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Foto dal backstage del concerto di Sfera, J Balvin, Gué ed Elettra Lamborghini

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Come raccontare l’atmosfera di un backstage come quello di Mamacita? Le foto di Enrico Rassu lo fanno molto bene, catturando i sorrisi tra colleghi e l’aria rilassata, quella da amici contenti di vedersi, mentre in qualche modo si stava scrivendo un capitolo importante della musica urban in Italia.

Storicamente, dalle nostri parti, siamo sempre andati a traino. Le hit italiane sono spesso state scopiazzature fuori tempo massimo di quello che in America era andato di moda qualche anno prima, le collaborazioni con artisti stranieri quasi sempre accordi prettamente commerciali, quasi mai realizzati con artisti di prima fascia, e quasi mai nel fiore della loro carriera.

Ora le cose stanno cambiando, ed è sotto gli occhi di tutti. La serata di Mamacita, come le foto di questo backstage, ne sono una dimostrazione esplicita.

elettra lamborghini mamacita festival
Elettra Lamborghini

Esattamente un anno fa J Balvin era l’artista più ascoltato al mondo su Spotify, alla fine del 2018 si è classificato quarto in assoluto—il primo Drake, il secondo Post Malone, la numero tre Cardi B: tutti artisti che hanno collaborato, che collaborano o che fanno parte dello stesso mondo.

Per la prima volta nella storia della nostra musica, noi non li stiamo soltanto guardando dalla periferia dell’impero, ma è perfettamente naturale e sensato che un concerto di J Balvin sia aperto da tre fra gli artisti di punta di BHMG: Gué Pequeno che della musica urban in Italia è l’imperatore, Elettra Lamborghini che ha macinato successo in tutto il mondo (e in particolare in tutto il mondo latino), e Sfera che J Balvin conosce e frequenta, e che sale sul palco con lui durante il concerto—e, diciamolo, un po’ tutti pensiamo che dopo "Machika" la collaborazione avrà un seguito.

sfera ebbasta j balvin
J Balvin e Sfera Ebbasta

Del resto è stata proprio quella impressionante macchina da hit di Rockstar (l’album più venduto in Italia nel 2018, non tra gli italiani ma in assoluto) a segnare un incontestabile cambio di passo con il featuring di Quavo dei Migos: forse la collaborazione più clamorosa tra un rapper italiano e quello che è effettivamente uno degli assoluti numeri uno al mondo di quel genere, e che lo è precisamente in quel momento, non che lo è stato dieci anni prima.

Vedere mescolarsi pilastri del rap italiano come Tormento che, nel retropalco, guardava il concerto di Sfera cantando i pezzi, Max Brigante che a questa roba ci ha creduto anche quando non ci credeva nessuno, Shablo che da anni lavora incessantemente più o meno dietro le quinte perché possano accadere cose come questa, nomi nuovi come Lazza e Capo Plaza, artisti internazionali come El Micha (che di Gué è praticamente un fratello) e J Balvin con il suo staff, come se fossero tutti amici, fa pensare che forse per la prima volta non siamo la periferia dell’impero, ma che stiamo vivendo invece in un mondo dove le cose succedono in contemporanea e, soprattutto con assoluta naturalezza. Una naturalezza che è figlia, in primis, di una credibilità conquistata con impegno.

gue pequeno el micha sfera ebbasta
Gué Pequeno, El Micha, Sfera Ebbasta

I nomi di Mamacita non sono gli unici protagonisti di questa rivoluzione: citiamo per esempio Charlie Charles che sta dietro a molte delle cose di cui abbiamo parlato fino a qui, o Mahmood che, pur non essendo salito su quel palco, sta vivendo un momento di successo clamoroso e internazionale che perfettamente si può inserire in questo tipo di narrazione (e non a caso è prodotto anche da Charlie e collabora con Gué Pequeno).

Di fronte a tutto questo, non si può non prendere atto di un momento importante e senza precedenti nella storia della musica urban in Italia. Poi si possono sempre trovare motivi per criticare a tutti i costi, oppure si può decidere di goderselo, a voi la scelta. Noi a Mamacita ci siamo indubbiamente divertiti.

elettra lamborghini mamacita festival
j balvin mamacita festival
J Balvin
elettra lamborghini mamacita festival
Elettra Lamborghini
gue pequeno mamacita festival
Gué Pequeno
capoplaza el micha mamacita festival
El Micha, Capo Plaza
elettra lamborghini mamacita festival
Elettra Lamborghini
lazza mamacita festival
Lazza
gue pequeno mamacita festival
Gué Pequeno
max brigante mamacita festival
Max Brigante
capoplaza mamacita festival
Capo Plaza
tormento sfera ebbasta mamacita festival
Tormento, Sfera Ebbasta
sfera ebbasta j balvin mamacita festival
Sfera Ebbasta, J Balvin
sfera ebbasta mamacita festival
Sfera Ebbasta
j balvin mamacita festival
J Balvin

Enrico Rassu è su Instagram. Anche Federico.

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Handmade Festival è il piccolo Coachella sostenibile della Bassa Padana

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Lasciare Bologna per la via Emilia fa sempre uno strano effetto. Bologna è una città affollata di architetture medievali ed eleganti, ma anche grigi, alti edifici a tratti alienanti, come le strutture fieristiche progettate da Kenzo Tange negli anni Settanta; un ammasso di cemento e portici che con il caldo si trasforma in una serra piena di sudore e spritz Campari.

Verso nord si apre una pianura padana che sembra non voler finire mai. Da un mondo del quale cogliamo soprattutto la verticalità si passa ad uno orizzontale, fatto di lunghi piani americani. Sulla via Emilia vive e si respira la storia: attraversarla vuol dire viaggiare una terra colonizzata da immaginari lunghi cinquant’anni e spesso diversi da loro. Ci pensò già Guccini nel 1984 a far uscire un album che si chiamava Fra la via Emilia e il West, ma quello che mi viene meglio è citare l’immenso Pier Vittorio Tondelli, che in un pezzo dedicato al successo di Zucchero scrisse un pensiero sulla musica dei luoghi:

“È curioso notare che in pochi chilometri quadrati, fra Reggio e l’appenino tosco-emiliano, si concentrano esperienze diversissime, ma tutte approdate al successo internazionale: Vasco Rossi, cantore dell’inestinguibile anima rockettara della regione; i CCCP-Fedeli alla linea, con il loro punk filosovietico; la pazzariella e geniale Lady, oh Lady Spagna, con la sua dance music, nata quasi per le megadiscoteche della bassa e finita, invece, a primeggiare nelle classifiche di mezzo mondo. Tutti lì, fra Reggio, Modena e Bologna: i Nomadi, l’Equipe 84, Francesco Guccini, Lucio Dalla, Claudio Lolli, gli Skiantos, i Ladri di Biciclette (di Carpi), Ligabue (di Correggio)… Anime diverse di una terra, di un mito americano, ora inseguito, ora prepotentemente rifiutato, generazione dopo generazione: i simboli di un modo di guardare e, soprattutto, di sentire il mondo, la vita, con una particolare pensosità, riflessività, entusiasmo, forse anche struggimento. E su tutto, una concretezza, una carnalità non solo dei corpi, ma proprio delle campagne, degli alberi: la carne del cielo, la carne del fiume.”

Mi scuserete per la citazione un po’ lunga, ma mi era doverosa e adesso non ho bisogno di dover inventare niente di meglio per parlare della via Emilia. Quelle parole bastano, anche se la terra descritta da Tondelli un po’ sarà cambiata. Oggi i paesini che galleggiano nel verde mare padano sono sempre meno abitati e le loro tradizioni, le loro feste estive, i loro santi laici e non, i loro bar legnosi, diventano delle vere e proprie resistenze socio-culturali. Paesi vecchi dei secoli che lasciano lentamente spazio al silenzio e alle cattedrali nel deserto, cioè industrie, e industrie su industrie: tessili, di pezzi e ricambi di automobili, marchingegni meccanici, bulloni, metallurgia, prodotti chimici, prodotti alimentari, via così. Come in quella bellissima copertina di Tabula Rasa Elettrificata dei CSI, anche se quella prateria disegnata dovrebbe essere la Mongolia. Ma fa niente.

handmade festival giuliana capobianco

L’Emilia è terra di musica, di festival preziosi e che chi abita da queste parti conosce bene, come Musica nelle Valli o Rottura del Silenzio. L’Handmade Festival, che da ormai più di dieci anni si tiene a Guastalla (comune in provincia di Reggio), è nel cuore di questa affascinante terra di resistenze culturali e narcolessia dell’immaginario. Il festival è nato dodici anni fa per idea di tre persone: Jonathan Clancy, Alessio Artoni e Danilo Incerti (ex Welcome Back Sailors) e conta un centinaio di volontari ogni anno.

Oggi come negli ultimi anni, il posto da raggiungere è sempre quello: non siamo proprio a Guastalla, ma leggermente a nord-est, sul fianco della frazione di Tagliata. Se ci spostassimo verso nord incontreremmo il Po.

handmade festival guastalla giuliana capobianco

Anche quest’anno, e forse più di quelli scorsi, gli organizzatori del Festival hanno voluto dare una sensazione di “tutto fatto a mano”, di un DIY ambientalista. Scordatevi centinaia e centinaia di bicchieroni di plastica destinati a riempire i cassonetti a fine serata: fin dal 2013, per cinque euro si può acquistare un bicchiere illustrato da artisti e grafici. Quel bicchiere vi rifornirà di birra e ovviamente acqua che, quest’anno, è stata distribuita gratuitamente da grosse cisterne. E poi, per rimanere sul green, per mangiare sono stati distribuiti piatti in ceramica e cellulosa. Piatti che sono serviti a dispensare carne che veniva cucinata in loco da una dozzina buona di lavoratori del catering dei dintorni. Chiacchierando con un paio di responsabili, affumicati dal tipico, forte, attraente odore di pancetta, coppa, salsiccia e via dicendo, scopriamo che chi si occupa di cucinare ha una lunga storia: il “gruppo Tagliata” nasce negli anni Sessanta come squadra di calcio, passa per piccole storie di organizzazione parrocchiale, per divenire una presenza stabile alle feste paesane dei dintorni. I trentenni che all’ultima edizione dell’Handmade dispensano piatti ricolmi di cibo locale sono gli stessi quindicenni che hanno cominciato nelle prime edizioni del festival.

handmade festival guastalla giuliana capobianco

Mentre gli Yonic South, una delle band più fighe degli ultimi tempi, produce il solito bordello che li contraddistingue e suonano la loro hit “Wild Cobs” (una canzone garage rock che si chiama “pannocchie selvagge” è perfetta per il posto) noi continuiamo a girovagare tra baracchine di dischi e abiti vintage.

Le atmosfere del festival stanno a metà tra una delle tante feste del tortellino o dello gnocco fritto, quindi una sagra estiva da una parte, e il puro festival musicale dall’altra. Circondati dalle balle di fieno, dai granai e dall’odore della campagna mi viene in mente un dialogo che avevo tenuto con un mio amico musicista il giorno prima: in Italia il country, come genere musicale, non ha mai attecchito e non funziona (cover band di papà e avvocati a parte). Che è vero, ma nei colori e nel pubblico, nelle atmosfere rilassate questo sembra proprio una di quelle feste che vedi in un film tipo Honeysuckle Rose (che in Italia era tradotto come Accordi sul palcoscenico). Cerco quindi Willie Nelson, ma vedo passare Giorgio Canali con addosso una maglietta con scritto “merda”.

sean nicholas savage handmade festival giuliana capobianco
Sean Nicholas Savage

L’Handmade puoi farlo trascorrere mentre sei seduto su di una delle numerose panchine in zona ristorazione, con vista Stage B (quello un po’ più piccolo), oppure, come hanno fatto i miei amici, buttati su una collinetta verde che fa da perimetro su di un lato del fest. In ogni caso, dimenticatevi la fatica, il sudore, il senso di morte e i costi da denuncia delle bevande. Questo è uno slow-festival.

Incrociamo World Brain, aka Lucas Ufo, artista francese che fa una musica super rilassata/rilassante, ispirata a tramonti estivi ad 8-bit, vapor ma con queste chitarre in stile Prince di fine anni Ottanta. Gli chiediamo una foto e gli dico che finirà su internet: “non vedo l’ora di dirlo a mia madre”.

world brain handmade festival giuliana capobianco
World Brain

Chiedo al nostro amico Dario, che con il suo Hangar Booking ha portato al festival Sean Nicholas Savage, World Brain appunto, Yonic South (a proposito, l’ho già detto che gli Yonic South sono DAVVERO FIGHI?) e Ginevra, di fare due chiacchiere con Jonathan Clancy, uno dei fondatori del festival. Clancy è una figura tra due mondi, perfettamente in linea con la parola chiave di oggi, “West emiliano”. Clancy è nato in Canada, ma da anni vive da queste parti ed è un pezzo di storia della musica underground: numerose le band che hanno visto la partecipazione della sua chitarra e voce, dagli His Clancyness agli A Classic Education, per arrivare alla fondazione e direzione della Maple Death Records.

“L'Handmade nasce fondamentalmente dall'idea di cercare di fare qualcosa di diverso. Quando è iniziato 12 anni fa cercavamo qualcosa di particolare, di rurale, sì, ma anche che si avvicinasse di più ai festival che frequentavamo all'estero. Ora le cose sono molte migliorate e ci sono festival in ambito anche rock e dintorni in Italia più grossi e con nomi maggiori. Noi siamo partiti però dall'idea che hai visto anche quest'anno al festival. 20/25 band, piccole o medio piccole che suonano al massimo 30 minuti su tre palchi che ruotano. Se vuoi non ti perdi niente. In più non volevamo sponsor, barriere o divisione anche tra il pubblico e gruppi”, ci racconta mentre si fa scattare una foto sotto un pantheon fatto di balle di fieno rotonde. “Le band mangiano in mezzo al pubblico e frequentano lo stesso bar, non ci sono enormi backstage divisi. Questo è lo spirito del fest. È fatto principalmente da musicisti per cui ci sono tutte le cose importanti e abbiamo eliminato, penso, tutte le cose superflue.”

handmade festival giuliana capobianco
Jonathan Clancy

Le parole di Clancy non sono illusione. Handmade è relax, senza nessuna fretta hai la possibilità di godere di qualsiasi gruppo (se non c’è troppa fila tra una birra e l’altra).

Michele Tellarini, che è lo stage manager del Festival, mi racconta di come il DIY sia parte integrante dell’organizzazione dei concerti stessi. Michele collabora per la Maple Death e suona nei Qlowski, vive a Londra ma è sceso apposta per il festival. Indossa una camicia fighissima sullo stile di quelle che si vedevano in Seinfield e la sua edizione preferita dell’Handmade è quella in cui parteciparono i DIIV.

ginevra handmade festival giuliana capobianco

“Cerchiamo di trattare tutte le band nello stesso modo. Certo, una band che ha dieci anni sulle spalle e cinque dischi probabilmente finirà ad essere un Headliner, ma vogliamo che tutti abbiano lo stesso minutaggio. Se la prima band suona per venti minuti deve farlo anche l’ultima. Questo vale per tutte le band, anche per quelle che vengono da fuori. D’altronde questo festival nasce con la filosofia DIY che avevano in mente in suoi fondatori, che più di dieci anni fa volevano fare qualcosa per i loro amici. Persone che abitavano da queste parti e l’idea di suonare all’interno di luoghi come granai o magazzini inutilizzati diventava una possibilità anche economicamente parlando perfetta.”

Stiamo parlando nel backstage, una piccola area verde con sedie e tavoli di plastica bianchi. Mentre parliamo Michele si deve interrompere per fare il suo lavoro (gestire il palco principale), Federico Fiumani ci passa di fianco pronto a salire con i suoi Diaframma. “C’è un palco organizzato da Tizio [Bob Corn], il fondatore di Musica Nelle Valli, e le band che ci suonano vengono selezionate da lui. È una collaborazione che si è rafforzata dopo il terremoto dell’Emilia con la volontà di supportare la ricostruzione”. Bob Corn, mi ha confermato anche Clancy, è la figura (diciamo anche un po’ mitica) che ha spostato tanti ragazzi dalla città verso la campagna, a far scoprire la bassa organizzando e suonando live negli ultimi vent’anni. Sul palco di Musica nelle Valli quest’anno hanno suonato vari gruppi interessanti, e se dovessi citarne alcuni farei due nomi da segnarvi: Tacobellas, duo di ragazze forgiate nella bassa, e i cupi e romantici Espada.

black lips handmade festival giuliana capobianco
Indovina qual è l'autore e quali sono i Black Lips

Salutiamo Michele, i Diaframma hanno attaccato con “L’Odore delle Rose” e coincidenza vuole che arrivino i Black Lips, nella loro terribile bellezza punk, conciati come degli eredi della band di Captain Beefheart. Confesso a Giuliana, la fotografa che mi accompagna, di essere eccitato dalla loro presenza e le chiedo di farmi una foto con la band: passiamo una mezz’ora stratosferica a parlare con Jared Swilley (bassista e seconda voce), della sua passione per le droghe e di come si è ritrovato senza un dente e col naso storto (adora fare a botte). Jared ci racconta della sua adolescenza in Georgia, del coming out del padre come omosessuale avvenuto quando lui era già adulto, dei suoi viaggi e di eroi americani come Hank Williams e Walt Whitman (“The dumbest guys in America are the coolest”). I Black Lips sono veri e propri eroi del rock (o del punk, o dell’outlaw country, vedete voi); della band iniziale, il nucleo di ragazzi garage e bad trippari che ha iniziato a fare casino intorno al 1999, sono rimasti solo in due: Jared e Cole Alexander (chitarra e voce). Ma sono ancora forti e lo dimostrano mezz’ora dopo sul palco, scatenando balli e pogo: suonano sgraziati e un po’ fuori tempo, sbronzi, ma fanno il giro e diventano perfetti. Jared si spacca anche il dito ma riesce a finire il concerto. Sono l’essenza del divertimento, una delle forme più pure del rock and roll che ci sono in giro.

handmade festival giuliana capobianco

Dopo una bella sudata causata dai Black Lips, buona parte del pubblico torna a svaccarsi sulla collinetta che sale al fianco del dancefloor. Dopo la sfuriata americana le atmosfere tornano a farsi rilassate, accompagnate dal set dreampop e oscuro dei Drab Majesty che si piglia tutti i nostalgici delle atmosfere anni Ottanta.

Il festival sta giungendo al suo termine ma noi ce ne andiamo poco prima della sua fine: la domenica sta morendo e incombe il lunedì mattina, abbiamo tutta la strada del ritorno da fare prima di riprenderci Bologna. Superiamo di nuovo la bassa, che al buio pare un oceano nero in religioso silenzio. Al buio, certo, se non fosse per la luce isolata di qualche insegna di fabbrica o le illuminazioni del giardino di un vecchio casolare. Tagliamo in due frazioni separate dalla strada e che dormono profondamente. Anche quest’anno l’Handmade è andato alla grande, e sembra diventare sempre più famoso a ogni anno che passa, attirando sempre più famiglie, locali e appassionati di musica. E se l’anno prossimo volete andare in Texas ma vi mancano i soldi del viaggio in aereo o avete paura delle armi e dei cowboy non ci sono problemi: segnatevi questo nome e aspettate il prossimo giugno.

Le foto sono di Giuliana Capobianco, seguila su Instagram. Anche Diego è su Instagram. Anche Noisey.

A cosa serve ‘Gelida Estate’ di Gué Pequeno?

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Ogni volta che esce un nuovo lavoro di o con Gué Pequeno succedono due cose. I numeri parlano da soli, ma ci sono sempre quelli che dicono che è il suo disco peggiore. Ogni volta. Bé, da qualche tempo ho capito che il problema è che tendiamo ad accorgerci soltanto qualche tempo dopo che in realtà lui stava già qualche giro avanti.

È una costante che parte sin da quello che è il più storico fra i lavori in cui è presente—Mi Fist, da cui l’ormai mitologica frase "Non siete più quelli di Mi Fist”, diventata anche quasi-titolo del loro ultimo lavoro in studio. Più passava il tempo e più i Club Dogo venivano accusati di essere commerciali, venduti, quando in realtà in molti casi stavano semplicemente anticipando tendenze che sarebbero state capite anche dalle nostre parti soltanto qualche tempo dopo. Ne parlavo recentemente con Don Joe, durante la nostra intervista, a proposito di “Spacco Tutto”.

Lo stesso discorso si applica anche a un pezzo del primo solista di Gué: "Il ragazzo d’oro". Nella pagina dedicata su Genius a quel brano è riportata una dichiarazione tratta da un’intervista rilasciata all'epoca:

"Il pezzo, secondo me, è davvero molto avanti, talmente tanto che verrà capito tra mesi o forse anni: un po’ come è successo per 'Spacco tutto', che all’epoca della sua uscita secondo alcuni non doveva neanche essere considerato un brano hip-hop. Abbiamo voluto usare un beat che richiamasse il trend americano del momento, per fare una specie di omaggio ai veri cultori e per fare capire che anche noi lo siamo. In aggiunta a questo, abbiamo scelto uno stile che avevamo già utilizzato nel mixtape: niente congiuntivi e soprattutto niente metafore, uso direttamente la parola piuttosto che giri di parole. Credo che quella traccia potrebbe diventare un nuovo standard”.

Parole che lette otto anni dopo, se si ha un minimo di familiarità con quello che è successo negli ultimi anni in Italia, suonano estremamente profetiche.

Album dopo album, gli ascoltatori di rap sono sempre stati pronti a indignarsi per le nuove svolte del Guercio, salvo poi rimpiangerle pochi anni dopo. È successo con Bravo Ragazzo, meno legato all’old school del primo album, ma che poi ha generato alcuni dei classici assoluti della sua carriera: "Business", "Rose Nere", la titletrack. Vero era un album scuro e negativo, ma anche pieno di alcune delle cose più tamarre fatte fino a quel momento da Gué (“Squalo”, “Bosseggiando", “Nouveau Riche", “Pappone") e passato il solito scandalo è diventato più o meno unanimemente riconosciuto come il capolavoro della sua discografia.

gue pequeno gelida estate
L'artwork di Gelida Estate di Gué Pequeno, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Gelida Estate, l’EP di cui dobbiamo parlare oggi, me lo ricorda. Ha quello stesso sentore di presa a male e di lato oscuro mixato alla tamarraggine e a produzioni potentissime. “Montenapo” è uno dei pezzi più contemporanei che abbia sentito nel rap italiano del 2019 (oltre a dimostrare per la milionesima volta un flow come pochi), e “Bamba” è chiaramente una hit estiva del rap italiano—peraltro farei notare a quelli che amano gridare al commerciale che la scelta di farne una su quell’argomento non è esattamente in linea con i gusti dei media mainstream del nostro paese, come ha dimostrato anche Lele Blade. “President Rolly" al momento è la mia preferita, trovo che abbia un andamento irresistibile. "Niente Photo" è uno statement, è un’ossessione in cui si mischiano orgoglio per il passato, critica sociale ("Il problema è che 'sta gente è vuota / Sì, però, posta, parla, sì, però vota". Ad ogni modo, ossessione è una parola adatta a inquadrare questo EP.

In molti, forse visto il periodo, o distratti da “Bamba", ne stanno parlando come di un lavoro fatto per monetizzare sull’estate, ma non so come si faccia a non sentire che è uno dei lavori più scuri e presi male del Guercio, che si mette a nudo come ha fatto poche volte. Ci sono riferimenti più o meno dichiarati al passato ("Ero nei Club Dogo e avevo un solo rolly”), e c’è un pezzo come “Maledetto”.

Riferimenti alla malattia del padre di Gué, morto nel 2017, compaiono in alcuni suoi vecchi pezzi: “Sono in sbattimento / mio padre ha un intervento", in “Squalo”; “Chi ho di più caro ha rifatto i controlli e la metastasi è sempre presente”, in “Vero”. Ma in seguito, nonostante nel frattempo siano usciti due album, il lutto non era mai stato nominato. Ne avevamo parlato con lui durante l’intervista fatta per Gentleman: "In questo disco avendo avuto anche dei momenti difficili nella mia vita personale sono anche andato in studio per sfogarmi, spesso in stati un po' confusi, diciamo, ed è così che sono venuti fuori alcuni dei pezzi più forti del disco”. La musica insomma come uno sfogo, una distrazione.

Questa volta Gué ha affrontato l’argomento di petto, nella prima barra di un pezzo amarissimo: "Quando mio padre se ne è andato, ho sofferto". Un pezzo che sta all’interno di un disco in cui non si fa che parlare delle proprie difficoltà e del proprio lato oscuro, alternandolo a un'autocelebrazione ossessiva che sembra quasi un tentativo di superare le proprie debolezze: ripetersi di essere forti per provare a diventarlo davvero. Oltre alle produzioni da spaccarti l’impianto, è questa sensibilità nascosta sotto strati di spacconaggine, abbinata a capacità di scrittura e di tecnica sempre al top del rap game, a fare di questo EP nient’altro che l’ennesima dimostrazione dello status di un rapper più unico che raro nel panorama italiano. Alla faccia del progettino estivo.

Federico è su Instagram.

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La crociera di Salmo è stata una specie di miracolo

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Porto di Olbia. Son qui nel backstage, Salmo tra un po’ scende da questo balcone blu e suona sul palco più grosso della crociera (la sua, anzi diciamo sua e di Red Bull Open Sea Republic). Oltre Salmo qui, che chiacchierano, ci sono una ventina di persone: Massimo Pericolo, Nitro, Ketama126 e altri col pass “Musician”, ma pure produttori come MACE, Slait, Frenetik&Orang3, e noi giornalisti. Per un po’, per gli occhi miei che poi di questo evento dovrò scriverne, non succede niente di eclatante: solo che si chiacchiera, a gruppetti. Poi, a un certo punto, una scena che merita. Arriva un gruppetto di ragazze, tutte di quel tipo magra+bella+capelli lunghi, tutte maglietta bianca di un locale qui della Costa Smeralda e perizoma. Però ricevono quasi zero attenzioni.

Un tempo, in questo ambiente fatto di gente tatuata in faccia, adolescenze in periferia e passaggi da polo rubate a polo in edizioni limitate, di fianco a quei culi avrebbero sventolato mazzetti di banconote. Nel caso di videoclip o simili non sarebbero mancate pacche, pose da hey, I’m the hustler e così via. Ora nulla, zero. Potrei avvicinarmi per chiedere se ci sia o meno una collaborazione col locale, trovare una scusa per capire perché le ragazze (c’è pure un ragazzo con loro, uno solo, stessa t-shirt bianca) sono qui in questa specie di privé, ma è molto meglio stare a vedere le reazioni, gli sguardi e gli eventuali approcci. Niente: la mano più vicina a quella natiche è a tre metri di distanza, è disinteressata, e tiene un drink. Ma anche gli occhi: non sono riuscito a beccare uno sguardo di un rapper, di uno solo, che potesse anche lontanamente essere indirizzato verso quei culi. Le ragazze poi, dieci minuti, vanno via.

Mi si avvicina una collega, sempre giornalista, un paio di anni in più di me, e mi fa notare che per essere un privé pieno di rapper non c’è chissà quale bordello, nessun comportamento esagerato, nessuna cosa sopra le righe.

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Franco126, Gemitaiz
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Salmo

Spiegazione: innanzitutto di questi tempi nessun personaggio famoso, e quindi nemmeno un rapper, vuole passare per “porco”. Sarà anche il #metoo, sicuro, ma soprattutto è il femminismo che finalmente si è fatto pop, ha influenzato direttamente e indirettamente enormi fette della nostra vita quotidiana, soprattutto nel mondo dello spettacolo. Basta farci caso: le tipe, nei video del nuovo rap e della trap, non ci sono più. E nei rari casi in cui ci sono hanno ruoli meno passivi e oggettificanti di un tempo. Non sono scelte opportuniste, non è che produttori e rapper stanno pianificando testi e video per essere apprezzati da noi giornalisti o dal pubblico femminista; semmai è che c’è molta voglia di dire la verità: le tipe le vorresti, ma quasi sempre non ce le hai. C’è un verso di Pericolo che rende l’idea: “Voglio tutte quelle cose che Gesù non vuole / Soldi e troie, ma per ora solo paranoie”.

Le ballerine che twerkano hanno sempre meno a che fare con l’immaginario del rap. Lo ammette Nitro quando in un suo pezzo canta che sarebbe vergine se non facesse rap, ma è evidente per chiunque: in questo mondo della musica le cose vanno a imbuto, ce la fa solo uno tra i mille e quello che ce la fa se lo ricorda bene, che all’inizio non hai niente, né soldi né tipe. Poi, se il mercato e le cose ti dicono bene, allora si passa dal niente al “Scelgo una tipa, nessuna dice di no / Me la portano in camera con una vodka”. Ma sempre con la consapevolezza che nessuna dice no solo perché, per qualche motivo, le cose sono andate per il verso giusto con la musica.

Massimo Pericolo e i nuovi rapper, tutti arrabbiati, che urlano come urla Speranza, possono sembrare gente che dice cose sgradevoli: ma trasmettono sentimenti che sono comuni, sinceri. I rapper come ambasciatori dei sentimenti degli incel? Forse un filo sì, anche se può sembrare assurdo, perché è gente intelligente (chi se li immagina come dei tossici sbaglia tutto) che subisce le turbolenze emotive del proprio mondo e in fondo sa che la follia di un mercato da tutto-o-niente fa male, crea disagio. Si passa da fumare “canne a sgamo dietro al reparto” agli "sbatti da ricco tipo / Devo lavare jeans griffato / Al contrario la maglia Armani a mano”.

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Frenetik&Orang3, Victor Kwality
speranza live salmo crociera
Speranza

C’è un pezzo di Salmo e Fibra, (l’hanno ballato e cantato tutti qui sul ponte della nave) che a un certo punto fa: "Più soldi fai più ci sono drammi", e sicuramente è vero. Dalla provincia povera e disagiata puoi pure scappare, ma poi dell’ansia e delle paranoie non te ne liberi mai nemmeno se fai il cash. Perché è così che funziona un mercato schizofrenico come questo: ad ascese e discese velocissime e impossibili da sostenere, se non con l’aiuto di alcol, droga o tranquillanti. E tu, rapper, questo disagio non lo sfoghi più verso l’esterno, ostentando soldi e ballerine, ma lo interiorizzi, lo sfoghi su te stesso con beveroni alla codeina e testi intimisti. Se la trap diventa emotrap c’è un motivo.

Un tempo, magari, nell’hip hop il musicista di successo portava avanti lo storytelling dell’uscita dal ghetto: "Prima andava male perché ero povero, ora sono ricco e tra droga e tipe faccio la bella vita”. Ora i rapper sono più intelligenti e più sinceri, i soldi magari li ostentano ancora, ma molto meno, e anziché fare finta che sia tutto risolto dicono la verità, scrivono canzoni introspettive e piene di ansie (quelle di Massimo Pericolo, ma anche di Ketama) o persino canzoni d’amore ("Il cielo nella stanza" di Salmo).

*Ah, a proposito di Ketama, quando dice “se muore un tossico a nessuno frega un cazzo, a meno che quel tossico non sia tuo padre o il tuo ragazzo”, non è solo che dice la verità, ma dice la verità degli ultimi di cui non si occupa nessuno: di tossici e di cosa subiscono i carcerati non se ne occupa la sinistra, anche se dovrebbe occuparsi degli ultimi, e nemmeno il femminismo, perché alla fine tossici e carcerati son tutti maschi.

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Nic Sarno, Crookers, Massimo Pericolo
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Ketama126, Massimo Pericolo, Crookers

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Le grandi navi, ed è una regola che vale sempre, son posti strani, con un mood tutto loro. Sono labirintiche, con l’odore di salsedine sul metallo fuori e quello di disinfettante sulle poltroncine dei ponti e delle cabine dentro. Farci un evento, un festival di due giorni, non è una cosa facile: devi cambiare il sapore di traghetto con quello di festone, devi mettere in sicurezza una decina di concerti, far suonare Franco126 senza transenne in uno di quei teatri rosso scuro e in penombra dove di solito hai l’animazione per gli anziani, devi montare un palco (un palco vero) davanti alla piscina sul ponte principale facendo in modo che al posto del pogo ci sia gente che si tuffa, ma con qualcuno che vada e ripescarli se serve. Una festa del genere non credo l’abbia mai fatta qualcuno, sicuramente non in Italia, ed è andata bene. Mille ragazzi da mezza Italia, gente che ha preso aerei per andare a Genova a imbarcarsi, tutti a seguire un evento che, per la scena rap e trap italiana, può essere un po’ una svolta: perché la nave diventa una zona franca, durante la traversata non prende nemmeno il telefono. Non hai internet, solo Crookers che suona su uno dei ponti, e altri due concerti in contemporanea. Una cosa così non puoi farla in città, non con quei volumi, non per 48 ore di fila.

Io, che alla fine sono noioso e ormai c’ho trent’anni, a un certo punto me ne sono anche tornato in cabina a dormire, ma centinaia di ragazzini alternavano piscina, concerti, sigarette sul ponte affacciato sul mare e drink comprati col braccialetto apposta. Due giorni così sono quasi romantici, da sogno adolescenziale dove metti su una nave giovani, musicisti e te ne vai a largo dove non ci sono regole, polizia, orari e leggi da rispettare. Ma chi si immagina perdizione e degrado sbaglia completamente. Anzi, la cosa interessante è che per il clima che c’era, dovevi davvero essere Giovanardi per scandalizzarti e guardare la situazione col ditino alzato: erano tutti gentiluomini. Non una rissa, non una persona molesta (poi magari una, una sola, c’era pure chissà), ma io non ho visto altro che divertimento e rispetto per gli altri. Rispetto anche per chi aveva bevuto un drink in più, per chi aveva un aspetto più alternativo.

mace salmo
MACE e Salmo
salmo nitro slait crociera salmo
Dani Faiv, Nitro e Slait

Così: arrivi in una crociera piena di fan del rap, di musicisti e gente con capelli rosa, tatuaggi in faccia e capelli doppia-base da periferia, e ci trovi un ambiente inclusivo, sereno, vivibile. La cosa può sorprendere solo perché i giovani, in un paese di vecchi scorbutici e perbenisti, vengono ancora raccontati male, capiti male, visti male e interpretati anche peggio. È una verità banale, ma ogni tanto va ripetuta: le giacche e le cravatte non valgono più di una tuta Givova. Anzi forse, a doverci scommettere dei soldi, si trovano più violenze, più giochi di potere, più sessismo, più omofobia e soprusi nei posti con la gente vestita “per bene” che in un festival rap, il genere musicale giudicato “irrispettoso verso le donne”, “omofobo” e così via. Non sto facendo un discorso sul passato eh, anche oggi è così, siamo ancora circondati da pregiudizi ammuffiti: basta andare a vedere cosa si è detto sui giornali di Sfera Ebbasta. Orde di editoriali che sembravano scritti dalla moglie di Ned Flanders.

Quindi? Quindi speriamo che Salmo la crociera la rifaccia (lui dice di sì, una all’anno d’ora in poi) e speriamo che altre aziende come Red Bull lo aiutino a farlo, che non è scontato. Più soldi a questi ragazzi coi tatuaggi in faccia e gli occhiali da sole anche di notte, più navi in cui c’è musica fino alla sei del mattino, più porti che le ospitano (sempre meglio dell’idea “per bene” dei porti chiusi, del “buonsenso” da salvinisti, che è buono solo se la tua idea di mondo ideale è un eden leghista, proibizionista e noioso). Ma anche, oltre che più soldi, più possibilità di organizzare cose come questa, muovere persone, proporre un modello di vita inclusivo, in cui artisti e fan si incrociano nei corridoi senza muri, transenne o buttafuori. Perché i soldi non bastano, ci vuole influenza: Kendrick Lamar ha fatto bene alla politica americana perché ha portato istanze, una voce… ecco, speriamo che pure i rapper di casa nostra facciano lo stesso qui.

crociera salmo open sea republic
Il pubblico di Franco126
franco126 live crociera salmo
Franco126

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Oh, poi, ultima cosa che secondo me vale la pena dire. Il mondo del mercato è vario: ci sono mille modi in cui i soldi vanno da un posto all’altro in cambio di qualcosa. E se un rapper organizza una crociera fa incontrare due pezzi molto, ma molto diversi di mercato: 1) il music business che è dinamico, anche volubile, ma punta tutto su trend, soddisfazione e gusti dei consumatori e 2) il mercato del trasporto marittimo, che è un carrozzone farraginoso e mal organizzato, un oligopolio che, almeno in parte, funziona da stipendificio: zero efficienza. Questo incontro tra due mondi lontanissimi si vedeva, e a volte faceva anche ridere. Tipo nel ristorante della GNV, dove alcuni del personale ti trattavano come ti tratterebbero nel peggior ufficio pubblico di Catanzaro.

Non è una critica alla nave di Salmo—non puoi scegliere una compagnia navale efficiente in Italia, son tutte così—ma un complimento: ha portato una ventata d’aria fresca, ha fatto incontrare tipi umani che non si incrociano mai. E grazie a eventi del genere c’è speranza anche per questi mercati chiusi e autoriferiti, come essere invasi da rapper, fan e giovani. Insomma, magari fosse che il mercato (1) si mangi, annienti, colonizzi il (2).

salmo crociera live open sea republic
Salmo
salmo crociera open sea republic live
Salmo

Salmo, parlando con noi giornalisti, diceva che oggi, nel suo mondo (cioè nel mercato musicale), non ci son soldi e per farcela devi essere il manager di te stesso, devi essere esperto di tutto, di palchi, di strumenti, di videoclip… non solo ha ragione a dirlo in modo che si sappia, che per stare a galla in un mercato difficile tocca spaccarsi il cervello imparando cose diversissime. Ma si può anche dire che questo è un concetto che lui dimostra continuamente, visto che—per esempio—riesce a stare dentro il mondo della trap continuando a fare concerti con gli strumenti, ed è l’unico rapper italiano ad aver tirato su un brand come Doomsday Society, che ormai è una realtà seria tanto quanto le case di moda che sponsorizzano gli altri rapper, con la differenza che non è un brand che veste Salmo, ma il brand di Salmo (e dei suoi colleghi, giovani talenti che hanno fatto la gavetta nell'underground come lui).

Insomma, ce ne fossero di pezzi di scena di questo tipo che arrivano a essere così influenti da fare eventi così grossi e importanti. Fa bene perché, lo dico di nuovo, questo qui è un mercato di bravi, di talentuosi e di gente che si ammazza a imparare cose si impone sul mercato opposto, poco competitivo, fatto anche di gente che si impegna meno, che fa le cose peggio, proprio tipo quelli del ristorante della GNV, gente che magari così, piano piano, si apre un po’ a come va il mondo. E le cose vanno meglio.

Enrico è su Instagram.

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Lil Nas X è qualcosa di più di “Old Town Road” o no?

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La notizia che Lil Nas non aveva mai ascoltato Nevermind prima di usare una linea melodica dei Nirvana nel suo ultimo singolo "Panini" non è una sorpresa; Lil Nas X ha soltanto vent'anni, il che significa che ne aveva due quando caddero le Torri Gemelle, e che non ha ancora mai votato in un'elezione presidenziale. "Old Town Road" lo ha fatto diventare un fenomeno virale, ma i suoi prossimi passi saranno fondamentali per capire quanto lontano lo porterà una sola hit. Con il suo EP di debutto 7, Nas, come tante persone della sua età, dimostra di star ancora cercando di capire chi è—ma la differenza è che ha puntati addosso gli occhi di tutto il mondo.

7 assomiglia molto ai vent'anni; si posiziona goffamente a metà tra adolescenza ed età adulta, autorizzato a votare ma non a bere, a entrare nell'esercito ma non a noleggiare una macchina senza un premio assicurativo assurdo. Le otto tracce dell'EP (anche se è intitolato 7) sperimentano con i generi in modo da assecondare la curva d'attenzione da 8 secondi della Generazione Z. La più lunga, "F9mily (You & Me)", non arriva nemmeno ai tre minuti. Per Lil Nas, ex produttore di meme, è un piano ben preciso. "Io che faccio 'Panini' breve per far salire le riproduzioni", ha twittato poco dopo aver pubblicato la canzone (che dura 1:55). Per quanto in molti considererebbero il suo EP un seguito fallito di "Old Town Road", Lil Nas X ha dimostrato di sapere che cosa serve per sopravvivere nell'era dello streaming.

L'EP deluderà subito chi sperava in un progetto pieno di riferimenti western. C'è soltanto una canzone ("Rodeo") che segue la strada country rap resuscitata da Lil Nas. Il pezzo, prodotto da DayTrip, contiene il featuring della sua grande supporter Cardi B e li vede affrontare il tema di un amore che non vogliono perdere. "Old Town Road" (Billy Ray Cyrus version), che apre il disco, e "Old Town Road" (original version), che lo chiude, occupano decisamente troppo spazio nei 18 minuti totali di durata. Ma Lil Nas X sa che cosa il pubblico si aspetta da lui.

Come ha raccontato a Teen Vogue la scorsa primavera, c'è una differenza tra le persone a cui è piaciuta "Old Town Road" e la sua fanbase, e quella differenza è importante. "Il fatto che ti piaccia una canzone di un artista non ti rende un fan", ha detto. "Sei un fan della canzone. Quindi non perdo alcun fan se le mie nuove uscite non piacciono, perché essere fan della canzone non comporta essere fan miei". Quando gli è stato chiesto che cosa ci si sarebbe dovuti aspettare da lui dopo "Old Town Road", la sua risposta è stata semplice: "Niente è impossibile [...] La cosa più importante di questo album è che ho davvero qualcosa di cui parlare, o almeno ora sono in grado di parlarne in musica".

In 7, il rapper gioca con i generi in cui si è imbattuto essendo cresciuto nell'era dello streaming. "Quando ho cominciato, tipo a meno di 10 anni, era più o meno solo hip-hop perché era l'unica cosa fica da ascoltare", ha detto a Zane Lowe su Beats1. "Ma poi, arrivato alle medie, primi anni di superiori, tipo, ci sono rimasto proprio sotto con internet. Quindi ascolto tutto quello che trovo..." Nonostante 7 sia classificato sotto "alternative" sui servizi di streaming, non rientra in una categoria esatta. Con "C7osure (You Like)" Lil Nas X mette insieme una jazz fusion polverosa e un funk alla Internet, raccontando una relazione da cui sta cercando di uscire. "Non si può più recitare, le previsioni dicono che dovrei solo lasciarmi crescere / Basta luce rossa per me, baby, solo verde, devo andare", canta. È difficile classificare Lil Nas X come cantante o come rapper da quello che sappiamo di lui ad oggi, ma in questa canzone corre un rischio. A un certo punto, sforza la sua voce in un sorprendente falsetto: "Lo so, lo so, lo so che non sembra il momento / Ma quando ci ripenserò, capirò che è giusto così". È una canzone che sprizza disagio, quello delle lezioni dolorose ma necessarie che ti dà la vita quando stai crescendo: a volte l'unico modo per mettere un punto fermo alle cose è alzare i tacchi.

Si può dire senza troppa paura di smentite che "Old Town Road" abbia accelerato l'uscita di 7, ma sarebbe sbagliato pensare che l'EP sia la rappresentazione della carriera che il rapper di Atlanta ha davanti a sé. Lil Nas ha firmato per Columbia Records soltanto poche settimane prima che Billboard rimuovesse la canzone dalla classifica Hot Country Songs, e ha iniziato ad aggiornare i fan sui lavori del suo album un mese dopo. Il sorprendente successo di "Old Town Road" è tale da concederci di paragonare la sua ascesa a quella di Cardi B dopo "Bodak Yellow". Ma la rapper del Bronx aveva già una fanbase in crescita, la partecipazione a un reality e due mixtape su cui contare prima che "Bodak" arrivasse in cima alla Hot 100 di Billboard. 7 è un buon passo introduttivo per Lil Nas X, che sei mesi fa faceva una vita completamente diversa. "Old Town Road" gli ha dato lo spazio per iniziare a capire chi vorrà essere in futuro.

Kristin Corry è su Twitter.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE US.

È successo un casino con Home Festival a Venezia

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Alla vista della line up completa di Home Festival, annunciata alcuni mesi fa, un sacco di gente deve aver pensato di stare sognando. Come per tutti i sogni, è arrivato il risveglio brutale con la comunicazione di ieri sera dell'annullamento delle esibizioni di alcuni headliner "a causa della mancata installazione di un palco per questioni di sicurezza". A due settimane dall'inizio del festival.

Tra gli headliner saltati, c'è poco da girarci attorno, ci sono quelli che avevano probabilmente venduto più biglietti: Aphex Twin, Pusha-T, Jon Hopkins. Il festival, scusandosi, ha attivato una mail e un telefono per le informazioni, che, a leggere i commenti, sono stati tempestati di richieste di rimborso, sulle quali Home sta nicchiando.

A quanto pare, secondo le politiche di servizi come Ticketmaster e soprattutto secondo il sito di Home Festival, le modifiche della lineup del festival non sarebbero "modifiche sostanziali" dell'evento e quindi non darebbero diritto a un rimborso, ma gli utenti sono incazzati neri. Nei commenti al post su Facebook si trova di tutto: dalla persona straniera disperata perché aveva già prenotato biglietto aereo e hotel soltanto per vedere Aphex Twin, a chi minaccia la class action rivolgendosi ad Altroconsumo. C'è anche chi fa notare che Pusha-T aveva annunciato un concerto per la stessa data a New York già il 31 maggio, il che dimostra che la decisione di annullare la data veneziana non è arrivata proprio all'ultimo momento.

A uno dei commenti, l'organizzazione del festival ha anche avuto la forse non troppo saggia pensata di rispondere così: "Non possiamo nasconderci di fronte a ciò che sta accadendo. Capiamo e condividiamo il tuo sconforto. Dopo di che, come si può notare, gran parte della line-up rimane integra, come la cornice del festival. Stiamo comunque cercando di venire incontro ovviamente a tutti. Ti invitiamo a scriverci per mail o a chiamarci per avere maggiori chiarimenti". Naturalmente dire che "gran parte della line up rimane integra" quando migliaia di persone che avevano speso un sacco di soldi per vedere Jon Hopkins o Pusha-T ora si ritrovano Gazzelle come headliner equivale a gettare benzina sul fuoco.

In un articolo tanto severo quanto giusto su Soundwall, Damir Ivic ha scritto: "È lecito [...] essere molto, molto scettici verso questa 'mancata installazione di un palco per motivi sicurezza'; francamente, la gente che nel dopo Corinaldo tira fuori le 'questioni di sicurezza' per nascondere problematiche che esulano da questo contesto specifico e sono invece anche e soprattutto di sostenibilità finanziaria, sono o sciacalli o gente che non è capace di prendersi davvero le proprie responsabilità".

A fronte delle grandi quantità di richieste, e visto anche che il festival è sostenuto da una serie di importanti sponsor che di sicuro non vorranno fare figuracce davanti a tutta Europa (tra i vari commentatori c'è già chi traccia paragoni con il leggendario festival-disastro di Fyre), c'è da aspettarsi degli sviluppi su questa storia, che si tratti di una campagna di rimborsi o addirittura di un annullamento del festival. E poi ci sarà da capire che cosa è successo davvero. Noi terremo le antenne alzate e vi faremo sapere.

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Lil Nas X ha fatto coming out

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Sarà un mese e mezzo che parlo in giro di Lil Nas X e di "Old Town Road", ma chi non è pienamente nelle cose della musica mi guarda un po' perplesso quando faccio il suo nome. Poi dico "Massì che la sai", comincio a cantare degli horses che ho in the back e il viso che ho di fronte si distende in un sorriso.

La storia di "Old Town Road" è bellissima: tizio sconosciuto compra un beat a 30 dollari, ci fa un pezzo tutto western, inizia a esplodere come un meme, dopo varie vicissitudini (che comprendono una polemica su cosa sia il country e un remix con il papà di Miley Cyrus) diventa un disco di diamante. È al primo posto negli Stati Uniti da ormai chissà quanto ed è rimasta lì sconfiggendo nuovi singoli di gente tipo Taylor Swift, Drake, Ed Sheeran e Justin Bieber. Tutto bellissimo.

E niente, ieri era l’ultimo giorno del pride month e Lil Nas X ha fatto coming out. Lo ha fatto in un tweet:

“Alcuni di voi lo sanno già, ad altri non frega niente, altri ancora non vorranno avere a che fare con me, ma prima che questo mese finisca voglio che tutti ascoltiate attettamente c7osure”, cioè il brano di chiusura del suo progetto d’esordio 7. Il testo del pezzo dice: “Devo essere sincero, voglio e ho bisogno di lasciarmi andare, usare il mio tempo per essere libero”. E ancora, “Non farò più finta, le previsioni dicono che dovrei proprio lasciarmi crescere / Basta luci rosse su di me baby, saranno solo verdi, devo partire / Mettere il mio passato in valigia e abbandonarmi al futuro / È così, non posso pentirmi di non averlo fatto quando sarò vecchio.” Non proprio parole esplicite, ma che possono sicuramente essere lette sotto una luce diversa dopo le parole di Lil Nas.

Infine, il rapper ha postato un dettaglio della copertina di 7 scrivendo “pensavo fosse ovvio”: zoomando, uno dei grattacieli sullo sfondo è color arcobaleno.

Detto questo: è stato un bel Pride month, bravi tutti, bravo Lil Nas. Vai a insegnare al mondo come si tengono gli horses in the back.

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Guarda questo ragazzino che sale sul palco a Glastonbury e spacca tutto

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Quando è uscito Psychodrama di Dave alcuni mesi fa avevamo detto che si trattava di un disco della stessa stoffa di Good Kid M.A.A.D. City e di Flower Boy, un album che proiettava il rap inglese verso una nuova età dell’oro, dopo la generazione dei mostri sacri Skepta e Stormzy. In Italia non se ne sono accorti in tanti, ma nel Regno Unito è arrivato in cima alle classifiche e questo ventenne da Londra Sud è riuscito a parlare in maniera intelligente di razzismo, periferie e identità alle masse. E infatti lo scorso weekend Dave è salito sul palco di Glastonbury, uno dei festival più grandi del mondo, davanti a un mare di persone prese benissimo.

Quando è arrivato il momento della hit “Thiago Silva”, incisa insieme a un altro fuoriclasse di nome AJ Tracey, Dave ha avuto un’idea che sarebbe potuta andare malissimo: far salire una persona del pubblico sul palco a cantare con lui. Alex è un ragazzino, a occhio avrà sì e no 18 anni, stava sulle spalle di un amico con addosso proprio la maglietta del calciatore del PSG, sbracciandosi e dicendo “scegli me!”, e così si è ritrovato con il microfono in mano. All’inizio Dave sembrava preoccupato che l’emozione prendesse il sopravvento, lo ha abbracciato e gli ha detto “se hai problemi guardami, io sono qui”; ma quando la base è partita, Alex si è lanciato nel pezzo come un fiume in piena, sputando le rime come se fossero le sue. Il video di questa storia, caricato su Twitter da BBC Radio 1Xtra, è bellissimo, e ti farà tornare l’amore per la musica anche se ti sei svegliato con in testa la rana pazza.

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Ma quindi che cacchio è successo a Taylor Swift?​

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Ieri improvvisamente internet è tornato a sibilare come un cesto di vipere il nome di Taylor Ssswift, la popstar che sono anni che divide il pubblico tra chi la trova una vittima e chi una carnefice. La storia di questi giorni è piuttosto complicata, e c'entra quel brutto affare del music business che signora mia non mi faccia parlare è pieno di vampiri.

Tutto è iniziato con un post su Tumblr scritto da Taylor in persona. La sintesi è scritta sopra uno screenshot dall'Instagram di Justin Bieber, un post (con didascalia "Taylor Swift what up") in cui compaiono Bieber, Kanye e il loro manager Scooter Braun. Quest'ultimo è cerchiato di rosso e indicato con una freccia: "Questo è Scooter Braun", dice la scritta all'altro estremo della freccia. "Qui mi sta bullizzando su internet mentre mi trovavo nel mio punto più basso. Tra poco sarà il proprietario di tutta la musica che ho mai prodotto".

Per capire quello che è successo bisogna tornare a quando Taylor aveva 15 anni e si trovava all'inizio della sua carriera. A quel punto, prima di pubblicare il suo primo album, firmò un contratto con la Big Machine Records di Scott Borchetta che lasciava alla casa discografica la proprietà dei master. Il contratto è rimasto in vigore fino all'ultimo album Reputation, in seguito al quale la cantante ha lasciato Big Machine e ha firmato per Universal Music Group, che le ha garantito la proprietà dei suoi master.

Se il paragrafo precedente non è chiaro, forse vi può essere utile capire meglio il significato di alcune parole chiave: il master è la registrazione originale di una canzone o di un album. La copia zero, insomma, da cui derivano tutte le altre. La differenza fondamentale è quella con la composizione, la musica in sé, che di solito resta sempre di proprietà dell'artista. A quel punto, quindi, se si vuole pubblicare la ristampa di un album, o acquistare la licenza di un brano da usare in un film o in una pubblicità, servirà la firma del proprietario della musica (l'artista) e dei master (nel caso di Swift, Big Machine). È la classica situazione per cui tutto va bene finché le cose vanno bene, ma metti caso che le cose non vanno bene?

Prima che Taylor Swift lasciasse Big Machine nel 2018, alla richiesta dell'artista di ottenere la proprietà dei propri master, Borchetta le ha offerto di recuperarla "un album alla volta, uno per ogni nuovo album che avrei consegnato alla label", scrive Swift su Tumblr. "Me ne sono andata perché sapevo che, se avessi firmato il contratto, Scott avrebbe venduto l'etichetta, vendendo così anche me e il mio futuro". E infatti Scott l'etichetta l'ha venduta. Per la precisione, l'ha venduta a una holding gigantesca di nome Ithaca, di proprietà di Scooter Braun, quel tizio della foto, che Taylor accusa di "bullismo manipolatorio" e di aver tentato di distruggere la sua carriera.

Scooter Braun è appunto il manager di Kanye West e Justin Bieber, con i quali Taylor ha una leggendaria faida in corso ormai da un decennio, tra vari colpi di scena: Kanye che la prende in giro nel suo singolo "Famous", Taylor che si indigna, Kim Kardashian che diffonde la registrazione di una telefonata in cui Taylor dice di approvare il verso su di lei ("I made that bitch famous"), Taylor che accusa Kim di diffamazione, il video di "Famous" che la rappresenta nuda (e che Taylor, nella sua lettera aperta di ieri, chiama senza mezzi termini "revenge porn").

Ora, tutta questa storia è drammatica. Taylor Swift ha firmato un contratto a 15 anni, sotto quel contratto ha inciso tutta la musica della sua scintillante carriera, e oggi vede i diritti di tutte quelle registrazioni venduti a un tizio che lei odia. E l'ha saputo dai giornali. Come ha scritto nella sua lettera aperta: "È la cosa peggiore che potesse capitarmi". Riguardo al suo ex-discografico Scott Borchetta, ha questo da dire: "Nemmeno nei miei incubi peggiori avrei immaginato che il compratore sarebbe stato Scooter. Ogni volta che Scott Borchetta ha sentito le parole ‘Scooter Braun’ dalla mia bocca, stavo piangendo o trattenendo le lacrime".

Borchetta ha risposto con una smentita categorica: in una lettera aperta pubblicata sul sito di Big Machine intitolata "Allora, è il momento di dire la verità...", Borchetta ha pubblicato la proposta di contratto rifiutata da Swift (in cui non si parla del meccanismo "un album alla volta", ma più, per usare le sue parole, di "un nuovo tipo di accordo per il mondo dello streaming non necessariamente legato agli 'album' ma più a un periodo di tempo"), ha sostenuto di aver avvisato il padre di Taylor (azionista di Big Machine) in tempo per votare all'assemblea dei soci e diffuso anche il messaggio scritto da lui a lei per informarla in anticipo della vendita.

Nella lettera, inoltre, Borchetta si impegna per conto suo (che resta CEO della casa discografica nonostante la nuova proprietà) e per conto di Braun a rimanere degli "onesti custodi" delle sue opere. Il tono distaccato, professionale e quasi paternalistico della risposta di Borchetta puzza quasi di gaslighting, ovvero l'atteggiamento sessista tenuto da molti uomini in molte circostanze per cui le donne vengono messe in cattiva luce per il loro supposto comportamento "emotivo" e "irrazionale". È anche vero però che, se le cose da lui affermate dovessero essere confermate, il post su Tumblr di Taylor Swift sarebbe stato come minimo esagerato, o addirittura in malafede.

Anche Justin Bieber si è espresso sulla questione con un post su Instagram, che inizia chiedendo scusa alla cantante per le prese in giro del 2016, ma che conclude accusandola di star tentando di aizzare i propri fan contro Braun che "ti ha sempre guardato le spalle fin dai tempi in cui mi permettevi gentilmente di aprire i tuoi concerti". Secondo Justin, prima di lavare i panni sporchi in pubblico, Taylor avrebbe dovuto contattare lui e Scooter di persona, e avrebbe scoperto che "né Scooter né io abbiamo nulla di negativo da dire su di te, ti auguriamo davvero il meglio".

Resta il fatto che Taylor rimane proprietaria della musica che ha scritto, e per quanto riguarda le registrazioni, considerato che si parla di album capaci di incassi da far impallidire il PIL di una nazione, siamo sicuri che Ithaca, Big Machine, UMG e il team di Swift troveranno un accordo. Nel frattempo, grazie a questa storia, intravedo un luminoso spiraglio di marketing per il prossimo album di Taylor, Lover, in uscita il 23 agosto: sarà il primo vero album della nuova Taylor Swift! *emoji testa che esplode*

Giacomo è su Instagram.

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Laurie Anderson non è solo 'la moglie di Lou Reed'

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Per raccontare la carriera e l’importanza di Laurie Anderson non basterebbe un’enciclopedia. Spesso trattata dai media più mainstream in quanto moglie di Lou Reed che per la sua arte visionaria, Anderson è musicista, compositrice, sperimentatrice elettronica, regista, fotografa, poetessa, artista performativa, eclettica avanguardista e molto altro ancora.

Dagli albori nella New York degli anni 70 al capolavoro Big Science del 1982, dagli anni Novanta ai nostri giorni, Laurie ha sempre messo in discussione gli standard e le sicurezze del pensiero dominante per superarlo, per andare oltre qualsiasi cosa, presente compreso. Proprio per questo motivo penso sia opportuno lasciare il passato ai libri di storia (ovviamente da consultare, se non l'avete già fatto), per approcciarsi alla sua arte, e alla sua imminente performance in Italia, con uno sguardo il più contemporaneo possibile.

E le ho guardate galleggiare, là, nell’acqua scura e brillante, dissolvendosi. Tutte le cose che avevo conservato con cura per tutta la vita stavano diventando spazzatura, nulla più. E ho pensato ‘Che bellezza, che magia, e che catastrofe’.

Con questa frase si chiudeva Landfall, lavoro della Anderson in collaborazione con il Kronos Quartet uscito nel 2018 e ispirato dai gravi danni subiti a causa dell’uragano Sandy, abbattutosi sulla sua abitazione newyorchese nel 2012. È un’epigrafe tragica, certo, ma che al tempo stesso porta alla luce una sorta di fascinazione distorta per la caducità del presente e la nostra piccolezza di fronte all'inevitabile apocalisse, per una fine che sia il ribaltamento della clessidra, la metafora di un nuovo inizio. Se dalle rovine non c’è via di scampo, insomma, l’uomo può solo provare a trarne il meglio.

laurie anderson landfall
La copertina di Landfall di Laurie Anderson insieme al Kronos Quartet, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il presente fa paura e il futuro, se non facciamo qualcosa, sarà anche peggio. Rabbia, odio, negazionismo e disuguaglianze sono la quotidianità con cui un pianeta morente è costretto a fare i conti. La catastrofe non fa più parte della narrazione distopica, la catastrofe è adesso. Viste e considerate la tangibilità del disastro e la sua portata, concentrarsi sul linguaggio potrebbe sembrare un’astrazione fuori luogo. In un momento storico così delicato, però, riconoscere la necessità di un alfabeto comune è il primo passo nel processo di salvataggio e ripartenza della razza umana.

Il perché è ben esplicitato dal Comitato Invisibile, un collettivo di autori francesi che scrivono saggi politici: “Abbiamo cercato a tentoni quali passaggi, quali gesti e quali pensieri potrebbero permettere di tirarci fuori dall’impasse del presente. Non c’è movimento rivoluzionario senza un linguaggio capace di esprimere allo stesso tempo la nostra condizione e il possibile che la incrina”. Terraforma, il festival ecosostenibile di musica sperimentale che avrà luogo dal 5 al 7 luglio in Villa Arconati, alle porte di Milano, sta per mettere in pratica questo concetto in molteplici forme, prima fra tutte la scelta del tema principale di questa edizione del 2019: il linguaggio, appunto.

“In linea con l’estetica che ha finora caratterizzato Terraforma, anche il linguaggio verrà trattato come un medium: parole, immagini, vocalismi e codici creeranno una conversazione diretta e in continua evoluzione con la comunità che si ritrova a Villa Arconati dal 2014“, e ancora “Il tema di questa sesta edizione, il linguaggio, credo sia la dimostrazione di come crescono i progetti, rispetto al contesto “sociale” in cui viviamo anche noi con Terraforma sentiamo la necessità di prendere più posizione”, affermano gli organizzatori.

A questo punto sembra impossibile trovare un contesto migliore di Terraforma per la (ri)messa in scena di “The Language of the Future”, spettacolo di Laurie Anderson presentato nel 2017 al Transmediale. Un’opera che è stata descritta come un insieme di avanguardia musicale, arte visiva, stand-up e spoken word che mescola aneddoti personali ai temi più caldi dell’oggi: macchine, progresso e onnipresenza della tecnologia, sovraccarico informativo, politica.

Su ambienti inquietanti tratteggiati dal fido violino e dai sintetizzatori, Anderson si interfaccia direttamente con il suo pubblico. Indaga il presente nei suoi infiniti strati e mette a dura prova gli standard della comunicazione usando dei software (tra cui uno creato ad hoc che sincronizza le sue parole con frasi random proiettate alle sue spalle). Amore, storia e linguaggio relazionale si intrecciano in un percorso alla ricerca delle conseguenze che la contemporaneità ha sull’uomo, e viceversa.

Per stessa ammissione dell’artista, però, lo scopo che muove la sua creatività non è la volontà di cambiare il mondo, bensì lasciare che il pubblico venga naturalmente influenzato da ciò che accade sul palco. “The Language of the Future” è arte nella sua forma più pura: quella che a risposte preconfezionate preferisce lo stimolo di una coscienza critica.

“Language Is A Virus (From Outer Space)” cantava Laurie nel 1986 e oggi, a più di trent’anni di distanza, aggiunge: “Amo fare cose con il linguaggio perché è così impreciso. Molte cose che noi conosciamo in qualità di umani non possono essere espresse a parole”. Venerdì 5 luglio il linguaggio arriverà a Terraforma, direttamente dallo spazio profondo, per mettere in scena un’esperienza imperdibile. Sarà meglio viverla, perché le parole non saranno abbastanza per raccontarla.

Simone è su Instagram.

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Drag queen, cassa dritta e libertà: il Diabolika era una figata

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“Battete ‘ste cazzo de mani”, urla Henry Pass, vocalist dagli occhi di ghiaccio dal palco dell’NRG di Ciampino, la magica culla dove tutto ha avuto inizio. Basta cercare qualche video su YouTube del periodo 2002-2008 per comprendere la portata devastante del Diabolika, un evento che, a livello nazionale, ha determinato un trend di costume e culturale. Per moltissimi ha rappresentato un’inversione di marcia rispetto a quanto di conosciuto nel clubbing fino a quel momento, portando una notorietà imprevista ai generi minimal e tech-house, personificati in quelli che, all’epoca, venivano consacrati come i DJ più forti della scena italiana. In quegli anni ad accompagnare una serata non era soltanto la sua colonna sonora, ma le istrioniche doti di artisti, interpreti, più vicini a domatori del circo in quanto a estetica e portamento, che a semplici presentatori. In questo caso, Lou Bellucci e Henry Pass sono i nomi leggendari.

Il merito del Diabolika è quello di aver raccolto l’eredità del passato, di avere ripreso le fila di un discorso avviato molti anni prima al Muccassassina sotto la direzione artistica di Vladimir Luxuria. In una Roma non ancora colpita dal deperimento della vita notturna, questa festa aveva immediatamente fatto parlare di sé stabilendo un clima esclusivo e comunitario al tempo stesso: selezionato, presentandosi in origine come gig principalmente gay-friendly, ma seducente, aperto ad ogni forma ed espressione, che innescava il desiderio di inclusione. Luxuria lavorava alla porta e decideva le sorti delle file chilometriche antistanti il locale, già contraddistinta da quel piglio ironico e sagace che l’avrebbe resa, di lì a poco, regina della nightlife capitolina.

Avendo occhio per la gente e orecchio per le giovani leve, per merito di conoscenze incrociate Luxuria a un certo punto entra in contatto con una nuova promessa, da subito arruolata fra le milizie del club: Emanuele Inglese, ragazzetto entusiasta che ancora non sa che verrà incoronato ottavo re di Roma, il re della notte. Inglese muove i primi passi in consolle durante party pomeridiani e all’Alibi di Testaccio, entrando in contatto con la scena LGBTQ e quindi proprio con Luxuria, alla quale consegna una cassetta coi suoi mix registrati.

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Un fotogramma del documentario Generazione Diabolika, cliccaci sopra per vedere il trailer su YouTube

Il rapporto professionale tra i due diventa molto stretto ed Emanuele segue la sua musa anche dopo la conclusione della sua esperienza al Mucca, tuffandosi nel nuovo concept di cui sarebbe diventato resident, anch’esso improntato su malizia e turpitudine: nasce Scandalo, fortemente aiutato dalla collaborazione con Fabrizio De Meis (oggi manager del fu Cocoricò), che lo avrebbe ospitato in uno spazio gigantesco, il PalaCisalfa (oggi Atlantico Live). Dall’Alpheus e il Qube, celeberrime venue romane underground, tempio di party omo-bi-transessuali, la crew si sposta in un vero palazzetto: i presenti si contano a migliaia e il successo cresce velocemente.

Ma Scandalo, proprio a causa delle sue grandi proporzioni, ha vita breve e si conclude dopo una stagione. Ai suoi agitatori mancava la dimensione del club, uno spazio in cui si rischiasse meno e si potesse sperimentare di più. È così che nasce Diabolika. Nessuno, dai suoi storici DJ (Emanuele Inglese, D-Lewis, Emix, Paolo Bolognesi) agli organizzatori, avrebbe potuto prevedere la rivoluzione che ne sarebbe derivata: il Diabolika è conosciuto da tutti, è sulla bocca di tutti. Roma è il centro, ma tentacolarmente contagia Catania, Milano, il Matrix di Brescia, il Plaza di Teramo, la Mecca che è il Cocco a Riccione.

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Un fotogramma del documentario Generazione Diabolika, cliccaci sopra per vedere il trailer su YouTube

“È per voi, è con voi, è dentro di voi!”

Nelle celebrazioni religiose afroamericane, un pastore guida i fedeli ad incarnare spirito e parola, a dimenarsi lasciandosi invadere da una forza più grande, superiore. Al Diabolika la messa è pagana, infuocata, posseduta da demoni profani che incitano alla frenesia. Un girone dantesco, entrato nei libri di storia come fenomeno di culto, massa e adorazione. I Caronte che traghettano le anime perdute da una sponda all'altra della notte sono due: Lou Bellucci e Henry Pass.

Parliamo di tempi più spontanei e genuini, spudoratamente coatti, in cui il vocalist armato di microfono era eletto a profeta. Inventava i tormentoni ripetuti come un mantra dalla sala intera, durante un siparietto introduttivo in costume studiato ad arte, come quella del Varietà. Perché per quanto selvaggio l’Indecent Party potesse apparire (e concretamente fosse), nessun dettaglio era lasciato al caso: a partire dal concept di base, l’idea di creare un’alcova perversa e peccatrice in cui tutto sarebbe stato concesso. Grazie a un tema, un'atmosfera e un titolo (Diabolika, potente come un brand) decisi deliberatamente e con intelligenza, la semplice festa in discoteca si sarebbe trasformata in un format collaudato. Prima l’ingresso di ballerine e performer; poi, a luci ancora basse, il risuonare della sigla mefistofelica; dunque, il trionfale arrivo delle regine en travesti, che mettono in scena tra il clamore generale scenette scritte e pensate nel dettaglio. Battute ammiccanti, oscenità e l'immancabile invocazione dei DJ scandita a tempo, coi bassi che esplodono dalle casse.

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È uno stile innovativo e unico nel proprio genere, e detterà il filo conduttore musicale che avrebbe dominato un intero decennio degli anni Duemila (con Mauro Picotto, Dj Ralf, Alex Neri, Satoshi Tomiie, David Morales), creando un universo parallelo con un suo codice d’abbigliamento (le perle al collo, gli occhiali Carrera, le ragazze con i ciucci in bocca e le calze a rete come maniche agli avambracci) e un suo riconoscimento, potendo contare sull’infinita adorazione dei propri appassionati. Più di un party: una collettività, agli antipodi di molte esperienze di clubbing moderne più improntate sull’individualismo e sull’immersione del singolo nell’evento e nei suoni che su un senso di squadra e aggregazione.

A Roma "ar Diabolika" ci andavano i bori, ma che grande cuore batteva sotto le loro magliette aderenti—forse anche per merito di combo mondiali di pasticche. Il Diabolika è senza pari, essendo magnificamente riuscito a partorire un trend seguito da una cerchia vastissima, antropologicamente riunita a cantare “Scariche Cosmiche” o “The Drill” come se fosse l'inno nazionale. Un termine di paragone potrebbe forse essere il ruolo che il vecchio Plastic ha giocato per la città di Milano e la comunità LGBTQ, per la sua oltraggiosa indifferenza ai canoni di omologazione e ai limiti di decenza. O, ancora a Milano, al Pervert o P-Gold, capitanato da Obi Baby e Cristian Cafarelli nella venue del Rolling Stone (in cui si è consumata anche una leggendaria notte del Diabolika da cinquemila persone), più o meno contemporaneo alla realtà della Capitale e simile nelle grafiche, sigla, coreografie e indefinita sessualità.

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Il Diabolika non era solo una club night, ma un’esperienza. Uno spettacolo che chiunque avrebbe donato un organo pur di assistervi: basti pensare alla filodiffusione di cui ha goduto in Italia, incrementandone l’eco, dal momento in cui il party si è legato all’emittente radiofonica M2O, trasmettendo in diretta e versione integrale le serate del sabato da mezzanotte alle cinque all’NRG. Prima ancora che la Boiler Room venisse inventata, era Emanuele Inglese il dio da ascoltare per ore dalla propria cameretta in provincia.

La crescita è stata esponenziale, dalla vittoria locale ascendendo alla piramide del Cocoricò a quella internazionale muovendosi allo Space di Ibiza. Cosa chiedere di più se non una moltiplicazione dei pani e dei pesci, partiti da duemila ospiti paganti (numero già spaventoso) sino a contarne diecimila. La parabola non accennava ad entrare in fase calante, ma pur battendo cassa ed espandendosi, diatribe interne avvelenavano l’umore di quella che sino ad allora era stata una famiglia. Galeotta è stata, sicuramente, l’irremovibilità di Inglese davanti ad alcune condizioni contrattuali richieste e negategli, rispetto alle quali ha piuttosto preferito abbandonare la nave, seppur carica di meraviglie. L’anima del party andava via e non avrebbe mai più rimesso piede in quella che era casa sua, neppure nelle reunion successive organizzate a distanza di anni. Sostituito da Simone LP, giovane romano classe ‘81 formatosi fra le notti del Piper in via Tagliamento, l’inconfondibile sound house non veniva tradito, ma qualcosa si era rotto per sempre.

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Venuto a mancare Lou Bellucci nel 2017 per un tragico arresto cardiaco, un'altra vertebra della spina dorsale del Diabolika andava persa: amatissima, una delle due voci narranti era scomparsa per sempre. Negli anni successivi, il ricordo delle sue danze scatenate della sua verve piena di ironia non è mai morto. La sua morte arrivò tragicamente poco prima che tutto il gruppo originale venisse riunito per partecipare alle riprese di un documentario, Generazione Diabolika, scritto e diretto da Silvio Laccetti. Presentato a tappe in Italia in un tour amarcord per nostalgici e curiosi, il è emozionante per chi il Diabolika lo ha vissuto e adrenalinico per chi non ha avuto la fortuna di abitare in una delle metropoli visitate dal party, ma del Diabolika ha sentito parlare sin dai banchi di scuola, coi dischi di Bolognesi pompati a palla nelle radio delle Ligier parcheggiate in cortile.

Diabolika gode oggi di una rivalutazione quasi analitica, intellettuale, come già è stato per i dischi degli 883 riletti in chiave indie dall’intellighenzia musicale italiana qualche anno fa. Allo stesso modo, chi ha vissuto alla fine dei Novanta e l'inizio dei Duemila lo sconfinato successo di questi pezzi di storia pop nazionale è cresciuto e passato oltre senza mai dimenticarli davvero. I gusti cambiano, evolvono, e magari a queste passioni si è guardato con snobismo perché troppo commerciali, quasi da nascondere. Ma rimangono epifanie adolescenziali che toccano le corde del cuore. Meglio si comprende il loro significato, meglio si realizza quanto abbiano rappresentato a livello individuale e se ne apprezza la qualità a distanza di tempo.

generazione diabolika

Alla proiezione di Milano, attorno a me, a fine film la platea si è alzata in piedi applaudendo Henry Pass, presente in sala al massimo splendore, e intonando “Scariche Cosmiche” in un coro da stadio. Un pubblico variegato fra camicie bianche di insospettabili fan ora prestati al mondo dell'azienda e aficionados sfegatati che applaudono e asciugano qualche lacrima di commozione.

Chi andava al Diabolika ha compiuto o sta per compiere trent’anni e la nostalgia dei tempi andati è lì che attende dietro l’angolo. Rivedere quello che è stato è bellissimo, perché ci ricorda che di certo eravamo tamarri, ma anche sfacciatamente felici.

Tutte le foto sono tratte dal documentario Generazione Diabolika di Silvio Laccetti, che ringraziamo per la disponibilità. Scopri di più sul film e informati sulle proiezioni visitando il sito.

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Il concerto di Undamento al MAXXI di Roma è meglio di una notte al museo

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Lo sapete che Undamento è una delle realtà discografiche italiane più fighe di tutte, vero? E che i suoi artisti sono Frah Quintale, Dutch Nazari, Ceri, Dola, gli Irbis37, Spz e See Maw, no? Bé, adesso a loro si è aggiunta pure Joan Thiele, che sta per uscire domani con il suo primo singolo in italiano e che siamo molto curiosi di sentire.

Detto questo, e ora che siamo tutti allineati, dovete sapere anche che Undamento sta per fare una cosa molto carina, dopo che ne ha fatta una a Milano e la capitale ha detto, insomma, e noi che stiamo qua a fare? Bé, amici capitolini, state ad andare al MAXXI, il museo nazionale delle arti del XXI secolo, giovedì 11 luglio a partire dalle 19:30. Perché Undamento si prenderà il museo e farà un concertone con tutti, ma tutti, i suoi artisti. Quelli che potete leggere qua sopra.

Sarà tra l'altro l'unica data estiva di Frah Quintale, che da quando ha buttato fuori Regardez Moi nel 2017 non ha fatto altro che crescere e crescere e crescere. E poi ci sarà pure una mostra fotografia del suo tour, The Backstage Chronicles, alla sua prima esposizione romana.

Vuoi andarci? Vai a comprare un biglietto. Però prima tenta la fortuna su Instagram, dove con un like e un commento e un tag a un amico puoi vincere l'opportunità di entrare in lista insieme a lui o a lei.

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Foto di gente che impazzisce quando parte "Mr Brightside" dei Killers

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Qualcuno dirà che esagero, ma “Mr Brightside” è una delle migliori canzoni mai scritte. Ha tutto quello che serve a una composizione: un ritornello grande come Giove, un verso di apertura così epocale che andrebbe tradotto in latino e inciso sulle porte delle città, un riff che ti dà una botta di serotonina più grande di un orgasmo dopo una manciata di capsule di 5-HTP.

Nonostante siano talmente di Las Vegas da indossare cappelli da cowboy senza ironia, i Killers hanno scritto un inno universale. In particolare per il popolo inglese, "Mr Brightside" è una tale hit pan-generazionale che non ha mai lasciato le classifiche UK da quando è uscita nel 2003.

I Killers avranno anche ospitato sul palco i Pet Shop Boys e Johnny Marr (proprio lui) per suonare "This Charming Man" (proprio lei) con Brandon Flowers nel ruolo di un Morrissey non-problematico durante il loro concerto a Glastonbury 2019, ma "Mr Brightside" è rimasto comunque il momento che tutti stavano aspettando.

Quindi siamo orgogliosi di presentarvi: la pura, incontaminata gioia sui volti delle persone quando i Killers hanno concluso il sabato di Glastonbury con la più mistica canzone di disperazione romantica mai scritta.

The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
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The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019
The Killers Mr Brightside Glastonbury 2019

@emmaggarland / @christopherbethell

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da VICE UK.

L'intervista definitiva sul Machete Mixtape 4

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Gli stimoli sono costanti e incessanti. Arrivano dagli schermi che teniamo in mano e hanno un effetto sul modo in cui percepiamo la realtà: se ci sono tantissime notizie brutte, dopo un po' cominciamo ad abituarci e a smettere di provare compassione. E se esce un sacco di musica nuova, allo stesso modo, dopo un po' cominciamo a smettere di stupirci.

Recenti dati dicono che su Spotify, per esempio, vengono caricate in media 40.000 canzoni ogni giorno. Qualche mese fa, SoundCloud era arrivato a un catalogo di 200 milioni. E tutti questi pezzi di suono possono anche non esistere per un utente che magari usa solo YouTube—e qua potete vedere in tempo reale quanta roba succede su YouTube.

Non è quindi scontato che l'annuncio di un progetto musicale causi genuino entusiasmo all'interno di una determinata fascia di ascoltatori. Forse lo è ancora di meno se stiamo parlando di quella del rap italiano, relativamente enorme ma anche piccola a livello mondiale—per intenderci, dopo un po' i featuring e le sorpresone finiscono, e bisogna inventarsi qualcosa di nuovo per generare quel friccicorio che solo la sorpresa e l'entusiasmo sanno generare nelle spine dorsali dei fan.

Qualche giorno fa i ragazzi di Machete ci sono riusciti. Il Machete Mixtape 4, uscito oggi a mezzanotte, non ha fatto altro che mettere un sacco di artisti fortissimi insieme a tanti altri artisti fortissimi, ma lo ha fatto con una dimensione tale da renderlo un evento. Fabri Fibra e Massimo Pericolo, Marracash, Izi e Gemitaiz, Tedua e tha Supreme, Dani Faiv e Shiva, il ritorno di Jack The Smoker, Salmo e Nitro e Lazza e Beba e Jack The Smoker e Low Kidd e MACE e tutti gli altri—tutte macchie di un quadro puntinista, tutti tasselli di uno splendido mosaico.

Lo studio di Machete a Milano sta in un seminterrato ed è composto da una lunga serie di stanze e studi—in alcune ci sono casse e computer, in altre ci sono postazioni da gamer. In una di quelle, ieri, mi sono trovato ad ascoltare il Mixtape insieme a Slait, che di Machete è fondatore insieme a Hell Raton e Salmo. E poi a chiacchierare per un bel po' di tutto quello che Machete ha rappresentato e rappresenta per l'arte e la cultura rap in Italia. A parlare sono Slait, Hell Raton e Low Kidd, mentre Salmo non è potuto esserci per un infortunio a un concerto—ma la sua figura e i suoi input traspaiono dalle parole dei suoi soci, dei suoi amici, dei suoi compagni.

machete mixtape 4
La copertina del Machete Mixtape 4, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Voi siete attorno ai trent'anni, mentre un ragazzo come tha Supreme è del 2001. Come vi trovate a rapportarvi con un ragazzo così più giovane di voi?
Slait:
Di testa è molto maturo e si rapporta bene con ragazzi più grandi. È molto umile e puro a livello musicale e di personalità. Ha dei principi ben saldi e in questo momento pensa solo alla musica, e non all'immagine. Lo dimostra il suo profilo Instagram, posta qualcosa solo quando deve uscire musica.
Low Kidd: Innanzitutto la musica è un linguaggio universale in cui non ci sono età o sesso. Poi va detto che questi ragazzi hanno rispetto per la nostra età e il nostro vissuto, anche se hanno una marcia più sia a livello tecnico che comunicativo. Sono nati con i software, sono nati con i social, e quindi anzi è quasi più facile parlare con loro.
Hell Raton: Esatto, c'è una particolarità nelle nuove generazioni, non solo in Supreme ma anche in Lazza o in Beba. Per noi il rap era una difficoltà, affermarti era un casino. Loro lo sanno. Sono più umili, aperti e pronti ad ascoltare, e inoltre capiscono il linguaggio di internet, che oggi è tutto. È quasi più difficile rapportarci con i nostri coetanei che hanno affrontato la nostra stessa struggle.
Low Kidd: È anche difficile da spiegare perché questi qua ci nascono dentro. Noi eravamo ancora quelli che andavano in giro a pedalare senza cellulare. È un fatto naturale, di evoluzione.

In "Star Wars", Massimo Pericolo dice "Mio figlio piuttosto che il rapper giocherà a calcio".
Hell Raton:
È l'unica barra che io non condivido, perché non mi piace il calcio!
Slait: Però la strofa maleducata ci piace!
Hell Raton: Certo! Comunque Pericolo arriva dalle arti marziali, è molto disciplinato, e quindi vede il calcio come sport che come mercato. Quindi ci sta. E poi, come dicevo ad Alioscia sulla crociera di Salmo, lui è un hooligan. È un aizzatore da stadio!
Slait: Magari ha visto la discografia al giorno d'oggi, ha detto che merda, io ci faccio solo i soldi mio figlio non lo voglio in questa situazione!

Ad ogni modo, avevo chiesto ai nostri follower alcune domande per voi. Un ragazzo si chiedeva come vi faceva sentire il fatto che tutti possano e vogliano fare rap, oggi.
Low Kidd:
Il fatto che tutti possano fare musica non vuol dire che tutti arrivino, anzi. La saturazione porta proprio il contrario.
Slait: Negli ultimi sei mesi tanti artisti si sono fatti malissimo e gli emergenti se non hanno qualcosa di veramente diverso non funzionano, come dimostra tha Supreme. Grazie al mondo dei videogiochi ci siamo avvicinati a tanti ragazzi, e io in particolare. Ti parlo di quattordicenni, quindicenni. Young Miles, che ha 17 anni e ha prodotto "Star Wars" con Fibra e Pericolo, l'ho conosciuto online.

Ecco, Young Miles. Com'è che siete passati da "giochiamo insieme a Fortnite" a "produci il pezzo di Fabri Fibra e Massimo Pericolo con Crookers e Nic Sarno"?
Slait: Io gioco con Supreme su Fortnite, ogni tanto entra qualcuno in lobby e giochiamo in quattro. Avevo giocato un bel po' di volte con Miles, che è di Roma e ha appena compiuto 17 anni, e a un certo punto Sup mi dice che produce e se voglio sentire qualcosa. L'ho contattato, è un ragazzo mega disponibile, devo ancora conoscerlo di persona. Ad ogni modo, mi ha mandato una cartella di beat e ci sono rimasto veramente male. È molto forte, ha un suono molto aggressivo, produce da un po' di anni e solo ora sta iniziando a ricercare tra i generi per trovare una roba sua. E al giorno d'oggi è molto difficile, però ci sta riuscendo. Lui ha fatto anche il pezzo di Beba e Lazza.

Ed è fondamentale che ci siano realtà come la vostra che prendono queste voci, gli danno fiducia e non le fanno mangiare dal sistema discografico.
Slait:
E infatti quando lo abbiamo conosciuto gli abbiamo detto "Bro, vieni qua, che ti abbracciamo e ti facciamo stare tranquillo". Se lo metti in un mercato senza freni e senza controllo è un disastro. Lo fai star male. Lui ha bisogno, come noi da piccoli, di fare musica per star bene e noi gli stiamo dando i mezzi di farlo. Di liberarsi dal resto.
Hell Raton: È giusto che tutti abbiano il diritto e l'ambizione di fare il rapper, perché comunque in Italia siamo arrivati tardi. In America fanno tutti rap. Qua si scioccano perché Michelle Hunziker fa il pezzo rap, in America chiunque vada in un programma televisivo lo fa. A noi fa strano? Sì, non ti dico "che figo", anzi. Però capisco che sarà sempre di più così, ma resterà a galla chi ha talento. Come Machete, che è stata premiata dalla rete, che è meritocrazia. La rete ti dà e ti toglie. E se vuoi fare tutto da solo devi sacrificare anche un po' il lato artistico per dedicarti a quello imprenditoriale.

Esatto, e mi interesserebbe sapere come si è evoluta la suddivisione dei ruoli all'interno di Machete. Come bilanciate il vostro essere artisti con il vostro essere imprenditori, gestori di talenti.
Slait:
Ci vorrebbe un'altra intervista per parlarne. In questi anni siamo andati avanti tantissimo, soprattutto nel corso degli ultimi quattro. Lorenzo, Low Kidd, ora ha anche un'etichetta ed è pure un discografico. 333 Mob è sorella di Machete, il nostro roster è un movimento. Supreme non è Machete, ma è uno di noi. Sono cambiate tante cose...
Hell Raton: Parlando a nome di tutti e tre, noi siamo artisti che stanno dedicando la loro arte ad altri artisti. Se non sei presente a livello musicale in un pezzo o sul palco la gente non ti percepisce, ed è una cosa che fa dispiacere. Ci trovi nei credit dei dischi, ci trovi a dare direzione agli artisti, ma il pubblico questa cosa non la percepisce. Vede il frontman in prima linea, quando in realtà c'è tanta arte. Lavoriamo con gli altri per un bene comune. Io e Slait siamo fermi da anni? Low Kidd non fa un disco da tempo? Tutti e tre siamo nei dischi di tutti noi.

E oltretutto lavorate come mentori per ragazzi più giovani di voi, che accogliete e spingete.
Slait:
Io quando stavo in Sardegna volevo partire, andare fuori, sfondare tutto ma era difficile trovare contatti. Quindi a livello personale, quando spingo questi ragazzi qua, voglio fargli fare quello che non sono riuscito io a fare alla loro età. E volano, veramente, come gli dai un attimo di spazio. Sono molto umili e si fidano un sacco.
Hell Raton: Questo mondo giovane è il gaming. Machete Mixtape è sempre stato simbolo di unione, unica compilation che ha sempre unito tutta la scena. Anche se oggi tutti pensano al proprio business, con il quarto capitolo ci siamo riusciti ancora. Però tutto quello che facciamo nasce dall'unione e dalla passione, dai tape al gaming. A noi ci pigliano per il culo perché ci vedono sempre qua a giocare...
Low Kidd: Ma chi?
Hell Raton: Tutti! Ma Lazza in primis, che ci prende per il culo... "Ah, è questo che avete fatto oggi!" Però entri lì e c'è una chat con quaranta ragazzini che parlano costantemente. Nulla ci vuole che nasca un feat, che chiuda un contratto mentre sto giocando. Siamo proiettati a fare le riunioni con la realtà virtuale, cosa che già succede nelle case discografiche inglesi quando devono fare le conference con New York. Comunicare con i ragazzi in questo modo ci sta dando uno slancio in più.
Slait: Questa cosa del gaming negli ultimi sei mesi ci ha riunito veramente tanto.

Sì, alla presentazione di Machete Gaming si era parlato molto di questi temi: unione, nuovi modi di comunicare. Per sfatare il mito del ragazzino che perde le giornate da solo davanti allo schermo.
Hell Raton: Ma lo pensavo pure io! Io stesso ragionavo da cinquantenne, pensavo non avremmo combinato più un cazzo. Negli ultimi anni mi sono concentrato sulla musica, e al momento dei multiplayer ho mollato i giochi. Ho provato tutto, ho giocato in VR, ma quando Slait mi ha detto "facciamo la sala gaming" ho avuto paura che in questi studi non si facesse più musica. E invece è stato completamente l'opposto.

In “Stupido Gioco del Rap”, sul Machete Mixtape II nel 2012, Salmo diceva, "Se fai hardcore non per forza sei un morto di fame". A sette anni di distanza, che cosa può significare una frase come questa?
Slait:
Avevamo ancora tanta fame allora, eravamo ancora all'inizio e questo discorso non era scontato. Fino al 2015 non ci siamo fermati veramente un secondo. Non ci siamo guardati indietro per dire, "ok, abbiamo fatto qualcosa."
Hell Raton: Mauri ha una scrittura molto lungimirante, e quindi stava prevedendo una cosa che ho sempre detto a Slait. Come etichetta abbiamo sempre rappresentato un momento del mercato discografico italiano simile a quello in cui gli N.W.A. arrivarono su quello statunitense. Si stavano accorgendo che per iniziare a sfondare le classifiche non dovevi fare rap/pop, poteva esserci il rap crudo di Noyz, potevano esserci le rime di Fibra. E adesso sono tutti intenditori! Anzi, i giornalisti che non hanno mai capito niente di rap ci chiamano trapper!
Low Kidd: Non sanno neanche cos'è la trap! Voi vi ricordate quanto si soffriva in passato? L'Italia è sempre stata abituata ad altre cose, e poi è successa questa scintilla.
Hell Raton: Ad ogni modo, Mauri ha detto una verità che poi si è confermata. Stiamo uscendo con un disco con una sonorità tutto tranne che estiva, è puramente rap.

E per sottolineare quello che volete fare avete chiuso con "Mammastomale", prodotta da Dade dei Linea 77, una band che ha fatto un piccolo pezzo di storia del metal italiano e con cui state collaborando. E ci cantano sopra Izi e Gemitaiz. Tutto sta facendo il giro!
Hell Raton: Mi sono letto il vostro pezzo sul metallaro di provincia e mi sono rivisto in tante cose, noi veniamo da quel mondo lì. Da quello struggle lì ci siamo venuti praticamente tutti.
Low Kidd: Siamo tutti accomunati da questa cosa, forse solo un pelo meno Lazza, ma veniamo tutti da quella roba.
Slait: Quel pezzo è un drittone pazzo. La cosa più figa è stata che dal primo brano all'ultimo le combo siano nate in maniera iper naturale.



Non vi avrei neanche chiesto come sono nate le varie collaborazioni, dato che la naturalezza è un prerequisito dei mixtape.
Slait: Certo, è stato proprio una serie di conversazioni semplicissime. "Bro, metti Shiva qua!" Oppure, abbiamo mandato il beat di "Mammastomale" sia a Izi che Gemitaiz, pareva che uno dei due non riuscisse a darci una strofa, invece alla fine ci sono riusciti entrambi e abbiamo tenuto entrambi, Salmo ha messo il ritornello...
Low Kidd: Io e Salmo ci eravamo fatti delle idee in Sardegna e avevamo cominciato a contattare un po' di gente con le basi che aveva raccolto Slait.

Quindi il mixtape è nato completamente in Sardegna?
Slait
: Sì, a casa di Salmo, a partire dal 15 maggio. Lui era lì, Low Kidd è sceso per lavorare con lui e buttare giù lo scheletro. Dopo aver fatto Hellvisback completamente assieme si sono ritrovati per questo progetto.
Low Kidd: Ci siamo sincronizzati per capire tutto, sound e persone, ma alla fine è stato un disco scritto ridendo. Io e Mauro lo abbiamo cominciato suonando roba in una doccia, battendo su una lampada! Non appena veniva in studio qualcuno come Lazza, che ha un'impostazione molto pulita, abbiamo dovuto quasi rieducarlo! Le cose che ho fatto io le ho fatte su un tavolino con una cassa bluetooth, non c'era niente di preparato.

Non a caso si chiama "mixtape".
Hell Raton:
Giusto! In questi quattro anni abbiamo provato a farlo, il tape, ma non c'era questa spontaneità. Siamo stati tra gli ultimi a fare un disco compilation che aveva spaccato tutto quando ancora non c'era lo streaming. Replicare un'operazione del genere... questo disco è uscito in 20 giorni. Ma veramente.
Low Kidd: Perché sì, è un mixtape, a livello creativo è stato prodotto così, ma c'è stato dietro uno studio logistico preciso fino al millimetro. Tutti gli artisti di Machete sono venuti di persona in Sardegna a registrare. È un prodotto bipolare, ha l'attitudine di un mixtape e la qualità di un album. Una volta il mixtape nasceva perché non c'erano produttori, adesso ce ne sono anche sotto i tombini. Noi ci siamo divertiti, ma in maniera ordinata.
Slait: Abbiamo deciso tre settimane fa di far uscire il disco adesso. Lo abbiamo registrato, mixato, prodotto e stampato in 15 giorni. Non stiamo uscendo subito subito con il fisico, ma c'è. Questo disco è nato con i nostri artisti, poi ne abbiamo inseriti di altri che vedevamo bene nel progetto. Marracash, con cui Kidd sta lavorando tanto. Tedua, con cui c'è mega stima. Volevamo fare una roba fresca, con il nostro suono e il nostro roster. Uno dei motivi per cui non ci eravamo riusciti negli ultimi quattro anni è che adesso abbiamo raggiunto l'apice del nostro roster. Pensa a tutti i nomi che abbiamo! In questo momento, lo dico solo io, ma è il più grosso d'Italia. Nessuno è riuscito a mettere d'accordo così tante teste e a chiudere un progetto del genere. Questa è America, è un'altra roba rispetto a un prodotto italiano, in cui gli artisti sono tutti da soli e con l'ansia di dovere salire. Nel 2020 tutto questo è folle.

E lo insegnate ai ragazzini, dando un modello da seguire.
Slait: Certo, spero che nei prossimi anni tutto questo farà scuola per i ragazzi di oggi. Pensa che Miles e tha Supreme sono nati quasi ascoltando questi mixtape.
Low Kidd: Non quasi bro, scusami, Supreme l'ha detto lui stesso che il nome l'ha preso dal pezzo. È un dato di fatto.
Slait: Sono tutti ragazzi che arrivano dal nostro mondo. Abbiamo una tracklist che è una roba immensa, è proprio americana. Ci sono combo spaventose. Avrei voluto essere un fan, da un certo punto di vista! Quando stavo in Sardegna a vent'anni, quando vedevo progetti così grandi... PMC Vs. Club Dogo, Hashishinz Sound di Deleterio e Gué, o Thori & Rocce dopo.

Molti tra i nostri fan ci hanno chiesto di chiedervi come mai avete deciso di cambiare completamente lo stile della copertina.
Hell Raton:
Era lo spirito che ci stavamo trascinando tutti dalla Sardegna. Avevamo un sacco di idee, ma poi arriva il momento in cui Salmo si fa una bomba, guarda lo schermo... e dice "È questa!" L'input grafico è suo, e da lì abbiamo cominciato a lavorare a tutto il progetto. La stessa attitudine da mixtape la teniamo nella comunicazione.
Low Kidd: Non dobbiamo dimostrare nulla, abbiamo i grafici più forti attorno.
Slait: Lo abbiamo fatto per rompere i coglioni! Vuoi la cover bella? No, ti diamo la musica bella.

Che poi, "bello" è anche sporco. Prendiamo anche solo "SKIT FREESTYLE", un pezzo registrato con l'iPhone.
Low Kidd:
L'iPhone è un elemento ricorrente del disco. Lungo il corso del disco c'è del vento, ed è vento reale, preso con l'iPhone a casa di Salmo. Abbiamo dato lo sporco anche in questo modo.
Slait: Era quello che facevamo quindici anni fa nella piazzetta, trovarci a fare freestyle con la gente dietro che fa i cori! Quello dà il sapore al disco.
Hell Raton: Slait aveva uno scantinato a Olbia grande come questa stanza, con la consolle, entravamo tutti a sudare con i microfoni...

Dato che hai tirato in mezzo Olbia, vorrei sapere alla luce di tutto quello che è successo come vi ha fatto sentire il recente post di Salmo in cui rivendicava i risultati ottenuti da Machete alla luce dei pregiudizi trovati a Milano, quando vi trasferiste in continente.
Slait:
Io non ho avuto nessuna difficoltà. Sono quasi dieci anni che siamo su e abbiamo ancora lo stesso spirito, ma all'inizio personalmente non me ne fregava nulla di nessuno.
Hell Raton: È quello che dice Salmo, andavamo nei bar e ci vedevano come degli strani. Ma non eravamo rapper singoli, noi ci muovevamo in carovana. Stavamo a cazzi nostri, stavamo bene perché stavamo facendo musica, e questo ci ha permesso di isolarci completamente dalla mentalità milanese. E tanto poi cascavano tutti da noi, in quello che chiamavano il Centro Sociale Machete.
Slait: Era una casa in Pasteur da cui sono passati tutti. E non l'abbiamo abbandonata, ci sono ancora dentro alcuni dei nostri ragazzi.
Hell Raton: E se c'era diffidenza, adesso possiamo dire che ce ne siamo altamente fottuti il cazzo e siamo dove siamo.
Slait: In Sardegna sai quante situazioni ci sono state? Quante persone più grandi di noi che comunque ci mettevano sotto? Prendevamo sempre schiaffi morali. Siamo arrivati a Milano con una corazza talmente spessa.
Hell Raton: Da noi si dice pedde mala, la pelle cattiva, come un cinghiale.
Slait: Al giorno d'oggi siamo ancora così. Machete e i movimenti che ci sono intorno sono la crew più produttiva di tutte. I Dogo, con cui sono cresciuto, tra il 2003 e il 2009 con i dischi andavano un po' a scendere mentre le carriere dei singoli andavano a crescere. Noi abbiamo fatto il contrario, e ora siamo la crew più forte di sempre e siamo in ascesa. Tutto il nostro roster è al momento di top, che sia di Salmo, mio, di Nitro, di Lazza. Abbiamo fatto qualcosa che non aveva mai fatto nessuno.
Hell Raton: Tanta Roba a noi ha insegnato tanto, è un'etichetta che posso definire tale con un catalogo editoriale vero. Ai tempi tutti facevano le "etichette" ma non lo erano davvero, le nostre certificazioni sono veramente Machete Productions SRL.

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Daddy Yankee a Milano ha dimostrato che il reggaeton è più di una moda

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Siamo nel parcheggio di Assago, sotto al palco del Milano Latin Festival, giovedì 20 giugno, insieme a tante, tantissime altre persone. Mentre ci spingiamo più avanti possibile, mi osservo attorno. I fan de El Cangri, El Rey del reggaeton aka Daddy Yankee radunati per la tappa milanese del suo Con Calma tour, sono per metà latini e per metà italiani, con un’età media leggermente più alta di quanto mi aspettassi. A giudicare dalle bandiere, gran parte dei presenti erano prime e seconde generazioni peruviane, ecuadoriane, cilene, salvadoreñe.

Due anni fa la sua ultima apparizione in città, in occasione del Milano Summer Festival, all’Ippodromo di San Siro. L’eredità di “Despacito” la si respira proprio da quel 2017, e nel 2019 si manifesta sotto più forme: il reggaeton oggi ha un’audience decisamente più variegata, e la musica urbana latina è ormai in vetta a gran parte delle classifiche internazionali. Non è mistero di come Daddy Yankee abbia contribuito a popolarizzare il genere nel mondo sin dalla sua vera nascita, fuori e dentro la comunità latina. Una rapida contestualizzazione storica può aiutare a capire perché.

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Foto Franco Oriot per Milano Latin Festival

Il reggaeton è un genere musicale afrocaraibico che ha avuto origine a Porto Rico, a inizio anni ‘90, come risultato dell’espansione ed evoluzione del reggae en español panameño. Quest’ultimo, sviluppatosi a Panama negli anni ‘70, già nei ‘90 era ben diffuso nei Caraibi, e andava ibridando elementi ritmici giamaicani con l’hip-hop statunitense. Tra i promotori di queste contaminazioni si ricordano DJ Negro e DJ Playero, che tra il 1992 e il 1993, a Porto Rico, hanno giocato un ruolo chiave nella diffusione e popolarizzazione di quel primo reggaeton.

In particolare DJ Playero, tra i DJ pionieri del genere, ha letteralmente lanciato la carriera musicale di un giovanissimo Daddy Yankee, nella sua serie di mix Playero 34-37 (1990-1992). A partire da questa collaborazione, i due sono arrivati alla realizzazione del primo album dell’MC portoricano, all’epoca diciottenne, No Mercy (1995). La musica di Yankee, da allora, ha scandito e fatto la storia del reggaeton per come lo conosciamo oggi. Dopo l’iconico album Barrio Fino (2004), con il suo estratto più memorabile “Gasolina”, Yankee ha saputo mantenere una costanza ineccepibile all’interno della scena, sfornando ciclicamente hit su hit, che hanno dato consistenza, coesione e rappresentazione ai latinx nel mondo. Quella sera, al Milano Latin Festival, l’energia che circolava nell’aria era questa.

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Foto Franco Oriot per Milano Latin Festival

Sono le 22 passate, migliaia di telefoni sono puntati verso il palco da minuti. Sul maxischermo appare un breve video commemorativo dei 15 anni di Barrio Fino, salgono sul palco i ballerini, e infine Yankee, che saluta il suo pubblico con grande affetto. “Que comience el fue-go!” attacca energico, mentre parte “Con Calma”. Alla sua più grande hit di questo 2019, seguono una serie di classici degli anni zero, quali “Rompe”, “King Daddy”, “Lo que pasó, pasó”, “Mayor Que Yo”. “Grazie familia!”, rivolge più volte ai fan, riconoscente del loro supporto sin da allora.

Yankee dà prova di grande prestanza sul palco, confermandosi uno dei più grandi performer, MC, e artisti urbani latini di ogni tempo. Questa eccellenza emerge nelle continue menzioni ai paesi di origine del pubblico, che fanno sentire rappresentate le rispettive comunità, e nell’impeccabile freestyling, che vede come suo apice il momento in cui si ferma a ricordare i suoi esordi, negli anni ‘90, quando ancora era un ragazzino del barrio. Lo fa alternando parlato e freestyle, con l’aiuto di un ospite d’eccezione.

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Foto Franco Oriot per Milano Latin Festival

È proprio il leggendario DJ Playero, infatti, ad apparire di fianco a DY, e a ripercorrere con lui la storia del loro incontro. “Vado a bussare alla sua porta, mi apre,” comincia Yankee, abbracciato a Playero. “Gli dico che voglio cantare. Tu cosa mi rispondi?” “Canta!”, continua Playero. “Allora vado con, ‘Yo nunca me quedo alla atrás / Yo nunca me quedo alla atrás…”, riprendendo il suo celebre verso in Playero 37. Di gran lunga uno dei momenti più intensi ed emozionanti della serata.

Le immancabili “Gasolina” e “Despacito” non tardano ad arrivare, ma anche altri classici più veloci quali “Azukita”, “Limbo” ed “Lovumba”. Daddy Yankee il 20 giugno ha dimostrato che il reggaeton è molto più che un trend musicale: di fatto è cultura, barrio e comunità. “Milano!” rivolge al pubblico, dopo un’ora e mezza di concerto e due bis, “Grazie a tutti i miei latini che sono qui stasera, ma anche ai miei fratelli nati e cresciuti in Italia. Fuego, sempre.”

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Vegas Jones è un maestro dei ritornelli del rap italiano

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I datteri sono una di quelle cose molto dolci e molto appiccicose che è proprio bello masticare. In arabo, i ragazzi che li vendevano per strada col carretto o con un'apposita baracchina si chiamavano tammār e i nostri antenati meridionali decisero che gli sembravano proprio dei tipi rozzi e un po' burberi. Ed è così che è nata la parola "tamarro", che poi salendo su per gli Appennini è diventata "zarro".

Detto nell'accezione più positiva possibile, Vegas Jones è uno zarro purissimo. Dal modo in cui rappa e scrive sprizzano spontanei schizzi di provincia semi-urbana: voglia di affermarsi e dimostrare il proprio valore, cazzodurismo col sorriso, ambizione e disciplina, un uso del vocabolario istintivo e viscerale. E in più ha qualcosa che lo distingue: una capacità di creare connessioni con chi lo ascolta e una voce capace di melodie dolci proprio come i datteri che vendevano i tammār.

Lasciamo stare le rime, il rap, che tanto Vegas lo sa fare e lo dimostra ogni volta che sale su un palco. Meno scontata è la serie di ritornelli assassini che ha azzeccato lungo il corso della sua carriera più recente, quella che comincia idealmente da Chic Nisello. Dietro agli enormi numeri macinati dai suoi pezzi c'è infatti, credo, una capacità innata di tirare fuori filastrocche e creare nell'ascoltatore un senso di pace.

vegas jones puertosol

"Trankilo", "Yankee Candle", "Malibu", "Pelle D'Oca": tutti pezzi i cui ritornelli ruotano attorno a un'idea di pace e speranza, sciallo da marijuana e dai-che-ce-la-faremo, ambizione e gratitudine. "Puertosol", il nuovo singolo di Vegas, si infila in questa piccola tradizione. Arriva in un momento di assestamento della sua carriera, consolidata con Bellaria, la successiva riedizione e un trionfale concerto al Fabrique di Milano. Non è una svolta improvvisa, è una riaffermazione delle proprie forze in attesa di un necessario passo in avanti per la sua arte.

"'Puertosol' nasce in studio da noi, in una sera normale," dice Vegas. "Stavamo cazzeggiando tra amici, ho azzardato il ritornello in freestyle come spesso faccio su un beat di Boston che era completamente un'altra cosa. E sono andato a New York con Don Joe a chiuderlo. Lo abbiamo sistemato, abbiamo capito che era forte, e diceva tutto quello che dovevo dire in questo periodo."

Ecco, quello che dovevo dire in questo periodo: Vegas parla, ed è un valore, un po' di tutto e un po' di niente. Libero da progetti narrativi, ha sempre solo buttato fuori frasi su frasi. È quello che sa fare, è quello che continua a fare: "Questo pezzo parla di ambizione. Dei momenti facili in cui te la godi perché ti ha portato dove sei, per esempio al parchetto in relax a NY a fumare un bel back, ma anche quelli difficili. Quelli in cui hai paura di dove ti potrà portare. Perché non sai mai che risultati potrai ottenere."

vegas jones puertosol

Il ritornello, dice Vegas, ribadisce il concetto: "Sono convinto che là fuori ci sono persone come me. Persone che magari non vogliono cambiare il mondo ma non stanno ad aspettare i treni, che si creano le loro occasioni e i loro giorni migliori." La seconda strofa aggiunge invece una dimensione: "È un po' più aggressiva perché è giusto esserlo, in una vita che ti mette alla prova e ti testa. Si tratta di prendere a testate la vita, andare a duecento all'ora, a testa bassa, e arrivare a te stesso. Renderti conto che non sei ancora contento anche se hai dato tutto".

Tra tutte le barre, Vegas è particolarmente attento a sottolineare quelle con cui si chiude il pezzo: "Sono per strada e mi sento a casa / E non è un caso se non mi passa, ho fame". "Abbiamo appena fatto triplo platino e ho ancora più fame di prima", spiega, "la mia ambizione non mi lascia sereno, ma credo in un giorno migliore. E me lo creo in testa, Puertosol, anche se non esiste. E ci sono dentro, e sono contento".

Nel video del pezzo quel luogo è la Cappadocia, in Turchia. Credo che Vegas lo abbia scelto per le mongolfiere che punteggiano il suo cielo (e lo schermo durante ritornello), ma è bello che per puro caso si sia collegato al macro-luogo da cui proviene la radice antica del termine più adatto per spiegare il suo rap. È una questione di pelle e istinto, difficile da spiegare, un po' come il motivo per cui gli vengono fuori ritornelli così.

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Il Paraiso Festival di Madrid è un paradiso

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Oramai da decenni l'estate spagnola è sinonimo di festival. I nomi più in vista—Primavera, Sònar, FIBB, BBK—lo sono per una serie di motivi assolutamente validi: line-up variegate e in continua evoluzione, clima perfetto, ricercatezza musicale, gioiosità estiva. Insomma, quando uno dice "Me ne vado in Spagna a sentire Tierra Whack" potrebbe venire naturale pensare che la meta sia Barcellona, Benicassim o Bilbao. Ma le cose stanno cominciando a cambiare, e il Paraiso Festival ne è la prova.

È giovanissimo, il Paraiso. Nato nel 2018, succede a Madrid e comincia ad essere una delle cose più fighe ad aprire l'estate madrilena. La location è quella del Campus dell'UCM de l'Universidad Complutense de Madrid, un pezzo di terra esteso che ricorda vagamente quello del Coachella e che non ti fa mai sentire costretto nonostante lo sballo. Il suo cuore batte a ritmo di l'elettronica e delle sue diverse derivazioni, ma con delle sbavature in mezzo: parlando con Alverto Sanchez, uno dei fondatori, gli ho chiesto come mai nella line-up, in mezzo all'elettronica di Laurent Garnier e agli strascichi lo-fi dell'ultimo Ross of Friends ci fosse sorprendentemente una traumatica Charlotte Gainsbourg. Lui mi ha guardata, piuttosto compiaciuto: "Qui non si tratta solo di elettronica di un certo tipo. Il Paraiso vuole creare un tessuto creativo che ha come matrice l'elettronica ma che spazia all'interno di essa per rimanere nel genere o deviare in qualsiasi altra cosa".

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In poche parole al Paraiso non si accozzano artisti diversi solo perché hanno dietro hype o sono in tour per un determinato progetto. Al Paraiso si fa un viaggio nella musica—o meglio, in modo più specifico, nel concetto di genere. In metafora, è come se l'elettronica fosse la sorgente di un fiume che però poi dà vita ad affluenti che ne sono sia parte stessa che altro. L'evento si vive come un'immersione costante, bagnandosi un po' tra un palco e l'altro, dall'euro-disco funk anni Ottanta di Cerrone al rap scostumato di IAMDDB, dai ritmi franco-ecuadoregni di Nicola Cruz alla deep house di Channel Tres.

È un viaggio che funziona dall'inizio alla fine anche perché accompagnato da una cura estrema nell'organizzazione degli escénari, non palchi. Il principale sta al centro del campus, è il "Paraiso". Il "Manifesto" è di natura più esoterica, propone ricerca e sperimentazione. Il "Club" è una mezza Boiler Room. Il "Nido" è per gli emergenti. Il tutto con un impianto luce tutto tranne che deludente, accompagnato da visual che caricano l'atmosfera di ultra-dimensioni, virtual-viaggi e cromatismi digitali, in uno spazio aperto e disteso che dà sollievo e senso di protezione.

Paroloni a parte, tutto questo però potrebbe succedere anche da altre parti. E quindi dove cazzo la senti Madrid? Anche in questo il team ha lavorato benissimo perché se da un certo punto di vista, ti senti inondato di sensazioni diverse e sonorità notturne in uno spazio decisamente pazzo e senza tempo, da un altro, sei costantemente riportato alla movida madrilena dal mood allegrotto e spensierato del pubblico—al 60% per cento del luogo—e dal suo grande senso di accoglienza.

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Come mi dice sempre Alverto, il festival cerca soprattutto di prendersi cura dei suoi fan. Sembra molto difficile, in un contesto simile, pensare alla possibilità concreta di interazione con le persone, soprattutto se la musica va a cannone e la folla corre impazzita da uno stage all'altro rischiando di perdere un arto. E invece la distanza tra i palchi è minima, cosa che non guasta l'involucro musicale di ciascuno, e che permette di spostarsi in modo tranquillo senza percorrere chilometri a buffo.
Inoltre è come se il festival coccolasse davvero il proprio pubblico, proponendo un mood molto più chilling/clubbing in cui se si vuole riposare, lo si può fare in apposite aree di ristoro dai colori vivi che favoriscono la chiacchiera in tranquillità.

È come se il fatto di fruire di performance così belle e ricercate, sia necessariamente e doverosamente conciliabile con il piacere festivo e la spensieratezza mediterranea. Così alterni momenti di riposo a momenti di perdizione in uno spazio che non è solo rassicurante ma che presenta una folla decisamente più matura che non poga tanto per, e non si fracassa le costole nel mentre. Insomma, tenete d'occhio Madrid e sì, se vi volete fare un regalo per il 2020, pisciate tutto il resto e andate al Paraiso.

Ceri è il segreto per far andare bene il tuo disco

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La cosa strana che succede, o almeno che è successa a me, chiacchierando con Ceri, è che se il suo EP Solo fin dall’attacco mi aveva stretto la gola in una morsa un po’ bella e un po’ dolorosa di malinconia, al contrario parlare con lui mi ha messo in circolo una dose massiccia di presa bene e, userò un termine abbastanza spesso, pure un po’ di gioia. Perché Stefano da Trento sta all’estremo opposto del calcolo, della frase detta per colpire chi ascolta, della piacioneria e di tutto quello che può creare un po’ di disagio in chi intervista e intercetta per un attimo qualcosa di artefatto, di non limpido.

Lui, che è da sempre il producer di Frah Quintale, che ha lavorato al terzo album Coez e che di recente ha curato la produzione di Stanza Singola di Franco 126 (ma nell’elenco delle sue infinite collaborazioni ci sono, tra gli altri, pure Salmo e Mahmood) è un essere umano piuttosto speciale, che si muove nella scena musicale con poco interesse per il business e con sconfinato amore per il suo aspetto artistico “che in questo momento sta vivendo una fase incredibile, bellissima, che bisogna solo stare attenti a non sputtanare”.

Così quella che è stata un’intervista telefonica iniziata con il mio lagnarmi, disciplina in cui eccello, per il fatto che non stesse avvenendo di persona, è diventata una chiacchierata che è riuscita piuttosto bene ad azzerare le distanze. È diventata inoltre una motivazione in più, oltre all’abbraccio agrodolce di Solo fatto di elettronica color pastello e testi che ti si infilzano nel cuore, per andarlo a sentire nel suo primo live da solista l’11 luglio alla serata romana della sua crew, Undamento, al MAXXI Museo Nazionale delle arti del XXI secolo.

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La copertina di Solo di Ceri, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Noisey: Visto che non ci possiamo guardare in faccia e non so che espressione stai facendo ora che sei al telefono con me, mi viene da chiederti come prima cosa se ti piacciono o se schifi le interviste.
Ceri: Mi piacciono, non sono uno di quelli che le vede come una rottura di palle, forse anche perché non è che ne faccia tantissime. In realtà l’aspetto che mi piace è che può capitare che ti facciano una domanda su una cosa a cui non avevi pensato, o che avevi immaginato in un modo e l’intervistatore ha, invece, interpretato in un altro, quindi possono nascere spunti di riflessione nuovi e utili.

Ora ho un po’ di ansia da prestazione.
No, dai, non volevo!

Facciamo che andiamo con calma e mi dici come ti stai preparando alla prima presentazione live del tuo EP.
Questo sarà una sorta beta test del live, e l’idea è, se in futuro ne farò altri, partire da qui, da questo nocciolo di show a cui stavo lavorando proprio in questo momento, cioè fino a un secondo prima che mi chiamassi. Mi piacerebbe che giovedì si creasse un intreccio tra quello che ho preparato e qualche spazio lasciato più aperto alle modifiche in live. Il mio obiettivo, ma credo di aver bisogno di tempo per riuscire a raggiungerlo, è proprio riuscire a giocare e rimbalzare dal materiale già pronto e quello più libero.

Emotivamente, invece, come ti senti?
Ora faccio fatica a provare emozioni! No, cazzate a parte, vedremo là come sarà, anche se di base so che sono sempre molto più agitato prima di salire sul palco che quando poi ci sono davvero. Però questa è la prima volta da solo, quindi non ho realmente idea di come mi sentirò.

Il fatto di cantare per la prima volta davanti a un pubblico è il fattore con più alto tasso di imprevedibilità?
Sì, perché non sono un cantante, ma manco lo voglio essere, e no, perché per come ho pensato alla mia voce su questi pezzi, è più uno strumento che non il centro della faccenda. Anche nell’EP, ho sempre mascherato la voce con distorsioni e filtri, ed è una scelta precisa di visione del cantato come uno strumento in più al servizio della musica.

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Tutte le foto di Ceri sono di Karim Andreotti e compaiono per gentile concessione di Undamento

Questi giorni ho ascoltato Solo durante una lunga passeggiata in cuffia. Ero appunto sola, e appena è partita la prima traccia m’è venuto un groppo in gola.
Che tu mi dica questa cosa mi fa pensare che la roba “giusta” è arrivata. E mi hanno fatto notare, ed effettivamente poi ci ho riflettuto su anche io trovandomi d’accordo, che questi pezzi qua cambiano se li ascolti in cuffia da solo. In macchina con gli amici non funzionano. Se ti prendi qualche minuto per sentirteli per i fatti tuoi sì. Non a caso io li ho registrati proprio in cuffia, sono nati così e vivono al meglio così.

Che situazione e che sensazione è per te la solitudine?
È soprattutto un momento di crescita, che serve anche per imparare a stare meglio sia con se stessi che con gli altri. Però non la associo alla musica, perché quasi sempre il mio processo creativo avviene insieme ad altre, tante persone, ma a un momento mio che serve, o dovrebbe servire, a migliorarmi.

Ma quando parli di solitudine la intendi come isolamento del tutto privo di distrazioni e input esterni?
No, anche se in realtà mi piacerebbe ogni tanto concedermi anche quel tipo di situazione. Solo che, onestamente e per fortuna, in questi ultimi anni non ho avuto tanto tempo. In realtà qualche mese fa, in un weekend in cui ero incredibilmente libero, sono tornato a Trento ed avevo in programma di andare con i miei amici storici in una malga su in montagna dove non prendeva nemmeno Internet, ma poi ha diluviato e abbiamo dovuto rinunciare e mi sono davvero girati i coglioni. Però quest’estate ci riprovo.

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Tutte le foto di Ceri sono di Karim Andreotti e compaiono per gentile concessione di Undamento

Hai un legame molto forte con la tua città e la natura che la circonda?
Penso che questa cosa qui sia proprio parte del DNA trentino, perché se cresci a Trento per forza di cose sei più spinto a rispettare e ad amare la natura. Penso solo ai fatti più basilari: lì la differenziata la facciamo da che ho memoria ed effettivamente il primo anno che ho vissuto a Milano, quando avevo 19 anni, ero schizzatissimo per la diversità di contorno. Allora, che era il 2009 ed era una Milano molto diversa da quella di oggi, gli spazi verdi erano due aiuole mezze distrutte. Era una cosa oscena, e io l’ho sofferta tantissimo. Per fortuna oggi è migliorata di brutto. Però non posso negare che anche oggi, quando entro nella valle dell’Adige, e vedo le montagne, mi sento tranquillo.

E invece il tuo primo contatto con la musica quando e come è avvenuto?
Molto presto, a sette anni, quando ho iniziato a strimpellare il pianoforte di mia nonna, che lo aveva passato a mio padre, il quale, vedendo che mi ci perdevo via, mi aveva fatto prendere lezione. Ho avuto la fortuna di trovare un maestro molto bravo, che, vedendo che oltre che eseguire mi piaceva anche cazzeggiare, mi ha aiutato a comporre le prime robe. Poi con il piano è stato un tira e molla, l’ho abbandonato, poi mi piaceva troppo e l’ho ripreso, poi ancora mollato perché era una cosa che richiedeva un’ora al giorno di studio col timer e io invece preferivo andare a giocare a basket… La svolta, quella che ha fatto sì che la musica diventasse una specie di ossessione, ma in senso positivo, c’è stata quando un mio amico m’ha fatto conoscere i programmi di musica per il computer, e da lì basta: è diventata la cosa che facevo sempre, anche appena tornato da scuola, anche la sera dopo cena.

Comunque oggi il piano è tornato bello presente nella tua vita …
Di brutto, sì, con Frah e con Franco suono soprattutto le tastiere, quindi anche se non lo studio più in maniera accademica lo suono un botto, ogni giorno, anche per comporre.

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Tutte le foto di Ceri sono di Karim Andreotti e compaiono per gentile concessione di Undamento

In "Guai" parli di amici che se ne vanno, un momento riguarda un po’ tutti e che, almeno per me, ha significato la fine dell’infanzia.
Vedi, è interessante che tu l’abbia letta così, perché io in realtà volevo raccontare di una cosa molto terra terra. Cioè di quando nella mia cerchia di migliori amici mi sono ritrovato praticamente solo, perché uno è andato a vivere a Londra, uno a Singapore, un altro ovunque in giro per il mondo. Volevo parlare di quella sensazione di spaesamento e di senso di fine dell’adolescenza che ti prende quando i riferimenti di amicizia di una vita ti mollano, anche se sai che lo stanno facendo per inseguire i loro sogni e quindi sei in parte triste e in parte felice per loro e fiero di loro.

Dimmi di Undamento: che tipo di “famiglia” siete? Che cosa, secondo te, vi tiene così uniti?
Siamo amici. Tommaso Fobetti, il nostro produttore artistico, lo conosco da quando ho 16 anni, Frah pure, perché io ero nella scena rap di Trento, e lui in quella di Brescia, ma dato che nel 2006 quelli che facevano rap in Italia si contavano su una mano le due realtà erano super connesse tra di loro. Molto peso lo ha avuto anche aver condiviso e superato dei bei momenti di merda. E un intento comune, qualcosa del tipo che siamo “quelli della decrescita felice”. Non ci interessa tanto fare i numeroni, fare i soldi, a me personalmente non frega proprio un cazzo di comprarmi una macchina nuova ogni anno, che pure se avessi i soldi non lo farei, non mi interessa, e così credo gli altri. Cerchiamo di fare le cose che ci piacciono e di essere contenti con quello che ci arriva.

Che effetto ti ha fatto, dopo i già citati momenti di merda, veder arrivare un riscontro così grande a Coez, ma anche a Frah?
Beh, felicità pura. Specie perché ci sono state tante mattine in cui ci siamo svegliati davvero perplessi su quello che stiamo facendo, e pure un po’ in paranoia. Invece oggi ci si sveglia contenti, io sono davvero contento, nel profondo, per tutto quello di stupendo ci è successo.

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Tutte le foto di Ceri sono di Karim Andreotti e compaiono per gentile concessione di Undamento

Al di fuori della tua crew, che cosa ti sta piacendo della scena musicale italiana di oggi?
Beh, innanzi tutto questo è un bellissimo momento per la musica italiana e bisogna stare attenti a non sprecarlo. Detto ciò e detto anche che io, grazie anche alla mia coinquilina che è francese, sono appassionatissimo di musica francese e trovo che i cugini siano avantissimo e che abbiano degli artisti minori davvero interessanti che fanno cose immense con un decimo del budget dei grossi che abbiamo qui, penso che in Italia ora ci sia un grande potenziale. Spero che questa cosa non venga sprecata in nome del business perché il rischio, temo, può essere quello.

Sei proprio atipico, Ceri.
Eh cazzo, speriamo di no! Però, aspetta, torno alla domanda di prima e ti faccio un nome, anche se sono un po’ di parte perché abbiamo lavorato assieme a diversi pezzi, però Mahmood è davvero un king, e potrebbe spaccare di brutto anche fuori dall’Italia. Poi, vabbè, il mio preferito, anche se ora non lo seguo più, o meglio non lo capisco più, è Panizza, Pop X, conterraneo che ho sempre venerato, ma che, appunto, m’è un po’ sfuggito negli ultimi tempi. D’altronde credo sia impossibile comprendere i suoi processi mentali, quindi, forse, il tempo gli darà ragione e mi troverò ad amare follemente anche i suoi ultimi lavori. Forse.

Giovedì Ceri si esibirà insieme a tutti i suoi compagni in Undamento (Frah Quintale, Dutch Nazari, Joan Thiele, Dola, Irbis37, Spz e See Maw), al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma e i biglietti sono in vendita.

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Guarda Noisey Personal: Izi

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Izi ha avuto una vita complicata. I suoi genitori si sono separati quando era piccolo e da allora combatte con traumi, fantasmi e una malattia che ha segnato il suo percorso: il diabete. Eppure, combattendo con questi problemi, ha trovato una forza profonda e intima nel rap e nella poesia, che sono diventati la sua carriera.

Il suo ultimo album Aletheia è una lezione di maturità per la sua generazione, un disco che nasce da un risveglio improvviso ed esplora i suoi ricordi per trovare un senso nel disordine.

Abbiamo ospitato Izi nella redazione di Noisey per farci raccontare la storia che lo ha portato fin qua.

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Non siamo "tamarri", siamo liberi: al Kappa FuturFestival di Torino ho ritrovato me stesso

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Prima di scrivere questo articolo stavo leggendo un pezzo su come il diventare “virali” sui social stia influenzando il mercato musicale e i dj producer, e come abbia portato gli ultimi ad adattare la propria musica alla piattaforma e al pubblico. Per esempio, c’era questo tipo che si è rifatto al successo-meme di “Old Town Road” di Lil Nas X e si è praticamente inventato prima un meme che fosse perfetto per TikTok, e poi il pezzo vero e proprio. Risultato: famoso.

Adesso, non voglio dire che la musica debba essere schiava dei numeri o pensata perché si diventi delle persone molto importanti—per quello ci sono i follower taiwanesi. Però questo è il mondo in cui viviamo, e non può non influenzare una generazione che adesso gode di opportunità praticamente infinite per comporre, e migliaia di vie per cominciare da zero partendo da meno uno.

Sono appena tornato dal Kappa FuturFestival, al quale sono stato invitato da Pioneer DJ (partner tecnico ufficiale dell’evento per il terzo anno consecutivo, e i cui prodotti vengono utilizzati su tutti i palchi del festival) e penso a tutte queste cose. In due giorni ho incrociato migliaia di persone da qualsiasi angolo del mondo—hanno staccato oltre 60mila biglietti—e ho visto da vicino dj davvero importanti al lavoro coi loro tic e la loro perizia. Il festival è alla settima edizione e si tiene in un parco di Torino molto famoso e molto instagrammabile: si chiama Parco Dora ed è un’ex area industriale molto estesa che ancora adesso porta i segni di questo passaggio. Associato alla techno e all’elettronica della line up l’effetto è ovvio ma notevole.

kappa futur festival torino

Scelgo di seguire più set possibili spostandomi tra i quattro palchi ma tenendo bene in mente che l’obiettivo primigenio della trasferta, alla fine della giornata 1, è vedere Carl Cox dal vivo, almeno per una volta, e rendere omaggio al me adolescente che voleva fare qualcosa di simile nella vita ma non c’ha mai voluto credere troppo.

In giro la gente è presa bene, i pompieri quasi contenti rinfrescano la folla con gli idranti e i vialoni post-industriali del parco si riempiono dei vari tipi di utenza da festival del genere. Ci sono tanti, tanti ragazzi inglesi con le magliette della Premier League e ragazze inglesi vestite fluo; ci sono i “pro” italiani a Torino come ennesima tappa di un più lungo pellegrinaggio del clubbing tra la Riviera e la provincia di Brescia; ci sono quelli che sono lì e sticazzi e quindi ballano; ci sono i superstiti degli anni Novanta evidentemente arrivati per strappare ancora un po’ di divertimento a questa vita, perché tanto perché non dovrebbero? Ci sta.

Uno di questi mi ferma per raccontarmi spontaneamente la sua esperienza e darmi tanti cinque. Ha verosimilmente una cinquantina d’anni ed è vistosamente attratto dalla mia maglia dello Space di Ibiza (mai stato, me l’hanno regalata): “27 anni… Ogni cazzo d’estate allo Space per 27 cazzo di anni! Cazzo, dammi qui!” e mi batte di nuovo la mano. “27 anni! Abbiamo fatto la storia cazzo.” Manuel è decisamente più in linea con l’anagrafica (Under 28? Under 25?). È portoghese, con la barba rossa, e mi dice che non c’era mai stato, che manco sapeva che esistesse, ma che l’anno prossimo sarà di nuovo lì. “I didn’t expect all this”.

kappa futurfestival torino
Fotografia dell'autore

Li lascio, guardo questa folla interminabile e basculante che balla e ragiono: ma dove sono di solito questi? Quali sono le loro pagine Facebook di riferimento? Quali sono gli account Instagram a base di meme che di solito seguono? Come fanno a sapere chi c’è in consolle? Tutte domande con risposte potenziali che sicuramente non conosco o che forse non ho mai cercato.

Da adolescente ero mega contento quando, tipo, Albertino difendeva la categoria di noi che ascoltavamo la musica house, la musica techno, la musica dance, dicendo che non eravamo tutti delle “lattine vuote”. Che avevamo persino cervello e sentimenti, anche se eravamo appena pubescenti e alle cinque del pomeriggio registravamo “Vitamina H” in cassetta dalla radio (che ora che lo rileggo sembra il nome di un gruppo Facebook nostalgico). Quando tutto questo sembrava un mondo intollerabile e tamarro sia per chi non accettava culture e controculture diverse, che per chi non accettava culture, punto.

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Insomma comunque adesso ho superato i 30 anni, faccio musica “elettronica” da quando ne avevo 12 (ho cominciato con un videogioco per la Play che si chiamava “Music”), ho letteralmente comprato dei software con risparmi e paghette, imparato offline, persino vinto un autografo di Molella e un passaggio in radio. Poi forse me ne sono dimenticato e ricordato a intervalli irregolari. Ecco, tutto questo per dire che adesso quando vedo un giovanissimo spaccare con la sua musica su Soundcloud—o TikTok, o che so io—rosico un po’ perché forse ora è più “facile”, ma passa subito. Basta davvero poco per provarci, considerato quanto costa. Ed è giusto così, così com’è adesso, non com’era prima.

Nella lounge di Pioneer DJ del Festival provo prima un caschetto VR col quale, una volta indossato, sono esattamente dietro una consolle e con due stick posso letteralmente scegliere delle canzoni e mixare e tutto. Poi IRL provo lo Squid, uno dei nuovi prodotti per comporre, campionare e sequenziare live. Perché da un po’ il dj è anche il performer, e il producer spesso viene prima di chi presta la voce. Abbiamo migliorato una specie.

Penso a tutto questo mentre ascolto di seguito i set di Dj Nobu, Boyz Noise, Solomun. Amelie Lens è una delle principali esponenti della nuova scuola techno europea e salta da un deck all’altro con un set forse ancora più moderno degli altri, con più ironia su tasti e manopole, drop meno impazienti e una selezione bella cattiva—non senza saluti e baci per le vecchie divinità acid. Suona prima di Carl Cox, che la congeda endorsandola pesantemente e abbracciandola un paio di volte.

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Carl Cox invece è quello degli essential mix di fine anni Novanta che giravano nelle cassette che ci prestavamo alle Medie, e che poi passavamo all’unico amico col masterizzatore che le ripassava in digitale e le rendeva cd — ciao Postale, reato prescritto. È pur sempre quello della trimurti con Sven Väth e Paul Van Dyk, e rappresenta ancora oggi il filo con la Storia del genere, dando una memoria più lunga a una cultura che sì, alla fine è relativamente nuova, e che sì, viene ancora pensata come uno scaffale di lattine vuote.

Osservo come prepara tutto, quando cadenza il sorso di cuba e l’arringa alla folla col segnale del crimine (“Oh yes... Oh yes...”), per non-so-quante-mila persone prese bene. Ci sono striscioni e cartelloni, qualcuno dalla prima fila lo chiama continuamente, disperato. “Caarl, Caarl, Caarl, Caaarl”. Carl Cox ha 56 anni, ed è in circolazione da più tempo lui come dj che io come me stesso. Punta l’indice a destra e sinistra senza pensare se a Berlino i dj vestiti di nero fanno così, se può apparire cringe. Usa pochissimo le cuffie—dei cuffioni old school—e per lo più per scrupolo.

Suona su quattro piatti di cui uno è anche un sampler. Lavora a memoria e lo show è uno show, anche in tre metri quadri. A mezzanotte lo costringono a staccare e stacca sudato e contento come se avesse scolpito una Venere in pubblico in un tempo ristrettissimo. Chiude, com’è consuetudine, con qualcosa di melodico per lasciare un po’ di persistenza in bocca. Tipo gomme alla clorofilla.

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Negli ultimi decenni la dance, e con lei tutto quello che ci sta dentro, è cambiata radicalmente ed è rimasta contemporaneamente sempre la stessa. A volte è finita nel pop, a volte ne è uscita. Una parte è salita sul palco del FestivalBar negli anni Novanta, un’altra è rimasta chiusa nel Cocoricò, un’altra ancora s’è addirittura ritrovata nei servizi di Pomeriggio Cinque sotto forma di EDM. A un certo punto nei club dei primi duemila è stata persino sostituita dalle chitarre. Poi sono morte le chitarre, dicono: la dance era ancora lì, a preparare la resistenza contro l’espansione di trap, grime, reggaeton. Adesso la trovi anche nei centri sociali. Devi cercare, è sempre stato così.

Me ne vado pensando che non bisogna lasciarsi dire che quello che si ascolta è stupido, né che la si sta ballando in modo stupido, o che quella che vi piacerebbe comporre è musica tamarra e stupida. Pensatela già buona per i meme, o mega complessa, o inascoltabile, o siate Carl Cox a 12 anni. Abusate di Chicago house, o techno di Detroit, o pop coreano. Fate il cazzo che volete.

Foto per gentile concessione di Pioneer DJ tranne ove diversamente indicato.

Vincenzo è su Instagram ed è DJ Jack Russell.

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