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Aphex Twin va oltre la musica

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Club to Club Festival torna anche nel 2018. Abbiamo deciso di presentarlo con quattro articoli che raccontano quattro dei migliori artisti del cartellone di quest'anno. Abbiamo cominciato con Blood Orange e le sue tante identità. Continuiamo con l'artista più atteso di questa edizione, Aphex Twin, che si esibirà sabato 3 novembre. I biglietti sono già in vendita.

Non si può scrivere compiutamente di Aphex Twin. Un sacco di gente ci prova, magari va anche vicino a riuscirci, ma lo scarto tra la resa del lavoro di Richard David James in parole e quello che davvero fa è incolmabile, nel modo più assoluto. È cercare di confrontarsi con un uomo che ormai quasi trent’anni fa prese la musica elettronica e la rivoltò come un calzino salvo poi decidere nel corso dei decenni che il calzino non è un indumento di cui ha più bisogno, ma che creare indumenti fuori dalla comprensione umana contemporanea sarebbe stato molto più divertente.

Ora come ora, purtroppo, la nostra limitatezza ci impedisce di comprendere appieno il lavoro di RJD. E lui lo sa bene, ne è pienamente consapevole, tanto che dopo quattordici anni di silenzio decise di pubblicare Syro, un album tutto sommato facile, nonostante una mole di sperimentazioni realizzate con MIDI robot e tenute chiuse in un cassetto. "Quel materiale è probabilmente meglio - o almeno, io lo preferisco a quest’album [Syro], ma non penso sia altrettanto accessibile. È più unico. Questo è più piacevole da ascoltare, ma per me non è chissà quale novità. Magari la composizione è un po’ cambiata, ma non ci sono next-level beats. Tutto il resto del materiale, piuttosto indefinibile, è lì che aspetta”, confessò in un’inaspettatamente esaustiva intervista.

In quell'occasione disse anche che se ascolti un accordo in do maggiore con temperamento equabile il tuo cervello lo accetta, perché ne ha già sentiti a milioni ma che per riconfigurare il tuo cervello devi adottare degli schemi differenti, e che lui prova a farlo attraverso la musica. E James ha preso questo concetto in modo molto serio, ci crede davvero un sacco, perché partendo dalla musica ha fatto un quantitativo di cose che al confronto potrebbero far impallidire quel supereroe di Bruce Dickinson. Ho provato a mettere insieme un po' di Aphex Twin oltre la musica, partendo dal presupposto che con tutta probabilità, vista la sua riservatezza, le cose più divertenti e assurde della vita di Richard David James sono note soltanto a Richard David James.

aphex twin richard d james album
La copertina del Richard D. James Album, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Per prima cosa, è evidente come Aphex Twin sia estremamente affascinato dallo studio del suono e dell'associazione di questo a immagini. Nella sua perenne e infinita esplorazione in questo senso, una pietra angolare è la passione per la sua faccia.

Questo curioso atteggiamento nei confronti della propria figura iniziò sulla copertina del suo quarto album, ...I Care Because You Do (1995), dove comparve per la prima volta una versione piuttosto inquietante del suo sorrisone. L’album iniziava a distaccarsi sensibilmente dalle soluzioni ambient/techno che lui stesso aveva inventato (assieme agli Autechre) solo pochi anni prima, con l’incorporamento qua e là di suoni molto più duri e graffiati, suggestioni drum’n’bass e richiami industriali, e James pensò bene di accentuare il contrasto con il suo genere di riferimento (comunque ancora molto presente nell’album) piazzando un autoritratto deforme in copertina. Il tutto nacque, a quanto pare, da un’idea dello stesso James poi sviluppata all’interno della comune che era il suo appartamento dell’epoca, condiviso con Global Goon e Johnny Clayton, il grafico di casa Warp. L’anno successivo, il Richard D. James Album portò questo connubio all’estremo, e la copertina rimane ad oggi una delle più inquietanti mai viste: il volto di James, ora completamente sfigurato, è ancora più vicino, il sorriso sottilmente inquietante distorto in un ghigno malvagio cui è rimasto molto poco di umano.

Tuttavia fino ad allora si parlava di immagini statiche in cui il disagio era provocato più da una percezione latente che non da qualcosa di reale. Ed è qui che entrò in gioco la collaborazione con il regista Chris Cunningham, eroe dell’underground con cui James condivide l’amore per le interviste. Cunningham, che tra le altre cose ha girato “All Is Full Of Love” di Björk (con cui ha fatto incetta di premi, riconoscimenti e menzioni critiche), è la mente malata dietro la macchina da presa in “Come To Daddy” (1997) e “Windowlicker” (1999), due dei videoclip più disturbanti e d’impatto che siano mai stati girati. Il faccione deformato di Aphex è protagonista indiscusso: nel primo grazie all’esercito di bambini (nani?) malefici che se la prendono coi passanti, nel secondo grazie all’esercito di ballerine (prostitute?) altrettanto poco raccomandabili che twerkano beate davanti ai due sfigati più sboccati della musica.

aphex twin windowlicker
La copertina del Windowlicker EP, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Di lì a due anni, RDJ sarebbe sparito. Dopo la pubblicazione di Drukqs, quasi due ore di ordinatissimo disordine elettronico, il faccione di Aphex Twin non avrebbe più avuto modo di comparire in pubblico. Dal 2001 al 2014, per quanto James abbia continuato a comporre e produrre ed esibirsi più o meno sporadicamente (o più o meno dichiaratamente), un immoto silenzio ha coperto le attività dell’Irlandese.

Nonostante ciò la vena creativa di Richard doveva trovare qualche sfogo e, coerentemente con il proprio percorso, Aphex ha sperimentato ancora. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto nientemeno che un’orchestra in remoto. Venticinque musicisti nel primo atto, un pianoforte a coda utilizzato come pendolo nel secondo e un omaggio a Steve Reich nel terzo. D’altronde, in un’epoca in cui l’immagine quando legata alla musica perde di potenza a causa della digitalizzazione di quest’ultima, cosa c’è di più forte di un’installazione, cosa c’è di più assurdo che vedere un pianoforte che ti dimostra l’effetto Doppler suonandoti davanti oscillando di qua e di là? Certo, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando saliva sul palco per sdraiarsi, in tuta, a guardare gente travestita da orso che si prendeva a manate (e anche da quando MTV concedeva spazio ad artisti del genere), ma è anche l'industria musicale stessa ad essere profondamente diversa.

E James a questa, pur senza piegarsi mai, si adatta in maniera sempre diversa e intelligente: il mondo della musica è terrorizzato dall’internet, gli editori ce l’hanno con la digitalizzazione e tutto il resto? E lui annuncia Syro su una pagina .onion, sul deep web. Sbuca la synthwave e tutti sembrano riscoprire i suoni bombati degli anni ‘80? RJD pubblica Cheetah, un EP composto e registrato soltanto usando hardware fuori produzione di quegli anni, tra l’altro ampiamente riconosciuto come “il sintetizzatore più fastidiosamente complicato del pianeta”, ovviamente scimmiottando la grafica retrò con una carriolata di riferimenti nerd. E oggi, che il dibattito sull'intelligenza artificiale e sull'automazione è entrato prepotentemente nella quotidianità o quasi, se ne esce con Collapse, con un video ancora una volta discretamente d’impatto: nel senso che magari non ti fa venire gli incubi per un mese, ma sicuramente ti fotte il cervello.

Forse, tra venti, trenta o cinquant’anni, i nostri figli o i loro figli potranno ascoltare un pezzo che si chiama “ΔMi−1 = −αΣn=1NDi[n][Σj∈C[i]Fji[n − 1] +Fexti[n−1]]” ricordando con calore quella volta che un irlandese trapiantato in Inghilterra infilò una propria foto nello spettrogramma di una canzone e su cui addirittura la BBC registrò un audio documentario. Noi normodotati oggi possiamo solo accontentarci di ridere al pensiero che Aphex Twin abbia un piccolo veicolo militare in giardino (non proprio un carro armato, ma comunque rispettabile), che racconti di aver comprato un sottomarino e che in generale abbia una grande passione per il trolling. Il che dà solo credito a quella volta in cui disse: “Se non avessi fatto il musicista? Sarei finito in galera per hacking”.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Kanye West ha spiegato perché sta dalla parte di Donald Trump

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Lo scorso 11 settembre Kanye West ha riaperto il suo profilo Instagram. Nel giro di un mese ha postato disegnini dei suoi ospiti in studio, buffi diagrammi, fotografie di ballerini, una pagina del dizionario, conversazioni private e ha annunciato un nuovo album, Yandhi, che poi non è uscito. Insomma, un classico Kanye-sui-social, impulsivo e piacevolmente disordinato.

Tredici ore fa, poco dopo essersi esibito al celebre programma televisivo Saturday Night Live, Kanye ha postato una fotografia che sta facendo molto discutere. Non tanto per il suo contenuto - Ye su un aereo privato, gli occhi coperti dalle curve della visiera del cappellino pro-Trump che indossa - quanto per la didascalia che la accompagna:

"Questo [cappello] rappresenta il bene, un'America di nuovo intera. Non esporteremo più posti di lavoro in altri paesi. Costruiremo fabbriche qua in America e creeremo lavoro. Daremo posti di lavoro a tutti quelli che libereremo dalle prigioni quando avremo abolito il tredicesimo emendamento. È un messaggio che mando con amore".

Il tredicesimo emendamento della costituzione americana è quello che abolì la schiavitù e il lavoro forzato. Le politiche protezioniste sono una parte fondamentale all'interno della visione di Trump, che ha convinto il proprio elettorato parlando di carbone (definendo tra l'altro il cambiamento climatico "una stronzata") e promettendo di penalizzare le aziende che esportavano posti di lavoro.

Non è la prima volta che Kanye West esprime il suo apprezzamento per il presidente Donald Trump e le sue politiche. Kanye andò a trovare Trump poco dopo la sua elezione, mentre si era temporaneamente ritirato dalle scene. "Non dovete andare d'accordo con Trump ma la massa non può impedirmi di volergli bene", aveva twittato ad aprile 2018, "siamo entrambi energia di drago. È mio fratello. Voglio bene a tutti. Non sono d'accordo con tutto ciò che la gente fa. È questo che ci rende individui. E abbiamo il diritto di avere un pensiero indipendente."

Kanye aveva poi postato un selfie con il classico cappellino rosso con la scritta "Make America Great Again", principale slogan della campagna elettorale di Trump. Nei mesi successivi sua moglie Kim Kardashian è andata a trovare Trump per convincerlo a dare la grazia a una donna a cui era stato dato l'ergastolo per un reato non violento come lo spaccio di marijuana. Kanye ha poi pubblicato un nuovo album, ye, in cui ha parlato della sua salute mentale e dell'impatto che questa aveva avuto sulla sua vita, la sua famiglia e la sua idea di mondo: quello in cui "la schiavitù era una scelta", come ha dichiarato causando una forte reazione negativa.

Diverse figure pubbliche avevano già parlato con Kanye chiedendogli di ripensare al suo supporto per Trump, tra cui i suoi amici e collaboratori Chance The Rapper e John Legend. Questa nuova uscita di Kanye ha però generato più rumore delle precedenti, soprattutto per la risposta che Lana Del Rey gli ha dato:

"L'elezione di Trump a presidente è stata una sconfitta per il nostro paese ma il supporto che gli dai è una sconfitta per la cultura. Posso solo presumere che ti rivedi nella sua personalità, su qualche livello. Manie di grandezza, enormi problemi di narcisismo - cose di cui non sarebbe neanche giusto parlare se non si trattasse dell'uomo che guida il nostro paese. Se pensi che non ci sia problemi a supportare un uomo che crede che sia ok prendere una donna per la figa solo perché è famoso allora hai bisogno che qualcuno ti faccia ricredere, proprio come lui. È una cosa che moltissimi narcisisti non capiranno mai, dato che non c'è una struttura di supporto che li aiuti."

Un'altra risposta è arrivata dall'attore e regista Chris Evans: "Non c'è niente che mi fa arrabbiare di più che dover parlare con una persona che non conosce la storia, non legge libri e cela la propria miopia sotto un'idea di virtù. Il livello di congetture impentinenti che ho sentito negli ultimi tempi non è solo frustrante, è retrogrado, non ha precedenti ed è assolutamente terrificante".

Kanye ha parlato di Trump anche dopo la sua esibizione a Saturday Night Live in un discorso al pubblico a telecamere spente, filmato in parte dal comico Chris Rock. "I neri vogliono sempre i democratici", ha detto; rispondendo a chi lo accusava di supportare un razzista, ha affermato "Se mi preoccupassi del razzismo me ne sarei già andato dagli Stati Uniti".

Elia è su Instagram.

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Recensione: MHD - 19

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Sulla copertina del suo nuovo e secondo album 19 MHD si staglia contro una savana evidenziata dalla luce dell'inizio o della fine del giorno. In mano ha una corona, di fronte un leone, addosso una maglia da calcio: tre simboli della sua fulminea ascesa alla fama, sei mesi di video che hanno generato centinaia di milioni di views. Come da consuetudine della nostra epoca, anche MHD aveva scelto di serializzare le sue uscite sotto un macro-titolo che ne arricchisse il significato e ne aumentasse il peso specifico. E così era nata quella che chiamiamo "Afro Trap", cioè delle strofe rappate con trasporto su ritmi irregolari di origine africana e beat belli quadrati di scuola EDM colonialista alla Major Lazer.

Non c'erano né lo spirito collettivo dell'afrobeat di Fela Kuti né la tagliente leggerezza della trap nella sua concezione più pura, nella musica che ha reso famoso MHD. C'erano un rap impetuoso, un immaginario fatto di gloria e riscatto e l'ormai solido parallelismo tra giungla e periferia, tra l'Africa selvaggia e l'asfalto di Parigi. C'era la "Champions League" in cui giocano giovani ragazzi di periferia diventati re—Kylian Mbappé, Paul Pogba, Alexandre Lacazette—che festeggiano la loro "Puissance", la loro potenza, a forza di balletti. Uno lo aveva inventato anche lui, "Le mouv". Oggi non è raro vederlo dopo un gol del Paris Saint-Germain.

Questo 19 è il suo secondo album, pubblicato a due anni dal suo omonimo esordio. Allora MHD aveva colto l'occasione per spingere sul collegamento tra Francia e Africa: aveva inserito più elementi tradizionalmente africani all'interno dei suoi beat (le chitarre e i ritmi de "La Moula" e "A Kele Nta", le seconde linee della quieta "Wanyinyin") e aveva presentato al pubblico Occidentale artisti virtualmente sconosciuti come il congolese Fally Ipupa e la beninese Angélique Kidjo. Ben cinque pezzi erano però parte della serie "Afro Trap", un salvagente contro le onde del rischio.

Se MHD sembrava voler consolidare le fondamenta artistiche del suo autore, 19 comincia a costruire il palazzo della sua carriera. Il suo rap è sempre caratterizzato da una certa veemenza ma si fa più pacato e arrotondato, soprattutto nei ritornelli. "Encore", il pezzo che apre l'album, è un manifesto di quello che andrà a succedere per l'ora successiva: chitarre squillanti, percussioni da piede-che-batte, barre sull'importanza della famiglia e del gruppo, proclami pieni di gioia ed orgoglio, un'idea musicale che ripudia i confini.

"De Marseille à Paname tout le monde nous reconnait", canta MHD, assicurandosi che il contenuto del suo album confermi le sue parole. Le note di 19 sembrano provenire da angoli diversi del mondo, riflesse nello specchio dell'identità ibrida di un ragazzo di seconda generazione. "Bébé", con il cantante R&B francese Dadju, è un brano dancehall zarro senza la zarria che permette alle componenti soffici del beat di brillare e prendersi le luci del palcoscenico; se fosse cantata in spagnolo "Bella", con il nigeriano WizKid, potrebbe idealmente funzionare più che bene nell'America Latina di Ozuna. "Senseless Ting", con l'inglese Stefflon Don, è un mezzo reggaeton a galla tra la Normandia e l'Hampshire.

C'è solo una "Afro Trap", all'interno di 19, la decima e presumibilmente ultima parte della serie. Si chiama "Moula Gang" e non ha niente da invidiare ai nove capitoli precedenti: un ritornello martellante, un ritmo da pogo e frasi pensate per essere gridate da una massa umana sudata ("Tout est dans la technique, Seleção, joueur du Brésil"; "C'est plus un rrain-te, c'est un royaume"). È un buon modo per chiudere il cerchio sul primo MHD e suggerire l'inizio del secondo, sempre meno legato alle consuetudini del rap, capace di costruire ponti più che di traghettare suoni da una parte all'altra del mare.

MHD si esibirà dal vivo in concerto a Milano il 21 novembre ai Magazzini Generali.

19 è uscito il 19 settembre per Universal.

Ascolta 19 su Spotify:

Tracklist:

1. Intro Mansa (feat. Salif Keita)
2. Encore
3. Rouler
4. Bravo
5. Le temps (feat. Orelsan)
6. Papalé
7. Fuego
8. Bébé (feat. Dadju)
9. Interlude Trap 2
10. Oh la la
11. Bella (feat. WizKid)
12. Afro Trap, Pt. 10 (Moula Gang)
13. Samedi dimanche
14. Feeling
15. Aleo (feat. Yemi Alade)
16. Porsche Panamera (feat. Koys)
17. Moussa
18. Senseless Ting (feat. Stefflon Don)
19. XIX

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Guarda The People Versus Ketama126

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Il video di "Lucciole" di Ketama126 nuoce gravemente alla salute, quindi non potevamo non lasciare che fosse lui stesso a rispondere a chi ha deciso di odiarlo nei commenti su YouTube. Trovate il video qua sopra.

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Siamo stati al Tutto Molto Bello, torneo di calcio della musica italiana

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A Bologna e in Emilia è come se il gioco del pallone e la musica fossero in una sorta di relazione sentimentale. Dal Baggio di Cesare Cremonini all'Oriali di Ligabue (quello de "Una vita da mediano"), passando per lo stadio Mirabello degli Offlaga ("Piccola Storia Ultras") a quel pazzoide elenco urlato che fu "SS Napoli Football Players 1982-1989" dei Laghetto, attraversando tutti i generi di classe possibili, spesso e volentieri da queste parti c'è scappato il riferimento a qualche calciatore di turno. Ne conviene che il Tutto Molto Bello è una cosa particolarmente sentita. Ma facciamo un passo indietro.

Il Tutto Molto Bello è un torneo di calcetto delle etichette indipendenti. Lo organizzano realtà locali, si tiene a metà di Settembre nei dintorni del Locomotiv Club di Bologna, dopo lo storico Ponte Stalingrado, all’inizio della Bolognina e a due passi dallo storico centro sociale XM24. Ci sono poi tutte quelle attività da festivalino in un settembre ancora caldo, ma il vero punto a favore dell'evento è il fatto che andandoci puoi assistere a qualche più o meno noto musicista/addetto ai lavori perdere un litro di sudore e una coronaria. Poi molte delle 32 squadre partecipanti scendono in campo sfoggiando un'ammirevole forma, ma si può sempre sperare. La struttura è la stessa dei Mondiali o della Champions League: gironi da quattro in cui passano le prime due e via così verso gli ottavi.

La fascinazione nei confronti dello sport che anima il Tutto Molto Bello è fortemente legata agli anni novanta e ai primi duemila, quando il calcio era fatto di storie epiche cucite sulla pelle dei gregari e anti-eroi. I gironi non hanno nomi anonimi, tipo “Gruppo A”, ma sono dedicati a personaggi come Renè Higuita, Jonathan Bachini o Francesco Flachi.

Uno scatto premonitore di come andrà a finire la cosa.

È in questa atmosfera da piccolo mondo antico che ho seguito da tifoso le partite della Oh!Dear Records, piccola etichetta DIY, che si presentava al torneo per la prima volta e aveva scelto il nome di Oh! Dear Rangers. Mi piaceva l’idea di seguire una squadra di ragazzi che hanno preferito la costanza dell’aperitivo pre e post cena agli allenamenti settimanali, e a una dieta e uno stile di vita regolare. Molte squadre, tra cui il team Primavera Sound, La Fabbrica e Ikebana Records, scendono in campo per vincere. Insomma, seguire i Rangers è stato un po' come seguire il Costa Rica ai Mondiali.

Negli Oh! Dear Rangers ci sono elementi che gravitano attorno all’etichetta: chi per questioni di collaborazioni, chi per produzioni e chi per semplice amicizia. La loro prima partita è contro un'agenzia di booking romana, la OTR Live. La squadra è composta da Paolo e Francesco dei Bulgarelli, che fanno emo sullo stile dei Cap'n Jazz; Luigi, bassista degli Earthset; Mirko, l'invisibile tastierista dei Pasquetta Jihad; Davide, ovvero Garda1990, che presto uscirà col suo primo singolo; Roberto “Troddio”, marchigiano noto nella scena romana; Alessandro e Valerio Astio, membri degli Stocktones, arrivati da Perugia in compagnia dell’amico Giulio. Infine nei panni della Presidente c’è la proprietaria dell’etichetta, Tea, fornitrice delle casacche ufficiali del team.

Schiena sudata post-partita.

Negli OTR giocano invece alcuni membri della Bandabardò, il che mi fa pensare che l'era gloriosa del folk da matrikole socialiste (con annessa bottiglia di plastica contenente sangria fatta in appartamento) è ormai giunta al termine, e che è meglio darsi al calcio. Impressione confermata anche dalla sconfitta che i Rangers infliggono ai loro avversari, che crollano dopo un 2 a 1 sofferto nonostante stessero incontrando una squadra che, senza essersi mai allenata, nella totale improvvisazione tattica e fisica, è riuscita a scendere in campo con la dignità e la voglia di far male.

Certo, la vittoria è stata sofferta. Se davanti c’è quella confusione di chi, nei giorni precedenti, ha preferito la birra al Gatorade, tra i pali Giulio mostra un paio di parate sicure. Sulla maglia porta il numero e il nome di Mazzantini, omaggio all’Ivan che dal ‘99 al 2002 fu titolare dei grifoni.

Notare la perfezione della linea difensiva.

C’è aria di festa. Qualcuno si azzarda al "vinciamo la prossima e andiamo agli ottavi.” Ci sono una ventina di minuti di pausa tra una partita e l’altra. C’è chi si riposa come una lucertola accasciandosi al sole e chi, come Paolo, fumandosi una sigaretta con gesto zemaniano. O come la chiama lui - da buon sassarese - una zizza. Ne approfitto per offrire un caffè Borghetti a Valerio e farmi raccontare qualcosa. Aveva già partecipato al TMB qualche anno prima con il team Green Fog, vecchia etichetta legata ai Meganoidi.

Anni fa Valerio ha fondato Astio Collettivo, che è stato un movimento dell’underground perugino e ha fatto anche da etichetta (tra le produzioni compare anche il duo Autunno) oltre che da aggregatore artistico. Finita l’esperienza del collettivo, da qualche mese Valerio è ripartito da zero con il mondo della musica e suona il basso negli Stocktones.

Valerio e un Borghetti pre-partita.

Nell’area del campetto si presentano gli avversari successivi, i Garrincha All-Stars, squadra legata all’omonima etichetta bolognese che ha lanciato Lo Stato Sociale. Speravo di trovare Lodo in campo ma nel gruppo non riconosco volti noti. In compenso erano presenti Cimini, componenti dei Loren e di Edo e i Bucanieri. Gli All Stars hanno perso la loro prima partita contro il Collettivo HMCF e questa la devono vincere. Ai Rangers andrebbe bene anche un pareggio, ma vincere significherebbe giocarsi l'ultima del girone con gli organi spenti.

La partita, vista con gli occhi di un simpatizzante dei Rangers, fa male alle valvole cardiache. Nei primi minuti qualcosa funziona, anche bene. Mirko è alto e magro, imponente nel suo fisico da lontra killer. In avanti i polmoni collettivi di Garda1990 e Stocktones danno aria, mentre Luigi ha il passo del gregario e il volto di Paolo Montero. Valerio Astio segna l’1-0, un tiro di sinistro dalla tre quarti, complice anche una debolezza del portiere avversario. Ma con il passare dei minuti, la stanchezza prende il sopravvento tra le file dei Rangers. E salgono gli All-Stars, che cominciano a bersagliare la porta dei nostri come se fosse stato un diletto tra fucilieri della domenica mattina. Giulio è toccato dalla santità di Yashin, storico portiere dell’Unione Sovietica, tra colpi di reni e riflessi da giocatore professionista di Call of Duty.

A cinque minuti dalla fine arriva il pareggio, sull’unico errore del Mazzantini di provincia. I minuti passano e si spera a questo punto in un sudatissimo 1-1. Ma quello che succede sul finale ha il sapore amaro di Corea del Sud - Italia: calcio d'angolo calciato velocissimamente all'ultimo minuto e, con chissà che diavolo di prodezza e ingiustizia trigonometrica, la palla finisce dritta in porta. E a Il volto della confusione e di chi non ci vuole credere è stampato sulle facce bagnaticce dei Rangers e dei suoi (sei, penso) tifosi. Cosa cazzo è successo? L'arbitro fischia la fine e si torna al sole. La magia di venti minuti prima sembra già lontana, l’acido lattico comincia a farsi sentire dietro i calzettoni di cotone.

Contrasto sulla fascia durante Garrincha-Rangers.

L’atmosfera in attesa della terza partita non è rilassata, ma nemmeno drammatica. Anzi, ci sono sorrisi e battute. Direi che la malinconica serenità dei Rangers mi sembra di averla letta sui libri di storia: è quella che avevano i giovani della Grande Guerra prima di saltare fuori da una umida ma sicura trincea. Prima di scendere in campo i ragazzi si danno un paio di suggerimenti. Paolo deve andare sotto porta, attendere il pallone e tirare: "Solo così possiamo metterla dentro con ‘sta stanchezza", sento dire.

La partita dei Rangers contro il Collettivo HMCF dura qualche minuto e, nonostante le prodezze di Giulio, i miracoli non esistono. Il risultato finale è un 7-0 tennistico. Un genocidio perpetrato da un gruppo di ragazzi in una forma fisica invidiabile che corrono senza sudare. Insomma: Beppe, non si va a Berlino. Se tutto questo fosse stato un film di guerra e la squadra un gruppo di marinai di un sottomarino inglese, questo articolo si sarebbe chiamato L’affondamento del Ranger.

Una bella paglia pre-partita per il boss del Collettivo HMCF.

Ma ehi, è pur sempre festa. Per me finisce il ruolo da cronista del team, per i ragazzi in casacca rosa quello del milite ignoto. Dopo cinque minuti siamo a riprenderci fuori il bar Kinotto, una volta detto "il cinese", storico luogo per ubriacarsi nei post concerto del Locomotiv. C’è aria di festa paesana, bella gente. Mentre i Rangers, da professionisti della sconfitta, non rinunciano a una birra ordinata ai tavoli di legno fuori il Kinotto, io mi siedo con loro a cazzeggiare.

Mi metto ad ascoltare i concerti del pomeriggio: mi chiedo per mezz’ora chi sia il ragazzo che fa karaoke di Carl Brave e di Coez, i quali maledico come si maledicono i Pink Floyd quando ci si imbatte in una loro cover band paesana, ma solamente oggi scopro che il tizio in questione è tal Postino e fa musica, a quanto pare, originale. Successivamente arriva il turno di CRLN, che con un sound a là figlia illegittima dei Portishead/London Grammar funziona più che bene.

Abbandono i superstiti del Rangers, tra sorrisi si promettono un anno di allenamenti al parco, ed un secondo anno in una forma fisica e tattica migliore. La sera torniamo in zona per gli eventi notturni, ma ero talmente sbronzo che non ricordo granché. Molta gente, un concerto dei Pop X. C’è chi dice che il concerto non sia stato il massimo. Il sottoscritto si è divertito molto quando hanno fatto "Litfiga", se proprio volete saperlo. C’erano dei dj set dentro il Locomotiv ma, ehi, me li sono persi.

La finale.

L'articolo dovrebbe finire qui, perché questo doveva essere un pezzo dedicato all’impresa dei Rangers. Ma è anche vero che non potevamo esimerci dal presenziare la finale del torneo, anche perché Tutto Molto Bello si meritava di essere visitato anche il secondo giorno. E chi abbiamo trovato nell’ultima del torneo? Proprio loro, quelli del Collettivo HMCF, a giocarsela con il Primavera Sound FC, squadra degli organizzatori dell’omonimo festival. Gli spagnoli giocavano la finale con i pronostici dalla loro: erano i detentori dell’edizione precedente e avevano strappato un quarto posto a quella prima

La partita è appassionante: se da una parte il Primavera mette sul piatto piedi buoni e qualità, dall’altra il Collettivo mostra quello che era già evidente, ovvero prestanza fisica e gran velocità. Finisce 6-3 per il Collettivo. Gran festeggiamenti, uno striscione con tante firme (quel collettivo deve essere davvero grosso) e la sensibilità giusta nel discorso del Presidente della squadra, meritevole di aver dedicato la vittoria a Paradoz, artista locale venuto a mancare pochi mesi fa.

La cerimonia di premiazione.

È il minimo citare alcuni dei nomi del collettivo bolognese che, quest’anno, ha dimostrato di essere la corazzata che nessuno avrebbe voluto incontrare: Nicola Nesi (conosciuto per il duo After Crash), Tempesta dei Quai du Noise, Spagna e Bruno (futuro duo punk), Dede (il batterista dei Belize), trai pali Luca (Oscx2 e Cimini), e poi Fosco17 e Valatola (in uscita con un album). E nelle vesti del mister pare ci fosse tale Salmi “gioia e rivoluzione”.

Qui da Bologna è tutto, linea allo studio.

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Dentro l'enorme biblioteca musicale della Hyundai in Corea del Sud

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Uno dei momenti più memorabili della mia estate 2018 è stato un pranzo a base di gamberi rossi crudi in un piccolo cortile d’ombra del Sud in compagnia di Closet Yi e Naone, due ragazze sudcoreane che fanno tech-house a nome C'est Qui. In seguito ho cercato di unire i puntini delle informazioni che mi avevano dato sulla loro vita con l’aiuto di internet e ho così scoperto che Closet fa parte dello staff della Hyundai Card Music Library di Seoul, la cui esistenza stessa a dire il vero scoprivo in quello stesso istante.

La Hyundai Card Music Library è una biblioteca di musica, un edificio architettonicamente notevole nel quartiere hip di Hannam-dong, vicino a Itaewon. Al suo interno sono conservati rari—rarissimi—dischi in vinile e collezioni tematiche di musica dagli anni Cinquanta in poi. Nonostante ci sia un evidente cortocircuito nel fatto che sia aperta solo ai possessori della carta di credito Hyundai Card, tra cui come scherza Closet "non ci sono molti giovani DJ, inclusa me," la biblioteca riveste comunque un ruolo importante nella vita della città—e comunque se conosci qualcuno che ha la carta di credito puoi farti portare come ospite. "Molti clienti sono persone normali che vengono a volte in coppia, spesso con i genitori," mi spiega Closet. "Adoro che sia un posto dove puoi legare con la generazione precedente, condividere le esperienze grazie alla musica. Abbiamo anche un pubblico estremamente ‘cool’ che sta qui per ore ad ascoltare musica."

"La music library, a cui se ne aggiungono altre dedicate ai viaggi, al design e alla cucina, ha una collezione in continua crescita di dischi soul, jazz, rock, electro, world, colonne sonore, sperimentale e poi di musica coreana uscita dopo gli anni Cinquanta." Alla divisione per generi si unisce la divisione per decenni: la sezione jazz e soul comincia con gli anni Cinquanta e la sezione elettronica con gli anni Ottanta per poi ramificarsi in vari generi e stili. Al piano di sopra c’è poi una collezione di circa tremila libri e riviste collegati all’industria musicale, sia in coreano che in inglese. "I miei preferiti sono quelli di dance culture anni Ottanta-Novanta," spiega Closet. "Ma la parte migliore è la collezione di dischi rari, che è tenuta sotto chiave e a cui solo lo staff può accedere. Quando arrivano ogni mese, nella loro busta di plastica con etichetta dorata, per me è un’emozione già aprire lo scatolone per metterli in cassaforte."

Tra questi dischi, quelli che hanno segnato di più Closet negli ultimi tempi ci sono "l’artista egiziana Asmahan, che è scomparsa a soli vent’anni per un incidente d’auto e la cui storia e voce mi hanno molto impressionato. Poi abbiamo il raro originale di Sir Joe Quarterman con quel bellissimo scarabocchio sulla cover; il ‘test album’ del 1969 dei Led Zeppelin, e l'uscita promozionale del 1972 degli He 6 [gruppo psych coreano], con quel leggendario assolo di batteria.”

Il posto di Closet Yi nella biblioteca è piuttosto invidiabile. "Il mio lavoro è suonare per cinque ore di fila!" ride. "Io seleziono la musica da suonare in filodiffusione durante le ore di funzionamento della biblioteca. Mi alterno con altri DJ, ma in quanto unica ragazza che ascolta house e techno cerco di fare almeno una-due ore di elettronica a ogni turno. A volte penso di essere l’unica che tocca i dischi dei Kraftwerk, dei Metro Area e di Jeff Mills… Ma suono anche jazz, world, o musica sperimentale—a seconda del tema del mese. Per esempio il mese scorso il tema era ‘urban city wave’, perciò ho messo un sacco di city pop, AOR e new wave per ricreare quel mood urban-futuristico degli anni Ottanta.”

Oltre ai DJ con cui si alterna Closet ci sono i bibliotecari che aiutano gli avventori a trovare il disco che vogliono ascoltare e insegnano loro a usare i giradischi delle postazioni dedicate agli ascolti singoli. Gli acquisti sono invece portati avanti da un panel di direttori, ognuno con standard diversi ma tutti accomunati dal pensiero per cui i dischi non sono solo musica, ma veicolano cultura, linguaggio, storia e la vicenda personale dell’artista e della sua etichetta. “Ovviamente abbiamo i Beatles e i Rolling Stones, ma i direttori fanno anche arrivare moltissimi artisti non famosi ma musicalmente e culturalmente importanti.”

Tra i direttori c'è il leggendario collezionista coreano DJ Soulscape, fondatore della 360 Sounds Crew e del negozio di dischi Room360. È lui che ha assunto Closet lo scorso anno. "Ero a Los Angeles, mi ero appena laureata e stavo cercando di capire cosa fare nella vita, quando mi sono imbattuta in Soulscape. Poi, quando sono tornata a Seul, mi ha offerto questa opportunità," racconta. "Ogni volta che ci penso non riesco a credere alla mia fortuna. Ho scoperto un sacco di musica nuova, e ho un buon posto che mi consente di continuare a lavorare anche sulla mia musica. Dopo soli pochi mesi che lavoravo qui, i miei amici DJ nei club mi dicevano, ‘Hey, sai che sei molto più versatile ora? Il tuo modo di suonare è cambiato moltissimo!’” E in effetti, avendo sentito Closet suonare quest’estate, l’influenza delle sezioni fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, la passione per Hiroshi Sato e Haruomi Hosono, e l’attenzione alla sua crescente collezioni di dischi coreani come quelli di Kim Trio e di 015B sono delle chiavi importanti.

"Oltre alla parte di scoperta, penso di aver imparato molto sulla forma mentis e la passione di artisti che hanno deciso di fare questo per tutta la vita. Indipendentemente dal genere e dall’epoca, è davvero toccante quando leggi retrocopertine in cui parlano dei loro sogni, della società in cui vivono, delle loro storie d’amore. Mi ha dato la forza e la voglia di lavorare sodo e concentrarmi sulle mie cose."

Oltre alla crescita personale, la posizione di Closet le permette di influenzare i gusti d’ascolto di un pubblico diverso da quello dei locali dove suona di solito—soprattutto se consideriamo la questione “possessori carta di credito Hyundai”. "Sono orgogliosa dei dischi house e techno che metto su, è musica che ascoltano relativamente in pochi a Seul. Mi capita magari che arrivi un signore elegante a chiedermi che cosa sta ascoltando."Altri avventori, al contrario, vengono per sentire la musica che già conoscono. “Un tipo si è presentato per tre o quattro volte di fila durante il mio turno e mi ha chiesto di suonare tutti i dischi di Serge Gainsbourg in un certo ordine, e con un certo pitch. Poi si è messo davanti alla cassa ad ascoltarlo. Al tempo ho pensato che fosse una cosa un po’ strana, ma ora un po’ mi manca persino. Comunque, spero che vengano qui più giovani artisti e studenti e che godano della libreria. So che ovviamente la sottocultura non si insegna solo sui libri, ma è un gran posto per passare il tempo e lasciarsi ispirare.”

Mentre la città si apre a una club culture di cui proprio le C’Est Qui sono pioniere, la biblioteca gioca un ruolo fondamentale nel rivalutare musica relativamente sconosciuta o dimenticata. E le richieste che arrivano alla DJ funzionano da cartina tornasole dei trend; nei mesi scorsi, per esempio, moltissimi ragazzi hanno chiesto dischi city pop giapponesi—proprio mentre Jesse You, Hasegawa Yohei e Tiger Disco introducevano queste sonorità nella scena clubbing coreana per poi penetrare anche nel K-pop. E, ovviamente, molti vogliono imparare a fare i DJ: solo che qui hanno la fortuna di avere a disposizione un corso breve con maestri d’eccezione come gli artisti di punta della scena di Seul, tra cui anche Closet, che "per esempio [gli insegna] perché e come il DJ usa due giradischi e un mixer.”

C'è poi un locale al piano interrato dell’edificio, l'Understate, che propone eventi e concerti ogni settimana. "C’è un buon equilibrio tra ospiti internazionali e artisti vecchia scuola coreani come Sumin, Shin Have Gyeong, e Kang San Ae e altri,” spiega Closet. "Lo staff a volte invita musicisti internazionali o artisti quando visitano Seul. A me piacerebbe portare qui Roman Flügel un giorno e mostrargli i suoi dischi!"

Per finire, ho chiesto a Closet di consigliarmi un po’ di musica tra i suoi preferiti del momento. “L'album doppio dei Metro Area è uno dei miei preferiti, e con una buona dose di fortuna l’ho trovato da Disc Union mentre visitavo Tokyo qualche mese fa. È semplice ma molto ben fatto, una vera bibbia della deep house. [Ultimamente] suono anche molti album degli Azymuth e di Caetano Veloso quando splende il sole. Bobbi Humphrey e Sade quando mi sento emotiva. A Guy Called Gerald, Alexander Robotnick e Theo Parrish quando sono annoiata. Oh, e "Never Gonna Stop Lovin’ You" di Byrne and Barnes è stata una delle mie tracce preferite dell’estate.”

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Che cosa ha detto Kanye West durante la sua nuova intervista

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Sabato notte Kanye West ha postato su Instagram un selfie in cui indossa un cappellino con scritto "Make America Great Again", slogan-simbolo della campagna elettorale di Donald Trump. Non era la prima volta che il rapper dimostrava il suo apprezzamento nei confronti dell'attuale presidente degli Stati Uniti, ma la didascalia di quella fotografia è diventata virale generando diverse critiche illustri, tra cui una lunga risposta di Lana Del Rey.

Kanye aveva scritto che il tredicesimo emendamento, quello che abolì la schiavitù, andava abolito in quanto causa delle scarse condizioni di vita dei carcerati negli Stati Uniti. In un tweet si era poi corretto, affermando di aver sbagliato verbo: non "abolish" ma "amend", non "abolire" ma "modificare". Kanye ha comunque riaffermato la sua opinione, sostenendo che il tredicesimo emendamento fosse "schiavitù mascherata".

Ieri Kanye è tornato da TMZ (cioè nella redazione in cui, poco prima della pubblicazione del suo ultimo album ye, aveva dichiarato che "la schiavitù è una scelta") per spiegarsi meglio e dare nuove informazioni sul suo nuovo album Yandhi, che sarebbe dovuto uscire proprio sabato.

"Mi sono sbagliato, volevo dire 'amend''", ha detto Kanye, "Ci sono persone pagate otto centesimi a settimana che lavorano per aziende private. Molte di queste sono persone al loro primo crimine. E molti di questi sono crimini non violenti. E inoltre non ci stiamo occupando della loro salute mentale, non gli stiamo offrendo terapie e, lo voglio dire, la maggior parte dei carcerati è lì per reagire alla situazione in cui si sono trovati".

Secondo Kanye non dovremmo "arrenderci" a Trump e dovremmo invece dimostrargli il nostro amore: "Per crescere devi sentirti amato. Devi percepire un certo amore, e che chi ha a che fare con te sia mosso da un amore, o che un gruppo di persone si muovano spinte dall'amore. Non si possono cominciare dialoghi mandandosi affanculo".

Yandhi ha invece una nuova data d'uscita: venerdì 23 novembre, il Black Friday. "Ci ho messo dentro dei suoni che non avete mai sentito, idee di cui non si parla", ha detto Kanye. "Ci sono pezzi che parlano di body shaming, di donne che vengono discriminate per il numero di persone con cui vanno a letto. È un vero e proprio album di Ye. Quei cinque che ho pubblicato negli ultimi mesi sono stati il processo di riabilitazione di un supereroe. Ora Ye l'alieno è tornato, non prende più medicine, si allena, respira aria fresca, pensa, fa, è se stesso". Ma non è tutto.

Kanye andrà infatti a terminare questo suo nuovo album in Africa: "Devo andarci per capire com'è veramente. Prendere una manciata di terra, stare lì, cucinare, cinque pasti al giorno per fare bene al metabolismo, avere i miei figli in studio, il microfono all'aperto così che anche i suoni della natura vengano registrati".

Inoltre, come già aveva dichiarato in passato, Kanye ha intenzione di candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Ma non nel 2020, per evitare di dover affrontare Trump; bensì nel 2024, come aveva detto a una radio di Chicago ad agosto. "Stavo dicendo a mio padre che volevo fare questa cosa, lui mi ha detto che ci sarebbero voluti un sacco di soldi. Io gli ho risposto che avremo tutti i soldi del mondo, quando mi candiderà. E allora non darò più risposte impetuose come sto facendo ora. Parlerò con degli esperti".

Infine West ha detto che sta cercando di portare alla Casa Bianca Colin Kaepernick, giocatore di football americano che si rifiutò di alzarsi per l'inno degli Stati Uniti in segno di protesta contro Trump ed è recentemente diventato il volto di una discussa ma efficace campagna pubblicitaria di Nike. Trump ha definito Kaepernick "un figlio di puttana" a un comizio in Alabama e Kanye vuole far sì che questa affermazione "venga rimossa", offrendosi come mediatore tra i due.

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Young Signorino si è sposato

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Con due storie su Instagram, Young Signorino ha annunciato al mondo che si è sposato con la sua ragazza. Di lei aveva parlato anche durante la nostra intervista, definendola la cosa più bella che gli era successa nell'ultimo anno: "Fino a maggio non avevo niente, era abbastanza tutto negativo, anche questa cosa del diventare famoso", aveva detto.

La fotografia degli anelli, via Instagram.

Nella prima storia c'è il momento del bacio, nella seconda invece le loro mani inanellate e la data di lunedì, primo ottobre 2018. Gli facciamo le nostre congratulazioni.

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Chi è Rosalía?

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Sant Esteve Sesrovires è un piccolo paesino catalano come tanti altri piccoli paesini catalani. Ha dei vigneti, una piccola chiesa, un sacco di colori caldi e un grande campo da golf. Non si trovano molte informazioni a proposito, se non che prende il nome da Santo Stefano e da un bosco di querce che lo circonda e che c'è una zona industriale che funziona molto bene. Sembra, a guardarne le fotografie, un posto proprio spagnolo: vuoto e silenzioso nell'ora più calda, avvinazzato e brulicante la sera. Ed è nelle sue strade che il flamenco, genere musicale spagnolo per eccellenza, è mutato per sopravvivere nelle orecchie degli spagnoli e del mondo.

Per arrivarci, dai luoghi in cui il flamenco è nato, ci vogliono circa 8 ore di macchina. L'Andalusia, la Murcia e l'Extremadura, le tre regioni a sud-ovest della Spagna dove mediterranei, mori, rom ed ebrei fecero sbattere contro le loro tradizioni musicali fino a spaccarle in componenti da riassemblare: il canto (cante), la chitarra (toque), il ballo (baile), i cori (jaleo), i battiti di mani (palmas) e gli schiocchi di dita (pitos). Messi insieme in qualche modo questi diventavano dei cantes, che tutti assieme—un vorticare di chitarre tristi e arrabbiate, di corpi mossi e ugole vibrate con passione e disperazione—vennero chiamati flamenco.

Screenshot dal video di "Malamente".

Rosalía aveva 13 anni quando sentì il flamenco per la prima volta uscire dalle casse delle macchine parcheggiate vicino alla sua scuola, a Sant Esteve Sesrovires. È uno di quei racconti d'infanzia che compaiono in ogni sua intervista, ma ci si può leggere dentro qualcosa su quello che quella ragazza avrebbe fatto, una volta cresciuta. Avrebbe reso il flamenco qualcosa di urbano e contemporaneo, trasportandolo dai palchi dei teatri gremiti di turisti nelle casse portatili dei ragazzini. Lo avrebbe sporcato di hip-hop, streetwear e coolness senza sradicarne le fondamenta.

A scoprirla fu Pepe Habichuela, grande chitarrista flamenco di tradizione zingara. "Canti come una vecchia", le disse, stupito che una ragazza così giovane riuscisse a cantare come se stesse cercando di restare aggrappata a una vita sul punto di andarsene. E così Rosalía diventò una cantaora. Il mondo del flamenco se ne sarebbe reso conto solo nel 2016, quando il chitarrista Alfredo Lagos la portò con sé a due importanti festival. Sempre quell'anno se ne sarebbe reso conto il mondo non-del flamenco, quando il rapper C. Tangana le chiese di cantare una strofa della sua "Antes de morirme".

Screenshot dal video di "Pienso en tu mirá".

Un piede nella tradizione, l'altro nella contemporaneità; chitarre e canti d'altri tempi e hip-hop, traje de flamenca e sneaker appena uscite, stradine di sassi e viali costellati di fabbriche: Rosalía era perfetta per diventare qualcuno e Universal le offrì subito un contratto. Il risultato, uscito l'anno scorso, si chiama Los Ángeles ed è un disco di flamenco contemporaneo che ha stranito parte dell'audience più tradizionalista. Voce, chitarra e pochissimo altro con una concessione all'inglese: il pezzo di chiusura, una cover del classico folk americano "I See A Darkness", canto di morte che arriva—forse una strizzata d'occhio alle parole del suo scopritore.

È però nell'aspetto visuale che si indovinava quello che Rosalía è oggi. Prendiamo il video di "De Plata", secondo pezzo del disco. Rosalía canta e si muove per le strade semi-vuote di una Los Angeles sospesa nel tempo, inquadrata con violenza da una camera che evidenzia i suoi movimenti sinuosi, i suoi lineamenti decisi. Veste giubbotti di pelle marrone e pellicce nere lucenti, porta scarpe di plastica trasparente, infradito con zeppe oversize. Beve un milkshake da una cannuccia, si staglia contro villette prefabbricate da sogno americano, danza di fronte a chiese urbane con enormi scritte al neon che ricordano i passanti del ruolo salvifico di Gesù.

Screenshot dal video di "De Plata".

Rosalía e i suoi videomaker—i ragazzi di Canada, da Barcellona, all'epoca già autori di piccoli capolavori visivi per i Tame Impala e i Battles—non hanno fatto altro che prendere una cosa vecchia e metterla in un nuovo contesto, caricandola di segni leggibili da una generazione che avrebbe perlopiù sbadigliato di fronte alla parola "flamenco". Entrambi avrebbero, di lì a poco, fatto un salto internazionale.

Dopo "De Plata", Canada ha curato video di giganti come The Weeknd, Beck e Lil Yachty. Rosalía ha invece pubblicato nel giro di cinque giorni, a maggio 2018, le due canzoni che hanno generato attorno a lei un fervore mediatico e artistico che la Spagna non conosceva da chissà quanto tempo. Prima "Brillo", un featuring con J Balvin, macinatore di miliardi di views con il suo reggaeton, ad affermare la propria appartenenza alla conquista mondiale della musica latina. E poi "Malamente (Cap.1: AUGURIO)", che possiamo considerare il primo pezzo della Rosalía attuale.

La corrida del video di "Malamente", screenshot da YouTube.

Palmas e pitos, battiti di mani e schiocchi di dita, compongono l'ossatura di "Malamente". Ma invece della chitarra ci sono dei synth, e il cante di Rosalía diventa l'elemento di un tessuto vocale composto da parti quasi-rappate, declamazioni, coretti e vocalizzi. Insomma, sembra di ascoltare l'R&B contemporaneo se fosse nato a Córdoba nel Cinquecento. Il video è un piccolo capolavoro. Mentre ragazzi scheletrici ballano in una palestra e si appoggiano a macchinoni modificati da processi di tuning, Rosalía e il suo corpo di ballo si muovono come se fossero sul palco di Beyoncé. Le loro figure compaiono in officine evidenziate da scintille, cabine di camion, su rimorchi e muletti. L'immagine perfetta per spiegarlo è quella che accompagna il punto in cui la voce di Rosalía si fa più vibrante, quando sceglie di affidarsi alla notte nonostante il consiglio di una zingara: una corrida con una motocicletta al posto del toro.

Artefici di questa metamorfosi visuale e sonora dell'elemento-flamenco in Rosalía sono El Guincho e Charm La'Donna: lui è uno storico musicista elettronico spagnolo che si è fatto le ossa collaborando con Björk, lei una ragazza-prodigio che a soli 17 anni è diventata la coreografa di fiducia di Kendrick Lamar. Sempre loro, insieme a Canada, hanno curato il secondo nuovo singolo di Rosalía, "PIENSO EN TU MIRÁ (Cap.3: Celos)", canzone d'amore sofferto intrisa di una coralità commovente, puntellata da ancora altri palmas e pitos che picchiettano contro l'orecchio come gocce di pioggia sul vetro.

Screenshot dal video di "Pienso en tu mirá".

L'inquadratura iniziale funge da ponte con "MALAMENTE": la figurina di una danzatrice di flamenco appesa al cruscotto di un camion, che oscilla insieme all'enorme macchinario a cui è attaccata per un filo. Omaccioni dalle braccia conserte appoggiano alle loro enormi motrici mentre le canotte bianche che indossano si macchiano di rosso: è la bala en el pecho, il proiettile nel petto del ritornello, che Rosalía si sente dentro quando vede lui. Forse è una delle figure incappucciate di nero che le mettono addosso gioielli di regina, saltellano con lei in stanze sfarzose come se fossero in un video trap; forse è uno degli uomini che le puntano contro fucili, mazze e macheti in un parcheggio buio.

I milioni di views generati da "MALAMENTE" e "PIENSO EN TU MIRÁ" hanno acceso su Rosalía i riflettori dei media musicali del mondo intero, giganti statunitensi come Billboard e Pitchfork compresi. Con lei hanno già lavorato Pharrell Williams e Arca, a testimoniare quanto la sua figura faccia incontrare mondi musicali e culturali lontanissimi. Il suo nuovo progetto El Mal Querer, che uscirà per Sony, andrà a completare l'opera suggerita dai suoi primi due singoli. Ogni canzone un capitolo dal titolo in maiuscolo, la proiezione di una scossa: "LAMENTO", "CLAUSURA", "LITURGIA", "ÉXTASIS".

L'origine del flamenco è incerta: il termine risale al diciottesimo secolo e solo negli ultimi duecento anni si è provato a capire senza grossi risultati quale sia stato il gamete da cui è nato questo rivoltarsi di sentimenti, chitarre e parti di corpi che si scontrano e piegano e muovono. Rosalía potrebbe invece dare alla storia del flamenco un nuovo punto di inizio: il suo libro immaginato, un romanzo anonimo del tredicesimo secolo portato ai nostri tempi. Il suo album, il 2 novembre 2018.

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Mahmood è la scommessa della scena urban italiana

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Incontro Mahmood nei bianchissimi uffici di VICE. Lui arriva con una tastiera e il supporto per la stessa, rimane affascinato da ciò che lo circonda e i primi cinque minuti della nostra chiacchierata sono su quanto sia bello l’ufficio e la location dell’intervista. Già questo aneddoto lo descrive a mio avviso molto bene.

Quando ci incontriamo, lui è reduce da un live per Radio2 a Roma ("Tra l’altro ho dimenticato il testo di una canzone sul palco e ho dovuto scriverne sul momento uno nuovo, praticamente”, mi racconta ridacchiando). La naturalezza con cui tira fuori le parole, sia in musica che in una conversazione informale è una caratteristica che descrive alla perfezione questo ragazzo che sta cercando di affermarsi percorrendo un sentiero impervio, almeno per quanto riguarda l'Italia: la volontà di non etichettare la propria musica in alcun modo.

Quello che ha fatto finora, c'è da dire, è perfettamente coerente con questa sua volontà. Una partecipazione a Sanremo Giovani e un featuring con Fabri Fibra non devono, infatti, per forza essere elementi che si escludono nella carriera di un artista. Cominciamo a parlare partendo dal suo nuovo EP Gioventù Bruciata, uscito venerdì scorso.

Noisey: Questa è una delle prime interviste a EP pubblicato, quindi magari possiamo iniziare a tirare le somme.
Mahmood: In realtà è uscito da pochissimo, ma questi primi giorni sono stati fondamentali per il riscontro della gente che già mi seguiva. Devo dire che i pezzi che sono piaciuti maggiormente sono quelli che mi aspettavo: il feat con Fibra e "Asia Occidente". Questo è un pezzo che ho voluto fare con un suono quasi “epocale”, anche perché a livello di testo dicevo delle cose a me molto care. Così ho pensato di sacrificare un po’ il lato fighetto della parte musicale, perché volevo che fosse imponente, specie nel ritornello.

Chi ti conosce oggi, sicuramente arriva o da Sanremo o da “Luna” con Fibra. Mi viene in mente un altro esempio, che è quello di Andrea Nardinocchi: era un cantante, che però gravitava in modo importante attorno al mondo rap. Generalizzando al massimo—ovviamente siete due persone e due casi diversi—tu ti senti un po’ nel limbo della non-definizione? Senti l’esigenza di scrollarti di dosso uno dei due mondi?
Sicuramente dopo il pezzo con Fibra molta gente ha iniziato ad ascoltarmi, apprezzando anche la musica che già avevo pubblicato. Io credo di fare pop. Se vogliamo essere più specifici possiamo dire urban pop, ma certamente non faccio rap. Un botto di gente però mi scrive che ascolta solo rap, ma si gasa con la mia musica. A me questo piace, probabilmente non voglio troppo scollarmi da questa cosa, perché comunque mi rappresenta molto il rap, io ho sempre ascoltato rap americano.

Sì, forse il problema è che storicamente non siamo molto in grado di approcciarci alla black music.
In Italia ti dicono sempre che se fai il soul non va, se fai qualcosa di black non va. Non so se sia davvero così. Io non mi sto troppo attaccando a un genere, ti dirò. Io faccio quello che mi viene, al 100%. Poi dopo cerco di canalizzare i pezzi che faccio in un genere. Poi faccio fatica a capire che genere ascolta chi mi segue. Ogni tanto vedo che ascolta musica pop italiana, ogni tanto gente che ascolta rap, ma anche un botto di gente che ascolta tanta musica internazionale, poca musica italiana. Questa roba mi fa un po’ strano.

Il problema del mancato attecchimento della black music in Italia è forse che manca anche un po’ il connubio naturale tra le varie culture. Maruego prima, Ghali poi fanno parte di una seconda generazione che finalmente si identifica con Milano. Tu anche fai parte di questo gruppo, se vogliamo: nell’ultimo brano dell’EP parli di Milano Sud. Nel rap forse l’ultimo grande esempio è "Ciny" di Sfera, poi si è persa questa cosa di descrivere la propria città… Tu sei molto legato a Milano?
Io a Milano sono nato e cresciuto, ci tengo tanto a questa città. Quando dico che Milano Sud sembra l’Africa, è perché voglio descrivere una realtà che vivo. Io sono un ragazzo italo-egiziano, con papà dell’Egitto e madre sarda, ma sono cresciuto a Milano, ho fatto il liceo qui, di egiziano mi rimane poco. Posso richiamare ogni tanto l’Africa, anche se mi guardi in faccia vedi benissimo che non ho la fisionomia italiana classica. Sicuramente richiamo tanto anche quel mondo, però io sono un ragazzo italiano. Io sono Milano.

Tu hai scritto "Nero Bali" di Elodie, Michele Bravi e Guè Pequeno. Ciò che ti vado a chiedere è molto banale, però è una curiosità mia: in cosa differisce scrivere un pezzo per altri rispetto a scriverlo per sé?
Io non credo tanto a chi dice che gli capita di scrivere pezzi per sé, ma che si accorge che su di sé non fittano benissimo e quindi lo propone ad altri. Se una cosa non funziona per me, volerlo far funzionare su qualcun altro e quindi imporre qualcosa che per te in primis non ha funzionato per 100% non sia vincente. Avevo scritto "Nero Bali" con Faini in studio, perché è più di un anno che sono stato firmato come autore. Quindi il pezzo era lì ed è stato provinato dopo che l’ho realizzato. Ci sono però varie casistiche su come scrivere solo a livello autoriale. Per esempio con Michele Bravi ci eravamo già sentiti dopo "Luna", perché gli era piaciuta e ci era venuta l’idea di fare qualcosa insieme. In quel caso ci siamo visti, in studio, abbiamo lavorato insieme all’idea di testo, poi io creo la struttura delle parole, la melodia. Questo è un confronto più diretto, che è anche più difficile. Difficile che un testo ti esca diretto, quindi magari ti esce un abbozzo di idea, ti confronti e l’artista ti frena, perché non è chiaro a nessuno dei due il concetto finale e l’embrione non esprime magari il pensiero di chi canta o simili. Nel caso di "Nero Bali" c’era invece il quadro più generale: il pezzo era finito, quindi magari cantato da me si capiva dove volessi parare.

Tra l’altro anche lì c’è del rap, tutto torna…
Se hai ascoltato il disco di Gué, Sinatra, ci sono anche lì. Ho lavorato con Elodie a "Sobrio", il ritornello l’ho scritto io.

Ecco che torna il rap, allora te lo chiedo. Come nasce la collaborazione con Fibra? Se devo dirti la verità mi sembra anche uno dei più distanti da te: ora che il rap sta diventando molto melodico e cantato tu sei andato a collaborare con uno dei più duri e puri.
In realtà io ho avuto la fortuna di conoscere a Sanremo Paola Zukar, la manager, che era lì con Clementino. Le era piaciuto il pezzo che avevo portato e mi aveva proposto di mantenere i contatti. E così è stato: tornati a Milano ha iniziato a girarmi dei beat vuoti chiedendomi di registrarci sopra delle melodie in fake English. Al primo appuntamento si presenta con Fibra, a sorpresa, e da lì abbiamo iniziato a parlare di collaborare. Io quell’estate ero in Sardegna e gli ho mandato un mio brano su un beat di Zef. Ho mandato loro il pezzo intero perché così loro scegliessero quale parte fosse la più “adatta”, ma a Fibra è piaciuto così tanto che non ha voluto toccarlo e ci ha aggiunto una strofa. Lui è una persona stra-umana, mi manda un botto di note vocali, ci tiene a tenersi in contatto. Ho collaborato con grandi artisti, ma lui è uno dei pochi umani al 100%. Non ne vedi tanti.

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La leggenda dei Behemoth

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“Sono sempre stato portato all’indipendenza, all’autonomia, al libero pensiero e alla libertà in generale. Satana è un simbolo molto forte di tutti questi valori, per me è stato molto naturale prendere le sue parti”. Parole che Adam Darski ha pronunciato ai microfoni del Guardian, uno dei quotidiani più liberal e allo stesso tempo rispettati della società occidentale, all’indomani dell’uscita di The Satanist, il disco che segnava il suo ritorno sui palchi di tutto il mondo dopo aver combattuto e sconfitto la leucemia. In così poco si riassumono tutti i concetti cardine che hanno fatto dei Behemoth uno dei pochi gruppi che negli ultimi venticinque anni sono riusciti ad uscire dalle ombre del metal estremo più underground e imporsi sul panorama internazionale come una rock band a tutto tondo, accettata e anzi voluta sui palchi di tutto il mondo nonostante un messaggio così fortemente sovversivo e provocatorio.

Oggi Nergal è riconosciuto più o meno in tutto il mondo, ma prima di aggiungere il nome di una divinità babilonese al proprio documento d’identità Adam Darski era un semplice ragazzo polacco con la testa dura come il granito che non voleva saperne di fare ciò che gli altri gli imponevano. Come tante altre storie del mondo del rock, anche questa iniziò per un profondo, purissimo desiderio di anticonformismo: Adam voleva fare di testa sua, e i capelloni che facevano un sacco di casino con la chitarra erano le figure giuste da prendere a esempio. “Sono un satanista, mi definisco un vero seguace di Satana (...), è un argomento molto personale ed è molto difficile da spiegare”, diceva a diciassette anni e con un inglese zoppicante in una vecchissima intervista. Dai diciassette ai quarantuno di sale in zucca ne ha messo tanto - su tutti, oggi Nergal condanna qualsiasi implicazione politica nella musica, soprattutto estremista, e non si sognerebbe mai di salutare Hendrik Möbus - ma il desiderio di scioccare l’interlocutore è rimasto assolutamente invariato.

Con l’andare degli anni e con la maturazione della band, Darski è andato assolutamente oltre, scalando una china molto ripida, raggiungendo le più alte vette di provocazione mai toccate. A differenziare i Behemoth dal resto della scena black metal, che certo non ha mai lesinato sulla provocazione, è la mancanza di qualsiasi atteggiamento punk e nichilista, in favore di un approccio via via sempre più pensato, più sofisticato e colto. Le prime associazioni che fai quando pensi al black metal sono ragazzini che non sanno bene cosa stanno facendo, la Norvegia, le stavkirke in fiamme, la cronaca nera. Certo, anche i Behemoth erano così ai tempi di From The Pagan Vastlands, ma quando i loro fratelli maggiori scandinavi per un motivo o per l’altro si sono fermati (di solito perché qualcuno ci lasciava la pelle o finiva al gabbio), la combriccola di Danzica ha pigiato fortissimo sull’acceleratore, si è reinventata, ha continuato a evolversi e a costruire il proprio mito, arrivando a consolidare una fanbase più unica che rara nel mondo del metal estremo.

Come è ovvio, una formazione che arriva dalla gavetta e che era partita come una delle tante band dedite a bestemmiare Dio, se riesce a “farcela” viene vista con sospetto, spesso con vera e propria invidia, da un sacco di gente, e infatti i Behemoth hanno una discreta schiera di detrattori. Questi tipici esemplari di “era-meglio-il-demo”, piccoli mangiatori di carogne particolarmente diffusi nel microclima metallaro, solitamente rifiutano il successo commerciale di qualsiasi band, tacciandola per ciò stesso di essersi venduta. Poco importa che questa band abbia sì venduto milioni di dischi e calcato i palchi dei festival di mezzo mondo, ma urlando “Samael be Thou my ally!” e facendosi letteralmente la galera per questo: comunque il primo demo era l’unica cosa buona che abbiano mai pubblicato.

Fortunatamente, al di là di queste voci fuori dal coro, il numero dei fan del gruppo polacco non accenna a diminuire. Sicuramente quello di Nergal è un personaggio oggi costruito a mestiere, che non perde occasione per mettersi in mostra, tra un account Instagram da un quarto di milione di follower e una comparsata a Radio Lombardia, altrettanto sicuramente l’istrionico frontman si è fatto un culo a capanna per arrivare dov’è ora e nessuno gli ha mai regalato niente, anzi. Se tanto mi dà tanto, nel caso specifico dei Behemoth il successo ha portato con sé anche un quantitativo inverecondo di problemi, che certo la band non avrebbe mai avuto se fosse rimasta a suonare negli scantinati maleodoranti cui il metal estremo è più abituato. Vale la pena fare un riassuntino di tutte le volte che qualcuno ha cercato di mettergli i bastoni tra le ruote.

Tanto per cominciare, non si può rimproverare ai Behemoth di non avere la faccia tosta: va bene prendersela con la Chiesa, ma fare a pezzi bibbie sul palco continua ad essere rischioso anche in tempi recenti, e farlo più o meno ad ogni concerto durante tutto un tour internazionale a supporto di un disco che si chiama The Apostasy è un po’ come cucirsi un bersaglio addosso. D’altronde, a Roma devono preoccuparsi dell’integrità della propria immagine, ed è decisamente più facile attaccare una rock band che non, boh, il Boston Globe, per cui ecco servita una bella citazione in giudizio davanti al tribunale polacco per offese al cristianesimo. Poco importava che il fatto fosse accaduto nel 2007 e che l’attore, il politico conservatore legato alla Chiesa cattolica Ryszard Nowak, si fosse svegliato con giusto quei tre anni di ritardo: dal 2010 al 2013 Nergal, Inferno, Orion e Seth hanno fatto avanti e indietro dalle aule di giustizia, arrivando addirittura a essere difesi da pareri dottrinali della Commissione Europea. Negli ultimi anni si sono perse le tracce della causa, che non ha più ricevuto attenzione mediatica, ma Darski in prigione non ci è finito, quindi c’è da sperare che si sia risolta nel migliore dei modi.

Questo fallimento deve aver fatto rosicare parecchio i conservatori polacchi, che giusto pochi mesi fa hanno nuovamente tentato di sabotare Nergal, questa volta usando come scusa il design scelto per una maglietta. Il partito di maggioranza Prawo i Sprawiedliwość (di cui il suddetto Nowak fa parte) ha accusato i Behemoth di oltraggio alla Polonia, poiché la maglietta “Republic Of The Unfaithful” rappresenta una rilettura dello stemma polacco che al governo proprio non è piaciuta. E sì, in Polonia una situazione del genere potrebbe configurare una fattispecie penale, o quantomeno illecita, segno che a quanto pare non siamo solo noi in Italia ad avere qualche problema con l'interpretazione delle leggi.

Oltre all’amore della classe politica di casa propria, i Behemoth hanno avuto delle piacevoli esperienze anche altrove: nel 2014, durante un tour a supporto di The Satanist in Russia, si ritrovarono nientemeno che in prigione per una questione burocratica legata ai visti, che puzzava moltissimo di problema ideologico. Fortunatamente per il gruppo, dopo un primo spavento, un appello online e una notte in una cella sporca di feci senza poter nemmeno andare in bagno, tutto si è risolto con una sanzione pecuniaria minima e… la deportazione dal Paese. Con tanti saluti al tour in Russia, annullato dopo appena quattro concerti dei tredici programmati.

Eppure neanche la burocrazia post-sovietica è stata il peggior problema che Darski ha dovuto affrontare, perché niente può essere paragonabile al calvario passato dal musicista tra il 2010 e il 2012: la leucemia. Nergal racconta molto del suo inferno privato nelle chiacchierate poi raccolte in un libro/intervista, ma è ovviamente impossibile dare l’idea di cosa significhi vivere una situazione del genere attraverso la carta stampata. L’impatto che la malattia ha avuto sul frontman polacco è evidente sotto tutti gli aspetti: dal suo aspetto fisico, oggi decisamente più minuto e asciutto rispetto a dieci o quindici anni fa, al suo approccio ai concerti (da brividi, la prima volta che rividi i Behemoth dopo il periodo di fermo, il trasporto con cui Nergal urlò dall’alto del palco “Feels great to be alive” prima di attaccare “Christians To The Lions”). E, indubbiamente, guardare la morte negli occhi ha influito sensibilmente anche nel rapporto che Darski con il proprio corpo. In ultimo, è la musica stessa dei Behemoth ad essere profondamente cambiata: il percorso di continua crescita che li ha portati dal black metal ad una forma estremamente concettuale di death/black dai testi estremamente complessi e interessanti, con gli ultimi due album ha fatto un netto passo avanti tra Evangelion, l’ultimo disco prima della malattia, e The Satanist, arrivato cinque anni dopo.

I Loved You At Your Darkest, l’undicesimo album in studio dei Behemoth, esce proprio questa settimana, ed è un’ulteriore stoccata a Dio e a tutti i suoi fedeli: un disco massiccio, ampio, pieno di spunti musicali e traboccante di riferimenti culturali. Come ogni nuovo disco dei Behemoth, anche questo sgomita per ricevere le attenzioni dei media conservatori con canzoni che si chiamano “God = Dog” (una citazione crowleyana, mi ha spiegato) e con trovate successive come il God = Dog Food, “la prima volta nella storia dell’umanità in cui una croce serve uno scopo”, e Nergal è di nuovo sulla cresta dell’onda, sempre in giro per qualche promo day, mostra o evento di sorta cui fare presenza. Essere una celebrità a tutto tondo è indubbiamente un successo personale dopo tanti anni di impegno e lavoro, ma anche un’ulteriore, piccola rivincita per essere stato cacciato dallo show televisivo dove faceva il giudice, l’edizione polacca di The Voice. Le ragioni dell’allontanamento? Che domande: aveva preso per il culo i preti.

I Behemoth saranno in concerto all'Alcatraz di Milano il 16 gennaio 2019. Acquista i biglietti su TicketOne.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Speranza è la nuova speranza del rap campano?

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Uno: cosa vuol dire spall a sott? Penso di essermi fatto un'idea, cioè qualcosa come giù la testa, ma non sono ancora sicuro al 100%, se qualcuno mi aiuta a risolvere l'arcano poi gli offro una Peroni.
EDIT: ero completamente fuori strada. Spall a sott è un modo di dire che viene urlato a Caserta quando viene alzata la statua di Sant'Anna durante le processioni.

Due: Speranza è un rapper casertano, ha una voce che Vincenzo Da Via Anfossi al confronto è un canarino e ad occhio e croce mi sembra parecchio incazzato. Il suo pezzo più condiviso su YouTube si chiama "Chiavt A Mammt" ed è una una cosa afrotrap il cui ritornello (accompagnato ad un balletto niente male) è letteralmente chiavt a mammt, per tutta una serie di ragioni che potete facilmente intuire dal dialetto.

Al di là di questa traccia-meme, il rap di Speranza è estremamente complesso e tecnico. Dopo aver superato un po' di diffidenza dovuta a un timbro vocale che al primo ascolto risulta improbabile, le sue canzoni mi hanno trasportato in un mondo fatto di epica criminale e fortissimo senso di appartenenza (qualche volta al quartiere, qualche volta al proprio giro di compari, qualche volta alla strada e via così). Oltre a queste tecnica invidiabile e la capacità di raccontare le sue rime su flow diversi, in "Sparalo" Speranza dimostra anche di essere capace di cantare, o almeno: più capace di tanti rapper che hanno iniziato a cantare ultimamente.

Non sono sicuro di condividere tutte le passioni di Speranza, ma riesco sicuramente a farmi trasportare in quel modo e vivere quelle storie per quel che sono, almeno per me che le ascolto a 1000 km di distanza: storie.

Non conosco la biografia di Speranza, ma nelle sue canzoni riesce a unire in modo ineccepibile dialetto casertano e francese, infilandoci di mezzo anche qualche parola in dialetto romanì, quindi è facile immaginare che le sue origini siano un mix di mondi diversi e lontani.

Quello che più mi affascina del rap e dell'immaginario di Speranza è quell'estetica troppo reale che si ritrova anche nei PNL, dalle magliette attillate alle tute Givova tutto è incredibilmente fuori da ogni corrente, ma perfettamente al suo posto.

Se nel vostro giro di amici volete essere quella persona che può dire "lo conosco da quando non era ancora famoso" questo è il momento giusto per iniziare a seguire Speranza.

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Recensione: Burial & Kode9 - Fabriclive100

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Mi aspettavo grandissime cose da questo mix. Forse già sbagliando: alla fine è pur sempre un mix, difficilmente avrebbe potuto essere l’album che avrebbe cambiato le sorti della musica contemporanea. Certo, sono tanti gli elementi che avevano contribuito a creare in me un grosso hype: in primis, ovviamente, il nome di Burial. Del quale peraltro dieci anni fa venne annunciato un DJ Kicks che poi non si è mai visto, altro elemento che aumentava le aspettative per questa uscita.

La partnership con Kode9 non è affatto sorprendente ma si tratta pur sempre di un altro genio della musica contemporanea, e inoltre questo è stato annunciato come il capitolo finale della storica serie dei Fabriclive - mix prodotti dal notissimo club londinese

(A scanso di equivoci, una precisazione: live non vuol dire che sono dei live, o mix registrati nel club. Le due collane prodotte dagli inglesi, Fabric e Fabriclive, si differenziano soltanto per il genere proposto: più legata a territori classicamente house e techno la prima, e più indirizzata verso altre sonorità la seconda.)

Dopo grandissima attesa finalmente il mix è arrivato. Ed è bello. È ovviamente estremamente ben fatto, super contemporaneo, molto footwork e pieno di ritmi spezzati come era lecito aspettarsi. Alcuni dei nomi più noti che include sono quelli di Cooly G, Luke Slater, Vladislav Delay, DJ Spinn, Mr Fingers, Sctratcha DVA, DJ Rashad, Ben Frost, Babyfather e RP Boo. A un certo punto fa capolino anche un signore del canto armonico come David Hykes. Ci sono un sacco di rumori, pistole, spari, esplosioni, vetri che si infrangono e quella schizofrenia che sembra rappresentare come non mai il suono di questi tempi, come accade da tempo su etichette come PAN, e grazie a artisti come M.E.S.H.

È un ottimo mix, però è soltanto un ottimo mix. Forse è colpa delle aspettative: non era lecito aspettarsi qualcosa di più, qualcosa che entrasse negli annali della musica di questi anni, e infatti così non è. Sarà che forse il segreto sulla tracklist poteva anche dare adito a speculazioni su “un sacco di inediti di Burial”, cosa già successa nel caso di artisti che nei loro Fabric hanno presentato molte cose nuove o in generale un lavoro basato su materiali propri, come Shackleton e Villalobos (non a caso tra gli episodi più memorabili della serie). Invece ci troviamo nelle orecchie niente di più che un ottimo mixato molto contemporaneo e ben fatto, piacevole e interessante.

Va bene così, però resta anche un vago retrogusto di occasione sprecata.

Per quanto mi riguarda però almeno un altro merito questo lavoro ce l’ha: mi ha fatto, come accade periodicamente da molti anni, riprecipitare nel tunnel di Burial. Averlo ascoltato mi ha fatto venire voglia di ritornare alle sue produzioni, i suoi due album e gli EP successivi, e perdermi in quel mare di suoni strani e evocativi, in quella malinconia aliena e piovosa, in quegli attimi di meraviglia. Di andarmi a rileggere quei soliti pochi materiali disponibili, quelli che raccontano le sue assurde modalità produttive (la televisione accesa, l’uso di un software grezzissimo, i campionamenti rubati da YouTube) e le sue fisse. Insomma ringrazio questo lavoro quantomeno per avermi fatto cominciare l’autunno, ancora una volta, nel segno di uno degli artisti più interessanti degli ultimi decenni, forse il più memorabile del nostro tempo.

Fabriclive 100 è uscito il 28 settembre per Fabric.

Acquista il mix in digitale, CD o vinile sul sito del Fabric.

TRACKLIST:
1. Untitled – Untitled
2. Klein – Hurry
3. Cooly G – Magnetic
4. Julz Da Deejay – Deaths Effect
5. Roman Rodney – Triple Beat
6. TLC Fam – Skim Sam (Dbn Dance)
7. Nazar – Konvoy
8. Lechuga Zafiro – Agua Y Puerta
9. Hyph11e – Black Pepper 炎 (Tzusing Remix)
10. Luke Slater – I Can Complete You
11. Virgin – B9
12. Nut-E-1 – Underwater Fireworks
13. David Hykes – Rainbow Voice
14. Jungle Buddha – Drug Me
15. Black Acid – Black Acid
16. Vladislav Delay – Otan Osaa
17. DJ Spinn – Make Me Hot
18. Mr Fingers – Spy (Kode9 Remix)
19. Scratcha DVA feat. Clara Le San – Pink 33 (DJ Phil Remix)
20. DJ Tre – A House Hybrid
21. TEDDMAN – Baby
22. DJ Rashad – Let It Go
23. ONTHEGROUND – Fallen
24. Intense – The Quickening
25. Genecom – Polyphonic Raid
26. Clementine – The Opening
27. Victim Rebirth – Metamesonyxtia Narkogyra
28. Friends Lovers & Family – The Lift
29. AK1200 feat. Junior Reid – Junior’s Tune (Digital Remix)
30. Okzharp & Manthe Ribane – Treasure Erasure
31. Ben Frost – Ionia (Jlin Remix)
32. DJ Taye – Nu Summer Shit / Babyfather – Prolific Deamons
33. Jacob’s Optical Stairway – Solar Feelings (Claude Young’s Kyoto Soul Dub)
34. Proc Fiskal – Dishwashing
35. DJ Chap – Brujeria
36. DJ Tre – A Hammond Jam
37. RP Boo – Wicked’Bu

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"Mona Lisa" di Lil Wayne e Kendrick Lamar è un capolavoro

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La strada che ha portato a Tha Carter V di Lil Wayne è stata lunga. L'uscita del disco è stata ostacolata da cause, riconciliazioni e altre cause, e quindi abbiamo potuto sentirlo ben sette anni dopo i primi teaser. Tra le 23 tracce dell’album (tante ma in questo caso va bene così, abbiamo già aspettato abbastanza), la più discussa e anche la più attesa è sicuramente la collaborazione tra Wayne e Kendrick Lamar, "Mona Lisa" prodotta da Onhel & Infamous. A un primo ascolto la traccia, anticipata inizialmente nel 2014 da quel disgraziato di Martin Shkreli, sembra non avere nessun tipo di ritornello ma essere solo una sequenza di barre e barre e altre barre. I due si alternano raccontando la storia di una donna che incastra il suo fidanzato e lo fa derubare. Ma la cosa davvero interessante della traccia è che rappresenta la perfetta sublimazione del rapporto tra i due rapper, dopo anni di omaggi di Lamar nei confronti di Wayne.

Lamar ha sempre parlato apertamente del suo amore profondo per il rapper di New Orleans. Lo cita direttamente nella celebre "Humble", quando dice “Soprano C, we like to keep it on a high note", un riferimento a una rima di Wayne nel mixtape Sorry 4 The Wait 2. Possiamo addirittura tornare indietro fino al 2008 quando Lamar (con lo pseudonimo di K.Dot) pubblicò C4, un mixtape contenente solo rilavorazioni di brani di Wayne, approvata da lui in persona. Il che era un po' imbarazzante, diciamolo, ma anche divertente: è bello, oggi, sentire un giovane Kendrick trarre ispirazione dalla cadenza e dai cambi di tono che sarebbero ben presto diventati il tratto di riconoscimento dei suoi versi rapidi e modulati. Kendrick era uno studente modello, un perfezionista che cercava di riprodurre rime e parole esattamente come quelle del suo idolo. Così, quando i due si sono incontrati per la prima volta nel 2014 su "Buy The World" di Mike Will Made-It è stato... deludente, diciamolo.

L'artwork di "Buy The World", cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify.

Sia chiaro, non c’è nulla che non va in "Buy The World". È un pezzo intriso di melodia e ha un ritornello memorabile. Lil Wayne è in ottima forma e appena aumenta il tempo dicendo "Lord, help us Lord, my bitch is beautiful, Helen of Troy" non si ferma più. Kendrick fa più o meno lo stesso: tiene alto il ritmo del flow e ci ficca dentro un bel po' di riferimenti al suo cazzo, specificando—come ha sempre fatto—che non è gratis. Ma il pezzo suona sconnesso ed è abbastanza palese che le strofe degli artisti siano state registrate separatamente e poi assemblate da Mike Will. "Buy The World" non era una vera collaborazione e non conteneva nulla della sintonia e degli scambi vocali acrobatici che ci aspetteremmo da Wayne e Kendrick. Ed è per questo che invece oggi "Mona Lisa" sembra un capolavoro, un'istantanea perfetta di due artisti eccentrici, ora allo stesso livello, che danno libero sfogo alla loro creatività.

Sebbene non ci siano certezze a riguardo sembra che "Mona Lisa" risalga al 2016, dato che nella sua strofa Kendrick cita l'oggi ritirato Kobe Bryant, chiamandolo con il suo soprannome "Black Mamba": "Chillin' with the Laker, on the floor, fourth quarter / Four minute on the clock, Black Mamba with the ball". Non è tanto una lezione di rap quanto un pezzo a metà tra il divertente e serioso, una celebrazione di quei toni vocali e di quegli attacchi che hanno definito la carriera di Lil Wayne rendendolo un artista enormemente influente.

L'artwork di Tha Carter V, cliccaci sopra per ascoltare "Mona Lisa" su Spotify.

Wayne inizia con un registro basso prima di lanciarsi in una raffica di versi in cui alza il tono fino a un punto di rottura, che tocca quando rappa "Turn that shit down and I scared the piss out of him / Piss a n***a off, put a gun to his frown." Da lì in poi abbassa il ritmo, conducendoci per mano fino al ritornello. È un pezzo pieno di autotune, in pieno stile Wayne-degli-anni-dieci. Lamar prende il testimone e porta avanti le strofe seguendo lo stesso schema, alternando il suo registro naturale all'autotune. E poi ci aggiunge delle sezioni di archi perché, be', è Kendrick.

Quello che colpisce di più nel pezzo è l'interpretazione di Lamar, che si supera calandosi nei panni del suo personaggio: un partner esaurito e fuori di sé, la cui voce si spezza e squilla man mano che perde il controllo. Wayne ha sempre giocato con la sua voce, assumendo un tono quasi alieno, ma perlopiù ha una sua zona di conforto in cui si sente al sicuro. Wayne suona sempre come Wayne, mentre suoi eredi e ammiratori come Young Thug e Kendrick si sono spinti oltre portando il suo stile vocale all'estremo, fino a diventare quasi irriconoscibili. Involontariamente, Wayne ha come ispirato una sorta di gioco di ruolo: io, rapper, interpreto un personaggio e gioco con la mia voce per riflettere quello che mi passa dentro.

Il bello di "Mona Lisa" sta però principalmente nel fatto che ogni verso potrebbe funzionare bene come chiusura del pezzo. Una bella canzone dovrebbe terminare con un culmine che ti lascia una sensazione di potenza, soddisfazione, anche esaurimento. Wayne è un maestro di quest'arte e Kendrick ha sicuramente imparato molto da lui. Prendete ad esempio qualsiasi cosa abbia fatto Wayne tra il 2005 e il 2008, in particolare la sua strofa in "We Takin Over" di DJ Khaled. E poi ascoltate Lamar sul remix di "Ridin' Roun Town" di Casey Veggies o in "Fuckin' Problems" di A$AP Rocky. "Mona Lisa" mette assieme queste loro capacità di essere diretti e incisivi di parola in parola. Non è il solito passaggio di testimone tra il rapper “commerciale e di successo” all’ex studente che dimostra di aver imparato a perfezione la lezione. È molto di più.

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"Tupac è ancora vivo"

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“Tupac is Alive”. Questa è la frase che più di ogni altra cosa scalda i cuori di ogni fan dell'hip-hop, che non siano dei SoundCloud rapper come Lil Xan o Lil Yachty. A più di vent’anni dalla sua dipartita, c’è chi ancora spera che Tupac sia tra noi, mentre si gode la sua pensione in qualche calda isola del sud est asiatico.

Se però fino ad adesso il solo pensiero di Tupac che gioca a carte con Adolf Hitler, Michael Jackson e Elvis in una qualche isola sperduta, là dove le celebrità vanno a far finta di morire (si sarà unito anche XXX?), da qualche ora una nuova speranza si è accesa in noi.

Il figlio di Suge Knight—che per semplificare, non doveste conoscere la storia, sarebbe il figlio del supposto mandante dell’omicidio di Shakur—avrebbe rivelato su Instagram che Tupac sta bene, vive in Malesia ed è sempre stato tra di noi.

Non ci credete? Bene, qua potete vederlo mentre sorridente abbraccia Beyonce:

E se Beyoncé non vi bastasse, abbiamo per voi un’incredibile foto con 50 Cent.

Non siete convinti? Qua il Lil piccolo Suge Knight mette una foto che più didascalica non si può.

In realtà in questi giorni Suge Knight Jr sembra proprio ossessionato dalla figura di Tupac, ci assicura di non essere né sotto effetti di droghe o alcool né di essere in pericolo, nonostante gli Illuminati non vogliano che si sappia la verità.

Sui suoi social il ragazzo parla di “nuovo album di Tupac” che sembra essere “on The Way”, pubblica screen di minacce sicuramente reali, insomma sembra in grande forma. Se in questi giorni vi annoiate e la speranza in voi è l’ultima a morire, be’, sapete che profilo seguire, nonostante potrebbero arrivarvi minacce da Donald Trump in persona. Buona fortuna.

P.S: Nel caso voleste partire alla ricerca di Tupac al momento un volo Milano-Kuala Lumpur sta a 770€. Non male, se pensate che in cambio potrete ottenere la gloria eterna.

Tommaso è su Instagram.

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Recensione: Tim Hecker - Konoyo

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Voglio essere onesto: per quanto io sia molto più fan di un altro Hecker (Florian), devo ammettere che questo Hecker (Tim) ha cullato i miei sonni più di una volta. La sua musica è sempre un dondolio in un iperspazio in equilibrio tra vita e pre-vita, tra sentori di new age da studio di yoga e scenari di silicio in città sfocate in procinto di spegnere le luci.

È strano che nel recente remake di Blade Runner non ci sia stata la voglia e il coraggio di chiamare il buon Tim (fra i tanti papabili) a curare lo score, cosa che avrebbe giovato alla pellicola e soprattutto alle nostre orecchie. Perché in effetti in questo disco nuovo lo spettro di Vangelis aleggia ingombrante.

La commistione tra melodie elettroniche, sbuffi di rumore calibratissimo e strumenti tradizionali era infatti un campo già battuto dal fuoriclasse greco, il quale proprio in quella pellicola cercò una musica che ibridasse un po’ tutto e desse la sensazione di un futuro in cui tutto è “mixed” fino al midollo.

Sì, citare quel film, mi direte, è un modo fin troppo abusato di descrivere determinate musiche e concetti, ma ascoltate questo disco e converrete con me che il paragone non solo calza, ma fa riflettere su quelli che sono i destini della musica elettronica e degli scenari che si profilano sotto le nostre orecchie. È chiaro che questa è, invece, la musica del presente: la convocazione di un ensemble di musicisti Gagaku (che è la tradizionale musica imperiale giapponese di cui io vado abbastanza ghiotto) sottolinea questo aspetto di continuità tra due mondi diversissimi, entrambi cristallizzati in una “età dell’oro” dalla quale mandano messaggi all’attualità. Una bolla in cui c’è solo spazio per la riflessione, per lo spirito, per il flusso delle cose che vivono e vanno; il resto si dimena senza senso, ma non riesce a rompere questa sfera indistruttibile.

Antico e recente si scambiano le parti, si mescolano, si sfuggono in giri stretti e larghi, in picchiate e ascensioni. Si sente l’insofferenza di tale equilibrio per un mondo che si ostina a non capire, che alla coesione preferisce lo sfaldarsi insensato e masochista. Noi ovviamente siamo dalla parte di Tim e dei suoi amici. Ascoltare questo disco è in qualche modo bussare dolcemente alle porte di questa palla di vetro per chiedere di entrarvi, e vaffanculo al mondo.

Konoyo è uscito il 28 settembre per Kranky.

Ascolta Konoyo su Spotify:

TRACKLIST:
1. This Life
2. In Death Valley
3. Is a Rose Petal of the Dying Crimson Light
4. Keyed Out
5. In Mother Earth Phase
6. A Sodium Codec Haze
7. Across to Anoyo

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La guida di Noisey per cominciare ad ascoltare Ólafur Arnalds

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L'Islanda è un luogo musicale tanto evocativo quanto, ormai, codificato. Terre spente, cieli illuminati dai colori dell'aurora. Vulcani bollenti, ghiacciai eterni. Scariche di violenza sonora, distensioni pacifiche. Stramberie digitali, legami inscindibili con la natura. Tutte parole che potrebbero essere usate per descrivere la musica di artisti nella pratica distanti gli uni dagli altri: i Sigur Rós, Björk, i múm, i Sólstafir. E lì va a lavorare chi quel suono gelido e cristallino vuole adottare nei suoi lavori, come l'australiano Ben Frost.

Questi caratteri tornano anche nell'opera di Ólafur Arnalds, ragazzino prodigio diventato compositore a un'età in cui è più normale tirare su due soldi lavorando al McDonald's, ma non la definiscono. Nato e cresciuto nell'ameno borgo di Mosfellsbær, cittadina immersa nella natura a pochi chilometri dalla capitale Reykjavík, Ólafur è cresciuto a squalo fermentato, musica classica e metal. Sua nonna gli faceva ascoltare Chopin, lui imparava a suonare il pianoforte. Il caso gli mise di fronte le chitarre distorte, lui si mise a imparare a suonare pure loro. E anche la batteria, già che c'era.

A far spiccare l'albero di Arnalds dal bosco artistico che l'Islanda ha fatto crescere rigoglioso è proprio questa sua poliedricità di ascolti ed esperienze musicali. Ólafur compone quieta musica orchestrale ma non disdegna batterie e distorsioni. Scrive immediate melodie per pianoforte ma si sa perdere a produrre la techno più sognante su Ableton. Sa infondere colonne sonore di epica tensione ma anche creare pure esplosioni di gioia.

A soli 31 anni Arnalds ha già accumulato una discografia decisamente ampia e variegata. Quattro album, due EP, tre collezioni di singoli, quasi una decina di colonne sonore, innumerevoli collaborazioni - e questo senza contare la sua produzione elettronica a nome Kiasmos. In occasione dell'uscita del suo nuovo album re:member e della sua ormai prossima unica data italiana (il 16 ottobre all'Auditorium Cariplo di Milano), ho provato a creare quattro punti di ingresso nel suo mondo.

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Come molti ragazzini, anche il piccolo Ólafur era particolarmente sensibile alle cose grezze e incazzate. Non è quindi un caso che le sue prime composizioni compaiano come intro e outro nel disco di una band metalcore tedesca, gli Heaven Shall Burn. Ólafur gli diede un demo con delle sue composizioni amatoriali, loro gli chiesero un paio di pezzi per archi e pianoforte, dopo un po' un'etichetta lo contattò per chiedergli se voleva comporre un album intero.

"Deyjandi Von (Outro)" risale al 2004 ed è il primo pezzo mai scritto da Ólafur, posto a chiusura di Antigone degli Heaven Shall Burn. Può essere un punto di partenza per esplorare la parte più gelida e rabbiosa della sua opera, fatta di archi in tensione e silenzi pronti a tramutarsi all'improvviso in fragori. "3704 / 3837", tratta dal suo esordio Eulogy For Evolution, è un esempio perfetto - posta a chiusura di un album che racconta una vita, dalla nascita fino alla morte, esprime il senso di caos e terrore di un corpo che smette di funzionare seppellendo un pianoforte e degli archi con palate di chitarra e batteria ai limiti del black metal.

E poi ci sono il nulla vibrante di "Sudden Throw", l'elettronica neoclassica spastica di "Til enda", gli inquietanti echi di "Frá Upphafi". E piccole gemme che, spaccate, nascondono colonie di insetti brulicanti tratte dalle colonne sonore di Broadchurch, Another Happy Day e Gimme Shelter, con il crescendo finale di "Going Under" ad aprire una minuscola finestra nelle stanze buie che Ólafur sa costruire così bene.

Playlist: "3704 / 3837" / "Sudden Throw" / "Frá Upphafi" / "Out to Sea" / "Til enda" / "Going Under" / "Tell Us What Happened" / "Vigil" / "Sonar" / "The Meeting"

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Quando si mette al pianoforte Ólafur entra spesso in una zona ovattata, come protetta dagli sconvolgimenti del mondo, e ci invita dentro chiunque gli presti un paio d'orecchie. "20:17" è un orario, quello in cui si è messo con il suo amico Nils Frahm a improvvisare in uno studio: il risultato finale, una notte di musica inventata sul momento chiamata di canzone in canzone con l'orario di nascita, sarebbe diventato il suo piccolo capolavoro Trance Friendz. Le tastiere di Frahm e Arnalds camminano mano per mano su un prato soffice e si spengono lentamente, distese, sorridenti.

La quiete, in Arnalds, sa però anche essere pacifico distacco: sentire i grandi spazi di "I Could Hear Water", tratta dalla colonna sonora di Broadchurch, o la sua esecuzione della "Raindrop" di Chopin, pensata come esecuzione volutamente sporco d'ambiente di un compositore il cui lavoro è stato storicamente registrato cercando la fredda perfezione. Oppure, tintinnio di cristalli: vedi lo "Study for Player Piano (II)" tratto dalle sue Island Songs; e infine pura contemplazione, come nei cullanti archi di "The Wait".

Playlist: "20:17" / "momentary" / "Allt varð hljótt" / "Prélude in D Flat Major ("Raindrop"), Op.28, No.15"/ "Þú ert sólin" / "Erla's Waltz" / "Study for Player Piano (II)" / "I Could Hear Water" / "The Wait" / "Someday"

FORSE TI INTERESSA: ÓLAFUR ARNALDS IN FISSA CON L'ELETTRONICA?

Nel 2014 Arnalds decise di fondare un duo con l'amico Janus Rasmussen, nato alle isole Fær Øer e membro della band synthpop danese Bloodgroup. Assieme si chiamarono Kiasmos e a sentire il loro primo pezzo assieme, la meccanica "65", è facile immaginare i due procedere per scontri e clangori, incroci e storture. Con il passare del tempo, però, la loro elettronica si è fatta sempre meno spigolosa: "Shed" è un gioiello di melodia, un pezzo di Tycho in microdosing; "Lit" un'opera in quattro parti che alterna strati d'ambiente e techno drittissima; "Swept" un batterista robotico che picchietta sul corpo di un pianoforte a coda; il remix di "Notte Senza Fine" dei Tale Of Us un brano notturno spezzato tra assenze e presenze.

La cosa più divertente dell'Ólafur elettronico è però rendersi conto di come abbia giocato con sintetizzatori, computer e tastiere nella sua opera solista prima di innamorarcisi completamente con i Kiasmos. In "A1", e "00:26" entrambe composte ed eseguite assieme a Nils Frahm, si affida a un'elettronica pulsante; in "Endalaus II" puntella un piano e dei colpi di archi con un beat sotterraneo; in "For Teda" crea una lenta marcia sintetica.

Playlist: "Shed" / "Lit" / "Drawn" / "65" / "A1" / "Orgoned" / "Endalaus II" / "For Teda" / "00:26" / "Notte Senza Fine (Kiasmos Remix)" / "inconsist"

FORSE TI INTERESSA: ÓLAFUR ARNALDS FELICE E CRISTALLINO?

Nell'opera di Ólafur Arnalds si scovano miniere di gioia, sia essa trasparente come diamanti o piena di venature da sgrezzare come pepite d'oro. La più ricca sta forse nella sua ultima opera re:member, costellata di brani a volo d'uccello su paesaggi incontaminati ("undir", "ekki hugsa", "unfold"). Altre si celano nella sua opera insieme a Nils Frahm, di cui la dolce improvvisazione notturna "03:06" è forse la pietra più preziosa. Molte sono disegnate da note di pianoforte, come nelle sue collezioni Island Songs ("Doria") e Living Room Songs ("Tomorrow's Song").

"Þau hafa sloppið undan þunga myrkursins", pezzo di chiusura del suo piccolo capolavoro ...and they have escaped the weight of darkness, è però forse la distillazione più pura dell'inebriante felicità che scorre nelle vene dell'islandese. Pianoforte ed archi si abbracciano danzando un lento senza ritmo al cui apice compare una batteria che inizia a tenere il tempo più disteso; al termine, una timida fanfara demarca il raggiungimento dello stato di leggerezza suggerito dal titolo. L'oscurità e il suo peso sono ormai seminati, resta solo la libertà della fuga.

Playlist: "undir" / "Old Skin" / "Hægt, kemur ljósið" / "unfold (feat. SOHN)" / "3055" / "Carry Me Anew" / "Tomorrow's Song" / "Doria - Island Songs VII" / "03:06" / "ekki hugsa" / "Þau hafa sloppið undan þunga myrkursins"

Ólafur Arnalds si esibirà in concerto martedì 16 ottobre all'Auditorium Cariplo di Milano, i biglietti sono già in vendita.

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Le 3 migliori uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ve ne consigliamo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Per il resto, c'è sempre la playlist della settimana di Noisey su Spotify.

QUENTIN40 - "GIOVAN8"

Quentin40 è tornato con un nuovo singolo e, dopo le aperture celestiali di "Scusa ma" e il quasi-reggaeton urbano di "Fahrenheit" stupisce con un brano che resta in equilibrio tra tradizione e innovazione. Una chitarrina a scandire il beat, la sua voce a buttare giù rime senza indugiare troppo nel suo gioco di parole dai finali interrotti. A questo punto non vediamo l'ora di sentire il suo primo album.

KIKAGAKU MOYO - MASANA TEMPLES

Giapponesi matti che fanno rock psichedelico? Ovvio che sì. I Kikagaku Moyo sono uno dei volti orientali più chiacchierati e seguiti dalle nostre parti e questo Masana Temples è il loro quarto lavoro in studio. Ci sono dentro atmosfere da danze ancestrali, bong e THC ("Entrance") come cadenzate strutture di wah, assolazzi e batterie che si interrompono in quieti intermezzi ("Dripping Sun". In Italia chissà se passeranno, ma intanto li potete vedere a novembre a Le Guess Who in Olanda.

KERO KERO BONITO - TIME 'N' PLACE

Fino a questo nuovo album, uscito a sorpresa, i Kero Kero Bonito sembravano solo un piacevolissimo scherzetto musicale. Sull'onda dell'elettronica iperreale di scuola PC Music e della propulsione infantile del J-pop, il trio inglese faceva semplice e divertente pop futuribile. Ora invece sembrano dei punk zuccherati, dei rocker mutati in fiorellini: fanno musica casinara e leggera, istantaneamente memorabile per il senso di felice opposizione che crea. Time 'n' Place è una piacevolissima sorpresa.

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Paolo Pietrangeli cantò il caos della sinistra italiana

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Il fatto è che qualche anno fa era molto più facile spiegare qualcosa a qualcuno. Ogni gesto, ogni azione aveva il suo nome, il suo odore, il suo colore: la barba era di sinistra, le canzoni erano di sinistra, e anche la sinistra per unanime convinzione… era di sinistra. Adesso mi rendo conto che parlare di qualunque argomento è di gran lunga più complicato. E Pietrangeli non fa eccezione alla regola. Basti dire che prima cantava prendete la falce impugnate il martello; adesso canta “e mi tura le orette e fa uguale granchette e violassa”. C’è una bella differenza, si passa dall’inequivocabile all’equivocabilissimo. Da quell’abicì semplice, elementare e superdidattico a questa Babele di parole in libertà.
Michele Serra, dalle note di copertina di Cascami, anno 1979

Ebbene sì, le parole che leggete qua sopra sono proprio di quel Michele Serra. Evidentemente anche nel suo caso, da maître à penser di sinistra abbastanza inequivocabile, ora è diventato quanto di più equivocabile possibile. Come da sue parole, già a fine anni Settanta non si capiva più un cazzo e la sinistra era già in crisi: oggi però cadono tutti dal pero nonostante il lento disfacimento fosse palese fin dalla “destra del PCI” sessantottina che poi ha creato i vari baciapile stile Giuliano Ferrara.

Fortunatamente c’è una differenza abissale tra questi bei tomi e il Paolo Pietrangeli di Cascami, anno 1979, disco nel quale il nostro paladino cerca di sbrogliarsi dai luoghi comuni(sti) che in un certo senso l’avevano reso popolare anche al di fuori della sua parte politica. Perché oggi che anche Salvini straparla di “compagni”, Pietrangeli rimane forse l’unico a volersi fregiare ancora di tal epiteto. Nulla lo sposta da "Contessa" (il famoso incipit “compagni dai campi e dalle officine“ è oramai un classico della canzone di protesta italiana), nonostante per anni si sia esibito cocciutamente, volutamente e per due spicci o gratis, solo alle feste di Rifondazione e derivati.

E, soprattutto, nonostante sia stato e sia ancora regista di alcune delle trasmissioni TV più oscene di sempre, e per di più prodotte da Fininvest: il Maurizio Costanzo Show, Amici, C’è posta per te. Tutta roba condotta da quei due criminali di guerra che voi ben conoscete. Detto questo chiunque si aspetterebbe una giustificazione morale: "È soltanto lavoro" e cose del genere. Del resto il nostro Paolo ne sapeva, essendo figlio d’arte (suo padre era Antonio Pietrangeli) e avendo lavorato come aiuto regista per Visconti e Fellini, nonché avendo lui stesso girato Porci con le ali, tratto dal famosissimo bestseller cartaceo, e Bianco e nero, coraggiosa inchiesta/documentario sui fascisti portata avanti infiltrandosi nelle sedi dell’MSI.

Invece no, magari la mettesse su quel piano. Lui è scisso: dice che il vero direttore è sempre stato Costanzo (con cui ha collaborato nella prima sit com italiana di sempre, Orazio) e che ci è rimasto venticinque anni perché è amico di Costanzo. Che Costanzo è di sinistra (nonostante quella famosa tesserina della P2), che C’è posta per te è antropologicamente lo specchio dell’Italia di oggi. E le sue inquadrature di Berlusconi sono sempre state lusinghiere, come da ordini superiori. C'è una chiara crepa, qualcosa che non torna e che cozza con la rigidità dell'ideologia. C'è una separazione netta tra arte e lavoro.

Ma in Cascami, invece, spunta fuori un Pietrangeli inedito, sganciato da tutto e da tutti, che rimette in discussione la sua bolla per ricominciare su basi diverse, mettendo in gioco una lotta diversa, prima di tutto contro le proprie illusioni, una lotta vistosamente incoerente e per questo difficilmente manovrabile dal potere, qualsiasi esso sia.

Cascami esce nel 1979 e segue il disco Lo Sconfronto del 1976, in cui si trovano già i semi di una svolta (nella semi-buffa e patrimonio dell’improvvisazione orale "Parole" in primis, in cui si comincia già a dubitare della loro potenza didascalica, appunto perché usate come veicolo di potere più che come comunicazione). Ovviamente si sta avvicinando un periodo particolarissimo nella cultura italiana, soprattutto in quella musicale. Il punk, la new wave, la no wave e in politica il movimento del 77: le contestazioni al PCI, l’ascesa degli autonomi e il rilancio degli anarchici, le BR. Questa roba deve aver preso in contropiede Pietrangeli, che avrà ben capito che la sua “Caro padrone domani ti sparo” da “metaforica” (parole sue) è diventata reale. Ma nello stesso tempo suona preistorica perché gli manca l’aspetto apocalittico che invece coprirà gli anni di piombo come le ali di un enorme pipistrello. Ragion per cui Pietrangeli si prende due anni di pausa, cercando di elaborare la sua personale risposta al problema.

Il risultato è un disco che sovverte la forma della canzone di protesta rendendola quasi “canzone di protesta demenziale”. I testi dipingono quadretti di esistenze che scricchiolano, situazioni di strada, prostituzioni morali e materiali, voglia di rifiutare un mito, quello del Sessantotto, che puzza di vecchio. Testi funambolici, incasinati, surrealmente metaforici, come "Jabberwocky" scritta da un Lewis Carroll con la tessera del PCI. La lezione degli Skiantos è forse introiettata e personalizzata in versione “combat”. Musicalmente, invece, c’è un coraggioso tentativo di rendere tutto più “atonale”, con sezioni di arrangiamento deliranti, forse di scuola Stormy Six, cori che sembrano spiriti inquieti aditi a dissonanze, profondi abissi, sberleffi al cantautorato classico. Un atteggiamento quasi punk/folk insomma, tra un David Peel e un futuro Alan Bishop, che già s’intravede nella copertina del disco in cui Pietrangeli viene investito dal vomito. Niente bandiere rosse o critica al capitalismo telefonata insomma, qui si passa alla dura pazzia della realtà già esplicitata da Lydon e accoliti in terra d’Albione (ma forse sarebbe meglio dire dagli Angelic Upstarts, gruppo che sempre ha contestato ai Sex Pistols la mancanza d'integrità politica).

Andiamo dunque ad ascoltare il primo brano, “Un testo emblematico". L’intro è chiarissima: chiedono a Pietrangeli testi di marxismo scientifico, l’ennesimo testo politico “che non sia scollato dal movimento”; ma a chi cantarlo? A una folla di rimbecilliti oramai ridotta a massa? Ed ecco che il nostro poeta del movimento (perché sulla capacità letteraria del nostro non vi è dubbio alcuno, così come in quella compositiva, da sempre tendente a soluzioni weird) si rifiuta di obbedire: lui "cerca la Titina, la cerca e non la trova”, parafrasando lo storico brano "Je Cherche Aprés Titine" di Léo Daniderff, reso celebre dall’interpretazione di Chaplin in Tempi Moderni e da Gabriella Ferri nella versione di Guido Di Napoli. La Titina, qui, è il proletariato, la sinistra, che in teoria dovrebbe trasformarsi in Titova (cioè la Titina nuova), ma anche qua pare più un blob che un autentico soggetto sociale. Nel testo fa anche grande polemica con la tradizione, che forse è il momento di superare, magari senza cercare di unirla al nuovo a tutti i costi (sarebbe come far correre un uomo con le caviglie incatenate). La musica, allo stesso tempo, è discordante: pianoforti honky tonk suonati in modo dimesso, un contrabbasso storto, un sax dissonante e drogato, quasi free jazz. Un’angoscia di fondo per una sinistra che usa “solo macchine lussose / solo rose” ma forse, semplicemente, non si ama più per stanchezza dopo una vita passata a rianimarla. Rimane però l’ansia di un rinnovamento che si vorrebbe trovare e che lascia invece un vuoto incolmabile, per quanto ricco di speranza (che è l’ultima a morire).

"L’alpino" è decisamente la porta d’ingresso ufficiale nella follia del disco. Il testo sembra la descrizione di una cena tra massoni, o come minimo di “bamboccioni di merda” che organizzano orge stile Salò di Pasolini, con l’ingresso della donna del protagonista all’interno di questo giro losco (che sa tanto di mostro del Circeo). Ma al protagonista non dà fastidio tanto il giro losco, quanto la presenza di quest’alpino, che in un certo senso rappresenta la miopia di una sinistra che si attacca a vecchi nemici invece di riconoscere i nuovi, che sotto sotto ti adulano per poi farti diventare "cadaverino". E i nuovi nemici non sono altro che la sinistra stessa, che sta diventando più borghese che mai (il “lavoro per snob”), proprio nel momento in cui sta nascendo una nuova “generazione”: la stoccata in realtà sembra chiarissima e diretta alle BR e all’assassinio di Guido Rossa, giustiziato nel gennaio 1978, che era appunto un alpinista. Ed ecco quindi una musica fatta di dissonanze che smontano una classica canzone folk trasformandola poi in una serie di grida, sottofondi con voce che imita un pianto mugugnato (manco fosse i Cure di Close To Me), un piano preso a cazzotti a caso, un contrabbasso sfondato e una specie di suono che sembra un nastro magnetico manipolato, una voce che imita un theremin, insomma un casino della madonna, come si respirava quotidianamente in quegli anni bui.

“Alle cinque prendo il tè” è una presa per il culo dei veterocomunisti, che in cuor loro se ne sbatterebbero il cazzo di tutto preferendo alla lotta uno spumone e andare a donnine. Ma basta urlare un paio di slogan ed ecco qua “l’impegno politico” riemergere. Insomma, l’ammissione che un certo tipo di lotta stereotipata “ha rotto le palle” persino a chi l’ha incominciata, e i poser sono più numerosi dei veri rivoluzionari. Il brano dura poco più di un minuto, ma è un quadretto perfetto della faccenda. L’arrangiamento è quello di una specie di frizzante e stuporoso “pop bucolico”: flauto, una sorta di mandola, batteria, che si sovrappongono serpeggianti e vagamente psichedelici sottolineando comicamente le fasi schizofreniche del protagonista. Anche qui l’ispirazione free è lampante.

Ma veniamo a “Violette”: brano pare già edito nel 1969 in diversa guisa, si fa notare per l’arrangiamento quasi a la Capitan Beefheart virato sulla canzone di protesta, con due chitarre elettriche che sfilano fraseggi no wave. Storia su un abbordaggio inconsapevole di una prostituta. Grandissimi incasinamenti atonali tra chitarre, fiati, e violino con effetti vocali femminili che manco Yoko Ono, spacca timpani. E a questo proposito, chiaramente, Pietrangeli interpreta anche il personaggio “rosa” della canzone: “Io qui vendo violette, garofani e rosette”. Il brano si chiude in un delirio quasi horror di suoni cacofonici.

“Ahi che fatica mi costa” continua su una struttura sghemba, con tre contrabbassi che viaggiano su binari jazzati “normali” cercando di deragliare leggermente dall’armonia come se un vagone barcollasse sui suoi binari. Canzone d’amore accorata, ma solo in apparenza: infatti, è la storia di un delitto passionale che finisce in crudo cannibalismo con contorno di mutilazioni, prevedendo poi una certa “prassi” nelle cronache nere degli anni Duemila, “se ti tagliai le gambe lo feci con affetto". Come le precedenti canzoni, tutto è sorretto dalla chitarra di Pietrangeli che è, diciamo l’unico appiglio sicuro alla “ascoltabilità” del tutto. Il disco si colora di humor nero.

In "Katia", a questo proposito, la fiera del casino esplode pura e semplice. Tromboni random che vanno per i cazzi loro in stratificazioni che ricordano il John Coltrane di Ascension, su un ibrido sonoro tra lo stornello e Kurt Weil. È la storia di una Katia che non è russa, di Pietrogrado, ma è purosangue bolognese. Una stoccata divertita sia al mito della madre Russia, sia al fatto che sì, in Italia si pronuncia CCCP e non SSSR (in questo Pietrangeli la pensava come Ferretti e co, ma molto prima). Il brano è una scheggia dal minutaggio minimo e, come pennellata ermetica, va a braccetto con “Alle cinque prendo il tè”.

“Il furto” scorre fluido con il suo piglio brasiliano, per una narrazione assurdista su un furto che porta la vittima a farsi aiutare da una zia slava la quale gli dà un formaggio di latte di drago (?), poi va dalla donna più bella che dice sempre di no e che in realtà è l’artefice del furto, visto che sapeva sarebbe arrivato da lei, ma lo attendeva prima. Insomma non si capisce un cazzo, e questo è il bello. Poiché forse è il primo testo in cui si è volutamente scollegati da qualsiasi ammiccamento politico/sociale. Un pezzo che avvicina Pietrangeli più alle filastrocche di Pippo Franco/Gigi Proietti di Cara Kiri che a Potere Operaio, rinforzato però da un’interpretazione schizoide in cui il nostro interpreta (as usual) anche la bella della situazione. Forse la descrizione di un viaggio con LSD? Tutto può essere.

“Natiche blu” è impreziosito da probabili botte di cymbalon ungherese, pianoforti trillati e sbattuti con veemenza, il pezzo più punk nella sua soluzione armonica, ma anche come attitudine “stracciona”. Anche qui durata di meno di un minuto, il testo narra delle continue adulazioni della pubblicità e dei prodotti di consumo, che arrivano addirittura a portarti una mignotta in casa, vinta con i punti dei “prodotti Pax”, che però ha le natiche blu e si suppone quindi sia un androide di plastica. Volendo essere più attenti, è una critica alla chiesa che oramai vende e si svende peggio di un supermercato. Un testo visionario quanto basta da far entrare Pietrangeli in zona “Donna di gomma” di gaznevadiana memoria, col gran finale che recita: “Era il premio per lui concordato / tra il celeste papato / e le fabbriche Pax”. Più politicamente chiaro di così...

E qua andiamo al sodo: il lato B si apre con un’esplicita “Ho insultato il movimento”. Potrebbe essere “L’avvelenata” di Pietrangeli, anzi lo è. "Ho insultato il 68”, tanto da dare dei “porci” al partito comunista con un abile doppio carpiato linguistico (pórci, pòrci). Qui Paolo rivendica il diritto di fare i soldi e di sbattersene il cazzo del finto problema, prendendo in giro chi lo considera un traditore per questo, autocitandosi con fredda ironia: “quando ho fatto Bianco e nero / voglio essere sincero / chi mi ha dato quel contante / quel brav’uomo di Almirante”. Tanto chissenefrega se anche viene l’apocalisse, il nostro ha conosciuto i fratelli Taviani, può morire felice e sticazzi del resto. Un brano folk imbeccato da clarinetti, sax e via dicendo, storti e ambivalenti tra l’atonale e il tonale, che a volte ricorda ironiche strizzate d’occhio al lissio romagnolo. Un Pietrangeli bello “confrontational” che non abbiamo mai sentito così in forma. Notevole il finale a ripetere sottovoce il magico cognome Taviani in maniera ossessiva.

“Chi l’avrebbe mai detto” è la versione Pietrangeli delle urlate a cazzo di cane del Freak Antoni di Inascoltable, con tanto di percussioni esotiche e spentolate tipo Anima Latina di Battisti e xilofoni a caso. Poi un momento d’inaspettato Eminent che rende tutto più cosmic e inquietantemente sintetico. Ipotetica storia di un viaggio a Cuba in cui il protagonista sfata con i suoi stessi occhi il mito sinistroide, riscontrando delle serie crepe nel sistema: “col bastone e la tuba / tiri fuori i conigli / tiri fuori anche Cuba”.

Quest’autocritica impietosa è presente anche in “Bell’amico che sei”, dove sono rimpianti i momenti del Sessantotto, oramai ridotti a cenere di un modus operandi politico che non riesce più a guardare avanti. Qui è come se Pietrangeli osservasse i suoi compagni invecchiati malamente con la lente deformante della storia, infilati nel catrame delle loro stesse certezze. Chitarre acustiche storte overdubbate, per un country hawaiano alla Joe Meek (le voci pitchate non danno adito a dubbi) che poi diventa jazz tipo Paolo Conte, con kazoo e voci a trombetta assortite.

A colpi di gong lamierato, “Franti, Garrone, Pinocchio e la fatina” è in qualche modo la descrizione surrealista della normalizzazione in atto, per cui il rivoluzionario non è più cattivo, ma anzi si è rammollito, arrivando quasi vicino alla santificazione, come se fosse oramai morto e sepolto e avesse già dato tutto. Una riflessione pungente, che in qualche modo prevede gli scenari che ora stiamo vivendo, con una sinistra arrogante nel credersi unico baluardo del bene. Urla belluine, altro momento brutalista di Pietrangeli, che da chitarra e contrabbasso si ritrova a gestire direttamente il caos sonoro che si conclude con lo stesso colpo di gong dell'incipit, come un eterno ritorno nella gabbia delle convinzioni dalle quali sembra non ci sia via di fuga.

Il caos però è descritto davvero magistralmente soprattutto negli ultimi due brani, quelli più hardcore del lotto. ”L’ultimo caffè” parla di droga, di eroina. La descrizione della vita di un tossico, della pera. Dell’alienazione del proletariato che si prostituisce per una dose. La voce allucinata in falsetto di Pietrangeli apre a una ballata assurdista, fatta di rumori sparsi e percussioni random stile "Alan's Psychedelic Breakfast" dei Pink Floyd, tra rutti e stridori, quasi “scorregge” alla Schiaffini (le voci borbottanti direttamente nel trombone) sono un must. Un pezzo micidiale e amarissimo, come il caffè del titolo del resto (che poi ovviamente era la droga).

Ma il peggio deve arrivare. Suona a morto la 12 corde di Pietrangeli per passare a una simil-difonia storta che fa da bordone a tutto, doppiata da un violino alla John Cale: “Manicomio criminale” è un pezzo devastante. “La gente si diverte disperata o al cinema o a ballare”... “ al manicomio criminale si vendono pistole a poco prezzo”. Sembra un pezzo scritto oggi nella sua allucinazione iperrealista. Un finale ultrapsichedelico, acido, tra feedback e riverberi lisergici. Una società che sta impazzendo e che porta chi giustamente non la accetta ad armarsi e sparare per poi finire al manicomio criminale: una spirale di delirio senza fine che descrive gli anni tesi del disco ma soprattutto, ascoltandola in questo momento stroico, i nostri. La speranza espressa nel brano d’apertura qui si rivela come mera utopia. Il cerchio si chiude.

Di Cascami non c’è grande traccia in giro, a parte una ristampa in CD. Eppure è uno dei picchi della produzione di Pietrangeli, almeno a proposito di questa foggia sperimentale e ostica, disturbante, in un’ottica già sperimentata (da un punto di vista anarchico) dal Bennato di Io che non sono l’imperatore, che tanto doveva al Tim Buckley di Starsailor. Nell’estetica punk di Pietrangeli è da notare il libretto interno dei testi, fotocopie bianco e nero da originali scritte a macchina e rilegata in modo crudo, con l’immagine del disco anch’essa fotocopiata in bella vista.

E a proposito di punk: nel 1980 uscirà un’altra "Contessa", quella dei Decibel, composta tra l’altro proprio nel 1979, che supererà “a destra” le innovazioni e le critiche del movimento di Pietrangeli diventando un inno delle generazioni future del pop italiano. Da questo momento in poi la storia musicale di Pietrangeli si è come cristallizzata nonostante i numerosi dischi usciti e un maggior tentativo di usare l’arma dell’ironia. Cascami rimane l’ultimo disco del periodo d’oro alla Dischi Del Sole, e forse (osiamo dirlo) l’ultimo grande disco del nostro, mentre attendiamo una nuova canzone di protesta che spodesti una volta per tutte l’individualismo spesso fine a se stesso dell’indie e della trap.

E la sua storia politica? Tutto sommato, vale lo stesso discorso. Lo vediamo iscriversi nelle liste di Potere al Popolo, sperando in una forza giovane che possa ricostruire la sinistra di cui aveva cantato sia il sorgere, sia lo sfascio, per magari intonare un'altra era a pugno chiuso alzato. Il problema rimane però lo stesso: “Bisogna porci con il partito / Bisogna porci pòrci”.

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Recensione: BROCKHAMPTON - iridescence

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Già un annetto fa i nostri colleghi americani parlavano dei BROCKHAMPTON definendoli, in breve, una boy band che faceva della diversità il suo vessillo e produceva l'hip-hop più vitale del momento. Da allora a quella poco-più-che-una-decina di ragazzi sono successe tante cose: hanno fatto uscire un sacco di nuovi pezzi che li hanno resi sempre più famosi, hanno ottenuto un contratto multimilionario con la Sony, hanno cacciato dal gruppo un membro accusato di molestie e infine hanno scritto questo iridescence, che è il loro primo album per una major e il primo capitolo di una trilogia più ampia: The Best Years Of Our Lives, i migliori anni della nostra vita.

Questi migliori anni, a metà dei venti, i BROCKHAMPTON sembrano viverli con il cuore in gola e lo sguardo infuocato. Il primo sta lì per la paura che i soldi e la fama rovinino ogni cosa ("Una casa enorme e un macchinone non ti servono a nulla quando muori solo"). Il secondo lo ha acceso la gioia creativa che è sempre stata alla base della band - perché chiamarla "boy band" è riduttivo, credo. Sono ragazzi, sì, ma più che mettere le loro bellissime voci su una traccia e imparare coreografie i nostri scrivono musica che spinge contro i confini della parola "rap" per allargarli e bucherellarli. iridescence è la loro opera più completa, un piccolo capolavoro della nostra era.

Partiamo dicendo che i BROCKHAMPTON non hanno inventato nulla. Il loro merito è stato quello di avere guardato al rap non come a un grande albero genealogico di artisti che hanno scritto rime su dei beat ma di averlo concepito come un tangram da riassemblare diversamente di canzone in canzone.

Kevin Abstract, leader carismatico del gruppo, è l'incarnazione del gruppo come forza di cambiamento culturale: dai suoi contributi, tra i più suadenti del disco, trapelano onestà e voglia di mostrarsi in tutte le proprie debolezze, che parli del suo ragazzo in "SOMETHING ABOUT HIM" o di quando aveva problemi ad avere un'erezione in "WEIGHT". Matt Champion e Dom McLennon sembrano un po' El-P e Killer Mike, due MC che si scambiano colpi come boxer su bassi distorti e ritmi veloci - come testimonia la spigolosa "VIVID", utile anche per identificare l'identità di bearface: il casinaro pazzo, una versione maschile e un po' meno esagerata di Yo-Landi dei Die Antwoord.

E c'è poi Merlyn Wood, che sembra trasportato nell'America contemporanea dalla scena dancehall giamaicana trasferita in Regno Unito, vedi "WHERE THE CASH AT". Joba è invece la voce roca e spezzata del collettivo: il suo è un buttare-fuori senza filtri, tra versi e sbottate. "Non reggerei un giorno dentro alla mia testa / È per questo che ho preso le droghe che ho preso", dice in "J'OUVERT", tributo sonoro alla tradizione caraibica del producer Jabari Manwa. Nelle loro parole

Tutte queste identità sono tenute assieme da una rete musicale i cui nodi sono sparsi nel tempo e nello spazio. La dolce "SOMETHING ABOUT HIM" ha dentro qualcosa dei Bon Iver prodotti da BJ Burton e qualcos'altro della vocalità frammentata di Kid A dei Radiohead, che i ragazzi hanno dichiarato essere una delle più grandi ispirazioni dietro al progetto. "WEIGHT" sembra una composizione da camera ma, nel giro di poco, si trasforma in una contrapposizione di breakbeat da capannoni londinesi anni Novanta e accordi di pianoforte. Lo stesso senso di scontro-incontro tra ere avviene in "TAPE", guerriglia tra un beat astratto proveniente dal futuro e dolci tocchi di fiati che rimbombano dal passato.

Punto apicale di questa torre musicale e contenutistica è la doppietta "SAN MARCOS" / "TONYA". La prima comincia con una chitarrina pulita che grida emo rap per poi rivelare la sua vera identità, quella di una grande rock ballad anni Ottanta: una "November Rain" aggiornata per i nostri tempi, sferzata da voci modificate e pensieri suicidi da scacciare come mosche. La seconda è un momento di raccoglimento, l'abbraccio pre-partita di una squadra prima di una finale, la stesura di un testamento: c'è la paura di deludere, c'è dell'odio represso, c'è la voglia di fare bene e fare sempre meglio, c'è l'amore per il gruppo e la famiglia. E c'è una grande canzone, un lumicino di bellezza in questi anni. I migliori della nostra vita, anche se bui.

iridescence è uscito il 21 settembre per Question Everything e RCA/Sony.

Ascolta iridescence su Spotify:

Tracklist:

1. NEW ORLEANS
2. THUG LIFE
3. BERLIN
4. SOMETHING ABOUT HIM
5. WHERE THE CASH AT
6. WEIGHT
7. DISTRICT
8. LOOPHOLE
9. TAPE
10. J'OUVERT
11. HONEY
12. VIVID
13. SAN MARCOS
14. TONYA
15. FABRIC

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