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Ozuna è il futuro romantico del reggaeton

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Ho sentito per la prima volta la voce di Ozuna nel 2016, quando dopo 11 anni sono tornata un mesetto in Perù, a visitare la mia famiglia. In radio lo sparavano a palla a ogni ora del giorno, e c’è voluto davvero poco perché ne uscissi ossessionata. Come al solito arrivavo in ritardo: con una carriera avviata nel 2014, in quell’agosto 2016, la sua figura si stava consolidando, e le hit erano già molte. Su tutte, però, “No quiere enamorarse”, “Dile que tu me quieres,” e “Te vas”—iconico pezzo reggaeton con zero cassa e solo voce—erano quelle che le radio davano di più, e che perciò non sono più riuscita a togliermi dalla testa. Un anno dopo (luglio 2017) ero già al Fabrique di Milano a cantarle a squarciagola, la prima volta che sono andata a vederlo live. La seconda è stata una settimana fa, nel parcheggio del Forum di Assago, al Milano Latin Festival.

Ascolto suggerito: Te Vas - Ozuna

Juan Carlos Ozuna Rosado, classe 1992, è sposato, padre di due figli, e appartiene a quell’olimpo di artisti che passeranno alla storia per aver rivoluzionato il genero urbano latino-americano. L’influenza di reggaeton, dembow, e trap en español nell’immaginario pop/mainstream globale è sempre più innegabile, e il crossover delle nuove leve di artisti latini, da qualche anno a questa parte, sta cambiando molte regole del gioco. J Balvin (artista più ascoltato al mondo su Spotify) Cardi B, Bad Bunny, Anuel AA, sono solo alcuni dei nomi per cui stravedono i tuoi rapper preferiti, perciò meglio stare sul pezzo.

Solo un paio di mesi fa, YouTube ha annunciato che Ozuna, ad oggi, è l’artista più riprodotto dell’anno: quasi 3 miliardi di visualizzazioni solo sul suo canale, che arrivano più di 5 se si considerano quelli esterni—solo ieri il remix di “Te Boté”, con Nio Garcia, Bad Bunny, Casper Magico e Nicky Jam, ha superato il miliardo di visualizzazioni.

Ascolto suggerito: Te Bote Remix - Casper, Nio García, Darell, Nicky Jam, Bad Bunny, Ozuna

Ozuna non è un reggaetonero qualsiasi: a lui interessano i sentimenti. Non a caso si è guadagnato il titolo di poster boy del nuovo reggaeton romantico, legittimo erede di De La Ghetto e Arcangel, che nei ‘00 ne erano stati precursori. I testi dei pezzi del “Negrito ojos claros”, che lui stesso compone, sono perlopiù incentrati su amore, vulnerabilità, e spesso abbracciano una prospettiva femminile—”Se Preparò” parla di una ragazza che riprende possesso della sua libertà, dopo un amore finito male. Per un genere ancora intossicato da mascolinità dirompente, e aggressività nei confronti dei corpi delle donne, non è una scelta da poco.

Ascolto suggerito: Se Preparò - Ozuna

Il suo album d’esordio Odisea vede la collaborazione di De La Ghetto, Nicky Jam, Anuel AA, Zion y Lennox, J Balvin, e dei produttori Yampi, Hi Music Hi Flow, Gaby Music, Chris Jeday. Dell’attesissimo seguito Aura, in uscita il prossimo 24 agosto sempre per la label indipendente Dimelo Vi, distribuita da Sony Music Latin, si sente parlare da mesi, specie ora che Ozu è in pieno tour europeo.

Una volta un producer cubano, in Ecuador, mi disse che quando si va a vedere il live di un pezzo grosso della musica urbana, non ci si deve aspettare altro che puro intrattenimento e zero contatto col lato umano dell’artista. “Come andare al cinema, o a un musical. Non deve avere nulla di ‘umano’ o terreno. Non pago così tanto per assistere allo show di uno come me; voglio molto, ma molto di più.” È un po’ questo lo spirito con cui mi avvio verso il Forum di Assago, il giorno del suo concerto.

Appena arrivata, mi accorgo subito di quanti più italiani ci fossero, rispetto al suo live al Fabrique dell’anno scorso, dove il pubblico era a prevalenza latina.

“Sono qua con delle amiche italiane” mi spiega Yvonne, 42enne cubana che incontro accanto ai bar, vicino all’area palco. “Vivo in Italia da 12 anni, e quando posso aiuto come volontaria lo staff del Milano Latin Festival. Oggi però voglio vedere solo Ozuna, è la prima volta che vengo a un suo concerto!”

Noto che sono presenti anche un sacco di coppie miste, italianx-latinx. “Io sono dominicano, e Marika è italiana,” mi spiega Yuri, mentre abbraccia la sua ragazza. “È la seconda volta che veniamo al suo concerto, la prima è stata l’anno scorso al Fabrique.”

Marika e Yuri.

L’elemento decisivo del pubblico di quest’anno, però, emerge solo alla fine: le famiglie. “Ozuna è il mio amore!” mi dice una signora colombiana, “Sono qua con i miei due figli, entrambi adulti. Eravamo in prima fila, mami, que tu crees?”

Anche Jorge e Barbara vengono dalla Svizzera, ma solo in veste di accompagnatori. “Io sono argentino e mia moglie è italiana,” spiega Jorge, “abbiamo accompagnato nostra figlia di 14 anni, e ora la stiamo aspettando.”

Barbara e Jorge.

L’ultima famiglia con cui parlo è interamente Salvadoreña ed è reduce dalla prima fila. “È la terza volta che lo vediamo a Milano,” precisa Isabel, la madre “la più fan in assoluto tra noi è la bambina.”

Emotivamente provata e senza più una voce, mi avvio verso casa. Durante tutto il tragitto, provo a impedire al mio cervello di fantasticare sulla mia futura famiglia ai futuri concerti di Ozuna, ma è dura. C’è un motivo se è il re del reggaeton romantico, dopo tutto.

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Recensione: Nicki Minaj - Queen

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Prima di tutto c’è da dire che Nicki Minaj È la regina. Quando ho letto il titolo del suo album Queen, droppato a sorpresa venerdì come una pistola rovente, ho pensato: “Ehi, non c’è davvero bisogno, sappiamo chi sei”. Ma Queen è un disco costruito per mettere i puntini su tutte le I e non lasciare dubbi a nessuno.

Questi ultimi mesi hanno visto un bel po’ di movimento nella scena hip hop americana: “This is America” e poi Kanye con le sue interviste e i suoi sei album, la delusione di Scorpion, la morte di XXXTentacion e i problemi giudiziari di 6ix9ine, il disco di Beyoncé e JAY-Z, il dissing tra Drake e Pusha T che sembra letteralmente la trama di una telenovela latinoamericana. Praticamente una lunga gara a chi scatena l’esplosione più grossa.

È in questo contesto che s’inserisce un album come Queen, totalmente fuori scala. 19 canzoni per essere sicure di occupare lo spazio giusto su Spotify e conquistarsi i primi posti delle classifiche di streaming (una pratica che continua a essere insopportabile), featuring da hall of fame (Lil Wayne, Eminem, Ariana Grande, The Weeknd, Future, Swae Lee) e un campionario di suoni che sembrano un vero e proprio showcase delle abilità di Nicki, dai bangeroni pop al rap old school, tanto che, proprio come Drake, rischiamo di ritrovarcelo su ogni stramaledetta playlist algoritmica.

Nicki Minaj vuole dimostrare di essere la regina colpendoti da ogni lato fino a incenerirti. Ci sono almeno sette o otto canzoni di troppo su questo disco, ma la decina che ne compone la colonna vertebrale è solida come il marmo. C'è anche da dire che mi sembra impossibile decidere oggettivamente quali siano le hit e quali siano i filler, tale è la qualità della roba qua dentro. A me per esempio non piacciono per niente "Good Form" e "Come See About Me", ma i fan di sonorità più latine (nel primo caso) o più sfacciatamente pop (nel secondo) non concorderanno.

In “Barbie Dreams” Nicki gioca con “Just Playing (Dreams)” di Notorious B.I.G., sputando un freestyle (registrato in una take, secondo il suo produttore Delaine) velenosissimo e divertentissimo che prende in mezzo tutti, da Quavo a DJ Khaled. In “Chun Swae” saltella rappando leggera su una base incredibile di Metro Boomin’ arricchita da uno strisciante ritornello di Swae Lee dei Rae Sremmurd. “Chun-Li”, “Bed” e “Rich Sex” sono tre hit che rappresentano perfettamente le diverse anime di Nicki: la rapper old school con la tecnica e i contenuti, la voluttuosa scalatrice di classifiche pop e un’artista capace di prendere Lil Wayne e piegarlo alla sua idea di trap. “Majesty” è una prova di forza, in cui il flow della rapper trinidadiana si scontra con quello di Eminem senza soggezione.

C’è qualcosa per tutti in questo album: schiaffazzi e carezze, attacchi e balletti. Ma soprattutto Nicki gioca con la materia della musica con spontaneità, usando il freestyle (come ha fatto per “FEFE”, il featuring con 6ix9ine, improvvisato in 5 minuti via messaggio vocale) e il suo bagaglio tecnico per creare un disco che sia il suo ritratto ma, proprio come in copertina, buffo, quasi caricaturale. È una bella dimostrazione di sicurezza e di amore per la musica, e un ottimo disco da ascoltare d’estate, mentre ce la si spassa a bordo piscina. Se il suo peccato maggiore è di costringerti a skippare cinque o sei pezzi, è un peccato che alla regina si può di certo perdonare.

Queen è uscito il 10 agosto per Young Money.

Ascolta Queen su Spotify:

TRACKLIST:
1. Ganja Burn
2. Majesty (Ft. Eminem & Labrinth)
3. Barbie Dreams
4. Rich Sex (Ft. Lil Wayne)
5. Hard White
6. Bed (Ft. Ariana Grande)
7. Thought I Knew You (Ft. The Weeknd)
8. Run & Hide
9. Chun Swae (Ft. Swae Lee)
10. Chun-Li
11. LLC
12. Good Form
13. Nip Tuck
14. 2 Lit 2 Late Interlude
15. Come See About Me
16. Sir (Ft. Future)
17. Miami
18. Coco Chanel (Ft. Foxy Brown)
19. Inspirations Outro

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La Guarimba Film Festival è tutto quello che ti serve

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Più o meno nella vita di ogni persona c'è quel concerto, quello spettacolo teatrale, quel viaggio o più in generale quell'esperienza che è difficile raccontare alle altre persone. Quella magia legata ad alcune esperienze che rimane immagazzinata all'interno di chi ha la fortuna di viverle, ma che è difficile condividere con gli altri.
La Guarimba è un festival che fa parte di questa difficile categoria di esperienze e, per l'edizione 2018, ho avuto la fortuna di assistere di persona.

La Guarimba Film Festival è un festival di cortometraggi indipendenti che si è svolto ad Amantea, in provincia di Cosenza, dal 7 all'11 agosto. La prima volta che ne ho sentito parlare è stato lo scorso luglio, quando per l'edizione 2017 abbiamo scritto un breve articolo con la testimonianza di Fritz Da Cat, che si trovava ad Amantea in veste di giurato.
L'iniziativa mi sembrava meritevole e curiosa, ma sinceramente non avevo capito nulla e appena sono arrivato in Calabria mi è stato chiaro il perché.

La Guarimba si regge su un delicato equilibrio che si è creato tra il cinema indipendente e Amantea, comprendendo tutti gli interpreti di queste due "fazioni". Da un lato ci sono registi stravaganti e volontari che arrivano un po' da tutto il mondo, dall'altro ci sono gli abitanti di un paesino calabrese che, in alcune circostanze, sentono messo in discussione il loro posto nel mondo, le loro sicurezze e, in un certo senso, le loro catene.

Penso che sia qui il segreto e la magia che raccontano le favole di tutte le persone a cui capita di partecipare al festival: il fatto di ritrovarsi catapultati in una manifestazione che riesce davvero a creare un dialogo (non sempre pacifico) con il territorio che la ospita. Al contrario di tante altre manifestazioni (che pure su Noisey abbiamo supportato), La Guarimba non si limita ad occupare un parco (o un quartiere, o un museo) per alcuni giorni, travasandoci all'interno un migliaio di persone da Milano, Bologna e Torino per fare una gita fuori porta, ma costringe ogni partecipante a relazionarsi con Amantea, con le tradizioni della Calabria, con i suoi abitanti e con le sue contraddizioni.

I cortometraggi sono il fulcro di un discorso che si propaga in ogni direzione, come ad esempio quello sulla rappresentanza queer nell'industria cinematografica affrontato da Sam Morrill (Chief Staff Picker di Vimeo) e Jude Dry (Digital Media Critic di Indiewire), che si sono scambiati alcune considerazioni crude e consapevoli su una terrazza, dopo qualche etto di cozze e fagioli e un paio di parcheggi problematici in doppia fila.

Quello che ti offre La Guarimba, oltre a ore ed ore di cortometraggi proiettati in una location da sogno, è la possibilità di scendere dallo stupido piedistallo che ti è spuntato sotto i piedi quando hai cominciato a convincerti di essere dal lato giusto della storia. Ci sono poche cose che ti faranno capire perché è importante essere rappresentati dai media quanto guardare un'orgia tra cinque ragazzi taiwanesi proiettata su un enorme schermo gonfiabile insieme a qualche vecchietto calabrese.

Mattia è su Instagram @mattia__cc

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Odiati dalla critica, amati dal pubblico: 50 anni di Led Zeppelin

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Jimmy Page e Jeff Beck erano amici ancor prima di suonare assieme negli Yardbirds, una dei gruppi più avventurosi della British Invasion. Sì, proprio quelli che si vedono spaccare gli strumenti in una famosa scena di Blow Up. Nel 1966 Jimmy vede spesso Jeff e gli dà una mano per "Beck’s Bolero", futuro inno hard-rock; giorni di session in compagnia, fra gli altri, di un certo Keith Moon alla batteria e John Paul Jones al basso. Gli incontri vanno alla grande, al punto tale da far venir voglia ai ragazzi di metter su un progetto musicale. Moon sentenzia che la band “would go over like a lead balloon” ("volerà come una mongolfiera di piombo"), che è un modo per dire fiasco totale. No, un "lead Zeppelin", un dirigibile di piombo, corregge John Entwistle, il bassista degli Who presente alle registrazioni.

Quel gioco di parole rimane nella testa di Page, quando, due anni dopo, i New Yardbirds dovranno cambiare nome.

Cinquant’anni di carriera per una band che la critica specializzata del periodo ha quasi sempre schifato, ma che di contro ha colto il favore dei giovani di ogni generazione dal momento in cui cominciarono a metter piede su di un palco.

Quando nel ‘69 viene pubblicato il primo album, quello che contiene "Dazed and Confused" o "Good Times, Bad Times", Rolling Stone scrive che Page è un giovane talentuoso ma che ha una scrittura povera e senza immaginazione. Robert Plant viene etichettato come “prissy”, un presuntuoso che ulula. Non convincono, sono ridondanti, monotoni. Era dura cominciare il gioco delle rockstar durante la cavalcata lugubre dei Doors, nei giorni dei Cream e di Jimi Hendrix. La critica pare viziata o dai gusti troppo sopraffini, ma il pubblico la pensa in modo diverso.

Già nei giorni del tour dell’album di debutto cominciano a girare le prime leggende che tanto piacciono agli ascoltatori di Virgin Radio. Non so se avete mai sentito parlare di quell’aneddoto di quando Plant e Morrison si incontrarono su un aereo e finsero di non conoscersi. Beh, probabilmente è una cazzata.

È vero invece che il 27 Luglio del ‘69 al Seattle Pop Festival a suonare tra Santana e Ike & Tina ci sono anche gli Zep e i Doors. La performance del re lucertola è deprimente come gran parte dei suoi ultimi mesi, c’è questo momento durante "Light My Fire" in cui lui cerca di abbozzare una forma di rap e quegli integralisti di rocker maniaci lo fischiano e gli tirano qualche birra addosso. La prestazione si conclude con il gruppo che lascia il palco e Morrison gonfio e stordito immobile davanti al pubblico. Quella doveva essere la serata dei Doors, gruppo all’apice della carriera, ma la parabola di Morrison era discendente e quando i Led salgono sul palco il loro concerto fulmina Seattle. A quanto pare, più che sugli album, la potenza biblica del gruppo era una roba da live.

“Non sono mai stato a un concerto degli Zep, ma alcuni amici (molti di loro sono il tipo di persona, devo ammettere, che ascolta tutto purché sia in condizioni pietose e a un volume inaudito) descrivono una fragorosa, indistinta onda di marea sonora che non assorbe ma avvolge per impedire ogni tipo di distrazione”, scrive Lester Bangs nella famosa recensione dedicata al terzo album. “Di tutte le band in circolazione, gli Zep sono davvero oggi: la loro musica è effimera come i fumetti della Marvel ma al contempo vivida come un vecchio cartone in Technicolor. Non sfida l’intelligenza o la sensibilità di nessuno, preferisce invece un impatto viscerale che assicurerà ai ragazzi una fama assoluta per molto tempo a venire”.

Negli anni il rapporto con la critica non migliora, nonostante le 23 milioni di copie vendute (solo negli USA) di Led Zeppelin IV. Perché nel 1972 i Rolling Stones di Exile on Main Street sono i cocchini della stampa e loro si ritrovano sempre ad essere bistrattati come “gruppo per ragazzini”? Hype? È quello che si chiede Page, che con Houses of the Holy vuole far capire al mondo che i Led sanno essere ben di più, s'intende, di una band che fa blues per bianchi. Un album che vede un assottigliamento degli assoli e più strutturati all’interno delle canzoni, come nel caso di “The Song Remains the Same”. “The Rain Song” è la ballata lentissima e si dice che sia figlia dei suggerimenti di George Harrison a John Bonham, il quale gli fece notare che il problema della band era che mancavano le ballate. Ironico, se uno ci pensa, dato che "Stairway to Heaven" è tipo la ballata dei DJ rock per eccellenza, eguagliata forse solo da "Nothing Else Matters". Insomma, in Houses c’è spazio per la rickynelsoniana “D’yer Maker” con intromissioni reggae, la soul e “ironica” (per citare Susan Fast, che scrisse un saggio universitario sugli Zep) “The Crunge”, la violenza onirica mellotronica di Jones in “No Quarter”, i cambi di tempo e la coda swing in “The Ocean”, ma, ehi, alla critica non va bene comunque.

“Limp Blimp”, il dirigibile sgonfio, questo è il soprannome che RS affibbia alla band dopo l’uscita dell’album. Tra l’altro con House, per la prima volta, Plant e compagnia si ritrovano parole critiche anche dal pubblico. Per dirla con il giornalista Michael Walker ( What You Want Is in the Limo), House è un album che è “Terra aliena, incognita e ancora non gentrificata dai bianchi di provincia, quella del dub e del soul”. Insomma, roba troppo fine per l’ascoltatore medio (e anche per il critico?).

Nel 1973 un anno dopo l’uscita dell’album scrive Peter Doggett, noto studioso della pop-culture: “Gli eroi del nuovo decennio, dai Grand Funk Railroad ai Led Zeppelin, non vendevano nulla di più significativo della loro celebrità".

Sarà, ma se i “Rolling Stones erano come i Kings of Leon, dei fighetti, i Led Zeppelin erano roba da working class” (Ross Halfin). Attorno alla band si crea quell’atmosfera esoterica e malvagia che ha alimentato articoli e biografie per anni. Plant e Jones erano la luce, Bonham e Page il buio, ed è davvero inutile stare qui a raccontare di tutte le cose già trite e ritrite sull’aspetto occulto della band, ma è tutto sommato interessante inquadrare la fascinazione nei confronti di Aleister Crowley e della magik da parte di Page e di come gli adolescenti ne stessero subendo per proprietà transitiva; i Led erano il gruppo di riferimento dei minorenni, del proletariato urbano e del campagnolo, allora succubi della fascinazione del male ormai inevitabile dopo i postumi del periodo hippie. Per dirla con le parole del vecchio promoter Bill Graham, gli anni Settanta erano un periodo di anarchia senza causa e violenza maschile.

Una delle leggende più divertenti sugli Zep è quella riguardante gli squali e le groupie.

A quanto pare è una storia vera, almeno a fidarsi delle parole di Vanessa Gilbert, amica del gruppo che l’ha raccontata su A oral history of Led Zeppelin. Siamo nel ‘69, nonostante siano ancora agli albori, la band è già un circo che va in giro in compagnia di una valanga di droga in corpo, groupies, fontane di whisky, cose così; sostano all’Edgewater Inn e, nella vulgata popolare, in una delle camere d’albergo una groupie viene penetrata (anche analmente) dalla testa di uno squalo. Un WTF che viene ridimensionato ne Il martello degli dei: secondo Richard Cole, il tour manager, è John Bonham che in preda all’entusiasmo appoggia la testa di una sorta di ventresca sul sesso di una ragazzetta dai cappelli rossi.

Dove cavolo avrebbero trovato il pesce? Guardate questa foto, questi sono i Beatles mentre pescano da una camera dell’Edgewater.

Nella versione di Vanessa quella sera c’era una bella atmosfera, lei e Jones stanno fumando una canna quando un Bonham euforico dice loro di venire a vedere qualcosa di incredibile in camera. Nel bagno c’è la vasca piena di questi “mud-shark” di media grandezza che ancora si agitano, tutti pescati dal batterista. Si presentano un paio di ragazze, nei ricordi di Vanessa una delle due ha delle unghie talmente lunghe da farle paura e l’altra indossa una calzamaglia. Vanessa è ancora una bambina. Bonzo e gli altri prendono i dentici e li sfregano su una delle due ragazze, poi la situazione scappa di mano a causa delle droghe e dell’alcool. La camera viene svuotata, tutto viene lanciato dalla finestra, anche i portaceneri; e quando finalmente Bonzo si accorge di trovarsi nella sua camera d’albergo si tranquillizza come un bambino e crolla in un sonno profondo.

Negli ultimi tempi è venuta fuori una versione piuttosto inquietante, raccontata da Carmine Appice, storico batterista di Rod Stewart che allora suonava nei Vanilla Fudge. Secondo Appice la ragazza si era presentata alla porta degli Zed dicendo loro di voler girare un filmino (qualcuno nei paraggi aveva una Super 8) ed era stordita dalle droghe, a letto, quando Bonham e Cole si sono presentati con lo squaletto ancora vivo. Qualcuno li ha ripresi mentre giochicchiavano con la mandibola del pesce sul sedere di lei e con la coda ancora viva, a schiaffeggiare le parti intime. E a quanto pare, sempre secondo Appice, successivamente avrebbero anche fatto altro, tipo sesso. Il filmino non esiste, ma se esiste, probabile che si trovi nella teca privata di qualche ultramiliardario russo con la passione per i cimeli più strambi. Noi comuni mortali dovremo accontentarci di una canzone che Frank Zappa dedicò alla storia nel 1971, “Mud Shark”.

Page si è preso il pezzo più grosso della torta nella storia della musica rock, contro la volontà dei critici, in nome di “tutti i ragazzini che nel 1975 disegnavano nelle loro camerette l’enigmatico ZoSo”. Parole della dottoressa Donna Gaines, sociologa e storica collaboratrice di Rolling Stone. “Era un simbolo che unificava la suburbia di tutto il Paese. I bambini ZoSo erano la legacy degli Zep. Per lo più maschi bianchi, figli del proletariato affascinato dalla cultura di massa, richiami pagani ed edonismo figlio dei Sixties”.

E la cosa è andata avanti, sarà perché la loro musica qualcosa di pericoloso, spirituale e oscuro ce l’aveva sul serio. Tipo Physical Graffiti, album che ancora suona così misterico, una composizione arcadica, soprattutto se ascoltato nell’edizione imperfetta degli outtakes. Se dovessimo scegliere un pezzo di quell’album come non citare "In the light", otto minuti che racchiudono un po’ tutta la loro ambigua essenza.

Eh sì, Page si è preso il pezzo più grosso, nonostante le accuse di plagio, a volte evidenti, nonostante le miriadi cover band che hanno sfornato, nonostante i loro album fossero “qualcosa di splendido nel suo insensibile schifo”, nonostante l’aver inventato e venduto lo stile di vita Zep, immaginario dello spreco e del lusso, quello delle limousine interminabili e delle puttane sempre disponibili, marchio di fabbrica del rock edonista dal quale l’America riuscì a salvarsi (per qualche anno) solo con la filosofia straight edge e hardcore della Washington di Ian MacKaye.

A Plant, Page e Jones rendiamo grazie soprattutto una cosa: di lasciarci festeggiare il loro 50esimo anniversario senza patetiche e senili reunion o chissà che cafonate. Al massimo, se proprio non potete farne a meno, potreste seguire il tour di Robert Plant che, con il suo ultimo album, l’elegante Carry Fire, ha dimostrato di non aver mai perso quel suo inimitabile “ululato.” Io non l’ho mai visto live, ma quello che mi dicono amici fidati è che Robert Plant sa ancora incantare tutti, da vero stregone. Gli abiti del dio della musica non può più indossarli, ma la voce è sempre quella. Anzi, semmai è maturata.

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È morta Aretha Franklin

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È un momento che abbiamo sentito arrivare, visto le notizie dei problemi di salute di Aretha Franklin si rincorrono da diverso tempo. La regina del soul è morta poco fa, riporta la CNN, nella sua casa di Detroit, per le conseguenze di un cancro al pancreas in stadio avanzato. La notizia è stata diffusa da un rappresentante della famiglia.

Aretha è semplicemente la musica soul. Se si ascolta una delle sue prime hit, "Respect" del 1967, basta il suo acuto iniziale ("What you want / Baby I got it") per avere la misura del suo talento e della sua forza espressiva. La scena di Blues Brothers in cui interpreta "Think" agitando un asciughino sporco in aria dentro il suo diner Soul Food è forse la scena musicale più amata del cinema americano, anche da chi non sopporta i musical. Ha vinto 18 premi Grammy. È stata la prima donna a essere ammessa nella Rock'n'Roll Hall Of Fame.

La sua influenza si può tracciare in gran parte della musica contemporanea, e il suo contributo alla causa della parità di diritti, che si parli di razza o di genere, è incommensurabile. La sua carriera splendente a dispetto di una vita dura, in costante lotta contro uomini violenti e tendenze autodistruttive, è un'ulteriore prova del suo talento straordinario.

Ora che la regina del soul è scomparsa, l'unica cosa che rimane da fare è mettere su uno dei suoi dischi e cercare di mettere più anima in quello che facciamo, in suo onore. Respect Aretha.

Le 3 migliori nuove uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e a partire ogni settimana ve ne consigliamo tre. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Già che ci siete, seguite la nostra playlist della settimana su Spotify per non perdervi le altre cose che ci piacciono e pensiamo possano piacere anche a voi.

MITSKI - BE THE COWBOY

È un momento molto positivo per la musica pop, in cui sembra che il pubblico abbia la mente più aperta che mai, in cui si può parlare di cose importanti in un singolo da classifica, in cui un album complesso, ambizioso e stratificato come Be The Cowboy di Mitski, è in grado di raggiungere le prime pagine e il massimo dell'esposizione. Basta un ascolto della seconda traccia "Why Didn't You Stop Me?" per essere investiti dall'aria di libertà e di euforia di questo album, che si muove tra suggestioni retropop, disco e rock/cantautorali, mescolandole gioiosamente in pieno spirito contemporaneo, mentre i testi ci mostrano l'artista in tutte le sue sfaccettature, con la maschera del personaggio pubblico e completamente nuda.

DEATH CAB FOR CUTIE - THANK YOU FOR TODAY

Nel suo nono album, la band indie rock più indie rock del pianeta continua a fare quello che sempre fatto: piccole, intime canzoni piene di emozioni capaci di influenzare il cambiamento climatico da quanto fanno aumentare il battito cardiaco e sgorgare lacrime. A Ben Gibbard e soci bisogna riconoscere che non si sono arresi alla stereotipizzazione da band per ragazzini che era un rischio concreto dopo la repentina ascesa grazie a The O.C. a metà anni Duemila, ma hanno continuato a crescere con il proprio pubblico, mantenendo la costante dell'apertura e dell'onestà emotiva e delle belle canzoni di cantautorato elettrico, qui forse più che in passato indebitato al classico folk americano. Un ottimo disco per le nottate romantiche di questa fine d'estate.

IRON & WINE - "WAVES OF GALVESTON"

È arrivata la seconda anticipazione di Weed Garden, EP di Iron & Wine che uscirà il 31 agosto. Anche "Waves of Galveston", come tutti i pezzi del disco, è un "avanzo" delle registrazioni del precedente album Beast Epic, ed è una bellissima ballata in finger picking dall'incedere pacifico ed arioso, come una radura nel bosco.

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È ora di parlare di misoginia nel rap

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Indiegeno Fest è un festival musicale che si svolge tra Patti e Tindari, in provincia di Messina, sul mare. Un'operazione meritevole di rispetto che porta un po' di nomi della musica mainstream italiana in una zona forse un po' periferica e li fa esibire in scenari fantastici come un antico teatro greco o una spiaggia bellissima. L'edizione 2018 si è svolta dal 3 al 9 agosto e ha ospitato nomi come Cosmo, Maria Antonietta, Zen Circus, Daniele Silvestri e Gemitaiz, e proprio quest'ultimo artista in questo momento è oggetto di una polemica sui social network.

Ad aprire il concerto di Gemitaiz c'erano Frenetik & Orang3 e CRLN. CRLN è una giovane artista marchigiana che alcuni mesi fa ha pubblicato un disco di electropop in italiano molto bello intitolato Precipitazioni. La sua musica è delicata e viscerale; nell'album ha aperto il proprio cuore esponendo vulnerabilità e sentimenti profondi, in maniera non del tutto dissimile a quel che ha fatto Gemitaiz con Davide.

È successo che, come ha riportato il magazine online Parte del Discorso, CRLN è stata bersagliata da cori sessisti al suo ingresso sul palco. Non è la prima volta che le succede, le era capitato anche un paio di anni fa aprendo per Marracash. "Là gli insulti me li ricordo bene, uno per uno", mi ha raccontato Carolina via messaggio privato. "Questa volta avevo gli in-ear quindi ho sentito molto di meno, ma i cori mi arrivavano bene". Si trattava, naturalmente, di ragazzini molto giovani, che occupavano le prime file della platea in attesa del loro idolo Gemitaiz. Ho visto una cosa simile di recente a un concerto di Frah Quintale prima di Tedua: le prime file di "superfan" del rapper genovese facevano piovere insulti su Frah (molto amato dal resto del pubblico, ci tengo a dirlo) fino a costringerlo a rispondere.

Il problema evidenziato dall'articolo di Parte del Discorso, da CRLN e da tutte le persone che le stanno esprimendo solidarietà in queste ore, però, è più complicato di un semplice gruppo di giovanissimi esagitati che non riescono a tenere la bocca chiusa e a godersi un concerto. Il problema è Gemitaiz che sale sul palco dopo che i suoi fan hanno preso a insulti degradanti e misogini una sua collega e non pronuncia nemmeno una parola di solidarietà, facendo finta di niente.

Il rap sta vivendo un momento di grazia, ed è un peccato guardare verso un temporale in avvicinamento quando ci si trova sulla cresta dell'onda, ma è anche utile per non farsi trovare impreparati dalla tempesta. Le donne italiane continuano ad alzare la voce, continuano a fare musica e a salire sui palchi, eppure tantissimi uomini in questo paese non sembrano volerlo accettare. Ma ciò che è più grave è che altri artisti uomini non hanno il coraggio di mettere in discussione questo pregiudizio, anche quando si rivela nel loro stesso pubblico.

Dutch Nazari è tra i molti che hanno preso posizione su Instagram in favore di CRLN.

Un'enorme parte del pubblico rap, composto in gran parte da giovanissimi, non lo accetta. Pensa che usare termini che trivializzano e degradano l'intelligenza e il talento di una donna non sia un problema, solo perché fa parte di un codice o di una cultura. Pensa che giudicare un'artista per il proprio aspetto fisico, e addirittura disturbare il concerto per esprimere quel giudizio, non sminuisca il lavoro di un altro essere umano, ma sia soltanto uno scherzo, una normale interazione.

Ma non è un problema solo di sessismo, è un problema di idolatria che sfocia nella mancanza di amore per la musica ("A me piace solo Gemitaiz/Marracash/Tedua e tutti gli altri sono merda e adesso glielo faccio sapere"), di spirito di branco, di senso dell'umorismo becero e del clima di costante violenza verbale in cui viviamo a causa dei social network, della politica, della cultura in cui siamo immersi.

Che sia venuta fuori questa polemica è una cosa positiva, a mio parere. Dopo aver capito (proprio grazie a Gemitaiz tra l'altro) che il pubblico rap è pieno di gentaglia intollerante e razzista, ora abbiamo la possibilità di riflettere su come questa cultura si rapporta alle donne. Ci si rapporta male. C'è molto, moltissimo lavoro da fare, ma se chi ha il microfono in mano starà dalla parte giusta faremo tutte e tutti meno fatica.

Abbiamo contattato Gemitaiz per avere un suo commento sull'accaduto ma non abbiamo ricevuto risposta.

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La colonna sonora di Non aprite quella porta è il terrore fatto suono

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"Girare [la scena del banchetto] è stato il momento peggiore della mia vita... e io sono stato in Vietnam, dove la gente mi voleva ammazzare."
Edwin Neal, l’autostoppista

Quando uno pensa ad agosto, pensa a un mese nel quale l’unico obiettivo è di evadere dalla realtà, divertirsi, viaggiare verso mete spensierate. Almeno questo è quello che uno si augura: poi però dietro a questa facciata si trova magari l’abisso di un vissuto che è davvero “tanto staccato” da risultare assurdamente vero, più che reale (due termini ben diversi). Guardiamo gli ultimi fatti di cronaca: pura follia. Sembra però che nulla impedisca alla gente di organizzare party tanto per farli, spendere i soldi per disperazione fingendo che sia un lusso, insomma di venire inghiottiti in un gorgo di brutale insensibilità mentre tutto intorno crolla consumandosi in contraddizioni irrisolte. Sì, magari vi apparirò incredibilmente pessimista ma è il pretesto per parlarvi di un film che anche oggi, a distanza di anni e anni, sembra inquietantemente profetico se non completamente attuale. Nessun regista di nuova generazione potrebbe carpire allo stesso modo il reale umore di un periodo storico come quello che stiamo vivendo.

Non aprite quella porta ( The Texas Chainsaw Massacre, 1974) del compianto Tobe Hooper è senza dubbio il simbolo di una devastante idiozia mortifera che sembra non avere fine, ma soprattutto è la sua colonna sonora a portarci anche oggi degli elementi nuovi, che forse sono l’unico grimaldello per ritornare a sentire qualcosa, non solo con le orecchie ma proprio con tutto il nostro essere, separando gli occhi, oramai abituati a qualsiasi tipo di atrocità, dalle orecchie e dal suono. Che raramente ci può mentire.

Ma andiamo un passo per volta, magari attraversando le mie esperienze di bambino: agosto dei primi anni Ottanta, ci troviamo in una casa nel Pontino, una volta fattoria, piazzata in campagna accanto al cimitero cittadino. Sibilano le fronde, il vento ulula, rospi e grilli disseminano strani rumori nell’aria, non meglio identificate porte cigolano e i cani abbaiano in sequenze sparse. In città osservo le locandine dei film horror di Lucio Fulci, Dario Argento; immagino le trame dei film, già vedo gli zombi uscire dalle tombe e trascinarsi verso casa mia.

A dieci anni esatti, anno 1986, fui invece attratto dalla locandina di Non aprite quella porta 2, forse il sequel più sottovalutato della storia, una commedia horror sul filone di Un lupo mannaro americano a Londra, un esperimento crossover tra film comico, gore, d'azione e giovanilista. La locandina mi faceva cacare sotto per riflesso: nella mia testa comparivano ancora le immagini dei trailer del primo eccezionale capitolo, uscito nel 1974, il quale si svolgeva in un’ambientazione molto simile ai miei mitici luoghi di villeggiatura estiva. Case apparentemente abbandonate, fieno, sterpaglie incolte, fattorie inquietanti, un buio che incombe su una campagna che diventa un vero e proprio “mostro”: di mattina oasi meravigliosa, con le tenebre terrore desertico. E poi il caldo d’agosto, asfissiante, e le sue piogge tanto fresche quanto violente. Ricordo vere e proprie tempeste causare una carneficina di volatili letteralmente strappati via dagli alberi e dai loro nidi per sfracellarsi inermi sull’asfalto. Una realtà più horror di un film horror, insomma.

Le riprese di Non aprite quella porta vengono completate il 14 agosto 1973 e narrano d’immaginari avvenimenti accaduti il 18 agosto dello stesso anno, quando un gruppetto di giovani in vacanza “on the road”, capitanati da Sally Hardesty e dal suo fratello paraplegico Franklin, vengono assaliti da una famiglia di cannibali impazziti, tra i quali la grandissima icona horror Leatherface, un uomo mentalmente disturbato, alto e grosso come un armadio a due ante e dedito alla brutale macellazione di esseri umani. Gli altri elementi della famiglia pure non scherzano, ma non farò certo spoiler in primis perché è inutile, e poi perché magari qualche individuo di primo pelo non ha ancora avuto il piacere di vedere questo film allucinante.

Nella mente di Tobe Hooper, il coraggioso regista, Non aprite quella porta rappresentava una critica spietata ai costumi americani del periodo, e non si salva nulla. Gli hippies dipinti nel film sono dei veri e propri cretini che vanno al macello non riuscendo neanche a cogliere i segnali che giungono dall’astronomia o dalla magia, ultima spiaggia della loro salvezza giacché la scienza non la calcolano proprio, né riescono a capire i palesi disastri che gli si dipanano sotto il naso caricando psicopatici a caso sul van nel segno del “peace and love”.

Non si risparmiano nemmeno i diversamente abili, dato che Franklin, come notato da Pierluca Zanda della 148 Produzioni in una nostra recente discussione, dalla sua sedia a rotelle porta tutti al massacro come un novello Caronte. Non solo per la sua fissazione per vedere la vecchia casa di suo nonno a tutti i costi, ma anche comportandosi proprio come l’autostoppista/maniaco sovracitato, facendo le stesse boccacce e in qualche modo condividendo anche i gusti di quelli che poi saranno i suoi assassini (l’alto gradimento per la carne e la macellazione delle bestie, ad esempio). In pratica è la versione speculare “in positivo” di Leateherface, una faccia della stessa medaglia d’emarginazione. Di contro, i cattivi sono dei personaggi oramai maciullati, digeriti e cacati, schiacciati e geneticamente modificati dal capitalismo americano, inanimati figli del Vietnam, dei deficienti all’ultimo stadio che oramai non hanno più niente in mano se non l’assassinio come unico modo per stare al mondo, ovviamente brutalizzando tutti e soprattutto se stessi in una specie di sadomasochismo infinito.

Ovvio, poi, che l’eroina sia una donna, anche se Sally è una specie di amazzone inconsapevole che si salva solo arrivando alla follia pura, quasi accettandone l’inevitabilità. È questo l'unico modo per reagire alla lucida follia dei suoi aguzzini, che rappresenta a questo punto non solo l’America, ma tutte le situazioni politico-sociali in cui la depressione da provincia e la trasformazione da persona a oggetto, da lavoratore a numero, creano le de-espressioni di pura energia distruttiva reazionaria (che come in un disco dei Big Black vanno dall’antropofagia all’accoppiamento tra consanguinei). Insomma, più o meno quello che sta succedendo oggi negli USA e in Italia. Il voto come espressione di un rancore illogico verso la vita.

Se il film è stato bandito a corrente alternata fino al 2011 a causa della sua violenza emotiva, in cui chiaramente il torturato nel film e lo spettatore nelle sale sono la medesima persona (e pochi film sono così duramente empatici), la colonna sonora allo stesso modo non ha mai avuto un’edizione ufficiale, come se si volesse tenere nascosta. Solo bootleg, edizioni in cassetta fatte in casa, mai una ristampa. Sembra proprio che questo score desse più fastidio del film in sé.

E, in effetti, trattasi di una specie di catastrofe sonora buttata in faccia all’ascoltatore inerme, di una potenza micidiale, tanto che metà delle uscite noise degli ultimi tempi sembrano una cazzo di barzelletta sulla settimana enigmistica rispetto a questo capolavoro. Capolavoro studiato a posteriori da gente come i Wolf Eyes del periodo d’oro, perché si basa su un paio di elementi importantissimi: il disastro improvvisativo e l’editing. A questo proposito Wayne Bell, geniale coautore della colonna sonora e ingegnere del suono, ha detto a The Quietus: “Uno dei maggiori punti di forza di Tobe era come editor, e anch'io venivo da una storia di editing, quindi eravamo una coppia perfetta, con l'idea che avremmo raccolto una certa mole di lavoro e poi l'avremmo composta tramite l'editing invece di suonarla in ordine. Abbiamo fatto diverse sessioni e suonato varie cose che avrebbero avuto il suono giusto, essenzialmente abbiamo creato una biblioteca di cose, di performance. Non abbiamo sonorizzato direttamente il film, ma lavorato per idee: 'questa è tensione', 'questa è la stanza delle ossa', 'questo è l'inseguimento'".

La cosa peculiare di questa colonna sonora, infatti, è che lo stesso regista fa parte del processo compositivo, spostando e applicando l’idea di montaggio anche alla musica, forse prendendo spunto anche da Teo Macero, produttore di Miles Davis. Profondi delay analogici che rovistano negli echi di un subconscio scisso in cui la malattia è abisso irrecuperabile, un ammasso di suoni cacofonici che creano un gomitolo di repressione attiva, quasi un’eruzione che non arriva mai al climax giusto, un bad trip di LSD descritto perfettamente in un certosino sound design ante litteram.

Il tema principale, infatti, è composto di un suono illogico e gracchiante che in teoria pare uno stretch digitale di uno strumento a corde elaborato col computer, in realtà all’epoca il procedimento era praticamente impossibile da realizzare. Al contrario sembra che lo stesso Bell sia anche oggi capace di riprodurlo dal vivo, senza nessun tipo di additivo effettistico, ma si è sempre rifiutato di rivelare come. Molti dicono che si trattasse di uno strumento a corde attaccato a un tamburello africano, chiaramente customizzato per l’occasione, mentre per anni è stato confuso con il suono di un animale condotto al macello. Rimane il mistero.

Lo score è comunque tagliato con il machete dell’editing, massacrato quasi come le vittime del film. È quello che fa la differenza, perché l’orecchio sembra veramente “attaccato da più parti”, all’improvviso, come se incombesse alle spalle il killer. Si respira un’atmosfera di perenne stato di vuoto pneumatico, una caduta verticale ben enucleata da sapienti maneggiamenti reel to reel che rievocano i pionieri della musica elettronica anni Sessanta, ma in caduta libera. La musica concreta viene presa di peso e “volgarizzata” nel senso più nobile e “pop” del termine, con tanto di piani preparati, strumenti giocattolo, una lap steel guitar, un contrabbasso, numerosi oggetti di metallo fatti letteralmente rantolare e, dulcis in fundo, la radio, che manda un notiziario inquietante che è il fulcro delle prime scene.

Ma si va per sottrazione, per lente sovrapposizioni a scomparsa, un dinamismo che nasce per non far riposare l’udito, una sottrazione che vive nell’eccesso degli elementi sonori in gioco. Gran parte degli strumenti usati è letteralmente brutalizzata, come ad esempio un dulcimer di cui alla fine della fiera rimane pochissimo, solo le macerie. Sono inseriti anche veri grugniti di maiali (molto prima de "Le secche del delirio (per porci e pianoforte)" di Walter Marchetti, nonché di grilli e cicale, qualcosa di apparentemente innocuo che invece uccide il resto del soundscape grazie alla sua presunta innocenza. Opportunamente trattati, creano una scenografia sonica in cui lo stesso ascoltatore è complice del sacrificio generale. Il suono lo porta, infatti, a immedesimarsi sia nella vittima sia nel carnefice, in un fatalismo quasi da tragedia greca.

Si tratta di una voluta via di mezzo tra suono e rumore, come dalle parole di Bell, opportunamente mescolato per dare un’idea della realtà (il field recording) trasfigurata dall’incubo (il suono del massacro introiettato). Questa colonna sonora viaggia anche sui temi della predizione: l’allucinata nefandezza e amoralità del suo suono anticipa ogni azione criminosa presente nel film, ne fa una tana di topi, in cui ogni personaggio può disintegrarsi come preferisce, e decomporsi come la carne umana che vediamo abbondare nella casa della famiglia impazzita.

La scena del banchetto a questo proposito parla chiaro. Infatti, alle lisergiche botte di echo e all’ammasso di cadaveri sonori corrisponde una pila “scenografica” di veri cadaveri di cani in putrefazione sul set, il cui olezzo incredibile portò gli attori a svenire e vomitare fuori dalla finestra. A causa del rifiuto di John Dugan di sottoporsi per più di una volta alle 5 ore di trucco richieste per applicargli la faccia del "nonno", la troupe finì a girare per 36 ore di fila, nel caldo asfissiante e in mezzo a carne in decomposizione. Fu talmente provante, psicologicamente, che Gunnar Hansen, che interpretava Leatherface, finì per pensare di dover davvero ammazzare la povera Sally (Marilyn Burns).

Nella scena del banchetto ci troviamo quindi di fronte alla riduzione sonora di quest’ambiente malsano, possiamo addirittura sentirne la puzza. È un incredibile assalto emotivo, in cui la steel guitar ricama onde anomale come fosse un sintetizzatore, esplodendo poi all’interno delle grida della protagonista mischiate a grugniti animaleschi, a urla umane modificate e alle risate maniacali della famiglia di pazzi: l’orecchio cerca dei punti di riferimento impossibili e viene disorientato come se il cervello esplodesse in mille pezzi, come se ogni fenomeno fosse già messo in conto dagli assassini che cercano di chiudere continuamente, appunto, porte che non dovevano essere aperte.

La violenza dei suoni del film è insomma, senza dubbio, proto-noise e intuisce una linea di confine che più avanti diventerà la prassi nell’underground. Ma è anche proto-industriale, appena un anno prima della fondazione dei Throbbing Gristle e in contemporanea con gli esperimenti live “estremi” dei Grateful Dead, prima di qualsiasi provocazione anni Novanta sul tema (vedi ad esempio i NIN, ovviamente in linea con certi vissuti negativi), con solo qualche presagio white noise nella colonna sonora de La notte dei morti viventi di Romero o ne Gli uccelli di Hitchcock.

Il disgusto provato da Hooper e Bell è però forse il primo in assoluto a sintetizzare un sentimento che dal 1975 in poi sarà sviluppato su larga scala. Qualcosa che viene musicato, tra l’altro, con abbondanza di basse frequenze, una roba da subwoofer prima delle tendenze di oggidì, con un continuo sferragliare meccanico che sottintende una certa assenza di anima a favore invece di esseri umani macinati dagli ingranaggi del potere e ridotti a meri scheletri (non a caso Hooper incalzava Bell in questo modo: ”insomma, non stai componendo una fuga ma ricreando il suono delle ossa!”), una morte psichedelica che spappola qualsiasi cosa prima ancora di incontrare le sue vittime.

Lo scienziato cognitivo Domenico Parisi afferma: “Se una sequenza di suoni è totalmente impredicibile dal punto di vista della figurazione ritmica o della sostanza melodica, la musica può essere udita ma non ascoltata e non viene (di norma) apprezzata”. Ma possiamo dire che la colonna sonora di Non aprite quella porta, col suo estremismo, è riuscita invece nel miracolo di arrivare alle masse incolte della modernità senza compromessi, toccando naturalmente quelle corde che sono mille metri sotto la melodia, quella che è astutamente presente nella restante parte della colonna sonora: brani di autori country che costellano la pellicola in una specie di gioco stile Arancia Meccanica, musiche non meno importanti, ma accessorie rispetto al resto. È la melodia che bussa dalla bara, chiedendo vendetta? Niente affatto, anzi, la melodia stessa getta la maschera per rivelare quello che si nasconde davvero dietro di lei. Ovvero Leatherface nella scena finale, che dà vita a una dolorosa sinfonia per versi inconsulti e frustranti botte di sega elettrica random contro un cielo di brace, in un agosto disastrato. Siamo noi, siete voi, sono loro, siamo tutti, in un Texas da bruciare chiamato mondo.

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Come i primi rapper italiani sono finiti su WorldStarHipHop

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Non è difficile fare rap nel 2018. Il che rende però molto difficile farsi notare in mezzo al marasma di pezzi, video e tape che vengono pubblicati ogni giorno negli sconfinati spazi di internet. Una delle strade che si possono prendere per compiere quel piccolo ma cruciale passo che è convincere la gente a dedicare alla tua canzone qualche minuto è venire pubblicati da una piattaforma influente. E WorldStarHipHop è forse la più influente del mondo.

Con un canale YouTube da 15 milioni di iscritti, WSHH è una garanzia di esposizione. E infatti quando dei ragazzi italiani, tali LOWQUALITYGANG, hanno pensato di farsi caricare un video proprio lì non ci è voluto molto perché ci arrivasse una mail che ce lo faceva notare con toni entusiasti. Il loro pezzo si intitola "Baby Drake" e lo potete ascoltare qua sopra. Ma perché ne stiamo scrivendo? Perché finalmente l'Italia è finita sul più grande aggregatore di contenuti hip-hop del mondo? Perché la canzone spacca? Bé, non proprio.

Per farsi pubblicare un video nella sezione dedicata agli esordienti su WSHH basta pagare 8000 dollari. "Baby Drake" è un brano lo-fi tutto preso bene e zuccheroso come ce ne sono tantissimi in giro. Il video è stato girato in un parco acquatico a Vasto e segue i ragazzi mentre fanno le cose che fanno i rapper in mezzo al caldo dell'estate. Ogni tanto compaiono sederi di ragazze palesemente non coinvolte nelle riprese. Uno di loro ha una frase dei Raein aka una delle band screamo italiane più famose del mondo tatuata sul petto (il che mi ha fatto esplodere il cranio in mille pezzettini). C'è una bandiera italiana che viene sventolata con veemenza per mettere bene in chiaro la questione geografica.

Questo momento crossover tra screamo underground, capezzoli e WorldStarHipHop andava ben segnalato, scusatemi. Screenshot dal video.

Sotto al video ci sono diversi commenti negativi. Ci sono quelli che fanno i lamentoni alla "AMICI AMERICANI IL RAP ITALIANO NON È QUESTO". C'è chi dice che ormai WSHH può anche cominciare a postare video rock e pop, dato che ormai pubblicano qualsiasi cosa dietro pagamento. Niente di nuovo per l'ecosistema dei commenti di YouTube, un grande guazzabuglio di grida, diti puntati e gag che i rapper ormai attraversano nuotando a stile libero. Nei commenti ci sono però anche diverse reazioni positive. Si annusa un tono alla "Facciamo la storia", scoppiettano ovunque emoji di bandiere italiane e così via.

È però importante placare un attimo gli entusiasmi. Non ci vuole niente per farsi pubblicare un video su WSHH se non 8000 dollari. Potrei letteralmente filmarmi con la videocamera del portatile mentre leggo il primo canto della Divina Commedia con l'autotune sopra un beat trap e, grazie a un semplice bonifico, fare 50.000 views e prendermi un sacco di insulti. Se anche a voi questa sembra una buona idea potete mandare delle buste con dentro dei soldi a mio nome in redazione.

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Alcune precisazioni sulla polemica tra CRLN e Gemitaiz

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Torno su un argomento già affrontato la settimana scorsa, l'episodio misogino capitato a CRLN a Indiegeno Fest, perché ha scatenato varie polemiche. Prima di proseguire, consiglio di leggere il racconto di CRLN, il mio articolo di venerdì, l'articolo di Mattia Barro su Rolling Stone e quello di Damir Ivic su Soundwall.

Sintesi: giovane artista suona prima di Gemitaiz a un festival e viene subissata di insulti e cori sessisti ("ollellè ollallà" e tutto il cucuzzaro) da parte dei fan dell'headliner accampati da ore nelle prime file; cerca di zittirli, non viene ascoltata, scende dal palco profondamente traumatizzata e non trova solidarietà da parte di Gemitaiz, né durante il concerto né nei giorni successivi sui social; decide di parlarne pubblicamente.

Disgraziatamente serve un machete per farsi strada in qualunque dibattito in questo paese, quindi cercherò di fare un po' di chiarezza.

Gemitaiz non è misogino

In questi ultimi anni in cui la questione di genere è diventata argomento di dibattito quasi quotidiano, gli uomini sembrano aver sviluppato una percezione delle accuse di comportamento sessista vagamente paranoica, tant'è che non appena la parola viene menzionata saltano sulla sedia come un sessistissimo stereotipo di casalinga davanti a un topo. Quello che è necessario aprire (e penso di esserci riuscito almeno in parte) è un dibattito sui comportamenti che la gente adotta naturalmente ma che possono mostrare al proprio interno vizi culturali che non sono in linea con la parità di diritti che noi tutti, non essendo un paese di scimmioni retrogradi, promuoviamo ogni giorno.

Il famoso patriarcato non è una cospirazione di alcuni uomini cattivi: è lo stato "naturale" in cui si trova la società in cui viviamo. Per questo la lotta femminista è importante e riguarda tutti. Non è una lotta delle donne contro gli uomini, è la lotta delle persone che credono nell'uguaglianza contro un sistema iniquo.

CRLN, la sera dell'Indiegeno Fest, ha subito un trattamento iniquo. Gemitaiz non se n'è accorto. Non penso che Gemitaiz sia misogino. Non era sua responsabilità impedire il fatto, e nemmeno suo dovere riprendere quella fetta del suo pubblico. Ma sarebbe stato apprezzabile se un artista dal suo profilo ne avesse preso atto e avesse preso pubblicamente le distanze, insegnando così anche una cosa o due a chi lo ammira ma non condivide del tutto la sua visione progressista.

Il fatto che il rap sia "sempre stato sessista" non è una giustificazione

Sarebbe anche bello ignorare del tutto commenti benaltristi come "e allora gli americani", "e allora gli N.W.A. [o chi per loro]", eccetera, ma temo di doverli menzionare.

Tutte le manifestazioni culturali nel mondo moderno sono "storicamente" sessiste. La letteratura è un mondo sessista (anzi, lo è l'istruzione stessa), la musica in generale lo è sempre stato, lo è il teatro, lo è la televisione, lo è il cinema, lo è la stampa, lo è la pittura.

Ma lottare contro questo stato di cose non significa fare la brutta brutta censura a quei grandi geni dei tuoi artisti preferiti solo perché hanno il pisello; non si tratta nemmeno di ignorare gli artisti che usano un linguaggio forte e anche offensivo. Ne abbiamo già parlato.

Lottare contro questo stato di cose significa, invece, lasciare spazio alle donne, lasciare loro pari opportunità di esprimersi e incorporare il loro punto di vista in un discorso pubblico che guarda sempre soltanto da un occhio.

Su questo fronte nessuno può scagliare la prima pietra, ma restare sempre zitti non risolverà proprio niente.

Il rap è il genere musicale più popolare tra i giovani in Italia

Perché ho scritto questa cazzata che sanno anche i sassi? Per ricordarvi che in una cosa così grande come un genere musicale, tanto più se è tra i più diffusi, ascoltati, frequentati dalla gioventù italiana, c'è spazio per ogni cosa. Tant'è che le rapper donne stanno emergendo, nonostante noi, la stampa e il pubblico, non stiamo assolutamente facendo del nostro meglio per dar loro spazio.

E purtroppo in un pubblico così ampio si trova anche gentaglia: razzisti, misogini, omofobi e altre specie di esecrabili esseri umani. Ma anche, semplicemente, ingenui che non sono in grado di non prendere alla lettera un "bitch" detto in una canzone rap. Proprio a questa fetta di pubblico potrebbe giovare una lezione di rispetto ogni tanto.

Episodi come quello da cui abbiamo preso spunto per scatenare questo dibattito devono almeno, appunto, dare vita a una discussione, devono essere messi in evidenza, perché per non rivangare un episodio spiacevole si rischia di creare terreno fertile per altri episodi simili.

Quello che noi, da cronisti, vorremmo raccontare, è un mondo rap che questo tipo di espressioni le soffoca, non con la violenza e neanche con la censura, ma con l'apertura verso forme di espressione più vicine ai valori di una società che, almeno secondo i libri di storia su cui ho studiato io, è uscita dal Medioevo 500 e rotti anni fa.

Giacomo è su Instagram, ma cerca di passarci poco tempo perché gli fa male.

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Dovete ringraziare "Trap Muzik" di T.I. per tutto questo

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Quando T.I. pubblicò Trap Muzik nell'estate del 2003 diede quasi immediatamente un nome a un genere che avrebbe fatto la storia del Southern hip-hop e prima e dell'hip-hop tutto poi. C'è chi sostiene che parte del merito vada anche ai suoi producer, DJ Toomp e Shawty Redd, il cui lavoro è stato fondamentale nella creazione di quello che sarebbe diventato il classico suono trap. Ma era almeno dall'inizio del millennio che quel sound, tutto bassi profondi e hi-hat aggressivi, aveva cominciato a travolgere il sud degli Stati Uniti. Lungo il corso degli ultimi 15 anni, avrebbe sconfinato oltre Atlanta e la Georgia e si sarebbe espanso come un fiume in mille rivoli, filtrando nel resto del mondo. Quel titolo rese la trap un brand riconoscibile, aiutandola ad affermarsi nel mainstream e creando un senso di comunità artistica: quella che avrebbe generato artisti come Jeezy e i Migos, permettendogli di sfondare nelle classifiche pop.

Trap Muzik aveva anche un'arma nascosta: i suoi testi, pieni di spunti interessanti sulla società che raccontavano. Un esempio era "Doin' My Job", in cui T.I. obbligava l'ascoltatore a empatizzare con gli spacciatori con un'efficacia che mancava almeno dai tempi di Biggie. "Vogliamo una vita decente anche noi! Abbiamo mamme, papà, mogli e figli proprio come voi", rappava, supplicando con forza l'America bianca a ripensare il concetto di guerra alle droghe, invitando chi fosse all'ascolto a rendersi conto dell'umanità di chi doveva smerciare cocaina per sbarcare il lunario. Così facendo, proprio come gli UGK dieci anni prima, T.I. diventò un supereroe per chiunque conduceva quella vita.

"In quegli anni in città mi conoscevano come un tipello tutto piccolo ma con dei ferri enormi", mi racconta T.I. al telefono. "La mia famiglia pensava seriamente che mi avrebbero ammazzato". Ma a quindici anni di distanza dall'uscita di quello storico album T.I. è vivo e vegeto. Nel frattempo ha lanciato la carriera di artisti come Iggy Azalea e Travis Scott, ha recitato in diversi film e ha devoluto molti dei suoi ricavi in beneficienza: è diventato, in poche parole, uno dei grandi vecchi dell'hip-hop americano. Gli abbiamo fatto qualche domanda per ripercorrere assieme a lui la strada che lo ha portato fin qua, in un'America trumpiana a cui le sue parole e la sua musica possono ancora dire molto.

Noisey: Il tuo album di debutto I'm Serious non ebbe un grande successo sul momento. Come ti faceva sentire questa cosa mentre lavoravi a Trap Muzik?
T.I.: Volevo scrivere un classico. Sapevo di dovermene uscire con della musica che avrebbe resistito al passare del tempo. Volevo spiegare che anche chi commetteva crimini aveva altro a cui pensare: non sei uno spacciatore e basta, sei anche un figlio, un fidanzato, un padre precoce che la società guarda con disprezzo quando in realtà sei molto di più. Mettici anche qualche amico morto, magari nemmeno perché aveva fatto nulla ma solo perché si era trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato... Trap Muzik voleva cristallizzare questo lato dell'esperienza afroamericana in forma musicale.

L'etichetta con cui feci uscire I'm Serious, la Arista, non mi aveva capito. Il produttore che mi aveva preso sotto la sua ala, LA Reid, gestiva già tanti artisti di successo: Toni Braxton, gli Outkast, le TLC, Usher e i Goodie Mob. Quindi dedicava a loro tutte le sue energie. Il che è comprensibile, ma io ci andai di mezzo.

Poi firmasti con Atlantic, cambiando etichetta, e le cose cambiarono.
Sì, mi venne data l'opportunità di riflettere veramente sulle mie esperienze e sull'ambiente da cui venivo. Prima volevo solo mettere in chiaro che i figli di puttana di Atlanta potevano vedersela alla pari, barra per barra, con i più grandi rapper di New York. Certo, c'erano gli Outkast, ma era come se non venissero riconosciuti come artisti street. La trap non aveva ancora ottenuto nessun riconoscimento su larga scala e io volevo riempire quel buco. Sul mio primo album avevo provato a mettere insieme tanti stili diversi e alla fine era uscito un prodotto confuso che non diceva niente sulle mie origini. Però c'era "Dope Boyz", una canzone che andò davvero bene e mi convinse a scrivere un album intero in cui parlavo delle mie origini. Volevo portare la gente nella trappola.

Chi era T.I. a quei tempi?
Insomma, non mi ero ancora messo la testa a posto. Finivo in carcere un mese sì e un mese no. Ero sempre in giro e sempre con le mani in pasta, così come tutti i miei amici. Eravamo degli hooligan, quasi. Mia nonna mi prendeva sempre in giro... "Ti piace girare coi criminali!" Ricordo che mio zio mi chiamò e mi chiese di andare a casa sua per una cosa importante e quando arrivai provarono a farmi firmare un'assicurazione sulla vita. La mia famiglia credeva davvero che sarei morto e volevano assicurarsi di poter pagare il mio funerale.

Com'è che trasportasti in studio questo senso di frenesia?
Sapevo di dover lanciare quel messaggio. I bianchi non sanno quanto sono vicini a doversi calare nei nostri panni. Se non hai studiato come si deve e non sei quasi mai uscito dal quartiere allora ti accontenti di quello che hai. E se l'unica cosa che hai è il crack allora devi spacciare per fare soldi, non hai altra scelta. E mi sembrava che nessuno si prendesse il tempo per pensarci bene e rendersene conto.

C'erano figli di puttana che sceglievano di spacciare crack come carriera, senza sapere che fu la CIA a portarlo negli Stati Uniti durante la guerra contro i Contra nel Nicaragua. Sono loro che hanno cominciato a spiegare agli americani che il crack si faceva mischiando bicarbonato di sodio, acqua e cocaina. Insomma, io non conosco nessun nero capace di fare il chimico! Nessuno di noi avrebbe mai rischiato di fare cazzate, spacciare roba tagliata male. Mi sembrava che il mio governo stesse diffondendo armi, droghe e morte nella mia comunità, nella comunità nera, per tenerci a bada. Per farci fare vite di merda e rinchiuderci in prigione. Un po' come se fossimo ancora schiavi, così da farci lavorare a basso prezzo per le grandi aziende. Era tutta una strategia per renderci meno umani. Ecco, volevo che Trap Muzik fosse una reazione a tutto questo.

La vita che descrivi nell'album sembra come separata in due. In "Long Live Da Game", per esempio, dicevi di avere "Una casa nella trappola e una casa per rilassarti". Era difficile mantenere l'equilibrio da questi due aspetti della tua quotidianità?
Senti, nessuno vive nella trappola se può evitarlo. La trappola deve essere come un ufficio. Ci vai, fai quello che devi fare e a una certa ti devi sentire di aver rischiato abbastanza. E allora puoi andartene da qualche altra parte dove puoi stare tranquillo e sviluppare una strategia più articolata, creativa, per passare quello che resta della giornata. Qualsiasi ragazzo che è finito in mezzo a giri strani spera almeno di poter staccare, ogni tanto. Nessuno vuole fare una vita a spacciare crack o eroina, no? Devi creare un dualismo, non so se mi spiego.

Su quell'album parlavi molto di te stesso ma dicevi anche "Voglio essere un musicista, non un politico". Oggi, invece, parli spesso di politica e critichi apertamente la presidenza Trump. Che cosa è cambiato in te in tutto questo tempo?
Non è cambiato niente, continuo a non voler essere un politico. Voglio assistere i politici che penso essere i migliori, ma non voglio diventarne uno. L'unica cosa che posso fare è alzare la voce e farmi sentire.

Su Trap Muzik c'erano molte chitarre registrate in studio, c'erano parti di pianoforte - un sacco di strumentazione, insomma. A tratti sembra di sentire il minimalismo degli UGK, ad altri i pezzi di soul rimaneggiato del Kanye West di The College Dropout. Che cosa avevi in testa per il suono di quell'album?
Volevo creare suoni nuovi e diversi ma che potessero comunque essere coerenti con lo stile di vita delle persone che volevo rappresentare. Quando venne Kanye in studio a lavorare su "Doin' My Job" volevo fare una canzone per la trappola che però non avesse il classico suono trap. Doveva avere qualcosa di più classico per poter restare nel tempo. Per "Let Me Tell You Something" chiesi a Kanye di rilavorare "I Want to Be Your Man" degli Zapp di Roger Troutman e lui lo fece tranquillamente, dal nulla. Sapevo fosse un genio ma non avevo idea di quanto potesse ampliare la sua visione da allora a oggi.

Con DJ Toomp invece c'era una vera e propria amicizia. Mio cugino Tremell era cresciuto assieme a lui, andavamo sempre nel suo studio e lui mi faceva sentire roba mentre mi tagliava i capelli. Lavoravamo così, c'era solo amore tra di noi ed è per questo che ci trovavamo così bene assieme.

Perché pensi che Trap Muzik sia rimasto nella storia? Possiamo considerarlo un classico?
Penso rappresenti l'inizio di un'era. È una rappresentazione accurata di una vita che pochi, al di fuori della comunità nera, conoscevano. Nessuno aveva idea che la trappola esistesse, la gente si immaginava scene da film d'azione quando si parlava di spaccio. Se spacciavi eri automaticamente Nino Brown di New Jack City o Tony Montana di Scarface. Trap Muzik fece capire, a chi lo ascoltò, che lo spaccio non era qualcosa di straordinario. Lo umanizzava, parlava di persone reali con mamme e papà, non di personaggi creati per un film. Nei film non vedi mai le mamme degli spacciatori. E allora chissenefrega se li ammazzano! Volevo che la gente ci cominciasse a considerare esseri umani. Per me Trap Muzik sta al rap come Boyz N The Hood sta al cinema: ti colpiscono, ti fanno pensare. E intanto tutti 'sti altri rapper erano lì a fare dischi che volevano essere Scarface.

Non è mai stato ben chiaro chi abbia creato l'idea di trap. C'è chi sostiene sia stato Gucci Mane e chi invece dà a te ogni merito. Sono anni che ne parlate.
Gucci è solo un maschio alfa e prova ad avere il controllo su ogni cosa. Ma qua stiamo parlando solo di parole. Dovresti avermi battuto sul tempo di un soffio per poter dire di aver creato tutto questo. Intendiamoci, non voglio sminuire il suo contributo alla trap, è stato davvero importante. Gucci ha preso la trap e l'ha portata verso nuove direzioni, così come Jeezy. Ma la trap non sarebbe esistita senza di me, e Gucci lo sa.

Questo articolo è comparso originariamente su Noisey UK.

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Il ritorno dei The Secret dalle tenebre

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“Veloci, furiosi e fucking hostile”. Così sei anni fa il solito Pitchfork definiva The Secret, all’epoca sulla cresta dell’onda e sulla bocca di tanti, un po’ per il fruttuoso sodalizio con la Southern Lord di Greg Anderson iniziato con Solve Et Coagula (2010), un po’ perché i ragazzi del nordest suonavano ovunque e in qualunque momento, e sembravano proprio sul punto di farcela, di essere a un passo dal poter dire: “Nella vita facciamo i musicisti”. Il quartetto triestino era una mina incredibile: accantonato il non riuscitissimo esordio -core e ripartiti da zero, The Secret avevano trovato una sintesi perfetta tra strutture articolate, furia black metal e attitudine hardcore che li rendeva apprezzabili più o meno da chiunque amasse le chitarrone e le urla disperate. Flirtando via via sempre di più con il crust, la band era riuscita a trasformare la lezione dei Converge in qualcosa di molto più oscuro, marcio e sofferto, tra l’altro proprio grazie all’aiuto di questi: Kurt Ballou figura in veste di produttore su entrambi i dischi targati Southern Lord, e proprio di spalla ai Converge fu il tour di supporto ad Agnus Dei, che portò la band a suonare più o meno ovunque. Per dirla a modo loro, insomma, The Secret e la loro musica erano una pecora nera che sanguina rabbia dagli occhi.

Dopo quella badilata di taglio sulle gengive che era Agnus Dei, proprio all’apice della loro esposizione mediatica, però, sulla band cadde il silenzio. Oltre un lustro di oscuro, abissale e impenetrabile silenzio. Persino degli Slowmotion Apocalypse, progetto parallelo del batterista Tommaso Corte, si è ormai persa ogni traccia da quasi una decade, e l’unico segno di vita dei quattro del nordest arriva da Lorenzo Gulminelli e dai suoi Hierophant. L’annuncio di un nuovo EP della creatura di Michael Bertoldini e Marco Coslovich che mi sono ritrovato nella casella di posta quindi è stato un fulmine a ciel sereno.

Lux Tenebris, non fa mistero del lasso di tempo intercorso da Agnus Dei, e nel 2018 ritroviamo una band molto più concentrata e focalizzata, non più prona ad una rabbia incontrollabile, ma padrona del proprio odio, in grado di canalizzarlo secondo la propria volontà. La sensazione di avere davanti una scheggia impazzita è scomparsa, in favore di un’impressione di completa lucidità e piena consapevolezza dei propri mezzi. Suoni più profondi e claustrofobici e un riffing death metal fanno bella mostra di sé in questi tre pezzi, che sembrano assorbire molto di quanto fatto proprio dagli Hierophant. Originariamente previsto come uscita esclusivamente in vinile e riservata ai fedelissimi di Southern Lord in occasione delle celebrazioni per il ventennale dell’etichetta, a quanto pare Lux Tenebris verrà invece distribuito su più ampia scala, anche se non si hanno ancora notizie certe. Spinto dalla curiosità, dò appuntamento a Mike davanti a un'aranciata amara per farmi raccontare...

Qualcosa di questi anni lontano dalle scene.
Guarda, sono successe un sacco di cose. Diciamo che da quando è uscito Solve Et Coagula le cose sono diventate molto più “serie”, c’era più interesse nei confronti della band e abbiamo avuto tante possibilità in più di suonare dal vivo. E noi abbiamo cercato di prendere il prendibile andando in tour regolarmente, una cosa che prima non avevamo mai fatto se non con qualche piccolo gruppo di date qua e là. Per un paio d’anni o poco di più la musica è stata il nostro principale lavoro: un mese a casa, un mese in tour, registrazioni, prove.

E riuscivate a campare così?
Sì, più o meno, ognuno poi faceva anche delle piccole altre cose, ma bene o male si stava a galla. Ovviamente non è che riuscissimo a portare a casa più di tanto, ma ci andava bene. Il discorso è che far diventare la musica un lavoro ha cambiato molto l’atmosfera nella band, soprattutto perché siamo persone molto molto diverse. Alcuni di noi stavano bene, diciamo che metà della band stava bene andando sempre in tour, mentre l’altra metà ne soffriva abbastanza.

Tu di che metà facevi parte?
Di quella che stava bene, anche andando sempre in giro, mai avuto problemi, era una cosa che mi piaceva e ho sempre voluto avere la musica come “cosa” principale nella vita. È uno stile di vita molto duro: fai tante serate fighissime, ma anche tante serate di merda, e se non le prendi con filosofia possono essere molto deprimenti…

A caldo, la serata peggiore che avete avuto?
Guarda, una volta abbiamo suonato a Roma, appena uscito Agnus Dei: eravamo in pompa, mille recensioni, tutto figo, gasatissimi, eravamo andati in tour coi Converge, coi Kvelertak, la band iniziava ad essere un po’ meno underground. Arrivati a Roma, ci troviamo davanti quindici paganti. Alla fine la prendi sul ridere, ma sul momento ci siamo rimasti di merda. Poi se suoni in casa, a Trieste, i numeri sono diversi. Al release party dell’album c’erano quasi quattrocento persone. Va tutto molto a caso, è difficilissimo capire questo tipo di dinamiche.

Se ti può consolare, a Milano ho visto i Vader davanti a meno di trenta persone.
Sì, sì, purtroppo succede. Mah. Il peggior tour che abbiamo mai fatto in termini di partecipazione è stato coi Deafheaven. Sei mesi dopo hanno fatto uscire Sunbather e hanno venduto forse ottantamila copie: adesso suonano in locali da millecinquecento persone e li riempiono. Ma tornando al discorso originale, secondo me anche il fatto di non essere stati perfettamente allineati sugli obiettivi che volevamo raggiungere ha fatto crescere delle tensioni tra di noi. A un certo punto suonare è diventato meno divertente, c’era meno comunicazione, si andava alle prove, si suonava e si tornava a casa, ci vedevamo solo ed esclusivamente per fare le cose che dovevamo fare. Dopo i concerti tutti correvano a casa e nessuno aveva voglia neanche di bere una birra. C’era un'atmosfera abbastanza strana, e tutti e quattro abbiamo un carattere non facile. Ci siamo trovati anche a litigare tanto, roba da metterci le mani addosso.

Una convivenza semplice.
Non ne hai idea, in tour è successo il delirio. Poi io mi sono trasferito ad Amsterdam, ma abbiamo continuato a suonare e la band continuava a funzionare bene anche a distanza. L’atmosfera però era una merda a livello umano: non ci parlavamo se non era strettamente necessario. A quel punto è successo un casino. È stata annullata una data all’ultimo secondo, era uno showcase di Southern Lord, la nostra etichetta, a Utrecht. Era molto figo, c’erano Sunn O))), Goatsnake, Today Is The Day, eccetera. E noi abbiamo dovuto cancellare la data all’ultimo secondo per motivi di cui non posso parlare [ride]. Quello è stato il momento in cui ho detto: “Ok, fare le cose così non ha senso. Perché sto facendo ‘sta roba? Non mi diverto più”. Abbiamo parlato molto, ma dal mio punto di vista non c’erano più i requisiti minimi per andare avanti, non c’era il minimo indispensabile per poter continuare a suonare, nemmeno a livello professionale. E a quel punto, per anni, ho tagliato i ponti con alcuni dei membri della band, non ci siamo proprio più sentiti.

Tutto questo nonostante formalmente voi siate sempre rimasti attivi, non c’è mai stato uno scioglimento ufficiale.
Io ho detto a tanta gente che non avrei mai più suonato con la band, però non abbiamo mai ufficializzato la cosa, nessuno voleva davvero farlo. Però credevo che non avremmo mai più suonato, non funzionava più. In tour sei 24/7 in spazi molto ristretti sempre con le stesse persone. Se non è divertente è dura, è alienante, ti senti isolato.

Viste queste premesse, come siete tornati a suonare?
In tutto questo tempo ho continuato a sentire soltanto Lorenzo, il nostro bassista, e secondo me questi anni di silenzio ci hanno permesso di sviluppare le nostre vite in una maniera diversa e più indipendente, non dovendo tenere la band al centro ognuno è stato libero di fare altro. Ci ha permesso anche di rendere le cose più oneste, almeno per me. Prima, per esempio, mi dicevo di non poter trovare un impiego vero perché pensavo fosse inconciliabile con la band, ma a posteriori mi rendo conto che era una scusa. La verità è che, volendo, puoi fare la band strabene e avere una carriera allo stesso tempo. Ovviamente non puoi essere in tour 10 o 12 mesi l’anno, ma puoi comunque suonare. E fermarci per un po’ ci ha dato la possibilità di fare altro e di trovare un equilibrio.

Quindi si parla di crescita personale.
Sì, parlando di me, sono riuscito a conoscermi meglio, e con il tempo ho capito anche quanto mi mancava questa forma di espressione. A parte i tour, i dischi, le etichette, ‘ste cazzate qua, quello che mi mancava di più era esprimermi attraverso la musica. Per me questa band è sempre stata qualcosa privo di limiti: se domani vogliamo fare un disco reggae lo facciamo.

Farete un disco reggae?
Non credo. Però hai capito. Non siamo una band che si definisce black metal, death metal o qualsiasi altro genere, facciamo semplicemente quello che ci piace, e la musica evolve di conseguenza. Era questo a mancarmi.

Ci sarà stato un casus belli che vi ha fatto riprendere i contatti.
Lorenzo e Marco, il cantante, si sono visti a Trieste in occasione di una data degli Hierophant, devono avere avuto un momento un po’ romantico con della birra di mezzo, hanno parlato un po’ di ‘sta cosa, poi Lorenzo mi ha chiamato: “Guarda, dovremmo pensarci, potremmo riprovarci, ci sono delle possibilità…”

Litfiba tornate insieme…
Esatto, quel genere di cosa. Era da anni che i ragazzi di Venezia Hardcore ci chiedevano di fare una data, io avrei voluto che fosse l’ultima, ma abbiamo deciso di farla senza dire nulla. Avevamo della musica già composta, in più io da solo ho continuato a scrivere negli anni, e a un certo punto abbiamo deciso di accompagnare al concerto le registrazioni di un EP e di proporlo live, giusto per non far sembrare il concerto una roba triste da reunion. Ci siamo ritrovati scoprendo un modo completamente diverso di lavorare, addirittura oggi viviamo in Stati diversi, però funziona. Non ci incolpiamo più a vicenda per qualcosa che va bene o non va bene, perché la band non è più la nostra vita lavorativa, che oggi è fuori dall’equazione.

Lux Tenebris quindi è una cosa a sé e poi vedrete se e come continuare, oppure c’è già in cantiere qualcosa di più corposo?
Allora, mettiamola così: c’è già della musica nuova, ci sono tante idee, un paio di pezzi praticamente già fatti… Adesso vediamo. Vediamo come va tra di noi, se ci divertiamo, se funziona tutto.

L’idea però è di rimanere a questo livello, di non tornare ad avere la band come occupazione.
No, no, adesso siamo più grandi, abbiamo tutti dei lavori più seri. Vorrei suonare, ma non mi interesserebbe più stare in tour cinque o sei mesi l’anno. A posteriori mi sono fatto l’idea che per una band europea l’impegno richiesto sia molto maggiore dei risultati che effettivamente raggiungi, e potersi concentrare di più, poter scegliere meglio e mettere più attenzione nelle cose che fai come band, perché ovviamente ne fai di meno, è meglio. Prima dovevamo accettare qualunque tour perché c’era l’affitto da pagare, adesso per fortuna l’affitto ce lo paghiamo tutti con altre cose e suonare, di nuovo, è un’espressione artistica più pura.

Che è un po’ il grande paradosso: puoi permetterti di fare cose “più pure” se sei sostenuto economicamente da cose che non lo sono.
Secondo me, per come siamo fatti noi, questa è una band che non potrà mai diventare gigantesca. Per portarsi a casa una buona pagnotta con un gruppo musicale servono alcune capacità a livello attitudinale che noi non abbiamo. E va bene così. Ci abbiamo provato, ma non ha funzionato. Ci ho pensato tanto, in questi anni, e mi sono detto che forse avrei dovuto capirlo prima, ma a posteriori è sempre facile.

Poi c’è anche un altro discorso da fare: spesso parlo con membri di altri gruppi che mi dicono che non si riesce a vivere di musica, è impossibile sopravvivere dedicandosi alla musica estrema e cose così. Vero, è difficilissimo, però da quando ho iniziato a lavorare mi faccio una domanda: quanti gruppi hanno tre, quattro o cinque membri che lavorano alla band per quaranta ore a settimana? Sono pochissimi. Io ho il mio lavoro, faccio le mie quaranta o cinquanta ore di ufficio e mi porto a casa tot. Quante band lavorano le stesse ore, regolarmente? Ok, il weekend sei andato a suonare, sei stato via due giorni, ma gli altri quattro o cinque della settimana non hai fatto una minchia, magari giusto le due orette di prove. C’è questa idea un po’ naïf perché siamo tutti cresciuti con il modello della rockstar, però non funziona così.

È un mondo che non esiste più. Quant’è che non nasce una band che fa i numeri dei Sabbath o dei Maiden?
Esatto, non esiste più. Sono solo quelle band lì che sono ancora così. Lavoro nella musica, ho accesso a dati e numeri per lavoro e nel mondo del rock sono cazzi amari. Mi ricordo un paio d’anni fa, a livello di nuove uscite quella che si era piazzata meglio era il disco dei Kings Of Leon che era al quarantesimo posto dei dischi più venduti, e stiamo parlando di un gruppo in giro da quasi vent’anni. Insomma, di gruppi in giro che fanno musica rock e diventano delle megarockstar non ce n’è. Game over.

Come The Secret, ad ogni modo, tralasciando il discorso del talento, per il materiale umano di cui siamo composti, e parlo di tutti e quattro, non saremmo durati nemmeno se avessimo vinto il biglietto della lotteria. In un modo o nell’altro, avremmo finito per esplodere.

Cambio completamente discorso: in una tua vecchia intervista ho letto che odi il nome The Secret. Perché?
È una storia strana. Adesso, in questi ultimi due anni, non dico che l’ho rivalutato, ma è un nome che non mi dà più fastidio come prima.

Fastidio, addirittura. Anni dopo che la band si è sciolta il nome ha cominciato a piacerti, molto bene.
Ma sai che forse è così, non l’avevo mai pensata in questi termini, ma forse sì. Comunque è una storia stupidissima: era un periodo che ero in fissa con il rock classico, e volevo trovare un nome che non fosse la solita cosa metal, ma che allo stesso tempo avesse un che di misterioso, che portasse la gente a chiedersi “cazzo è ‘sta roba?”. Purtroppo ho scelto The Secret.

Ah, sei stato proprio tu a scegliere il nome che ti dà fastidio.
Sì sì assolutamente, da lì è iniziata la mia dannazione. Da mille anni la gente mi chiede: “Qual è The Secret?” e, beh, non c’è. È la storia più triste del mondo, non c’è alcun significato, non vuol dire un cazzo. Potrei mettertela giù in modo figo: volevamo qualcosa che lasciasse spazio all’interpretazione dell’ascoltatore, che ci fosse un po’ di non detto. Solo che abbiamo esagerato. Il punto è che più o meno in quel periodo esplosero i vari The Hives, The Strokes, The Fratellis, quell’ondata di indie rock da discobar e a quel punto è nato l’odio per il nostro nome. Anche Greg [Anderson, di Southern Lord] svariate volte mi ha detto: “Ragazzi avete proprio un nome di merda”. Poi nell’era di internet, un casino.

Trovare qualcosa che vi riguarda su Google con quel nome è pressoché impossibile.
Orribile. Su Instagram pure peggio, provi a cercare #thesecret e trovi solo frasette motivazionali. Insomma se cerchi il nostro nome trovi tutto ciò che odio. Assurdo, cazzo. Poi, come se non bastasse quella robaccia revival indie che ora per fortuna non c’è più, è uscito il libro The Secret , una roba di autoaiuto che parla di teorie dell’attrazione… No, vabbé, non puoi capire. È una "filosofia" che sostiene che se tu visualizzi nella tua mente il successo tramite un allineamento cosmico, alla fine attrai ciò che desideri. Puttanate.

Non so cosa sia più inquietante, se quello che mi stai dicendo o il fatto che tu sia informatissimo a riguardo.
So tutto perché siamo stati vittima di tutto questo, è una merda.

The Secret saranno in concerto a Milano per la prima volta dopo un sacco di tempo il primo novembre al Santeria con Yob e Wiegedood.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Recensione: Mitski - Be The Cowboy

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Mi viene difficile pensare che non abbiate mai ascoltato Mitski se avete cliccato su questo articolo, ma nel caso prima di continuare a leggere vi farei sentire "Your Best American Girl". È il pezzo che l'ha resa quella che è oggi, cioè un'artista bagnata delle luci dei media musicali statunitensi. Era un brano semplicissimo: un'acustica, un glorioso ritornello iper-distorto, un testo tanto strappalacrime quanto profondo. Mitski provava a ributtarsi su un amore fallito, conscia di stare facendo una cazzata, appesantita dall'idea che la sua non-americanità (una madre giapponese, un'infanzia nomadica che ha generato in lei un costante senso di perdita) avesse giocato il ruolo fondamentale nel disfacimento della relazione:

"A tua madre non piacerebbe come mia madre mi ha cresciuta,
Ma a me piace, credo mi piaccia.
E tu sei il perfetto ragazzo americano,
In fondo mi è venuto naturale provare a essere la tua perfetta ragazza americana."

Il video era altrettanto forte. Mitski scambiava sguardi con un modello figaccione che però invece di limonare lei si metteva a limonare un'altra modella figacciona. Mitski, tutta acchittata, invece di disperarsi reagiva limonando la sua stessa mano: un'inaspettata rappresentazione di quella voglia di accettarsi-per-come-si-è che attraversava l'intero album da cui il pezzo era tratto. Si chiamava Puberty 2 per ironizzare sull'acutezza dei sentimenti che raccontava, tutti intorcigliati attorno a un senso di costante fallimento, stasi e ricaduta in errori passati.

I momenti migliori di Puberty 2 erano quelli in cui Mitski riusciva a riconoscere l'esistenza del mondo che conteneva i suoi sentimenti. "Your Best American Girl", ovviamente, ma anche "My Body's Made of Crushed Little Stars" con il suo liberatorio grido granuloso in cui si inveravano paura di morire e squattrinaggio millennial: "Voglio vedere il mondo / Ma non so come pagarmi l'affitto / Ti va di uccidermi, Gerusalemme?" Questo contesto, questo oltre, in Be The Cowboy scompare completamente. Per Mitski esiste solo Mitski, e ciò che fa provare sentimenti a Mitski.

Al che uno dice, lo fa per esplorare i propri sentimenti, esorcizzare i propri difetti e trovare una sorta di pace. E invece. A rendere Be The Cowboy un grande album è il senso di non-risoluzione che suggerisce man mano che si dipana e arriva come un ceffone quando finisce "Two Slow Dancers" e non resta niente se non l'immagine di due persone invecchiate che ripensano a un ballo del liceo, e si dicono "A pensare che saremmo potuti restare gli stessi!", e sotto un pianoforte e degli archi grevi. La desolazione.

Un po' come in Puberty 2, la musica che accompagna la voce e le parole di Mitski non è propriamente memorabile. Le chitarre accettano di essere perlopiù scenografie, trasformandosi in oggetti di scena con parsimonia. Attorno a loro entrano ogni tanto in scena archi pacchiani ed elettronica un po' rocciosa e un po' liquido-nostalgica, ma gli occhi del pubblico sono tutti sull'attrice protagonista, illuminata dai riflettori mentre butta fuori col canto tutti i suoi desideri irrealizzati e le sue cazzo-di-paure.

Innanzitutto, Mitski vuole essere baciata. Vuole un bacio come un rock, non c'è nessuno a poterle mettere le labbra addosso. Intanto il rock lo fa lo stesso, nel ballo disco di "Nobody", schitarrando la sua insoddisfazione e i suoi fallimenti. In "Lonesome Love" si fa schifo perché considera una relazione una gara ma gioca lo stesso e, prendendo un taxi il mattino dopo, si fa ancora più schifo. In "A Pearl" si sente come Smeagol del Signore degli Anelli, giocherellando con la perla della sua malattia, conscia di stare facendo male a chi potrebbe farle bene. "Scusa, non toccarmi, non voglio / Non è che non voglio te".

Dopo aver immaginato matrimoni stantii a cui aggrapparsi, aver giocato con la sua solitudine, Mitski crolla definitivamente nella splendida "Blue Light". "C'è qualcuno che mi può baciare? Sto impazzendo / Cammino nuda, per casa / Argentea, la notte". Sotto, un rock impacchianito da un assurdo cowbell mette quasi a disagio: se non fosse che dopo 30 secondi la musica si rende conto di potersi disgregare, e quello fa. Si spegne in un muro di suono, affievolisce fino a morire, e da un taglio che sembra una bocca esce un "do-do-do" dolcemente delirante.

Be The Cowboy è uscito il 17 agosto per Dead Oceans.

Ascolta Be The Cowboy su Spotify:

La guida di Noisey per cominciare ad ascoltare Aretha Franklin

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Chiamare Aretha Franklin "la regina del Soul" è un po' fuorviante, perché la maggior parte delle regine nascono tali. E questo per Aretha vale solo nel senso che ha sempre posseduto una delle migliori (probabilmente la migliore) voci di tutti i tempi, ma paragonarla a una monarca significa ignorare gli anni prima del suo regno. Vuol dire passare sopra ai suoi inizi da cantante gospel nella chiesa di suo padre a Detroit, a tutto il lavoro che ha fatto nei sei anni passati sotto Columbia Records prima che firmasse per Atlantic e andasse a Muscle Shoals a ritirare la corona. Avrebbe dovuto sempre essere sua, ma niente le è stato regalato. Lei conosceva il proprio valore, e non aveva paura di pretendere il nostro r-e-s-p-e-c-t come donna, come afro-americana e, sì, come nostra legittima regina, in un'epoca in cui nessun altra avrebbe mai osato.

D'altro canto è un buon soprannome perché le regine restano in carica a vita, e il dominio di Franklin, morta il 16 agosto a 76 anni dopo di cancro al pancreas, e la sua voce non conoscono limiti di tempo. Dire che la sua musica continuerà a vivere è un eufemismo. Ci sono legioni di superfan di Aretha che non sono ancora nati, e anni e anni dopo la loro morte le sue canzoni saranno ancora considerate dei classici.

Questo non significa che ci possano mai essere abbastanza fan di Aretha Franklin. Se ci siete arrivati solo ora, avete svariati potenziali punti d'ingresso e oltre mezzo secolo di materiale tra cui pescare, quindi per dimostrare il nostro rispetto e onorare la sua vita, abbiamo evidenziato cinque lati della Regina da cui iniziare. Tutti in piedi.

Forse ti interessa: Classic Aretha

Quando Jerry Wexler fece firmare Aretha Franklin per la Atlantic Records nel 1966, non avrebbe mai potuto sapere che sarebbe diventata un'icona femminista, un'importante figura nel movimento per i diritti civili o la prima donna a essere ammessa nella Rock and Roll Hall of Fame, ma fu abbastanza furbo da lasciarla essere se stessa. Come ha detto una volta la Regina stessa: "Se sei qui per registrarmi, allora registriamo me, non te".

Questo rifiuto di farsi controllare lo ritroviamo in alcune delle sue hit più amate, come "Respect" (la canzone di Otis Redding che lei ha trasformato in un inno femminista) o "Do Right Woman, Do Right Man", nella quale avverte che se non riceverà il rispetto e l'attenzione che merita dal partner li cercherà altrove, cantando: "una donna è un essere umano, dovresti capirlo / non è un giocattolo, è carne e ossa proprio come il suo uomo", aggiungendo poi: "dicono che sia un mondo a misura di uomo, ma nessuno me l'ha mai dimostrato / Finché siamo insieme, baby, mostrami un po' di rispetto".

È facile dimenticare oggigiorno (anche se magari non così facile vista la situazione politica) quanto fosse rivoluzionaria a quei tempi una semplice richiesta di uguaglianza da parte di una donna, specialmente se afro-americana. Anche quando non lo chiedeva esplicitamente, la sua voce imponeva rispetto, che fosse gioiosa (come in "(You Make Me Feel Like a) Natural Woman", firmata da Carol King), addolorata ("Ain't No Way") o semplicemente impressionante ("I Never Loved A Man (The Way That I Love You)").

Playlist: "Respect" / "(You Make Me Feel Like a) Natural Woman" / "Chain of Fools" / "I Never Loved A Man (The Way That I Love You)" / "Ain't No Way" / "Do Right Woman, Do Right Man" / "Baby, I Love You" / "Don't Play That Song" / "Save Me" / "The House That Jack Built" / "Share Your Love with Me"

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Forse ti interessa: Aretha la gospel

Da un certo punto di vista, ogni canzone di Aretha è una canzone gospel. Che cantasse di amore, cuori spezzati o altri piaceri terreni (*cough cough* "Dr. Feelgood" *cough cough*), aveva una capacità unica di toccare le persone a un livello spirituale, facendo appello alla nostra umanità. La credenza in un potere ultraterreno non è richiesta quando si parla della sua musica; la sua chiesa è dappertutto: sulla pista, in camera da letto, sul divano sul quale hai deciso di restare finché non avrai finito quel mezzo chilo di gelato post-delusione amorosa.

Ma Franklin ha iniziato la sua carriera cantando gospel nel senso più tradizionale del termine, e la sua incredibile espressività era già evidente dalle sue prime tracce, come in "Never Grow Old" dal suo debutto del 1956, Songs of Faith, registrato live alla chiesa di suo padre, la New Bethel Baptist Church, quando lei aveva soltanto 14 anni. Il gospel non l'ha mai lasciata ed è diventato una costante nel corso di tutta la sua carriera. Cantò "Precious Lord" ai funerali di Martin Luther King nel 1968 e di Mahalia Jackson nel 1972. Più avanti, lo stesso anno, il suo album Amazing Grace, registrato al picco del suo successo come artista laica, vinse un doppio disco di platino e resta il disco gospel live più venduto di tutti i tempi, oltre che il disco con il maggior successo commerciale della sua carriera.

Playlist: "Amazing Grace" / "Precious Lord (Take My Hand)" / "What A Friend We Have in Jesus" / "Mary, Don't You Weep" / "How I Got Over" / "Climbing Higher Mountains" / "Never Grow Old" / "Precious Memories" / "Oh Happy Day" feat. Mavis Staples / "God Will Take Care Of You"

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Forse ti interessa: il periodo Columbia records

L'opinione generale sul periodo in cui Aretha Franklin fece parte del roster di Columbia Records è che non avessero idea di come gestirla. E questo è vero fino a un certo punto; lei finì per cantare molti standard e pezzi pop con arrangiamenti lussuriosi per massimizzare l'appeal verso le masse. Ma niente di quello che Aretha Franklin ha mai fatto è mai stato brutto, e ci sono alcune vere gemme nel suo catalogo Columbia. Puoi sentirla aprire le ali e dare una sua impronta a "Rockabye Your Baby with a Dixie Melody", il suo singolo più venduto di questo periodo, che arrivò al 37esimo posto. Cover come "God Bless the Child" e "Try a Little Tenderness" (che in realtà lei registrò quattro anni prima della storica versione di Otis Redding) erano molto adatte a lei ma non riuscirono a spostare l'ago della bilancia dal punto di vista commerciale.

La sua voce su tracce come "Nobody Like You" e "Mockingbird" sono anticipazioni di quel che verrà più avanti nella sua carriera, ma anche così trattenuta, è chilometri avanti rispetto a praticamente chiunque altro. Aretha potrà anche aver trovato se stessa anni dopo a Muscle Shoals, ma le sue registrazioni Columbia sono assolutamente degne di essere riascoltate per godere della sua grandezza ancora acerba.

Playlist: "Nobody Like You" / "Rockabye Your Baby with a Dixie Melody" / "Try a Little Tenderness" / "Cry Like A Baby" / "Trouble In Mind" / "Skylark" / "God Bless the Child" / "Today I Sing the Blues" / "Mockingbird"

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Forse ti interessa: Aretha autrice

Forse è perché è difficile concentrarsi su qualunque cosa quando senti quell'incredibile voce e bravura al piano, o perché aveva avuto tanto successo cantando canzoni di altri (di quello parleremo dopo), ma Aretha Franklin non riceve neanche un po' del riconoscimento che le spetterebbe come autrice di canzoni. Molte delle canzoni che ha scritto (o co-scritto) sono tra le sue migliori. Che cacchio, se avesse smesso subito dopo aver scritto "Think" con il suo primo marito Ted White, la considereremmo comunque fra le più grandi di tutti i tempi.

Per fortuna, però, non ha smesso, e oltre a co-firmare canzoni come "Baby Baby Baby" con sua sorella Carolyn, Aretha è riuscita a scrivere classici immortali come la funky "Rock Steady" e la contagiosa "Spirit in the Dark", nella quale ci implora di "mettere le mani sui fianchi, chiudere gli occhi e muoversi con lo spirito" (se non avete visto il video in cui la suona nel 1971 al Fillmore West con Ray Charles, rimediate immediatamente).

Playlist: "Spirit in the Dark" / "Rock Steady" / "Think" / "(Sweet Sweet Baby) Since You've Been Gone" / "Dr. Feelgood (Love is a Serious Business)" / "Day Dreaming" / "Call Me" / "Baby Baby Baby"

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Forse ti interessa: Aretha che migliora canzoni altrui

La maggior parte delle canzoni che ha registrato sono state scritte da altri, ma per questa playlist con "canzoni altrui" intendiamo cover di canzoni rese popolari da altri artisti. Uno dei maggiori doni di Aretha Franklin, a parte la capacità di cantare fortissimo ogni cosa le mettessi davanti, era l'abilità nel rendere proprie le canzoni. In alcuni casi ("Respect", per esempio, che ho etichettato come Classic Aretha per ovvi motivi), la sua versione è diventata quella definitiva. Ma anche quando si cimentava con alcune delle più famose e amate hit degli artisti più iconici dell'epoca, ci metteva del suo, viaggiando testa a testa con gli originali e spesso superandoli anche (senza offesa, Paul McCartney, ma la "The Long and Winding Road" di Aretha si mangia a colazione la tua).

Aveva i suoi artisti preferiti, sui quali amava ritornare (come Sam Cooke, che la ispirò a passare dal gospel alla musica profana, e Otis Redding, la cui "I've Been Loving You Too Long" è comparsa sul suo album Young, Gifted and Black anni dopo che lui ebbe dichiarato "Quella ragazzina mi ha fregato la canzone" dopo aver sentito la sua versione di "Respect"). Ma oltre a canzoni nel suo stile, Franklin non ha mai avuto paura di confrontarsi con cose più inaspettate come "96 Tears" di ? & the Mysterians o, più di recente, "Rolling in the Deep" di Adele. Che le abbia rubate o semplicemente prese in prestito, le sue cover di altri artisti provano che questo è il suo regno: a tutti è permesso viverci, ma la Regina è sovrana.

Playlist: "A Change Is Gonna Come" / "Bridge Over Troubled Water" / "I Say A Little Prayer" / "Young, Gifted and Black" / "The Long and Winding Road" / "Eleanor Rigby" / "People Get Ready" / "The Weight" / "Son of a Preacher Man" / "You Send Me" / "I've Been Loving You Too Long" / "Rolling in the Deep" / "96 Tears"

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La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey USA.

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I Justice sanno fermare il tempo

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"Per noi andare in tour significa stare in giro almeno per un anno e quindi la cosa più importante è divertirci", mi dicono i Justice. "Sarebbe un incubo se dovessimo salire sul palco di sera in sera a schiacciare play e restare lì ad aspettare. E poi vogliamo che chi ci venga a vedere si ricordi dei nostri concerti: ok divertirsi con gli amici, ma vogliamo regalare esperienze memorabili." Siamo dietro il palco dell'Ippodromo di Milano, qualche ora prima del loro concerto. Suoneranno assieme agli MGMT, più o meno a dieci anni dai loro rispettivi scoppi.

A bruciare la miccia degli MGMT era stata un'idea neo-hippy da inizio era Obama, tutta glitter e canzoni sui giovani che "stavano cominciando a cambiare" e ballavano come anguilloni elettrici colorati di turchino. Quella dei Justice invece l'aveva accesa quell'entità disco-zarro-stiloso-nostalgica che fu la French Touch: in loro aveva scoperto il suo viso più distorto e ballereccio, nelle note di "We Are Your Friends" e "Waters of Nazareth". Entrambi pubblicarono album di debutto che, deflagrati, ficcarono schegge di materia musicale nei cervelli di una generazione: Oracular Spectacular e , rispettivamente. Entrambi sembrarono subito epocali, luoghi di scontro e generazione musical-culturale, prime pietre di grandi ponti tra passato e futuro. E invece così non è stato.

Gli MGMT suonarono per un po' dal vivo, rimasero in silenzio per tre anni e poi scelsero il cuore. Misero in primo piano la loro più grande passione, cioè la psichedelia vera e non la sua versione da Urban Outfitters che animava il loro esordio. Il risultato? Un pubblico sempre più rado, orecchie sempre meno attente, risultati commerciali sempre più altalenanti. E oggi, indipendentemente dalla qualità della loro opera, sono ancora obbligati a restare sotto l'ombra dei loro tre singoli di successo per sopravvivere all'afa del tempo.

I Justice, invece, fecero una cosa. L'anno dopo pubblicarono un docu-film che era anche un album dal vivo. Lo chiamarono A Cross The Universe e così facendo immortalarono un momento, eternando se stessi e ciò che rappresentavano: una forza distruttrice che esaltava folle sudate, rapite dalla linearità di una croce illuminata e di un paio di muri di Marshall, così come dalle strutture spezzate in cui Gaspard Augé e Xavier de Rosnay inserivano i loro pezzi dal vivo.

I loro live erano pance affamate di animali: viscidi, ruggenti. Anche quando la loro musica si è presa una sbandata per il prog rock e per le atmosfere pastorali - in Audio, Video, Disco e Woman, i loro altri due album - i francesi hanno sempre avuto la lungimiranza di scolpire su una traccia digitale i nuovi geroglifici che andavano a comporre il loro alfabeto, mischiandoli a quelli vecchi così da non perdere mai la forza propulsiva del botto di . Nel 2013 questa si era chiamata Access All Arenas, mentre oggi si chiama Woman Worldwide.

"Anche quando vado a vedere band che mi piacciono un sacco mi annoio dopo venti minuti", mi dice Xavier quando gli chiedo del modo in cui costruiscono i loro live, del come e del perché di tutte le luci che si accendono sul palco, dei LED che scendono dall'alto e roteano, e schiarano, ed evidenziano. "Ed è proprio perché abbiamo paura di annoiare che facciamo succedere qualcosa sul palco ogni 30 secondi! Tutto questo vale ancora di più quando si parla di elettronica e non di rock, non è un granché vedere due tizi sul palco senza sapere bene quello che stanno facendo."

E ancora: "I nostri medley nascono da due cose. Prima di metterci a suonare dal vivo abbiamo fatto i DJ per un sacco di tempo e abbiamo imparato che la nostra roba funziona quando è presentata in maniera agitata. Se ti fermi di canzone in canzone, magari per accordare la chitarra o fare due battutacce al microfono perdi lo slancio. E poi c'è il fatto che ci piace molto l'idea di un tema che ritorna, come nella musica classica o nel prog rock. Un altro vantaggio del rimescolare elementi è rendere meno noiosi pezzi che altrimenti durerebbero troppo."

Infine, un aneddoto: "Nel 2004 facemmo un DJ set a una festa in un castello vicino a Parigi. Ci furono dei problemi tecnici e quindi decidemmo di andarcene e mollare lì l'esibizione, ma prima mettemmo su un CD. Mentre ci allontanavamo dal castello sentivamo ancora la gente prendersi bene per i pezzi che uscivano dalle casse. E fu lì che ci rendemmo conto che la gente va ai concerti e ai festival per vivere un'esperienza e condividerla con altra gente. Quello che fai sul palco non importa poi così tanto, ma questo non significa che tu non debba impegnarti comunque a farlo bene."

Fotografia promozionale.

Passo poi a farli parlare degli anni passati, dieci, da quando loro e gli MGMT si trovarono parte dello stesso calderone di significato, protagonisti di quei primi anni di disfacimento delle categorie in cui l'indie rock era elettronica che era house music che era qualcosa di unico. "Quando penso a quel periodo, una delle cose che ci accomuna agli MGMT è il fatto che i nostri primi album siano andati molto bene. Quindi la gente si è fatta un'idea molto chiara di quello che saremmo dovuti essere. Loro, per esempio, dovevano restare una band di hippie che fa musica presa bene. Ma loro, come noi, avevano un sacco di roba da mostrare al mondo".

"Capiamo quelli che arrivano ai nostri concerti e vogliono sentire "D.A.N.C.E.", non rinneghiamo nulla e ci piace ancora suonare ognuno dei nostri pezzi. Non è come i Radiohead con "Creep". Ma il nostro album è stato una dichiarazione così forte che ci è sembrato che la cosa giusta da fare fosse fare qualcosa di diverso", mi dicono quando gli chiedo di andare nello specifico. "Non per fare un paragone, ma mi è sempre piaciuto molto il fatto che nella filmografia di Kubrick ci sia un film di guerra, poi un horror e così via, con una grande voglia di sperimentare. Audio, Video, Disco nasce dal rock inglese degli anni Sessanta e Settanta, per esempio. Per noi [fare un album] è come giocare in un parco giochi. Ovviamente c'è chi resta alienato, ma non esisteremmo più se non avessimo tenuto questo approccio lungo il corso della nostra carriera."

C'è una carta che i Justice non hanno mai giocato, a cui ho ripensato guardando il trailer di A Cross The Universe. Proprio all'inizio, prima di entrare nel pit dei concerti dei due, la telecamera indugia su un Kanye West preso benissimo che li guarda, sorride e ballonzola. Era proprio quell'anno che Yeezy aveva preso "Harder, Better, Faster, Stronger" dei Daft Punk e l'aveva resa base di una dichiarazione di forza sul suo Graduation: "That that don't kill me / Can only make me stronger", cantava. Oggi è facile tracciare una linea che parte da quel momento e arriva ai Daft Punk e a Gesaffelstein nei credit di Kanye e di The Weeknd, a SebastiAn su Blond di Frank Ocean; allora non potevamo sapere che gli artisti francesi di quella generazione si sarebbero rivelati, con il passare degli anni, tra gli architetti dell'hip-hop più aperto al futuro e alla sorpresa. Ma non i Justice. Perché?

Fotografia promozionale.

"I grandi artisti hip-hop sono sempre in cerca di una novità", mi spiegano. "Lavorano con team di 50 persone e se guardi i credits dei loro album ti fa male la testa. E tutti i ragazzi che conosciamo ci hanno raccontato che non si sono nemmeno riconosciuti quando hanno ascoltato le canzoni a cui hanno contribuito... non è un granché. È un processo molto strano quello per cui prendi un sacco di cose e le mischi assieme ed esce qualcosa di buono, ma sembra funzionare. Ci è stato chiesto di collaborare con grandi artisti, ma c'è sempre qualcosa che va male a un certo punto del processo. Ogni volta che ci chiedono di lavorare a un beat mettiamo delle condizioni e arriviamo sempre a un punto in cui ci rendiamo conto che è una fregatura e dobbiamo tirarci indietro. Per esempio non vogliamo essere parte di team più grandi, dare qualcosa senza sapere dove andrà a finire e chi ci metterà le mani sopra. Non è che vogliamo proteggere la nostra musica, vogliamo proteggere noi stessi."

E infine: "Non ci interessa molto l'hip-hop, a essere sinceri. L'unica volta che ci capita di ascoltare qualcosa è quando prendiamo un taxi e sta passando in radio. I testi sono orribili, ma in un certo senso li capisco. Un giorno ho sentito un pezzo di Drake e non riuscivo a capire quale fosse l'appeal, i testi mi sembravano molto... infantili. Non sembravano i più intelligenti che avessi mai sentito, ma al contempo li cantava con una voce particolarissima. E aveva senso, perché i rapper francesi più famosi cavalcano la stessa onda. Fanno roba che sembra non avere alcun senso, mediocre, ma la fanno in un modo molto intelligente. C'è un senso di nichilismo che non condividiamo. Il rap non prova a parlare di niente, non prova a cambiare la mente di nessuno. Non è musica che ti eleva, è roba che serve a staccare la testa."

"La nostra roba tende a essere larger than life," conclude Xavier con un termine che vale la pena non tradurre per mantenerne il potenziale evocativo, "mentre alla base dell'hip-hop c'è solo un beat, la vita di tutti i giorni. È l'unica musica che parla di Instagram, o di celebrità, o di giocatori di calcio che non abbiamo mai sentito nominare."

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Le 3 migliori uscite della settimana

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ve ne consigliamo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

BLOOD ORANGE - NEGRO SWAN

Non ci sono al mondo artisti capaci di unire in forma musicale tutti i rivoli della black music (il gospel, la disco, il funk, il soul, l'R&B, l'hip-hop) con la coerenza che Blood Orange dimostra a ogni album. Negro Swan è la sua nuova opera, e pone una domanda: che cosa significa essere nero e depresso, nero e queer, nero e qualcosa-di-percepito-come-sbagliato, nel mondo del 2018? La risposta, fortunatamente, è piena di speranza. Scopritela ascoltando questo piccolo capolavoro, impreziosito dall'apparizione di A$AP Rocky e Diddy. E sappiate che suonerà in Italia a novembre, a Club to Club.

ÓLAFUR ARNALDS - RE:MEMBER

L'Islanda è terra di spazio e silenzio, componenti che sono andate a filtrare anche nella sua tradizione musicale. Ólafur Arnalds è uno dei suoi interpreti più poliedrici, capace di disegnare sinfonie perfette per accompagnare placidi film, di premere leggermente su tastiere di pianoforti così da suggerire emozioni, di programmare sintetizzatori per accendere la scintilla del ballo nelle folle che si trova di fronte. Questo re:member, suo nuovo progetto, unisce alla perfezione le sue anime come mai era successo nella sua discografia. Ascoltatelo queste sere, per dire addio all'estate, e andate a vederlo a Milano a ottobre.

MIDORI TAKADA & LAFAWNDAH - "LE RENARD BLEU"

Le renard bleu, "La volpe azzurra", è un film di venti minuti commissionato dal brand di moda Kenzo al regista Partel Oliva. È un trip fuori dal tempo, una performance di danza onirica: la musica è a cura di Lafawndah, un'artista di cui avevamo parlato come capace di creare "un'arte totale", ma soprattutto di Midori Takada. E chi è? Bé, la sua storia di Midori Takada è fatta di quiete e sorpresa, ricerca e istinto. Nata in Giappone, si trasferì a Berlino negli anni 60 per lavorare come percussionista. Fu lì che studiò la tradizione africana e la applicò alla sua concezione di musica per creare un capolavoro della musica ambient e del minimalismo: un album di culto, dimenticato per anni. Through the Looking Glass, "Attraverso lo specchio". Questa è la sua prima nuova composizione negli ultimi vent'anni.

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Guè Pequeno sta tornando

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Lo aveva quasi annunciato qualche giorno fa, Guè Pequeno, il suo ritorno. Con un trailer più simile a un film d'azione che all'annuncio di un disco postato su Facebook. Lui compariva con il volto tumefatto, in mezzo a spari e risse, maestoso. E poi dei visi, oltre a quello familiare di Emi Lo Zio: Enzo Dong, Franco Ricciardi, Luche e altri ancora. Tutti personaggi fondamentali della scena napoletana. Probabili featuring?

Oggi però è arrivata la notizia che stavamo tutti aspettando. Quel video era il preludio a un nuovo album, il primo dopo l'ingresso di G U E in BHMG, l'etichetta fondata da Sfera Ebbasta e Charlie Charles, parte dell'universo Def Jam e Universal. Le aspettative sono molto alte: come avevamo scritto in un articolo, "Chi non vorrebbe stare in una squadra composta dall’artista più venduto e probabilmente più influente d'Italia, da un rapper che da vent’anni gioca ai livelli massimi di questo campionato e da un produttore che ha messo il pepe al culo a tutti i colleghi?"

L'album uscirà il 14 settembre e ha una copertina i cui toni riprendono quelli di Rockstar di Sfera. Ancora è presto per speculare sul suono e i contenuti dell'album: vi terremo aggiornati su tutti gli sviluppi, felici di accogliere il ritorno del miglior rapper d'Italia.

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"Coma Lover" cambierà la carriera di Young Signorino

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Tutti abbiamo avuto un momento in cui ci siamo resi conto che Young Signorino era esondato dagli argini che lo contenevano. Agli inizi era un rivolo assurdo, una voce rauca che pubblicava "trappate" ipnotiche su YouTube per pochi eletti. Poi, tramite amici e collaboratori, si trovò con un manager e con "Dolce droga" diventò un ruscello a cui si abbeverava l'intera comunità rap italiana. Era acqua che alcuni bevevano a gran sorsi e altri schifavano, ma intanto. E poi arrivò "Mmh ha ha ha ha", la tempesta che lo ha ingrossato fino a farlo diventare un fiume in piena.

Nessuno in Italia, prima di Signorino, si era approcciato alla materia rap in maniera così stravagante e potenzialmente controversa. A pioggia finita e a fiume rientrato negli argini, sulla terraferma erano nati tanti nuovi fiori: articoli iper-commentati che lo spiegavano come sottrazione estrema di contenuto, approfondimenti sulla salute mentale, filtri per la fotocamera del telefono, apparizioni in televisione (Striscia La Notizia! Chiambretti!), critiche da parte di esponenti politici e controversie legate alla qualità delle sue esibizioni dal vivo.

Intanto era uscita "La danza dell'ambulanza", prodotta da Big Fish, un grande vecchio della scena rap nazionale trasformatosi in producer-da-major: Signorino era ormai considerato come un prodotto vendibile, così come confermò una sua Instagram Story registrata nella sede di Universal Italia. Poi una pausa, il cui inizio venne annunciato da un comunicato stampa battagliero in cui si usava il concetto di "punk" per spiegare Signorino, la sua musica e il suo approccio dissacrante.

A interromperla un mese fa è stata "Vestito nudo", un brano in linea con quanto il Signorino aveva proposto fino a quel momento: un testo giocosamente inquietante, incoerenze varie, un beat tanto duttile quanto instabile a cura di Low Kidd. E ora è arrivata "Coma Lover", un brano che segna una svolta nella produzione del suo autore, presentato per la prima volta come un essere umano e non un burattino satanico modaiolo impazzito.

Il beat di "Coma Lover" salpa dalle rive dell'emo rap statunitense, al ritmo placido di un riffettino di chitarra campionato. Signorino, seguendo la lezione di Lil Peep, lo usa per spiattellarci sopra tetre immagini di stasi fisico-emotiva. Nel testo e nel video compaiono molte figure ricorrenti del genere: lo Xanax, l'insonnia, la noia e l'apatia, l'uso dei social come panacea di tutti i mali, il crogiolarsi nella tristezza. La descrizione del video su YouTube non lascia spazio a fraintendimenti rispetto al tema del pezzo e al significato che Signorino e il suo team vogliono dargli:

Signorini/e, questo pezzo/video esprime qualcosa che io, come molti altri, ho conosciuto bene: la DEPRESSIONE. È un viaggio che si discosta da tutto quello che ho fatto fin'ora. Essere COMALOVER non è un difetto ma un tratto della personalità che può comparire ad un adolescente o ad un adulto in un certo periodo. Non spaventatevi, il Signorino è sempre lo stesso ma come tutti può passare un periodo COMALOVER

"Signorino sa anche prendersi sul serio", sembra dire questo paragrafo, "È una persona che ha sofferto e si mette a nudo di fronte al suo pubblico". La voce, registrata come se fosse una bozza da SoundCloud, acuisce il senso di franchezza che le parole di Signorino vogliono esprimere. Il pazzo gracchiante con la faccia tatuata è, improvvisamente, solo un ragazzo di vent'anni che si riconosce imperfetto e cerca di dire a chi lo ascolta che è ok esserlo, imperfetti. Assolutamente nulla di nuovo, se non per la bocca da cui proviene.

"Mmmh ha ha ha" ha scolpito l'effige del Signorino sul marmo della coscienza collettiva come una gag di cui prendersi gioco, un fantoccio divertente: identità con cui lui ha giocato, conscio di quanto bene avrebbe potuto fare alla caratura del suo personaggio, come dimostra il tono delle interviste che ha rilasciato. Da allora, però, qualcosa è cambiato. Il Signorino e il suo team hanno cominciato a lavorare per far sì che tutta questa operazione non venisse ricordata come una one hit wonder, per dirla all'inglese, e "Coma Lover" sembra essere l'inizio ufficiale di una ristrutturazione del personaggio-Signorino. I fan se ne sono già accorti, e c'è chi ha già pensato a una teoria per cui tutti i brani pubblicati finora dal Signorino abbiano un preciso scopo autobiografico.

Un pubblico che si era abituato a insultare Signorino per la sua supposta idiozia, ignorando qualsiasi tema legato alla salute mentale, si trova ora di fronte a una candida ammissione: "Io sono stato depresso, ogni tanto mi sento depresso". Niente di rivoluzionario, in un contesto culturale in cui la tristezza è diventata una tecnica espressiva dominante con tutto il campionario di "e se allora la stiamo elevando a feticcio?", "non rendiamola una moda è un problema serio" eccetera. E in effetti con la sua definizione il Signorino va a semplificare un tema estremamente complesso.

Dire che la depressione non sia "un difetto" è affermare una generica opinione ottimista, ma definirla solo "un tratto della personalità" è un errore. La depressione, che si manifesta come un calo del tono dell'umore e un'assenza di motivazione, ha basi biologiche. Esistono predisposizioni a questo stato, e vari fattori esterni possono far sì che si manifesti in modo più o meno intenso fino a poter essere definita "depressione maggiore", cioè una malattia psichiatrica che se non curata può portare al suicidio. Il Signorino sta invece parlando del tratto depressivo, un tratto di personalità proprio di chi è predisposto a sviluppare la depressione patologica e che vive normalmente tratti depressivi come fasi di vita.

Non ci si può chiaramente aspettare che il Signorino scriva un trattato sulla depressione e soprattutto che debba analizzare la questione in maniera così dettagliata nello spazio di un brano. La mia non è una critica quanto una precisazione e un invito, a lui come ai suoi colleghi, a parlare di depressione con cautela, considerandola in tutte le sue sfaccettature. È solo un bene che giovani rapper italiani noti per testi più simili a narrazioni di eccessi che a confessionali comincino a inspessire il loro campionario tematico, come ha dimostrato la toccante "Medicine" di Side.

Allo stesso modo, "Coma Lover" tocca corde ancora non percosse dal martelletto del piano di Young Signorino. Quella che esce è una melodia strana, atonale, che sorprende l'orecchio abituato a sentirlo snocciolare brag esagerati e schizzi di lingua. Cambierà la carriera del Signorino, questo pezzo, indipendentemente dal risultato finale che questa otterrà. Dovesse spegnersi, resterà un momento di quasi-chiarezza in un arco temporale costruito su mattoni di astrusità. Dovesse accendersi definitivamente, verrà ricordata come l'occasione in cui il Signorino ha provato per la prima volta a diventare un bambino di carne e ossa, e non un legnoso Pinocchio dai mocassini satanici.

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Le recensioni del Chicoria con Evergreen di Calcutta

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Prima di schiacciare fortissimo play sul video qua sopra, vi invito a fare un gioco: chiamate degli amici e fate delle previsioni su come sarà la recensione del Chicoria di Evergreen di Calcutta. L'ex Truceklan resterà fedele alla sua estetica cruda e di strada o il suo cuore di pietra si scioglierà e finirà a cantare appassionatamente "Ooooh mondo cane" come noi comuni mortali?

Poi chi vince potrà decidere a nome di tutta la compagnia di amici quale disco votare su Instagram per le prossime rece del Chico. È un bel gioco, no?

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Recensione: Alice In Chains - Rainier Fog

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Difficilmente potrà mai esistere un titolo più grunge de “la nebbia del Monte Rainier”. È quasi sconvolgente, nella sua semplicità. Il vulcano quiescente che dall’alto dei suoi quattromila metri osserva Seattle, aspettando il momento giusto per eruttare su un’area abitata da quasi quattro milioni di persone, è insieme uno dei luoghi più belli e più pericolosi dell’intero continente nordamericano. Esattamente come la scena musicale nata alle sue pendici, coacervo di belli e dannati, che dopo trent’anni di carriera si riscoprono più dannati che belli - quelli che ci sono arrivati.

Rainier Fog è in tutto e per tutto un album degli Alice In Catene: la doppia voce di DuVall e Cantrell, la chitarra di Cantrell, il doom and gloom del nordovest. Sintetizzato, arrangiato, apparecchiato in un album che riesce a non puzzare di stantio ma a profumare di invecchiato. Poi chi dovesse aspettarsi la dirompenza di Dirt oggi rimarrebbe deluso, perché l’urgenza di “Them Bones” è qualcosa che può uscirti solo a venticinque anni, non certo oltre i cinquanta, ma la buona notizia è che "The One You Know" apre le danze con il piglio giusto. E poi se davvero nel 2018 ti aspetti un nuovo Dirt, beh, un po’ cretino lo sei.

La chitarra del biondone più metallone di Seattle prende in prestito addirittura il sound acidulo di certo post-metal per le prime plettrate con cui dare il La ad un album che, non avendo nulla da aggiungere ai trenta e più anni di carriera passati, si ritaglia il suo spazio con gran classe. La title track poi è una bomba: un perenne midtempo, ripulito e precisino come solo una canzone scritta, prodotta e registrata da artisti maturi può essere, che al suo interno ha tutto quello che il rock alternativo novantiano richiede. Un ritornello tutto da cantare, un sound che acchiappa come se l’epoca delle grandi rockstar non fosse mai tramontata, un arpeggino a metà che scioglie i cuori più sensibili, ora e sempre sotto lo strato caldo e accogliente della flanella a quadri. E poi gli umori tristi del grunge, che ci ricordano di quanto la vita sia triste e di come i bei tempi andati fossero sempre e comunque meglio, anche se poi di fatto non stavamo bene nemmeno quando i bei tempi andati li stavamo vivendo.

Messo in chiaro dopo appena due pezzi come gli Alice In Chains siano e saranno per sempre gli Alice In Chains, Rainier Fog procede e scorre senza nessuna sorpresa: la ballad simil-”Down In A Hole” (“Fly”), il crescendo di “Maybe” che tenta di richiamare “Rooster”, e via così. Perché i limiti di Cantrell e compagni sono anche i loro pregi migliori: quei tre o quattro formati-canzone tipici che si tirano dietro da tutta la vita e niente altro, ma nessuno li fa bene come loro. Quei rimandi bluesy che DuVall è riuscito a mantenere del retaggio di Staley, quel gusto pazzesco per le melodie nonostante l’impianto più heavy di tutto il grunge, quella inconfondibile tristezza di fondo, sono ancora le ragioni migliori per ascoltare un album degli AIC, oggi come nel 1992.

A tutti voi che non avete mai smesso di andare in giro coi camicioni da tagliaboschi, gli Alice In Chains sono ancora qui a spiegarvi come fare le coccole al buco nero che vi portate dentro.

Have another go my friend
You see I can't feel anymore
While you question just who the hell am I
Is this all I am?
Given all I can?
Is this all I am?
'Till the end of time, never knowing why

TRACKLIST:
1. The One You Know
2. Rainier Fog
3. Red Giant
4. Fly
5. Drone
6. Deaf Ears Blind Eyes
7. Maybe
8. So Far Under
9. Never Fade
10. All I Am

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