rompeva con Liam (era già successo nel 1994, capitò anche nel 2000), ma si capì presto che fosse quella definitiva: a ottobre il secondo spiegò che gli Oasis erano un capitolo chiuso e i fan avrebbero dovuto farsene una ragione. Eppure, nonostante il muro contro muro dei due sulla questione (che fra una litigata sulla Brexit e provocazioni varie giocano a scaricarsi le colpe della fine senza parlarsi di persona), e nonostante anche un parere negativo diffuso fra addetti ai lavori vicinissimi e lontani, da anni aleggia un fantasma nel mondo dello spettacolo: la reunion degli Oasis. Giusto ieri, in aria dell'anniversario per cui sto scrivendo, i Foo Fighters sono rimasti coinvolti in un tentativo di petizione per farla succedere.

In realtà, lo stesso Liam avrebbe riaperto recentemente alla possibilità, mentre pare sia Noel a opporsi a un eventuale ritorno. Ma l'ipotesi, al di là delle smentite, rimane verosimile perché converrebbe: la band ha folgorato l'immaginario della generazione X, affascina i millennial e, dati una bella dose di nostalgia e due percorsi solisti non proprio eclatanti, farebbe un sacco di soldi. Infine, farebbe tornare nel dibattito i fratelli Gallagher dopo anni passati in chiaroscuro a livello di critica, fra il percorso coi Beady Eye di Liam e quello con gli High Flying Birds di Noel. Il punto, però, è che esistono tanti motivi per cui una reunion non sarebbe un evento auspicabile.

Primo, perché gli Oasis incisivi nella storia della musica si sono estinti col vecchio millennio, e questa sarebbe probabilmente solo una coda posticcia alla loro carriera. Liam e Noel sono stati i conservatori del britpop, quelli che hanno inventato meno. Non sono i Blur, che con 13 hanno dato uno scossone all'alternative, e nemmeno i Radiohead della rivoluzione rock-elettronica di Ok Computer. E non sono neanche i Coldplay, nati al limite del movimento, di marca spiccatamente pop e con un ascendente sulla cultura popolare ben maggiore di quello dei loro colleghi. Insomma, non sono stati né innovatori né un paradigma per il futuro, ma piuttosto un coro da stadio: vicino ai Beatles come nessuno, cool britannico. Un po’ autoreferenziale ma popolare, e legittimato proprio dalla capacità di riunire 250mila persone in delirio a Knebworth nel 1996. Intorno a quel live ruota l'epoca d'oro dei Gallagher, racchiusa nei primi tre album: i loro dischi di cui conosciamo a memoria i singoli, le melodie, i bridge e gli SHIIIINE di Liam.

Dal Duemila in poi, infatti, i due hanno vissuto un sacco di momenti no. Il principale è il tremendo Standing on the Shoulder of Giants, un disco con un livello di ispirazione ai minimi storici e pezzi copia-sbiadita degli esordi come "Go Let It Out") insieme ad altri decisamente migliori, ma segnati da una psichedelia un po' calligrafica—come nell'ultimo Dig Out Your Soul. E per quanto i concerti continuassero ad andare benone, l'impressione era che la band sperimentasse soluzioni mature ma mai davvero coraggiose o accattivanti. Un ibrido non vincente: non abbastanza facile e immediato da essere popolare come nel '96, non abbastanza difficile da far credere a una crescita che mettesse la band nel gotha della critica. Tant'è che le ultime generazioni continuano a innamorarsi di loro in chiave nostalgica, là dove in Italia Francesca Michielin coverizza "Wonderwall" e Gazzelle ha fatto dei primi Oasis un modello. Intanto nel rap Rkomi ha dedicato un pezzo alla mitologia spaccona di Liam, e Gallagher... bé, a questo punto sapete perché si chiama così.

Un altro motivo per cui una reunion proprio no: le litigate fra i due. Ci sono sempre state, sin dai primi giorni, ma pur concedendo loro la teatralità che lo stile impone nuove tensioni interne minerebbero come sempre la continuità della band. E se i rapporti tesi sono una condizione imprescindibile del rapporto fra i Gallagher (e lo sono), non è il caso di ripartire con l’ennesima serie di tira e molla che niente aggiunge alle canzoni, ma al massimo le riempie di gossip. Conviene continuare a scornare su Twitter, senza strascichi "artistici". O meglio: conviene fare pace da buoni fratelli, ma senza riunire gli Oasis.

Anche perché un'eventuale reunion, oggi come oggi, non avrebbe prospettive rosee a livello di idee originali. Se i due seguissero la direzione del 2009 il rischio è di ritrovarci lavori eleganti, sì, ma senza la verve purissima di un (What's the Story) Morning Glory?. Probabilmente ai live si tornerebbe sui classici dei primi album, con il pericolo di un'operazione nostalgia. E sarebbe, dicevamo, una coda un po' così a una carriera in cui già si fronteggiano un quinquennio d'oro e una decina d'anni più sottotono. Una carriera che fra polemiche e discese probabilmente nel 2009 ha davvero esaurito il suo decorso, per quanto si voglia far finta che non sia così.

Se invece l’eventuale reunion prendesse a modello quanto successo nel frattempo nelle carriere soliste dei due, i punti di domanda si moltiplicherebbero. Inizialmente Liam con i Beady Eye ha raccolto le briciole del banchetto, mentre Noel, dopo due dischi un po’ incerti, solo con Who Built the Moon? (2017) è riuscito a mettersi a distanza di sicurezza dal rock calligrafico degli anni zero. Certo, lui come autore ha esperienza e gusto melodico da vendere, al contrario di Liam che rimane un frontman in cerca di una quadra definitiva nella scrittura, però insomma: non sono stati percorsi esaltanti, specie di fronte ai fasti degli Oasis.

Proprio dal 2017 però i due sono tornati ad avere un'identità nuova e, a loro modo, attuale. Con l'esordio solista As You Were, Liam è sembrato finalmente in crescita come autore, risultando credibile per quanto anacronistico. Ciò valorizza manate in faccia come "Wall of Glass" o la nuova "Shockwave", primo singolo tratto dal del suo nuovo disco. Noel ha invece deciso di sperimentare per la prima volta, e nell’ultimo EP Black Star Dancing ha sposato una space-disco andata di traverso ai fan storici ma che gli ha comunque permesso di dedicarsi a sonorità davvero inedite nella sua esperienza.

Insomma, oggi i Gallagher sono finalmente agli antipodi—anche musicalmente. La loro faida è diventata strettamente artistica quando non lo era mai stata, e anzi i due erano fin troppo simili. Tanto vale goderseli così, ora che paiono aver trovate la propria dimensione: Liam, il protettore del rock vecchia scuola, "Rock'n'roll star" come cantava agli esordi, sempre con le braccia dietro la schiena, il parka e il tamburello. Noel, malinconico e silenzioso, che prova nuove soluzioni col rischio di farsi male per non rimanere intrappolato in uno stereotipo. L'uno che insiste, l'altro che cambia. L'uno che modifica gli stereotipi del rock in base a sé stesso, l'altro che li evita a prescindere. Entrambi in un testa a testa di modo di intendere la musica. Ciascuno, comunque, ancora legato all'altro.

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Prima di dire cosa è e cosa non è il rap, fermati a pensare

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In questo caldo incredibile, alle falde di una Torpignattara rovente come l'Africa nera, mentre cerco di scrivere i miei articoli mi sento come il protagonista di Summer of Sam di Spike Lee. E automaticamente, parlando di estate "nel blocco", mi ricordo quando sentii palare di hip-hop per la prima volta.

Facevo la prima media e sulla solita Deejay TV passavano un video che diverrà poi storico: si trattava di "Walk This Way" dei Run-DMC, uscito nel luglio del 1986. Un brano che sdoganava alla classifica il suono black per antonomasia ibridandolo con (ma sarebbe meglio dire fagocitando direttamente) il rock bianco, nella fattispecie quello degli Aerosmith, di cui tutti all'epoca eravamo infarciti.

Fu una sensazione abbastanza strana, rivelatrice. Nonostante molto prima ne ebbi un antipasto con Herbie Hancock e la sua "Rockit", che a tutti gli effetti conteneva elementi come la breakdance dei robot e lo scratch, o l'intro totalmente in linea di "I Feel For You" di Chaka Khan, in Italia l'hip-hop arrivava molto poco ed era difficile capirne davvero qualcosa. Se la memoria non mi inganna fu però proprio l’anno dopo che divenne ai miei occhi qualcosa di diverso da un mero "disco che mettono i fratelli maggiori" o, ancora peggio, qualcosa di "esotico". Nel 1987 capii che c’era un’intera cultura dietro.

chaka khan i feel for you
La copertina di I Feel For You di Chaka Khan (1986), cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il merito fu di un ragazzo che chiameremo P., un mio compagno di classe di seconda media che abitava nelle mie stesse lande periferiche dell'asse Primavalle-Torrevecchia. Costui era il classico ragazzo problematico: uno che metteva le mani al collo ai compagni sbattendoli contro i cofani delle macchine, non accettava l’autorità degli insegnanti, veniva costantemente punito e per forza di cose frequentava solo ripetenti. Con loro fumava cannoni e frequentava le peggio bische, trovando cosi un appoggio ai suoi comportamenti antisociali—i quali, com'è ovvio, derivavano da una situazione familiare maciullata, una condizione economica di merda e una grande sensibilità e fragilità di base che si trasformavano in rabbia.

Insomma, un grande classico. P. era temutissimo in quanto nel giro di un secondo e mezzo poteva cambiare da farti scherzi sciocchi a gonfiarti di mazzate a nastro in un cortocircuito schizofrenico imprevedibile. Ragion per cui me lo misero subito come compagno di banco: gli insegnanti pensavano che, essendo io privo di pregiudizi e piuttosto socievole, lo avrei aiutato ad integrarsi e a migliorare nello studio. Ovviamente non andò cosi: lo bocciarono l’anno dopo e non l'ho più rivisto, ma fra di noi scattò un'intesa che andava oltre il discorso del rendimento scolastico: fu proprio l'hip-hop.

P. era infatti l'unico in tutta la scuola che invece di ascoltarsi il metal, i Pink Floyd o Vasco Rossi era in piena botta black. Soprattutto perché gli piaceva la breakdance, tanto che non faceva altro che fare le mosse della "electric boogie", cioè l’emulazione della scossa elettrica, durante le lezioni, allenandosi anche e soprattutto da seduto. Io tornavo a casa dai miei che la facevo anch'io e mia madre pensava stessi impazzendo. In un certo senso era vero, ma solo perché anche io cominciavo a capire che quella roba parlava al nostro vissuto, al fatto che noi non facevamo altro che stare in strada, che era qualcosa di lontano dal mondo patinato del pop rock. Il massimo di cultura street secondo i miei coetanei era espressa allora da Eros Ramazzotti, per dire come si stava messi male.

breakin
Uno screenshot dal film Breakin' (1984)

Il nostro P. si vestiva come uno dei protagonisti dei film culto dell'hip-hop: Wild Style e Breakin’. Giubbotto jeans strappato alle maniche, bandana tipo quella dei Bloods. L’unica cosa che gli interessava era questa attitudine. Allora c’era il solito saggio di fine anno in cui gli allievi potevano dare sfoggio delle loro capacità artistiche: io lo convinsi a partecipare, visto che era veramente un ottimo ballerino. Da quel momento passammo ore a casa mia a vedere al ralenti le mosse e i trucchi dei ballerini dei film sopracitati usando il mio videoregistratore—lui aveva le videocassette e probabilmente venne folgorato da una visione casuale in qualche tv privata. Fu una scorpacciata epica di b-boying, e da quel momento divenni inseparabile dalla drum machine.

Il giorno del saggio P. era emozionatissimo. Io faccio partire la base, lui inizia a ballare, sbaglia una mossa ed entra in crisi. Si ferma in preda al panico. Io allora prendo il microfono e lo incalzo improvvisando un diversivo. Lui si riprende e finisce in bellezza, la défaillance un ricordo, scroscio di applausi e un grande sorriso sul suo volto. Anche se la scuola non ne voleva sapere di lui, l'hip-hop lo aveva affrancato dallo stigma di "delinquente" e mostrato quello che era veramente: una persona vera. Quello che non era Jovanotti, che l'anno dopo farà il botto in Italia appropriandosi di una cosa a lui lontana anni luce: ma d’altronde in Italia nessuno realmente capiva cosa fosse l’hip-hop. E sfido io, l'hip-hop è qualcosa che appunto va oltre al mero fatto spettacolare. E neanche ora sembra che lo capiscano.

Tutto questo c'entra con un libro che ho appena finito di leggere. Si chiama Rap, lo ha scritto Cesare Alemanni ed è edito da minimum fax: uno scritto che appunto fa un efficacissimo excursus nella storia dell'hip-hop americano mettendo in chiaro che l'hip-hop è una questione di “vita vissuta” e da questa imprescindibile. Non solo una questione di armonia tra discipline, nelle quali l’MCing il DJing, il writing e il ballo sono elementi che si sostengono a vicenda, ma anche di equilibrio, perché l'evoluzione di una si porta appresso tutto il resto.

cesare alemanni rap
La copertina di Rap di Cesare Alemanni, cliccaci sopra per andare allo shop di minimum fax

Soprattutto è importante ricordare sempre e senza darlo per scontato che si parla di una cultura nata in America, in zone dimenticate da Dio e dal potere, dove le discriminazioni erano e sono all’ordine del giorno. La prima, quella fondamentale per lo sviluppo della cultura, è quella razziale: secondo Alemanni non c’è hip-hop senza contrapposizione tra bianchi e neri, e il sottotitolo del libro è infatti “storia di due Americhe”.

Stiamo parlando dell’espressione dei ghetti neri sottoproletari rivoltosi, dei fuochi appiccati ai palazzi per protesta, ma è anche dei neri di classe media che però hanno raggiunto lo status rompendosi le natiche—non certo di pasciuti rospi bianchi (per citare una copertina di Miles Davis) come Vanilla Ice. È qualcosa che travalica in potenza anche il white trash qualunquista alla Eminem, che infatti nel libro non fa bella figura, per quanto le loro sorti siano molto simili e per questo intrecciate: non a caso il crossover tra musica bianca e nera nasce proprio grazie all'hip-hop.

Nel libro di Alemanni c’è un'accurata ricostruzione storica in questo senso. Si prende molte pagine, forse più di quelle dedicate alla musica, ma è necessaria per capire l’evoluzione di una cultura che purtroppo—appunto—si è ritrovata fagocitata dall'industria bianca come già fu per il jazz, anche a causa di una frammentazione al proprio interno fra varie scuole di pensiero e di città. New York contro Los Angeles, e entrambi contro il Sud. A volte tutti contro tutti, come dimostra l'epica tragica e delirante dell'affaire Notorius B.I.G vs Tupac.

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La copertina di As Nasty As They Wanna Be dei 2 Live Crew (1989), il primo album hip-hop con l'adesivo "Parental Advisory", cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Altri problemi li davano il consumo di droghe che andavano dal crack alla purple drank di DJ Screw, così come il linguaggio pieno di metafore sessuali senza peli sulla lingua anche a proprio rischio e pericolo—vedi i 2 Live Crew a cui dobbiamo il primo adesivo "Parental Advisory" della storia dell'hip-hop. La cultura hip-hop è insomma un terremoto costante dove le certezze sono poche e cambiano nel giro di un batter d’occhio, almeno rispetto a generi come il rock che è rimasto fedele a se stesso fino praticamente a spegnersi.

Nell'hip-hop si va sempre costantemente avanti: tra un Grandmaster Flash che non voleva neanche uscire dallo steccato dei suoi block party a un Kanye West completamente fritto dal suo ego, ci sono tanti micro e macroeventi che fanno scattare delle reazioni a catena stile domino. Alemanni ci fa capire come l'hip-hop sia diventato mano a mano un fenomeno che sta perdendo i suoi connotati antisistema per essere il pop attuale, universalmente accettato anche nelle sue espressioni più discutibili—come ad esempio l’ossessione per il denaro, il sessismo, l'omofobia—e spesso giustificato per i motivi sbagliati, o demonizzato per altrettanti travisamenti.

Alemanni quindi scrive più un romanzo storico che un saggio. Riesce, con una penna chiarissima e fluida, a farci entrare nel vissuto dei protagonisti di questa saga che manco il Padrino, siano politicizzati seguaci di Malcolm X come i Public Enemy, gangsta come gli N.W.A. o portatori di autocelebrazione fine a sé stessa come Jay-Z. Ci fa capire la psicologia dietro a certe scelte, a certe situazioni al limite. Ci rivela come ogni giudizio storico, musicale e qualitativo vada soppesato rispetto alle esperienze di partenza dei singoli e della situazione storica circostante, alle quali sono legati per forza di cose.

Ed eccoci infatti arrivare alla trap, alla drill e al crunk, che con il loro nichilismo consumistico si portano in realtà appresso anni e anni di fatica, riscossa, sangue e cuore in mano. E di essi rappresentano una sintesi amara, segno che in realtà gli oppressi rimangono tali anche col successo in tasca. E questo Alemanni lo fa emergere dalle pagine con una ferma lucidità nel mettere insieme i pezzi del mosaico, senza fare sconti a nessuno.

salt n pepa
La copertina di Hot, Cool & Vicious delle Salt-n-Pepa (1986), cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

I pregi del libro sono molti quindi: ma ci sono anche dei difetti, che in realtà lo stesso Alemanni con grande onestà ci anticipa nella prefazione. La questione del "rap femminile" è poco o nulla analizzata, e questo per il sottoscritto è un grosso difetto, dato che la rivoluzione hip-hop non sarebbe stata pensabile senza personalità come le Salt-n-Pepa, qui assenti, e Missy Elliott, qui appena citata. Lo stesso vale per la questione dei prodotti delle minoranze ispaniche, ma volendo anche delle altre minoranze dei ghetti, cosa che pero’ avrebbe prodotto forse un altro titolo: "Una storia, molte Americhe”.

L'autore ci assicura però la sua intenzione è di tornarci su. Altra pecca è forse l’assenza di alcuni nomi che mi aspettavo di vedere nero su bianco: ad esempio i Digable Planets, i PM Dawn, i grandissimi Disposable Heroes of Hiphoprisy, i Mantronix, i Dälek e gli Arrested Development, oppure delle nuove leve che sono trattate un po’ sbrigativamente, le cui sperimentazioni e commistioni hanno senza dubbio dato e stanno dando lustro al genere al pari di gente come De La Soul o OutKast. Ma forse, andando oltre la mera questione di gusti, come dice lo stesso Alemanni nella prefazione compilare una storia del genere non è affatto facile.

Probabilmente allora la cosa più sensata è apparsa al nostro il concentrarsi su alcune figure chiave ben precise che nella narrazione possano fare le veci degli altri sintetizzando i vari mood—e, in effetti, lo fanno. Un po’ come il rap in quanto tale per tutti i diseredati di questo mondo. Ma, come dice Alemanni in chiusura dopo un brillante excursus sul cloud rap, “se ancora di rap si può parlare”. Perché in fondo, il senso del libro sta proprio in questa domanda: si può ancora parlare di rap? Chissà che ne penserebbe il mio amico P.: forse direbbe che è meglio farlo, e basta.

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Capire i testi di Carl Brave

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Se cerchi “Carl Brave + canzoni” su Google, i primi suggerimenti che appaiono sono (in ordine): amore, Roma e amicizia. Ciò non sorprende visto che Carl Brave ha fatto della romanità quello che Cloris Brosca ha fatto della Luna Nera: la sua carta vincente. Nei suoi testi la Città Eterna diventa uno sfondo suggestivo su cui ricamare intrecci narrativi che hanno come argomento principale l'Amore con la A maiuscola, quello degno di essere ricordato nel tempo con una scritta sul muro davanti all'ingresso della scuola. Qua e là sbucano gli amici di Carl, compagni di scorribande e sbornie consumate tra i vicoli, i fratelli di una vita che rendono il suo l'immaginario ancora più caciarone.

Insomma, come la celebre canzone di Valeria Rossi, Carl Brave ha trasformato tre parole in uno schema narrativo efficace che lo ha incoronato con successo in quel calderone di sonorità pop-indie molto di moda che chiamiamo Itpop. Il suo primo album solista Notti Brave, con tutto il suo languore moderno da caption di Instagram in prosa romanesca, ne è la conferma. Da non sottovalutare anche il fattore “fascino” che gioca sempre un ruolo importante per far colpo sul pubblico, vedi il collega Tommaso Paradiso. Alto, altissimo, la camicia broccata sempre sbottonata e gli immancabili occhiali scuri in qualunque momento della giornata e dell'anno—come lui solo l'omonimo Lagerfeld, pace all'anima sua—hanno messo tutti d'accordo nel considerare il Carlone Nazionale come il figo scanzonato che parla di pischelle e Chardonnay. Ma la verità è che voi non avete capito Carl Brave e adesso vi spiego perché.

carl brave notti brave
Clicca sulla copertina per ascoltare Notti Brave su Spotify, clicca qua per ascoltarlo su Apple Music.

Carl Brave è diventato un personaggio della musica nazional popolare da quel 5 maggio 2017, data di uscita di Polaroid con Franco126, pietra miliare nella Storia della Musica Indie Italiana che ha segnato un punto di accelerazione in quella che possiamo chiamare la Seconda Rivoluzione Indie Italiana—la prima risale all'uscita de Il Sorprendente Album d'Esordio de I Cani. Carletto e Franchino ci hanno fatto volare con i loro stornelli con l'auto-tune, raccontando amori finiti a tarallucci e vino, scorribande al gusto di birra annacquata e tutte quelle paturnie esistenziali moderne in cui un sacco di gente si è immedesimata. In un attimo ci siamo sentiti tutti Nanni Moretti in vespa: abbiamo iniziato ad abusare della parola “pellaria” e ad apostrofare i nostri amici con svariati “daje”, “aoh” e “zi'”, sentendoci parte di una romanità che non abbiamo mai vissuto.

Poi, però, è avvenuto un fatto che non sconvolgeva così tanto la musica italiana dai tempi della rottura degli 883: la Scissione. Proprio come loro stessi cantavano in “Sempre in Due”, che adesso suona come un'ironica profezia, Carl e Franco sono andati “ognuno per le sue”. Da quel momento dopo Scissione (d.S.), Carl Brave poteva solo bissare il copione che ha reso celebre Polaroid e sperare che andasse bene. Ed è andata bene, molto: la formula Roma-Amore-Amicizia ha funzionato e allora perché accentuare tutto? Gli occhiali da sole? Mettiamoglieli più grandi! La camicia sbottonata? Pure d'inverno! “Eh-eh”? Ma aggiungiamo qualche “ooh-ooh”! E proprio quando il grande successo era ormai raggiunto, Carl Brave ha potuto abbassare la guardia e lasciarsi andare al suo vero Io d'artista.

L'immagine del cantautore romanaccio un po' romantico un po' cafone, belloccio, ma che piace anche alle mamme, che canta di amori sfortunati e bottiglie di vino è solo la maschera di un'anima ben più tormentata. Il motivo per cui Carl Brave vi piace tanto ha radici nel vostro subconscio, è qualcosa che nemmeno voi potete carpire, ma tra un “eh-eh” e l'altro vi arriva dritti al cuore. La verità, è che dietro quegli occhiali da sole Carl Brave cela un animo decadente.

carl brave
Fotografia promozionale di Alessandro Treves

Rispolveriamo i libri mentali che non apriamo dalla quinta liceo. Nell'Ottocento l'illuminismo si mette a esaltare la scienza e la ragione, e così facendo con il passare del tempo asciuga l'entusiasmo degli intellettuali dell'epoca. Questi si mettono quindi a bighellonare nelle città, esaltando nelle loro opere emozioni e intimità varie, fino a vaneggiare con visioni oniriche e irrazionali (sì, si drogavano). Annoiati dalla società, che li aveva delusi e inaspriti, si lasciarono andare a immaginari cupi e a manie di egocentrismo, quasi in risposta alla nascente società di massa. Non contenti, diedero anche vita a nuovi linguaggi, lasciando perdere le regole metriche tradizionali, e utilizzarono analogie, figure retoriche e simbolismo. Ed ecco, in un paragrafetto, il Decadentismo.

Chiusa parentesi di cui la mia professoressa di Lettere del liceo andrebbe molto fiera, il punto è che leggendo i testi di Carl Brave mi sono accorta che la sua scrittura altro non è che puro Decadentismo per i nostri tempi.

"Professorè” è chiaramente una polemica contro un sistema scolastico che non riesce a connettersi con i reali bisogni degli studenti, ma che, anzi, tende a sminuirli e a mortificarli: “Aeh professorè / Vorrei vederti a te / Mi so' fatto il culo ehh / E poi m'hai messo tre”. Come i suoi colleghi decadenti, così Carl prende in prestito il tema amoroso, cantato con languore e nostalgia, per esprimere il malessere interiore che viveva negli anni della scuola. A causarlo era l'eccessiva rigidità della vita scolastica, che avviliva e reprimeva gli istinti naturali dell'Uomo Carlo. Infatti, il Soggetto principale dei testi del nostro cantautore in realtà non è la pischella di turno o l'Amore, ma bensì Se Stesso.

elisa carl brave
Carl Brave scorrazza per Roma con la pischella di turno aka Elisa, clicca sull'immagine per guardare il video della loro collaborazione "Vivere Tutte Le Vite"

Carl Brave, come il poeta decadente, non è il vate che accompagna i suoi ascoltatori alla scoperta dei propri sentimenti romantici, né tanto meno una Guida per affrontare la vita contemporanea. È un cantastorie bohémien che dipinge immagini quotidiane filtrate dalla propria visione intima e dal proprio Ego d'artista umile—aggettivo non casuale, ma fondamentale per introdurre un ulteriore lato intimistico di Carl, quello più nostalgico e attento ai semplici gesti quotidiani, che possiamo definire di stampo crepuscolare.

Una delle novità del Crepuscolarismo era la schiettezza con cui i suoi intellettuali si definivano gli “inetti” della poesia, dichiarando tranquillamente di non essere in grado di poetare, proprio come lui detto in un’intervista: "Io non sono niente: non sono pop, non sono indie, non sono rap…”, trasformando in un pregio quello che potrebbe essere un difetto. E come i poeti Tito Marrone e Sergio Corazzini—inauguratori di questa corrente letteraria, anche loro romani—pure Carlo si dedica alle “piccole cose”, cantando i gesti della routine quotidiana, con semplicità e una velata malinconia per il passato e gli anni dell’adolescenza.

Se già “Professorè”, con il suo richiamo agli anni della scuola e alla genuinità di un amore giovanile, lascia intravedere l’animo crepuscolare di Carl, la prima strofa di “Pub Crawl” lo conferma: in pochi versi riesce a dipingere una Roma scomoda che riflette il suo malessere ("Roma è più bella quando sto da solo"), trasmettendo tutto il tedio e il disagio che il paesaggio circostante gli provoca attraverso immagini di gesti semplici ("Sventaglio una bustina di zucchero"). Ma non vuole combattere la noia o renderla speciale, anzi. Rassegnato, asseconda il suo stato esistenziale, affogando i suoi pensieri nell’alcol in attesa che il crepuscolo porti a termine un’altra giornata uggiosa.

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L'artwork di "Non Ci Sto" di Shablo, Marracash e Carl Brave, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il brano-manifesto del Decadentismo braviano è “Pianto Noisy”, traccia sottovalutata che mette a nudo il malessere interiore e il lato più torbido dell'artista e uomo. "È la mia canzone preferita mia di sempre, fa parte di un periodo di vita mia più crudo, più di strada rispetto ad ora che sto più tranquillo. [...] Volevo dare al disco una botta di sporcizia che secondo me al disco serviva” ha detto lui in un'intervista. E così lascia trasparire per un solo, breve attimo la sua vera anima in tumulto, agitata dall'amarezza della vita, alla quale reagisce con l'autolesionismo e abbrutendosi:“Lei ha due dita in gola e sbratta piano solo bile al cesso / Io co' un mal di testa, porco *** umbriaco lesso”.

Verso la sua fine, il testo di "Pianto Noisy" devia sui piaceri carnali: "la tua pelle di seta", "denti tuoi sui polsi". Nei suoi testi Carl predica infatti un edonismo moderno all'insegna della bellezza terrena, della spensieratezza giovanile e di esperienze quotidiane che possano innalzare l'uomo a Vate lussurioso: "T'ho cioccata con la tua BFF", "M'hai trovato quelle foto mezze porno con (come si chiama?)", "Facciamo una sveltina fly dentro una Renault", "Vorrei fare il morto a galla tra le tue lenzuola", "E quelle calze nere sono un po' d'arresto / E non mi regolo perché già sono al sesto / M'hanno invitato via, so' un po' troppo molesto".

In un primo momento, quindi, Carl Brave sembrerebbe incarnare l'eterno donnaiolo che corre ancora dietro le ragazzine a trent'anni, si sbornia con gli amici e va a dormire all'alba—aka lo stereotipo della rock star con la Sindrome da Peter Pan che ormai ci fa sbadigliare. Tuttavia, se applichiamo la chiave di lettura del decadentismo, ci accorgiamo che Carl Brave altro non è che un Gabriele D'Annunzio formato Instagram. Non è un caso se Carl di cognome fa Coraggio, uno dei valori più esaltati dal Vate dell’Estetismo italiano.

gabriele d'annunzio
Gabriele D'Annunzio, fotografia via Wikimedia Commons

“La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua”, diceva D’Annunzio, ma è un pensiero che possiamo ritrovare anche nei testi di Carl Brave. Anche lui ha sete di vita, e così così rende la sua esistenza un'opera d'arte degna di essere vissuta a pieno. Carl non si dà pace e corre da una donna che “gioca a fare l’ultima romantica” a una che fa “foto un po’ bora, un po’ poser”, canta in "Parco Gondar". Insieme a una di loro scappa dalla sua amata Roma a Parigi—ma una volta è assalito da un pensiero: "volemo Londra", dice in "Merci". In questo modo la sua anima da esteta di Trastevere si cristallizza: da un lato c'è l'amore passionale che lo spinge anche all'infedeltà ("Vita"), dall'altro il suo linguaggio volgare e quasi caricaturale, dall'altro ancora l'estremizzazione quasi cinematografica della sua vita sentimentale (vedi "Merci").

Tuttavia, proprio come per il Decadentismo, l'innovazione in Carl Brave sta nel linguaggio. Come già Polaroid aveva anticipato, il romanesco sembra essere il suo tratto distintivo: se inizialmente si trattava solo di un atteggiamento linguistico che cavalcava il monopolio della scena romana nell’indie, col tempo questo aspetto è stato sempre più marcato. “Cioccare”, “tanare”, “a cavacecio”, “precio” e “fontanone” sono solo alcune delle espressioni gergali a cui Carl ci ha abituati. Non si tratta più di semplici termini romaneschi per colorare i testi, ma di chiavi di lettura per capire e decifrare la semantica della narrazione carlbraviana, attraverso le quali poter cogliere, e apprezzare a pieno, tutte le sfumature del suo immaginario testuale. Ma la vera innovazione di Carl risiede nell’aver dato nuovo senso significativo agli intercalari.

Ormai iconico è il suo “eh eh”, nato sicuramente per riempire vuoti metrici ma col tempo diventato un tratto fonetico distintivo, quasi al limiti dall’essere un tormentone da show comico. Da “eh eh” siamo passati velocemente agli “ehi ehi ehi” e al “ooh”, con occasionali “ahia” e “uh-uuh” (vedi “Camel Blu”). In un primo momento considerate come strategie fonetiche per bissare l’effetto dell’originario “eh eh”, sono poi diventate quasi una caricatura del personaggio-Carl Brave. La realtà, però, è che questi intercalari hanno un significato: rappresentano la rassegnazione di Carl di fronte all’inevitabile svolgersi della vita, a cui può solo reagire con un sospiro. Cosa dire quando la pischella che ami sbocca l’anima davanti ai tuoi occhi? Come reagire quando “i pizzardoni che mi fanno un’altra multa”? E cosa dire quando la sua “famiglia che mi fa senti’ un alieno”? Nulla, puoi solo rassegnarti alla piccolezza della condizione umana, fare spallucce e dire “eh”.

Non solo: il “eh eh” di Carl Brave sa un po' di Futurismo, quella corrente letteraria che ha fatto dei neologismi e delle onomatopee le proprie armi contro la monotonia della letteratura italiana del tempo. E come Marinetti giocava con parole in libertà, fonemi ed espressioni nuove, così Carl Brave mescola in un calderone linguistico francesismi, espressioni romanesche e svariati intercalari. Con lo stesso stupore e genuinità di un fanciullino. O con la stessa caciara di un romanaccio di Trastevere, a voi la scelta.

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Altro che spaccio e vita da gangsta, i rapper adesso fanno le truffe online

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Teejayx6 aveva imparato a fregare soldi agli adulti quando non aveva neanche 12 anni. Per farlo usava Twitter: "Creavo un profilo con cui facevo finta di essere un negozio", ha detto, "Mi inventavo una location da mettere nella bio e poi postavo roba tipo Xbox, TV, di tutto. Le vendevo per 500 dollari l'una. È una truffa che ha fatto praticamente chiunque". Quando gli andava male, faceva 50 dollari al giorno. Quando gli andava bene, circa 2000. Se guardate l'intervista video in questione, potete vederlo ridacchiare mentre lo dice. Non tanto per farsi bello quanto per sottolineare la naturalezza delle sue risposte.

Dopo Twitter, Teejay si è dato a Instagram. Poi alle carte di credito. Ha cominciato a fare diecimila dollari a botta, dice. E nonostante tutto questo truffare, voleva fare il rapper. Quindi, attorno ai sedici anni, ha unito le due cose. Ha iniziato a rappare di truffe. "Se non hai soldi bro, fidati, non farti sbattimenti / Ti sto per insegnare come strisciare la carta con 'ste piccole lezioni", dice il testo di "Swipe Lesson". Uscita a giugno, è una traccia che fa esattamente quello che dice nel titolo: ti insegna a fottere i soldi dalle carte di credito usando i Bitcoin e una VPN, stando bene attenti a farlo da una location sicura.

Va detto che non è la prima volta che un rapper usa una traccia per fare un tutorial su come fottere la legge. Pensiamo ai “Ten Crack Commandments” di Biggie, o a Jay-Z che spiega come fare soldi comprando e vendendo case a Brooklyn su “The Story Of O.J.”. Ma la novità di Teejayx6 sta nel parlare di frodi. Del resto lo dice anche il nome: questo è il mondo dello scam rap.

Ufficialmente, il genere esiste da un paio d'anni. La potentissima “Juggin Ain’t Dead” di Bossman Rich è uscita nel 2017. Nel video, Bossman mostrava gigantesche pile di banconote rappando "bitch mi servono un paio di pezzi da mille, è ora di fare soldi / sotto coi Bitcoin, questi stronzi stanno facendo soldi". Con la diffusione sempre più ampia delle truffe (pensiamo a cose tipo Mark Caltagirone, il fatto che tutti siamo stati almeno una volta sul Dark Web o quello che sta succedendo nel Parlamento italiano) anche lo scam rap si è fatto conoscere sempre di più.

In giugno, Teejayx6 ha pubblicato un mixtape chiamato Fraudulent Activity. Potete indovinare quale sia l'argomento principale: roba illegale, in particolare truffe, che sia tramite Tor, o un'app, o nella vita reale. In una traccia dedicata al primo grande marketplace del dark web “Silk Road”, rappa: “Ho fregato seimila a uno sfigato bianco su Tinder / Mi sono fatto dare un video da un cameraman e poi l'ho bloccato su Twitter".

Musicalmente, la sua roba non è la solita roba improvvisata e pensata apposta per YouTube. Per capire bene: a) quanti soldi sembra fare Teejayx6; b) il suo stile particolare, frenetico e coinvolgente, è consigliabile guardare “Dynamic Duo”, la sua collaborazione con Kasher Quon. Oltre a mostrare dei ventagli di dollari per dimostrare che sono veri (o almeno copie fatte bene), i due si sfidano in un racconto barra-a-barra che ricorda lo stile di Dr Dre ed Eminem in “Guilty Conscience”. Solo che Teejayx6 e Kasher Quon si scambiano i versi con l'atteggiamento frenetico di chi sa che i federali potrebbero sfondargli la porta da un momento all'altro.

Vale la pena soffermarsi sul collegamento tra “Dynamic Duo” ed Eminem: quasi tutto lo scam rap sembra arrivare dalla sua città, Detroit. Gli scam rapper della Motor City si sono fatti talmente notare che nel 2017 i tribunali hanno iniziato a seguire da vicino Selfmade Kash, che scriveva canzoni tipo “Scam Likely”, “Still The Swipe Goat Freestyle” e “Swipe In Peace”. Poco tempo fa Kash è stato incriminato per furto d'identità, frode postale e possesso di un dispositivo d'accesso non autorizzato (è un termine generico che si usa per tutti i reati che hanno a che fare con carte di credito, bancomat e cose del genere). Il suo arresto non è stato una grande sorpresa, a dir la verità, visto che si era abbondantemente auto-incriminato con i suoi testi. L'accusa infatti ha notato non solo la sua collana d'oro a forma di carta di credito (la potete ammirare nel video di “Swipe God Freestyle”) ma ha anche menzionato che "posta foto e video su Twitter e Instagram con grandi somme di denaro, carte di credito e skimmer per carte di credito, promuovendo la sua inclinazione al furto di carte di credito", secondo The Detroit News.

In effetti c'è tutta una fascia di giovani rapper emergenti di Detroit che non hanno paura di parlare di truffe nei loro testi. La BandGang è una crew della zona a cui Teejayx6 attribuisce il merito di aver iniziato il movimento scam. Nella canzone “Come Here” Lonnie Bands, membro della BandGang, si vanta di conoscere "una t**a che vende la figa, un'altra che truffa" mentre l'altro rapper di Detroit Drego dice di essere "con lo scam man". È un pezzo da ballare, allegro, eppure ha lo stesso flow teso e agitato di "Dynamic Duo".

Naturalmente, lo scam rap esiste anche fuori da Detroit. Tra i più notevoli c'è Guapdad 4000 da Oakland; o, per chi preferisce suoni club-pop, un paio di versi sulla hit estiva delle City Girls e Lil Yachty "Act Up". Ma, come evidenzia un commento su YouTube, "il rap di Detroit si distingue per la produzione". Che sia scam rap, o semplicemente rap di Detroit (come la fortissima "Bloxk Party" di Sada Baby e Drego), il sound della città si colloca a metà tra il club e la strada, pieno di basse e col volume sparato, spesso in coppia con un flow spesso febbricitante da coniglietto della Duracell.

La sola esistenza dello scam rap evidenzia un cambio culturale verso il crimine tecnologico, basato sui dati o sulla psicologia, in cui chiunque, dagli aspiranti scalatori sociali ai pseudopsicologi da Instagram cercano di fregare qualcuno. In questo caso, come per il weed rap o il coke rap del passato, i rapper coinvolti non hanno paura di essere espliciti al riguardo, indipendentemente da quanto siano vere le storie che raccontano. Come dice Teejayx6 nell'intervista rilasciata a No Jumper: "Anche se fossi sotto indagine, non ci sono prove, non c'è una prova video, potrei semplicemente stare dicendo queste cose per dirle, potrebbero essere tutte bugie, intrattenimento".

Per ora, però, se vuoi darti alla truffa non ti farebbe male girarti un po' la sezione commenti dei video di questi rapper, in cui molti utenti offrono consigli su come portare avanti delle frodi (probabilmente per fregare proprio te, nello stesso modo in cui Teejayx6 ha iniziato a truffare la gente su Twitter, naturalmente). Oppure potresti semplicemente goderti la musica: non c'è nulla di simile in giro, per ora.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su VICE UK.

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In Italia ci perdiamo la vera forza dei Bon Iver: i testi e i video

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C'è questa canzone piuttosto sconosciuta che comincia così: "Sto leggendo House of Leaves di Mark Z. Danielewski / Me l'ha consigliato un amico, è abbastanza fuori di testa, mi piace". È con lei che ho conosciuto un libro particolare. Dire in due parole che cos'è mi risulta piuttosto difficile, ma non è un problema dato che lo ha già fatto Laura Tonini su Not: "È un thriller caotico e austero, è anche un inferno di note a piè pagina chilometriche, bugie, contraddizioni, parole specifiche associate a font e colori particolari, visioni testuali di ogni genere".

Per capire di cosa stiamo parlando, ecco una pagina del libro:

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Immagine via Flickr

In House of Leaves, e nell'opera di Danielewski tutta, la pagina è uno spazio, non una griglia. Sulla sua superficie le parole si posizionano libere, gli spazi tra le lettere si dilatano, le relazioni tra le parti del discorso sfarfallano. È—per continuare a usare la terminologia di Laura—un "libro strano", quelli che mettono in crisi la narrazione classica. Quelli che sono come recinti di sabbia: le parole i granelli che fanno forme friabili, gli scrittori i bambini che le mettono assieme, i lettori i genitori che le osservano e gli danno significato.

Justin Vernon, l'uomo dietro al progetto Bon Iver, scrive quindi "testi strani". Un po' lo faceva già all'inizio della sua carriera, ma tra le righe. "Skinny Love" è "Skinny Love" per il dolore del suo ritornello, per i "my, my, my" che crepano il discorso ripetuti e sgolati tra un verso e l'altro. Attorno c'erano però costruzioni come "Suckle on the hope in light brassieres" o "Sullen load is full, so slow on the split"—che più che frasi-di-canzone sono richieste di interpretazione da parte dell'ascoltatore.

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L'artwork di Bon Iver, Bon Iver, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Ogni tanto si sfocava, ma il soggetto delle canzoni di For Emma, Forever Ago era chiaro: un uomo triste che canta la fine della propria relazione. Già su Bon Iver, Bon Iver la faccenda si faceva più complicata. Era palese fin dalle prime parole del disco, dalla prima strofa di "Perth", un accrocchio di soggetti e riferimenti da mani nei capelli: "I’m tearing up / Across your face / Move dust through the light / To fide your name / It's something fane / This is not a place / Not yet awake / I'm raised of make", diceva.

"Fide" è un verbo che, in inglese, non esiste, derivato dal latino. "Fane" è una parola arcaica che significa "tempio", ma Vernon lo usa come aggettivo (e potrebbe leggersi anche come "fain", che significa "felicemente"). "I'm raised of make" è letteralmente "Sono cresciuto di fare", un insieme di parole che grida risolvimi più che capiscimi. Ecco, questo succedeva in tutte le canzoni del disco.

La lingua di Vernon è poi esplosa (in senso architettonico) in 22, A Million, un disco in cui Vernon ha spaccato la lingua e il suono della sua creatura come Lucio Fontana ha bucato la tela. Per noi spettatori/ascoltatori non si tratta più di metterci davanti a una cosa e decifrarla: ci viene mostrato il di-dietro, l'oltre, la possibilità. Ci viene chiesto un impegno, un salto, un pensiero.

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L'artwork di i,i dei Bon Iver, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Ogni canzone di 22, A Million era accompagnata da un lyric video ufficiale. E di solito, detto fuori dai denti, i lyric video sono minchiate con animazioni elementari buoni per mettere qualcosa al posto di un'immagine fissa. Quelli di Vernon, invece, erano parte integrante dell'album—così come House Of Leaves era anche le poesie, i frammenti e l'epistolario in appendice. Così come Infinite Jest è anche le sue note a pié di pagina. Così come le poesie di e.e. cummings sono anche gli spazi vuoti tra le parole e le lettere.

E qua veniamo ad i,i, cioè il nuovo album dei Bon Iver, pubblicato a sorpresa sotto al sole cocente di mezzo agosto invece che nella sua data di uscita ufficiale. Non era passato mai così poco tempo tra due dischi di Vernon, e difatti la distanza tra questa nuova opera e 22, A Million non è siderale. Ma a questo giro, e mai come adesso—forse mai come in un prodotto "indie", per usare un termine vaghissimo che indichi il nucleo del pubblico del progetto—Vernon se ne è uscito con un disco così pazzo, incostante, ermetico e incasinato. E lo dico in senso buono.

Come già successo per il precedente album, ogni pezzo di i,i ha un lyric video ufficiale. E se già tre anni fa Vernon aveva giocato con la posizione delle parole sullo schermo—vedi il video di "8 (circle)" su tutti—stavolta l'ha resa la priorità per l'analisi del suo disco, al punto che ascoltarlo senza guardare i video significa perdersi un buon pezzo del suo valore.

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Uno screenshot dal video di "iMi", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Questa qua sopra è "iMi", il pezzo di apertura del disco—appena dopo l'intro, "Yi", il cui video non contiene parole ma suggerisce subito sovrapposizioni, lampi, spazi: sembra la versione animata di un collage di Rauschenberg. Prima di venire alle parole, notiamo che in basso c'è una ballerina: il filo che non fa volare via disordinati i video di i,i è infatti la danza. In tutti compaiono corpi che si muovono al ritmo (e, più spesso, nell'assenza di ritmo) della musica. Il senso di questa scelta riverbera nelle parole di Christian Warner, uno dei ballerini di TU Dance, la compagnia di danza che ha curato le coreografie dei video:

"A questo punto della mia vita, trovo che la danza sia la forma di comunicazione più chiara ed efficace, quando le parole non riescono a esprimere quello che provo a trasmettere. Ha il potere di esplorare e rappresentare tantissime complessità dell'esperienza umana senza dire una parola."

Proprio questo fanno, le parole di i,i: cercano di descrivere le "complessità dell'esperienza umana", ma per farlo davvero si sfaldano. Vengono da un uomo che vive nell'epoca degli iperoggetti—quelle cose antichissime, enormi, viscose e complesse ma reali che impattano la nostra vita oggi, come il riscaldamento globale e il capitalismo. Temi che i testi di "U (Man Like)" e "Salem" provano ad affrontare, ma si scoprono impotenti e incapaci di descrivere. E quindi si sfaldano.

Il testo di "iMi", come potete vedere dall'immagine sopra, è come impazzito. "Bright" diventa "brite", "Stood" ha una maiuscola che non serve. Ci sono punti esclamativi, virgolette, lettere che non vengono pronunciate: è il cervello che non riesce a slegare l'intrico del contemporaneo e inizia a glitchare. La danza funziona quindi da promemoria: siamo corpi, siamo vivi, ed esprimiamo cose anche quando il linguaggio fallisce.

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Uno screenshot dal video di "Naeem", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Il video in cui questa struttura è più evidente è "Naeem", una performance della ballerina Amanda Sachs in uno spazio neutro in cui le parole, blumarino maiuscolo, esprimono un disagio totalizzante ma leggero—come la sua gamba che scalcia, il suo piede che batte a ritmo sul pavimento, il suo braccio alzato al cielo in segno di vittoria mentre l'altro pende, morto, attirato a terra dalla gravità. "Lungo tutto noi io mi sento", sbotta Vernon—"All along we I can hear me"—mentre i ritornelli, su glitch che si mangiano lo schermo, affiancano l'udito al pianto e nient'altro:

bon iver naeem
Uno screenshot dal video di "Naeem", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Sullo schermo, che è la pagina, le parole non sono solo posizionate. Sono punti che si muovono nello spazio. "Hey Ma" è il pezzo/video più normale del disco, sia a livello strutturale che estetico: una canzone in cui Justin racconta un dolore di gioventù, impressioni d'infanzia, l'invecchiamento di sua madre. Le immagini sono filmati sgranati dal suo archivio di famiglia—e la danza rimane, in quelle che sembrano immagini di un vecchio saggio scolastico. Ma c'è un punto in cui le parole fanno una cosa particolare, cioè questo:

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Uno screenshot dal video di "Hey, Ma", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

My eyes crawling up the window to the wall, "I miei occhi strisciavano dall'alto al basso della finestra verso il muro". "My", "eyes" e "crawling" compaiono per prime—poi "up" e "the", che le coronano ai lati. Infine "Window", "to", "the" e "wall" invertono l'ordine di lettura e compaiono dal basso verso l'alto. Fanno cioè proprio come lo sguardo che stanno descrivendo: si muovono di qua e di là, seguono l'istinto dell'occhio e non quello che abbiamo deciso essere l'ordine in cui si leggono (o compaiono) le cose. Un po' come in House of Leaves, quando i protagonisti entrano in un tunnel e lo spazio riservato alle parole sulla pagina si fa sempre più stretto e claustrofobico con il proseguire della numerazione.

Qualcosa di simile succede anche nel video di "Marion":

bon iver marion
Uno screenshot dal video di "Marion", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

La canzone è sorretta da una frase: Well, I thought that this was half a love, "Bé, pensavo che questo fosse mezzo amore". E sullo schermo, quindi, compare—in modi diversi, per orizzontale o per verticale, fuori e dentro la cornice—a metà.

Un altro esempio sta in "Faith":

bon iver faith
Uno screenshot dal video di "Faith", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Vedete quel "know" in alto a destra? Mentre Vernon lo canta, dilatato, lui si distende e ritrae come un elastico. Prima, nel video, un "god" rotea come attorno a un perno. La parola "faith" compare in un font diverso—proprio come "house" in House of Leaves. Ed ecco, i font sono un altro punto interessante: Danielewski li usa per permettere al lettore di comprendere in quale livello narrativo dell'opera ci troviamo. In Vernon, invece, sono bivi improvvisi, ulteriori spostamenti di campo e sorprese per l'occhio, Comic Sans che si rivelano a sorpresa come Pokémon brillanti.

Sembra quasi, a tratti, di vedere versioni non-ironiche degli splendidi musicali di Bill Wurtz, che sul suo canale YouTube sviluppa da anni una delle manifestazioni più divertenti, brillanti e originali del postmoderno in musica-e-video.

Che poi, paroloni a parte, è un po' questo il succo della questione: Vernon ha fatto una cosa incasinata di quelle che è bellissimo scasinare, un brodo di segni da suddividere in sapori a ogni immersione del cucchiaio, ma in modo comunque fruibile da chi se ne frega di farsi i pipponi che sorreggono questo pezzo. Nel linguaggio testuale-visivo di Vernon puoi leggerci di tutto: o anche niente.

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Uno screenshot dal video di "Holyfields,", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Tipo, guardate il sole. Qua sopra, in "Holyfields," è un quadrato che ha dentro altro cielo.

bon iver jelmore
Uno screenshot dal video di "Jelmore", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Qualche pezzo dopo, in "Jelmore", è solo nero che copre il punto di luce del tramonto—un buco nel tessuto dell'universo.

bon iver salem
Uno screenshot dal video di "Salem", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

E infine in "Salem" è una zucca. Quella che fa paura, di Halloween, delle streghe. Che vuol dire? Magari è la luce dell'intelligenza (1) che si svuota (2) e viene riempita dalla tendenza umana a cacciare le streghe (3)? E intanto l'umanità—i ballerini nello screen qua sopra—sorridono felici e ignari? Magari. O magari non vuol dire un cacchio, ma io ascoltatore/spettatore sto diventando parte attiva dell'interpretazione dell'opera, che non mi incanala in una narrazione ma mi permette di fare un po' quello che cazzo mi pare. Ed è la libertà che solo i capolavori ti fanno provare.

bon iver rabi
Uno screenshot dal video di "RABi", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube

Nel video finale, "RABi", tutto si sovrappone e confonde. I simboli, font e colori di i,i diventano un pastrocchione. La musica, invece, è limpida e carezzevole—è una canzone di speranza, ha detto Vernon stesso:

"Ci sono parecchi motivi per cui sentirsi tristi e confusi ma anche molte cose per le quali essere grati. Appoggiarsi alla riconoscenza e all’apprezzamento delle persone che ti sono intorno e che contribuiscono a renderti quello che sei ti dà un senso di sicurezza e ti offre un rifugio in cui essere ciò che vuoi. C’è ancora questo slancio nella vita. Ne abbiamo bisogno. Abbiamo tutti pensato che fosse un bel modo per chiudere il disco”.

Ed è vero, perché una concessione alla narrazione tradizionale c'è: il lieto fine. Anche se ci sono Cerbero, il cancro, Donald Trump, il fuoco dell'inquinamento, l'avidità, il capitalismo, il disagio, il dolore, qualsiasi cosaccia, noi siamo ancora qua. Eh già. Che poi, per quanto è divertente risolvere rebus, rendersi conto della propria insignificanza e inventarsi righe che collegano i puntini, pure io sono felice se alla fine di un'opera—un libro, un film, un disco—sorrido.

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Il vero reggae italiano non l’hanno fatto gli artisti reggae

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Siamo oramai nel pieno dell'estate, calda in un modo quasi inquietante che non presagisce nulla di buono per il futuro. Mentre l’Amazzonia arde è necessaria la giusta colonna sonora, quel singolo che ti ronza in testa dalla mattina alla sera, ti fa dimenticare lo schifo, ti rinfresca anche quando sei chiuso in casa a 40 gradi e che poi diventa un grande classico quando si tratta di tuffarsi tra i marosi di tutte le ere cercando speranza.

Ecco, non trovate che quest’anno ci sia il vuoto totale? Ci saranno pure i tormentoni, ma sono tutti uguali: avevo dato una possibilità a "Calipso" di Charlie Charles e compagnia bella, almeno per il testo che aveva una certa profondità e autocritica, ma per quanto fresco, a un certo punto quasi cita musicalmente “A far l’amore comincia tu” della Carrà. E mi sale la nostalgia per il periodo in cui in Italia si provavano a fare pezzi estivi. Per esempio con sonorità reggae, che già da sole evocavano spiagge rinfrancanti ma anche a portata di poveraccio.

Intendiamoci, nulla a che fare con il reggaeton commerciale che si sente ora, tutto fumo e niente arrosto: l'ultima di J-Ax, per esempio, è il clone del clone del clone, nonostante lui provi in tutti i modi a scrivere dei testi quasi impegnati. Ma in effetti che fine ha fatto il vero spirito reggae nel pop italiano? C’è un disco che risponde a questa domanda, ed è Notihng Hill di Pop X.

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La copertina di Notihng Hill dei Pop X, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il nostro è senza dubbio un genietto del male quando si tratta di rielaborare codici: il disco è un delirio, come al solito, ma un delirio che porta l’idea del reggae in italiano in una specie di Second Life dove un Antonio Di Pietro rimasto intrappolato lì dentro dal suo avatar si fa crescere i dread e si mette a ballare. Insomma, plasticoso e digitale quanto basta per sostituire il desiderio di bagnasciuga con frequentazioni di supermercati al solo scopo di refrigerarsi con l’aria condizionata.

D’altronde in Italia, dove la cultura è lontana anni luce da quella giamaicana, il pop ha sempre provato a trovare una via originale al reggae, proprio come cerca di fare Pop X: se solo negli anni Novanta è partita la “specializzazione”, con i vari Africa Unite, Pitura Freska e Radici nel Cemento, nel decennio precedente le nostre popstar ci andavano coi piedi di piombo. Riuscivano però a fare centro, proprio perché dosavano bene gli interventi cercando di evitare lo scimmiottamento tipico di quando un genere non lo vivi. Vediamo quindi chi sono alcuni dei protagonisti della musica leggera italiana che hanno fatto opera di divulgazione nella penisola di una musica che sembrava quasi aliena, in maniera ovviamente bizzarra.

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La copertina di Bandabertè di Loredana Bertè, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Cominciamo dal principio: leggenda vuole che il primo brano reggae in assoluto in Italia sia arrivato nel 1979 grazie a Loredana Bertè con la sua celeberrima "... E la luna bussò", brano che conoscono anche i sassi. Durante un viaggio in Giamaica la Bertè finisce non si sa come ad un concerto di Bob Marley, ancora abbastanza sconosciuto ma prossimo al botto in tutto il globo terracqueo. La nostra eroina torna in Italia e con Lavezzi, Avogadro e Pace confeziona questo gioiellino di poesia / favola suburbana di stampo marxista, contenuto in un disco storico come Bandabertè.

Ora, rimane poco chiaro come mai la critica abbia detto una cosa simile in maniera quasi unanime: nella realtà dei fatti il reggae in Italia arriva molto prima. Innanzitutto va dato a Rino Gaetano ciò che è suo, visto che nel 1978 "Nuntereggae più" già dal titolo preannuncia sonorità di un certo tipo, sostenute da un testo di denuncia che è perfettamente in linea con il genere. Probabilmente però il primo ad osare davvero in un territorio “Italian reggae” inedito e coraggioso è proprio Lucio Battisti con "Prendi fra le mani la testa", del 1973. Il brano ha senza alcun dubbio un tiro Jamaican style, potenziato con un atteggiamento afrofunk assolutamente inedito nella nostra penisola. Tant’è che la stessa Bertè ne farà una cover "à la Marley” proprio in Bandabertè, in qualche modo incoronandolo come precursore assoluto.

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La copertina di Nuntereggae più di Rino Gaetano, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

C’è da dire che nel 1977 un altro Lucio spopolerà con un brano innovativo effettivamente reggae, anche se in Italia non si sapeva ancora dargli un'etichetta: stiamo parlando di Dalla e del suo "Disperato Erotico Stomp". Anche a livello testuale il brano metteva al centro erotismo sfacciato, parole volgari, la slackness—elementi che nel reggae classico sono all'ordine del giorno e che per l’audience italiana arrivarono invece nelle radio come un fulmine a ciel sereno.

Insomma, la questione della paternità del reggae in Italia è una faccenda ancora aperta, forse di lana caprina, e molto legata alla fattura degli arrangiamenti e al “lifestyle” più che alla sostanza in sé. Di sicuro nel 1979 è avvenuto il pieno sdoganamento di queste sonorità caraibiche, tanto che ci sono anche timidi tentativi di Finardi di saltare sul carro con la sua esplicita "Legalizzatela", l'Enzo Carella pericolosamente vicino al levare di "Malamore" e i Pooh che incidono una versione inglese di "Pronto buongiorno e la sveglia” per il disco che avrebbe dovuto lanciarli negli USA, ovvero Hurricane.

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La copertina di Hurricane dei Pooh, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

In questo caso la timidezza non esiste: "Ready, Get Up and Good Morning" presenta un arrangiamento certosino che poi riproporranno solo un'altra volta per "Tropico del Nord", contenuto nell'omonimo disco: chissà cosa avrebbero potuto regalarci se avessero insistito. Confessarono anche che nel periodo si fecero un megaspino su un palco canadese, finendo a ridere come cretini suonando improvvisamente ognuno quello che cavolo gli pareva.

Ma oramai il reggae sta per diventare la nuova moda globale: Marley suona a San Siro nel 1980 e da quel momento in Italia c’è la corsa per stare sul pezzo. Complice anche il successo del reggae bianco dei Police, ecco Vasco Rossi cimentarsi col genere in "Voglio andare al mare", che oltre ad essere un microplagio dei Police stessi sostiene un testo “di evasione” che ben ricorda dune popolate da giamaicani tutti cannoni e belle donne. Il Blasco bissa poi la faccenda nel 1982 con "Vado al Massimo". Nella zona '81 anche il Fossati di "Panama", che nella sua tematica clandestina è un'altro pezzo importante nel puzzle dello sdoganamento dei colori verdegiallorossi con il suo esplicito verso su "l'erba da fumare".

Mentre Camerini e la Rettore sembrano più interessati allo ska punk (o forse sarebbe meglio dire speed reggae) con le famose "Ska-tenati" e "Donatella", il loro compagno di parrucchiere Enrico Ruggeri nel 1981 scrive "Una fine isterica" (con la sua versione "lover" col testo cambiato, "Un amore isterico") dedicata al clamoroso scioglimento dei Decibel, un reggae che poi diventa post-punk nel giro di poche battute. Nel 1983 nel disco Polvere utilizzerà ancora un reggae glaciale per il brano "Salviamo Milano": non è ancora chiaro se se la prenda con gli infiltrati camorristi al nord o con i meridionali nel loro totale (cosa che gli ha attirato accuse di proto-leghismo) ma il brano nel suo controsenso funziona.

Nel 1982 ecco invece Edoardo Bennato alzare l’asticella con "Nisida", un 45 giri che non si aspettava nessuno, in quanto i fan dello zoccolo duro attendevano un nuovo album dopo la doppietta Uffà Uffà / Sono solo canzonette del 1980. Il brano è un reggae tostissimo nato dalle scorribande di Bennato e Tony Esposito in Giamaica, probabilmente (a giudicare da questo video) in compagnia di buon fumo e liquori autoctoni all'altezza delle aspettative.

Ebbene Nisida, a tutti gli effetti un'isola che fa parte di Bagnoli, a Napoli, viene dipinta nella canzone come un luogo paradisiaco – se non fosse per le industrie siderurgiche che ci scaricano dentro e per la NATO che la rende inaccessibile (per non parlare del carcere minorile tornato a far parlare di sé di recente per le teorie complottiste su Liberato). Sempre usato per una canzone di denuncia e apertamente anarchica, il reggae fa capolino nel 1983 nel disco concept È arrivato un bastimento. "Eccoli i prestigiatori" sembra scritta oggi nel denunciare le malefatte e la farsa delle democrazie occidentali moderne.

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La copertina di È arrivato un bastimento di Edoardo Bennato, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Nello stesso anno di "Nisida", nell'album 'Nu jeans e 'na maglietta, Nino D’Angelo vorrebbe inserire un pezzo, "'O spinello", che tratta del problema della droga a Napoli come unica alternativa all'ingiustizia sociale: per la tematica forte il brano non verrà accettato dalla casa discografica ma Nino la canterà tranquillamente durante il tour: è un brano micidiale, un reggae dal tiro muscolare che non avrebbe fatto cattiva figura in un disco d'oltreoceano.

Nel frattempo, nel 1981 si formavano gli Africa Unite: mentre loro cercavano ancora di accordare gli strumenti, i Cugini di Campagna nel 1982 sfornavano "Gomma", un autentico pezzone reggae dall’arrangiamento roccioso e un testo che colpisce politici corrotti e malcostumi polizieschi, poi inserito nel disco omonimo, il più estremo di tutta la loro discografia. Nel 1983 saranno invece i Matia Bazar ad ottenere lo scettro per il miglior pezzo reggae italiano: "Il video sono io" è infatti non solo reggae, ma un reggae elettronico mai sentito prima in Italia, e che resterà un esempio unico o quasi per molto tempo a venire.

Nello stesso anno, Teresa de Sio diventa un'altra icona del reggae napoletano, ad esempio con “Oggi o dimane” contenuto nel vendutissimo Tre (nonché alcune chicche su Africana, un disco che dovrebbe essere approfondito su queste pagine). Il 1983 è anche l'anno in cui Venditti si cimenta col genere nel pezzo “Circo Massimo”, presente nel disco live dallo stesso nome: anche se si tratta di un esercizio di stile pericolosamente vicino ad un altro pezzo italian reggae dell'81 come l'irresistibile “Movin' Cruisin'" dei fratelli La Bionda aka Fantastic Oceans, è il prodromo per l'inno alla cultura rasta, tutto in levare, di “Piero e Cinzia”, che uscirà nel bestseller Cuore del 1984 diventando la seconda canzone più celebre di quell'album dopo “Ci vorrebbe un amico”.

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La copertina di Tre di Teresa De Sio, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

E poi nel 1987 c’è il brano forse più avanti di tutti, quello più vicino ai concetti di Adrian Sherwood: è "Scrack" di Pino Daniele, contenuto nel grandissimo Bonne Soiree. Anche se è ibridato con dub e fusion, idealmente è uno spartiacque, perché l’anno dopo arriva Jovanotti con "Gimme Five 2", un ragamuffin paraculo che è poi la cover della stessa "Gimme Five". Improvvisamente le cose si complicano, in quanto l’italodisco digitale e plasticosa si insinua nel reggae della musica leggera italiana rendendolo edulcorato e commerciale.

Da una parte non ci sarebbe niente di male, si impara (male) la lezione degli UB40 (all'epoca all'apice insieme agli Afrika Bambaataa di "Reckless"), ma dall’altra ovviamente questa cosa creerà non pochi equivoci. Se Papa Winnie con la sua “You Are My Sunshine” è infatti il nome più influente del periodo anche e soprattutto per le sue origini caraibiche, è anche vero che piano piano il reggae affonda nell'underground, come se di fondo l'Italia avesse bisogno approfondire i valori del genere, oltre al mero fattore musicale.

Arrivano i Novanta e sappiamo bene come è andata: gli Africa Unite diventano una realtà indiscussa, sfornando dei dischi che sono la colonna sonora di una generazione sì, ma peccano a volte di eccessiva pulizia anche quando tentano delle commistioni con l'industrial e l’elettronica. È un underground che però ha in mente un suono mainstream. Gli altri li conosciamo: i 99 Posse di "Curre curre guaglio'", i Sud Sound System, gli Almamegretta, Alborosie che è addirittura emigrato nei Caraibi sono tutti act che hanno coccolato una gioventù tutta centri sociali e cannoni nel sogno di una vita migliore e di uno “star ben” perenne: sogno spesso, loro malgrado, basato sulla presunzione di aver davvero capito la cultura reggae.

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La copertina di Sanacore degli Almamegretta, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

A conti fatti, per quanto nei Novanta in Italia sia uno dei generi più popolari anche per l’intelligente commistione coi vari dialetti, il vero reggae italiano è forse quello nato in seno al pop di alta classifica, in zone in cui codificarlo era ancora impossibile e aveva ancora un valore “anti” per il nostro paese, forse proprio per il fatto paradossale che non se ne sapeva abbastanza. Dal momento in cui il reggae è diventato riconoscibile, però, in Italia c’è stato una specie di autocompiacimento o quasi, una sorta di blocco energetico conservatore.

“L’italiano che ascolta la musica reggae si può grossolanamente dividere in due categorie: il primo tipo è colui che idealizza la figura del rasta e, al seguito di uno stile che pesca molto dallo stile freak, simboleggia il simbolo dell’insubordinazione al sistema. Il secondo tipo è il serio, colui che intellettualizza il concetto di unità tra bianco e nero”: così si recita nel libro Viaggia la musica nera di Assante/Gullotta/Melanco del 1991. Noi pensiamo ce ne sia un terzo, cioè quello che fa a meno dei dread e di codici ma si bea delle good vibes, magari da sconvolto. Praticamente il Pop X di “No, Womano Cry”. Chissà cosa ne penserebbe Marley se la sentisse, forse sorriderebbe compiaciuto davanti a un piatto di spaghetti.

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Siamo stati nel Cocoricò abbandonato a parlare con chi lo ha reso leggendario

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Il Cocoricò non è stata una discoteca tra le più importanti d’Italia. È stata la discoteca. Inaugurata nel 1989, la sua mission iniziale non era però quella di fare ballare la gente ma di immergerla in un bagno di cultura a 360 gradi. Si trattava di uno spazio polivalente in cui si celebrava l’arte in ogni sua forma. Quando poi negli anni Novanta prese piede la techno e arrivò DJ Cirillo, sull’anima polivalente del Cocoricò prevalse quella del ritmo sfrenato dei 120-140 bpm.

Però il resto non morì: il Cocoricò, checché ne dica l’italiano medio e il borghese romagnolo, è stato un tempio non solo del divertimento ma anche dell’espressione artistica e culturale ad ampio spettro. Purtroppo l’11 giugno di quest’anno il tribunale ha sancito il fallimento definitivo della società che faceva capo al locale, mettendo la parola fine su quello che molti, in maniera affettuosa, chiamavano il Cocco.

La crisi, i conti in rosso, la pressione fiscale e la morte per overdose di un sedicenne nel 2016 hanno incominciato a erodere le basi su cui la celeberrima Piramide di vetro ha poggiato per quasi trent’anni. Non che ora non ci sia più, quella piramide. Anzi: sulla collina di Riccione guarda ancora tutta la città dall’alto, simbolo del divertimento e del glamour romagnolo, come se fosse la scritta di Hollywood de noantri.

A visitarla oggi è stata Marianna Arduini di Ascosi Lasciti, la più grande community italiana di urbexer. Questi cultori dei luoghi abbandonati sono soliti inoltrarsi tra le pareti in cui polvere, crepe e usura del tempo hanno preso il sopravvento, immortalandole in scatti suggestivi. E guardando quelli del Cocoricò verrebbe da dire: “Se queste pareti potessero parlare…” Così ho deciso di farlo. Sono andata a interpellare l’anima di quelle mura: la gente che ci ha lavorato.

piramide cocoricò

Negli anni Novanta e a inizio Duemila, tantissime persone facevano parte degli ingranaggi ben oliati di un’azienda italiana celebre sia in patria sia all’estero, capace com’era di attirare il popolo dei clubber da tutta Europa. Il Cocoricò ha portato turismo, indotto economico, fama e tanto altro ancora all’Italia. Ma in pochi gli hanno riconosciuto questo merito.

Uno degli aspetti più interessanti è quello di avere portato per primo l’avanguardia teatrale e artistica accanto alla consolle, questo grazie a un direttore artistico sui generis: Loris Riccardi. “Mi ricordo di pareti ricoperte di pistole e di ragazze e ragazzi nudi in teche piene di mosche…”. A raccontarmelo è Ralf, DJ resident del Cocoricò a cui si deve l’apertura di Titilla, inizialmente un piccolo salottino all’interno del club e poi diventato celebre sala nel giro di neanche due anni.

David Love Calò, il DJ della sala Morphine, mi racconta che “tutto il locale cambiava aspetto ogni sei mesi, trasformandosi. Potevi trovare una zona composta di zolle erbose da calpestare a piedi nudi e poi un labirinto. C’erano spesso allestimenti scenici molto forti, come quello del gruppo teatrale Socìetas Raffaello Sanzio che attaccò quarti di bue ovunque, simbolo del macello di corpi”.

Grazie alla sensibilità artistica di Riccardi e alla sua vicinanza con i gruppi teatrali sperimentali della Romagna—tuttora il più grande festival di teatro, danza e performing arts d'Italia si svolge a Santarcangelo di Romagna—il Cocoricò divenne scenario di avanguardie. Dalla Teddy Bear Company ai Fanny & Alexander e ai Motus, non c’era mostro sacro della scena teatrale d’essai che non volesse entrare in cartellone al Cocoricò. Nacque il cosiddetto “teatro da discoteca”, con nomi di tutto rispetto anche del panorama mondiale come la celeberrima Fura dels Baus.

Quello proposto al Cocco era un teatro impegnato e scioccante che voleva risvegliare le coscienze dal torpore borghese. Nel 2014 la compagnia ravennate Fanny & Alexander finì addirittura in caserma e il Cocoricò si beccò una denuncia per concorso aggravato in atti e spettacoli osceni. Per entrare nel locale bisognava attraversare coppie di uomini e donne nudi, una citazione artistica della storica performance di Marina Abramovic e Ulay alla GAM di Bologna nel 1977, quando i due artisti in costume adamitico costrinsero i visitatori a passare tra i loro corpi per studiarne le reazioni.

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Cristian Camporesi, meglio conosciuto come Sensoria e Aware Project prima come produttore di Cirillo e poi come resident del Cocoricò, mi racconta della serata a tema Via Crucis, con gente seminuda crocefissa alle pareti, immobile fino all’alba. Al Cocco, Sensoria ci ha trascorso la bellezza di 25 anni, vedendone di tutti i colori. “Facevo musica dal vivo, con batteria elettronica, sintetizzatore e computer. Suonavo solo le mie composizioni quindi non ero esattamente un DJ. Sono l’unico ad avere suonato davvero in tutte le sale: nella Piramide, al Morphine, al Ciao Sex, nel bagno delle donne…”

Un nome che non è stato solo spettatore di allestimenti teatrali ma grande protagonista è il Principe Maurice, al secolo Maurizio Agosti Montenaro Durazzo. “Ero Performing Artist e Maestro di Cerimonie, a volte regista e scenografo nonché vocalist. Avevo grande libertà di espressione dovendo solo seguire linee guida dettate dal geniale Loris Riccardi”. L'allestimento per lui più interessante è stato quello della Casetta, un appartamento a vista realizzato in Piramide in cui abitava dall’apertura alla chiusura, uscendo solo per raggiungere Cirillo in consolle a fine serata. “Una specie di Grande Fratello ante litteram, insomma”.

Anche Salvi Semeraro, PR storico del Cocoricò, ne ha viste tante nei 21 anni di lavoro al suo interno. Membro ufficiale della “famiglia Cocco” dal ’98, mi parla subito di una performance per lui indelebile: “Era la serata di Capodanno del ’94 e una coreografa berlinese aveva appeso ai lati della Piramide quattro performer incaprettate. Da un privé un tizio travestito da cacciatore brandiva un fucile e si sentivano degli spari. Dalle donne appese incominciava a colare sangue che cadeva sulla gente sotto. Il sangue era quello di un maiale ucciso per la performance.” Niente era troppo avanti per un locale in cui nel ’99 potevi vedere dondolarsi sull’altalena della Piramide personaggi mitici come Cicciolina o Maurizia Paradiso, prosegue Salvi con orgoglio.

Rossana Maria Teresa VonAlberton è stata vocalist del Morphine e PR interna nel 2014. Chiama il Cocoricò “lui”, personificandolo e parlandone con voce rotta dall’emozione. Per Rossana, così come per tutti gli altri, “lui” non era solo una discoteca ma qualcosa di speciale, quasi inspiegabile per chi non ha mai varcato quella soglia. “Entravi e ti sentivi dentro una grande famiglia. Tutti si abbracciavano, l’empatia era a livelli elevatissimi, così come il lusso e la bellezza. Tutto questo ti faceva sentire importante, esclusiva, amata”.

Nello stesso anno di Rossana anche Andrea Gazzera approda al Cocoricò come PR esterno. Ha solo 18 anni ma grazie al suo entusiasmo riesce a battere il record assoluto del numero di prevendite nel primo anno di lavoro: 2205. Mi racconta che i PR vivevano tutti assieme, una decina per ogni casa per rendere più coeso e motivato il gruppo. “Il Cocoricò era un mondo parallelo. Entravi e non avevi più pregiudizi o timori. Anche persone che non c’entravano nulla riuscivano a divertirsi e a sentirsi a proprio agio. Per il Tunga XXL, una serata gay e trans, mandai un gruppo di altoatesini. Si sono divertiti tantissimo, erano entusiasti! A tutti quelli che sono andati al Cocoricò è rimasto qualcosa in testa e nel cuore”, mi dice Andrea.

piramide cocoricò

Per il DJ del Morphine David Love Calò “la cosa davvero speciale era la convivenza di realtà diversissime. Nella sala techno della Piramide c’erano molti ragazzi orientati politicamente verso destra, nel Ciao Sex c’erano gay, trans e appartenenti alla comunità LGBTQ+ e invece al Morphine bazzicavano intellettuali più orientati a sinistra. Era un’unione di gente diversissima che conviveva senza problemi nello stesso locale, una cosa unica. E nessuno con maschere: ciascuno si mostrava per quello che era realmente”.

Per DJ Cirillo, invece, il Cocco è stato il più grande rave indoor della storia. Lo presentava proprio così a chi ancora non lo conosceva: “All’estero l’ho sempre definito ‘The Biggest Indoor Rave’. Fin dai suoi primissimi anni rispecchiava—e molte volte superava—le feste e i rave in cui lavoravo in tutto il mondo”.

Nessuno riesce a spiegarsi quella cosa sovrannaturale che a tanti è successa entrando al Cocoricò. Nessuno tranne Sensoria, che mi fa una rivelazione: “La cosa speciale era la Piramide. Poco tempo fa dei fisici hanno scoperto che la piramide egizia concentra energia elettromagnetica, incanalandola e disperdendo le onde nel substrato. La Piramide del Cocoricò faceva la stessa cosa: concentrava l’energia e la passava sotto, dove c’era la gente che ballava. Perciò nella Piramide si sperimentava qualcosa di inspiegabilmente speciale”.

Non solo la Piramide offriva shot di energia pura: anche il Morphine, a dispetto del nome, era in grado di elettrizzare. Nicoletta Magalotti aka NicoNote è la performer e DJ che Riccardi scelse come curatrice artistica dello spazio che più amava. “Lo spirito con cui ho disegnato l’identità del Morphine e con cui invitavo gli ospiti era quello di creare una situazione straniante, un set in divenire, con forme e formati non omologati, interazione e sconfinamenti con universi paralleli” mi racconta. “Facevamo sperimentare un clima unico e trasversale, tra elettronica e sperimentazione radicale. Un gesto plastico disegnato per tutta una notte, dove i contorni erano nell’alterità. Un po’ come nei film di Lynch, caleidoscopici momenti in successione”.

Oltre al lato misticheggiante e intellettuale, un aspetto più tangibile ed evidente era quello della trasgressione. Il Cocoricò è stato un tempio del proibito in un Paese e in anni in cui la sperimentazione era tabù. Però sembrava che le leggi del bigottismo italiano non oltrepassassero la selezione all’ingresso.

“La trasgressione c’era, faceva parte dell’anima del Cocoricò. Anche se non ero un buttafuori, quando vedevo qualcuno esagerare intervenivo. Ma la trasgressione era soprattutto vestirsi in maniera strana ed esagerata. C’era un door selector al Titilla che faceva entrare solo le persone con outfit spettacolari, dagli abiti anni Sessanta ai boa di struzzo. Se eri in jeans e t-shirt ti scordavi di entrare. Immaginati quindi una sala con dentro 300 persone tutte vestite in maniera pazzesca”, mi racconta il PR Salvi Semeraro.

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DJ Ralf mi dice che la trasgressione esplodeva soprattutto al Ciao Sex, il club il cui filo conduttore era lo humour gay e queer. “Non credo però ci fossero atti sessuali totalmente espliciti. Ma comunque il sesso non è mai stato un tabù. C’era libertà, voglia di divertirsi e di esprimersi senza freni inibitori”.

Sensoria invece mi racconta che “negli ultimi 15 anni c’erano paletti eccome, non era tutto ammesso solo perché si trattava del Cocoricò. Dopo la legge anti-fumo, ad esempio, non era permesso accendersi una sigaretta o una canna. Qualcuno trovava il modo di farlo ma ufficialmente non si poteva. Per quanto riguarda le droghe, all’epoca andavano le pastiglie ed era difficile vedere chi le usava. Erano invisibili, le scioglievano nel bicchiere ed era impossibile controllare in maniera capillare”. Sensoria ci tiene inoltre a sottolineare che comunque il Cocoricò non era il Berghain: “C’erano punti poco visibili in cui la gente si appartava, non proprio dark room ma semmai ‘dark room condominiali’ dato che dentro c’era parecchia gente... Però non è che succedesse chissà cosa!”

Eppure non era ciò che i benpensanti mal pensavano. “Le amministrazioni e il riccionese medio vedevano il Cocoricò male, come il posto da evitare, il luogo di perdizione dei drogati. Un pregiudizio su cui il Cocco giocava molto: essere il posto del diavolo. E il fatto che la Piramide fosse di vetro e che da fuori si vedesse tutto quello che succedeva dentro, anche da lontano, amplificava questa provocazione nei confronti della città”, spiega DJ David Love Calò.

Il performer Principe Maurice mi racconta che una sera, nel percorso dai camerini alla consolle indossando una tuta in lycra leggera e un po’ lacerata in stile punk, è arrivato a destinazione a brandelli, praticamente in perizoma da danza e tacchi. “Mi era stata letteralmente strappata di dosso, non con violenza ma con morboso desiderio di contatto”. Ma ha continuato tranquillamente a lavorare. “La seminudità e la nudità integrale non sono mai state un problema nelle performance. Lì non ci si vergognava di esprimersi liberamente, si inscenavano anzi fantasie e creatività che altrove sarebbero state impossibili”.

E altrove sarebbero state impossibili anche le serate da paura che hanno fatto la storia della Piramide riccionese. Da quella consolle sono scesi i più grandi mostri sacri del clubbing di tutti i tempi. Dalla notte di Halloween 2011 con Richie Hawtin e Loco Dice fino a Chris Liebing nell’aprile 2018 e Carl Cox nell’agosto dello stesso anno, le serate memorabili sono state parecchie, molte delle quali si devono a DJ Cirillo. “Sono riuscito a portare dei resident guest con cadenza annuale con internazionali come Sven Väth, PCP, Marusha e Carl Cox, solo per citarne alcuni”, mi racconta.

Per DJ David Love Calò invece un ospite da chapeau è stato Arto Lindsay, che arrivò al Morphine con chitarra e ampli per fare un’improvvisazione di noise guitar di mezz’ora. “Ne uscì un happening anni Ottanta molto newyorkese”. Mi racconta anche della serata in cui il poeta-filosofo Manlio Sgalambro venne a recitare alcuni suoi scritti, con un accompagnatore in incognita che solo all’uscita fu riconosciuto e osannato da tutti: Franco Battiato in persona.

Di grandi nomi ne sono passati tantissimi al Cocoricò: da Enrico Ghezzi, Asia Argento, Aphex Twin, Grace Jones fino ad arrivare allo stilista Jean-Paul Gaultier. Se queste pareti potessero parlare racconterebbero la storia del costume, della cultura e della società di fine Novecento e inizio Duemila come nessun altro. Forse per la società odierna il Cocoricò di allora non avrebbe più senso, anche se in tanti sperano di vederlo risorgere dalle sue ceneri: “Penso che ci voglia una cordata di imprenditori forti che facciano andare di nuovo la Ferrari come una Ferrari. Ma sono certo che prima o poi il Cocoricò riaprirà”, mi assicura Salvi Semeraro.

DJ Ralf è più scettico. Sarà perché si rende conto che “Riccione sembra sempre meno disposta ad accogliere la nightlife. Le amministrazioni hanno preferito virare verso un turismo più maturo composto di famiglie in vacanza, sfavorendo l’attività del clubbing. Eppure Riccione deve tanta della sua ricchezza a 25 anni di clubbing! C’è chi rimpiange i tempi del Cocoricò anche a livello imprenditoriale ed economico: quel locale portava un indotto enorme alla città, basti pensare ai ristoranti e agli alberghi che riempiva ogni fine settimana”.

Addirittura le librerie hanno conosciuto tempi d’oro grazie agli allestimenti del Cocoricò. “Una sera il locale era dedicato a Yukio Mishima, lo scrittore giapponese che mescolava romanzo e Kabuki che nel 1970 per contestazione politica compì il seppuku, il suicidio rituale dei samurai”, mi racconta una persona intimamente legata al Cocoricò che ha richiesto di mantenere l’anonimato. “Il giorno dopo nelle librerie riccionesi sono entrate decine di ragazzi a chiedere i libri di Mishima. Anche questo è ciò che il Cocoricò ha portato alla città ma nessuno lo riconosce”.

Sensoria spera in una riapertura che ricolleghi il Cocoricò alle sue origini: “Sarebbe bello se rinascesse come centro multiculturale. All’inizio il Comune era contento perché il Cocoricò era una culla culturale, un fiore all’occhiello. Potrebbe tornare a esserlo”. Anche perché una discoteca vecchio stampo, secondo alcuni di loro, non avrebbe più tanto senso. Il cambiamento più grosso? Quello dello smartphone perennemente in mano.

“Negli anni Novanta in una sola serata arrivavi a conoscere cento persone che arrivavano da tutta Europa. E poi le ritrovavi il week-end dopo. Oggi non è più così e la colpa è del cellulare. Anziché vivere il momento, godersi l’esperienza, ballare e ascoltare, la gente riprende, posta sui social network, guarda non quello che ha davanti ma l’immagine attraverso lo schermo. Il cellulare ha fatto sì che la gente si trovi altrove, che non sia lì in quel momento a vivere l’esperienza nella sua interezza”, dice con rammarico Sensoria. E ha ragione perché la grandezza del Cocoricò è stata proprio quella dell’esperienza unica, irripetibile e sensazionale che ogni sera si celebrava come un rito magico su quell’altare incredibile che è stato la Piramide.

cocoricò chiuso

Secondo tutti quelli che ho interpellato, a creare la magia è stato lui: Loris Riccardi. Il direttore artistico del Cocco—che il critico musicale Pierfrancesco Pacoda nel suo saggio Riviera Club Culture definisce come colui che ha fatto “diventare la Piramide del Cocoricò un simbolo importante per Riccione quanto il Louvre per Parigi”—è da tutti indicato come l’artefice dell’incanto.

“Il Cocoricò non esiste più da tanti anni, da quando nel 2006 Loris Riccardi lo ha lasciato. Loris era Diaghilev e il Cocoricò era il suo Nijinsky. Mi dispiace che nessuno parli di Loris perché lui ha creato tutto. Un genio. Gli si deve tutto”, mi dice Isabella Santacroce, scrittrice che frequentava il Cocoricò e che a volte faceva DJ set al Morphine.

Decido di provare a contattare questo nome che tutti idolatrano ma scopro che non ha quasi mai rilasciato interviste, è riservatissimo ed è privo di Facebook, Twitter e di qualsiasi canale permetta oggi di arrivare in pochi step a qualcuno. Dopo varie ricerche riesco a raggiungerlo nel modo più anni Novanta che esista: chiamandolo sul numero fisso di casa. Nota subito il mio entusiasmo e accetta eccezionalmente di fare una chiacchierata con me. Ma guai a definirlo direttore artistico: “Io non dirigevo, è stata una magia che ho condiviso con altre persone. Mi limitavo a lanciare un’idea ma poi tutto veniva fatto insieme. Tutti eravamo direttori di tutti”.

L’intuizione di coinvolgere l’avanguardia teatrale e artistica in un luogo ben lontano dal palcoscenico è stata dettata da un sentire molto semplice: “Non ho badato a ciò che andava in discoteca ma ho tenuto presente quello che piaceva a me. Volevo colpire con qualcosa di nuovo rispetto all’ambiente della discoteca in anni in cui tutto era omologato”.

Essendo un appassionato di teatro, assieme a Nico Note ha coinvolto Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio: gli ho detto di fare quello che voleva per la notte di Capodanno. Lui ha allestito la Piramide con pareti interamente ricoperte di carne di mucca che gocciolavano sangue. In mezzo, su un letto fatto a ring, due performer facevano l’amore. Facevano davvero l’amore ma nessuno se n’è accorto. La discoteca intera rimase flashata da quell’allestimento che mescolava creazione, mucche e sangue. Da quel momento il Cocco incominciò ad avere un indirizzo diverso, diventò un locale diverso, unico nel suo genere. Il mio più grande rammarico è che ci siano poche testimonianze video e fotografiche”.

Erano anni in cui la tecnologia non era a portata di mano come oggi quindi può solo raccontarmi di quando Enrico Ghezzi ha messo su i dischi, di quando ha tenuto una lezione su Kubrick indossando una maschera originale del film Eyes Wide Shut e della volta in cui stava presentando il suo libro Paura e desiderio e, mentre parlava, una ballerina gli strappò il microfono per raccontare una barzelletta su John Wayne. “Tutti scoppiarono a ridere, Ghezzi in primis. Ecco: questo era il Cocoricò. Un posto magico”.

Oltre al rammarico di non avere abbastanza testimonianze video e foto, Loris ammette con un velo di amarezza che in pochi hanno saputo cogliere la loro modernità. “I nostri erano messaggi attuali, contemporanei, addirittura precursori dei tempi. E non eravamo la copertina di una rivista ma una discoteca. E soprattutto non eravamo a New York, ma a Riccione!” Benché a suo dire le leggende metropolitane sul Cocoricò fossero tante, ammette che la trasgressione faceva parte del gioco: “Era dappertutto. Tutto il mondo della notte è fatto di trasgressione, con poche eccezioni.”

Secondo lui è inimmaginabile ritrovare oggi il Cocoricò di quegli anni perché ora non avrebbe più senso. “Non mi manca il Cocoricò in sé ma tutto quello che c’era intorno: l’aria che si respirava, il profumo che si sentiva appena entravi, le persone, l’atmosfera. Mi manca l’entusiasmo e l’armonia. Lì dentro non c’era niente che stonava e non per via della musica o degli allestimenti: lì dentro c’era armonia”.

Che sia stata l’energia elettromagnetica incanalata dalla Piramide o quella intellettuale incanalata da Riccardi, oggi non si può più scoprire da dove arrivasse quell’armonia. Anche se le foto di Ascosi Lasciti e le parole degli ex addetti ai lavori fanno intuire che la bellezza era dappertutto. Compreso negli occhi di chi guardava.

Camilla è giornalista, scrittrice e autrice televisiva. Seguila su Instagram.

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