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Guè Pequeno ha dato il meglio di sé nelle sue Instagram Stories

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Chiedere domande ai propri follower di Instagram è un gesto rischioso. E se ti prendono per il culo? E se ti insultano? E se nessuno ti risponde, dando un colpo di grazia alle fragilissime strutture di auto-accettazione che ti eri creato negli ultimi mesi dopo quella volta che i tuoi amici non ti hanno chiamato un sabato sera e poi li hai beccati in giro e quindi sei tornato a casa a fumare ascoltando "XO Tour Llif3" di Lil Uzi Vert e ti sei messo a piangere sentendolo cantare "All my friends are dead"?

Bé, ci sono solo due modi in cui un essere umano può sentirsi in una botte di ferro quando chiede di ricevere domande su Instagram. Il primo è molto semplice: essere davvero famoso e riceverne così tante da poter scegliere a chi rispondere. Il secondo è un po' più complesso: essere Guè Pequeno.

Cosimo Fini ha un rapporto idilliaco con Instagram. Che si tratti di mandare video del suo pene a ragazze o di postare fotografie di fronte a jet privati, Guè sguazza sull'app come un sirenetto nel mare più limpido. Dopo l'annuncio del suo ultimo album Sinatra e conseguente azzeramento del profilo le sue caption si sono però fatte più pacate, probabilmente per scelta del suo social media manager. È quindi nelle storie che Guè può esprimersi liberamente, ed è rispondendo alle domande dei suoi follower che crea momenti capaci di accendere una fiamma dentro di noi, un po' come quando lo sentiamo rimare "lo tengo pucciato" con "marsupio gucciato".

E ieri, 20 settembre 2018, Guè non ha solo acceso fiamme nei suoi follower. Gli ha versato addosso una tanica di benzina e gli ha lanciato addosso delle Molotov. Per qualche ora il signor Fini ha risposto alle curiosità che i suoi fan avevano su Sinatra e dato che le storie scompaiono eccovi qua sotto le migliori, così che possiate mostrarle ai vostri nipoti per fargli vedere come si faceva a prendere a schiaffi la gente su internet nel 2018.

I SOLDI

Le AMG mica si pagano da sole, amico mio.

Se fai una domanda del genere a Guè allora significa che non sai che è sposato coi money, quindi leccati le dita che ti ha risposto.

IL FUTURO

Anche perché "Power Guè (Big In Milano)" > "Oh mia bela madunina".

Qua ci agganciamo benissimo alla sezione successiva, cioè:

GLI SCHIAFFI

Citando il maestro, "Tu vuoi fare la guerra? / Mi sembri scemo ragazzo, ma non è che i tuoi son fratello e sorella?"

E qua la cameretta fa scattare un altro gancio, cioè:

I PISCHELLI

Quanta merda in testa.

Però poi ridagli i pastelli colorati, Guè, sennò va dalla maestra.

Oppure basta fare una domanda al maestro, ecco.

L'AMORE

Amore per Roshelle, odio per la finanza.

Questo articolo.

IL CRIMINE

E i soldi, non scordiamocelo.

Uno ci prova a fare le cose seriamente, eh, però le devi anche esprimere bene.

IL RAP

"Sgrilla vuole Guè davanti e dietro Noyz, come 'na volta."

Bé, in Svizzera mica ci sono solo le terme.

Grazie Guè! Leggetelo anche voi.

Punto.

Ho già detto "punto"?

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Una giornata con i Coma Cose

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Unlock The City è un progetto realizzato da Noisey in collaborazione con Timberland per raccontare il rapporto tra la città di Milano e gli artisti che l'hanno esplorata e vissuta tramite la loro musica.

Per chi abita a Milano o frequenta la città le canzoni dei Coma Cose risultano immediatamente familiari. Il pesce fritto di piazza 24 maggio, le birrette comprate al bar/tabacchi di via Gorizia, le case di ringhiera, il tram 14 per Lorenteggio, e potrei andare avanti.

Si dice che a Milano non ci siano più milanesi, ed è forse proprio per questo che gli schizzi di città dipinti da Fausto Lama e Francesca California sono così efficaci: il loro sguardo è quello di chi a Milano si è trasferito già adulto e rimane affascinato dalla folla sui Navigli o alle Colonne, dall'imponenza di Porta Ticinese, dai continui cambiamenti di una città sempre in evoluzione.

Siamo stati a farci un giro con loro nella Milano che conoscono meglio e in quella che stanno ancora scoprendo grazie al loro nuovo studio di registrazione, e abbiamo parlato di come la città si è insinuata nella loro poetica e nella loro vita di tutti i giorni, e di quando si sono resi conto di aver trovato una casa lungo i binari del 14.

Voi siete cresciuti in provincia. Quanto ci avete messo a capire Milano, a sentirvi parte della città e viceversa?
California: Milano è stata una vera scoperta, anche perché io non ero mai stata a Milano prima di decidere di venirci a vivere. I primi anni sono stati un po’ duri, ma ormai sono dieci anni che abito qui e avendo viaggiato molto negli ultimi tempi mi sono resa conto che questa città rappresenta ormai davvero casa per me.
Fausto Lama: Ci è voluto un po’ ad ambientarsi. Ma da quando abitiamo qua anche Milano è cambiata molto, soprattutto negli ultimi tre o quattro anni, dopo l’Expo. Soprattutto se parliamo della nostra zona, quella della Darsena, è molto migliorata, si è un po’ ripulita. E a noi il cambiamento piace, l’evoluzione è sempre una cosa positiva. Non è che ci sia un momento preciso in cui sblocchi la città, è un processo graduale: la città ti trasporta e a un certo punto sono passati dieci anni e pensi “ok, forse non sono più uno straniero”.

La zona dei Navigli ricorre spesso nei vostri testi. Quanto ha influenzato la vostra poetica?
Fausto Lama: Il fatto è che ci abbiamo sempre abitato. E poi è una zona ricca di cose. Si passa da piazza 24 maggio, più turistica, a via Gola che invece è più “losca” e periferica. È un posto pieno di contraddizioni, forse perché nasce dalle ceneri della vecchia Milano, quindi ispira la scrittura. Noi la raccontiamo perché ci viviamo, ma ci viviamo perché dà tanti input.

La storia dei Coma Cose inizia quando voi due lavoravate insieme come commessi. Ora grazie al vostro successo non dovete più lavorare, ma quanto siete vicini a realizzare i vostri sogni?
Fausto Lama: Abbiamo lavorato come commessi fino a un anno e mezzo fa. Poi sono successe due cose: è venuto a mancare il lavoro e contemporaneamente è cresciuto l’interesse del pubblico verso la nostra musica. Così abbiamo fatto il salto nel vuoto. Prendiamo la musica molto seriamente, quindi ha bisogno di essere gestita come un lavoro vero e proprio, un impegno quotidiano, 24 ore al giorno. Abbiamo detto: “o la va o la spacca”. Per ora sta andando.

Quali sono i posti che preferite frequentare in città per la musica? Andate a molti concerti?
California: Andiamo a vedere più concerti che possiamo. Andiamo spesso all’Alcatraz, al Fabrique, al Magnolia, ma anche in posti piccoli come il Cox18.
Fausto Lama: Lo facciamo per curiosità e per vedere cosa succede. Perché noi ci sentiamo anche un po’ degli outsider e vogliamo capire come funzionano certe cose messe in pratica. Speriamo di arrivare anche noi su quei palchi un giorno.


Guarda il video da cui è nato questo articolo:


Com’è nata l’idea di mescolare il cantautorato con il rap e quando vi siete accorti che poteva funzionare anche per il pubblico?
Fausto Lama: L’idea di mescolare il classico con il moderno è venuta semplicemente dalla voglia di sperimentare e fare ricerca. Coma Cose nasce con l’idea un po’ punk di rimescolare le cose come vogliamo noi. Penso che ormai tutto è stato fatto e siamo nell’epoca del crossover, quindi si può cercare di trovare delle miscele nuove. Non sappiamo se la nostra abbia funzionato, ma l’importante è che a noi piace così. Ci diverte ripescare idee musicali e lessicali dal passato cercando di attualizzarle con un linguaggio più moderno e una semantica quotidiana presa dalle nostre vite di tutti i giorni. Non c’è troppa pianificazione: la nostra è voglia di sporcarci con la musica, con i dischi impolverati sulle mensole ma anche con i video appena usciti su YouTube.

Come mai avete deciso di procedere per singoli e piccoli passi invece di sfornare un album dopo il primo successo?
California: Volevamo un progetto che crescesse in corso d’opera. Volevamo lasciarci trasportare dal flusso del momento e curare per bene ogni uscita. Ci occupiamo anche noi stessi dei video e della comunicazione, per cui ogni singolo comporta un grosso lavoro. Lavorare così ti permette di concentrarti meglio su ogni parte.
Fausto Lama: È un’esigenza di attualità e anche di creatività. Come dicevo prima, Coma Cose vuole mantenere un’attitudine punk, fare di volta in volta quello che ci va di fare. Per questo un singolo funziona meglio, perché un album ci vuole tempo a farlo uscire e quindi si rischia di non rispecchiarsi più in quello che si è fatto mesi prima. Uno dei capisaldi di questo progetto è: non trascurare l’emotività e la trasparenza. Non faremo mai un disco perché bisogna fare il disco, né un singolo perché il mercato chiede un singolo. Cerchiamo di essere onesti con noi stessi e ci sembra che questo arrivi anche al pubblico, che fa questo viaggio insieme a noi.

Come nascono le vostre canzoni?
Fausto Lama: Il primo spunto viene sempre dalla quotidianità. È una cosa che vedi aprendo la finestra la mattina o un’idea che spunta camminando per strada. Abbiamo un quaderno delle rime su cui appuntiamo delle immagini. Dopodiché io costruisco uno scheletro di beat, una melodia al pianoforte o alla chitarra e ci metto sopra una prima versione del testo. Poi Francesca ricanta alcune parte o le modifica. Alla fine di questo processo entra in gioco il nostro duo di produttori, i Mamakass, e con loro rifiniamo il brano nel nostro nuovo studio.

Lo studio però non si trova a Milano Sud, ma più a Nord-Ovest, Chinatown. Questo fatto influisce sul vostro processo creativo?
Fausto Lama: Penso ci abbia fatto bene uscire un po’ da Milano Sud, cambiare situazione. In realtà Paolo Sarpi è una bolla, perché è Chinatown quindi potrebbe essere ovunque. Questa cosa crea una bolla di concentrazione, perché quando esco dallo studio e vado a mangiare un baozi ai chioschetti di street food cinese mi sembra di entrare in un’altra dimensione. Non ci sembra nemmeno di essere in un’altra Milano, è proprio un altro pianeta. È perfetto per concentrarsi. E poi lo studio per me è una stanza dei giochi, ho a disposizione tutto quello che mi serve.
California: È una figata perché si trova proprio davanti a una fermata del 14, che passa anche vicino a casa nostra.

“Il 14 per Lorenteggio” che citate in “Pakistan”.
California: È proprio perfetto, è una specie di teletrasporto da casa nostra allo studio.
Fausto Lama: Questa cosa mi dà proprio la sensazione che stiamo lavorando, perché sali sul tram la mattina in periferia, passi davanti al duomo (e questa cosa mi dà proprio la sensazione di fare il pendolare a Milano) e arrivi nell’altra periferia, Chinatown, che è diversissima dal resto di Milano. Quindi in mezz’ora hai tutta una città a ispirarti semplicemente guardando fuori dal finestrino.

Come sono cambiate le cose da quando siete diventati più famosi? La gente sul 14 vi riconosce?
California: Sul tram capita abbastanza spesso che ci riconoscano, ma non ci crea problemi. Anche perché a Milano le persone sono abbastanza schive, non sono invadenti. In provincia capitano più spesso richieste di foto, domande eccetera, ma a Milano la gente è abituata a vedere persone conosciute.
Fausto Lama: Racconta la storia della ragazza con le bambine!
California: Ah, sì! Una volta stavamo tornando a casa e sentiamo correre dietro di noi e delle voci che ci chiamano “Scusate, Coma Cose!” Ci giriamo e troviamo una ragazza con tre bambine, avranno avuto dai due ai quattro anni, che dice: “Fate sentire la canzone!” E le bambine si sono messe a cantare “Post Concerto”. [ride]
Fausto Lama: Notorietà a parte, noi prendiamo la musica in maniera molto professionale. Quindi in un certo senso per noi è un lavoro come un altro e per andarci continuiamo a prendere il tram.

Coma Cose, Rkomi e l'altro artista che ci hanno raccontato il loro rapporto con la città per Unlock The City saranno i protagonisti di un evento esclusivo e gratuito che si terrà a Milano. Siete tutti invitati, potrete iscrivervi presto sul sito di Timberland. Sveleremo tutti i dettagli per partecipare qua su Noisey nelle prossime settimane.

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Le 3 migliori uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ve ne consigliamo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Per il resto, c'è sempre la playlist della settimana di Noisey su Spotify.

MILO - BUDDING ORNITHOLOGISTS ARE WEARY OF TIRED ANALOGIES

Milo si definisce un "rapsmith", cioè un misto tra un "rapper" e un "blacksmith", un fabbro. Le parole sono materia, il suo cervello è il fuoco, le sue dita il martello che dà una forma al ferro incandescente. Questo suo nuovo album dal titolo corto è un'opera cervellotica in cui le linee di confine tra rap, spoken word, musica soul e jazz si fanno sottili fino quasi a scomparire. Per entrare meglio nel suo mondo, date un'occhiata all'intervista con lui che avevamo pubblicato qualche tempo fa.

LIL UZI VERT - "NEW PATEK"

Lil Uzi sta per pubblicare il suo nuovo album Eternal Atake, quello che ha fatto arrabbiare una setta suicida, e "New Patek" è il primo estratto ufficiale. Di flow in flow, Uzi gioca con la melodia e il ritmo con scioltezza invidiabile, tenendo sempre altissimo il ritmo delle sue parole - e con esso l'attenzione di chi ascolta. Mettiamoci un testo tanto complesso quanto divertente ("I am a octopus, I cannot breathe without water / So I put diamonds on my tentacles") e non possiamo che non esaltarci in attesa di poter sentire il prodotto completo.

BROCKHAMPTON - IRIDESCENCE

I BROCKHAMPTON sono un collettivo che genera reazioni così forti nei suoi fan che è difficile capire se hanno bisogno di consacrarsi con un grande capolavoro o se in realtà ne hanno già fatti così tanti che ci siamo abituati alla qualità del loro rap. Questo nuovo album, iridescence, non fa altro che riaffermare quello che scrivevamo qualche mese fa: che stanno producendo l'hip-hop più vitale del momento.

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Recensione: Low - Double Negative

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I Low tornano con un nuovo album a venticinque anni dalla loro formazione, l’undicesimo in carriera. Cosa è lecito aspettarsi con queste premesse? Non tantissimo. Il trio di Duluth è un gran bel gruppo. Hanno fatto cose bellissime, se ne stanno belli tranquilli nella storia della musica alla voce "slowcore" e non sono invecchiati male. Non hanno mai fatto un brutto album. Alti e bassi, cose più riuscite e meno, tanti bei dischi, a volte più storti, a volte più normalizzati, sempre grande classe. Ci si poteva aspettare un buon disco dei Low, come ne hanno fatti tanti, ma senza nulla che facesse gridare al miracolo. Hanno già dato.

Invece i Low si sono chiusi in studio con BJ Burton, già dietro la svolta pazza di Bon Iver (e già al lavoro con loro in passato, ma in modo meno radicale), e se ne sono usciti con un disco incredibile. Una svolta totale, il capolavoro che non ti aspetti. Double Negative è un disco in cui i Low se ne fregano di quello per cui sono famosi e ci vanno giù pesante di ambient/drone, di glitch, perfino di noise, e il folk, lo slowcore, lo shoegaze sono dei ricordi, degli echi lontani. Presenti, ma in lontananza.

Il risultato sono canzoni distrutte, trasfigurate, distorte. Disintegrate, potremmo dire, citando quel prezzemolino di William Basinski. E non per modo di dire. Alle volte quando si leggono ‘ste cose nelle recensioni poi ci si trova davanti canzoni normalissime con in mezzo due rumorini. Ecco, non in questo caso. Questo è un disco che prende le canzoni, il formato canzone, le melodie vocali (è presente, un po’, in lontananza, il marchio di fabbrica dei Low, quegli incroci di voci) e le guarda distruggersi nell’oscurità più profonda.

Non è un lavoro fine a se stesso: c’è profondità, fascino, ragion d’essere, cognizione di causa. I suoi autori parlano di un disco politico e non è difficile cogliere la metafora dell’incapacità di comunicare se stessi in maniera limpida all’interno di un mondo così martoriato. Fascino, dicevamo. Non è solo un disco interessante, è anche un disco bellissimo, che forse più che agli appassionati di indie rock piacerà agli amanti del drone e dell’elettronica rumorosa.

Quello che non ci aspettavamo (ma perché siamo noi gente di poca fede, i Low tante volte hanno fatto scelte molto serie e radicali) è che una simile presa di posizione, un disco così coraggioso, potesse arrivare da una band al suo undicesimo album e dopo venticinque anni di carriera. Massimo rispetto. Uno dei dischi più importanti del 2018, e per ora ci fermiamo qui.

I Low suoneranno il 5 ottobre al Teatro Dal Verme di Milano, i biglietti sono disponibili online.

Double Negative è uscito il 14 settembre per Sub Pop.

Ascolta Double Negative su Spotify:

Tracklist:

1. Quorum
2. Dancing and Blood
3. Fly
4. Tempest
5. Always Up
6. Always Trying to Work It Out
7. The Son, The Sun
8. Dancing and Fire
9. Poor Sucker
10. Rome (Always in the Dark)
11. Disarray

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Tommaso Paradiso è il Dr. House

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Prima di approcciarmi al nuovo album dei Thegiornalisti mi sono guardato un’intervista a Radio Deejay del loro frontman, Tommaso Paradiso per l’appunto. Conosco il personaggio e la sua musica da quando il massimo clamore che generava nasceva da un post contro i colleghi dell'indie e quindi con il tempo ho potuto assaporare ogni suo cambiamento fino all'ultimo, quello che lo ha fatto diventare una sorta di Mahatma Gandhi della musica italiana che cerca di diffondere l’amore a forza di interviste e musica.

Nel corso della sua ospitata su Deejay, Paradiso riesce in 10 minuti a infilare un pensiero come "ormai su Facebook non si dice più di essere andati al mercato di mattina con la nonna, che è un’esperienza incredibile che fa ricordare l’infanzia e i suoi sapori, si odia e basta". Il virgolettato non è preciso, il concetto è lo stesso e l'unica cosa che mi ha fatto pensare è: “Ok, io davvero devo ascoltarmi 39 minuti di disco di uno che per undici tracce mi ricorderà di quanto bella sia la vita e il passato e la Lazio e Pierluigi Pardo?”. Poi, come al solito, ha parlato la musica.

Mi succede ogni volta, con Tommaso Paradiso. Accumulo per giorni, settimane, mesi dell’odio poi casualmente metto play su una sua canzone e tutto l’odio svanisce. Ascolto e gli riconosco di essere il migliore. Non è un caso che l’ultima traccia del disco si chiami "Dr. House". E non è un caso per il semplice fatto che Tommaso è la controfigura della musica italiana del personaggio interpretato da Hugh Laurie.

Una foto promozionale di Tommaso Paradiso. O del Dr. House? Chi può dirlo? Non certo io. Credit: Carolina Amoretti.

Se dovessi mettermi a riflettere su cosa mi ha lasciato Dr. House negli otto anni di messa in onda, di primo acchito direi: "odio”. Ricordo ancora mia madre che, borbottando, metteva su Italia Uno nei minuti immediatamente precedenti alla cena per insultare per un’ora abbondante quell’attore in camice, che alla fine però l’aveva sempre vinta.

Se oggi dovessi rimettermi a vedere una puntata di Dr. House l’odio sarebbe di nuovo la prima sensazione a pervadermi. Dovrei però riconoscere, con lo scorrere dei minuti, che subito dopo arriverebbero coinvolgimento, immedesimazione, ammirazione e infine trasporto. In poco più di 40 minuti, il personaggio di Hugh Laurie riusciva a passare dal più grande stronzo sulla faccia della terra al tuo eroe personale. E così tutti i cazzo di giorni.

Tommaso Paradiso, dopo aver passato il suo periodo da Sgargabonzi, ha smesso di postare su Facebook e ha definitivamente indossato i panni del Dr. House. Se per il medico la soluzione primaria a tutto era il "lupus", per Paradiso è l’amore. Ovunque il cantante romano ci butta l’amore: lo fa nei cinepanettoni, nel calcio, nelle interviste in radio, sui pullman bianchi a due piani che stanno girando per Milano. E lo fa con questa nonchalance, non accettando che qualcuno gli dica "Ehi, Tommà, forse l’amore qua non c’entra proprio un cazzo", che tu frustrato non puoi che dargli ascolto e farti convincere che forse l’amore c’entra qualcosa. Poi, nel corso dei soliti 40 minuti—che per Paradiso sono la durata del disco—passa dalla testardaggine ad aprirti il suo mondo e con la sua innata e innegabile capacità di scrittura piazza undici hit una dietro l’altra, che ti costringono ad alzare le mani, lasciare la stanza e dirti “sarà pure stronzo, ma quanto è bravo”.

thegiornalisti love copertina
La copertina di LOVE dei Thegiornalisti, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Dentro LOVE, già a partire dal titolo, c’è tutto il Tommaso Paradiso di cui abbiamo bisogno. Come un ruminante, forse il migliore della categoria, Paradiso riesce a prendere il meglio del suo passato, il meglio delle espressioni al confine tra il serio e il faceto e crea un linguaggio in cui è impossibile non immedesimarsi, anche perché fortemente derivativo. "Zero stare sereno" è una formula colloquiale che ricorda quei momenti in cui Gué Pequeno sosteneva di entrare in discoteca "senza scarpe, oh"—e di Gué Pequeno mantiene la stessa volontà di distruggere la sintassi che vediamo in "il cellulare, sgamo". "Love mio" è la forma derivativa di tutto quel periodo in cui Tommaso cercava di convincerci che "diare", "winnare" e cose così fossero necessarie e prossime all’imposizione nella lingua italiana.

Quindi, dopo 39 minuti di montagne russe di sentimenti in cui Tommaso Paradiso prova a convincerci di tutto e del contrario di tutto, non resta che spegnere la TV, dicendo ad alta voce “finalmente”. Come se lo si odiasse ancora come all’inizio dell’ascolto, ma rimanendo profondamente colpiti dalla sua forza dentro di sé, non vedendo l’ora che siano di nuovo le 19 domani, per poterci di nuovo incontrare e scontrare con questa versione 2.0 del Dr. House. Quella che al posto del "lupus" ha il “love”.

Tommaso è su Instagram.

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Leggi anche:

Cinque dischi per capire la musica atonale

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Non so cosa sia successo nelle vostre rispettive bolle durante l'estate, ma la mia notizia preferita degli ultimi mesi è che a Berlino è stato deciso di usare la musica atonale per cacciare i “balordi” e gli “antisociali” dalle stazioni della metro. Le motivazioni? Ce le esprime il portavoce della società ferroviaria tedesca Friedmann Kessler: “Poche persone trovano bella la musica atonale e la maggior parte la considera qualcosa da cui rifuggire”. Una dichiarazione inaccettabile, tantopiù che proprio a Berlino si svolge l'Atonal Festival (non che tratti proprio di musica atonale, però vabbè). Fortunatamente la autorità locali hanno fatto un passo indietro, ma devo lo stesso intervenire.

Cominciamo dalle basi: quello atonale è un metodo di scrittura inventato dal compositore Arnold Schoenberg che rivede fortemente le certezze della tradizione musicale occidentale, ma non le nega come molti vorrebbero farci credere. Lui stesso lo spiega chiaramente nel suo Manuale d’armonia, anno 1911: ”Atonale [letto in termini negativi] potrebbe significare soltanto: qualcosa che non corrisponde affatto all'essenza del suono. Già la parola tonale viene usata in modo non giusto, se la s'intende in un senso esclusivo e non inclusivo. Solo questo può essere valido: tutto ciò che risulta da una serie di suoni, sia attraverso il mezzo di riferimento diretto ad un solo suono fondamentale oppure mediante connessioni più complicate, forma la tonalità”. Come vedete, lo stesso Schoenberg negava decisamente l’etichetta stigmatizzante affibbiata al suo sistema: questo prevede semplicemente che non ci sia gerarchia nelle scale musicali, che nessun suono prevalga sull’altro, dovendo giocoforza inserire maggiori dissonanze, che sbriciolano i luoghi comuni del “bell’ascolto” forzato a favore di qualcosa di realmente inedito (ma anche molto vicino alle musiche etno-primitiviste, quindi tutto sommato universale) che sarebbe più propriamente definibile pantonalità, tonalità multipla, che atonalità, cioè assenza di tonalità. Un bel po' di immaginazione in più, in sostanza.

La spinta di Schoenberg è stata fondamentale per aprire la strada alla musica sperimentale di tutto il mondo, da quel momento fino a oggi. Per cui il fatto che “non piaccia a quasi nessuno” è storicamente errato, anzi, impossibile non notare negli act alternativi di successo e giocoforza nella new wave (che ha sempre avuto un pubblico consistente nelle classifiche) questo tipo di suggestioni. Senza musica atonale non sarebbero esistiti gli Einstürzende Neubauten, David Bowie, né il goth, manco gli assolazzi metal degli Slayer o i campionamenti cacofonici dei Public Enemy, le allucinazioni dei Goblin, le orchestrazioni bizzarre di Zappa, la fusion di Allan Holdsworth, né Sun Ra e le sue rotte stellari. Esatto, perché il free jazz è praticamente un’evoluzione di questa pratica con l’aggiunta del ritmo, per non parlare della psichedelia o del noise, che usa spesso questo linguaggio sviaggione con l’aggiunta dell’effettistica. Così come non sarebbero neanche esistite certe colonne sonore spiazzanti e tipicamente futuribili di cui fortunatamente la nostra generazione si è cibata tramite film di fantascienza: la musica dello spazio profondo, dell’eterno futuro e quindi del presente, del mistero dell’esistenza che è bello proprio perché oggettivamente inquietante come lo è il piacere, ma non angoscioso come vogliono farci credere. Glenn Gould, preveggente, diceva che non sarebbero stati i coevi dell'atonalità a poterla apprezzare, ma i posteri (cioè noi). Tutto sommato i nostri eroi non fanno nient’altro che schiudere più porte alla "armonia celeste".

In realtà la mia irritazione (anche se all’inizio ci ho riso, però poi anche no), è cresciuta esponenzialmente dopo un mio enorme errore di valutazione. Infatti, a una bancarella al mare, ho acquistato un libro che mi sembrava interessante: il titolo recitava furbescamente Dodecafonia e Armonie Celesti, l’autore è Andrea Frova, un fisico che evidentemente ha tempo da perdere in quisquilie che gli competono parzialmente. Leggendo la presentazione sul retro, sembrava un libro in cui si cercava di capire come mai l’atonalità e la dodecafonia (che ne è lo sviluppo effettivo, disciplinato dalla regola di usare dodici suoni che non devono essere mai ripetuti nello spartito) non abbiano avuto diciamo un successo “di massa". È una questione che a me interessa molto, dato che la musica dodecafonica e atonale la metto quando faccio la doccia e per me ascoltarla è la cosa più normale del mondo, per cui non capisco chi non la capisce (ma poi che vuoi capire in fondo? Ascolta e basta, le orecchie le hai per quello).

Non potevo invece sospettare che l’autore portasse avanti una filippica stratosferica su quanto sia perfetta la musica tonale occidentale (ovviamente con un malcelato razzismo per tutti i restanti sistemi del resto del mondo, a cominciare da quelli microtonali) con tanto di dati scientifici sulla percezione dell’orecchio umano, quasi fosse un comandamento divino inattaccabile nonostante oramai ci bombardiamo di suoni assurdi senza crepare (anzi, ce la fanno prendere anche superbene) e invece la dodecafonia sia una cagata basata su calcoli freddi che tolgono calore ed espressività alla musica rendendo l’ascolto “sgradevole”. La soluzione di questo ometto rispetto ad una migliore fruizione della musica contemporanea sperimentale è il ritorno, appunto, a questa cazzata delle “armonie celesti”, cristo, il mito di Pitagora, quando lo sanno tutti che la scuola di Pitagora si è sbriciolata con la scoperta dei numeri negativi, nel momento in cui non sono riusciti a misurare tutta la natura coi loro metri.

Ecco, diciamo che l’atonalità è quest’oggetto non misurabile con i metri di una dottrina tonale data per certa, e i tribuni di questa dottrina anche oggi continuano invece a legittimare insensatamente e comunque le sue macerie, come appunto fecero i Pitagorici che decisero di mantenere segreta la scoperta della loro sconfitta. Ma noi ce ne fottiamo di loro (il libro poi l’ho usato per fermare una gamba del tavolo da pranzo che ballava) e andiamo tosto ad ascoltare quelli che sono alcuni dei miei top five atonali di sempre che ascolto per fare colazione.

Arnold Schoenberg - Pierrot Lunaire (1912)

Per farvi capire quanto sia “ostica” la musica atonale, vi dico solo che comprai il CD di questo capolavoro quando facevo la prima superiore. Entrai a Messaggerie Musicali e mi comprai Still dei Joy Division, il primo dei Loop e Arbeit Match Frei degli Area. E poi vidi il Pierrot Lunaire: ero troppo curioso di sentire questa fantomatica musica atonale che tanto sembrava aver sconvolto le coscienze musicali dell’epoca. Ebbene, l’apertura che recita “Den Wein, den man mit Augen trinkt”, ovvero “il vino che si beve con gli occhi” è rimasta per sempre nel mio cuore ed è una delle cose più belle che mente umana abbia mai partorito. Potrei azzardare che qui Schoenberg anticipa di molto il rap nell’utilizzo del “canto parlato”, usato qui per la prima volta, che porta l’antico recitar cantando in un’altra direzione, tipicamente espressionista, piena di una potenza quasi magica. Ma ci ritrovo anche molta della fascinazione “tossica” del dark e più avanti dell’emo-core. Da quel momento è diventato uno dei miei dischi preferiti, tanto che potrei uccidere qualcuno se non fosse d’accordo con me: d’altronde il protagonista è un poeta allucinato, quasi schizofrenico, che si tormenta e che s’immagina assassino, quindi anche proto-punk.

Anton Webern - Sei Pezzi Op. 6 (1909)

Il mio rapporto con Webern risale a un periodo della mia vita, credo appena finito il liceo, in cui non facevo altro che ascoltare a stecca la Passacaglia Op. 1, la Sinfonia Op. 21, i Cinque Pezzi Op. 10 e questo, il mio preferito. Ovviamente intervallandolo con dosi massicce di Throbbing Gristle. Perfetta colonna sonora di una minaccia incombente: quella del “nuovo che avanza”, di un’Italia che mette il freno a mano e ritorna indietro di mille anni. In tutto questo, l’opera distopica di Webern (che della triade dodecafonica rispetto a Schoenberg e Berg era il più rigoroso applicatore delle regole) cade a fagiolo. Ti strappa le budella, ti avvolge nel terrore di un futuro disastrato e marziale che viene a prenderti a casa per farti fuori, ma ti da anche gli strumenti per resistergli, per esorcizzare la dura realtà facendone suono. Un disco meraviglioso che non dovrebbe mancare nei vostri scaffali, soprattutto perché dice molto di più sullo stato del capitalismo e sulla distopia che stiamo vivendo oggi rispetto ai mocciosi della moderna HD che ancora puzzano di latte.

Alban Berg – Lulu (1937)

Non so se vi ricordate l’omonimo disco di Lou Reed. Ebbene, quella collaborazione con i Metallica gli costò più di una critica, tanto che i fan duri e puri urlarono allo schifo assoluto e al punto più basso della carriera del rocker. In realtà, col passare del tempo, Lulu di Lou Reed è un perfetto spaccato di caos lacerante e, appunto, del punto psichico più basso che uomo possa raggiungere rispetto alla propria dignità, per cui l’interesse non era tanto a fare qualcosa di comodo, ma di fare proprio lo schifo. L’ispirazione gli viene proprio dal soggetto della Lulu di Berg, una stupenda messa in scena lirica contro la morale borghese, piena di assassini, suicidi, ossessioni sessuali e vitalismo assoluto: storia di una donna di strada irresistibile che in pratica tiene per le palle tutti a causa del suo “violento archetipo femminile” che non può essere contenuto in nessun modo. L’opera di Berg è talmente un missile esplosivo lanciato su Marte che addirittura, mancando dell’orchestrazione del terzo atto a causa della prematura scomparsa di Berg, lo stesso Schoenberg, scelto per completarla, disse che non ce l’avrebbe fatta a causa della sua maestosa complessità. E a chi vorrebbe semplicità rispondo che le cose semplici non esistono: anche per fare un Do maggiore bisogna prima imparare come mettere le dita sulla tastiera. Poi, una volta che lo sai fare, diventa semplice. Per cui l’opera di Berg per quanto mi riguarda scorre fiera come se le partiture fossero di zucchero filato, accompagnando i miei pomeriggi autunnali passati magari con un bel cannone in bocca.

Ruth Crawford Seeger – Nine Preludes for Piano (1925-26)

Autrice di cui pochi comuni mortali conoscono le gesta nonostante sia una delle compositrici americane più importanti di sempre (d’altronde fa comodo pensare a un machismo atonale, per cui meglio non si sappia che la “sensibilità femminile” l’atonalità la sentiva sua eccome), scrisse questi meravigliosi preludi negli anni Venti. Sono composizioni che ricordano un Satie che si rivolta in un sonno amniotico perdendo completamente la bussola. Una pioggia di gocce di rugiada che diventano note di piano deliziose, a dimostrare che l’atonalità può essere più ascoltabile di un Lieder di Brahms. Ispirata per lo più dal lavoro di un altro genio totale, Alexander Scriabin, la nostra eroina, nella sua carriera, farà incetta di cluster, contrappunto dissonante (sviluppato da Henry Cowell, un altro bel capoccione) ed eterofonie. Insomma, una tosta: Maria Anna Mozart (che Amadeus riteneva il vero genio della famiglia) sarebbe stata fiera di lei.

Anthony Braxton – Trio and Duet (1974)

Si tende a credere che atonalità e dodecafonia siano roba per austriaci dalla pelle di latte: invece no. Già con il La (ovviamente non in scala) del gigante Charles Ives, in vita sabotato a causa delle sue arditissime composizioni, ci fu un grande interesse a contaminare la materia con la cultura musicale afroamericana, senza timore di contraddizioni. Proprio questa commistione ha creato la poetica di Anthony Braxton. In generale viene considerato come un grande musicista jazz, ma non si limita a questo. Si tratta, anzi, di uno dei più grandi compositori afroamericani di sempre. E proprio per questo, la sua peculiarità stilistica è sempre stata quella di approfondire questo mix tra la musica afroamericana e l’atonalità e finanche la musica elettronico-aleatoria (tanto che scrisse un pezzo intitolato “To composer John Cage”, proprio per essere chiari), ma appunto per questo relegarlo al free jazz sarebbe riduttivo. Lui stesso si rifiuta di chiamarsi musicista jazz e molti del mainstream jazz per tanto tempo, prima della consacrazione, l’hanno snobbato proprio per il suo grande interesse per la musica d’avanguardia europea. Dunque, nella sua sterminata produzione, prediligo questo disco, poiché vi sono affezionatissimo, avendolo trovato a pochi euro in una bancarella tra un LP di Pupo e uno di Mietta e vedendo, tra gli altri, la preziosa partecipazione di Richard Teitebaum alle elettroniche. Mettete da parte gli standard contenuti nel disco, per quanto eccezionali, concentratevi sui brani originali. Dopodiché potrete pescare nel suo repertorio: vi accorgerete che l’atonalità e la dodecafonia sono il suo pane, che da lui masticato diventa incredibilmente blues, incredibilmente attuale e probabilmente è uno dei pochi ad aver tenuto alta la bandiera anche quando la dodecafonia sembrava arenatasi contro la diga dei suoi detrattori, per questo citiamo il suo lavoro nonostante si sia fuori del periodo d’oro dell’atonalità. Perché questa ha ancora un posto nel mondo, finanche oggi: basti pensare a quello che esce da etichette come la Mego e affini. Soprattutto, Braxton dimostra che Schoenberg era più funk che mai, altro che assenza di ritmo.

E quindi chi dovrebbe spaventarsi davanti all’atonalità? Il nocciolo della questione semmai sta nella mancanza di educazione, non tanto culturale quanto emotiva: gli anaffettivi di questi anni Duemila sono molti e anche in musica, ovviamente. Stiamo tornando indietro verso un totalitarismo algoritmico dei gusti, incapace di mettere in discussione le proprie certezze e in cui si ha paura di provare emozioni da qualcosa che non ci si aspetta. Ovvio che se tutti nel mondo avessero ascoltato solo roba atonale o dodecafonica già in fasce, nelle metro per cacciare i ladri userebbero i classici della classica "mainstream", tipo "Per Elisa" di Beethoven. Che in effetti dopo un po’ che la senti, visto che oramai la mettono negli ascensori e nelle segreterie delle aziende telefoniche quando vorresti bestemmiare per la bolletta alta, ti urta pure i nervi, per cui l’esperimento potrebbe riuscire molto meglio. L'esercito USA utilizzava il metal estremo con i prigionieri di guerra. Ma, chessò, il verso di un orso non è un'idea migliore?

Dunque non vedo l’ora di andare a Berlino in qualche stazione e sfasciare ogni cosa mi capiti a tiro insieme a questi “balordi” finalmente a loro agio, novello Alex di Arancia Meccanica, godendo fino in fondo della “musica degenerata” che tanto fece incazzare, guarda un po’, Hitler. E che ancora, a quanto pare, rimane una delle esperienze più contro che il nostro mondo abbia mai prodotto: la musica di chi non ha paura e, per questo, spaventa chi ci vuole paralizzati.

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo, Italian Folgorati. Seguilo su Twitter: @DementedThement.

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Guarda il video 'Unlock the City: Carl Brave porta Roma a Milano'

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Per il terzo episodio di Unlock The City, la nostra partnership con Timberland che ci porta alla scoperta della città con alcuni dei nomi di punta della musica urbana in Italia, abbiamo riportato Carl Brave in alcuni dei luoghi fondamentali della sua carriera, dal campo di basket al palco del circolo Magnolia.

Presto annunceremo un evento gratuito a cui potrete registrarvi tramite il sito di Timberland. Gli ospiti della serata saranno i tre protagonisti di Unlock The City: Rkomi, Coma Cose e Carl Brave. Tenete d'occhio Noisey per i dettagli.

Guarda il video in cima al post e segui l'hashtag #unlockthecity sui social per non perdere i prossimi contenuti.

Elettra Lamborghini deve diventare un'icona pop italiana

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Venerdì a mezzanotte è stato pubblicato "Mala", il secondo singolo di Elettra Lamborghini dopo "Pem Pem", che è stato pompatissimo per tutta l'estate nonostante fosse uscito a febbraio. Mi è capitato di sentirlo praticamente in tutti i locali così come dal dentista, e confesso peraltro di averci twerkato ignobilmente.

Mi sono vergognata di apprezzare "Pem Pem" per un sacco di tempo: non capivo perché che mi piacesse un pezzo reggaeton, visto che io il reggaeton lo odio da quando in quarta ginnasio mi sono iscritta a zumba, e che stavo vivendo un periodo della mia vita terribilmente malinconico, in cui non facevo altro che ascoltare Chet Baker a ripetizione sull’orlo delle lacrime. Ascoltare un pezzo dancehall, che a livello semantico è praticamente vuoto - il fulcro è la ripetizione ossessiva di “quiere hacer pem pem perepem pem pem” - è stato liberatorio.

Dopo aver anticipato che sarebbe presto stata fuori con un pezzo nuovo postando su Instagram la copertina del singolo - cioè *emoticon della pesca* con polsi ammanettati - tre giorni fa Elettra aveva anche annunciato di essere entrata in BHMG, l’etichetta di Sfera Ebbasta e Charlie Charles a cui si è da poco unito anche Guè Pequeno. Per “Mala” c’era quindi parecchio hype, da me del tutto condiviso, e stando a quanto son riuscita a leggere fra Twitter e Instagram a un sacco di fan è piaciuta parecchio.

Elettra mi fa spaccare - una volta a Super Shore ha schiaffeggiato una concorrente che aveva insinuato si fosse rifatta il sedere - e la sua prima canzone mi era piaciuta: avrei disperatamente voluto che “Mala” mi piacesse. E nonostante sia un singolo più debole di "Pem Pem", un po' troppo ripetitivo, devo dire che mi piace. Ho provato a pensare a come argomentare di più ma la realtà è che non c'è davvero nulla da dire: semplicemente, "Pem perepem pempem" mi fa più ridere e mi gasa di più di "Mala mala mala mala".

Siccome non parlo spagnolo mi limiterò a un approssimativo riassunto del testo. C’è Elettra che, come ogni buona ragazza di ottima famiglia, rivendica di essere una cattiva ragazza (s’intuiva facile dal titolo) ripetendo "mala mala mala" per tipo cinquanta volte. Tra le altre cose, dice che le sempre è piaciuta "la strada", che le piace bere rosè e fare serata, e ci infila anche un mezzo coming out come bisessuale (me gusta tu novia y también quiero besarla). Elettra aveva infatti già detto di essere bi in Super Shore: non che questo la renda un'icona queer, ma neanche mi sembra che feticizzi il lesbismo come Katy Perry in "I Kissed A Girl". Potrebbe benissimo trattarsi semplicemente di una bisessuale che dice "mi farei te e anche la tua ragazza".

In Italia c'è bisogno di una nuova, scintillante icona pop in grado di cogliere quella che secondo me è una grande verità: che la musica pop oltre che divertente è incredibilmente galvanizzante, e che la leggerezza può rendere il mondo un posto migliore. Non so dire se la leggerezza sarà in grado di salvare il mondo, ma so per certo che in un mondo senza musica, ogni tipo di musica, anche quella che non vuole dire nulla ma vuole solo intrattenere, io non vorrei viverci per niente. Praticamente è la trama di Footloose, nel quale in una piccola città degli Stati Uniti ballare e ascoltare musica vengono proibiti e i giovani si trovano a organizzare una sorta di resistenza clandestina fondata sul rock’n’roll. Ecco, lasciamo che la musica pop sia la nostra resistenza - spirituale, perlomeno - al brutto che avanza.

Elettra potrebbe essere il volto di questo diverso approccio al pop in Italia, da anni appiattito su testi malinconici e nostalgici. E se tra l'altro spingesse sulla bisessualità potrebbe guadagnarsi il monopolio di tutti i club, da quelli più tamarri ai gay club. Questo è il futuro che ci meritiamo e che dovremmo pretendere.

Martina è su Instagram e Twitter.

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La "Trilogia dell'estate" rappresenta la crescita di Mecna

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Mi sembra addirittura stupido ricordare che, fra le cose che sappiamo di Mecna, ci sia questa storia per cui lui odia l'estate. Chiunque abbia un minimo di familiarità col personaggio è a conoscenza della natura della sua idiosincrasia col circolo sole - caldo - mare - granite - altre amenità.

Corrado è sempre stato fedele a un immaginario basato su una serie di intimi cliché che puntualmente, disco dopo disco, ritornano a definire lo stesso protagonista. Il Mecna degli inizi, il soggetto delle prime rime, ha infatti delle caratteristiche rimaste col tempo inalterate e che lui stesso non perde occasione per far emergere nei suoi testi. È alto, fa il grafico, ha un rapporto sfuggevole e complesso con l'altro sesso (del quale, comunque, si compiace), ama stare da solo e, appunto, odia l'estate con tutto se stesso.

Non sappiamo quanto di tutto ciò faccia parte di un eventuale personaggio fittizio e quanto, invece, sia strettamente autobiografico. Anche quella volta che lo abbiamo portato a un appuntamento non eravamo riusciti a decifrarlo del tutto, ma sta di fatto che la sua musica preme molto su questa continuità di fondo. Di converso, però, da sempre Corrado porta avanti anche una altrettanto marcata evoluzione artistica, assai dibattuta a causa di approdi a volte spiazzanti: "Io che alla musica ho già dato tipo 'Disco Inverno' / che sembra quasi che mi debba poi fermare a quello" dice nella recente "Senza di me", a enfatizzare proprio la controversa percezione della sua crescita.

È proprio per questa difficile convergenza fra crescita e stasi che Mecna è sempre stato uno dei rapper italiani più interessanti da osservare "in prospettiva". Quindi, per dare corpo alle mie seghe mentali, ho pensato di analizzare la "trilogia dell'estate" di Mecna, cioè i tre pezzi che più di tutti hanno alimentato il mito di "Mecna odia la bella stagione": "31/07", "31/08" e "31/09".

mecna 31/07
L'artwork di "31/07" di Mecna, cliccaci sopra per ascoltarla su YouTube.

Sin dai titoli è evidente come i tre pezzi possano rappresentare lo svolgimento in più atti di un'unica, ideale narrazione. Questa racchiude una storia d'amore fatta di perdite e conquiste, mancanze e perenni indecisioni, legata a doppia mandata con un'estate distante dall'estetica della spensieratezza e vicina piuttosto, a una connotazione atipica, malinconica e solitaria. Nonostante la continuità tematica, ogni episodio è stilisticamente (oltre che cronologicamente) distante dagli altri: ciascuno costituisce un tassello, la fase di un percorso.

Non è un caso quindi che "31/07" racchiuda in sé molto dell'identità del primo Corrado. Il protagonista è già il "bellissimo perdente" che incontreremo più avanti, qui stretto nel dolore della mancanza della persona di cui è innamorato. Lei è in vacanza, va' a capire dove. Lui è ancora prigioniero in ufficio a fine luglio, sommerso dall'afa mentre la distanza lo lacera e lo riempie di dubbi. L'odio per l'estate è già pura formalità.

Quello che più colpisce di "31/07" è la sua assoluta essenzialità. Il beat è scarno, costituito solo dal campionamento integrale della strumentale "Avril 14th" di Aphex Twin, un giro di pianoforte che deve aver fatto prendere parecchio male Corrado. Il testo è intimo, ai limiti dello sfogo. Duro, ma anche semplice e diretto nel raccontare il proprio malessere. La produzione è grezza, tanto che potrebbe sembrare un demo, un pezzo scritto e registrato nel giro di un pomeriggio per l'impellenza di dire qualcosa. E lì sta la sua forza. Non ci sono orpelli, correzioni, sfumature: è uno schiaffone di due minuti figlio di un'urgenza espressiva esondante, e il finale, con quel "dove dormi? / Quanto manchi?", è quanto di più a cuore aperto abbia scritto Corrado nella sua carriera.

Proprio questo tipo di approccio finirà col caratterizzare coi dovuti smussamenti Disco inverno, il suo primo album ufficiale e il progetto che, a detta di alcuni fan più integralisti, rimarrà una vetta mai più eguagliata. Il motivo sarebbe proprio il mood che ne era alla base, destinato però a cambiare assieme alle stagioni che lui andava raccontando.

Uno screenshot dal video di "31/08" di Mecna, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

"31/08", pubblicata nel 2015, mostra già uno scarto notevole e non di facile digestione. Certo, l'estate mantiene ancora la sua connotazione parossistica: il beat è glaciale, surgelato, in linea col resto dell'album che lo contiene. Il testo è costruito ancora una volta su un amore dolceamaro e incompiuto nel quale, Corrado pare dirci, non c'è nulla di spensierato. A essere cambiato profondamente è il progetto, la visione d'insieme.

La produzione, firmata Yakamoto Kotzuga, è quanto di più distante dalla semplicità di "31/07": lavoratissima, sfumata fra chitarre e controller, con ammiccamenti ben riusciti all'ambient e all'elettronica. C'è poi il ricorso all'autotune, che da lì costituirà una costante dei suoi lavori e uno scostamento dall'approccio senza-filtri che aveva definito il suo passato. Infine c'è il testo, più enigmatico e meno immediato. La matrice "grezza" si sposta verso un autobiografismo più astratto che prende ispirazione da fatti realmente accaduti, senza assumere le sembianze di uno sfogo.

Il testo, infatti, è frutto di una ponderazione più lunga. Già dal condizionale iniziale ("lo mollerei il lavoro per te / andrei girando in Danimarca per alberghi a una stella") non è chiaro quale parte della storia avvenga realmente e quale sia soltanto ipotetica, immaginata. Anche la metrica è più intrigant: ("appartati e mezzi ubriachi / io con le mani dentro / i tuoi pensieri attillati e dilatare il tempo / giocando a chi arriva per primo a ogni appuntamento". Il narratore è meno "sfigato" di prima e anzi, è a tratti quasi compiaciuto della propria malinconia e delle sue cicatrici: "Mi sono innamorato una volta, tu non lo so / non te l'ho mai chiesto / ma c'ho messo un po' per tornare me stesso". È una figura, oltre che un breve periodo d'assestamento della sua poetica, che ha inevitabilmente creato qualche frattura fra gli affezionati al vecchio Mecna.

La copertina di Blue Karaoke di Mecna, cliccaci sopra per ascoltare "31/09" su Spotify.

Scavalcate le sottili venature pop di Lungomare Paranoia, arriviamo all'ultimo "31/09", dal recentissimo Blue Karaoke, che potremmo pensare come al primo, vero approdo della carriera di Corrado. Il percorso iniziato nel 2011 pare al termine, e non è una semplice questione stagionale. Il fatto stesso che l'episodio si collochi oltre un tempo massimo, in una data che non esiste, la dice lunga sulle intenzioni di Mecna.

Per la prima volta, nella nostra storia compare un addio. I protagonisti si salutano sotto una prospettiva irreale, indefinita, su un beat di Lvnar che fonde R&B, pop e una strofa più strettamente hip-hop, prossima alla primordiale durezza di "31/07". Se "31/08" era un ponte lanciato in avanti, dal passato verso il presente, "31/09" è invece un collegamento che dal futuro guarda indietro, permettendosi di sintetizzare in sé gli aspetti essenziali che ha alle spalle. Del resto è in tutto Blue Karaoke che Mecna sembra finalmente libero e rilassato, meno contratto, come se la sua crescita avesse trovato una pace. "31/09" non poteva che esserne il finale sfumato e disteso, una sorta di addio all'addio in cui tutto è filtrato da uno sguardo nostalgico verso l'adolescenza.

A riascoltarla oggi, la trilogia dell'estate di Mecna potrebbe essere il suo personale romanzo di formazione, un passaggio dall'urgenza primordiale alla libertà compiuto seguendo un percorso ambizioso. Ora, però, è arrivato il momento di mettere un punto: c'è un Corrado trentenne, pronto a ripartire con la Universal, conscio della solidità della sua poetica e delle sue scelte musicali. Come un anello di raccordo, "31/09" chiude i conti col passato e apre, serenamente, quelli col futuro.

Patrizio è su Instagram.

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Mezz'ora a cuore aperto con la Dark Polo Gang

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Due anni fa ci eravamo posti una domanda: che cos'è la Dark Polo Gang? Non avevamo trovato una risposta allora e, ad essere sinceri, non l'abbiamo poi mai trovata veramente. Il rapporto tra Tony, Wayne, Pyrex e Side è stato raccontato in così tanti modi che è difficile, se non impossibile, dare una definizione di quello che ha significato per il rap italiano. Sono stati creazione di linguaggio, ma anche affermazione dello stile sul contenuto. Sono stati un controverso fenomeno di nicchia, ma anche uno dei volti più riconoscibili della nuova scuola. Hanno generato rabbia e sdegno, amore e rispetto, risate e ironia.

Quando ho guardato i credit di Trap Lovers, il loro nuovo album e primo progetto dopo l’uscita di Side dal gruppo, ho visto due parole che mi hanno subito fatto rendere conto che era successo qualcosa: “chitarra acustica”. Su “Cambiare adesso”, il brano che apre il loro nuovo album c’è una chitarra acustica. E la suona il producer che li ha accompagnati in questo primo progetto da grandi, Michele Canova Iorfida.

Intendiamoci, c’è ancora ovunque il nome di Sick Luke, scintilla sonora che ha acceso il fuoco della DPG soffiandoci sopra di progetto in progetto, così che noi ci indovinassimo dentro nuovi significati e potessimo continuare a dire “ah, i testi buu ma le basi, ma le basi”: il clangore di Crack Musica, il fresco soffio di Succo di Zenzero, la melassa di Twins. Ma accanto al suo c’è quello di un uomo che ha nel curriculum Tiziano Ferro, Giorgia, Elisa, Jovanotti, Michele Bravi, Marco Mengoni. Ah, e anche Fabri Fibra e Baby K.

Le quattro stelle polari che la DPG ha seguito fin dall’inizio della sua carriera sono sempre state chiare nel cielo: “La mia ragazza segue la moda, io seguo i soldi e la droga”. Di progetto in progetto, i quattro continuavano a trovare nuovi modi per portarli - e portarsi - all’eccesso, alla farsa, all’assurdo. Ora però se n’è spenta una. Si è portata via Side, la droga, e si è fatta evanescente anche nell’immaginario dei suoi ex compagni di gruppo. Donne, soldi e moda sono molto più vendibili di “DPG triplo 7 abbiamo crack cocaina” e crescendo ti stanchi di dire che fumi così tanto che ti "scambi[o] per un ne*ro," ci mancherebbe: questa versione della DPG ha senso di esistere, a livello commerciale e mediatico. Ma a quale prezzo?

Quando Totti ha smesso di giocare c’è chi ha smesso di guardare la Roma; ora che la DPG ha scelto di cambiare, adesso, ci sarà chi sceglierà di ascoltare altro. Parte integrante del successo di Tony, Wayne, Pyrex e Side è stata la loro capacità, sebbene forse involontaria, di far parlare di sé a forza di uscite fuori dal comune, sia nella musica che nella vita. E invece il linguaggio alieno si è evoluto, è diventato normale: i suoi creatori sono diventati ricchi, sempre più ricchi, quasi annoiati. E allora le cantano, la ricchezza e la noia, felici di essere diventati dei professionisti che si svegliano la mattina, si danno obiettivi e fanno il possibile per raggiungerli. Una nuova DPG che, ancora una volta, ci fa porre la stessa domanda che ha sempre generato: e adesso che cos’è?

Noisey: "Cambiare adesso" è una botta di malinconia totalmente inedita per la DPG. Che cosa vi ha fatto venire voglia di parlare d'amore in questi termini?
Wayne: "Amore" sembra una parola scontata. Sono esperienze. Abbiamo tirato fuori una parte più intima del nostro modo di essere.
Tony: Sono cambiate tante cose. Ora stiamo sempre insieme, viviamo insieme. Prima io e Pyrex eravamo fidanzati. E quando hai tanto lavoro da fare la donna un po' ti limita, no? Ti mette un po' il freno.
Wayne: Più che un limite è che non le puoi dare tanto tempo quanto meriterebbe.
Pyrex: Non si riesce a mettere completamente nei tuoi panni, e lì si creano delle difficoltà. Come con gli amici, non tutti riescono a capire le tue crisi mentali. Il nostro è un lavoro che sforza un sacco la mente. Noi tre invece siamo come una persona sola.
Wayne: Questo era il momento di fare un po' cultura, di cambiare la situazione e far capire cosa c'è dietro a tutto, che cosa proviamo. C'è un momento per essere crudi e duri e un momento per mostrare altri lati, far capire veramente quanto è difficile a volte fare 'sto lavoro. Perché è diventato questo. Ci sentiamo più professionisti dei ragazzi ribelli dell'Agarthi. Ci svegliamo, facciamo interviste, ci teniamo. Vogliamo avere un sound che spacca come gli altri e non più la musica che sembra uscire da una cassetta che non si sente bene. Non ce ne vergogniamo, è il modo giusto per cambiare le cose. E il progetto è spaziale.

Immagino che sia stato anche cominciare a lavorare con Fedez a darvi quest'impronta.
Tony:
Siamo persone difficilmente influenzabili. Ma diciamo che siamo andati a giocà alla Juve, e prima stavamo alla Roma.
Pyrex: Diciamo al Real, dai.
Wayne: Fedez ci ha dato un'idea. Approcciarsi a persone come lui significa entrare nel mondo dei professionisti, e quando vedi uno come lui ti rendi conto di che cosa significa il lavoro. Non ci piace più guardarci dietro e renderci conto che non ci svegliamo la mattina.

Michele Canova Iorfida, l'unico altro nome ad aver lavorato al disco a parte Sick Luke e Chris Nolan, ha nel curriculum Jovanotti, Mengoni, Giorgia, Elisa, Tiziano Ferro. E adesso la DPG. Che cosa significa?
Wayne:
New wave!
Tony: Lui era nostro fan, ci aveva già fatto degli apprezzamenti. Poi tramite Federico l'abbiamo conosciuto e si è preso bene a lavorare con noi. Quindi siamo andati a Los Angeles a fare delle cose. È stata una presa bene da tutte e due le parti.
Pyrex: Prima di andare ad LA non sapevamo che cosa aspettarci. Ci siamo fatti un viaggio di due giorni in cui ci siamo chiesti, "Ma stiamo facendo bene?" Poi sapevamo di stare facendo la cosa giusta, ma avevamo dei dubbi. Poi siamo entrati in studio, ci siamo messi a fare "Splash" e ai primi due o tre trick che ha fatto siamo impazziti. Non è un trapper, è un signore. Conosce la trap meglio di noi.
Tony: Super informato sulla musica attuale.

Non puoi fare pezzi che dicono "Bacio in bocca come i mafiosi / Sto mescolando coca" e passare in radio, in Italia, e quindi: la libertà espressiva è venuta meno?
Tony:
Semplicemente lo abbiamo già fatto.
Wayne: Ci rappresenta sì e no, era roba che facevamo due anni fa e che aveva un'idea diversa. Noi facciamo musica sul tipo di vita che facciamo, quindi se ora sto più con tipe e alle feste, sto facendo soldi in un altro modo, è quello che racconto. Quella wave è finita, è morta.

Non vi fa strano che la DPG sia diventata, in un certo senso, normale? Che il linguaggio alieno diventi semplicemente linguaggio?
Wayne:
È diventata cultura, bro! Siamo la bibbia del rap italiano.
Tony: Abbiamo dato un vocabolario vasto a tutti questi rapper di adesso. Ora lo possono sfogliare e fare dischi più facilmente.

In "Baby che noia" parlate di noia come condizione dell'essere.
Wayne:
Sai quando stai tipo popstar Califano, capito? Che a un certo punto stai a fà talmente tante cose che le ripeti. Ti trovi alle solite feste, con i soliti modi di spendere soldi, solite facce. Stai al top, ma anche il top a una certa è una routine.
Pyrex: È difficile trovare nuovi entusiasmi e nuovi stimoli. Te li devi porre te, come abbiamo fatto noi con questo disco. Quella non è la nostra visione assoluta.
Wayne: È una parentesi! Ogni tanto ti svegli e stai Califano.
Tony: Dici che palle, mò devo andare a spendere duemila euro da Goyard, che due coglioni! Però lo fai perché lo devi fare. Spendi duemila euro, e devi andare là a magnà con quella...
Wayne: Come dicono a Milano, non puoi abbassare il tenore. Noi stiamo su un altro livello adesso.
Tony: Se prima stavamo sul marciapiede mò stiamo sull'attico.

Cosa ha significato per voi andare in televisione? Non vi siete sentiti un po' dei personaggi, in contesti come l'intervista a Le Iene?
Wayne:
Noi siamo il virus. Se arriviamo alla TV vuol dire che siamo il Matrix, capito? Vuol dire che le cose stanno cambiando, non che stiamo cambiando noi. Un progetto come il nostro lo riduci, lo riprendi, ma comunque se va in TV è il Matrix.
Pyrex: È vero che un po' non ci hanno preso sul serio. Ma è un loro modo di approcciare. Se non ci prendevi sul serio non ci chiamavi.

In "Aldilà" Wayne aveva dato un ritratto della Nuova Scuola fatto di unione e connessioni: Rkomi, Izi, Sfera, Tedua, Enzo. Che cosa ne è oggi di quelle connessioni? Quanto sono cambiate alla svelta le cose?
Pyrex: Siamo sempre tutti amici, capita pure di beccarci. Ma prima facevamo gruppo per sfondare un portone enorme. Ora è una figata che tutti abbiano preso una strada.

E che ricordi avete di quel periodo?
Wayne:
A me sembra passata un'eternità.
Pyrex: Io sono un'altra persona. Certi live non te li ricordi bene. Sono a macchie, tipo un sogno. Non so se avevo bevuto, ma all'Agarthi, al nostro primo concerto a Milano, ero uscito a vomitare perché era una botta d'adrenalina così forte...
Wayne: È stato 8 Mile. Ma le cose sono cambiate in bene. Vedo tutti e sono contento per tutti. Per il genere, per le classifiche, per il mood della gente. Non siamo cambiati solo noi, è cambiato tutto. Abbiamo superato altri paesi accanto a noi così, dal nulla. La cosa più figa che si può fare è crescere assieme a un fenomeno.

“Dice che le piace la dark ma non il resto della trap”, dice Pyrex in “Toy Boy”. È una frase che mi ha fatto pensare perché la DPG è stata ed è effettivamente qualcosa d’altro. Che cos’è oggi la Dark Polo Gang?
Wayne: Dire trap ormai è dire pop, no? È una parola universale. Noi siamo qualcosa di diverso ma ci siamo impossessati di quella parola perché la gente ha bisogno di vedere noi al suo interno. La gente ha sempre bisogno di una categoria, di stare tranquilla, di non avere problemi, di sapere cosa fa domani, di schematizzare. Così hai meno paranoie per capirlo. Però è palese che il nostro movimento non è confrontabile a nessun altro della scena. Anzi, si sa che siamo molte volte i trendsetter. Quello che abbiamo fatto adesso sarà il vocabolario del prossimo anno.

Infatti sono curioso di sentire che effetto faranno le chitarre acustiche di Trap Lovers sulla scena.
Wayne:
È successo anche con Twins. Per quanto è stato odiato e criticato, ha cambiato tutto quello che è successo dopo. Il catchy rap.

E invece che effetto vi ha fatto stare sulla traccia con Rich The Kid?
Wayne:
È un'occasione che ci è stata offerta da Universal. Era un momento in cui stavamo ancora capendo bene quale sarebbe stata l'onda del disco e quella traccia dava molto l'idea dello spazio. In qualche modo doveva succedere. Rich comunque ha sentito e approvato il pezzo, gli è piaciuto. Ci siamo dati un appuntamento in America per conoscerci, ma ora sarà un po' complicato.
Pyrex: DPG worldwide.
Tony: Sì, è next.

Negli Stati Uniti si sta ripensando molto il rapporto tra linguaggio, musica e società. Non è un discorso nuovo, Kanye si interrogava anni fa sull’utilizzo di “bitch”, oggi Eminem viene criticato per “faggot”. Voi come vi ponete alla questione? E perché in Italia la questione non è così sentita?
Tony: "Frocio", nel 2018, mi sembra un po'... insomma. Meno male che fa rumore.
Pyrex: Dipende come lo dice. Posso anche fare il romano e dire "L'amico mio..." chiaro che se lo dice Eminem riferito a un altro grande artista è normale incazzarsi.
Wayne: Ormai basta pure poco. C'è un gossip dietro al mondo rap che va più forte...
Tony: ...di Uomini e donne.
Wayne: Una canzone c'ha l'hype per due mesi, se fai il dissing e ti crei questo rumore è una roba fake. Si vuole più far parlare del disco che della parola in sé.
Tony: Io credo sia marketing. Dico "faggot" così tu giornalista ti scaldi. A noi non è fregato mai un cazzo di dissare la gente. Poi se mi dici qualcosa ti guardo e ti dico "Porcoddue, sei un infame".
Wayne: Noi non abbiamo 'sta rabbia nei testi, questo è poco ma sicuro. Ci autocelebriamo piuttosto. L'unica cosa che ci piace fare sono i discorsi sulla tua tipa, ma lo facciamo perché è vero. Non lo facciamo neanche apposta.
Tony: Però porcoddue, purtroppo 'ste tipe dei rapper fanno i danni.

Quando vi siete resi conto che vi seguivano un sacco di bambini come l'avete presa?
Pyrex:
Io non mi aspettavo che anche i bambini riuscissero a capire un rap così particolare e sofisticato. Ed è anche merito dei social ma ce ne siamo resi conto per la prima volta agli instore perché arrivavano questi ragazzini così che ti abbracciavano e tu facevi tipo, "porcoddue".
Tony: Senti più il peso di lasciare un messaggio positivo. Quando vedi un bambino gli dici "Oh, studia, tratta bene mamma, non farla incazzare". Nei testi diciamo sempre quello che vogliamo dire ma nel momento più importante, quando incontriamo un fan di persona, lo guardiamo negli occhi e lo raddrizziamo, gli diciamo di non far cazzate.
Wayne: A volte siamo stati espliciti ma era comunque una verità. Non ci piace essere super espliciti ma anche giocare con il linguaggio. Un bambino può anche divertirsi a sentirci dire che c'ho tre collano e sembro un gelato. Ma per noi è qualcosa di serio, ci piace confrontare le cose. E alla fine siamo un po' ovunque.
Tony: Siamo un po' la Disney del rap.

Essendo voi stati il fenomeno più unico, distintivo e controverso della nuova scuola, che cosa ne pensate delle reazioni di rottura che ha causato Young Signorino?
Tony: Tutti questi nuovi rapper, questa wave, sono tutti dei nostri fanboy. Il signorino c'ha tatuato 777, quindi ci prende bene che questi fan sono riusciti a fare qualcosa di grande. Bella per Signorino.


Avete visto il suo episodio di Noisey Personal? Per la prima volta ha fatto un'intervista fuori dal personaggio, per così dire.
Wayne: Lo devi fare, a un certo punto. Lui è un estremo, ma devi anche dare un'idea di normalità. La gente vuole sapere chi sei. Quella è una bilancia che non tutti sanno usare, noi l'abbiamo sempre saputa usare bene. E poi c'è chi si nasconde dietro ad altre cose. Quando sai dire la parola giusta, quando sai consigliare la cosa giusta, e non solo entrare nel personaggio. Noi siamo così. Noi qua siamo quelli che vedi nei video. Lo sai che dietro c'è un progetto. Lo sai che siamo delle persone.

E invece avete visto Noisey Personal con Side?
Tony:
Io sì, l'ho visto. Gli auguriamo di riprendersi al meglio, questa è la cosa importante, oltre 'ste cazzate della musica. Ci teniamo che torni Side. È tosta, e gli vogliamo bene.
Pyrex: È un nostro amico storico, non abbiamo rancore. Le cose uno le può risolvere soltanto da solo. Gli auguriamo il meglio, punto.
Wayne: È tutto a posto. Chiariamo una cosa: Side ha deciso di andare via dalla DPG, questo è un punto che possiamo scrivere grosso così. A volte uno dovrebbe fare più domande a lui che a noi. Noi abbiamo deciso di continuare a portare avanti il progetto Dark Polo Gang. Non ce l'ha ordinato il dottore, capito? Mi dà un po' fastidio quest'aria di complotto, noi siamo sempre quelli di prima. Siamo sempre qua.

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I Riviera fanno musica per l'attimo fuggente

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A essere onesto, non scrivo più molto di musica. Sì, l’ho fatto per anni su diverse riviste online quando ancora ero un ragazzino e, in quanto tale, un cliché vivente che andava avanti a idealismi, frasi fatte, magliette Gildan e concertini DIY. Per farla breve: un minorenne, forse fortunato, preso bene con l’emo, il post-HC che—per qualche motivo ancora ignoto—veniva pagato per scrivere recensioni di dischi che nemmeno ascoltava. Tutto questo, negli anni in cui Pitchfork mandava le pubblicazioni cartacee finanziate dalle grandi corporation a farsi fottere.

Ora, potremmo farci una serie di domande sul funzionamento del giornalismo musicale post bolla di internet 2010 ma non mi sembra questo il momento. Quello che voglio dire è che, semplicemente, sono diventato un po’ più grande, che scrivo di tutt’altro e che cancellerei volentieri il 98 percento di tutte le stronzate che ho scritto su internet negli anni sopracitati—anche conosciuti come gli anni in cui in diretta Skype ho chiesto a un gruppo sotto Universal: "Ho visto che XXX è stato il disco più venduto nei negozi indipendenti inglesi per un bel po’, siete contenti?”.

Bene, se ho scritto 98 percento è perché di una minima parte sono ancora piuttosto convinto ed è proprio in quel misero due percento che rientrano i Riviera che, nel 2014, hanno rilasciato per To Lose La Track, Fallodischi, Black With Sap (tra gli altri) il loro primo disco omonimo. Erano gli anni d’oro, per così dire, del revival emo italiano e sulla scia dei Verme nascevano gruppetti emo uno dietro l'altro. Il problema? Questi gruppi, gran parte delle volte, non avevano niente da dire, non cambiavano mai niente e non aggiungevano nulla rispetto a quello che c'era già stato.

I Riviera, invece, insieme a pochi altri, erano riusciti a ritagliarsi un spazio tutto loro in quella sorta di stagno e nel giro di poco stavano su un furgone a suonare in giro per l’Italia a riempire piccoli centri sociali e a farsela prendere bene davanti a gente che in un mese si era imparato i loro testi a memoria.

Da allora sono passati 4 anni e nel frattempo hanno continuato a fare qualche data, sono andati avanti con le loro vite ma da un punto di vista discografico non hanno fatto molto altro. O almeno, fino a poco fa: a fine luglio, infatti, hanno rilasciato "Disordine", un pezzo nuovo che sarà in Contrasto, il loro secondo disco in uscita a Ottobre. Per l’occasione, ho chiamato Andrea Vasumini, il cantante della band e gli ho fatto un po’ di domande su quello che hanno fatto in questi anni, su cosa pensano di fare in futuro e su cosa ci sarà in Contrasto.

Noisey: Quando ti ho scritto su Facebook mi hai detto che stavi in paranoia con l’idea che registrassi l’audio della nostra telefonata. Come mai?
Andrea Vasumini: Guarda, non mando i vocali perché mi ritrovo ad ascoltare la mia voce mi sembra veramente anormale e sembro sempre sbronzo.

Be’, è un po’ strano per uno che canta. No?
[Ride] La paranoia di registrare e cantare l'ho superata ma perché so che sono concentrato. Quanto ai pochi vocali che mando, li riascolto sempre ed è un po’ una terapia d'urto.

Comunque sia, che avete fatto negli ultimi quattro anni?
Abbiamo cambiato un po’ la formazione della band ma soprattutto continuiamo, singolarmente, a cambiare città. Questa cosa, com’è facilmente intuibile, non è che rende liscia la vita di una band. Di base, infatti, si spostava Giacomo (l’altro chitarrista) che da Venezia è andato a Parigi e poi è tornato a Venezia. Solo che adesso Paride (il trombettista) si è trasferito ad Amsterdam con la sua compagna e in tutto questo sono nati anche due bambini: uno di Paride e uno di Davide. E come se non bastasse, Alba (il batterista) ha trovato un lavoro vicino Londra e dopo il tour si trasferisce.

E come la vivete questa cosa in termini di band?
Il progetto Riviera è un progetto che è sempre stato così fin dal primo giorno. E ora che ci penso bene è proprio questa condizione di instabilità che fa sì che, in qualche modo, tutto quello che facciamo sia naturale. In sostanza: ognuno di noi rispetta l’altro e, questo, in base alla propria vita.

Infatti mi ricordo che, dopo un live vostro di tre anni fa, ti ho chiesto cosa avreste fatto in futuro e tu mi hai risposto che non ne avevi la più pallida idea...
Sì, come ti dicevo è chiaro che non vedersi per provare fa sì che si creino degli scompensi all’interno di una band. Giacomo e Francesco lavorano entrambi tramite l’università e capisci che le opportunità sono quelle che sono per cui loro seguono il flusso delle proposte e Riviera assume un’importanza secondaria. Ed è giusto così, eh. Al contempo, però, quando riusciamo a stare tutti insieme e diciamo “bella ragazzi, questo mese andiamo in sala e registriamo i pezzi” è tutto molto naturale e stiamo bene ed è proprio allora che questo nostro attendersi, aspettarsi e rincorrersi assume un senso.

A proposito di sala prove. Non vedendovi spesso come funziona la scrittura di un pezzo?
Fino a qualche anno fa, alcune canzoni nascevano prima dal testo e poi ci si adattavano le varie parti musicali che venivano fuori dalle prove ma questo cosa è un po’ cambiata. Con sempre meno tempo a disposizione abbiamo cominciato ad arrangiare le varie parti strumentali e la voce la aggiungo poi con calma, raccogliendo le idee abbozzate in fogli e quaderni vari.

Il primo disco vostro l’ho sempre percepito come un disco che rende piuttosto bene la malinconia post adolescenziale e piccoli grandi problemi della giovane età adulta tramite piccole scene e sfoghi. Contrasto invece di cosa parla?
Come ti dicevo, la modalità di scrittura dei testi è rimasta un po’ la stessa. Quando scrivo i testi parlo sempre di fatti realmente accaduti, magari prendendo il piccolo per parlare di qualcosa di più grande. Ecco, credo che sia un approccio sincero. Quello che è cambiato questa volta è che, per la prima volta, ho scritto delle canzoni facendo attenzione a quello che avrei cantato.

Come sono andate le registrazioni?
Anche questa volta abbiamo registrato tutto in due giorni e sempre in presa diretta. Certo, magari abbiamo prestato un po’ più di attenzione e non abbiamo lasciato tutto alla buona come nel primo disco. C’è un minimo di maturità in più. Dico “minimo” perché non avendo delle prove settimanali fisse è ovvio che si perdono cose come una compattezza di suono e questo nel disco si può sentire ma allo stesso tempo che ti devo dire? Penso che questo rispecchi totalmente le nostro modalità di approccio al progetto.

Numericamente parlando, siete una band con un seguito “piccolo”. Nonostante questo, però, i concerti vostri sono sempre pieni e molto sentiti dal pubblico. Come me la spieghi questa cosa?
Credo che abbia a che fare con la spontaneità e con una questione di latitanza, per così dire. Da un lato dobbiamo rifiutare un sacco di date e quindi facendone meno riusciamo, magari, a raccogliere più gente che ci vuole davvero sentire. Dall’altro quando suoniamo lo stiamo facendo perché ci siamo ritagliati quel momento particolare per noi e questo la gente lo riesce a percepire.

Mi sembra di capire che il vero segreto dei Riviera è che non vi vedete mai.
Sì, meno ci vediamo meglio stiamo! No, scherzo, quando ci vediamo stiamo bene: la nostra è una relazione a distanza amorosa fortunata.

Continuando a parlare di relazioni, "Disordine" mi sembra un pezzo che parla proprio di questo.
Sì, è un discorso amicale e parla di come le relazioni possono cambiare nel tempo e assumere pesi stravolti. Può sembrare un discorso stupido ma in qualche modo parla di come a certi avvenimenti non puoi girare le spalle e di come, anche se tutto sembra fermo, il mondo sotto ai tuoi piedi cambia insieme a te.

E che mi dici, invece, di "Scogli"?
Anche qua è nata prima la parte musicale. Gli ho adattato un testo di un classico fallimento amoroso di un amico. Inizialmente aveva un titolo bizzarro… tipo risotto o risoglio, dipendeva dai casi. Di solito partiamo da titoli a caso giusto per ricordarceli ma spesso ci affezioniamo e poi non li cambiamo, ma in questo caso ci sembrava troppo stupido e quindi lo abbiamo chiamato "Scogli".

Il video, invece, è un classico video skate anni Novanta. Avevamo da sempre sperato che una canzone nostra finisse in un video di skate e abbiamo chiesto ai ragazzi di Malva di occuparsene. Come nel caso della copertina [realizzata da Francesco Goats] gli abbiamo dato carta bianca e quello che ne è venuto fuori ci piace.

Il pezzo mi sembra in linea, da un punto di vista prettamente musicale, con quelli del primo. Ci sono i piri piri alla Cap'n Jazz, riferimenti ai VERME e parti più punk fine anni Ottanta. Che roba vi ascoltate voi?
Be’, questa è una domanda difficile. Abbiamo sempre fatto un po’ di fatica a confrontarci sotto questo punto di vista. Giusto per farti un esempio, una volta ho chiesto a Giacomo se conoscesse i NOFX e lui non ne aveva idea. Quindi che ti dico? Per quanto riguarda me, al genere mi ci sono sicuramente avvicinato grazie ai Verme, ma non so dirti una roba che ci accomuna tutti. Anzi, no, ora che ci penso bene, c'è tutto il filone emo/screamo francese, Daitro, 12xu, Sed Non Satiata, che ci ha sempre gasato a tutti.

Bene, conosco solo i Daitro. Gli altri me li sentirò. Qua però stiamo andando per le lunghe. Ora che avete il vostro secondo disco tra le mani come pensi che andrete avanti? O come vi vedete tra 20 anni?
Urca, posso dirti che sono felice di tutto quello che abbiamo combinato che di sicuro spero di toglierci qualche altra soddisfazione e che se riesco ad avere lo stesso fiato mi piacerebbe continuare a suonare. Quanto a noi come gruppo, una cosa che non smetteremo mai di fare è incontrarci per mangiare e raccontarci cosa ci succede ma questo lo dico io. Se lo chiedi a Giacomo credo che ti risponderebbe con “fare un concerto di spalla ai Converge”. Come dargli torto?

Leon scrive di non-musica su VICE. Seguilo su Twitter.

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Noname incarna le due anime del rap di Chicago

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WordPlay è una storica serata open mic di Chicago: chiunque può salire sul palco di una piccola stanzetta gremita di persone e rappare, suonare, declamare poesie. Sei anni fa un gruppo di giovani talenti si ritrovò lì per esibirsi: alcuni di loro erano del tutto sconosciuti, altri sarebbero emersi a breve, compreso un giovanissimo Chance the Rapper e la già eterea Jamila Woods. Insieme a loro sul palco salì un’altra giovane poeta, celata dietro una bombetta nera e una folta chioma di ricci. Tanto è difficile riconoscerla nel video di quella serata quanto è impossibile non notare la sua voce innocente ed emozionante

"Felicemente, mai agghindata / Apatia, per sempre / Rido prima dell'estasi", rima. Le sue braccia si muovono in modo strano, quasi come quelle di un direttore d’orchestra, ma in realtà sta invitando il pubblico a partecipare a un coro. A 20 anni tiene il palco alla grande e incita la folla, nonostante il suo nome sia praticamente sconosciuto al di fuori della scena open mic di Chicago.

La scorsa settimana Noname ha pubblicato il suo primo album, Room 25. Facendolo si è lasciata alle spalle l'anonimato che aveva definito la sua carriera finora: quasi nessuna intervista, nessuna foto promozionale, nessun video ufficiale. Prima di rimuovere del tutto il “gypsy”, cioè "zingaro", dal suo nome d’arte nel 2016, aveva dichiarato che la sua creatività era "nomade," in grado di produrre musica che andasse oltre la definizione di genere. E questo album è la prima occasione in cui Noname rivela la sua personalità di artista, in modo più evidente e meno astratto.

Da sempre narratrice attenta e profonda—alle prese con ricche strofe che la sua vita a Chicago ha praticamente scritto per lei—ora Noname sembra aver preso il controllo dei suoi racconti. Room 25 contiene sonorità e tematiche che vanno ben oltre il piccolo quartiere dove era confinata da sua nonna da bambina. Sapevamo già quanto fosse sofisticata e abile nella scrittura, ma invece di affidarsi ai personaggi che la circondano stavolta ha scelto di diventare lei stessa protagonista della sua storia.

Noname, all’anagrafe Fatimah Warner, ha dovuto faticare sei anni prima di arrivare fino a qui. Un anno dopo quell'esibizione a Chicago, comparve su Acid Rap di Chance the Rapper, il mixtape che lo fece esplodere a livello nazionale. Le loro voci si rincorrevano in "Lost", una storia d’amore e droga. Nei versi di Noname, il racconto di un sentimento straziante e non corrisposto: "Quella vuota solitudine imbottigliata, questa felicità che cerchi / Il masochismo che predichi", canta. Secondo Chance, il suo è stato “il miglior verso che un artista abbia mai cantato in un mio pezzo”.

Negli anni successivi Noname sarebbe comparsa ancora nei pezzi di Chance. Su "Warm Enough" e "Drown", le sue parole sono come appesantite dal senso di pericolo e violenza che aleggia sulla sua città. Lo stesso tema ritorna nel suo primo mixtape, Telefone. Il meglio e il peggio di Chicago traspare tra le rime: "Diddy Bop" è un mix spensierato di feste in casa e sneakers nuove di zecca, ma "Casket Pretty" è l'esatto opposto. "Tutti i miei negri potrebbero finire in una bara / Nessuno è al sicuro in 'sta città felice", canta Noname. Mentre in sottofondo sentiamo un bambino sussurrare qualcosa, Noname sentenzia un potente, "Rose per le strade, là fuori c'è un orsacchiotto, un proiettile alla sua destra".

Con i suoi racconti di morte e gravidanze indesiderate, Telefone riflette l'imprevedibilità della vita in un quartiere povero di una grande città, Da una parte è casa; dall’altra, l'unica tua certezza è la scarsità. Mancano le risorse, mancano i soldi e l’unica cosa di cui tutti dispongono in abbondanza sono i traumi. Eppure, con i suoi sottotoni blues e jazz, Telefone sembra fungere da antitesi alla violenta e controversa Chicago: uno spaccato di vita che racconta la realtà delle strade del quartiere, oltre che la sua pessima reputazione. “Quando l’ho creato, volevo che fosse una sorta di conversazione con la tua prima cotta,” disse Noname.

noname telefone
La copertina di Telefone, il primo mixtape di Noname. Cliccaci sopra per ascoltarlo.

Con Room 25 Noname sembra avventurarsi lungo una strada del tutto nuova. Nella prima traccia, “Self,” elenca tutte le persone a cui pensa l'album possa piacere. Ma a metà del pezzo si interrompe, come se si rendesse conto di stare pensando troppo a una cosa che le dovrebbe venire spontanea: "Credevate davvero che una bitch non potesse rappare, eh? No, in realtà questa è roba per me", dice.

È una sorta di dichiarazione d’intenti. Mentre Telefone sembrava fortemente radicato nella sua comunità, Room 25 è una lezione di autodifesa, il monito che la giovane rapper si ripete: prima di aiutare gli altri, devi aiutare e sostenere te stessa. Rappa con fare da spaccona, più di quanto non avesse mai fatto: "La mia figa insegna inglese alle superiori / La mia figa ha scritto una tesi sul colonialismo".

Figa? Un termine che Noname non aveva usato in Telefone, ma che ripete diverse volte già nei primi due minuti di Room 25. In passato, i versi a sfondo sessuale finivano con una battuta. Ora, Noname non scherza più quando si tratta di provocazioni, "So che me la lecca come fossi sua moglie", dice in "Montego Bae", che si conclude con lei che racconta una fellatio con delle Adidas ai piedi. "Ripeto ‘pussy’ tipo mille volte nel disco," ha detto. "Ho pensato, OK, ora che anche la mia pussy è diventata una protagonista del mio libro, come posso rendere la storia più interessante?"

Sempre in quell'intervista, Noname ha raccontato di avere preso coscienza della sua sessualità con la perdita della verginità, dopo il tour di Telefone. "L’unico motivo per cui non facevo sesso era la mia insicurezza, la paura di essere nuda di fronte a un’altra persona," ha detto. E questa insicurezza pervade tutto il disco, sia quando parla delle sue esperienze sotto le lenzuola che del suo ruolo nel mondo.

noname room 25
La copertina di Room 25 di Noname. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

I commenti di Noname sulla situazione sociale e politica rappresentano i momenti più forti dell’album. "Blaxploitation" si ispira a sonorità anni Settanta e contiene diversi campioni di dialoghi tratti da film del genere da cui prende il nome, quella serie di pellicole tutte sesso-e-violenza dedicate al pubblico afroamericano che sdoganò le colonne sonore soul e funk sul grande schermo. Tra questi c'è anche Dolemite, classico del 1975: "La rivoluzione non è mai semplice", dice un uomo; "La libertà è di tutti", afferma un altro. Noname si allontana un po’ dai suoi classici motivetti orecchiabili e sceglie un flow più veloce e marcato. Con riferimenti che vanno dai menestrelli di strada fino a Hillary Clinton, Noname prende un sottogenere cinematografico utilizzato per mercificare la vita delle persone di colore e lo trasforma a sua immagine: una scelta deliberata dopo il successo di film come Sorry to Bother You e BlacKkKlansman nell’ultimo anno.

Ma Noname non si limita a crogiolarsi nella fiducia che ha trovato in se stessa. A tratti, torna alla scoperta del candore e della vulnerabilità che ce l'hanno fatta scoprire e amare. "Prayer Song" suona come un perfetto caos organizzato, che fa da sfondo alla domanda "Perché, oh perché mi sta andando in tiro? / La violenza mi eccita?" in “Don’t Forget About Me.” Noname si rivolge direttamente al pubblico: "Il segreto è che c'è qualcosa di rotto, in me", confessa su un groove malato, con una chitarra che riverbera in sottofondo. "Ditegli che Noname continua a non avere soldi / Ditegli che Noname ha bevuto troppo ed è quasi svenuta / Il segreto è che pensa veramente che salvi la vita". Anche se non sappiamo ancora tutto sul suo conto, con questa canzone ci sentiamo più vicini che mai alla rapper di Chicago. Mentre chiede disperatamente a chi la circonda di ricordarsi di lei, anche se lei stessa non si ricorda di sé.

Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.

Guarda il primo videosingolo di El Sòrrio

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Allora, non abbiamo ben capito come sia successo, ma a quanto pare c'è un nuovo producer a Milano che si fa chiamare El Sòrrio e nessuno sa bene chi sia. Ha prodotto un EP di elettronica morbida e morbosa e ha creato un video-mixtape per accompagnarlo, con la collaborazione di vari registi. Il tutto si chiama Esce Tutto ed esce per La Tempesta. Sarà presentato nella sua interezza al Milano Film Festival, ma prima ci hanno mandato un'anteprima.

Il pezzo si chiama "My Baby So Cold" e di per sé sono tre minuti e mezzo di beat strisciante, pigro e riverberato, accompagnato da una chitarra effettata e sbarellata che viene e va come in una "Jukebox Baby" da aperitivo sul Naviglio. È il video ad aggiungere una dimensione grottesca al tutto, riportando, sullo sfondo di bucoliche scene di cavalli che corrono liberi, la trascrizione di alcuni messaggi che El misterioso Sòrrio sostiene di aver trovato in un cellulare abbandonato in mezzo alla campagna. La storia, avvincente per quanto a tratti imbarazzante, è quella di due amici che programmano uno zozzissimo threesome.

Guarda il video in anteprima in cima al post e non perderti l'uscita di Esce Tutto il prossimo 5 ottobre per La Tempesta.

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Recensione: Liars - Titles With The Word Fountain

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Ed ecco, come per magia, il nuovo album dei Liars a distanza di solo un anno dal precedente. Ma forse bisognerebbe dire del Liars, visto che il nostro eroe Angus Andrew è rimasto solo coi suoi deliri, tra i quali annoveriamo una passione per i vestiti da sposa. Tale bizzarro abbigliamento è riproposto anche in questo caso, dopo la copertina dello scorso album Theme From Crying Fountain (ne avevamo parlato qua), ma il motivo sembra coerente.

Titles With The Word Fountain è infatti una specie di sequel del precedente, anzi, è un prequel, in quanto registrato contemporaneamente e forse nato per tentare un primo approccio alla composizione da solista. Il fatto evidente è che le atmosfere sono cupe: il divorzio con Hemphill ha lasciato sicuramente delle cicatrici nel cuore dell'autore, ed è ben chiaro il disagio e la confusione di dover ricominciare da solo. Ecco perché troviamo in fondo una coerenza nell'incoerenza.

Brandelli di pezzi, strumentali sciacquati con la stricnina, tentativi di ripartire da Drum Is Dead e chiaramente falliti, assaggi delle atmosfere intime e solispistiche di TFCF, appunto, indugiando nella ripetizione più ossessivo-compulsiva.

Insomma: un bel pastrocchio, una caciara che sa di sfogo, una pubblicazione che è liberarsi da un peso più che l'urgenza di condividere nuova musica. Ma per quanto tutto ciò sia lampante, a noi questa psicosi sonora piace, è vera, rappresenta. Oseremmo dire che è il disco migliore dei Liars da They Were Wrong So We Drowned, ma poi i puristi si incazzano. Allora permetteteci di dire che di sicuro vale più di tutta la discografia dei Thegiornalisti messa insieme.

Titles With The Word Fountain è uscito il 21 settembre per Mute.

Ascolta TWTWF su Spotify:

TRACKLIST:
1. 97 Tears
2. Face In Ski Mask Bodies To The Wind
3. Murdrum
4. Pure Context
5. Double Elegy
6. Left’s Got Power Right Hasn’t
7. Past Future Split
8. P/A\M
9. Fantail Creeps
10. Perky Cut
11. Feed The Truth
12. Gawking At The Accident
13. Absence Blooms
14. Extracts From The Seated Sequence
15. On Giving Up
16. Sound Of Burning Rubbish
17. A Kind Of Stopwatch

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Abbiamo rischiato di non ascoltare mai Tha Carter V di Lil Wayne

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Nel 2014 Lil Wayne, con l'umiltà che lo ha sempre contraddistinto, annunciò che il suo nuovo album Tha Carter V sarebbe stato il suo ultimo. "Per farmi fare un altro disco solista dopo questo mi ci vorrebbero 25, 35 milioni di dollari", dichiarò a MTV. Era dal 2008, e quindi dall'uscita di Tha Carter III, che Wayne si era affermato come una delle voci più autorevoli e innovative della scena rap americana a forza di flow assurdi intristi di versolini e autotune. Nel frattempo aveva lanciato le carriere di Drake e Nicki Minaj, entrambi pubblicati dalla sua Young Money Records, sotto-etichetta della Cash Money di Birdman, o Baby, suo compagno d'affari da lungo tempo.

Date queste premesse era difficile prevedere il destino che Tha Carter V ha poi avuto. La storia della musica è piena di grandi album annunciati, rimandati, svaniti nell'etere (l'esordio di Jay Electronica, quello di Jai Paul, Detox di Dr. Dre) o comparsi oltre il tempo massimo, quando ormai nessuno più li aspettava veramente (Chinese Democracy dei Guns'n'Roses). Stando a quanto ha dichiarato Wayne, Tha Carter V uscirà domani, venerdì 28 settembre. Ma per arrivare qua ci sono voluti sei anni di ritardi, sparatorie, minacce e dissing vari.

Tutto è cominciato nel 2012, quando Wayne dichiara che Tha Carter V sarebbe "molto probabilmente" uscito l'anno successivo. E invece nulla per tutto il 2013 se non una serie di mixtape dalla qualità altalenante. A febbraio 2014 Drake una nuova data d'uscita, il 5 maggio, ma neanche un mese dopo l'uscita dell'album viene sospesa. Ad agosto arriva la copertina e una nuova data d'uscita, a ottobre, ma il giorno designato tutto viene rimandato ancora una volta. Wayne aggiunge inoltre che l'album è diventato un doppio LP.

In tutto questo Wayne continua a pubblicare estratti dall'album ("Believe Me", "D'usse", "Krazy", "Side Bitch", "Gotti") e ad apparire sulle tracce di altri rapper. Diverse persone, tra cui DJ Mustard, Mike Will Made-It e Soulja Boy, annunciano di avere lavorato al progetto. Ma dell'album non c'è traccia.

La copertina di Tha Carter V.

A dicembre 2014, Wayne pubblica una serie di tweet piuttosto disperati: "Sono un prigioniero e lo è anche la mia creatività. Ancora una volta, mi dispiace davvero e non vi biasimo se non ne potete più di aspettare me e questo album. Ma vi ringrazio". Che cosa era successo? Lo scopriamo a gennaio 2015, quando Wayne fa causa a Birdman e a Cash Money Records, accusandoli di stare impedendo l'uscita di Tha Carter V e chiedendo un indennizzo di 51 milioni di dollari.

Come se una causa non fosse abbastanza, ad aprile 2015 l'erede designato al trono di Wayne si mette in mezzo alla questione. Young Thug, protetto di Birdman, annuncia che intitolerà il suo prossimo album Carter VI. Dopo aver ricevuto delle minacce legali da parte dell'entourage di Wayne decide di cambiare titolo in Barter 6: tutto a posto? No, perché due settimane qualcuno spara dei colpi d'arma da fuoco al tour bus di Wayne. Nessuno si fa male ma uno dei manager di Young Thug viene arrestato per la sparatoria. Thug e Birdman vengono indagati, ma non condannati.

E così arriviamo a luglio 2015, quando Wayne pubblica su Tidal un nuovo mixtape intitolato FWA, il "Free Weezy Album", in cui dissa Cash Money e Birdman. Risultato? Birdman fa causa a Tidal per 50 milioni di dollari, sostenendo di avere l'esclusiva sulla musica di Wayne e accusando il servizio di streaming fondato da Jay-Z di stare tentando di "salvarsi in modo disperato e illegale". Ma solo dieci giorni dopo Birdman decide di sciogliere il ghiaccio e afferma che "in fondo, è come suo figlio". A marzo 2016 si scopre che la causa contro Tidal è nulla in quanto non è stata intentata in maniera legalmente corretta.

Una vecchia foto di Birdman e Lil Wayne.

Dopo qualche mese di distensione, in cui Wayne pubblica altri mixtape e Birdman riafferma la loro fratellanza ritrovata, una nuova inversione di marcia. "Mi sento indifeso e mentalmente sconfitto. Vi sono grato e me ne vado con eleganza. Voglio bene ai miei fan ma per me è finita", twitta Lil Wayne. A dicembre 2016, un altro colpo di scena: l'imprenditore Martin Shkreli, "l'uomo più odiato d'America" per aver alzato del 5000% il prezzo di un farmaco, sostiene di aver acquistato Tha Carter V, proprio come aveva fatto con Once Upon A Time In Shaolin del Wu-Tang Clan.

Per sostanziare le sue affermazioni, a maggio 2017 Shkreli pubblica due estratti dall'album, tra cui uno assieme a Kendrick Lamar. Nel frattempo la causa tra Wayne e Cash Money continua, tra dissing e accuse varie: escono vari progetti e mixtape paralleli e a luglio il team legale di Wayne riformula le sue accuse chiedendo a Cash Money 40 milioni di dollari, la liquidazione dei loro asset finanziari e la possibilità di pubblicare Tha Carter V autonomamente. A dicembre 2017 una corte federale conferma che Shkreli possiede una copia dell'album e la inserisce in una serie di beni che gli potranno venire confiscati all'interno del processo per frode che sta sostenendo.

A marzo 2018 Shkreli viene condannato a sette anni di prigione e a ripagare circa 7 milioni e mezzo di dollari allo stato, ma fa ricorso. A giugno, finalmente, la causa tra Wayne e Cash Money viene risolta consensualmente: Tha Carter V può essere pubblicato. Ad agosto Birdman si scusa ufficialmente con Wayne, che è adesso l'unico proprietario di Young Money. Da cui l'annuncio definitivo, arrivato ieri: l'album uscirà venerdì, il giorno dopo il suo compleanno. Sarà un bellissimo regalo, sia per noi che per lui. Non ci resta che ascoltarlo, sperando che questi anni di attesa abbiano avuto un senso.

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La leggenda di William Basinski

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La prima volta che ho visto William Basinski dal vivo ci sono andato con la mia ragazza dell'epoca. Lei era fan del compositore texano, la sua musica era molto vicina ai suoi gusti e alla sua passione per l'ambient. Spesso mettevo i suoi dischi mentre lei andava a dormire e io stavo sveglio a lavorare. Del resto Basinski è un perfetto musicista notturno, in grado di conciliare il sonno, autore di una musica tranquilla e avvolgente.

La sua reazione alla vista di Basinski fu però decisa e sorpresa: "...ma è un tamarro!” L'aspetto di questo genio della musica contemporanea infatti è molto distante dalla sua musica: camicie leopardate, occhiali da sole, lunghi capelli biondi, pantaloni argentati. Più vicino a un rocker dell'era glam come David Bowie che a un nerd chiuso nella sua stanza a rifinire le proprie sonorità: non un caso, dato il suo passato come sassofonista in una band rockabilly.

Sebbene il suo aspetto non richiami la musica che fa, creando un effetto di estraniazione, va però sottolineato che la sua opera si basa su una formula perfetta. La maggior parte dei lavori di Basinski si basa su una struttura consolidata: un loop generalmente pacifico, rilassato, ripetuto per tutta la durata del brano. Di solito si tratta di dischi da una sola traccia, lunga circa un’ora.

È una prassi semplicissima ma perfetta, in qualche modo unica, che disegna una poetica precisa e che è stata sviluppata in molti dischi: per citarne solo alcuni ci sono i due volumi di Watermusic, The River, The Garden Of Brokenness, Vivian & Ondine, Nocturnes, Cascade o l’ultimo, molto bello, A Shadow In Time - in questo caso i pezzi sono due, di circa venti minuti ciascuno, e il primo è un tributo proprio a David Bowie. Sono lavori ricchi e stratificati, molto curati, ma anche minimali e essenziali, fatti di un minuscolo ma particolareggiatissimo dettaglio che si espande fino a diventare parte dell’ambiente, abbracciando l’ascoltatore e portandolo nella loro dimensione rarefatta e sognante, a volte malinconica, a volte pacificata.

basinski a shadow in time
La copertina di A Shadow in Time, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Basterebbe questo per fare di William Basinski un musicista importante, un artista notevole. Ma la verità è che il texano è destinato a rimanere anche uno di quegli artisti collegati per sempre a una loro singola opera, che finisce per diventare talmente famosa e a caratterizzarli talmente tanto da andare a offuscare un po’ tutto il resto. Non c’è dubbio che questo sia il caso dei Disintegration Loops, un lavoro ormai entrato di diritto in qualsiasi storia della musica.

È il 2001 quando il musicista si trova a ascoltare alcuni dei suoi caratteristici loop registrati su nastro. Ma si tratta di nastri danneggiati e a ogni passaggio il suono va a peggiorare sempre di più, anche se in maniera quasi impercettibile, fino a diventare via via sempre più inascoltabile, sempre meno riconoscibile, fino a sparire completamente. I loop che si disintegrano del titolo. Basinski registra questo processo e ne fa l'opera per cui probabilmente verrà ricordato: un lavoro sul passaggio del tempo, sulla volatilità delle cose, sulla confusione del mondo, sulla ricerca della pace.

I Disintegration Loops sono un lavoro che è un eufemismo definire suggestivo, talmente d’impatto da avere anche superato le barriere della musica d'avanguardia, diventando un’opera piuttosto nota anche a livello più popolare. Chiunque, a prescindere da quali siano i suoi ascolti abituali e la sua preparazione, è in grado di coglierne il fascino anche su un piano assolutamente immediato, primordiale. Richiama cose innate che stanno indelebili nella nostra coscienza come il senso della fine, la paura della morte, il caos. Ma è anche un lavoro molto rilassante, che riesce stranamente a sortire l’effetto di mettere in pace con se stessi. È un lavoro drammatico - la storia vuole peraltro che Basinski si sia trovato a ascoltare quei nastri che si disfacevano su un tetto di New York proprio l’undici settembre, guardando sullo sfondo il fumo, la distruzione, la follia di un secolo che nasceva sotto brutti presagi - ma in qualche modo positivo.

basinski disintegration loops
La copertina di The Disintegration Loops, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

I Disintegration Loops sono un’opera di cui si è detto veramente tutto, uno dei lavori più importanti della musica di questo nuovo secolo, ma la cosa che trovo più azzeccata e toccante che abbia letto a riguardo è la chiusura di una recensione al box set dell’opera, scritta da Mark Richardson per Pitchfork. Dice tutto quello che va detto ed è una delle cose cui penso sempre quando penso a un esempio di perfezione in questa cosa che è lo scrivere di musica:

"L'osservazione più ovvia che posso fare sui Disintegration Loops è che non parla di morte, ma ovviamente è la vita a dare un significato alla morte. Un paio di giorni fa stavo ascoltando "Dlp 4" in metro, venendo al lavoro. Per la prima metà della traccia mi sono sentito in preda alla sublime bellezza della musica che si ripeteva nelle mie orecchie e mi sono perso completamente nel mio mondo. Ma poi, man mano che cominciava a rompersi per lasciare spazio al silenzio, ho cominciato a rendermi conto di quello che avevo attorno. Sentivo il motore della metro, il tremolio delle rotaie, le voci delle persone nel mio vagone. La musica mi aveva fatto venire in mente le domande più difficili: perché siamo qua, come facciamo a esistere, qual è il significato di tutto questo. E poi, con lo svanire dell'ultimo scricchiolio e la scomparsa della musica, mi sono guardato attorno, ho visto le facce ed ero lì assieme a tutti gli altri ed eravamo vivi".

Niente male per un tamarro.

William Basinski suonerà lunedì 1 ottobre a Milano per il primo appuntamento della rassegna Inner Spaces del Centro Culturale San Fedele. Vedere cosa farà alle prese con un acusmonium sarà particolarmente interessante.

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Tutto quello che devi sapere su Tha Carter V di Lil Wayne

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Tha Carter V di Lil Wayne ha rischiato di diventare il Chinese Democracy del rap, cioè un album che viene annunciato e poi rimandato e poi rimandato ancora e poi viene rifatto da zero e poi viene rimandato ancora e poi esce quando il suo autore è ormai vecchio, bolso e si esibisce con una gamba rotta seduto su un trono. E invece, nonostante la sua storia travagliata, è finalmente uscito e lo possiamo ascoltare nella sua interezza. Eccovi quindi una breve guida all'ascolto per esplorare la sua ora e venti di durata.

L'ALBUM SI APRE CON LE LACRIME DI MAMMA CARTER

Jacinda Carter e Lil Wayne in una vecchia foto.

Sulla copertina di Tha Carter V c'è una vecchia foto di Wayne da bambino che dà la mano a sua mamma, Jacinda Carter. È proprio la voce di lei ad aprire l'album con "I Love You Dwayne", un lungo messaggio interrotto da pianti e singhiozzi. "Hai fatto un sacco di strada. Non vedo l'ora che il tuo album esca. [...] Sei la mia roccia, sei sempre stato la mia roccia", dice, "Prego perché tutto ti vada bene nella vita ma ringrazio Dio, perché hai passato un sacco di roba che neanche so". E tra le robe in quel sacco ci sono due cause milionarie, pressioni psicologiche, proiettili, attacchi epilettici.

Le ultime parole di Jacinda prima dell'inizio del disco sono tanto semplici quanto pungenti: "Sei un uomo, ce l'hai fatta. La mamma ti vuole bene. Non vedo l'ora che il tuo album esca perché tutti me lo chiedono e so che sarà un album bellissimo". Con la tenerezza di un bambino che fa vedere ai genitori un disegno da appiccicare sul frigorifero, Wayne comincia così a cantare.

C'È ANCHE BARACK OBAMA!

Fotografia via Wikimedia Commons.

"Dedication" è un pezzo in cui Wayne afferma la sua influenza sulla storia del rap. Lo fa campionando l'omonimo brano di 2 Chainz, a sua volta una dedica a Wayne ("Se non fosse per Wayne non sarebbe successo niente / Non vi sareste tatuati la faccia"), e inserendoci diverse frecciatine a Birdman, colpevole di avere ritardato di anni e anni l'uscita dell'album.

Il vero colpo di scena arriva alla fine del pezzo, quando una voce familiare dichiara: "Possono anche pensare di avere un buon tiro o un buon flow, ma non tutti i nostri figli possono aspirare a essere LeBron James o Lil Wayne!" È quella di Barack Obama, registrata nel 2009. Non era la prima volta che l'ex presidente degli Stati Uniti spendeva elogi per Weezy: "Forse siete i prossimi Lil Wayne, o forse no, e allora continuate ad andare a scuola", aveva dichiarato durante un comizio nel 2008.

"DON'T CRY" È UN PENSIERO ALLA MORTE ASSIEME A XXXTENTACION

Il primo pezzo dell'album, "Don't Cry", prende il prestito il ritornello da "Pain = BESTFRIEND" di XXXTentacion. Al momento non è chiaro se X abbia cantato di nuovo parte del testo specificamente per questo pezzo o se la voce sia solamente un campione, ma la loro collaborazione ha un senso: in passato X aveva infatti dichiarato di essere "cresciuto ascoltando Lil Wayne".

Wayne usa quindi la voce di X per rassicurare la madre: "Non piangere, seriamente / Ti voglio bene, cazzo!" Il pezzo si rivela però come un pensiero dolceamaro al futuro e alla morte: "Guardo le nuvole / Sono io che sono in alto o sono loro che stanno cendendo? / Vedo la morte dietro l'angolo / E questa inversione a U sembra un sorriso". Il tono si alleggerisce quando Wayne si mette a cantare di un giardino dell'Eden in cui crescono soldi e lui si rilassa accanto a tante Eve. Anche quando immagina di morire per un'overdose da lean Wayne riesce a essere leggero: "Sippo dalla fonte della giovinezza / E quindi se morirò giovane date la colpa allo sciroppo / Seppellitemi a New Orleans / Con un epitaffio che dica "Non piangete, restate all'ascolto".

"MONA LISA" È UN RACCONTO D'AMORE E MORTE CONDIVISO CON KENDRICK LAMAR

Kendrick Lamar e Lil Wayne in una vecchia foto.

"Mona Lisa" è la seconda collaborazione tra Lil Wayne e Kendrick Lamar dopo "Buy The World" del producer Mike Will Made-It ed è un pezzo molto particolare. Entrambi mettono da parte il proprio ego e si calano nei panni di due cantastorie di strada. Il loro racconto parla dei cari vecchi amore e morte. Nel primo atto, raccontato da Wayne, la "Mona Lisa" del titolo, la Gioconda, è una seduttrice che rivela al narratore tutti i segreti dei suoi uomini così che lui possa derubarli, sfruttarli e schiacciarli psicologicamente.

Nel secondo atto, raccontato da Kendrick, il narratore si confida con l'ascoltatore raccontandogli del suo amore per la Gioconda, dotata di una "figa così buona che la gente partirebbe per la guerra". C'è poi un cambio di prospettiva, segnalato da un cambiamento di tono nella voce di K-Dot: a parlare è l'uomo sedotto e fregato, demolito dalla paranoia: "Stai scopando Wayne?", le chiede, per poi prenderle il telefono e scoprire che la sua suoneria è "Lollipop". E poi, ancora: "Ti tocchi guardando i video di Kendrick?" L'uomo impazzisce, tira fuori un'arma e minaccia la Gioconda di morte ma alla fine la punta contro sé stesso: "Per concludere, dato che ti piacciono i rapper che cuccano un sacco, mi ucciderò".

WAYNE PARLA DELLA PROPRIA SALUTE MENTALE E DELLE SUE CONTRADDIZIONI

In "Open Letter", Wayne si apre e confessa rivelando tutte le contraddizioni della sua figura e della sua poetica. Cresciuto nel poverissimo quartiere di Hollygrove a New Orleans, abbandonato dal padre quando aveva solo due anni, credente e criminale, così pieno di voglia di rappare che riuscì a entrare in Cash Money Records a soli 14 anni registrando dei pezzi rap sulla segreteria del suo fondatore, padre a 16 anni. Wayne è un uomo cresciuto per estremi, incapace di cogliere le sfumature che separano dolcezza e durezza.

E allora non c'è da stupirsi quando parla delle "bitch che lo hanno lasciato", accusa l'ultima che ha avuto di non avergli portato rispetto ma si rifiuta di perpetuare il circolo vizioso dei tradimenti e della sfiducia con la sua compagna... che chiama, ancora, "bitch". E non fa strano neanche sentire Wayne arrivare spontaneamente a toccare grandi questioni: "Quel ne*ro è strano / È morto un sacco di volte ma è ancora qua / Perché sono qua? In questa vita / Qual è il senso della mia esistenza? La mia ragion d'essere?" E poi dire che "scopa più di quanto fa l'amore" e che "mette un condom al suo condom". Wayne è contraddizione pura, disordinata furia creativa.

NON TUTTI I FEATURING SONO UGUALI: NIVEA E REGINAE CARTER

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Reginae Carter e Lil Wayne, foto via Instagram.

Tra i featuring di Tha Carter V ci sono quattro grandi nomi: Snoop Dogg, Nicki Minaj, XXXTentacion e Kendrick Lamar. E poi ce ne sono un paio non molto conosciuti al pubblico italiano: Reginae Carter, che appare in "Famous", e Nivea, che compare in "Dope New Gospel". In realtà sono forse i due nomi che Wayne teneva di più ad avere sull'album.

Reginae è la prima figlia di Wayne, nata quando lui aveva solo 16 anni dalla sua ragazza del liceo, "Toya" Carter. I due si sposarono nel 2004 ma divorziarono solo due anni dopo, nel 2006. Oggi Reginae ha 19 anni, una bellissima voce e tre milioni e mezzo di follower su Instagram. "Famous" è la sua prima collaborazione con il padre,

Nivea è invece una delle sue ex: i due si fidanzarono nel 2002 e si mollarono l'anno successivo. Nel 2007 si misero assieme e nel 2009 lei diede alla luce il quarto figlio di Wayne, Neal. Nel 2010 arrivò la rottura definitiva ma, come dimostra questa loro collaborazione, i due potrebbero essersi riavvicinati. "È passato troppo tempo / E mi chiedo com'è stato / Provare a mettere a posto le cose con te", canta lei nel ritornello.

WAYNE PARLA DI QUANDO HA PROVATO A SUICIDARSI DA RAGAZZINO

In un'intervista rilasciata quattro anni fa, Wayne aveva rivelato di essersi sparato per sbaglio quando aveva quattordici anni mentre guardava il video di "Big Poppa" di Notorious B.I.G. e stava provando a imitarlo. Oggi in "Let It All Work Out", il brano che chiude l'album, Wayne racconta come le cose sono andate veramente:

Ho trovato la pistola di mia mamma, dove la nasconde sempre
Ho pianto, me la sono puntata alla testa e ci ho pensato
Non c'era nessuno a casa a fermarmi quindi ho chiamato zia
Ho messo giù, poi me la sono puntata al cuore e ci ho pensato
Avevo la coscienza troppo pesante per essere più furbo
Stavo troppo male, ho puntato lì dove il mio cuore batteva
Ho sparato e mi sono svegliato circondato di sangue,
Del mio sangue, non sono morto, ma mentre stavo morendo
Dio mi si è messo di fianco e abbiamo parlato,
Mi ha venduto un'altra vita e ci ha fatto due soldi.

Wayne aveva già suggerito questa versione dei fatti in due canzoni ma non aveva mai dettagliato i fatti come stavolta. In una recente intervista Mack Maine, presidente della sua etichetta Young Money Records, ha dichiarato che Wayne spera che questa canzone aiuti chi ha avuto pensieri simili a superare le proprie difficoltà. Il titolo, "Lascia che tutto si risolva", è un invito all'ascoltatore, e compare nel pezzo come campionamento da un brano di Sampha.

Elia è su Instagram.

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Recensione: Slash - Living The Dream

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Slash è il miglior chitarrista del mondo. Slash è un’icona che incarna il senso stesso del ruock. Slash è ormai più un’idea astratta che non un reale essere umano. Slash è lassù, tutti gli altri sono più in basso. Slash, nel 2018, ancora ci scassa il cazzo con un disco di inediti.

Non se ne può più. Davvero, dai basta, solo il pensiero che personaggi che esaurirono tutto quello che avevano da dire in tre album trent’anni fa continui ad appestare l’asfittica scena musicale, peraltro in un genere che storicamente lascia spazio solo ai soliti quattro dinosauri è del tutto insostenibile. Sì, a quattordici anni urlavamo tutti take me down to the Paradise City where the grass is green and the girls are pretty, va bene. “You Could Be Mine” è il pezzo che tutti abbiamo dedicato alla ragazzina delle superiori che ci piaceva. Bene. Adesso però basta, oggi i ragazzini ascoltano il rap, quindi sarebbe il caso che le rockstar di quattro ere geologiche fa si levassero dai coglioni e non cercassero di pagare le bollette continuando a scrivere riff insulsi che nessuno si ricorderà mai da oggi a domani mattina.

Myles Kennedy se ne tornasse a badare agli Alter Bridge, che ha già abbastanza problemi a tenerli fuori dall’abisso dopo un disco decente e quattro inutili, e tutti gli altri si trovassero un’altra rockstar con cui fare i turnisti. Possibilmente qualcuna che in carriera abbia detto qualcosa e non venga ricordata per tre assoli in croce e per il senso di ribellione che può dare l’essersi fatti operare al cuore a trentacinque anni per la troppa eroina. E per tutti quelli che sto facendo incazzare dicendo queste cose: no, i Guns’n’Roses non sono mai stati un gruppo interessante. Con il ben di dio AOR e hard rock che gli anni Ottanta hanno sputato fuori, tra paillettes, lustrini e simil-sobrietà, i Guns erano semplicemente un gruppo che aveva indovinato qualche melodia e la vendeva bene con il piglio californiano e lo sguardo ottenebrato dagli eccessi. La verità è che i Guns hanno avuto successo nei ruggenti anni in cui i Van Halen ipersintetizzavano “Jump” perché abbandonavano le tastierone pacchiane e facevano esattamente le stesse cose che facevano i Deep Purple di Perfect Strangers, ma avevano quasi vent’anni di meno ed erano più facili. Poi poco importa che il rock buono di fine decennio lo stessero scrivendo in Svezia, tanto quella era buona solo per “The Final Countdown”.

In tutto questo rant non ho nominato una volta Living The Dream perché Living The Dream è uno degli aborti più insulsi che abbia ascoltato nel 2018. Non ha capo, non ha coda, non ha centro, non ha altro che chitarre sentite ogni tre giorni negli ultimi trentacinque anni e un tizio più o meno capace che ci canta sopra delle solite faccende tanto care ai dinosauri del ruock: la ribellione, la società che fa schifo, l’amore struggente e di quando in quando la figa. Grandi emozioni. Senza risparmiare gli arpeggini che scimmiottano le varie hit dei Guns o magari le cover-hit dei Guns (chi non sente “Knockin’ On Heaven’s Door” in “The Great Pretender” o è sordo o è scemo, o magari entrambe).

Ma prego, continuiamo a legittimare questa pagliacciata fatta di canzonette generiche, richiamini bluesy e porcherie da sagra di provincia, tanto ormai le chitarre si sono ridotte a questo e il rock è morto. Ormai più di Dio.

Living The Dream è uscito il 21 settembre per Warner.

TRACKLIST:
1. The Call Of The Wild
2. Serve You Right
3. My Antidote
4. Mind Your Manners
5. Lost Inside The Girl
6. Read Between The Lines
7. Slow Grind
8. The One You Loved Is Gone
9. Driving Rain
10. Sugar Cane
11. The Great Pretender
12. Boulevard Of Broken Hearts

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Carl Brave, la città che canta

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Unlock The City è un progetto realizzato da Noisey in collaborazione con Timberland per raccontare il rapporto tra la città e gli artisti che l'hanno esplorata e vissuta tramite la loro musica.

Carl Brave, insieme al resto della Love Gang 126, è arrivato ormai a rappresentare Roma per il pubblico italiano. Quello che racconta nelle sue canzoni, che si tratti di quelle cantate insieme al socio Franco126 in Polaroid o nel suo Notti Brave, è un romanticismo urbano, quotidiano, in cui la città gioca un ruolo fondamentale e in cui si inserisce in modo naturale, come se la voce del cantautore sgorgasse direttamente dalle fessure tra le pietre millenarie.

Abbiamo incontrato Carl Brave a Milano, città che per lui ha rappresentato una svolta: il cambio di vita e di carriera, da giocatore professionista di pallacanestro a musicista e cantante. Una rampa di lancio che lo ha portato allo studio di registrazione, alla scoperta della musica elettronica e poi dell'ibrido tra rap e cantautorato che è diventato il suo marchio di fabbrica. Siamo stati al circolo Magnolia, sul palco dove per la prima volta si è reso conto di poter toccare il grande pubblico, e sul campetto da basket, per ricordare le sue radici.

Noisey: Quanto hanno influenzato la tua poetica le città in cui hai abitato?
Carl Brave: Molto. Prima di tutto c’è da dire che ho vissuto in tre città diverse: Roma, Milano e Berlino; e ognuna di queste città ha le sue sfumature. Roma è molto caotica, una città bipolare, in cui puoi stare tranquillo o fare il panico. Da là ho preso la poetica di strada, se vogliamo pure un po’ trash, oltre a tutti i miei ricordi d’infanzia.

Invece a Milano e Berlino ho conosciuto una nuova parte di me. Lì sono uscito di più, ho frequentato i locali, ho conosciuto gente nuova e ho visto nuove situazioni. E da lì ho preso spunti più musicali. Quindi si può dire che la poetica dei testi sia romana, mentre la musica l’ho “annusata” tra Milano e Berlino.

Che cosa ti ha portato a Milano e che impressione hai avuto della città?
Sono venuto a Milano perché avevo smesso di giocare a basket e volevo studiare musica. Volevo cambiare vita e imparare il mestiere del musicista. Facevo il rapper già da prima, ma non avevo mai toccato uno strumento o un programma per fare musica al computer: le prime lezioni di Ableton le ho prese da Ketama. Da lì ho imparato che con la musica puoi dire qualcosa, e mi è nata una passione pazzesca. È una cosa che è arrivata dal niente quando avevo 20 o 21 anni. Una nuova grandezza. E così sono venuto a Milano, al SAE Institute, per studiare Electronic Music Production. Milano mi ha aperto la mente, perché ho avuto la possibilità di vedere tantissimi concerti di artisti di livello mondiale. E poi mi piaceva andare in giro la notte, sui Navigli o a Parco Sempione, a trovare ispirazione per scrivere.

Da giocatore facevo un altro tipo di vita, molto più quadrata. Le giornate erano scandite dagli allenamenti, bisognava andare a dormire presto, mangiare bene. Invece qua a Milano ho avuto la possibilità di essere più wild, di osare di più, di esplorare di più certi percorsi. Quindi è stato importante per conoscermi in altri modi.

Il paesaggio urbano nei tuoi testi è uno scenario molto naturale, uno sfondo che si nota a malapena ma che definisce senza ombra di dubbio la tua estetica. Il fatto di essere cresciuto in una città come Roma ti ha fornito una chiave per capire le altre città in cui hai vissuto?
Mi ha aiutato sicuramente a capire Milano. A Berlino invece mi sentivo molto più straniero, ma lì entra in gioco anche il problema della lingua. Roma secondo me è una città che ti prepara molto, perché, insomma, ti succede un po’ di tutto, dalle cose belle alle cose brutte. C’è una forte dimensione “di strada”.

Come hai iniziato a rappare?
Tutto è iniziato quando ho comprato un disco di Will Smith da un ambulante sulla spiaggia. Prima ascoltavo cose diverse, tipo i Clash. Ma da lì mi sono innamorato del rap e ho scoperto Tupac, Notorious B.I.G., gli Outkast, eccetera. Dopo un po’ ho sentito la necessità di scrivere anch’io e, vabbè, i primi testi sono terrificanti, speriamo che nessuno li legga mai. Però è importante iniziare perché inizi a capire, inizi a sfogarti, e piano piano impari a raccontare te stesso e gli altri.

Come hai conosciuto il resto della Love Gang 126?
Ho iniziato con un altro gruppo chiamato Molto Peggio Crew, quando ero al liceo. Andava abbastanza bene, facevamo concerti e veniva anche tanta gente. Era musica totalmente diversa, nel senso che si trattava di rap old school, però a risentirla ne vado ancora fiero. Così ho conosciuto Drone, il producer della 126 che faceva le basi anche a noi. Tramite lui ho conosciuto Ketama, e loro due sono diventati i nostri producer. A quel punto siamo diventati amici di tutti gli altri: Franco, Solero, Ugo Borghetti, Asp126, un'amicizia rinforzata da varie vicissitudini, e abbiamo iniziato a collaborare. La Molto Peggio Crew ha chiuso i battenti dopo il primo disco, e così io mi sono accollato ai 126.

E come hai sviluppato lo stile di Polaroid con Franco?
Ci siamo arrivati dopo tante tante prove. Prima siamo passati per un disco trap che per fortuna non è mai uscito. A quel punto stava già emergendo quel tipo di testo, questo raccontare la nostra quotidianità, la nostra vita, solo che non si sposava bene con lo stile trap. È difficile cantare di queste tematiche leggere sopra la musica trap. A quei tempi io stavo registrando un disco solista, Fase REM. Ho ribeccato questo mio amico, che è anche uno dei nostri chitarristi, Massi, e abbiamo pensato di provare a fare qualcosa di acustico. Poi c’era una violoncellista, che era la mia vicina di casa: una volta l’ho fermata per strada e le ho detto “vieni a registrare”. E da lì è uscita “Solo Guai”. Ho chiesto il featuring a Franco e abbiamo visto che era molto forte, un pezzo semplice, che parlava di una Roma estiva. L’abbiamo buttato fuori subito, senza pensarci troppo, e ha avuto un grande riscontro. A quel punto ho detto: “Franchi’, famo sta roba, famola insieme”.

Quando vi siete accorti che questo progetto stava funzionando, e cosa avete provato durante il tour che l’anno scorso vi ha effettivamente lanciati, sold out dopo sold out?
Devo dire che ce ne siamo accorti subito. Già da “Solo guai” e da “Sempre in due”. Facemmo un concerto a Roma nel solito posto minuscolo da 300 persone, e ne vennero 500. Duecento restarono fuori. A quel punto capimmo che qualcosa si era mosso. L’altro punto di svolta è stato il Mi Ami, perché lì abbiamo scoperto che piacevamo anche ai milanesi, cosa che ci aveva sempre fatto paura perché usavamo molto slang romano, in Polaroid in particolare. Quando abbiamo visto che anche i milanesi capivano questa poetica, è stato un bello shock positivo. Ci siamo trovati davanti questo mare di persone, in una città nuova, che cantava le nostre canzoni usando il nostro slang... quella sera abbiamo fatto diventare Milano un po' più romana.

E come è avvenuto il passaggio al disco solista, Notti Brave?
Viene dal mio bisogno di far uscire i pezzi. Io ho bisogno di scrivere, di buttare fuori, di lasciarmi alle spalle quello che scrivo. Passare a Notti Brave è stato facile, perché avevo già le canzoni pronte in testa, anzi, fra le mani. Io sono uno che lavora molto in ambito di produzione, è la mia cosa preferita e mi alleno tanto. Avevo tante basi non utilizzate che rischiavo di perdere, quindi le ho trasformate in canzoni per Notti Brave. Polaroid è fatto di soli strumenti acustici, mentre Notti Brave è un disco fatto con molte tastiere, synth, pianoforte. Ho cercato di dargli un’ottica più pop, più aperta a chiunque: c’è sempre Roma, ma c’è anche il resto. Poi è un disco solista per modo di dire, perché ci ho messo duemila featuring, tutti diversi: Fabri Fibra, Giorgio Poi, Emis Killa, Gemitaiz, Frah Quintale. Mi piace fare il playmaker della musica e tirare fuori i talenti diversi.

Il 3 ottobre i tre protagonisti di Unlock The City, Carl Brave, Rkomi e Coma Cose, saranno in concerto a Milano per un evento gratuito offerto da Timberland. Registrati sul sito per assicurarti di riuscire a entrare e ricevere in regalo una t-shirt realizzata da Timberland e Asian Fake, e se porti le scarpe giuste avrai anche la possibilità di farti un giro nel backstage.

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Le 3 migliori uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ve ne consigliamo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Per il resto, c'è sempre la playlist della settimana di Noisey su Spotify.

YOUNG THUG - ON THE RVN

Pare che Thugga abbia pensato a questo EP al momento in cui è stato ufficializzato un mandato d'arresto nei suoi confronti, e sto pepe al culo gli ha fatto bene, visto che qua in 23 minuti si rimettono in chiaro un paio di cose su che cos'è il mumble rap e chi l'ha inventato, oltre a regalarci uno dei momenti più alti della trap di quest'anno grazie al duetto con un campione di "Rocketman" di Elton John.

TIM HECKER - KONOYO

Se leggo un'altra volta l'ennesima, ritrita considerazione sull'Antropocene e sulla fusione in musica tra uomo e macchina, rischio di sentirmi male. Per fortuna ho nelle orecchie Konoyo, che muta, processa e digitalizza melodie realizzate con antichi strumenti tradizionali da tutto il mondo, dando vita a paesaggi sonori ampi e morbidi che sarebbero in grado di ammansire un rinoceronte.

GØGGS - PRE STRIKE SWEEP

I Gøggs sono al loro secondo album per In The Red e sono poco più di un side project per i tre membri Ty Segall, Charles Moothart e Chris Shaw (degli Ex-Cult), eppure sono decisamente la cosa migliore che tutti e tre abbiano prodotto. Questo nuovo disco conferma l'approccio hardcore-coltello-fra-i-denti del trio, che si lancia all'assalto con furia pur concedendosi qualche svisata psichedelica che forse vorrebbe suonare Hawkwind ma finisce più in territori Black Flag.

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