Amo profondamente il folk venato di tristezza e sentimentalismo di Marissa Nadler da un decennio. L’ascolto di Little Hells mi folgorò profondamente, lasciando una ferita aperta mai del tutto rimarginata nonostante l’andare degli anni.
Quegli arpeggi, quella voce leggera e cristallina che ti racconta di tutte le cose che la vita ti ha dato e poi ti ha tolto, quei suoni crepuscolari che ti ricordano che in fin dei conti puoi essere felice quanto vuoi, ma nell’ora che conta sarai sempre e comunque solo, perché tutto finisce, e non smetterai mai di struggerti. La grandezza di Nadler sta nel rendere accettabile tutto ciò, nel comprendere che non ci sono alternative e che tanto vale vivere tutto al massimo, così almeno da questa vita di merda ne cavi qualcosa.
For My Crimes è un disco che si apre con un’esortazione: “I’ve done terrible things / please don’t remember me / for my crimes”, dice la title track in apertura. L’ottavo album di Marissa è stato scritto in un momento di tensione, in quel periodo in cui una relazione tocca il suo punto più basso prima di sgretolarsi irreversibilmente. Non è dato sapere quali siano i crimini, ma è chiaro che è finita, è chiaro che bisogna voltare pagina, e che questo porta con sé delle conseguenze, come il non poter più ascoltare quella canzone o quell’autore che tanto amavi e in cui hai lasciato un pezzo di cuore. Per la cantautrice del Massachussetts è il caso di Gene Clark, il fondatore dei Byrds, perché non ne può più di mentire trattenendo le lacrime.
Allo stesso tempo For My Crimes è un album che parla della necessità del distacco, della tossicità di portare avanti qualcosa che non va portato avanti (“Lover Release Me”) e di come da una passione incontenibile si possa finire per svanire nell’etere. Proprio in “Blue Vapor” Marissa Nadler mette insieme tutte le sue anime: c’è il folk, c’è un sottofondo elettrificato molto (molto) vagamente grungy, ci sono gli archi, c’è la sua voce mai così corporea e allo stesso tempo algida, e tutte queste cose insieme costruiscono una canzone incredibilmente sofferente e incredibilmente liberatoria.
Non ci sono ballate, non c’è quella malinconia tutto sommato serena dei “River Of Dirt”, né i demoni di “Apostle”: in For My Crimes tutto ruota attorno ai sentimenti, alle relazioni, e a come questi entrino in conflitto tra loro. Non è un caso che Nadler si sia fatta aiutare, nella realizzazione di questo disco, da una nutrita schiera di turniste, limitando la presenza maschile ai due co-produttori e a un sassofonista. Così come è indicativo che la copertina, per la prima volta, sia opera di Marissa stessa, laureata alla Rhode Island School of Design e insegnante di arte quasi-pensionata, che continua ad avere un’unica studentessa, la novantacinquenne signora Doris (il comunicato stampa del disco è molto puntuale a riguardo e mi parrebbe di fare un torto alla signora Doris non riportando l’informazione).
Tutti segnali che danno un’idea chiara di quanto profondamente personale sia l’ottavo album di Marissa Nadler, ma anche di quanto sia grandiosa la forza di questa cantautrice, che ormai da quindici anni ti prende per mano e accompagna nei più reconditi anfratti della sua vita per fartene sentire parte.
For My Crimes è uscito il 28 settembre per Sacred Bones.
Ascolta For My Crimes su Spotify:
TRACKLIST: 1. For My Crimes 2. I Can't Listen to Gene Clark Anymore 3. Are You Really Going to Move to the South? 4. Lover Release Me 5. Blue Vapor 6. Interlocking 7. All Out of Catastrophes 8. Dream Dream Big in the Sky 9. You're Only Harmless When You Sleep 10. Flame Thrower 11. Said Goodbye to That Car
Che cos'hanno in comune Snoop Dogg, DMX, 50 Cent e Ja Rule? Bé, che sono tutti rapper passati a fare cinema. Al loro club esclusivo si unirà adesso anche Meek Mill. Il rapper di Philadelphia, uscito di recente dal carcere, reciterà infatti in un film piuttosto interessante.
La pellicola si intitola 12 O'Clock Boys, "I ragazzi delle 12", e segue le vicende di un gruppo di motociclisti da cross che vivono a Baltimore, in Maryland. Il film sarà l'adattamento per il grande schermo di un documentario pubblicato originariamente nel 2013: vi consiglio di guardarlo se vi piace vedere gente che fa le impennate con i quad mentre semina le volanti della polizia.
Meek ha tra l'altro una genuina passione per le due ruote. Basta guardare un video intitolato "Bike Life", in cui semina il panico per le strade di Philadelphia a forza di sgommate, e ricordare che venne arrestato ad agosto 2017 proprio per aver guidato una moto da cross infrangendo i termini della sua libertà condizionata. Ora reciterà il ruolo del leader di uno dei gruppi del film, la Midnight Gang: un bel modo per chiudere il cerchio sulla sua brutta esperienza.
A scrivere il copione è stato Barry Jenkins, che ha già lavorato a Moonlight, vincitore del premio Oscar del 2016. Meek ha pubblicato da poco il suo primo progetto dopo la prigione, il Legends of the Summer EP, e Jay Z sta lavorando insieme ad Amazon Prime Video a una serie sulla sua prigionia Ora lo aspettiamo anche sul grande schermo.
Alcune settimane fa, Vic Mensa è stato ospite dei BET Hip Hop Awards 2018, il premio assegnato ad artisti, sportivi e celebrità afro-americane. Alla cerimonia, che andrà in onda negli USA questa settimana, ha improvvisato un freestyle nel quale, secondo il producer di XXXTentacion DJ Scheme, avrebbe fatto riferimento a X e alle accuse di violenza domestica mosse contro di lui. "Quando sentirete il fottuto freestyle di Vic Mensa ai BET Awards rimarrete tutti disgustati, cazzo", Scheme ha scritto in un thread su Twitter. "Yo bro come fai a dire 'il tuo rapper preferito abusa delle donne' e poi subito dopo 'qualcosa X qualcosa quindi non vivrò a lungo'".
Ora, Mensa ha pubblicato un video su Instagram e Twitter in cui risponde a questi commenti. "Poco tempo fa ho fatto un freestyle per i cypher ai BET Awards [la stessa porzione dello spettacolo durante la quale l'anno scorso Eminem attaccò Donald Trump in un freestyle che fece il giro del mondo] in cui parlo e condanno i rapper che usano violenza alle donne evitandone le conseguenze, e chi li difende", dichiara il rapper. "Non avevo idea che fra il pubblico sarebbe stata presente una madre in lutto che voleva onorare il proprio figlio perduto. Non volevo mancarle di rispetto, e le offro le mie più sentite condoglianze per il suo lutto per mano delle armi da fuoco. Tuttavia, rifiuto con veemenza la tendenza interna all'hip-hop di condonare l'abuso, e non ho intenzione di tenere la bocca chiusa al riguardo". Guarda il video qua sotto:
Prima della sua morte avvenuta nel giugno scorso, XXXTentacion era stato oggetto di critiche per le accuse di aver usato violenza nei confronti della sua fidanzata quando questa era incinta, e anche per come aveva reagito alle accuse. I BET Hip Hop Awards saranno trasmessi il 16 ottobre sul canale USA BET.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey Australia.
“Chiedi chi erano i Beatles” recitava un famoso successo degli Stadio, immaginando un futuro lontano in cui parlare dei Fab Four sarebbe stato qualcosa di vago, alla stregua di disquisire dei dinosauri. Oggi che siamo nel 2018, però, i giovani sanno perfettamente chi sono i quattro di Liverpool: non tanto per la musica magari, quanto per il fatto che i superstiti ancora continuano a stare sul pezzo e a fare notizia, non si arrendono a niente e a nessuno nonostante siano vicini agli ottant'anni. E infatti, se l’anno scorso c'è stato il ritorno di Ringo Starr col suo Give More Love, stavolta è il turno di Paul McCartney con un album nuovo di zecca, che già sta facendo parlare di sé. Perché Egypt Station, contro tutte le aspettative, sta mietendo un successo incredibile.
Ho subito pensato fosse il caso di scrivere qualcosa su Paul. Ma ho pensato anche che sarebbe stato meglio farne un discorso più ampio, magari con un altro interlocutore, un vero esperto che avesse delle idee complementari se non antitetiche alle mie, impostando il tutto come un grande “dialogo sui massimi sistemi di McCartney”. E quindi, un ridente pomeriggio di settembre, mi sono recato a casa di Valerio Mattioli. Come saprete Valerio è un “pensatore de borgata”, un incrocio (come lui stesso si definisce) tra Toni Negri e Sbirulino. È editor per la rivista Not. Ha scritto Superonda: Storia segreta della musica italiana e ha collaborato con diverse riviste tra cui La Repubblica, Il Tascabile e VICE. Oltre a questo, è musicista (nei leggendari Heroin In Tahiti), ma soprattutto ama la cultura pop e ama scriverne.
Giocoforza, uno dei suoi idoli, per il quale nutre un culto quasi maniacale, è proprio Paul McCartney. Addirittura uno dei suoi antichi progetti musicali prendeva il nome da un pezzo stracult di Paul, “Temporary Secretary”. Mr. Mark and the Secretaries vedeva infatti Mattioli nei panni di un cantautore weird che si produceva in melodie malsane di stampo baronettiano, e rappresenta uno dei picchi della sua produzione.
Ad aprirmi l’uscio trovo lui, la sua compagna di sempre Bea e la figlia Matilde: un quadretto domestico che, come presto vedrete, contiene alcune analogie col suo eroe. I dischi di McCartney sono pronti accanto al giradischi, il caffè fumante è sul tavolo accompagnato da una birra artigianale. Siamo pronti per entrare nel magico mondo di Paul.
Valerio Mattioli con la sua collezione di dischi del Macca. Foto dell'autore.
Noisey: Oggi è uscita la notizia che finalmente Paul, dopo trentasei anni, è tornato sulla vetta di Billboard con un nuovo album. Che ne pensi, da mccartneyano? Valerio Mattioli: Non mi stupisce, perché negli ultimi anni Paul ha conosciuto un processo di rivalutazione critica generazionale. Il modo in cui viene visto Paul McCartney oggi è molto diverso da com'era visto anche solo 15 anni fa, insomma.
E com’è visto oggi? Eh, per dirlo dovremmo effettivamente prima fare un paragone con come veniva visto prima, allungare un attimo la prospettiva storica. Innanzitutto Paul McCartney è sempre stato massacrato dalla critica, in tutta la sua carriera solista non ha mai ricevuto un vero consenso critico per i suoi dischi.
Neanche il primo? No anzi, fu distrutto dalla critica. Ma è anche comprensibile, perché effettivamente va detto che ogni disco di Paul McCartney, anche i migliori, è comunque equamente diviso tra, boh, lampi di genio, melodie bellissime, cose bizzarre e... monnezza immonda. Cioè, effettivamente, quando vuole, McCartney è in grado di tirare fuori il peggio del pop più leccato, più enfatico, più smielato. Anche se, paradossalmente, riesce sempre a confezionarlo in una maniera tale da non essere quasi mai volgare. Ma, dal punto di vista della qualità, i suoi dischi sono effettivamente discontinui, per usare un eufemismo.
Qui stai facendo una divisione tra i Wings e Paul McCartney, giusto? In realtà no. I Wings erano un gruppo finto, un gruppo fantoccio che per quasi dieci anni Paul ha usato per portare avanti la sua carriera solista. Quindi da una parte c’è comunque l’oggettiva discontinuità dei suoi album sia con la sigla Wings che senza, dall’altro la figura di Paul McCartney ha rappresentato per decenni, e ancora lo rappresenta, l’antitesi di quello che veniva considerato il vero ethos rock. In questo ricade il confronto con John Lennon. Lennon è sempre stato il preferito della critica perché incarnava quelli che erano gli aspetti più qualificanti della pseudo-mitologia rockista imperversante fino a praticamente l’altro ieri: l'artista maledetto, l’artista tormentato, l'artista impegnato che sfida l'establishment. Poi sticazzi se viveva al Dakota davanti al Central Park, Lennon era il Beatle serio.
Che poi, di base, era una cazzata. Ha fatto più canzoni leggere lui. Sì, ma il discorso è quello di percezione del personaggio. Quindi Lennon era serio, McCartney invece era quello delle canzoni d’amore, delle melodie smielate, quello che viveva in famiglia, che amava la vita di famiglia, che faceva i pezzi su Linda che cucinava i biscotti... Insomma, tutto il contrario di quello che doveva essere un vero rocker. Ha scritto "Helter Skelter", "Back in the USSR", i pezzi più duri dei Beatles, ma paradossalmente non è mai stato considerato rock.
Ha scritto anche “Oh Woman, Oh Why”, lato B di "Another Day", che viene considerata una delle sue performance vocali più toste. Ma potremmo citare anche "Soily", "Give Ireland Back To The Irish". Ma la percezione è sempre stata quella di un uomo di famiglia. Ed è giusto, è vero! McCartney è sempre stato questo qua. È un personaggio malinconico, nostalgico. Qui subentrano anche vicende biografiche. L’altro parallelo interessante tra Lennon e McCartney è che entrambi hanno perso la madre molto giovani. Noi conosciamo l'importanza della madre morta nella mitologia lennoniana: rappresenta questa figura tormentata, verso cui Lennon si protende poeticamente, a cui si rivolge per scandagliare il suo io più profondo e scoprire l’universo femminile e, attraverso questo, la sua vicenda di individuo abbandonato. In McCartney è invece famoso l’aneddoto che quando gli arrivò la notizia che la madre era morta lui, che mi pare avesse 15 anni, rispose: “E adesso come faremo senza i suoi soldi?”.
Una risposta molto rock! Ma no, anzi, questo viene letto come un ulteriore segno della povertà anche morale e spirituale di questo Paul, che anche più avanti nella vita si sarebbe interessato solo a fare soldi, a fare la bella vita, a fare musica di merda pur di arrivare primo in classifica.
Ci furono anche le critiche feroci di quando, alla notizia della morte di Lennon e assediato dai giornalisti, apparve glaciale, indifferente. Penso che sia stato un atteggiamento di difesa ad una notizia così forte. Pure! Ma la critica non ha mai capito che, tornando alla reazione alla morte della madre, quella è la classica risposta che ti dà il figlio di una famiglia proletaria. Cioè, è disarmante e commovente la semplicità di quella risposta. Non è un caso che sia sempre stato l’unico Beatle a mantenere i rapporti con Liverpool, e pare che tuttora con i suoi soldi mantenga un intero clan di famigliari.
Nemmeno Ringo? Ringo, George e John non hanno mai guardato indietro. McCartney invece ha questo legame sentimentale con Liverpool, una nostalgia di un’infanzia perduta. In questo anche la morte della madre conta molto.
Questo mood nostalgico e cupo ha forse aiutato le nuove generazioni, di base tutte abbastanza emo, se non proprio con la sindrome di Peter Pan, a rivalutarlo. Beh, quando poi negli anni Duemila questo cazzo di venefico mito rockista, questo machismo fallocratico, finalmente comincia a sgretolarsi e subentrano tutta una serie di altre sensibilità se vogliamo più "effemminate" come quella indie, allora il lascito di McCartney comincia a farsi più pervasivo. C’è questo libro scritto da Bob Stanley dei Saint Etienne, Yeah Yeah Yeah: The Story of Modern Pop, che predice che McCartney quando morirà sarà il Beatle più amato di tutti. E più o meno già lo stiamo vedendo. Già negli anni Zero si cominciavano a vedere i gruppetti indie che citavano Band on the Run... questa era roba che nessun musicista che avesse voluto farsi prendere sul serio anche solo dieci anni prima avrebbe mai citato. Si cominciarono a scoprire i suoi lati sperimentali. C’è stato il grande revival di McCartney II, il suo unico disco elettronico, le cover di "Temporary Secretary".
Mi pare che Pitchfork abbia inserito poco tempo fa McCartney II tra i migliori album degli Ottanta. Io sono stupito che ci sia voluto così tanto a capirlo, è da quando avevo 15 anni che peroro la causa di quell’album. C’è questa oggettiva facilità che quest’uomo ha, quasi soprannaturale, a scrivere melodie. Anche le canzoncine più stupide, anche quelle peggio arrangiate. Poi sono venuti fuori tanti altri aspetti di McCartney che l’hanno reso, come dire, più affascinante: il suo rapporto con la marjiuana, per dire.
Parliamone. McCartney è probabilmente l’unico musicista pop al mondo che possa competere con i musicisti reggae su quel piano lì. Ha avuto per decenni una vera e propria, diciamolo, dipendenza dalla marijuana, cosa che spiega molto dei suoi dischi e dell’approccio che lui ha avuto nello scrivere. Un fumatore compulsivo.
Anche più di Keith Richards dei Rolling Stones? Lui ne faceva abbastanza uso, tanto da soggiornare spesso in Giamaica. Sì, ma lui faceva uso anche di altre droghe. McCartney non così tanto. Poi si è scoperto il lato intellettuale di McCartney. Se Lennon è stato considerato per decenni il vero intellettuale dei Beatles, poi questa idea è stata smentita dalla storiografia, dagli storici, dai resoconti dell’epoca. Era McCartney che finanziava le rivistine underground, si ascoltava i dischi di Stockhausen…
Penso che questa rivalutazione sia avvenuta soprattutto nel pop, che oggi è più semplice, più melodico. Non direi, perlomeno non in quello commerciale. Cioè, l’influenza di Macca senz’altro non la senti in Rihanna, anche se hanno fatto un pezzo insieme, né la senti in Drake e via dicendo. La senti nell’indie pop, tipo nei Real Estate o nei Ducktails. È quell'indie pop gentile, carino, con belle melodie che andava tanto di moda qualche anno fa e adesso continua, ma non nel pop commerciale che adesso è dominato dalla musica nera.
Ma c’è da dire che lui la musica nera la bazzicava, e alcune melodie zuccherose e filastroccose della trap non possono che ricordarmi roba alla "Hello Goodbye", da fattoni insomma. Se è per quello ha fatto anche "Got To Get You Into My Life" ad esempio, che è tipo un pezzo Stax. Però io vedo la sua influenza più sull’indie, che è un genere che come sai io detesto, ma se devo ricercare una precipua influenza di McCartney sulla musica di adesso la individuerei lì. L’indie pop bianco, mediamente acculturato.
Poi vabbè, c’è stata anche la parentesi The Fireman, con Youth dei Killing Joke, una roba trasversale tra la techno ambient e il rock sperimentale. Esperimenti come i Fireman li ha sempre fatti, sin dal primo album solista. Anche quello era un esperimento: un disco registrato da solo a casa...
Forse uno dei primi dischi lo-fi della storia. Prima ce ne saranno sicuramente stati altri, però spiega tanto della psicologia del personaggio. Nel 1970 era uno dei quattro musicisti più famosi del mondo, poteva fare tutto, poteva avere tutto, poteva affittare la London Symphony Orchestra; e invece si è chiuso in una baracca in Scozia a registrare da solo, voce e chitarra, 'sti moncherini di canzoni che poi ha aggiustato facendosi diecimila canne quindi non capendoci un cazzo. Non sapeva neanche se un pezzo era completo o meno, se valeva o meno, se era qualitativamente degno o meno. Questa è una cosa che trovi in tutti i dischi di McCartney. Trovi degli sgorbi che dici: "ma come cazzo è che l’ha registrata?".
E come ce lo spieghiamo? Te lo spieghi in due motivi: uno è che non gliene frega un cazzo, perché comunque ha sempre saputo di essere uno che ha impresso un marchio indelebile nella storia del pop, quindi in qualche modo può permettersi di fare tutto quello che gli pare. Il secondo motivo è che è rincoglionito dalle canne.
Ahahah! La senti molto questa atmosfera di fumo di erba in determinati suoi dischi. Però c'è anche questa volontà di piacere alla gente. Anche questa si spiega con il suo retroterra proletario. La voglia di non perdere mai il contatto con il pubblico, idea sempre presente anche nelle operazioni più penose che ha fatto, tipo i duetti con Michael Jackson, quella cacata di "Ebony And Ivory" con Stevie Wonder... roba fatta apposta per il successo di classifica.
Se la critica ha sempre un po’ storto il naso, al contrario il pubblico l’ha sempre seguito, nel senso che in classifica è sempre andato egregiamente. Come è possibile nonostante la sua basculante resa creativa? È possibile perché lui ha appunto fatto dei dischi paraculi. Il suo più grande successo di classifica è quello degli anni Settanta. Già negli Ottanta comincia a scemare, infatti Lennon era molto geloso di questo.
I dischi degli anni Settanta con i Wings sono dischi di pop commerciale, levigato, alcuni venuti bene altri no. Alcuni sono talmente vacui da essere quasi dei meta-dischi.
In che senso meta-dischi? Il classico esempio è "Silly Love Songs", che è il manifesto ideologico di Paul McCartney. Una canzone il cui testo dice: "cosa c’è di sbagliato nel cantare sciocche canzoni d’amore? A me piace farlo". E poi il ritornello con "I love you" quaranta volte di fila, che tra l’altro a un certo punto c’è questo momento di sospensione nel brano che anticipa (e qui faccio il Demented Burrocacao della situazione) "One More Time" dei Daft Punk. A un certo punto crolla il ritmo, rimane solo quest’aria sospesa...
Io, quel brano, lo vedo chiaramente come una provocazione, fatta apposta per dare fastidio ai puristi. Tu che ne pensi? No, io non penso proprio che sia una provocazione. Lui vedeva il pop come il contrario del rock maschio e sudato. Il rock ha sempre fatto finta di essere una cosa autentica, il che è una stronzata. Chiaramente il rock era tanto una costruzione quanto il pop più costruito in laboratorio. E McCartney si è sempre situato dalla parte del pop costruito in laboratorio. Non a caso nei Beatles era quello che faceva il lavoro da studio, maneggiava i nastri, ste cose qua. Il pop è artificio, è una dimensione extraumana, sovrumana, che sublima, diciamo, i sentimenti di un'adolescenza eterna in queste costruzioni, questi artifici melodici che hanno un impatto sulla tua vita emotiva reale, rimanendo però presenze in qualche modo stagliate in una specie di iperuranio.
Capisco cosa intendi. Questo è il ruolo del pop. D’altronde è un prodotto commerciale industriale per definizione, e questa è la cosa che ha sempre disturbato la critica e i seguaci del vero rock. Fino a quando non si è capito che questa idiozia del vero rock come musica sincera e autentica era appunto idiozia; a quel punto un genere come il pop riacquisisce la sua dignità. E "Silly Love Songs" rivendica questa semplicità.
E per questo mi pare sia ancora attualissima. È la grandezza degli Abba, o dell’Europop. Cioè McCartney sta in questo filone, ed è forse il più grande di tutti.
Nei primi anni Ottanta ci sono stati anche dei flop terrificanti. Secondo AllMusic in quest’ultimo album c’è un collegamento con Press To Play, per la carnalità che emana. Concordi? Io a dire il vero in Press To Play non sento alcuna carnalità, sento più che altro la totale potenza wagneriana della vacuità pop. Press è un disco che lui stesso ha in qualche modo rinnegato. E invece probabilmente è quello che dovrebbe conoscere una rivalutazione simile a quella che ha avuto McCartney II, anche se non arriva a quei livelli. Metà di Press è... una merda. Ma l'altra metà no. Andiamo ad ascoltarlo. [Accende il giradischi]
All'epoca si fece notare perché prodotto da Hugh Padgham, uno degli inventori del suono della gated drum, quella di "In The Air Tonight" di Phil Collins. Quindi ha un suono molto anni Ottanta, però ha questi esperimenti... Lo senti soprattutto in "Pretty Little Head". Tentò di pubblicarlo come singolo, con scarso successo. E te credo! La coda è quasi industrial!
Padgham aveva prodotto anche Gabriel e gli XTC, di cui si sentono gli echi. Atmosfere cupe, tra l’altro.
... che appunto sono presenti anche nell’ultimo album. Forse è questo il collegamento. È strano anche perché è quasi un pezzo da ballare in un club, strano che nessuno abbia osato campionarlo. Poi ci sono anche altri pezzi interessanti tipo "Good Times Coming / Feel The Sun", una specie di dub. McCartney tra l'altro fu anche uno dei primi musicisti bianchi a mostrare interesse per il reggae già nei primi anni Settanta. Però alla fine il vero capolavoro è questo: "Only Love Remains". Anche nel peggior disco di McCartney c'è almeno una melodia immortale.
Ma, a parte Press To Play e McCartney II, c’è un altro disco particolarmente strano che possiamo ripescare? Beh, ci sono i suoi esperimenti acid house. Un dodici pollici, Ou Est Le Soleil...
Periodo Flowers In The Dirt! Ho lo spartito a casa. Uno dei suoi singoli più controversi... Per sintetizzare: una cagata. È comunque apprezzabile che un tizio come Paul McCartney nel 1989 si sia cimentato nel dare il suo contributo alla Second Summer of Love, sperimentando con il rave. E poi è remixato da Shep Pettibone.
Quindi, Valerio, mi pare di capire che tu abbia tutta la discografia in vinile. O sbaglio? Quasi tutta. In realtà cercando mi sono accorto di non trovare più un disco, Wild Life, il primo con i Wings, considerato uno dei suoi peggiori.
E come mai? Non lo so. Adesso nessuno adesso avrebbe più il coraggio di chiamarlo così, proprio per il cambiamento nella percezione di cui parlavamo. Possiamo ascoltarlo dal computer.
Sì, facciamo capire ai neofiti di cosa stiamo parlando. È il disco con cui presenta al mondo i Wings nel 72-73, e contiene "Dear Friend", un prezzo dedicato a John Lennon. È un pezzo dolente, su un’amicizia andata in frantumi. Mentre quell'altro stronzo di Lennon invece faceva "How Do You Sleep" contro Paul, capito?
Tra l’altro queste melodie ricordano i Depeche Mode di Precious, ma riecheggiano anche pezzi pop attuali. È praticamente una canzone indie. Vengono in mente, che ne so, Anthony and the Johnsons di qualche anno fa, o Sufjan Stevens.
Ma quale fu la particolarità di questo disco? Che fu completamente distrutto dalla critica. È considerato, insieme a Press To Play, probabilmente il suo punto più basso.
E tu invece che ne pensi? Penso che sia come quasi tutti i dischi di Macca. Sono pochissimi quelli che funzionano dall’inizio alla fine, quindi nella maggior parte dei casi metà disco è una merda, con palesi riempitivi per occupare spazio, messi lì da uno a cui non frega un cazzo. Poi nell’altra metà c'è perlopiù del buon mestiere, del buon artigianato pop. E se ti va bene hai uno o due capolavori. Però tendenzialmente sono sempre dischi che si fanno ascoltare con piacere, ecco.
Ma andiamo sul Paul McCartney rock. Ti ricordi quando è andato sul palco coi Nirvana prendendo il posto praticamente di Kurt Cobain? Quindi anche il rock alla fine si era accorto di lui già dalla fine degli anni Ottanta, come appunto i Guns 'n Roses, ma anche prima: Siouxie and the Banshees fecero la cover di "Helter Skelter". Si ma helter skelter è un brano che ha una mitologia tutta sua, è quasi demccartneyzzato, c’è di mezzo Manson. Il rock, come ho già detto, era un grande inganno.
Il suo approccio al rock era praticamente lo stesso del pop, o no? Lui era praticamente un erede di Tin Pan Alley, di quella roba lì. Anche se era comunque un ragazzino cresciuto nella Liverpool degli anni Cinquanta ascoltando il rock 'n roll. Ha fatto diecimila dischi di cover rock 'n roll, dischi inutili tra l’altro. Rivendicava questo suo amore per le origini, lo ribadiva. Se prendiamo il rock dal punto di vista puramente stilistico, di pezzi rock ne ha fatti. In Back To The Egg ce ne sono, ed è un altro dei dischi meno considerati di Macca.
Ascoltiamolo subito! È un disco in cui più che di rock si può parlare di power pop. Tra l’altro molti dei pezzi fanno proprio cacare, questo è uno dei dischi in cui devi stare attento a quale traccia metti. [Mette "To You"]
Questa canzone è un po’ punk, no? Beh, sì, erano quegli anni. È un tentativo di cavalcare l’onda. Ma nello stesso disco hai, alla fine del lato A, questo pezzo ["Arrow Through Me"]. Una specie di proto-"Sexual Healing" di Marvin Gaye.
Roba pe' scopà! Il lato sensuale di Paul. C’è anche qualche cosa con Linda.
Parliamo dell’influenza di Linda. Dove con Lennon c’era la Ono, dall’altra parte c’era una Linda che era forse la sua antitesi. È stata una grande che non è mai stata presa sul serio, allo stesso modo di Yoko Ono, dai fan dei Beatles. Su di lei si dicevano tante falsità: una delle più grosse è che fosse la figlia di Eastman dell’impero Kodak, solo perché era fotografa. Era una giovane appassionata di musica e di fotografia, a cui piaceva fare l’amore e vivere la vita liberamente, senza complessi di sorta, una donna che non doveva rendere conto a nessuno. Ovviamente nel mondo machista del rock viene considerata una mignotta.
Ma poi si mette con Paul. Paul prima di stare con lei era sostanzialmente un playboy, e insieme creano una coppia piena di enfasi. Lui vuole sempre Linda con lui nei dischi, le fa suonare le tastiere con i Wings, fino a firmare un album insieme che è poi il leggendario Ram, un disco che adesso è considerato quasi unanimemente un classico, probabilmente forse il miglior disco di un ex-Beatle alla pari forse solo con il primo Lennon.
Un disco che anticipa l'hypnagogic pop forse. Più che altro quasi anticipa il weird folk. Però è troppo facile vedere, in questa enfasi che ha messo nella vita familiare di coppia con tanti bambini, sempre quel ritorno all’infanzia che non ha mai avuto, da bambino di umili origini, in una città industriale come Liverpool, orfano di madre. Un altro dei punti più bassi della carriera di McCartney secondo la critica sono le canzoni per bambini, come la splendida "We All Stand Together".
Capolavoro assoluto. È stato perculato per decenni perché faceva le canzoni per bambini. Come se fare le canzoni per bambini fosse una cosa brutta: ma perché? Io Paul McCartney l’ho scoperto da bambino grazie a questa canzone per bambini e gliene sono grato. Come dire, nella mia infanzia nella periferia romana in cui non era contemplato il bello, non era contemplata la cortesia, non era contemplata la gentilezza, lui mi ha portato, con quel valzerino cantato dalle rane, un po’ di bellezza. Te lo immagini Bruce Springsteen che fa le canzoni per bambini? No! Perché è un rocker vero, in canotta, sudato, coi bicipiti di fuori, e parla di camionisti e operai in fabbrica mentre intanto lui vive in una villa di otto piani in New Jersey.
Tornando a Linda: dal momento in cui è morta, il suono di Paul è cambiato? Quanto ha inciso veramente la sua presenza dal punto di visto artistico/compositivo? Come lo vedi il periodo moderno di Paul, quello post-Linda? Lo vedo molto strano, perché lui era capace di fare anche due dischi all’anno fino ai primi anni Novanta diciamo. Poi già dalla metà degli anni Novanta ha cominciato a diradare le uscite. Quindi innanzitutto escono meno dischi. Poi esce Chaos And Creation In The Backyard.
Lì volevo arrivare. Che ne pensi? E che ne penso? Che è un disco di una classe davvero oggettiva. Tanto che quando è uscito (e lì c’è stato davvero lo switch) tutti hanno dovuto dire ao questo è un disco della madonna! Paradossalmente è anche un disco molto poco mccartneyano, perché manca di quegli eccessi kitsch. Là invece c'era Nigel Godrich, il produttore dei Radiohead, che si impose; e nessun produttore si era mai imposto con McCartney, perché d’altronde hai davanti la storia del pop, hai paura e fai pippa. Invece lui si impose e disse no, scartò alcuni pezzi perché brutti, cambiò gli arrangiamenti, lo costrinse a fare una cosa più minimale, più sobria. Quindi è uscito un disco effettivamente di gran classe, molto sofferto, però è un disco in cui mancano quegli sbraghi tipici di McCartney. Però da lì in poi inizia un Macca più rispettabile, che comincia ad essere considerato il grande vecchio a cui si porta rispetto.
Arriviamo agli ultimi album. New del 2014 come ti è sembrato? Prima ancora c’era Memory Almost Full. Questi sono tutti dischi di gran mestiere pop.
Modernizzati, perché la produzione mi sembra abbastanza pompata. Sai, McCartney gioca a fare McCartney sapendo che c’è un pubblico con meno pregiudizi nei suoi confronti. Viene intervistato su Pitchfork o citato sulla stampa alternative. Tu immagina gli anni Ottanta: un'intervista a Paul McCartney non sarebbe mai uscita su Forced Exposure o sulle altre fanzine che facevano parte della cultura indipendente. Era il nemico, era quello che faceva Press To Play, quello che faceva la roba con Micheal Jackson. Ma adesso lui c’ha pure una certa età. È nato nel '42, ha settantasei anni.
Devo dire che la sua voce è cambiata molto. Quando ho ascoltato l'ultimo ho cominciato a pensare alla famosa storia del McCartney morto e sostituito con un sosia, perché sembra la voce di un vecchio cantante random, non di Paul da vecchio. E io sono d'accordo con quella tesi. Il cambiamento si sentiva già dai tempi di Chaos and Creation.
In Egypt Station è tornato anche il McCartney cazzone, con un paio di brani molto svarionati e suite un po' storte. E i singoli? Che ne pensi di "Fuh You"? Ma niente, sono gradevoli. Faccio un paragone che suonerà aberrante ai più, ma mi ricorda molto i R.E.M. da questo punto di vista: cioè, vai al supermercato e in sottofondo senti mediamente musica quasi sempre discutibile, poi parte un pezzo dei R.E.M. e sei contento, ti sembra una bella musica in sottofondo. Lo stesso succede con Paul McCartney. È quella musica da supermercato buona. I testi sono come al solito insulsi.
In quest'ultimo dice ancora le parolacce! A ottant’anni! Com'è possibile? Ma Macca ha sempre ammesso di non essere capace di scrivere i testi. Non a caso ha tutta una carriera parallela come pittore.
Infatti la copertina di Egypt Station è opera sua. Il suo stile assomiglia se vogliamo alla roba degli stucchisti, il movimento artistico nato a fine anni Novanta di cui faceva parte anche Billy Childish. Come pittore non è niente di ché, ma non è neanche pessimo, però ha buon gusto anche come collezionista d'arte.
Ho le ultime due domande: quale prevedi sarà la prossima rivalutazione, la prossima opera sottovalutata che verrà recuperata com'è successo a McCartney II? Il più papabile è proprio Press To Play, però non credo che ci sarà un fenomeno massiccio come c’è stato per McCartney II, per il primo McCartney e in parte pure per Ram (di cui esiste addirittura un disco tributo con dentro anche i Death Cab For Cutie). Però secondo me è ora che si cominci a pensare seriamente al canzoniere di McCartney solista. Ad esempio a brani come "So Bad", brani che tu non trovi mai nelle compilation Best Of, ma sono quei brani che dentro i dischi di Paul trovi quasi sempre, dei breviari di canzone pop perfetta. Perché il pop poi è quello: la canzone, non l’album.
E ce la farai mai a intervistarlo? No, non voglio.
Come non vuoi? No, guarda, ci ho pensato tante volte. Ho avuto alcune occasioni per farlo, ma non voglio perché per me Macca è una figura quasi paterna, e lui è molto professionale nelle interviste. McCartney è una mia fantasia privata, come devono essere le popstar: creature eteree, che non appartengono al mondo dell’immanenza. Sarebbe un po’ come conoscere Lou Reed. Io l’ho conosciuto ed era un coglione.
Valerio Mattioli è editor della splendida rivista e collana editoriale Not. Seguilo su Twitter.
Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo, Italian Folgorati. Seguilo su Twitter.
Nata in Spagna, ad Almeria, cresciuta a Torino, e stabile a Milano da novembre 2017, Chadia Rodriguez da aprile di quest’anno ha fatto uscire un totale di quattro singoli per Sony Music, che l’hanno rapidamente portata al centro dell’attenzione nella scena trap locale. L’ultimo di questi è uscito venerdì 5 ottobre, si chiama “Sister (Pastiglie)”, ed è un remake trap del vecchio pezzo dei Prozac+ “Pastiglie”.
Il fatto che Chadia non abbia precedenti artistici, e che sia una giovane donna (20 anni a novembre) sicura di sé e a proprio agio col proprio corpo, ha turbato una buona fetta del pubblico medio italiano. Poco importa se su scala globale le rapper donne sono sempre più consapevoli dei loro corpi, per nulla intimidite al raccontare le proprie esperienze di vita più turbolente, o al parlare esplicitamente di sesso e uomini: Cardi B, Nicki Minaj, Bbymutha, Cupcakke sono solo alcuni esempi. L’Italia è sempre stata bigotta e basica, in termini di gusto musicale, e le cose non sembrano migliorare.
Chadia ha madre spagnola e padre marocchino, e alcune di queste influenze si riflettono nella sua musica. “Per i beat, tutti realizzati da Fish, amo farmi ispirare tanto da quello che mi circonda, quanto dai suoni con cui sono cresciuta,” mi spiega Chadia in un bar vicino allo studio di Sony, a Milano, davanti a un succo alla pesca. “Mi piacciono sia sonorità latine, quindi legate indirettamente alla Spagna, che arabeggianti. Sono felice di lavorare con Big Fish, che ha una cultura musicale enorme.”
La sua carriera nasce infatti da una serie di fortunati scambi di musica tra Chadia, un suo amico producer che ha fatto da tramite, Big Fish e Jake La Furia, che non appena hanno avuto tra le mani i pezzi che la giovane torinese registrava al telefono, ne hanno capito il potenziale e hanno reso possibile il contratto con Sony.
È proprio Fish a illustrarmi al meglio la figura di Chadia, il giorno stesso dell’intervista: “Chadia è la persona che tante ragazzine andavano cercando. Le adolescenti del 2000/2001, che la mattina devono andare per forza a scuola, e devono seguire delle regole, vedono in lei la ragazza senza regole che dice cose. Anche su Instagram, tante di loro cantano o ripostano frasi dei suoi pezzi. Lo vedo come segno di forza e indipendenza per le ragazze: lei è la prima a dire ‘Oh, che cazzo volete?’. Negli ultimi 30 anni le ragazze della scena rap italiana hanno sempre voluto vestire i panni dei ragazzi, fare come loro, essere al loro livello. In tutto, a partire dal modo di porsi. Chadia invece è una ragazza, forse più di tante altre. La sua forza è questa”.
Chadia Rodriguez. Foto di Mary Olano, per concessione di Sony Music.
Noisey: Ti piace Milano? Chadia Rodriguez: Sì! Mi sono subito ambientata molto bene. Sono riuscita a circondare da persone favolose, che mi vogliono bene, che ogni giorno credono in me, e continuano a spronarmi di brutto. Mi ci sono voluti un po’ di mesi, ovviamente, ma nel complesso sono molto soddisfatta della mia vita.
Con che musica sei cresciuta? In generale ho ascoltato rap da sempre. Ho avuto varie fasi, a partire da quella techno. Ho sempre amato la techno, lo trovo un genere quasi spirituale. Sono fan di quel tipo di techno un po’ più deep-house, allegra. Non è nel mio stile ascoltare cose che fanno prendere male. I Club Dogo sono stati i miei riferimenti, fin da bambina. Sognavo di essere come loro, e dovevo solo continuare a crederci. Avevo un amico che aveva contatti con quella scena, e quando gli ho detto che avevo dei pezzi miei, mi ha chiesto di passarglieli, che li avrebbe girati a sua volta a un paio di persone. Così sono arrivati a Big Fish.
Come sono nati quei primi pezzi? Li registravo al telefono. Magari tornavo a casa ubriaca o fatta, mi piaceva una certa rima su un certo beat, e la registravo. L’ispirazione mi veniva—e mi viene tutt’ora—in momenti random della giornata, di notte prima di andare a dormire, o al ritorno da serate.
Quando hai iniziato a scrivere musica? Da bambina. La musica è sempre stato il mio sogno nel cassetto. Appena ho avuto la possibilità l’ho colta subito, perché è ciò che avevo sempre sognato. Da piccola ricordo che avevo l’abitudine di dire cose a caso, scrivere rime in qua e là. Col tempo ho iniziato a ragionare su come potessi articolare un testo vero e proprio, quindi sulla tecnica di scrittura, la metrica, ecc.
Artiste donne che hai seguito, o di cui sei fan? Cardi B! Il suo posto se l’è preso, e ho preso tanto da lei. È stata una delle prime a mettersi a nudo davanti a tantissime persone. Mi piace il suo personaggio, anche se non si tratta neanche di personaggio. È proprio lei così. Oltre a lei, nella scena italiana sono molto fan di Arisa e Giorgia. Apprezzo il modo in cui sono riuscite a trasmettere certi messaggi, o a parlare di loro. Mi sono sempre piaciute.
Cardi B o Nicki Minaj? In realtà tutte e due. Non ho modelli assoluti, cerco sempre di non dover scegliere. Piuttosto prendo un po’ dall’una e dall’altra, e metto del mio come tocco distintivo. Tutte e due riescono a darmi una sensazione forte, e mi piace imparare da tutte e due.
Leggevo che ti scrivono moltissime ragazze, sui social. Per loro sei come un riferimento, no? Sì, un sacco di ragazze mi scrivono dicendo che si rivedono in me, che sono contente di sapere che sono anch’io nella scena, e che le mie parole le fanno stare meglio. Molte mi dicono che le loro mamme che soffrivano per gli ex fidanzati, con la mia musica riescono a stare meglio. Se madri e figlie si divertono e passano insieme del tempo grazie alle mie canzoni, a me fa solo piacere.
Tante ragazze mi scrivono poemi per dirmi quanto mi vogliono bene, quanto apprezzano quello che sto facendo, e di come riesco ad aiutarle. Io spesso rispondo, perché che problema c’è a rispondere a una fan? L’amore che loro danno a me deve essere uguale a quello che dò loro, quindi per me interagire con chi mi supporta è proprio importante. Ci deve essere un equilibrio. Ho sempre piacere a passare del tempo con i miei fan, in qualsiasi contesto, che sia fumare una canna o bere un Estathé. Così riesco a capire le loro esperienze, condividere i dolori, cosa che mi è vitale nella mia carriera.
È interessante che ci sia una ragazza, nella scena, a parlare delle proprie esperienze di vita, senza scendere a compromessi con la controparte maschile. Nella scena ci sono sempre stati più uomini ad essere autorizzati a dire la loro, come e quando volevano. Non potevi dire più di tanto, parlavano delle tipe come fossero oggetti, e dovevi farteli andare bene. Ora perlomeno la narrazione è invertita, e ci sono più voci femminili a farsi valere. Certo, chi non capisce è perché non vuole capire. In tanti si ascoltano le canzoni in inglese di rapper donne, in cui magari parlano della loro vita non propriamente tranquilla o convenzionale, ma dato che non sanno l’inglese non se ne rendono conto sul momento. Pensano che sia figo perché tanto è in inglese, il beat spacca, e nel complesso suona bene. Poi se scelgo di farlo io, in italiano, viene subito criticato, anche se il contenuto è lo stesso.
Una donna che è a proprio agio con la propria carica sessuale, e non ha problemi a esporre il proprio corpo come e quanto vuole, viene automaticamente vista come una troia, da queste parti, ed è tutt’altro che una novità. Ovvio. Quando invece se hai il coraggio di esporlo, è semplicemente perché stai bene con me stessa. Non mi vergogno di rimanere nuda davanti a nessuno, non mi imbarazza. Se mi insulti perché sono in intimo o nuda in una vasca da bagno, non hai capito niente di me. Ad ogni modo, la cosa figa anche della critica, è che in qualche modo ti torna utile a salire. Ben venga che ci sia gente che parla male di te: suscita interesse in chi magari non ti ha mai sentita ed è solo curioso. Tipo “andiamo a vedere che fa questa puttana che fa vedere il culo”. Poi quando vanno a vedere il contenuto, magari cambiano idea e iniziano a seguirmi.
Sì, gli hater ora come ora generano più clout dei fan. Già. Si è visto tanto con la DPG. All’inizio tutti a insultarli, odiarli in ogni modo possibile, ma loro se ne sono fregati, hanno continuato a fare il loro, e sono diventati quelli che sono ora. Le persone che li insultavano ora sono sotto al palco a cantare le loro canzoni. Io sinceramente cerco di vivere la mia vita al massimo, fare le cose che mi piacciono, e fottermene del giudizio delle persone.
Per un artista conta davvero tanto ciò che fai vedere di te sui social. Poi quando i tuoi fan, o le persone che ti seguono, ti incontrano dal vivo, si fanno un’idea più vera di te e capiscono meglio che persona sei. Ho incontrato dal vivo due mie fan, e una di loro mi ha detto che, venendo dal rock e non avendo mai ascoltato rap, adesso si ascolta le mie canzoni e ha il coraggio di mettersi un vestito attillato. Prima girava con maglioni, felpe e vestiti larghi, perché si vergognava del suo fisico, mentre ora no. Cose come queste mi danno molta forza, sapere che dò a mia volta forza agli altri. Mi danno la forza di continuare e di dire sempre la mia. Quando mi abbatto un attimo, leggo i loro messaggi e sto meglio.
Pensi mai a te alla loro età, e a come ti rapportavi con i tuoi idoli da piccola? Ci penso spesso. Alla loro età mi capitava di cercare l’appoggio dei miei idoli, ma non mi affidavo a quello per andare avanti. Sono sempre stata riferimento di me stessa. Ero il mio stesso guru. Sono sempre cresciuta da sola, e continuerò a farlo. Allo stesso tempo sento che il fatto che io sia passata attraverso tutto quanto quel dolore, non significa che lo debbano fare tutti i ragazzini—o le ragazzine. Attraverso la mia musica cerco di far capire determinate cose che magari i genitori o gli amici non possono far capire.
In casa come hanno accolto la tua scelta di dedicarti alla musica? Sono sempre stata supportata. È una cosa che ho sempre voluto fare, se mi appoggi bene, se non mi appoggi bene lo stesso. Alla fine se ti piace una cosa non è che puoi farti tanto ostacolare: se ci tieni davvero la fai.
Te lo chiedo perché a volte essere figli di immigrati rende le cose più difficili, specie quando si tratta di supporto per determinate scelte di vita. È vero. Mio padre è musulmano e marocchino, non dico che sia stato l’uomo più felice del mondo a vedere la figlia che si fuma le canne mezza nuda su YouTube. Quando però ha visto che ci credevo, che era quello che volevo fare, mi ha appoggiata al 100 percento. Non è semplice, come dici tu, sono d’accordo. Da piccola gliene ho fatte passare di tutti i colori, per trovare la mia indipendenza, la mia libertà. Non mi interessava se ero figlia di un musulmano. Non dico che non ci credo, però non dico neanche che ci credo. Ho avuto tanti casini che mi hanno reso quella che sono, e non mi lamento di niente. E immagino neanche i miei genitori! [Ride]
In generale direi che da quando vedono che la musica è una cosa che so fare, e la faccio bene, col cuore, si sono tranquillizzati. In generale se devo fare una cosa, mi impunto fino a farla alla perfezione. Magari nel mentre mi dispero, penso di non farcela, ma poi mi rendo conto di essere circondata da persone come Big Fish e Jake che credono tantissimo in me, ed è una forza in più. Mi aiuta a credere di più in me stessa. Se fai una roba dove sei circondato che non credono in te, stai certo che tu per primo non crederai mai in te stesso.
Che consiglio puoi dare a chi vuole dedicarsi a una sua passione, anche in contesti, familiari e non, relativamente avversi? Di buttarsi, e fare in modo di circondarsi di persone che le sostengono veramente, che credono in loro. Poi tu devi sempre essere la prima persona a credere in te stesso, ma nel caso in cui alcuni siano più deboli, avere attorno persone incoraggianti e fiduciose è essenziale. Io stessa ho continui alti e bassi, mi ritrovo spesso a pensare di non essere in grado, o non all’altezza. Poi realizzo che non posso mollare proprio ora, lasciando a metà una cosa su cui tante persone hanno creduto. Non è giusto né per me né per loro.
Il sostegno dei genitori, come dicevamo, è molto importante. Ne risenti, se cresci senza. Io da piccola giocavo a calcio, l’ho fatto per sette anni. Dopo che mi sono infortunata avevo deciso che non avrei più giocato, perché sentivo che quella roba avrebbe continuato a farmi sentire peggio. Non era giusto per nessuno andare avanti. Mio padre non lo capiva, pensava che avrei dovuto continuare, insistere, mentre secondo me no. Quando ho capito che era il momento di mollare, lui si è allontanato un po’ da me. Il nostro rapporto ne ha risentito. Poi col passare degli anni ci siamo ritrovati, e adesso che mi sostiene al 100 percento sono contenta. Tutta quella sofferenza, la distanza e il conflitto, è servito a rendermi la persona che sono ora. Penso che non mi manchi niente dalla vita.
La copertina di "Sister (Pastiglie)".
Parlami un po’ del tuo ultimo singolo, “Sister (Pastiglie)”. I Prozac+ sono il primo gruppo pop-punk che ho ascoltato quando ero più piccina. Quando ho saputo che Fish era amico loro, mi sono esaltata da morire. Del tipo “ti prego, facciamo qualcosa con qualche loro pezzo, chiediamo il permesso”. Quando hanno accettato a cedere proprio quel pezzo, ero felicissima. “Pastiglie” mi ha sempre dato un senso di allegria, e mi sono sempre immaginata un mondo estremamente colorato, pieno di pastiglie colorate, come poi è stato fatto nel video. Loro sono artisti che stimo tantissimo, e per me, aver fatto un remake di un loro pezzo, è un onore immenso. Infatti spero che piaccia a molte persone [Ride].
Il progetto è partito subito dopo “Fumo Bianco”. Abbiamo scelto di farlo uscire adesso perché era una cosa in cui credevo tanto, e volevo realizzarla al meglio, in modo da fare uscire il massimo sia da me che da loro. È un singolo che riesce a coinvolgere un pubblico diverso, più adulto, considerando che sono un gruppo che si ascoltavano quelli che ora sono trentacinquenni. Con i pezzi precedenti il target è quasi sempre stato più giovane, adolescente quasi. Ora Instagram dice che il mio pubblico arriva fino ai 65 anni, quindi sono solo contenta.
Torna Matt Pike, e torna suonando la carica. Come sempre ha fatto, come sempre farà, almeno finché i rettiliani non decideranno che è troppo pericoloso lasciarlo a piede libero e non prenderanno provvedimenti in merito.
Electric Messiah è l’ottavo disco in studio degli High On Fire, ed esce a vent’anni esatti dalla fondazione della band, oltre che nello stesso anno del ritorno degli Sleep; non solo, è anche il terzo prodotto dal sempre più onnipresente Kurt Ballou, che alle sue scorribande chitarristiche folli ormai affianca la produzione di un quantitativo inverecondo di bei dischi. Ma dicevo di Electric Messiah: gli High On Fire sono la classica band la cui musica può essere descritta in due modi diversi a seconda che si stia parlando con un fan oppure con qualcuno che passa di qui per caso, e questo nuovo disco non fa eccezione.
Se fai parte della seconda categoria, devi sapere che Matt Pike è un ex fattone complottista che ha visto i rettiliani cambiare forma davanti a lui durante l’organizzazione del nuovo ordine mondiale (l'intervista in cui ce lo racconta è linkata poco sopra). Allo stesso tempo, è anche uno dei chitarristi più divertenti e incompromissori degli ultimi trent’anni: Pike riffa, riffa, riffa e continua a riffare, e per questo suo atteggiamento intransigente e un timbro vocale sporco e riconoscibilissimo ultimamente viene spesso accostato a Lemmy, tanto che alcuni si spingono a dire che il testimone lasciato da uno sia stato raccolto dall’altro. Un po’ esagerato, ma di certo il buon Matt non è uno che le manda a dire o che si risparmia, ed Electric Messiah parte a cento all’ora e finisce a cento all’ora, continuando la strada intrapresa già col precedente Luminiferous e abbandonando qualsiasi velleità downtempo. Per quelle ci sono di nuovo gli Sleep, e poi dai, rallentare non ha senso, non quando i rettiliani sono a un passo dal prendere il controllo.
La sensazione è che il disco sia più rapido, più breve, che i pezzi siano più corti rispetto alla media, quando in realtà Electric Messiah è in tutto e per tutto simile, da fuori, al resto della discografia degli HoF. Solo che va più veloce. Niente “Blessed Black Wings” da cantare a squarciagola su tappetoni di riff gibbosi in mid-tempo, niente stonerate tranquillone: sempre dritti come fusi, chitarre più ruvide e una ritmica battente perennemente a traino di chitarre che non si danno tregua. E anche qualche assolone di gusto che spunta nel caos più totale, oltre ai soliti testi tra il criptico e il bruciato dall’LSD.
Oppure fai parte della prima categoria e sei un fan degli High On Fire: in questo caso, sappi che è uscito un nuovo album degli High On Fire che si chiama Electric Messiah, sappi che è un album degli High On Fire, sappi che ti farà felice esattamente come i sette prima di lui e anzi, se l’idea che Matt Pike salga un po’ di colpi ti affascina, probabilmente ti piacerà anche di più.
Electric Messiah è uscito il 5 ottobre per Entertainment One.
Ascolta Electric Messiah su Spotify:
TRACKLIST: 1. Spewn From The Earth 2. Steps Of The Ziggurat/House Of Enlil 3. Electric Messiah 4. Sanctioned Annihilation 5. The Pallid Mask 6. God Of The Godless 7. Freebooter 8. The Witch And The Christ 9. Drowning Dog
Per il progetto Unlock The City, realizzato in collaborazione con Timberland, abbiamo portato tre artisti nei luoghi di Milano in cui hanno vissuto e in quelli che hanno segnato la loro crescita artistica. Rkomi ci ha raccontato la sua Calvairate e i Navigli, i Coma Cose ci hanno portati in zona Ticinese e nel loro studio a Chinatown, Carl Brave al campetto da basket e al palco che ha segnato una svolta per la sua carriera.
Tutti e tre, insieme a Shablo, si sono esibiti assieme per un evento alla Fabbrica Orobia di Milano, dimostrando a chi c’era l’enorme potenziale della scena urban italiana. Qua sopra potete guardare un video girato lungo il corso dell'evento con le loro esibizioni, un pubblico caldissimo e la mostra di scatti degli artisti realizzati per il progetto da Francis Delacroix.
La scorsa settimana i Måneskin hanno pubblicato a distanza di pochi giorni un nuovo singolo con rispettivo video, "Torna a casa", e annunciato che il primo album ufficiale del gruppo sarà preceduto da un docu-film nel quale ai fan verranno mostrati il processo creativo di lavorazione al disco e il lato privato del gruppo di giovanissimi. La mia immediata reazione alla notizia è stata: ma davvero a qualcuno interessa così tanto?
Non perché, sia chiaro, io abbia qualche problema particolare con i Måneskin in quanto tali (anzi credo di averli pure votati nella scorsa finale di X Factor) o perché consideri indegno di essere ascoltato tutto quello che non è ambient techno, ma perché banalmente un documentario di un’ora e passa mi sembrava un filino eccessivo per una band emergente che ha finora pubblicato solamente un EP di cover. Stiamo però parlando di un gruppo che ha riempito i locali in tutta Italia facendo un sold out dietro l’altro, e visto che qualcuno quel docu-film lo avrà dovuto finanziare mi sembra evidente che sí, a qualcuno interessa così tanto dei Måneskin.
Quando i Måneskin sono apparsi sul palco di X Factor sono stati accolti dai giudici e dal pubblico, a casa e in studio, con parecchio entusiasmo. L'opinione generale sembrava essere, all’incirca: "Che figata, finalmente qualcuno di giovane che fa della roba un po’ diversa". Era abbastanza comprensibile: nei talent generalmente spiccano i solisti (con belle voci, che portano cover molto vicine all’originale), mentre le band sembrano sempre un po' la versione italiana di qualcos'altro. Inoltre è raro vedere in quel contesto gruppi di ragazzi giovani con una sicurezza che gli permetta di non farsi mangiare dal palco e dalla pressione, e che anzi riesca dalla prima esibizione ad affascinare gli spettatori. Anche la stampa che abitualmente non si occupa di musica, e che segue X Factor più come un qualsiasi reality che per il lato prettamente musicale, perché è una cosa grossa che succede nella cultura pop ogni anno, ha parlato immediatamente di loro.
Uno screen dall'esibizione di "Kiss This" con pole dance e scotch sui capezzoli di Damiano.
L'inedito con cui si presentavano era in inglese, con un testo piuttosto scarno: la chiave del loro successo era soprattutto quella che tutti, in primis il loro giudice nel programma Manuel Agnelli, hanno chiamato personalità. Se dovessi descrivere il look dei Måneskin lo definirei vicino al glam, uno stile percepito come più o meno "trasgressivo" dal pubblico generalista. Il lavoro di styling, anche durante il programma, è stato molto preciso e ha creato un’estetica molto definita, sempre più cool-trasandata, fatta di capelli cotonatissimi e trucco pesante. A completare il tutto c'è stata una performance in cui il frontman diciannovenne Damiano David si è esibito in calze a rete facendo pole dance, ripresa praticamente da tutta la stampa nazionale (tra cui Vanity Fair con il pregiatissimo titolo "Damiano la bomba sexy, come sorprendi stasera?") e ripetuta poi in tour.
Il brand era chiaro e l'obiettivo, dopo la fine del talent, sembrava quasi essere far parlare più di sé che della propria musica. I media italiani hanno colto praticamente ogni occasione per tirarne fuori del gossip: "Damiano e Victoria si credono Johnny Depp e Kate Moss. E i fan si infuriano", ha titolatoil Giornale a partire da una loro foto qualsiasi su Instagram. Deejay.it ha invece dedicato un articolo a "Damiano in piscina con gli slip di pizzo", facendo notare quanto le fan fossero "impazzite". E così via, di articolo gridato in articolo gridato. Pur lasciando intendere di voler essere rock i Måneskin sono diventati in tempo zero un fenomeno pop riconoscibilissimo, riuscendo a realizzare quella che probabilmente era la loro tutt'altro che intransigente idea di rock.
Nonostante la copertura mediatica che hanno ricevuto, sul palco i Måneskin sono rimasti una rock band qualsiasi. Le cover presentate durante i live sono state a seconda dei casi più o meno riuscite, ma l'obiettivo non era la ricerca di precisione vocale o di una grande innovazione musicale. X Factor cerca pop star che facciano musica per un pubblico il più ampio possibile e una cosa non deve essere perfetta né rivoluzionaria per piacere a tanti. Basta che funzioni, ed è questo che hanno fatto i Måneskin. Sono arrivati pompatissimi in finale, classificandosi secondi per poche migliaia di voti ma riuscendo comunque a piacere alle ragazzine tanto quanto alle loro madri, come ha notato con soddisfazione anche Damiano in questa intervista rilasciata a pochi giorni dalla fine del programma.
Una fotografia della band prima della fama, quando ancora erano felici per aver fatto 10.000 views su un video (via FB)
È forse solo dalle interviste che si riesce a ricavare un quadro meno artefatto di questi ragazzi, a capire chi siano e che cosa vogliano fare. Ne emerge il ritratto di giovani ambiziosi, anche un po’ arroganti, con tanta voglia di sfondare. Pochissimo spazio viene lasciato per confessioni personali e uno dei pochi scorci è forse in questa, dove i componenti raccontano quali sono i loro generi musicali preferiti spiegando che il sound "complesso" della band deriva dalla commistione dei generi che ciascuno di loro preferisce. Damiano ad esempio è sempre stato un amante del soul e del pop, mentre la bassista Victoria dice di apprezzare più o meno qualsiasi cosa, tra cui "Pompo nelle casse" dei Power Francers. Quello che comunque emerge con chiarezza da ogni loro dichiarazione è la dedizione che i membri della band mettono nel loro lavoro, dedicandosi interamente alle prove e alla scrittura di brani nuovi. L'hanno dichiarato molte volte: non hanno intenzione di scomparire come altre “meteore” passate dal programma, puntano ad arrivare sempre più in alto.
Vista da questa prospettiva, la svolta dell’ultimo singolo sembra inevitabile. Mettersi a cantare in italiano di un amore tormentato, girare un video in una villa settecentesca lasciando da parte drag e tacchi alti, facendo quello che fanno la gran parte dei cantanti e dei gruppi italiani da vent’anni a questa parte è una mossa che denota la ricerca di una sicurezza, la volontà di allontanarsi dall’immagine dei rocker che danno scandalo.
Ho sempre avuto l'impressione che il vero punto debole del gruppo fosse comunque la scrittura dei testi, di cui è autore Damiano: non so se i Måneskin abbiano mai realmente avuto qualcosa da dire al proprio pubblico, o se semplicemente siano un gruppo di gente molto giovane che si diverte a dare spettacolo e a suonare e che mira a farlo a lungo, per un pubblico il più ampio possibile. Forse inizialmente ce ne siamo disinteressati e, affascinati dal loro essere cool e a proprio agio sul palco, abbiamo ignorato che fondamentalmente stessero riproponendo roba che era innovativa negli anni Settanta.
L'artwork di "Chosen".
Dall'inglese smascellato del loro primo inedito, "Chosen", ho faticato a cogliere un paio di frasi intere. Genius come al solito mi è venuto in soccorso: riassumendo, i prescelti del titolo sono proprio i membri del gruppo, che dicono tipo "Ho iniziato a diciassette anni e non ho paura, no / e so che sembra un cliché, ma questo è il mio momento / E non m’importa cosa pensa la gente perché io sono nato per questo, sì". Mi sembra un testo qualsiasi, un po’ presuntuoso ma comunque adatto all'immagine che il gruppo voleva dare nel complesso.
Con i testi in italiano sono però cominciati i problemi perché rendendosi comprensibili hanno anche reso comprensibile il fatto che più o meno non ci stavano dicendo nulla. Nelle loro nuove parole si intuisce il tentativo di avvicinarsi a una scrittura d’amore, abbastanza classica nel pop italiano. Il primo “Morirò da re” parla di redenzione: nel ritornello si ripete "Morirò da re, amore accanto a te” eccetera. Praticamente niente di nuovo, restano megalomani e ci aggiungono l'ammmore.
Non che l'assenza di contenuti sia un problema, intendiamoci. La trap va forte proprio grazie all'assenza di una qualsiasi volontà di comunicare qualcosa al di là di quello che viene effettivamente detto (c’è completa aderenza tra significato e significante, si direbbe in semantica). Resta che a nessun trapper verrebbe mai in mente di parlare d’amore come fanno i Måneskin in "Torna a casa", l’ultimo singolo, scrivendo cose come: "Cammino per la mia città / e il vento soffia forte / mi son lasciato tutti indietro e il sole all’orizzonte" o "Che c’ho una frase scritta in testa ma non l’ho mai detta / Perché la vita senza te non può essere perfetta", che nel migliore dei casi non vogliono dire granché e nel peggiore fanno un po’ ridere.
Uno screenshot dal trailer del docu-film sui Måneskin, cliccaci sopra per guardarlo.
Sul trailer del docu-film faccio davvero fatica a esprimermi: vediamo i membri della band che si esibiscono, Damiano che urla "LET’S BE FUCKING ROCK N ROLL BABE", pantaloni di pelle e poco altro, perciò direi che si inserisce perfettamente nella narrazione che finora il management ha costruito per il gruppo.
Il prezzo che i Måneskin stanno pagando è, credo, una perdita di autenticità all'interno del contesto italiano. Solo sul lungo periodo sapremo se i loro fan continueranno ad apprezzarli o se in realtà erano solo rimasti ammaliati dalle calze a rete e dal loro inglese un po’ sguaiato. Resta che la musica pop italiana continua ad andare verso un appiattimento generale: come dicevamo qui, "gli autori sono sempre i soliti quattro vecchi" e, aggiungerei, quando gli autori non sono vecchi fanno di tutto per sembrare tali. Probabilmente aspettarsi che a rinfrescarla sarebbe stato il prodotto di un talent è stato ingenuo da parte di tutti.
Mi ronza in testa una cosa che una volta ha detto un mio professore: che i vent’anni non sono l’età in cui ci si preoccupa della pensione, perché sono o dovrebbero essere l’età dell’entusiasmo e delle scelte di pancia. Si può dire forse che i Måneskin, nonostante nessuno di loro vent’anni li abbia ancora compiuti, si sono messi a pensare alla pensione con largo anticipo.
Ma che cos’è che mi ricorda questa melodia? È una canzone famosissima, un grande classico, e non riesco a farmi venire in mente quale. Aiutatemi. Fatto sta che è una citazione perfetta per fare da struttura portante al suono senza tempo del nuovo singolo di Franco126, “Frigobar”.
Reduce dal successo delle varie Polaroid scattate insieme a Carl Brave, il cantante della LoveGang approda al lavoro solista spingendo con decisione nella direzione del pop. Non fosse per il suono della batteria elettronica che scandisce il tempo del brano, a nessuno potrebbe venire in mente che Franchino proviene da un contesto rap.
“Frigobar” si appoggia su pochi, familiari accordi di pianoforte (dai, davvero, che canzone è?), su un organetto Sixties e su un testo che parla di amore e solitudine tramite brevi flash: "La pioggia bussa contro il finestrino / E noi a discutere di niente fino a far mattino / Ricordi, appannavamo i vetri col respiro / Te ne vai di già?". E infatti il video è ambientato in un eterno crepuscolo, tra birre da 66 e sigarette in riva al mare.
Quando si parla di nuovo pop italiano, di una scena rap che si confonde con quella indie e viceversa, si parla proprio di progetti come quello di Franco126 e una canzone come questa si candida a essere tra le prime hit di questo crossover. Speriamo soltanto che, a forza di cercare la hit universale (e questo vale anche per Carl Brave), non si perda la forte personalità che ha reso la 126 un elemento di rottura nella scena italiana. Guarda il video in cima al post o ascolta il pezzo su Spotify.
“Dire trap ormai è dire pop, no?” risponde candidamente Wayne della Dark Polo Gang ad una domanda di questa intervista, mettendo nero su bianco un concetto che nel 2018 ormai diamo per scontato senza porci troppo problemi su come sia successo. In verità, se ci sono tanti modi di fare rap, ce ne sono altrettanti di fare trap e non tutti sicuramente coincidono con un successo discografico immediato o l’ingresso preferenziale nella cultura pop mainstream.
Innanzitutto siamo testimoni di come le tendenze mutino più velocemente che mai: basta pensare che nel giro di un paio d’anni siamo passati dal machismo glorioso dei Migos a un emo rap fatto di Xanax e pensieri suicidi, passaggio che ha influenzato sonorità e tematiche anche di molti rapper italiani. Va detto anche che lo squilibrio del numero di ascoltatori fra l’Italia e un grande esportatore come gli USA rende difficile da queste parti imitare il modello del SoundCloud rap, della piena visibilità ottenuta solo con autoproduzioni caricate gratis su internet, e quindi questo metodo va accompagnato con mosse più tradizionali e tipiche di ogni genere musicale tendente al pop. Lo sa benissimo la DPG, che ha pubblicato proprio in questi giorni il suo esordio su major; lo sanno Ghali e Sfera Ebbasta, che la promozione dei loro dischi l’hanno fatta anche nei talk show televisivi in prima serata. C’è però anche chi sta cercando di fare il salto di qualità raffinando il proprio essere pop su un livello stilistico più che commerciale: i Tauro Boys.
La gang romana ha pubblicato la scorsa settimana il suo secondo album, TauroTape2, e nonostante si possa tranquillamente dire che MAXIMILIAN, YANGPAVA e PRINCE siano rimasti gli stessi del primo tape, c’è un elemento che emerge sempre di più nei loro brani: l’orecchiabilità, o meglio, la facilità con cui i loro testi rimangono impressi nella mente di chi li ascolta.
Per dare un po’ di contesto, i Tauro Boys sono venuti fuori nel 2016 con diversi singoli postati su YouTube, mentre il primo mixtape, TAURO TAPE, è uscito l’anno scorso. L’immaginario, soprattutto estetico, è in parte assimiliabile a quello di Yung Lean, con riferimenti che spaziano dal gore ai videogiochi della Nintendo (vedi il beat di Terremoto, con il sample del mitico tema di Lavandonia dei Pokémon); ma nei testi c’è una candidezza fuori dall'ordinario. A differenza di quasi tutta la scena rap italiana, i Tauro Boys raccontano storie in cui qualunque ragazzo medio si può rispecchiare: non si parla ossessivamente di droga e soldi, non si parla del quartiere e non ci sono shout-out ai posti che hanno formato i tre rapper; c’è invece spazio per scene prese a caso dalla loro formazione, relazioni e esperienze più o meno fruttuose all’estero.
Trattandosi di trap, ovviamente una grossa fetta è dedicata all’autocelebrazione, che non potrebbe mancare, ma questa volta è meno ostentata e non prende il sopravvento sul resto. Eppure questi messaggi universali vengono veicolati in una maniera non sempre diretta; i testi spesso flirtano col nonsense (non è un caso che in questo articolo venga citato Pop X tra le influenze del nuovo album) e sono pieni di assonanze pesanti e associazioni di parole volutamente forzate. Aggiungendo a questi elementi la ripetitività dei ritornelli o di certe espressioni che ritornano tra un brano e l’altro, si capisce perché già al secondo ascolto ci ricordiamo a memoria quasi tutto quello che viene detto dai giovani tori, comprese le parti più criptiche e difficilmente interpretabili.
Rispetto al primo volume, questo nuovo TauroTape ha un suono sicuramente più leggero e minimal, ma ha anche più coerenza e un’idea ben più chiara di che direzione vuole prendere la crew. Roma è diventata Milano senza strappi eccessivi (“Io e te siamo la Metro C / Anche se a Milano ora c’ho quattro linee”, dice MXMLN in "Tempo"), la violenza dei primi beat si è trasformata in synth ovattati e in qualche riff di Generic Animal (che ormai è diventato una firma imprescindibile per la nuova scena romana). Le provocazioni sono rimaste nel lato estetico e nel modo di porsi (al release party di Milano veniva distribuito un poster con un fotomontaggio porno di Avril Lavigne), ma i contenuti sono diventati più profondi (“Internet ci ha solo divisi / Internet abbatte i confini / mentre mi chiudo dentro una bara di me”, recita il ritornello di "Red Wine").
In generale, la sensazione è che le tracce del TauroTape2 potrebbero entrare in testa a chiunque, anche a chi non ha mai seguito questo progetto prima d’ora e a chi non ha una passione sfrenata per la trap. L’esempio lampante è uno dei pezzi più sorprendenti del disco: "Napoli". Sulla strumentale alla Liberato YANGPAVA ripete all’infinito che “Milano con il mare sembra Napoli” e poi inizia a lanciare collegamenti tra la sua relazione, l’Unione Europea e la Brexit. La forza pop di questo pezzo, e di fatto di tutto l’album, è costruita sugli stessi elementi che hanno accompagnato i Tauro Boys negli ultimi due anni, come se per attirare un grande pubblico bastasse solamente riordinare dei tasselli già presenti. Ed è sorprendente come questa maturazione sia arrivata nel giro di pochissimo tempo e senza appoggiarsi troppo alle fortune di amici e colleghi più affermati della scena.
I Tauro Boys sembrano aver capito che si può essere diretti senza semplificare a tutti i costi, che si può fare pop senza accostare in modo didascalico generi opposti e che si può avere uno stile personale senza risultare pesanti e fastidiosi alle orecchie di chiunque non sia un fan-since-day-one. È per queste ragioni che sono la next big thing del rap italiano e questo ci basta per cantare a memoria i testi del TauroTape2 per tutto l’inverno.
TauroTape2 è uscito il 5 ottobre per Thaurus.
Ascolta TauroTape2 su Spotify:
TRACKLIST: 1. La droga è femmina 2. Marilyn 3. Dieci ragazze 4. Red Wine 5. Labile 6. Riflesso 7. Tempo 8. Napoli 9. 2004-2005 feat. Tutti Fenomeni 10. Compasso 11. Vieni con me
Da quando Facebook è diventato una roba che serve solo a convincere vostra madre a votare Salvini, Instagram è il mio nuovo social network preferito ed è proprio grazie a Instagram se ho scoperto i Rathauz.
Mentre scorrevo tra le varie storie, ho sentito il ritornello di "UN3SCO", una delle prime tracce che i Rathauz hanno caricato su YouTube (e forse anche una delle più accessibili, quindi nel caso voleste addentrarvi nel loro mondo, vi consiglio di partire da lì).
Io invece partirò dal loro primo brano uscito per Doner Music poche ore fa:
Diciamo che, se vi piacciono i Suicide Boys, ma li trovate un po' troppo sdolcinati, lo stile dei Rathauz potrebbe fare al caso vostro. Il progetto nasce da due fratelli veneti che da cinque anni organizzano feste trap dalle loro parti. "Abbiamo iniziato a fare cose con questo genere in un momento in cui, in un certo senso, eravamo proprio dei pionieri in Italia", mi racconta uno dei due fratelli che compongono la colonna vertebrale del gruppo (a cui si aggiungono comunque altri musicisti, in base al mood dei vari pezzi.
"Le prime cose che facevamo e caricavamo su YouTube erano molto più vicine all'idea comune di trap, mentre con '@lgebr@' abbiamo voluto andare più nella direzione dei nostri gusti personali, magari ci siamo un po' distaccati dal genere trap per fare quello che ci piace di più."
Il video del nuovo singolo segna questa rottura con gli stilemi del genere trap e, quella che sembra una lunga intro per il gruppo è in realtà un meta-racconto di questo cambiamento: "Ci ispiriamo molto al mondo del metal, in particolare la parte del cantato e abbiamo provato a portarla nel nostro progetto fin dall'inizio, quindi con questo pezzo stiamo solo arrivando alle conseguenze estreme di questo tentativo."
Per concludere: se nell'hip hop vi è sempre mancata la parte in cui puoi fare headbanging, questo è il gruppo trap che fa per voi.
Se seguite Noisey saprete benissimo che ieri sera Pusha T ha suonato al Fabrique di Milano e noi eravamo tutti discretamente carichi per il live di uno dei migliori rapper sulla scena. Insieme a noi a sudare sotto il palco c'era anche Roberto Graziano Moro, un fotografo che ha immortalato praticamente tutto il rap italiano e non ha nemmeno paura delle bolgie da concerto hardcore.
Abbiamo selezionato alcuni scatti per voi, così potete mangiarvi le mani se non c'eravate o ravvivare i ricordi annebbiati dall'adrenalina.
Dopo una breve pausa, dovuta ai pochi live e alla molta voglia di amore e capoeira del mese di agosto, ecco tornare la rubrica dei concertini in una versione più spinta che mai, come presto leggerete. Ma prima le coordinate: il concerto a cui siamo stati è quello di Pusha T, che per la sua unica data italiana, organizzata da Radar Concerti, ha scelto il Fabrique di Milano. In apertura c'erano Priestess e Nitro.
Il mio ospite era DrefGold, una persona in cui compagnia mi pare assai difficile potersi mai annoiare, per quella che è stata la mia breve ma intensissima esperienza. Il rapper di Kanaglia ci ha infatti accompagnati in un up and down di tutto rispetto. I down sono stati vortici di panico-paura, dato che per qualche minuto si è paventata pure la possibilità che se ne andasse prima dell’intervista e del live. Gli up invece sono stati una presa bene reale che ha rischiarato le sorti della serata e mi ha permesso di conoscere meglio un ragazzo giovane, ma con le idee molto chiare su quello che è il suo progetto artistico.
DrefGold e l'autrice.
Partirò dall’inizio, cioè quando tra Dref e la sua fame si sono frapposti i buttafuori del locale, che volevano perquisire le borse del McDonald's che lui e il suo entourage avevano con sé. Siccome la fame è un gran brutta bestia, e nessuno meglio di me che mangio ogni due ore come i neonati può capirlo, lo scambio tra le parti s’è fatto un filo acceso. Quel filo di troppo, forse, ma non saprei proprio quantificare perché sono in una fase della vita in cui ricerco solo good vibes. Credo si chiami senilità. Fatto sta che quando ho sentito gli animi scaldarsi mi sono chiusa nella mia bolla. La situazione si è però risolta alla svelta e Dref e i suoi si sono potuti mangiare i loro panini dal piano di sopra del sempre accogliente Fabrique, dove un Lazza in grandissima forma ha cercato di rasserenare ulteriormente il collega dicendogli "Bro, vai tranquillo, pensa che una volta a me hanno chiesto il biglietto per un mio concerto".
Da più o meno quel momento in poi, la wave è tornata a essere una love wave, e giuro che non si contano le volte in cui Dref si è scusato per il momento di sbrocco. Complice un backstage mega rilassato dove tutti, da Marracash a Gemitaiz, erano belli carichi per il concerto di King Push, è finita ad abbracci, chiacchiere e "bella bro". A posteriori posso dire che sarebbe stato un vero peccato non chiacchierare con DrefGold perché gli argomenti toccati sono stati tanti e fighi: dalla politica nei pezzi rap, alla sua opinione sulle rapper italiane fino all’importanza, appunto, di fare balotta e non più dissing con i colleghi.
Priestess si esibisce in apertura a Pusha T.
Noisey: Pusha T è uno dei tuoi riferimenti musicali? DrefGold: La verità è che io non sono mai stato del tutto flashato da Pusha, anche perché gli americani non sono esattamente i miei riferimenti più diretti. Però mi piace moltissimo French Montana, e lui è uno che ha collaborato spesso con Pusha T, facendo uscire tracce pazzesche: “Doesn’t Matter", "Trouble On My Mind" in cui c’è anche Tyler The Creator. Me lo sono ascoltato parecchio, però in mezzo a tante altre cose. Sono comunque consapevole del fatto che è stato uno che ha fatto tanto, uno grosso davvero.
Quando vai a concerti come questo, ti studi l'artista o preferisci semplicemente goderti lo show? Lo approccio con la curiosità di intercettare cose fighe. Tanto più per il fatto che non è esattamente uno dei miei preferiti c’è meno la parte emozionale, di fotta da fan. Sono qui anche per studiarlo, per vedere come si approccia a un concerto. Cosa fa, come lo fa, come si prende il palco, come si prende il pubblico.
Da che cosa ti accorgi che uno show è riuscito? Dal fatto che, a prescindere che ci siano più o meno persone si senta l’energia. Quando ero più piccolo e stavo a Bologna andavo a concerti con poco pubblico ma con sul palco gente cazzutissima che sapeva far gasare anche solo venti persone. Sta tutto nel fatto che la gente sia gasata da paura. A volte eventi da migliaia di persone non regalano lo stesso riscontro di cose più piccole in cui però l'artista riesce a entrare nei fan, a smuoverli di brutto. Sono curioso di vedere come il fan italiano risponde a un rapper americano come Pusha.
Il concerto di Nitro al Fabrique di Milano, in apertura a Pusha T.
Una cosa che mi sembra stia succedendo è che i rapporti tra voi rapper siano ormai molto meno basati sulla competizione e più sul fare balotta. Concordi? Sono del tutto d’accordo. Nel momento in cui la scena più old school si è accorta che la nuova scuola stava iniziando a prendere molto campo, business e pubblico ha prevalso il supporto. Alcuni se la sono fatti andare bene, altri si sono presi bene, altri ancora hanno deciso giustamente di non fare muro. A me non è mai capitato di entrare in un dissing e se mai mi capiterà spero che sarà per qualcosa di vero, non per delle cazzate che non portano a niente di niente. A parlare deve essere la musica. Anzi, la qualità della musica, visto che siamo tantissimi oggi.
Spesso si parla del messaggio che i rapper veicolano nei loro pezzi, ma quest'atmosfera non è essa stessa un messaggio positivo? Sì, ovvio, e spero anche che si ragioni pure di più su questa cosa, sul fatto che ci supportiamo molto... al di là di qualche cazzata legata ai social, che ogni tanto ci sta anche. Mettere un po’ di pepe, nei limiti, non fa male a nessuno.
DrefGold nello skybox del Fabrique.
Come ti stai preparando al tuo tour? Che tipo di pubblico pensi di incontrare? Sto provando tutto, dalla scaletta a come strutturare il live. Grandi training non ne faccio, anche perché ho 21 anni e riesco a tenere senza problemi un’ora di concerto. Poi per i cazzi miei, a casa e non in palestra, faccio qualche esercizio. Immagino che la maggior parte del pubblico sarà gente delle superiori, che sono quelli che mi seguono e mi scrivono di più su Instagram. Ci sta che vengano anche ragazzi delle medie, o più piccoli. Magari uno si vergogna a dire di fare ai live anche ragazzini, o addirittura bambini accompagnati dai genitori, e invece per me sarebbe una cosa fighissima, perché vorrebbe dire che sto arrivando ancora a più persone.
Parlando di successo: apprezziil fatto che in molti in Italia abbiano cominciato a parlare del lato più pesante del successo, da Gemitaiz a Side? È molto positivo perché vuol dire che finalmente possiamo dire quel cazzo che ci pare, se ci fa stare bene. Possiamo essere quel vogliamo, senza dei cazzo di paletti, mentre un tempo per chi voleva percorrere certi tipi di wave era dura esternare debolezze, fragilità o anche cose frivole. Esattamente come un tempo era molto più difficile che uno dicesse ai suoi genitori di essere gay, mentre adesso è più easy, lo stesso accade con i sentimenti, i problemi, le frivolezze nel rap e nella trap.
Marracash nello skybox del Fabrique di Milano al concerto di Pusha T.
Una delle tue frasi più famose è "Se stai con me dici fanculo al messaggio". Ma apprezzi e ascolti pezzi "di contenuto"? Per esempio, ti è piaciuta "90MIN" di Salmo? In Italia ci stiamo svegliando. La gente ha voglia di trovare la politica nella canzone rap e quindi ci sta che Salmo lo faccia, il suo è pure un pubblico un pochino più acculturato, fatto sia di ragazzini che da gente grande, che va all'università ed è dentro certi tipi di ragionamenti. Detto questo, penso che un genitore che porta il figlio a un suo concerto possa avere piacere a dire "Hai sentito Salmo, che non dice solo che fuma?", cose così.
Escludi o no di poter parlare, un giorno, nei tuoi pezzi di tematiche simili? Onestamente al momento lo escludo. O succede una cosa che mi appartiene davvero tanto, a livello viscerale, oppure no, non mi viene da parlare di quelle cose. Ma sai qual è il discorso? Anche se non penso di saperne di politica ho comunque, forse perché sono di Bologna, in mente dei valori, delle cose legate a un certo pensiero. Vuoi anche per i discorsi di mia mamma, vuoi perché quando vivevo ancora là giravo sempre per centri sociali. So le cose che voglio sapere e molte volte mi tira il culo quando vedo cose assurde accadere in Italia, ma proprio tanto. Però non ho manco voglia che la gente smetta di ascoltarmi perché mi sono esposto. Preferisco rimanere neutro, perché temo un po’ l'ignoranza delle persone.
Stasera si è esibita Priestess, da poco è uscita anche un'altra rapper che è Chadia Rodriguez: come vedi le donne della nuova scuola? In Italia non mi sembra fatta bene, questa cosa, proprio per niente. Mi sa che ci vorrà ancora del tempo perché si riesca a tirare una quadra intorno a questa situazione, anche perché se ci pensi pure con i maschi c’è voluto un sacco prima che non sembrassero dei babbi, coi vestiti 20 taglie più grandi. Uguale con le tipe, ma si deve partire da un altro presupposto: le cose vanno fatte fare a chi le fa. Io non sono assolutamente contro il rap al femminile, ma ci vuole un vissuto di un certo tipo. Per esempio in America le donne rapper vengono da situazioni estreme: Cardi B, per dire, era una che lavorava in uno strip club. In Italia mi pare si stiano facendo delle cose acchitate, giusto per fare del business. Non lo sento vero, non mi viene da dire "minchia, quella tipa lo vuole fare davvero, ha l’urgenza di farlo". Sono mezzo sicuro, lo sento quando le tipe cantano, che non è genuino. Non ci sono le corrispettive né di Sfera, ma nemmeno di Rkomi, Izi e via dicendo, e mi sa che non c’è nemmeno tanto il bisogno che ci siano. Ma questo lo vedremo a breve, quando suoneranno in giro.
Pusha T sul palco del Fabrique di Milano.
A questo punto ci siano dovuti interrompere, dato che il boato del pubblico del Fabrique ha annunciato l'arrivo di Pusha. E se Dref poco prima si era domandato come stesse sul palco, beh King Push è uno che il palco se lo divora in mezzo minuto, con l'atteggiamento di chi, anche alla milionesima data e anche senza avere davanti la platea della vita, da quella platea pretende, comunque, il massimo. Tanto da interrompere il pezzo, scaldare la folla e ripartire, ogni volta che gli è sembrato che la riposta fosse troppo fiacca.
Pusha è solo sul palco ma non sembra soffrirne affatto, anzi. Ci gode, Pusha, a stare lì sopra a ripetere di essere l'autore del disco dell'anno, DAYTONA, che in 20 minuti condensa il meglio del suo genio. La tripletta iniziale è stata devastante, con "If You Know You Know", cantata senza base in modo così grondante verità che ho sentito il bisogno di confessare tutti i miei peccati a una Priestess ipnotizzata come me su nella skybox del Fabrique, a cui sono seguite "The Games We Play" e "Hard Piano". Nel corso della serata hanno avuto spazio anche tutti i pezzi firmati dal suo pigmalione Kanye West, "New God Flow", "Mercy", "Feel The Love", "So Appalled" e soprattutto "Runaway", che ha inumidito gli occhi anche della balconata. L'unico punto amaro è stata la durata del concerto: 50 minuti, ma da vera divinità del rap.
"Sono stato sorpreso del fatto che ci fosse un pubblico davvero appassionato, il pubblico delle serate a cui andavo a Bologna, un pubblico dell’old school, piuttosto grande, dai 20-25 in su, e tutti carichissimi", mi ha detto Dref a concerto finito. "Di tanto in tanto ma nemmeno troppo spesso, si avvertiva il deficit dell’inglese, non tutti sapevano le parole precise, però erano tutti mega gasati. Lui bella presenza, davvero un grande. Mi dispiace solo non abbia fatto 'Trouble On My Mind', ma ha spaccato lo stesso. Detto questo ho imparato qualcosa, stasera”.
Mi ricordo ancora la prima volta che ho ascoltato Bob Dylan. Avevo 16 anni ed ero sul sedile posteriore di un’auto a noleggio, mentre la pioggia scrosciava incessante fuori dal finestrino. Non riuscivo a immaginarmi Memphis, non sapevo cosa fosse il blues – o almeno non nel senso classico del termine – ma non era importante in quel momento. Nei sette minuti di “Stuck Inside Of Mobile…”, le immagini si susseguono così nitidamente che mi sembrava di aver vissuto intensamente ogni verso, anche se non avevo capito una parola del testo, e forse non l’avrei mai capito davvero.
Tratto da Blonde on Blonde del 1966, il brano rappresenta forse il punto più alto della creatività di Dylan. Pubblicato subito dopo la svolta elettrica e registrato nel periodo in cui Dylan faceva un uso smodato di acidi e anfetamine, Blonde on Blonde fa parte di quella trilogia di album, citata in ogni magazine che parli di folk rock del mondo, prodotti prima dell’incidente in moto che terrà il cantautore di Duluth lontano dalla scena pubblica per circa otto anni.
Nonostante negli ultimi anni abbia mostrato lati di sé che davvero non ci aspettavamo – dalla rinascita spirituale cristiana, allo spot di Victoria’s Secret – il Dylan che sicuramente tutti noi ricordiamo è rimasto quello degli anni Sessanta, dei capelli fluenti, la sigaretta sempre accesa e i pantaloni stretti. È il Dylan che abbiamo visto nei documentari, in No Direction Home e Don’t Look Back, è il Dylan di “Like A Rolling Stone”, e il Dylan di quegli scatti rock’n’roll che oggi sembra essere svanito.
Tra i fotografi di punta dell’epoca, Jerry Schatzberg ha contribuito a creare questo immaginario a cui tutti siamo legati. Oggi, a oltre 90 anni, ha vissuto una vita artistica che molti di noi possono solo sognare. Oltre ad aver fotografato Dylan per la copertina di Blonde on Blonde, è stato co-proprietario del club Ondine, che ha ospitato davvero chiunque in quegli anni d’oro, dai Beatles, ai Doors, a Jimi Hendrix quando ancora si faceva chiamare Jimmy James; Schatzberg ha diretto diversi lungometraggi, tra cui Panico a Needle Park, che ebbe il merito di presentare Al Pacino al grande pubblico. Scattò delle foto al celebre concerto dei Beatles allo Shea Stadium di New York e fu l’autore della prima (e forse unica) foto dei Rolling Stones travestiti da donne.
In occasione dell’uscita del suo nuovo libro Dylan by Schatzberg, ho chiamato il fotografo per chiedergli come ha iniziato a scattare, come ci si prepara prima di uno shooting con una star e com’era la New York degli anni Sessanta.
Noisey: Hai iniziato a fotografare piuttosto tardi, giusto? Jerry: Sì, avevo 27 anni, ero già sposato con due figli. Prima lavoravo nell’attività di famiglia, eravamo venditori di pellicce, ma ho sempre odiato quel lavoro. Facevo il minimo indispensabile. Quando avevo del tempo libero, lo passavo nei negozi di macchine fotografiche. Non che fossi un grande esperto, ma era la cosa che mi interessava di più. Ho lavorato lì per quattro o cinque anni, poi ho trovato un annuncio del New York Times in cui cercavano un assistente fotografo. Non sapevo di cosa si trattasse ma ho chiamato, ho parlato con la persona che si occupava della selezione, gli ho raccontato la mia storia e lui, ridendo, mi disse ‘Dai vieni, vediamo cosa posso fare.’
Cosa ti interessava di più della fotografia? Scattavi anche prima? Molto poco. Avevo una macchina di plastica, facevo qualche foto, alcune erano anche ben fatte. Poi mi sono comprato una 35mm e ho iniziato a fare foto ai miei figli, ma non ero molto interessato alla cosa, non avevo esplorato quasi nulla.
È davvero assurdo che, senza sapere quasi nulla di fotografia, sia arrivato al New York Times. Le foto di moda e il lavoro da Vogue sono venuti subito dopo? Il primo posto dove mi mandò il NYT fu lo studio di Lillian Bassman. Lei è una fotografa straordinaria ma io all’epoca non la conoscevo. Il suo studio mi aveva folgorato: era tutto bianco e nero, con dettagli rossi e arancioni. Era una novità totale per me. Lei mi fece il primo colloquio al posto di suo marito, che era in Francia. Loro volevano assumermi e anche io ero interessato, ma la paga che offrivano, 25 dollari, era troppo bassa per mantenere la mia famiglia.
Quando hai iniziato a scattare per i magazine di moda? È stato circa due anni e mezzo dopo, tre al massimo.
So che hai incontrato Dylan grazie a Nico, giusto? Per me è inimmaginabile l'idea di frequentare queste persone. Era normale a New York all’epoca o eri entrato nel giro giusto? Quando è successo, stavo già lavorando. Avevo lavorato per Vogue, per Glamour e McCall’s. La prima volta che ho incontrato Dylan era il 1965, ma lavoravo con il mio studio dal 1954. Lavoravo principalmente nella moda, e avevo un’agenzia che mi mandava modelle da fotografare. Una di loro era Nico, quindi sì, lei l’ho incontrata per lavoro.
Come sei arrivato a Dylan? Eravamo amici, io e Nico. Lei e un’altra sua amica erano grandi fan di Dylan. Entrambe mi chiedevano sempre ‘Hai sentito Dylan?,’ e io rispondevo ‘va bene, va bene, lo ascolterò.’ Una volta ero a Parigi e Nico mi chiamò alla reception per chiedermi, di nuovo, ‘Allora hai sentito Dylan?’ Era ormai uno scherzo ricorrente tra di noi. Alla fine lo ascoltai davvero e rimasi sbalordito.
È quasi come un pittore, che usa le parole per creare un ritratto. Esatto, espressionismo astratto.
Sei stato anche proprietario di un club, giusto? Era diventato il punto di riferimento nella New York anni Sessanta? Ero co-proprietario di un locale che si chiamava Ondine. Abbiamo avuto molto successo per un periodo. All’epoca, ero molto amico degli Stones e tanti altri musicisti. C’erano Diana Ross, gli Stones, i Beatles, tutti sono passati di lì per divertirsi, perché sapevano che nessuno li avrebbe disturbati.
Come si scatta una foto a un personaggio come Dylan? Come facevi per sentirti a tuo agio? A quel punto della mia carriera, avevo ormai abbastanza esperienza. Avevo fotografato il Duca di Windsor dopo che aveva abdicato, in pratica l’ex re d’Inghilterra, ormai non c’era nulla di cui preoccuparsi. Poi ogni shooting è diverso, io cerco di comunicare il più possibile per far sentire le persone a proprio agio.
Cos’hai imparato fotografando Dylan? È difficile da dire. Eravamo amici, uscivamo insieme, andavamo a pranzo e a cena insieme, andavamo in discoteca. La cosa bella è che quando guardano gli scatti, le persone pensano sia stato difficile realizzarli, ma in realtà non è stato così. Eravamo amici. Al Aronowitz, giornalista rock’n’roll e grande amico, mi aveva messo in contatto con lui. E poi anche sua moglie, che io conoscevo da molto prima che si incontrassero, era l'altra ragazza che mi diceva sempre che avrei dovuto ascoltare Dylan.
Qual è la fotografia più significativa di tutto il libro? Penso che sia la copertina di Blonde on Blonde. Abbiamo iniziato scattando in studio, ma mi sembrava che non stessimo concludendo nulla. Così ho chiesto a Dylan di uscire in strada. Lui indossava una giacca scamosciata leggera. Anche io avevo una giacca leggera. Ma era febbraio e faceva freddo, facevo fatica a tenere la macchina fotografica ben ferma, e così quattro immagini su cinque erano venute sfocate, e una di quelle è proprio quella che scelse lui [per la copertina].
Chissà perché ha scelto quella... E chissà perché ha scelto quei testi. Ma è Dylan, era attratto dalle cose uniche nel loro genere, e sicuramente non aveva mai visto un’altra copertina come quella, e voleva qualcosa di speciale.
In quelle foto, aveva un look estremamente riconoscibile. Sì, aveva stabilito uno standard. Tutti cercavano di vestirsi come lui, di assomigliargli. Oggi non riesco a capire perché sia cambiato così tanto e cerchi disperatamente di sembrare un vecchio cowboy.
Parliamo brevemente della foto che hai scattato ai Rolling Stones travestiti, anche questa è nel libro. Com’è nata l’idea? Un giorno mi ha chiamato il loro manager, avevano un singolo che si intitolava “Have You Seen Your Mother, Baby (Standing In The Shadow)”. Lui aveva pensato di vestirli come le loro nonne, e l’idea mi è subito piaciuta. Non volevo assolutamente che sembrassero nonne britanniche, così ho scelto abiti americani. Loro sono impazziti, ho scattato anche delle foto nel backstage, e loro avevano voluto indossare anche la biancheria, proprio tutto.
In questo momento in testa alle tendenze di YouTube trovate Daniele De Martino - Ti cerco e ti amo (ufficiale 2018)". Si tratta del video "ufficiale 2018" dell’ultimo fenomeno neomelodico di cui non sai nulla se sei di Castelli Calepio (BG), ma che colleziona milioni di views in alcuni centri del sud e riempie piazze tutto l'anno.
Qualche info di base: Daniele De Martino ha circa 22 anni e, a dispetto dello stile e della lingua dei suoi brani, non è di Napoli ma di Palermo, in accordo a una vecchia e mai troppo digerita (da me) tradizione che vuole che il neomelodico in Sicilia venga cantato in lingua.
Numero due: è uno dei capi della nuova scena neomelodica, ma rispetto ad altri suoi colleghi di categoria, che stanno cercando di spostare il genere un po’ più in là, tra tentativi di reggaeton e intromissioni rap, è molto più classico nello stile, nella costruzione dei brani, nella struttura melodica, nei video.
Non a caso, se cercate info biografiche, vi imbattete presto in questa sua cit di qualche anno fa che di tanto in tanto mi piace andare a rileggere: "Un giorno, nel 2004, un signore con la giacca nera e la camicia bianca mi sentì cantare. Si avvicinò e mi disse: come ti chiami e quanti anni hai? Daniele e ho 8 anni, risposi. Bene, disse, ti prometto che presto diventerai un artista come me. Era Gianni Vezzosi".
Cioè lui.
"Ti cerco e ti amo" è infatti un classico in tutti i sensi. È un perfetto esempio di clip neomelodico del tipo "autocelebrativo": un autore che parla con sé e gli altri e si strugge d’amore (con tanto di banner-invito a liberarsi dell’orgoglio "quando si tratta d’amore") mentre si vedono scene di concerti dalle folle oggettivamente oceaniche e cattivi esempi di vandalismo—bomboletta in mano contro una piazza, rimmel in pugno contro il contorno occhi della protagonista femminile.
Altre cose che dovreste sapere di Daniele De Martino: la sua pagina Facebook è piena di live session di cui sono molto vorace, i suoi duetti col piccolo Daniele Marino sono tanti e tutti fortunatamente epici, la sua etichetta Seamusica ha un canale YouTube pieno di tutto quello che desiderate davvero dalla vita: amori finiti, motorini e macchine, bei capelli.
Sì, certo, il Chicoria è un rapper, un poeta urbano, uno street artist e (se lo seguite su Instagram lo saprete bene) un'icona fashion. Ma è soprattutto un amante della musica, in particolare della musica rap, e ha le idee molto chiare su cosa gli piace e cosa non gli piace.
Dopo aver recensito per noi Crack Musica qualche tempo fa, il Chico è tornato a parlare della Dark Polo Gang, questa volta ascoltando il nuovo disco del trio, Trap Lovers. A quanto pare non è molto contento della svolta pop intrapresa da Tony, Wayne e Pyrex, e ha deciso di farglielo sapere. "Regà, era mejo prima! Capezze, Gucci, Pollo e cocaina e impicci per sempre!"
Fateci sapere che cosa ne pensate e su quali altri dischi vorreste sentire l'opinione del Chico tramite commenti e DM su Instagram e su Facebook.
Prima di "Parole di ghiaccio" era tutto diverso. Ti infamavano, quando decidevi di metterti a cantare. Ti davano del traditore, se li avevi fatti innamorare a forza di mixtape in cui dicevi in modo molto convincente che tutto e tutti ti dovevano solo succhiare il cazzo. Avevi fatto milioni di views con i freestyle? Quelle che facevi cantando d'amore non valevano nulla. Eri un Dio? Bè, ora eri diventato un babbo.
Era il 2012 quando Emis Killa diventò uno dei primi volti del rap che usciva definitivamente "dal centro sociale", per metterla giù come ha fatto un altro dei protagonisti di quella svolta epocale, Guè Pequeno. E chi c'era, ad accompagnare il giovane Emiliano nell'iperstimolazione e nel trauma di questo mutamento? Big Fish, che questo processo lo aveva avviato sei anni prima assieme a un rapper che mangiava lucertole aperte da ragazzino e chiedeva che gli venissero fatti degli applausi.
Sono sei anni che Emis vive una sorta di doppia vita. Ogni volta che ci si interroga sui migliori rapper italiani di sempre il suo nome non manca mai, incastonato nella pietra della storia già dai tempi di Tecniche Perfette e dai mixtape su Blocco Recordz. E poi arriva sempre qualcuno a tirare fuori "Parole di ghiaccio", "Soli (Assieme)", "Maracana", "Cult": quei momenti in cui ha aperto le braccia e ci ha messo dentro l'Italia intera - quella che si conquista con il calcio, l'amore, il sole e il mare.
"Questa roba del rap mi esalta ancora, lui forse si è un po' rotto le palle", dice oggi Emis del suo rapporto con Big Fish. Si sentiva, tre anni fa, quando pubblicò Keta Music Vol. 2 e poi a breve giro Terza Stagione, due progetti che spostavano i riflettori dai movimenti del cuore e li puntavano su bicipiti oliati, lacerazioni e coreografie testuali. E si sente oggi in alcuni dei brani del suo nuovo album Supereroe, un progetto in cui sembra sovrapporre le sue identità rendendosi conto che sono sempre state la stessa identica cosa.
C'è molto di cui parlare, all'interno di Supereroe. C'è un singolone da milioni di views come "Rollercoaster", ma anche un pezzo in cui Emis si lamenta che le radio e le etichette gli mettono i bastoni tra le ruote. Ci sono canzoni d'amore, ma anche canzoni di sesso e droga. C'è un featuring con 6ix9ine, cioè uno dei rapper più controversi del momento, che continua a macinare successi nonostante la condanna per aver coinvolto una tredicenne in un rapporto sessuale che ha sulla fedina penale. E c'è molto di cui parlare anche all'esterno di queste nuove canzoni, dato che di fronte ho un ragazzo che è padre da un mese e mezzo, pieno di parole che sembra molto felice di poter buttare fuori.
Emis Killa, fotografia di Arianna Airoldi.
Noisey: Su Terza Stagione avevi voluto fare un disco crudo e grezzo, mentre ora i sentimenti e l'amore sembrano essere tornati in primo piano. Come mai? Emis Killa: A quel tempo ero molto incazzato per fattori lavorativi e personali e allo stesso tempo mi sentivo molto nostalgico. Avevo parlato così tanto di sentimenti e mi ero così focalizzato su questa cosa del mainstream che mi ero un po' rotto i coglioni. Volevo tornare a fare del sano rap, come piaceva a me. Quest'anno, essendomi tolto quel sasso dalla scarpa, mi sono concentrato di nuovo sui sentimenti. Ma perché sono rifioriti. Sai cosa? A volte ci vuole tempo per decifrarli mentre prendono forma.
Sei diventato padre da poco. Un mese e mezzo fa, quindi quell'emozione ancora non c'è nel disco.
Com'è cambiata la tua vita dalla nascita di tua figlia? Siamo ancora in quella fase embrionale, tutto sta prendendo forma! Sono molto concentrato sul lavoro e mia figlia, da brava neonata, ancora non interagisce e dorme per la maggior parte del tempo... è cambiato più il mio senso di responsabilità, la percezione che ho di me stesso. Oggi so che sono padre, quando dico "mia figlia" mi fa strano. Mi sento un adulto a tutti gli effetti. È una cosa che ho voluto tanto, ma non potrei scrivere ora una canzone su mia figlia. Farei confusione, è ancora tutto troppo fresco.
Come ti fa sentire il fatto che in futuro tua figlia potrà andare ad ascoltare le canzoni di suo padre per conoscerlo e farsi un'idea di lui? Mi stranisce. Io ho conosciuto mio padre solo attraverso la sua presenza e quello che si diceva di lui, mentre mia figlia vedrà video di suo padre che faceva freestyle a sedici anni. Non che la cosa mi spaventi, però non vorrei confonderle le idee. Mi chiedo che effetto le farà sentirmi incazzato, dire robe brutali, parlare in un determinato modo delle donne. Ma la cosa non mi preoccupa perché mi sento perfettamente all'altezza del compito di padre e sono sicuro che sua madre farà altrettanto bene il suo lavoro.
Comunque di grezzume ce n'è ancora, in Supereroe. Certo, ma non è stata la cosa principale. L'ho un po' razionato.
La copertina di Keta Music Vol. 1, cliccaci sopra per scaricarlo.
La copertina del primo Keta Music torna in “Cocaina”, quando dici “Stendo righe su chili di carta”. Che ricordi hai di quell’Emiliano? Non ci avevo mai pensato ma bravo, è vero! Sono cambiato tanto in certe cose e pochissimo in altre. Forse la domanda più corretta è "Cosa direbbe l'Emiliano di allora se vedesse quello di oggi?" Io lo conosco, è lui che non conosceva me. Resta che quello è un episodio della mia vita, uno dei tanti me. Quell'Emiliano era un bravo ragazzo, in gamba col rap, arrogantello però determinato. Penso che sia la sua determinazione ad averlo portato dov'è oggi.
In "Donald Trump" parli di radio che passano poco la tua roba, di discografici che ignorano "i cori" del pubblico costruendo un muro. Però non mi sembra che la tua roba non giri. "Rollercoaster" è ovunque. "Rollercoaster" ha avuto un successo clamoroso, è vero, ma non era voluto. Non sono andato a cercare la hit radiofonica. Hanno iniziato a passarla non dico tardi, ma solo quando era già diventata una piccola hit, consacrata dal volere del popolo per i numeri che aveva in streaming. Da qua mi collego a "Donald Trump": se fai il rapper sei costretto a fare un pezzo che funzioni per passare in radio, se fai un altro genere non è necessariamente così. Godi di una credibilità che ti è stata data per una hit che magari hai fatto anni prima. Parlo di Ligabue, nel pezzo, ma prendi anche solo una cantante pop come Emma Marrone. Lei non ha bisogno di fare la hit dell'anno per passare in radio, esce col disco e il suo singolo la radio lo suona automaticamente. Poi ovvio che se poi il pezzo non funziona lo passano meno, ma intanto lo mettono perché Emma Marrone è "radiofonica", per usare il termine che piace tanto a loro.
E i rapper quindi cosa devono fare quando vogliono passare in radio? Noi dobbiamo andargli incontro. Ogni volta che faccio un disco devo bussare alla loro porta e vendergli una mia canzone e questa roba mi fa incazzare. Perché ci sono numeri incredibili fuori dal vostro network che non vengono considerati e passa in radio gente che non si incula nessuno e non vende dischi e non fa concerti perché nessuno li va a vedere? Non capisco questo meccanismo. Spotify è un po' più democratico del volere della radio, la gente ascolta più o meno quello che vuole, tolte le playlist. Ma se guardi quelle classifiche sono rap al 90%. Facciamo finta che ho ragione a metà io ma tu, radio, sei disposta ad ammettere lo stesso? Non possiamo venirci incontro, fare un mix delle due robe? Così non perdi il tuo pubblico e la gente non parla male della tua radio? I giovani non ascoltano la radio, ma non perché hanno il telefonino. Nessuno ha sempre voglia di mettersi lì con il bluetooth sulla piattaforma, se la radio passasse dei pezzi fighi me la ascolterei anche. E invece non lo faccio mai perché c'è quasi sempre una canzone che non mi piace, uno speaker egocentrico palloso che parla due ore tra un pezzo e l'altro di cose di cui non me ne frega un cazzo, e soprattutto se c'è un ospite che fa il rapper sento quella roba per cui viene trattato come se fosse uno con dei problemi, un alieno, uno che intimorisce.
Ecco, che cosa ne pensi del modo in cui i rapper vengono rappresentati dai media generalisti? Una volta mi hanno invitato in una radio, non dico quale perché non voglio creare polemiche, ed eravamo in diversi ospiti. Mi sono fatto lo sbattimento di arrivarci, perché non era neanche a Milano, e mi sono sentito trattato proprio come quello di contorno. Nonostante gli altri ospiti non avessero granché da dire, e io non li trovassi così carismatici, io ero il rapper. E quindi mi sono sentito come il coniglio di Chiambretti, te lo ricordi? Ci voleva il rapper ironico, quasi buffo, a cui chiedere qualcosa ogni tanto. Ma io non sono il coglione del Chiambretti, sono un artista, faccio dischi, esisto concretamente. Perché la radio continua a trattarmi come se non fossi ancora degno di quella roba lì?
La copertina di "Rollercoaster" di Emis Killa, cliccaci sopra per guardare il video su YouTube.
Come si è evoluto negli anni il tuo rapporto con Big Fish? Fish gode di una mia grande stima artistica. Arriva dai Sottotono, ha fatto Fibra, ha fatto "La fine" di Nesli, ha prodotto "Parole di ghiaccio", "Maracana", "Cult" e gran parte delle mie hit. Me lo sono sempre portato dietro, insomma. Il rapporto con lui è difficile, ma non a livello umano. È che abbiamo due ego molto importanti. Lui è uno che c'ha la sua testa e a volte vorrebbe spingermi... non a fare quello che dice lui ,ma è convinto di avere la soluzione in tasca. Mi consiglia di usare basi, magari io provo a usarle e non mi esce niente. Crescendo forse ci siamo un pelino allontanati artisticamente, abbiamo preso strade un po' diverse. Su Supereroe abbiamo fatto un po' più fatica a venirci incontro e a tirare fuori pezzi. È che 'sta roba del rap mi esalta ancora, lui forse si è un po' rotto le palle. Ma lo capisco. C'ha quasi cinquant'anni, Massi.
In passato invece com'era lavorare con Fish? Per L'erba cattiva era stato un processo naturale. Ero entrato in studio e quasi tutte le basi che mi dava per me erano valide. Essendo al mio primo disco ufficiale ero una scatola piena di idee mentre adesso devo andare a cercarle in giro. Ma è rimasta quella professionalità, è rimasto il suo appeal. Nelle sue produzioni c'è sempre qualcosa di diverso che rende il suono fruibile anche all'ascoltatore medio, ed è quello che gli altri produttori non riescono a fare. Magari chi è fissato con il rap puro e sente solo roba black non mette Fish nella sua top 3, ma se parli di produttori italiani hip-hop Fish ce lo devi mettere lì sul podio. La sua è una formula che ha sempre funzionato.
In mezzo alle critiche non hai mai perso la tua reputazione, però. Si parla sempre di te come uno dei migliori rapper della storia d'Italia. La roba del "commerciale", "venduto", non aveva senso. Potevo comprenderla fino a qualche anno fa, adesso io sono Nas in confronto a quelli nuovi! Ho acquisito credibilità e questo in realtà gioca a mio favore. Non voglio immaginare cosa mi avrebbero detto se avessi fatto "Rollercoaster" anni fa, "Minchia basta, vai a fare queste cagate reggaeton da un'altra parte". E invece il pubblico si sta abituando al fatto che gli artisti possano avere mille facce senza mai essere falsi, nell'arte come nella vita quotidiana. Posso sembrare presuntuoso, però è innegabile che io sia uno dei migliori rapper. So fare i pezzi rap, so fare bene l'extrabeat. Ascolta "Quella foto di noi due": non te ne rendi conto perché è un pezzo scorrevole, d'amore, ma se analizzi la seconda strofa di rendi conto che è un incastro di rime totale. Il mio DJ sta facendo fatica a imparare le doppie di quel pezzo. Ho fatto le robe pop, però le ho fatte bene. E poi non sono un cantante, ma canto meglio di alcuni rapper.
A proposito, tu e Fish siete stati tra i personaggi più influenti nel passaggio dal rap più intransigente a una sua concezione più aperta. I più influenti, su questo non ci piove. L'erba cattiva è stato il disco che ha aperto il rap italiano alle melodie. È una roba nuovo, ma io comunque ce l'avevo dentro. Prendi "Champagne e spine". O ti ricordi "Non fa per me", con l'autotune? Anche in "Sono cazzi miei" canticchiavo, anche se era una roba che non si faceva tanto. Fish era portato di suo a fare quella roba e quindi è stata una combo micidiale. Ci sono dischi che segnano svolte storiche, L'erba cattiva è un classico del suo tempo. È uno scalino della lunga scala che ci sta portando chissà dove.
La copertina di Supereroe di Emis Killa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.
6ix9ine è un artista molto controverso. Nonostante sia avendo grandi riscontri a livello artistico, collaborando con Nicki Minaj e Kanye West, in passato è stato condannato per pedofilia. Avevo visto, anche quando si dissava con Trippie Redd lo sfottevano per quella roba.
Sì, ci sono anche video della cosa. Un suo amico si faceva fare un pompino, lui teneva in braccio questa ragazzina di tredici anni, la sculacciava e faceva finta di farci sesso. Ha patteggiato per non finire in carcere, anche se ora rischia di nuovo per aver infranto i termini che aveva stabilito. Non la sapevo fino a questo punto. Pensavo fossero quegli sfottò, come stanno facendo adesso con Laioung dandogli del pedofilo.
Bé, come la vivi questa cosa? Riesci a separare arte e artista? Guarda, è il motivo per cui penso che a volte l'esposizione della vita privata faccia male. Credo che i fan non debbano mai conoscere i loro idoli, perché potrebbero restarci delusi. Basta una risposta sbagliata e un tuo idolo e diventa una merda. Diciamo che la roba migliore è quando un artista è vero ed è vero anche di persona. C'è chi mi considera arrogante nella vita privata e si stupisce, ma la mia musica non la senti? Ok, faccio roba introspettiva, ma anche arrogante. Se ogni tanto mi rompi le palle mentre sto mangiando con la mia ragazza, tu mi punti il telefono in faccia, io te lo prendo di mano e ti dico di levarti dai coglioni non puoi stupirti. Io da Emis Killa me lo aspetterei. Poi se tu hai ascoltato solo "Parole di ghiaccio" ti aspetti un ragazzino innamorato, ma è un limite tuo. Ci sarebbero molti esempi di persone che danno da discutere, non solo 6ix9ine. Io ho una gigantografia di Mike Tyson in casa e ce l'ho tatuato addosso. Anche lui come essere umano è più che discutibile ma io me ne fotto. Non sta a me giudicare o giocare a fare Dio. Sono fan di una cosa e la supporto per quello che è.
Sono d'accordo, ma a una condizione. Per dirti, XXXTentacion ha scritto dei capolavori ed è giusto ascoltarli e parlarne, ma a patto che si ricordi sempre il contorno della sua musica e ciò che è successo. Poi ognuno può farsi un'opinione. Io ho un modo mio di vedere la roba. Facciamo un gioco. Facciamo finta che tu sia un assassino di professione. Io penso che sia giusto che tu vada in galera se ammazzi la gente, ma se mi chiedi una mano per una buona causa ti aiuto. Capisci quello che voglio dire? Se mi chiedi 20.000 euro per salvare la vita a tua sorella lo faccio, ma non per te. Per lei. Tu sei soltanto un tramite. Non valuto le persone in base a come si sono comportate in un determinato spazio-tempo con qualcuno. Le valuto in base a quello che sono con me. Poi ci sono delle cose che mi danno fastidio e faccio fatica a reggere. Se domani un mio caro amico molesta una ragazzina rimane un pezzo di merda e sono contento che se lo inculino in carcere. Ma allo stesso tempo se fa qualcosa di giusto lo riconosco. La gente tende a ragionare in bianco e nero, "sei una merda e tutto quello che fai è sbagliato". Ma non è così.
Fotografia di Roberto Graziano Moro
Un'ultima domanda: come ti rapporti con gli Stati Uniti, a livello umano e professionale? Prima l'America la vedevo nei film, mentre ora tutti gli anni ci vado. Ho amici lì che frequento ed è così che è nata la collaborazione con 6ix9ine. Conoscevano PashaPG, che conosceva lui e così si è chiuso il quadro. Però non mi approccio all'America come stile di vita, di loro mi piace la musica, il modo in cui la fanno, il modo in cui si approcciano tra loro e dettano la moda senza correre dietro a nessuno. Ma personalmente c'è anche molto che non mi piace. Ci sono trapper americani che, scusa il termine, sembrano letteralmente dei mongoloidi a fare SKRRT SKRRT. Che lo faccia un italiano o che lo faccia Young Thug è la stessa cosa, non è che se sei nato là sei credibile. Continuo comunque ad ispirarmi all'America e ad ammirarli in maniera immensa. Cazzo gli devi dire? Ma non dico che tutto ciò che fanno e oro. Qua se viene a suonare un americano stanno tutti con le mani al cielo dall'inizio alla fine...
"Ignoranti da schifo ma al passo col trend, Gucci Gang, Gucci Gang, Gucci Gang", rappi. Ecco, per dirti, a me Lil Pump non piace. "Gucci Gang" è una hit, ma come rapper lui è scarso. Fa parte di quella cerchia di nuovi rapper che hanno un'attitudine che non mi piace. A me fa ridere come si pone, come va in giro conciato. Ma vedere questi italiani che li emulano, che fanno tutte 'ste mosse, non mi sa di credibile. Si vede che non siete quella roba lì, che non la vivete. Io non ce la farei, ma forse è che sto diventando vecchio. Quando ero giovane qualche vecchio vedeva la stessa cosa in me. "Perché rappi come i Dipset?" Perché mi piacevano! Io non ho la verità in bocca, ho solo opinioni.
Quando tutti abbiamo detto (e almeno una volta tutti l'abbiamo detto) che i cantanti della generazione del '68 erano stati in grado di scrivere canzoni immortali e prevedere il futuro, non intendevamo proprio questo, ma in un 2018 in cui la vita assume sempre di più i contorni di un vecchio meme su Twitter tutto è possibile.
Da pochi giorni è uscito un libro postumo di Leonard Cohen, cantautore e poeta americano morto a novembre 2016, intitolato The Flame. La pubblicazione raccoglie testi di canzoni e poesie inedite che l'autore di capolavori immortali come "Suzanne" o "Hallelujah" aveva lasciato dietro di sé sulla Terra. È bastato poco perché una poesia in particolare attirasse l'attenzione del grande pubblico e diventasse un piccolo caso virale. Porta la data del 15 marzo 2015 e un titolo accattivante: "Kanye West Is Not Picasso". La prima a twittare la poesia, scatenando un prevedibile casino, è stata la cantautrice Amanda Shires.
Vediamo se riusciamo a tradurre in italiano la poesia senza rovinarla:
Kanye West non è Picasso Io sono Picasso Kanye West non è Edison Io sono Edison Io sono Tesla Jay-Z non è il Dylan di Niente Io sono il Dylan di qualcosa Io sono il Kanye West di Kanye West Il Kanye West Del grande cambiamento farlocco della cultura del cazzo Da una boutique all'altra Io sono Tesla Io sono la sua bobina La bobina che ha prodotto elettricità soffice come un letto Io sono il Kanye West che Kanye West pensa di essere Quando ti sbatte giù dal palco Io sono il vero Kanye West Non mi faccio più vedere tanto in giro Non l'ho mai fatto Mi risveglio soltanto dopo una guerra E non ce l'abbiamo ancora avuta
Insomma, Leonard Cohen ha dissato Kanye West dall'Oltretomba. E l'ha fatto con tre anni di anticipo rispetto a tutte le interviste preoccupanti e di questo video. E che dissing. Spero sinceramente di non far mai arrabbiare il fantasma di Leonard Cohen. "...E non ce l'abbiamo ancora avuta". Brr.
Lo so che ormai la saga di Kanye West e della sua passione politica è diventata sabbie mobili, e che più ci agitiamo più rischiamo di finire sotto. Ma ieri Kanye è stato alla Casa Bianca, con indosso un cappello Make America Great Again, E QUELLO CHE È SUCCESSO HA SCONVOLTO INTERNET!
Tanto per cominciare, Kanye è la prima persona a usare pubblicamente la parola "motherfucker" durante un incontro ufficiale con il Presidente degli Stati Uniti: "Trump sta facendo il suo viaggio da eroe, e magari non si sarebbe aspettato che un pazzo figlio di puttana come Kanye West lo avrebbe supportato ma, potete scommetterci, renderemo l'America grande". I discorsi intrattenuti davanti a una folla di giornalisti hanno toccato argomenti come i rapporti razziali in America e le tasse, ma anche l'infanzia di Kanye, la diagnosi errata di sindrome bipolare (si sarebbe trattato di semplice insonnia secondo una diagnosi successiva) e "infiniti universi alternativi".
L'incontro con i giornalisti è durato circa una ventina di minuti, durante i quali Trump e West hanno risposto a domande su una eventuale candidatura del rapper alle elezioni ("Soltanto dopo il 2024, ora pensiamo al presente" ha risposto West), sulle accuse di razzismo rivolte al Presidente e ai suoi elettori ("Non rispondo a domande con semplici slogan, stai assaggiando un vino che ha note molteplici") e la questione delle armi e della violenza negli USA ("Il problema sono le armi illegali, non quelle legali").
Ma la parte più impressionante è un monologo da 8 minuti in cui Kanye è come un fiume in piena e salta di palo in frasca, parlando della sua infanzia, dei suoi problemi mentali, della reazione della comunità afroamericana al suo supporto per il Governo repubblicano, e finisce per mostrare al Presidente Trump la foto di un aereo a idrogeno chiamato IPlane1 che secondo lui dovrebbe sostituire il velivolo presidenziale. In un breve video diffuso dal Guardian se ne può osservare un estratto: "Mia madre e mio padre erano separati, quindi non avevo molta energia maschile attorno. [...] Amo Hillary, amo tutti, ma la campagna 'I'm With Her' non mi ha fatto sentire come un uomo, visto che non ho mai potuto giocare a palla con mio padre. E questo cappello mi ha fatto sentire come Superman, che è il mio supereroe preferito. [Trump ha] fatto un mantello da Superman per me".
My Secret Place è il format che vi vuole far conoscere i vostri artisti preferiti attraverso le loro passioni segrete oppure i loro sogni nel cassetto mai realizzati prima. Praticamente un incrocio tra VICE e Real Time.
Il primo ospite della rubrica è Gazzelle, che, nonostante l’enorme successo del suo primo disco Superbattito, è rimasto un ragazzo semplice, e ha scelto di fare con noi un giro in barca sui navigli milanesi. Per un magistrale gioco di fraintendimenti, il pomeriggio in compagnia di Flavio è partito in un’atmosfera da zucchero filato che ho subito attribuito, in preda a una megalomania ingiustificata, a quanto stavamo per fare. In realtà il sorriso trasognato di Gazzelle aveva tutt’altra origine: “Rigà", ci ha detto lui prima di qualunque altra cosa, "ho preso il cane, mi arriva domani, non vedo l’ora”.
Il cane in questione, nonostante abbia infranto le mie illusioni di essere fautrice della presa bene del suo padrone, era in effetti qualcosa come l’animale più bello del mondo, e cioè un cucciolo di labrador chocolate con gli occhi verde smeraldo. “Lo chiamo Lennon, Lenny”, ci rivela Flavio; “Ti si impennerà l’Instagram” osserva il nostro fotografo, dimostrando una visione molto utilitaristica del fantastico rapporto uomo-cane che sta per sbocciare; “Sì, me l’ha detto pure Tommy [Paradiso], che da quando ha Ugo [il cane di Tommaso Paradiso] ha un botto di follower in più, ma gliel’ho detto: io non c’ho bisogno di follower, ho bisogno d’amore”.
Rimessa in asse la faccenda romanticismo, nella giornata di sole più improbabile di ottobre, siamo a quel punto saliti in barca per un giro di 55 minuti (“ma si può fumare?” ha miagolato Flavio prima di salire, “no, da nessuna parte” è stata la sentenza che ha calato un silenzio tombale su tutti noi) durante il quale abbiamo parlato del nuovo disco di Gazzelle, di amore, di droga nei videoclip e dell’importanza dei bar.
Mentre leggi l'intervista, ascolta il nuovo singolo di Gazzelle uscito oggi: "Sopra".
Flavio, perché hai voluto navigare sui Navigli? Perché questa è la mia zona preferita di Milano, ma anche se la frequento da un bel po’, non sono mai salito su una di queste barche. Mi sembrava una roba divertente, poi m’hanno detto che non si può fumare…
Avremmo dovuto prendere su almeno la svapa. Che cosa ti piace di questa parte di Milano? Mi piace che sia la zona senza dubbio più romantica, più languida. I Navigli mi ricordano un po’ l’Olanda e pure un po’ Roma, e poi hanno tutte quelle cose che mi piacciono: i bar, la vivacità, la vita notturna.
Tu non sei, però, un romano adottato da Milano, giusto? Giusto. Anche se mi rendo conto che qui le cose a livello lavorativo girano a un’altra velocità e con un’altra fluidità, per lo stesso motivo non ci vivrei. Perché non voglio vivere costantemente dentro al lavoro. Per me solo Roma è casa.
Hai anche tu un rapporto di amore/odio con la tua città? Io Roma la amo, e non riesco a vederci cose negative. Forse la ragione vera è che lì ho tutto il mio mondo di affetti, cioè gli amici, la mamma, il cane, sta di fatto che io ci sto bene e finché posso starci, ci sto. Per questo disco nuovo sono stato due mesi di fila a Milano, e sono stato bene, ma per pensarmi in pianta stabile qui dovrei portarmi dietro un bel po’ di persone. Pensandoci oggi, i momenti in cui ho sentito di non stare bene a Roma erano, in realtà, momenti in cui non stavo bene con me stesso, che volevo un “altrove” non tanto legato al luogo, ma al raggiungimento di un obiettivo, e cioè la musica.
Parliamo di musica, allora: il nuovo disco in che direzione va? Sarà un disco completamente diverso dal primo, e probabilmente del tutto diverso dal terzo, perché amo cambiare. Di sicuro sarà un disco più maturo, dal punto di vista musicale ma anche autorale. Sono cresciuto, sono passati tre anni dal primo album, è successa tanta roba, roba grossa e importante, quindi anche se questo è un lavoro super sincero, che non strizza l’occhio a niente e non cerca di andare in classifica, è anche frutto di una mia maggiore consapevolezza.
L’aggettivo più adatto? Sincero, sicuramente. Perché delle nove canzoni che ci stanno, nessuna è lì tanto per, ognuna ci doveva stare.
Che cosa è cambiato di più? Il sound e il punto di vista. Più adulto.
Per molti, il secondo è il disco più difficile da fare. Per me invece è stato fichissimo, non vedevo l’ora di mettermici, e anzi non ho avuto proprio nessun tipo di timore o di ansia. Non ho accusato alcuna pressione, e il fatto di venire da un ottimo riscontro è stato solo un valore aggiunto. Ero proprio contento di fare musica, e penso che si senta. Sai, avessi avuto ansia sarebbe un album pieno di hit, no? E invece io la musica la faccio perché la devo fa’.
Le hit fanno passare la paura? Eh certo. Se sei tutto agitato, se senti che devi dimostrare che ti meriti il successo, lavori per quello e infili un pezzo da primo posto in classifica dietro all’altro, ma le classifiche sono piene di musica de merda.
Le tue sono canzoni piene di immagini precise: come funziona questa cosa, ce le hai nella testa mentre scrivi? Sì, io quando scrivo vado per immagini, è proprio una cosa automatica che mi viene spontanea da sempre, come se, seduto al piano, descrivessi una foto con le parole e la melodia migliori possibile. Mi viene da dire che è una cosa quasi catartica, che mi permette di andarmene per dieci minuti con la testa, per poi tornare e scrivere e rimanere sorpreso io per primo. E se non succede che rimango sorpreso, di solito quella canzone la butto.
Però di hit ne hai fatte. Molti tuoi pezzi rimangono inchiodati in testa, qual è, invece, quello di un collega che ti ha tormentato di recente? Poco fa, prima di salire su questa barca la cui audio guida credo mi tormenterà i sonni a lungo, mi sono trovato a canticchiare l’ultima di Rovazzi perché è passato uno che ce l’aveva a cannone in macchina. “Con questa voce qua, parappapapa…” Che poi lui, ti dirò, a me sta anche simpatico, nel senso che ho capito il personaggio, ne apprezzo il lato comico (e mi sa che quello dovrebbe fare, il comico, che c’ha pure il fisico giusto, fa proprie ridere anche solo guardandolo) e ne apprezzo l’onestà. Poi certa musica de merda che ti passano in radio continuamente è impossibile non trovarsi a canticchiarla, tipo “Amore e Capoeira”. Un po’ ti odi, quando succede, un po’ ti dici che è normale. Poi, tornando alle mie di canzoni, penso che per esempio “Tutta la vita” sia un brano meno catchy di altri, è uno di quelli che ha bisogno di tempo, ma le canzoni che ti impongo di essere ascoltate di più sono le più belle. Se penso alle canzoni migliori della musica italiana non mi vengono certo in mente le hit estive.
C’è un artista che vorresti si innamorasse di “Tutta la vita”? Vasco Rossi. Penso che gli potrebbe piacere, se mai la dovesse sentire. Non solo per la melodia, ma anche per i temi, no? Molto vicini ai suoi.
Che luogo è per te, il bar, di cui parli spesso? Non so, è complicato, devo dire che non c’ho mai pensato. Mi ci ritrovo, al bar, perché è uno di quei posti in cui io sto in pace. Non è tanto per l’alcol, è proprio più una questione di convivialità, di scambio, di incontro con gli amici o con una ragazza che sai che magari puoi beccare lì. Situazioni semplici e romantiche, come piacciono a me. Io, infatti, mi rintano sempre nelle cose più normali, come il bar o la partita di calcetto.
Quando si dice “il successo non mi ha cambiato”. Ed è cento per cento vero. Io a Roma frequento le stesse persone di sempre, non ho cambiato frequentazioni, esco ancora con l’amico che ha gli stessi problemi di prima, gli stessi casini. Poi, sì, prendo un treno, vengo a Milano e mi ritrovo a fare il cantante. Funziona proprio così, on-off: il girono prima sto a casa a guardare Netflix con un amico, il giorno dopo sto al Forum d’Assago a fare un concerto. E bisogna gestirla bene, questa vita a intermittenza, perché non è facile. E non bisogna drogarsi, secondo me, che la droga non ti aiuta: molto meglio rimanere lucidi.
Che cosa ti dà, invece, la percezione che la tua vita sia stravolta? Fare cose che prima sognavo, come suonare davanti a 10 mila persone, fare una cosa in TV, avere due soldi da parte, che fino a due anni fa facevo la fame, tipo che non avevo i soldi manco per pagare l’affitto al mio coinquilino o per prendermi le sigarette, e comunque lavoravo 9 ore al giorno. Adesso la rumba è cambiata, lo so bene: vivo da solo, ho la macchina, ma soprattutto ho qualcosa dentro di me che mi fa stare sereno, perché mi sento realizzato. ecco, questa è la differenza maggiore rispetto al passato.
Pensi di aver trovate anche un momento favorevole per l’indie italiano? Diciamo che è un po’ come andare in barca a vela: il vento serve, ma non basta, devi anche saper guidare la barca. Non sono tanto “capitato” al momento giusto, mi ci sono inserito io. Devi capire quando cogliere l’attimo e poi devi avere fortuna, perché io credo anche molto alla fortuna. Pure Ligabue una volta m’ha detto che nella musica ci vuole anche culo, e se lo dice lui...
Un tuo collega romano, Wrongonyou, ha detto che la trap italiana ha fatto bene a tutti perché ha riportato la gente ai concerti: condividi? Sì. Loro e noi, cioè la trap e l’indie, sono le cose che vanno di più da qualche anno a questa parte, e se ci fai caso parliamo entrambi a un pubblico simile, perché da me vengono anche ragazzi e ragazze che vanno pure da Sfera o da Ketama. Penso che, forse, però sia più merito dell’indie, e di gente come Niccolò Contessa o dello stesso Tommaso Paradiso, se le persone sono tornate a vedersi i live. A livello di aggregazione, di eventi, noi dell’indie andiamo meglio, perché il Palalottomatica lo fa Calcutta, lo faccio io e i The Giornalisti, Sfera no. I trapper, invece, mi sa che vendono di più, ma al di là di queste valutazioni noi, intesi come generazione tutta di musicisti, abbiamo smosso per bene la situazione italiana, ed è figo.
Hai citato Ketama, quindi ti faccio una domanda che non era prevista: che cosa pensi del suo ultimo video, "Lucciole"? Io penso che artisticamente uno può fare un po’ il cazzo che gli pare. Se lui si accolla la responsabilità di farlo, tanto di cappello, certo io non lo giudicherò mai male per questo. Magari io non lo farei, perché io racconto altre storie, ma su di lui è una cosa credibile e che non mi sconvolge per niente. Se uno in un pezzo parla di cocaina e nel video la fa vedere non ci trovo niente di male, è come uno che parla d’amore e mostra due che si baciano. Lo trovo didascalico. Piero, poi, ha fatto un racconto trash, vedendo quel video l’ultima cosa che m’è venuto voglia di fare è stato drogarmi, onestamente. Semmai m’ha creato un filo di amarezza, un po’ di empatia, la voglia di chiedere “vabbè, Piero, tutto a posto?”. Come molte manifestazioni artistiche, credo che dentro ci sia anche una piccola richiesta di aiuto. Chiudo dicendo che se c’è sincerità nelle cose, a me piace.
Ti piace anche il racconto soldi, lusso, successo? Si ripete molto, così come nei cantautori si ripete quello dell’amore, delle emozioni, delle sensazioni. I trapper parlano di droga, violenza, sesso, soldi, che sono temi attuali e sono anche fighi, se li si sa trattare con talento. Cioè, a me piace quella roba lì, la trovo cool, ma solo se è autentica. Se mi parli dei soldi che hai fatto, li devi avere fatti, se mi racconti delle tipe con cui sei stato, deve essere successo, se, invece, lo fai perché va di moda, sei un coglione.
E dei recenti messaggi anti haters di molti, compreso Tommaso Paradiso, che pensi? Io non lo odio, l’odio. La vedo in modo filosofico: se apprezzi l’amore è perché esiste l’odio, se ti piace il bene è perché esiste il male. Se poi entriamo in materia di hating, la cosa mi tocca in minima parte, perché devo dire di non essere granché odiato, forse perché non faccio niente per esserlo. Nel momento in cui tu fai la tua musica in modo sincero, nessuno ti può dire un cazzo. Ok, magari mi puoi dire che a te fa schifo, ma non mi ferisce, se, invece, qualunque mi dovesse insultare, credo gli direi “daje, grande, fatte a fà ’na passeggiata”. Poi mi chiedo: ma tu, hater, andresti da un medico a caso a dirgli “sei una merda”? No, non lo faresti, lo fai con chi è un personaggio pubblico perché pensi di potertelo permettere. E invece secondo me no, cioè: io se sento una canzone di merda, non lo dico pubblicamente che per me è una merda, magari lo dico al bar, ma non mi permetterei mai di farlo sui social. Mai.
Le critiche, invece, meglio terribili che mediocri, giusto? Assolutamente. Ribadisco che è meglio un 1 su 5 che un 3 su 5. Se penso ai miei idoli musicali, da Rino Gaetano a Kurt Cobain a Vasco Rossi fino a Liam Gallagher, sono stati tutti molto divisi. Non voglio piacere a tutti, se piaci a tutti c’è qualcosa che non va, perché non sono il Papa. Io voglio scuotere, voglio toccare la gente. Voglio che pensino o che sono stato incredibile, o che sono stato terribile, mai che sono stato “bravo”.
Sono esistiti davvero quelli che ti dicevano di andare a un talent o di trovarti il posto fisso? Certo, quella di “NMRPM” è una storia vera, con tanto di zio della mia amica che era produttore generale di un talent di cui non farò il nome.
Quest’estate, però, ti sei seduto al tavolo dei giudici di X Factor. Com’è stato? Ovviamente ero a disagio, come al mio solito. Però è stato anche divertente, anche perché io X Factor lo guardo sempre, mi interessa vedere che succede nella musica, e se esce qualcuno di forte io sono super contento. Se sento una cosa bella, pure se passa attraverso la tele, io sono sempre contento. L’unica cosa è stata che facendo da poco questo mestiere, non ero molto a mio agio a dover dare dei giudizi sulle esibizioni di miei coetanei, penso che ci voglia più esperienza di me per poterlo fare con un senso delle cose.
Dimmi una cosa bellissima e una bruttissima di questo momento della tua vita. Le cose bruttissime e quelle bellissime sono rimaste le stesse che canto in "Balena". La spesa è sempre una cosa bruttissima, così come tutte le robe burocratiche che non mi va mai di fare. Cantare è una cosa bellissima, anche fare la lotta, e anche vivere la vita come me la vivo io, con spensieratezza e un po’ a cazzo di cane, senza pensarci troppo, rimanendo sempre sorpreso, senza mai far diventare questo della musica un lavoro, una routine.
Il primo singolo ufficiale del disco nuovo parla degli addii che fanno bene: capire quando è giusto separarsi è segno che si è diventati grandi? Quella è una canzone che puoi scrivere solo col senno di poi, e, anche se mi sembra di essere sempre il solito coglione, mi sa che qualche passo avanti verso l’età adulta l’ho fatto. Ho capito che, in fondo ma proprio in fondo, si sta meglio se si esce da certe situazioni, piuttosto che trascinarle in eterno. Però è una canzone ambigua, che va su e giù come la mia vita, che parla un po’ di addii e un po’ di speranza, un po’ di sesso e un po’ di altro, è molto divisa tra inizio e fine, forse è giusto dire che è uno spaccato di vita. Ma soprattutto, come tutte le altre, è come una seduta dallo psicologo, perché io invece di andare due ore dall’analista mi scrivo le canzoni.
Secondo te parlare di amore è anche un atto politico? No. L’amore è molto di più. I sentimenti umani sono molto di più. Sono tutto.