Se leggete i media musicali americani allora sapete già che tutto ciò che andava detto sulle canzoni rap super-corte è stato scritto qualche mese fa. In un articolo, Sheldon Pearce di Pitchfork è partito da "Gucci Gang" di Lil Pump e si è chiesto come e perché i rapper più giovani hanno cominciato ad accorciare sempre più i loro pezzi. Le risposte che ha individuato sono principalmente tre.
La prima: Gucci gang, Gucci gang, Gucci gang, Gucci gang. Sono canzoni basate sulla ripetizione, su un'interpretazione impetuosa, sul fare casino, e quindi dopo un po' stancherebbero. La seconda: Per aumentare i propri ricavi via streaming conviene avere molte tracce che durano poco invece di poche tracce che durano molto - da cui l'avvento dei preoccupanti album lunghi tanto per essere lunghi, come VIEWSe Scorpion di Drake, Culture II dei Migos o Lil Boat 2 di Lil Yachty. La terza: la musica viene fatta da e per chi l'ascolta, e questo "chi" è un ragazzo abituato a dedicare poca attenzione a tante cose e per poco tempo. Il che non è un problema ma, come ha dimostrato uno studio ripreso da The Outline, un tratto tipicamente umano che si è acuito con il passare del tempo rendendoci capaci di fare multitasking in modo efficace, in barba alla classica opinione "i computer ci hanno ammazzato l'attenzione".
C'è una frase di quell'articolo, in particolare, su cui conviene concentrarsi: "In fondo, poi, più un pezzo è corto meglio lo puoi mettere in uno Snap o in una Instagram Story". Ogni volta che gli esseri umani si appassionano a un nuovo contenitore di cose su internet, pian piano questo comincia a venire usato anche per fare cultura. Un esempio recente è la twitteratura, per cui i 140 caratteri del tweet erano il mattoncino-base su cui costruire letteratura. E via di haiku e aforismi ma anche di riassunti estremi, di romanzi iperbrevi, di lunghe catene di tweet interconnessi.
Nel momento in cui scrivo Instagram è il contenitore di cose che stiamo usando tutti di più. Facebook cresce sempre meno, man mano che la gente si rende conto del male che sta facendo al mondo permettendo a chiunque di esprimere opinioni piene d'odio e razzismo, mentre Instagram ha da poco annunciato di aver raggiunto un miliardo di utenti registrati a livello mondiale (che poi Instagram è, tristemente, sempre Facebook). Così come in passato avevamo deciso di adottare il tweet come particella minima del fare-letteratura, di update in update abbiamo cominciato ad adattarci ai confini di Instagram e a usarli per farci stare dentro arte.
Un esempio recente viene da FKA twigs, che ha lanciato da qualche mese quello che chiama un "Instagram Magazine". Usando la funzione galleria, pubblica periodicamente nel suo feed una serie di dieci fotografie accomunate da un tema, annodandole con brevi testi e illustrazioni. Similmente a chi usa il suo feed come macro-scacchiera in cui inserire immagini che ne vanno a creare una più grande, osservabile solo nel suo insieme, twigs ha giocato con le regole del sistema per infilarci dentro dell'arte.
Applicare queste pratiche alla musica è più difficile. Un'immagine statica resta lì; un video, unico modo per mettere musica su Instagram, ha una durata massima dopo la quale o scompare o ricomincia dal principio. I quindici secondi delle storie e il minuto del feed sono spazi che vengono quindi usati nel modo più semplice, cioè per condividere piccoli assaggi di opere più lunghe e ampie. Ma se questi vincoli diventassero, come il tweet di cui sopra, la particella minima del fare-musica? È stata proprio questa l'idea che ha avuto Tierra Whack, autrice di Whack World, geniale progetto rap pensato per stare comodo nei confini imposti da Instagram.
Whack World è composto da 15 canzoni da un minuto l'una che potrebbero anche essere una canzone da 15 minuti. Ognuna di loro sta in una casella sull'Instagram di Tierra Whack, accompagnata da un breve video che fa tutto il possibile per mettere a disagio lo spettatore, creando un contrasto con il senso di gioia che trapela dalle canzoni. Per Tierra Whack il rap è creta da modellare con pochi gesti: i suoi sono beat ridotti all'osso, composti da pochi accordi e leggeri interventi sonori, interrotti sul più bello con una strizzata d'occhio. Ascoltare le sue canzoni è provare una serie di piacevoli eiaculazioni precoci o orgasmi improvvisi, consci che un altro ne arriverà nello spazio di sessanta secondi.
"Black Nails", il pezzo che apre Whack World, mette subito in chiaro lo scopo del progetto: "Farò meglio a convincermi che venderò / Essendo me stessa". Questo significa, per Tierra Whack, prendere le parole e metterle nel frullatore assieme a dei cucchiaioni di tempera colorata, così da creare un beverone di lingua: "Tengo 'sta roba per me stessa / Ascolto solo me stessa / Scrivo barre nella mia cella / Riso accanto al mio cavolo nero". Sotto la sua voce, note cristalline accompagnano l'ingresso nel suo mondo surreale. E poi arriva "Bugs Life", e si comincia a fare sul serio.
La testa che era rimasta abbassata nel primo video si rivela: è la sua, per metà tumefatta e morta, come dopo un ictus. La sua bocca comincia a sputare parole che uniscono orgoglio e narrazione personale: "Probabilmente sarei esplosa in un giorno fossi stata bianca / Se avessi rappato con un microfono e avessi indossato baggy bianchi". Il messaggio di Tierra Whack si basa sull'affermazione di sé come ragione di vita, che si tratti di sovvertire la tradizionale narrazione della donna-in-attesa-del-ragazzo-perfetto ("Sore Loser", cantata da una bara ripiena di glitter) o di deformare il proprio corpo dietro a lenti d'ingrandimento affermando il proprio benessere ("Pretty Ugly").
Il corpo, la mente e il cibo sono le tre aree tematiche che Tierra Whack esplora in maniera più approfondita. "4 Wings", ambientata in un ristorante cinese, esordisce con "Sale, pepe, ketchup e salsa piccante / Friggo croccante perché non mi piace la roba soffice" per poi aprirsi in un confessionale pubblico: "Mi apro, guardo Dio, omicidi / Non sono perfetta ma improvviso / Droppo 'sta merda e i miei negri si gasano / Notti infinite a piangere quando è morto Hulitho". "Fruit Salad", "Macedonia", la vede allenarsi in una palestra da Willy Wonka mentre canta "Preoccupati solo di te stesso, di nessun altro / Bevo acqua, mangio frutta, mi prendo cura del mio corpo". A intrecciarsi alla sua voce beat colorati, pasticci di pittura che diventano felice espressionismo.
Sempre a Hulitho è dedicata "Pet Cemetery", in cui Tierra parla del suo "cane" - nel senso di "amico" - che le è stato portato via, come se fosse un randagio, ma "Tutti i cani vanno in paradiso", come dice un celebre detto statunitense. Il cimitero in cui si trova a cantare, uggioso come un romanzo gotico, si anima di muppet che fanno capolino dalle tombe per i controcori: "Paradiso, paradiso!" E in un minuto si torna alla gioiosa affermazione di sé con "Fuck Off": "Tesoro, sono stata male, ero triste / Ogni volta che sono felice tu ti incazzi / Spero che ti venga uno sfogo sul culo / Mi ricordi quello sfaticato di mio padre", canta Tierra Whack, felice come se stesse raccontando la giornata più bella della sua vita. E la musica quello sembra evocare, quasi fosse un jingle scanzonato che accompagna il title screen di un piattaforme anni Novanta.
Il rap di Tierra Whack è naïf, semplice e ingenuo, espresso a forza di smorfie e pernacchie, sorrisi e canzonette. La sua capacità di non prendersi sul serio e, al contempo, di prendersi terribilmente sul serio non ha eguali nel rap americano contemporaneo: in lei c'è un non so che della quieta rivoluzione di Chance the Rapper, del senso di esplosiva narrazione di sé dell'ultima Janelle Monaé, delle bambinesche filastrocche indie pop dei Beat Happening. Se nel rap non cercate solo facili melodie e ormai generici cazzodurismi, Whack World dovrebbe essere uno dei vostri album dell'anno.
Le colline e i canyon scoscesi di Malibù sono un terreno adatto alla rapida propagazione di fuochi, ma quello che si scatenò il 24 novembre 2007 fu particolarmente distruttivo. L'incendio di Corral ridusse in cenere quasi 20 chilometri quadrati in appena quattro giorni, sospinto dai venti di Santa Ana a 100 km/h e alimentato da una vegetazione secca a livelli inimmaginabili. Quando i vigili del fuoco riuscirono finalmente a contenerlo, aveva raso al suolo oltre 80 strutture, tra le quali un vecchio ranch che conteneva un grand piano appartenuto a Neil Diamond.
Pochi mesi dopo l'incendio, il frontman dei Korn Jonathan Davis visitò in lacrime le rovine della casa con i suoi due figli. "Voi non lo sapete", disse loro, "ma questo posto era davvero speciale. Ha dato inizio a un intero movimento musicale".
I Korn avevano registrato i primi due album in quella casa, un ex casolare di caccia trasformato in studio di registrazione e chiamato Indigo Ranch. La musica che inventarono fu poi chiamata nu metal, un termine che Davis trova repellente. "Mi vengono i brividi quando sento quella parola", mi dice il 47enne al telefono da casa sua a Los Angeles, prima di raggiungere la band per le prove pomeridiane. "Ma immagino che bisognerà pur chiamarlo in qualche modo".
Comunque lo vogliate chiamare, il primo album omonimo dei Korn uscito nel 1994 diede vita a un movimento a tutti gli effetti e Indigo Ranch fu il suo nido. Nel corso dei sei anni che seguirono, una sequenza di band (Limp Bizkit, Soulfly, Cold, Human Waste Project, Machine Head, Amen, Slipknot) si avventurò tra le colline di Malibu per registrare musica tra la più incazzata e controversa del decennio, circondati da sicomori e palme in uno scenario d'improbabile idillio. Anche Vanilla Ice partecipò alla festa, registrando un album nu metal intitolato Hard to Swallow all'Indigo Ranch nel 1998.
Tutti questi artisti pescavano da un ampio bacino di influenze: le brutali ma ritmiche chitarre down-tuned dei Pantera; le incalzanti e funkeggianti linee di basso di Red Hot Chili Peppers e Faith No More; il rap provocatorio di Cypress Hill e Rage Against the Machine; il groove e il nichilismo dei Nine Inch Nails. Sbattute nella stessa pentola dentro il piccolo studio dell'Indigo, trovavano un perverso senso unitario chiamato nu metal. A supervisionare il tutto c'era un producer solitario, Ross Robinson, armato di un peculiare genio per incanalare l'inquietudine giovanile in una musica potente.
Lo studio dell'Indigo Ranch (foto: Bart Johnson)
Fondato nel 1974, Indigo Ranch era un luogo improbabile per la nascita del nu metal. Né la sua storia, né il suo setting avrebbero fatto pensare a una cosa oscura e claustrofobica come l'urlo primordiale rappresentato dal debutto dei Korn, né ai molti altri rocciosi album che seguirono. Ma per sei anni, un ranch da 250mila metri quadrati in un posto chiamato Solstice Canyon, circondato da spigolose formazioni rocciose a picco sull'immensa spianata blu dell'Oceano Pacifico, vibrò per le onde di una musica tra le più violente mai registrate. E poi andò a fuoco.
Il proprietario dell'Indigo Ranch, Richard Kaplan, non era un grande fan del metal. I progetti Indigo di cui andava più fiero, secondo sua moglie Julie, erano stati quelli di fine anni Settanta con Neil Young, Olivia Newton-John e il già citato signor Diamond, che poi vendette a Kaplan il suo grand piano. Ma Kaplan sapeva riconoscere una cosa bella quando l'ascoltava. Nel 1994, quando i membri dei Korn (a quel punto ancora una band sconosciuta proveniente dalla zona residenziale bruciata dal sole di Bakersfield, 200 km più a nord) presero un cartone di pizza surgelata, lo firmarono e lo appesero al muro per scherzo vicino ai dischi d'oro e di platino dello studio, Kaplan lo lasciò lì. "Non ridere", disse a Julie. "Faranno il disco d'oro. Sono davvero bravi".
“Le ho sempre chiamate le nuove band sataniche, perlomeno è così che mi suonavano", dice Julie. "Io sono più una da R&B".
Kaplan, che è morto nel 2014, è stato il padrone dell'Indigo per tutti i suoi 32 anni di attività, e durante gli anni di Ross Robinson è stato una presenza gradita e familiare. Con la sua parziale calvizie e baffo a manubrio, sembrava un David Crosby più giovane e gioviale. "Siamo andati subito d'accordo", ricorda Robinson. "Io, lui e Julie ci capivamo benissimo... mi vedevano come un figlio o qualcosa del genere".
Kaplan, ingegnere e avido collezionista di apparecchiature audio, comprò il ranch nel 1974 e lo convertì in uno studio, riempiendolo di centinaia di microfoni, amplificatori e pedali vintage, molti di questi restaurati o modificati con le sue stesse mani. Per quanto brutale suonasse spesso il nu metal, all'Indigo lo si registrava con materiale tra il migliore al mondo: ogni tipo di amplificatore Marshall mai prodotto, dozzine di microfoni provenienti da Abbey Road (tra cui il microfono valvolare preferito di Paul McCartney, l'AKG C12, dal valore di circa 18mila dollari), preamplificatori costruiti su misura. "La trasparenza e la chiarezza di quei cosi era incredibile", dice Chuck Johnson, ingegnere che ha passato la carriera all'Indigo, iniziando lì come ragazzo delle pulizie a 17 anni nel 1978.
Richard Kaplan (foto: Bart Johnson)
Il debutto dei Korn includeva vari strumenti custom firmati Kaplan, tra cui tre fuzz Big Muff modificati che Davis ricorda come fondamentali per il suono pesante e distorto dell'album. "Penso che Ross ce li abbia ancora", dice Davis. "Erano soltanto dei circuiti nudi. Tutto saldato insieme. Dovevi stare attento ad attaccarci la chitarra, perché non avevano la scatola a tenere insieme il tutto".
“Richard collezionava tutto", dice Chris Brunt, che aveva aiutato a concepire lo studio e ci aveva lavorato nei suoi primi anni come ingegnere. Kaplan era anche fotografo e aveva una gigantesca collezione di macchine vintage, oltre a un tesoro di chitarre e dischi jazz. "Se aveva un dollaro in tasca, ne spendeva due", dice Bart Johnson, un vecchio amico di Kaplan che aveva lavorato all'Indigo come manutentore e sedicente "uomo dell'elettronica".
Kaplan co-fondò l'Indigo Ranch con Mike Pinder, tastierista dei Moody Blues, di cui era diventato amico quando faceva da addetto luci e fotografo per la band inglese. Ai tempi, i Moodys erano una delle band più famose del mondo, e Pinder voleva investire un po' delle sue ricchezze post-“Nights in White Satin” in uno studio—ma non in Inghilterra, dove la situazione economica era problematica e le tasse alte. Kaplan, che era originario di Burbank, lo spinse a investire a Los Angeles.
"Finivamo di registrare una traccia, tutti sudati, andavamo fuori e ci trovavamo davanti questo luogo perfetto, pieno di luce, dove è difficile essere tutti arrabbiati e punk-rock", dice il batterista dei Godsmack Larkin. "Era un equilibrio, un equilibrio perfetto".
Il luogo che scelsero era poco convenzionale, per usare un eufemismo. Il ranch si trovava nascosto alla fine di una mulattiera che risaliva per miglia il Solstice Canyon, e prima era appartenuto ai proprietari della compagnia di cappelli Stetson, che lo usavano come capanno di caccia. La casa grande, costruita nei primi del Novecento, "sembrava una baracca", dice Davis.
“Era circondato da alberi", ricorda Shannon Larkin, oggi batterista del gruppo metal Godsmack, che all'Indigo registrò con Amen e Vanilla Ice. "Ti sembrava di essere in mezzo al bosco". La fauna locale si vedeva spesso, il che non era sempre un fatto positivo; durante le registrazioni del primo album omonimo degli Slipknot, una puzzola spruzzò proprio la finestra dell'unica doccia funzionante. "L'intera sessione di registrazione di Slipknot è stata puzzolente", ricorda il co-fondatore e percussionista Shawn “Clown” Crahan.
Prima che arrivasse Kaplan, l'unico contatto di questa casa con la fama era l'attore di film muti John Barrymore, amico della famiglia Stetson e noto alcolizzato, che la usava come ritiro per smettere di bere prima di iniziare le riprese di un film. Apparentemente, non partecipava a questi rehab con particolare entusiasmo. "Durante la costruzione dello studio, scoprimmo molte assi schiodate", Kaplan raccontò a Tape Op nel 2014, “e dietro ognuna di queste trovammo una bottiglia di qualcosa risalente a 50 anni prima".
La regia dell'Indigo Ranch (foto: Bart Johnson)
Il resto della proprietà era spettacolare. Frutteti di avocado e agrumi erano attraversati da sentieri che si avvitavano verso il fondo del canyon sul lato sud della proprietà. Una formazione rocciosa chiamata Little El Capitan (e, più tardi, “Little El Kaplan” in onore del suo nuovo proprietario), torreggiava sul lato nord del ranch. Dopo le piogge invernali, un ruscello passava dentro il terreno; un sentiero dietro la casa ne seguiva il tracciato fino a una cascata alta 25 metri. Da una panchina nel frutteto, si poteva ammirare il Pacifico. "Tantissime canzoni bellissime sono state scritte su quella panchina", dice Rob Agnello, giunto al ranch nei primi anni Novanta come assistente ingegnere.
“Fu un'esperienza fantastica essere lì", ricorda Davis. "Un'atmosfera bellissima. Sei in mezzo al nulla. Era bellissimo. Andavamo a raccogliere gli avocado dagli alberi". Nessuno sembrava trovare incoerente il fatto di registrare musica così arrabbiata in un luogo così ameno, anzi, l'ambiente pacifico del ranch faceva da valvola di sfogo per le band quando serviva una pausa dalla loro stessa oscurità. "Finivamo di registrare una traccia, tutti sudati, andavamo fuori e ci trovavamo davanti questo luogo perfetto, pieno di luce, dove è difficile essere tutti arrabbiati e punk-rock", dice il batterista dei Godsmack Larkin. "Era un equilibrio, un equilibrio perfetto".
L'ambiente rustico non impedì a Kaplan e Pinder di trasformare la casa in uno studio di registrazione di qualità eccelsa, con un mixer Aengus/API a 30 canali installata da un eccentrico guru audio chiamato Deane Jensen. Jensen, che era proprietario di una compagnia di trasformatori a North Hollywood, divenne una presenza fissa nel ranch, costantemente impegnato a regolare l'acustica già quasi perfetta dello studio.
Pinder abbandonò dopo pochi anni, vendendo la propria parte del ranch a Kaplan e a un altro socio, Michael Hofmann, un amico d'infanzia di Kaplan che era finito per diventare il business manager dell'Indigo. Dal 1978 circa, Hofmann ha inanellato una serie di ingaggi d'oro, utilizzando l'atmosfera idilliaca del luogo e la strumentazione top-di-gamma dello studio per attirare una clientela di altissimo livello: Bob Dylan, The Go-Go’s, Van Morrison, Lenny Kravitz, Nick Cave, Motley Crue. Gli ingaggi di Hofmann erano anche molto eclettici: lì hanno registrato i propri album di debutto Oingo Boingo, Kenny G e Megadeth. Nei tardi anni Ottanta, lo studio andava prenotato con tre mesi di anticipo ed era costretto a rifiutare anche grandi nomi. "I Fleetwood Mac erano tra questi", dice Julie Kaplan, che aveva cominciato a frequentare l'uomo che sarebbe poi diventato suo marito nel 1986. Le sarebbe piaciuto aver respinto anche Sting: "È una prima donna".
Un paio di tragedie alla fine del decennio colpirono fortemente l'Indigo e Richard Kaplan. Prima, nel 1989, Deane Jensen, oppresso da problemi di salute mentale ed economici, si tolse la vita. "Lo trovarono nel suo ufficio con una bottiglia di vino vuota e un revolver in mano", ha ricordato Bill Whitlock, il suo socio alla Jensen Transformers, in una intervista nel 2014. “Si era sparato in testa". Jensen aveva 47 anni.
Poi, soltanto due anni dopo, l'amico e socio di Kaplan Hofmann morì all'improvviso per un aneurisma. Kaplan ne fu distrutto. “Michael Hofmann era insostituibile", dice Chris Brunt. Hofmann era l'amico più stretto di Kaplan e, secondo Brunt, "la persona responsabile dell'integrità finanziaria ed estetica del ranch".
Invece di assumere un nuovo business manager, Kaplan tentò di mandare avanti lo studio da solo. Julie diede una mano con i conti. Ma senza la conoscenza tecnica di Jensen e la guida di Hofmann, nel corso dei due anni seguenti, l'Indigo Ranch perse molti dei suoi clienti e finì in uno stato di semi-abbandono.
“Richard continuava a collezionare strumentazione come un matto", dice Brunt. "Il posto era pieno di roba. Arrivò al punto in cui la regia era così piena che non riuscivo più a lavorarci. Non era un bell'ambiente. Non c'erano più il calore e la personalità di prima".
In questa scena sempre più caotica fece il suo ingresso un 27enne produttore neofita proveniente da una cittadina nel deserto chiamata Barstow, di nome Ross Robinson. Nonostante avesse iniziato suonando la chitarra in gruppi thrash metal, Robinson aveva la faccia pulita, una voce rassicurante e un'aura di autorità che andava oltre la sua età. Aveva prodotto il demo dei Korn del 1993, Neidermayer's Mind, e li aveva aiutati a conquistare un contratto con la Epic Records. Ma la Epic aveva concesso a Robinson un budget di soli 14mila dollari per produrre il loro primo album, una somma insignificante a quei tempi. Indigo Ranch costava poco, e la sua strumentazione vintage era esattamente quello che Robinson stava cercando.
“Più naturale è, migliore è la longevità di quello che registri. Non apparterrà a questo o a quest'altro periodo di tempo", spiega Robinson al telefono. "Ed essendo cresciuto a Barstow amando il motocross e in generale le attività all'aria aperta, era perfetto per me".
La strada che portava all'Indigo Ranch era molto problematica. "La prima volta che ci guidi dici 'ma dove cazzo stiamo andando?'" dice Davis. "È in mezzo al nulla". Anche dopo che la strada fu asfaltata attorno al 1979, i suoi tornanti e i suoi passaggi esposti potevano essere terrificanti, tranne che per Robinson, a cui piaceva sfrecciare su e giù per la montagna nella sua BMW 850 a tutta velocità. "È un malato di adrenalina", dice Davis, ricordando un viaggio particolarmente snervante con il produttore: "È andato a tavoletta per tutta la strada, facendo le curve a 100 all'ora. Pensavo che saremmo morti, cazzo".
Robinson portò la stessa energia nello studio, in cui richiedeva un impegno al 100 percento da ogni membro della band in ogni take. Essendo figlio di un guru dell'auto-aiuto, trattava lo studio quasi come una specie di terapia, incoraggiando le sue band a entrare emotivamente dentro ogni canzone che suonavano. "Era quasi come la recitazione secondo metodo", dice l'assistente Agnello, che ha lavorato in gran parte dei progetti di Robinson all'Indigo.
A differenza di molti produttori, Robinson non amava sedersi al mixer e dare consigli a voce dopo ogni take. Al contrario, "ero sempre nella stessa stanza della band", dice Robinson, a saltare in giro e urlare ordini e parole d'incoraggiamento. Se gli sembrava che qualcuno non stesse suonando con abbastanza impegno, era noto per rifilare spinte, colpi agli strumenti, o addirittura lanciar loro addosso qualunque oggetto si trovasse sotto mano. Robinson era particolarmente duro con i cantanti e i batteristi. "Una volta lanciò un vaso di fiori addosso a Joey [Jordison]”, ricorda Crahan degli Slipknot. "Ce l'ho ancora, il vaso".
“La gente le racconta come stupide storie di violenza, o qualcosa del genere, per farle suonare meglio, ma la mia intenzione era più vita, più fuoco.”
Robinson insiste che il suo approccio proveniva da una spinta d'amore e dalla volontà di ottenere il meglio dai suoi musicisti. "Lo scopo era di essere belli e assolutamente in fiamme", dice. "E se mi sembrava che le fiamme si stessero spegnendo... rrrah!” Ruggisce piano, poi scoppia a ridere nervosamente, schernendosi. "La gente le racconta come stupide storie di violenza, o qualcosa del genere, per farle suonare meglio, ma la mia intenzione era più vita, più fuoco".
Dietro la guida di Robinson, le sessioni per il disco di debutto dei Korn arrivarono a livelli di oscurità piuttosto intensi. Davis, il cantante e primario autore dei testi, preferiva scrivere canzoni che gli permettessero di "urlare dell'orribile infanzia che aveva vissuto", come ha scritto il chitarrista Brian "Head" Welch nella sua autobiografia del 2007 Save Me From Myself. E i suoi musicisti lo incoraggiavano: "Ci sentivamo tutti collegati in un certo senso perché molti di noi avevano condiviso lo stesso tipo di dolore quando erano bambini", ha scritto Welch. "Il dolore di essere rifiutati, di venire presi in giro, di non capire l'amore dei nostri padri per noi. Ognuno di noi aveva problemi di quel tipo con i genitori... Fu bello sfogare la rabbia tramite la musica".
L'esplorazione del trauma dell'infanzia da parte di Davis raggiunse lo straziante picco in "Daddy", la traccia che chiude il disco. Sopra un groove profondo e minaccioso, Davis descrive l'esperienza di un abuso sessuale da parte di un amico di famiglia in tenera età (non si trattò di suo padre, precisò più avanti, nonostante il titolo). Ripete il ritornello della canzone ("Urlo / Nessuno mi sente / Mi ha fatto male / Non sono un bugiardo") fino a singhiozzare esplicitamente, cercando di riprendere fiato tra un verso e l'altro. Per gli ultimi tre minuti della canzone, Davis è incomprensibile e non fa che imprecare e piangere fuori controllo. I suoi colleghi, che stavano suonando live in studio, non sapevano come rispondere al crollo del loro cantante. "Guardavano la regia dalla finestra con uno sguardo che sembrava dire: 'Che cosa facciamo?'" ricorda Agnello. "E noi facevamo segno di continuare a suonare".
Alla fine, Davis scappò dallo studio di registrazione (si sente la porta sbattere dietro di lui alla fine della traccia) ed è scomparso in fondo al canyon per diverse ore. "Ci siamo guardati ed eravamo tutti in lacrime", dice l'ingegnere Chuck Johnson. "Fu un livello completamente diverso".
Alla fine del decennio, l'inquietante mix di rabbia e angoscia del nu metal finì per metastatizzarsi in capricci da cartone animato (vedi: Limp Bizkit, “Break Stuff”). Ma sul debutto dei Korn, con l'elastica voce di Davis che apriva la strada, era affascinante. Davis era un nuovo tipo di frontman hard rock; un emarginato secco secco che suonava la cornamusa (registrata fuori dall'Indigo per “Shoots and Ladders”, con l'eco delle pareti del canyon) e veniva tormentato senza tregua a scuola perché indossava l'eyeliner e ascoltava i Duran Duran. Come cantante, si dimostrò capace di suonare allo stesso tempo vulnerabile e psicotico, ferito e provocatorio. "Non sono al tuo livello? / Col cazzo, sono meglio di te", Davis ringhia in "Divine", mescolando insicurezza e sicurezza in quello che sarebbe potuto essere il mantra della band (e che sarebbe poi diventato un cliché del genere).
“Sapeva come entrarti in testa e farti sentire ispirato e farti venire voglia di fare qualcosa di speciale", dice Davis. "Non era divertente. Ma è così che funziona Ross”.
Nonostante negli anni successivi Davis abbia chiamato Robinson, in maniera almeno in parte scherzosa, un "sadico", dà il merito al produttore di averlo aiutato a tirare fuori così tante emozioni nel suo stile vocale. "Sapeva come entrarti in testa e farti sentire ispirato e farti venire voglia di fare qualcosa di speciale", dice. "Non era divertente. Ma è così che funziona Ross".
Robinson non si sente di dovere scuse a nessuno per aver catturato su nastro il trauma di Davis. "La mia intenzione è sempre stata quella di creare un luogo sicuro, un luogo in cui potesse lasciarsi andare completamente", dice Robinson. "Non canti così se c'è uno stronzo nella stanza".
L'album di debutto dei Korn, pubblicato nell'ottobre del 1994, non cambiò il mondo del metal in un giorno. Le radio non passavano i loro singoli e chi si prese la briga di recensirlo non rimase colpito: l'L.A. Times scrisse che la band sembrava provenire da "un universo isolato, da incubo" in cui "dava testate e testate a porte di cui non sembrava nemmeno accorgersi". Ma gli addetti ai lavori non si lasciarono passare sotto il naso quell'opera che univa in maniera così fragorosa groove metal, grunge e hip-hop e cominciarono a chiedersi chi ci fosse dietro. Tra i primi ad accorgersene ci furono i Sepultura, storica thrash metal band brasiliana che aveva cominciato da qualche anno un percorso che li avrebbe portati a rivoluzionare il loro suono rendendolo più affine a territori groove. Fu ascoltando i Korn e i Deftones che cominciarono a usare accordature più basse, ha dichiarato il loro chitarrista Andreas Kisser.
Il risultato di quegli ascolti fu Roots, registrato proprio con Robinson all'Indigo Ranch nel 1995. Quell'album diede un grande contributo a legittimare l'allora nascente scena nu metal. I metallari più puristi storsero il naso di fronte all'assenza di parti di chitarra particolarmente tecniche, ma molti scettici vennero convinti del valore di quel disco per il modo in cui univa riff pesantissimi e strumentazione folk brasiliana. Proprio come l'album di debutto dei Korn, Roots era un album la cui sezione ritmica lambiva il mix come la maestosa risacca che bagna le coste di Malibù. "Ross è sempre stato irremovibile", dice Agnello. "La grancassa doveva sempre essere in primo piano". Durante il mix venne fatto un ulteriore lavoro sui bassi, come spiega l'ingegnere del suono Chuck Johnson: "Lo rendemmo più profondo. Io vengo dal jazz e non avevo mai lavorato a dischi metal. Quindi feci quello che potei fare per ingrossare il suono. Di solito quando facevo R&B lavoravo sui bassi, e quindi li spinsi più in alto nel mix."
Nel frattempo il nu metal stava diventando sempre più grosso: i Korn cominciarono a finire sulle copertine delle riviste di settore e aprirono diversi concerti di Ozzy Osbourne (che era lì con loro quando ricevettero il loro primo disco d'oro, avverando la profezia di Kaplan). Coerentemente, Robinson continuò a darsi da fare. Lavorò a dischi dei Manhole, dei Cold, degli Human Waste Project e dei Soulfly, la nuova band di Max Cavalera, ex-frontman dei Sepultura. In tutto questo riuscì anche a dedicarsi al secondo album dei Korn, Life Is Peachy, e al debutto di una rap-rock band della Florida che si faceva chiamare Limp Bizkit. Tutto questo nel corso di un paio d'anni.
Lavorare all'Indigo Ranch significava doversi adattare a ritmi assassini, e verso la metà del 1998 iniziarono ad avvertirsi i primi segni di cedimento. Robinson si era accordato per lavorare a quattro album di fila—di Vanilla Ice, degli Amen, degli Slipknot e dei Machine Head. Gli ultimi tre gli erano stati commissionati da Roadrunner Records, un'etichetta indipendente che stava facendo il possibile per accaparrarsi una fetta dei ricavi che il nu metal stava generando. Ma le sessioni di registrazione e missaggio cominciarono a sforare gli orari prestabiliti, sovrapponendosi le une alle altre. Gli ingegneri dovevano lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro. "Dormivo sotto la console, o nella sala di regia", ricorda Johnson. Casey Chaos, cantante degli Amen, era stato assoldato per lavorare al disco di Vanilla Ice. Finì a vivere al Ranch per sei mesi, e per la maggior parte del tempo dovette dormire in una saletta di registrazione insonorizzata in disuso. "Stavo impazzendo", racconta. "Sembrava di essere in Shining… il muro era coperto di sangue, merda e foglietti strappati". Kaplan diede un contributo, occupandosi dei microfoni e delle batteria, lavorando a tutti gli effetti come ingegnere del suono non accreditato. "Non sono un tipo che rompe le palle perché quello che fa gli viene riconosciuto", ha dichiarato nel 2014 a Tape Op. "Probabilmente avrei dovuto farlo, ma non l'ho fatto".
“Stavo impazzendo,” racconta Casey Chaos. “Sembrava di essere in Shining… il muro era coperto di sangue, merda e foglietti strappati.”
In tutto questo, la maggior parte delle persone che lavoravano al ranch si drogavano—ad eccezione di Robinson, un fanatico della salute che si faceva solo di shot di gramigna. Anche le band che venivano lì a registrare non si trattenevano; c'erano erba e alcool ovunque, e sia Welch che Davis ammisero di essersi fatti di meth durante le registrazioni del primo album dei Korn. In quella maratona che fu il 1998 tutti "bevevano e fumavano, non è un segreto", dice il batterista degli Amen, Shannon Larkin.
Anche lo staff dell'Indigo non si tirava indietro, dice Agnello—incluso il capo, Kaplan, che sarebbe poi entrato negli alcolisti anonimi. Nonostante il team dello studio vantasse un'etica del lavoro invidiabile, i lunghi turni andarono a confondere lavoro e piacere. "Ci prendevamo una pausa e io andavo in bagno a tirare", racconta Johnson. "Alla fine riuscivamo sempre ad arrivare a fine giornata, ma non eravamo degli angioletti".
Nonostante le droghe e i mal di testa, "tutti facevano quello che dovevano fare", dice Crahan degli Slipknot. "Tutti erano lì per fare arte. Tutti ne sono usciti vivi. Abbiamo tutti fatto quello che dovevamo fare. Ma mi è sempre stata sul cazzo l'etichetta, dato che sono stati loro a metterci lì dentro e a farci fare quella roba".
Da un punto di vista prettamente tecnico, l'album di debutto degli Slipknot potrebbe essere l'opera definitiva di Ross Robinson. La band aveva due chitarristi, tre percussionisti, un DJ e un tastierista. Domarli tutti e inserirli in una struttura coerente fu una sfida enorme—specialmente per quanto riguarda gli strati di batteria e percussioni, che vennero tutti registrati senza metronomo in cuffia, e poi assemblati a mano su nastro. "C'erano pezzi di nastro ovunque", ricorda Agnello. "Sul pavimento. Ovunque, sulle macchine".
Slipknot venne pubblicato nel 1999 e ottenne un successo strepitoso, diventando immediatamente uno snodo cruciale per la storia del nu metal. Diventò l'album metal di debutto più venduto di sempre e con il tempo sarebbe diventato un doppio platino, il tutto raggiungendo nuovi livelli di aggressione e durezza grazie ai suoi densi strati di percussioni, chitarre e parti elettroniche. Ma fu anche l'inizio della fine del regno del nu metal all'Indigo Ranch.
Gli ultimi due progetti a cui Robinson lavorò all'Indigo, album di band post-hardcore come Glassjaw e At the Drive-In, non avevano nulla a che fare con il nu metal. Così come l'album di debutto degli Amen, pubblicato nel 1999, un'esplosione di furia hardcore in stile Black Flag che venne buttato nel calderone nu metal perché prodotto da Robinson e perché pubblicato a poca distanza da Slipknot. "Mi spezzò il cuore", dice Chaos, che dà ancora la colpa delle scarse vendite di quell'album all'etichetta che la stampa statunitense gli diede ai tempi. Nel 2000, Robinson parlava del suono fragile ed eclettico di Everything You Ever Wanted to Know About Silence dei Glassjaw come del suo tentativo di "distruggere l'Adidas rock", una frecciata apparentemente diretta ai Korn, che a inizio carriera indossavano spesso tute Adidas, e al loro singolo tratto da Life Is Peachy "A.D.I.D.A.S." Con il suo ritornello puerile "tutto il giorno sogno di scopare", la canzone divenne un involontario modello per la trasformazione del nu metal in un nuovo tipo di rock da bulletti, con una fanbase che probabilmente avrebbe pestato Davis se l'avesse incontrato per strada qualche anno prima, quando metteva l'eyeliner.
“Era una cosa separata dal resto del mondo", Robinson dice degli album che registrò all'Indigo Ranch. "E poi c'erano le band che la prendevano come una formula, e non suonavano sincere.”
Nel 2001, mentre band come Linkin Park e Incubus innestavano elementi del nu metal nel rock da radio mainstream, Robinson si era spostato su altri studi e su altri generi. Produsse album di Cure e Tech N9ne, e lavorò con band che trovava su MySpace. Di tanto in tanto ritornava al nu metal, ma mai all'Indigo.
“Penso che le droghe fossero una cosa particolarmente importante lassù", risponde quando gli chiedo come mai smise di lavorare al ranch. "E me ne importava così poco che non me ne accorsi nemmeno [all'inizio]". Ma verso la fine, cominciò a influenzare la qualità del suo lavoro. La strumentazione una volta perfetta dello studio non veniva mantenuta; ingegneri come Johnson, un tempo i migliori del giro, erano troppo fatti e incapaci di lavorare. "Non riuscivo a finire un pre-mix e mandarlo senza che qualcuno lo incasinasse", dice Robinson. La sua voce conserva tuttora una nota di rimpianto quando ricorda la fine del suo periodo all'Indigo Ranch: "È stato piuttosto doloroso".
Il rapporto di Robinson con il genere che ha aiutato a creare resta complicato. Nel 2016, ha twittato: “Non faccio band che copiano i Korn. Quello stile è un cadavere in decomposizione del mio passato". Al telefono una recente mattina d'agosto, è più circospetto. "Per me era una cosa separata" dal nu metal, dice degli album che registrò all'Indigo Ranch. "Era separata dal resto del mondo. E poi c'erano le band che la prendevano come una formula, e non suonavano sincere". Questo si può allargare a band con cui lui aveva lavorato, per quanto si rifiuti di fare nomi, che secondo Robinson stavano "entrando, sai, in quello stile di vita alla Mötley Crüe ("Girls, Girls, Girls") quando all'inizio era qualcosa di completamente diverso". Ride nervosamente di nuovo. "Ma sì, ne sono orgoglioso".
Senza il suo miglior cliente, l'Indigo Ranch soffriva. I primi anni 2000 furono duri per gli studi vecchia scuola, analogici, e per l'industria musicale in generale. “Penso che questa cosa di iTunes ci abbia fatto fallire", dice la vedova di Kaplan, Julie. "Tutti scaricavano, quindi lui non riceveva gli assegni per le royalties".
Richard Kaplan morì di leucemia nel novembre del 2014 a 68 anni. Otto anni prima, aveva venduto l'Indigo Ranch per 2 milioni e 850 mila dollari a una coppia di "figli di papà", per usare le parole di Julie. "Il ranch stava davvero diventando un vero peso", dice il designer dello studio e ingegnere Chris Brunt, che rimase in contatto con il suo ex-capo fino al momento della sua morte.
Meno di un anno dopo che Kaplan aveva consegnato le chiavi dell'Indigo Ranch ai nuovi proprietari, l'incendio di Corral passò lungo tutta la cima del Solstice Canyon, radendo al suolo tutto quello che incontrava. A quel punto, tutta la strumentazione di Kaplan era stata spostata, tranne che il grand piano di Neil Diamond, che i nuovi proprietari avevano acquistato.
“Il terreno fu purificato", Rob Agnello dice del fuoco che si portò via l'Indigo Ranch Studios per sempre. Fa notare che il Solstice Canyon fu chiamato così in onore delle cerimonie musicali per i solstizi d'estate e d'inverno che celebravano gli indiani Chumash locali, secoli prima che gli Stetson o Kaplan e Pinder comparissero sulle scene. "Quindi ho sempre pensato che la musica, lassù, uscisse direttamente dalla terra". L'era dell'Indigo Ranch, secondo Agnello, "era solo un momento che doveva arrivare".
Julie Kaplan ricorda il giorno esatto in cui suo marito smise di bere e drogarsi: primo aprile 1999, non molto tempo dopo le terribili sessioni con Amen, Slipknot e Machine Head. La sezione di Malibù degli alcolisti anonimi, per la quale Richard Kaplan più avanti fece da tesoriere, commemorò l'anniversario poco tempo fa. "Avrebbe festeggiato 19 anni da pulito e sobrio", Julie dice orgogliosa.
Nel corso degli ultimi 15 anni della sua vita, Kaplan divenne una figura molto amata nella comunità AA di Malibù e aiutò molti altri alcolizzati a restare sulla strada della sobrietà. “Divenne molto importante per molte persone", dice Chris Brunt. Al suo funerale, "il novanta percento delle persone non avevano nulla a che fare con l'industria musicale. Erano persone che lui aveva aiutato".
"Gli piaceva un po' far festa, ma a chi non piaceva?" Davis dice. "Eravamo nel rock ’n’ roll.”
Molti dei musicisti e ingegneri che erano passati per l'Indigo Ranch finirono per ripulirsi a loro volta. Chuck Johnson lasciò il ranch più o meno quando lo lasciò Robinson e si diede alla sobrietà nel 2004. Dopo un periodo in rehab e dopo essere entrato negli AA, Larkin si mise a posto a inizio 2016. "Siamo passati tutti per della merda", dice Davis dei Korn, la cui intera band oggi è pulita. "Io sono stato il primo a ripulirmi. Il mese prossimo faccio vent'anni". (Dopo che Davis è stato intervistato per questo articolo, la sua seconda ex-moglie Deven Davis è morta il 17 agosto per cause non specificate. Il 23 agosto Jonathan ha rilasciato un comunicato sulla sua morte in cui ha scritto: "Aveva una malattia mentale molto seria e la sua dipendenza ne era un effetto collaterale").
Uno degli ultimi atti di Kaplan, prima di morire, fu di lasciare in eredità il nome Indigo Ranch ai Beach House Treatment Centers, un gruppo di stabilimenti per la vita sobria a Malibù. Il nuovo Indigo Ranch, situato a 15 km a Sud, lungo la costa, da quello vecchio, è una casa stile Tudor che si erge su un terreno di 28mila metri quadri con piscina e campi da tennis, e uno studio di registrazione accessibile soltanto ai residenti. "Crediamo di poter creare una connessione coi clienti attraverso la musica", dice il co-fondatore Charlie Bentz, che era diventato amico di Kaplan tramite gli AA.
Davis, che aveva perso i contatti con Kaplan nel corso degli anni, è contento di sentire la storia del suo lascito. "Bello. Mi fa piacere che si sia ripulito. È una buona cosa. Gli piaceva far festa un po', ma a chi non piaceva? Eravamo nel rock'n'roll".
Andy Hermann è un giornalista ed editor residente a Los Angeles. Seguilo su Twitter.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey US.
Rank Your Records è la serie di Noisey in cui chiediamo a musicisti di ripercorrere la loro carriera mettendo i propri album in ordine di preferenza.
Era il lontano 2002 quando gli Interpol pubblicavano il loro disco d’esordio Turn On The Bright Lights guadagnandosi lo scettro di band indie più dark della scena statunitense. Agli inizi, per le sonorità riflessive e cupe dei loro brani, furono spesso paragonati ai Joy Division. Ma a 16 anni da quel primo album, gli Interpol—ora Paul Banks, Daniel Kessler e Sam Fogarino—sono cresciuti, cambiati, hanno esplorato nuove sonorità e nuovi processi creativi.
Secondo Banks, il nuovo album racchiude tutta l’energia della band e la loro voglia di fare musica nuova. Uscito lo scorso 24 agosto, Marauder è il sesto album in studio per gli Interpol e il secondo da quando il bassista Carlos Dengler ha lasciato il gruppo durante le registrazioni del disco eponimo, nel 2010. "È stato il disco più semplice della nostra carriera", sentenzia Banks che userà questo metro di valutazione per valutare il resto della produzione della band, perché non sarebbe stato in grado di “comporre una lista in termini di migliore e peggior album.”
“Penso che l’artista debba soffrire per la propria arte,” spiega, “però, una cosa sono le difficoltà di produzione e un’altra sono le energie sprecate inutilmente, ed è qui che siamo riusciti ad eliminare il superfluo. C’è meno tensione creativa nel gruppo, c’è una comunicazione migliore e un senso generale di buona volontà. Nessuno è mai strafatto di droga o altro. Cerchiamo di essere più sani e felici possibili, e questo ci permette di imparare da ogni esperienza lungo il percorso e di produrre un buon disco.”
Noisey: La prima cosa che mi ha colpito di questo disco è la copertina. Per qualche motivo, non mi sembrava una copertina da Interpol. Paul Banks: E queste sono le cose che mi piacciono. Mi ricordo che andavo molto fiero dell'artwork al tempo, e lo sono ancora oggi. Cioè, sono dei leoni che abbattono una gazzella, non è semplicemente un allegro scatto naturalistico. Da artista, sono ben felice di sfidare i preconcetti. Le aspettative mi hanno sempre infastidito, come un maglione che ti pizzica sulla pelle. Per questo, quando qualcuno pensa di aver individuato la tua estetica, io ho voglio stravolgere tutto, “No, ti sbagli. Non puoi inquadrarci in questo schema.” Per questo il fatto di mettere in copertina degli animali—oltre all’arte della tassidermia, che aggiunge un livello in più alla cosa—mi sembrava appropriato. Non c’era un motivo preciso per distanziarci da quello che avevamo fatto fino ad allora, dal punto di vista estetico. Penso che ci andasse e basta. Ma sono d’accordo con te, era radicalmente diverso rispetto a quanto avevamo fatto graficamente fino a quel momento.
È stato il primo e anche l’unico vostro disco prodotto da una major. Che impatto ha avuto sul processo creativo, sentivate maggiore pressione? Sì, e penso sia per questo che lo metto al posto più basso della mia classifica. La musica nel disco non c’entra, è più che altro il processo di creazione e produzione. È stato molto stressante, e spiacevole per me. Ma non si trattava tanto della pressione di essere con una major, penso che la vera pressione ci fosse stata con il secondo disco, e arriveremo anche a quello. Avevamo trovato il nostro modo per sfuggire allo stress. Prima di Our Love To Admire avevo smesso di bere, quindi era il primo disco che scrivevo da sobrio, ed è stata un’esperienza che mi ha insegnato molto. Ho imparato a scrivere e a cercare ispirazione in un nuovo stato mentale. È stato così difficile per me—e penso che qui sia responsabile la major—è che abbiamo passato mesi e mesi in studio. A un certo punto ho lavorato 88 giorni su 90 per quel disco, che è una cosa davvero stupida. E questo solo per le parti di voce. E oggi non mi spiego cos’ho fatto per 88 giorni quando oggi me ne bastano cinque. Per questo è in questa posizione. Sono molto orgoglioso della musica, ma abbiamo lavorato davvero troppo, probabilmente ero io che mi mettevo fin troppi ostacoli e complicavo le cose, ma faceva parte del processo di crescita come autore. Oggi, quando i livelli di stress si alzano troppo, so cosa fare.”
Questo è stato l’ultimo disco con Carlos. A volte penso alla battuta di Louis C.K. sul divorzio, quando dice che la gente si dispiace per il divorzio e lui risponde, “Amico, dovresti essere felice del divorzio e dispiacerti per i due anni prima—lì sì che faceva tutto schifo.” E Carlos non se n’era andato così, da un giorno all’altro. Era stato un processo molto lungo e tormentato. In fase di registrazione di quel disco eravamo una band piuttosto disfunzionale. C’era un’energia negativa. Da un lato, credo che i conflitti e le tensioni con Carlos ci rendessero una grande band, perché è proprio della incomprensioni che nascono le cose migliori.
Allo stesso tempo, però, la sofferenza inutile durante il percorso era troppa, ed eravamo infelici; abbiamo sofferto troppo per questo disco. Ero piuttosto confuso sulla musica che stavamo facendo, anche se alla fine credo che quello sia uno dei nostri dischi migliori. Come per Our Love To Admire—alcuni dei miei pezzi preferiti di sempre sono in questi due dischi, quindi non sono in questa posizione perché la situazione era brutta, o il disco è brutto. Per esempio “The Undoing” e “Lights” sono tra le nostre migliori canzoni, forse proprio perché sono frutto di molto stress, tensione e incomprensioni. È stato molto difficile e faticoso produrre Interpol, ma alcuni pezzi sono davvero fantastici.
Gli album eponimi, se non sono quelli d’esordio, indicano in genere un momento di cambiamento. Sentivate la necessità di riaffermare un nuovo punto di vista dopo la dipartita di Carlos? Mi pare che il nome fosse stato deciso prima che lui lasciasse la band, anche se se ne andò prima della fine delle registrazioni. Aveva fatto il suo, e lasciò la band. Mi piace l’idea che il disco metta in chiaro le cose, tipo, “Questi siamo noi, questo è quello che facciamo.” Non avevo idea che gli album d’esordio dovessero essere eponimi. Mi è semplicemente piaciuta l’idea in quel momento, “Mi piace l’idea di chiamarlo come la band.” E poi mi piaceva un sacco la grafica, la copertina del disco mi piace un sacco.
L’anno prima avevi pubblicato il tuo primo lavoro solista a nome Julian Plenti. Questa esperienza ha influito su Interpol ? Non penso che abbia influito. Penso che abbia avuto più impatto su El Pintor. Sono convinto che la mia esperienza al di fuori degli Interpol mi abbia aiutato ad affinare la tecnica, a sentirmi più saggio e a rendere il processo creativo più semplice. Quindi per quanto riguarda i testi, penso che abbia aiutato un po’, sì. Il fatto di dover scrivere i testi di un album extra, in più, mi ha fatto crescere e imparare molto, quindi forse mentre scrivevo i testi di Interpol ero già migliorato un po’, ma penso che il disco solista abbia davvero dato i suoi frutti nel momento in cui ho iniziato a suonare il basso dopo quel disco.
Com’è stato iniziare a suonare il basso per questo album? Nel 2014 avevo già pubblicato due album solisti, quindi avevo già suonato il basso in altri due dischi interi. E poi, sai, il basso è solo una chitarra con quattro corde. Carlos è sempre stato un chitarrista, è passato al basso quando è entrato negli Interpol. E quindi in un certo senso, abbiamo mantenuto la nostra tradizione, perché i chitarristi suonano il basso in un certo modo, e i bassisti suonano il basso in un altro modo. Io non suono il basso come Carlos, suono il basso come un chitarrista, e così c’è una sorta di continuità.
Dopo che Carlos se n’è andato, fare il disco è stato più semplice? C’erano meno tensioni? La tensione c’era sempre. Siamo comunque dei tizi strani, con dinamiche strane nel gruppo, dopo tutti questi anni. E poi c’è sempre il problema dell’ego, quello rimane, e poi credo ci spaventasse l’idea di scoprire se saremmo stati una buona band senza Carlos, era un componente fondamentale. Dovevamo affrontare la sfida, ma avevamo anche una buona dose di energia positiva. Anche prima che Sam si unisse alla band per le sessioni di scrittura, Daniel mi presentava le tracce, io avevo il basso e provavo. Così è nata “Anywhere”, al basso, alla prima sessione di prove. Ho scritto la traccia di basso e un accenno di melodia per la voce alla prima prova insieme a Daniel, e lì non avevamo idea di chi avrebbe suonato il basso, se io o qualcun altro. Poi ci siamo accorti che dovevamo a iniziare a scrivere come avevamo sempre fatto, con Daniel alla chitarra, Carlos al basso e poi io che mi inserivo con l’altra chitarra e la voce. Ma il basso era sempre il primo componente a entrare in gioco, insieme alla batteria. Così abbiamo mantenuto la tradizione durante la prima sessione di prove, “Mi sembra abbastanza figo, magari funziona davvero!” Prima di iniziare El Pintor, eravamo preoccupati per la riuscita di questa nuova formazione, ma abbiamo cambiato idea quasi subito. Tutti avevamo lo stesso spirito e lo stesso scopo quando abbiamo fatto questo disco. Ci eravamo parecchio allontanati con Interpol, e qui l’intenzione era “Proviamo solo a fare del rock.” Penso sia stata una buona ripartenza per noi.
In genere non do molto peso ai titoli dei dischi, ma questo non solo è l’anagramma di Interpol, ma significa anche Il pittore. Avevi questa idea in mente fin dall’inizio? Ti ha ispirato nella scrittura delle canzoni? No, l’idea è venuta dopo. Ma credo che funzioni per tanti motivi diversi. Mi piace il fatto che suggerisca una riconfigurazione, con l’anagramma, che è esattamente quello che è accaduto alla band. Penso funzionasse bene anche con la grafica che avevamo. C’era la simmetria delle mani e il nome in qualche modo si collega perfettamente con quell’immagine. E poi, forse c’è qualcuno che si cela tra le righe di tutte le canzoni, come un artista, un pittore.
Questo è il primo disco, quello che vi ha lanciato e definito come una band piuttosto cupa. Eppure c’è anche dell’umorismo nel disco. Pensi che la gente non l’abbia colto? Be’, secondo me siamo effettivamente una band dark. Un po’ cupa, ma sicuramente c’è anche umorismo nel disco. C’è la dimensione dell’assurdo, ci sono tante altre cose. Per come la vedo io, i fan occasionali pensano che siamo una band tetra e che si prende molto sul serio, mentre i nostri veri fan, quelli che ascoltano i testi, sicuramente si saranno detti “Ha veramente detto ‘Vediamo cosa fare con questo prosciutto’ Ma che diavolo?” Penso che chi ci segue davvero lo capisca ma, a parte questo, ci sono cose peggiori che l’essere definiti una band tetra e malinconica. Mi va bene così. Il motivo per cui questo disco è ai primi posti è la facilità con cui l’abbiamo scritto. Abbiamo avuto anni per scrivere questi pezzi. Il primo disco è quello a cui cui puoi dedicare più tempo. Ci eravamo formati nel 1997, quindi cinque anni prima, e per circa 4 anni avevamo fatto concerti e provato quel materiale. Quindi in studio tutto è filato liscio, e poi c’era l’emozione del primo disco. È stato davvero un bel periodo.
Lo scorso anno avete fatto un tour per i 15 anni del disco. Cosa pensi dell’album oggi? Ti riconosci in quei pezzi? Ti ricordi chi eri quando li hai scritti? Certo che mi ricordo chi ero. Mi ricordo il momento esatto in cui ho scritto molti dei testi. Riesco a rivedermi ancora sulla sedia di quel bar quando ho scritto “Stella Was a Diver and She Was Always Down” oppure quando ero a Tokyo e ho scritto “Obstacle 1” mentre facevo visita a mio padre. Mi ricordo tutto, riesco a rivivere alcuni di quei momenti e mi riconosco nell’autore che ero all’epoca, certo. Dal punto di vista delle sonorità, il mio stile vocale è cambiato da allora. Ci sono dei pezzi in cui sento la mia voce com’è ora e altri in cui ancora non sapevo proprio cantare. Non consideravo nemmeno la voce come uno strumento. Ero solo quello che diceva le parole delle canzoni. Quando abbiamo iniziato a scrivere il terzo disco [Our Love To Admire], ho dovuto prendere qualche lezione di canto e lì mi sono reso conto, “Perché cazzo ho scritto cose che non sono in grado di cantare?” Quindi quando risento questo disco, mi accorgo di come cantavo prima di rendermi conto cosa volesse dire davvero cantare. Quella parte di me mi sembra diversa da oggi.
Ti aspettavi che questo disco avrebbe avuto l’impatto enorme che ha avuto? Quando fai questo tipo di lavoro, dentro di te ci speri sempre, sogni. E così io avevo sognato che sarebbe stato un grande disco, e credevo che gli ingredienti, escluso me, c’erano tutti per fare una band pazzesca, e io ero ben determinato nel cercare di essere il miglior artista possibile. Ho sempre creduto che i ragazzi con cui lavoravo avessero la stoffa per creare qualcosa che rimanesse nella storia. Quanto a me, speravo solo che sarei stato all’altezza.
Come accennavo mentre parlavo di Our Love To Admire, ci faceva un sacco paura l'idea che avremmo potuto sbagliare il nostro secondo album. E il motivo per cui metto questo disco al primo posto, è perché credo che avessimo trovato l'antidoto perfetto al rischio-crollo. Quando abbiamo finito il primo disco avevamo già scritto tantissime canzoni. Quando è uscito Bright Lights, molte delle canzoni di Antics erano già pronte, le avevamo scritte nella stessa fase. Alcune di queste erano migliorate nel tempo, e aspettavano solo di essere ultimate per essere inserite in Antics.
E poi, dopo la prima fase creativa da artista, ho approfondito molto con Antics. La mia missione era evitare di sprofondare nel baratro e così ho dato anima e corpo per questo disco. Mi sembrava la cosa giusta da fare, l’unica che potessi fare in quel momento. La gente si aspettava che sbagliassimo qualcosa, ma io ero sicuro che anche il secondo album sarebbe stato un buon lavoro. C’erano state delle discussioni—Carlos aveva passato un brutto periodo durante le registrazioni del primo album, e avevamo riflettuto se prenderci una pausa dopo Bright Lights, oppure buttarci a capofitto con il secondo. Penso che alla fine buttarsi sia stata la scelta giusta, cavalcare l’onda, sfruttare l’entusiasmo del pubblico ma anche la nostra stessa carica, “Siamo allineati ora e tutto fila perfettamente in tutti i cilindri. Sfruttiamo il momento e finiamo l’opera.” E così abbiamo messo insieme il secondo disco, dal primo. È così che lo vedo io—come una B-side del primo, per questo non potevamo aspettare. E poi, se avessimo fatto un buon lavoro con il secondo disco, questo avrebbe rafforzato la nostra reputazione e non saremmo più potuti tornare indietro. C’era molta pressione, ma tutto ha funzionato per il meglio.
È interessante scoprire come è stato concepito. Suona molto diverso dal primo disco, ma allo stesso tempo sembra il risvolto della medaglia, come se fosse legato al primo in qualche modo. Ma è anche più soft. C’è una certa estetica in Bright Lights che non è presente in questo. Stavate intenzionalmente cercando di non far suonare gli Interpol come gli Interpol? Forse. Non posso dire che io aspirassi a quello, forse era Carlos ad avere un’idea simile per il secondo album. Le sue composizioni divennero un po’ più sofisticate con basso e tastiere, ma personalmente non ricordo di aver deciso di cambiare rotta. L’idea era di approfondire ancora di più quello che avevamo fatto.
L’attacco di “Next Exit” è davvero diverso. Non te lo aspetteresti mai come apertura del secondo disco, dopo aver sentito Bright Lights ... Questo è un ottimo punto. E tutti noi eravamo concordi, “Non penso che le persone sappiano che noi siamo anche questo, questo mood un po’ più leggero, all’americana.” Ma allo stesso tempo, lo sentivamo molto vicino a noi e autentico. Inoltre, all’epoca, pensavamo che la track iniziale fosse fondamentale e con questa traccia volevamo mettere in chiaro le cose, questo secondo disco è diverso dal primo, per far capire alla gente che non volevamo rinchiuderci in una piccola scatola. Non volevamo farlo, volevamo rimanere fedeli a noi stessi, come artisti.
Questo articolo è apparso originariamente su Noisey US.
Ogni volta che c’è qualche occasione per parlare dei Necks (nuovo album, tour…) mi ritrovo a scrivere le stesse cose.
Cioè che sono uno dei gruppi in attività più incredibili del mondo. Che sono un trio australiano di impro-post-jazz (se proprio vogliamo stare a dare delle definizioni) e che a parte la colonna sonora The Boys che mi piace di meno, per me tutto quello che hanno fatto è incredibile.
Quindi che potete cominciare ad ascoltarli più o meno dove vi pare, che dove beccate beccate bene. Che i loro album sono quasi sempre composti da un unico pezzo di circa un’ora; che potreste per esempio partire da un qualsiasi disco contenuto nel Necks Box (soprattutto Drive By, Aether o Silverwater), da Vertigo uscito un paio di anni fa, o dal penultimo Unfold. Che si tratta di lavori molto vari e estremamente diversi tra loro, che non sono uno di quei gruppi che ha trovato una formula e resta legato a quella. Che hanno fatto dischi quasi kraut, dischi rumorosi e dischi iper-minimali; che sono uno dei migliori gruppi sulla piazza eppure se li cagano giusto quelli che seguono un certo ambiente. Che vi invito a non fare lo stesso errore: vi invito a entrarci, ascoltarli e amarli.
Questa volta inoltre posso consigliarvi di partire da un nuovo album: si chiama Body, è appena uscito e rientra nella categoria “un unico pezzo da circa un’ora”. È bellissimo e, seppur parta super minimale, poi ha un’esplosione rock che mi ha ricordato i Can. Tutta la critica lo sta già descrivendo come uno dei loro lavori migliori, e sarebbe bello se un po’ di gente in più del solito cominciasse ad accorgersi di loro.
Inoltre il 14 ottobre suoneranno in Italia, a Forlì, e chiunque li abbia mai visti dal vivo parla di un’esperienza imperdibile. Sapete cosa fare.
Benvenuti a una nuova puntata di "rapper si fanno arrestare per cose stupide". Il protagonista dell'episodio di oggi è il solo e unico Lil Pump, cioè l'uomo che tutti vorremmo essere anche solo per un giorno così da poter dire ESKEREEE senza sentirci, in fondo, un po' sciocchi. Ad ogni modo, come riporta TMZ il piccolo Pump ha avuto un incontro ravvicinato con la polizia a Miami, nel pomeriggio di mercoledì.
Lil Pump, che ha compiuto da poco 18 anni, stava guidando una Rolls-Royce nera quando è stato fermato per un controllo da una pattuglia. Gli agenti hanno deciso di fermarlo perché, dopo un veloce controllo, si sono accorti che la targa della sua vettura apparteneva a una modesta Mini Cooper. Una volta fermato, Lil Pump ha risposto al più canonico dei "patente e libretto" con l'affermazione più-da-rapper-giovane-che-guida-una-Rolls-Royce-nera che poteva pronunciare: "Io non ho mai avuto una patente".
Risultato? Come potete vedere da queste fotografie, un paio di manette e un salto in commissariato. Fortunatamente Lil Pump è un giovane rapper ricchissimo, quindi è già stato rilasciato e gli è stata semplicemente fatta una multa. Guardate come sorride nella sua foto segnaletica qua sopra. Quella non è la faccia di un uomo preoccupato. È la faccia di un uomo che risponde "non ho mai avuto la patente" a una richiesta di patente con la stessa naturalezza con cui si asciuga il sedere dopo aver fatto la cacca. Di un uomo che, come ha confermato TMZ, non dovrà nemmeno presentarsi in tribunale.
Quindi è tutto bene quel che finisce bene e, mi raccomando, ricordatevi che "non ho mai avuto la patente" non è una giustificazione che noi poveri plebei possiamo utilizzare con le forze dell'ordine.
Un paio di settimane fa Clark Kent, un influente DJ e produttore nel cui curriculum figurano collaborazioni con artisti del calibro di Biggie, Lil' Kim e 50 Cent, ha leakato una nuova canzone che Kanye West aveva scritto assieme a lui. Si intitolava "XTCY", cioè "Ecstasy", ed era presto scomparsa da internet. Ora la canzone è arrivata su tutte le piattaforme di streaming e... è terribile. Almeno, il testo è terribile.
Prima dell'estate, Kanye ha pubblicato ye, un album capace di essere tanto affascinante quanto preoccupante. Leggendo i suoi testi tradotti in italiano si ottiene l'immagine di un uomo problematico: da un lato, Kanye trova forza nella condivisione parlando pubblicamente dei suoi problemi psichiatrici, dei suoi pensieri suicidi e del suo abuso di droghe e farmaci, ringraziando Kim per essergli stata accanto. Dall'altro, se ne esce con idee disturbanti; dice di aver pensato di uccidere (sembra) sua moglie, consiglia a sua figlia di "non vestirsi come la mamma" e di "non fare yoga e pilates" perché sennò gli uomini si approfitteranno di lei.
Ecco, "XTCY" vira a 180 gradi. Il brano si basa su un sample di "My Bleeding Wound" dei The New Year, un vecchio brano semi-sconosciuto ripubblicato in una compilation di soul elettronico prodotto tra il 1974 e il 1984. "Ecstasyyyy", dice la voce campionata su cui Kanye mette le sue parole. Parole che sembrano fatte apposta per far arrabbiare chi aveva cominciato a prendere sul serio le sue opinioni.
Fai pensieri proibiti? Io ne ho di più! Hai una cognata che ti scoperesti? Io ne ho quattro! "Cazzo, sono tue sorelle! Che hai fatto, ti sei segato su quelle foto? Ti dovrebbero mettere in prigione!" Nah, prendiamoci una vasca idromassaggio più grande!
Insomma, se pensavate che i commenti di vostro zio sulla vostra fidanzata al pranzo di Ferragosto fossero imbarazzanti, potete consolarvi pensando al clima che ci sarà alla prossima cena di famiglia a casa Kardashian-West. Ma continuiamo:
Fai pensieri proibiti? Io ne ho di più! Ti ricordi quelle bitch che hai scopato? Io le ho filmate! Lei dice "fanculo l'erba" perché ama l'ecstasy. Se succhia seme, è un successo! Se viene, è un'orgia! E prenderemo il massimo al test antidroga!
Non c'è niente di strano nel sentire un rapper dire cose simili, ma nel caso di Kanye vantarsi di aver filmato delle "bitch" non è un'ottima idea. Come aveva raccontato in "Real Friends", un cugino gli rubò un portatile su cui c'erano video di lui che "scopava tipe" e lui gli diede 250.000 dollari per riaverlo. Quindi, sappiate che se volete dei soldi facili potete tuttora tranquillamente ricattare Kanye. Ma ricordatevi di lasciargliene abbastanza per pagare gli alimenti a Kim.
Concludiamo con l'ultima strofa. Dopo un breve intermezzo in cui riprende "Lift Yourself", cioè il pezzo uscito subito prima di ye in cui faceva versi a caso prendendo in giro chi lo aveva criticato per il suo supporto a Trump e la sua "libera espressione", Kanye parla di escort.
Fai pensieri proibiti? Io ne ho di più! Eeeeeh? Scoop! Vedi quelle escort? Le ho scortate! Mentre eravate tutti fatti, le ho portate al mio resort! E poi le ho mandate via, mi hanno annoiato!
Anche qua, Kanye decide di dedicarsi a giochetti di parole più scorretti possibile per farci gridare allo scandalo o per ricordarci che alla fine, a parte tutte le chiacchiere, è pur sempre un gran stupidone che di lavoro fa il buffone sul palco.
"Ho pensato a tutto questo sotto ecstasy", dice alla fine dell'ultimo ritornello, e perché non credergli? Pare che anche questa volta si sia divertito. "XTCY" sta rastrellando i suoi naturali ascolti. E noi siamo sempre qua a chiederci se ci fa, ci è e se gli piacciono i bastoncini di pesce.
La vera storia è fatta di piccole cose, di atti quotidiani, di persone senza nome. Ma a nessuno frega un cazzo di queste cose. A noi piacciono i fuochi artificiali, gli eventi unici.
Tipo il primo provino di Bruce Dickinson come sostituto di Paul Di Anno da cantante degli Iron Maiden nel 1981. Seppur Steve Harris e il resto della band conoscessero già molto bene Bruce Dickinson e il suo lavoro con i Samson, e questa audizione non sia stata tanto di più di una prima prova tra amici, il fatto che qualcuno ne abbia caricato tre canzoni su YouTube, facendoci entrare per dieci minuti in quella saletta puzzolente (erano pur sempre giovani metallari inglesi) ci dà un'emozione incredibile. Per non parlare del fatto che Bruce sembra davvero determinato a non farsi sfuggire l'opportunità, regalando alla band e a noi una performance da annali del metallo di "Killers", "Twilight Zone" e "Wrathchild".
Il video è stato caricato su YouTube nel 2013, ma è stato riportato in superficie pochi giorni fa da MetalSucks e ci ha talmente spaccato il cervello che abbiamo pensato di condividerlo con voi. Tra l'altro, curiosità: se guardate il video, fra le annotazioni troverete un link a una registrazione del primo concerto di Bruce con i Maiden, che, per una di quelle buffe coincidenze che non hanno alcuna importanza nella storia ma luccicano e ci fanno fare "ooh", si è svolto a Bologna.
C'è chi considera il 31 agosto l'ultimo giorno dell'anno, e per queste persone il 2018 è finito con il botto. È venerdì, davanti a noi abbiamo un ultimo weekend di vero delirio prima di tornare ai ritmi post-estate, e c'è una bella infornata di nuovi album da ascoltare. Talmente tanti, che forse nel casino ve ne siete perso uno.
Infatti è uscito questa notte il primo vero album del progetto Big Red Machine, fondato ormai una decina d'anni fa da Justin Vernon (Bon Iver) e Aaron Dessner (The National) come valvola di sfogo creativa lontana dai riflettori. Il disco è omonimo, uscito per Jagjaguwar e si avvale della collaborazione di qualche membro dei Mouse on Mars e dei National. C'è dentro molta elettronica. Anche l'autotune.
Potete ascoltare Big Red Machine su Spotify, ecco, ve lo mettiamo qua sotto:
Come abbiamo dimostrato arrivando in novantamila a vederlo dal vivo a Milano lo scorso luglio, noi italiani proviamo ancora un certo affetto per Eminem. C'eravano anche noi con Vegas Jones e Boston George, tra i tanti. Sarete quindi probabilmente molto felici di sapere che a mezzanotte è comparso su tutti i servizi di streaming Kamikaze, il suo nuovo album, arrivato completamente a sorpresa.
Ora: smettete di saltellare per la vostra stanzetta, mettete giù la motosega che avete afferrato con gesto sicuro e fate un lungo respiro. Ecco tutto quello che dovete sapere prima di lanciarvi ad ascoltarlo.
EMINEM FA I NOMI DI CHI GLI PIACE (WAYNE! KENDRICK!) E DI CHI NON GLI PIACE (LIL YACHTY! LIL PUMP!)
Kendrick Lamar ed Eminem, amici per la vita.
Le parole con cui si apre "The Ringer", il primo pezzo di Kamikaze, mettono subito in chiaro l'approccio che Eminem ha tenuto per questo nuovo progetto: "Yo, scriverò le prime cose che mi vengono in mente, vediamo dove andremo a finire. Che ho voglia di prendere il cazzo di mondo a pugni in faccia, ora come ora". Nel corso della sua prima strofa Eminem se la prende con Vince Staples, che lo aveva accusato di avere fatto un freestyle mediocre, e grida il suo schifo per i media che hanno parlato male del suo album sbattendogli in faccia i milioni e milioni di views e ascolti che ha fatto (il tutto con classe e citando "Renegade", un suo vecchio featuring con Jay Z). E poi:
Capisco perché c'è gente a cui piace Lil Yachty e a cui non piaccio io. Non è nemmeno un diss! Non è roba per me. Io sono solo, semplicemente, un MC. Forse "Stan" non è roba che fa per voi. Forse il vostro bicchiere è pieno di sciroppo e di lean, Forse devo mischiare 'sta merda, ma se fosse per me farei tremare il mondo!
Revival conteneva già un pezzo in cui Eminem se la prendeva con i cosiddetti mumble rappers, "Chloraseptic": ma se allora si trattava più che altro di un generico attacco ai flow tutti smangiati e alla ripetitività, qua Eminem comincia a fare nomi e a mettere in chiaro il valore che dà alla sua tecnica e al valore culturale della sua musica. L'opposizione "mischiare 'sta merda" / "farei tremare il mondo" presenta due diverse concezioni del fare-musica, e lo fa in maniera decisamente convincente.
Nel resto del brano, Eminem nomina Joyner Lucas, Kendrick Lamar, J. Cole e Big Sean come esempi di rapper al suo livello e riconosce l'importanza di Lil Wayne come unica vera fonte a cui si sono abbeverati i giovani artisti d'oggi. Anche qua, Eminem fa nomi: Machine Gun Kelly, Iggy Azalea, Lil Pump e Lil Xan.
C'È BON IVER! SU "FALL", UNA CANZONE IN CUI EMINEM TIRA IN MEZZO I MIGOS E DRAKE!
Eminem e Drake in una foto promozionale del 2016.
Con Kamikaze, Justin Vernon aka Bon Iver continua la sua lenta scalata ai vertici dell'hip-hop americano e, probabilmente, è quasi arrivato alla vetta. Fu Kanye West a chiamarlo - lui, un barbuto cantautore poliedrico del Wisconsin dal falsetto sfasciacasse, scoppiato per un album piovoso e freddo e struggente, e per la semplice complessità di "Skinny Love"- a lavorare al suo capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy. Da allora, Vernon è diventato uno degli uomini fidati di West e si è concesso anche una collaborazione con Vince Staples sul suo capolavoro Big Fish Theory. Qua compare su "Fall", cantando il ritornello.
La sua voce, istantaneamente riconoscibile, scioglie un po' di miele nel caffè amaro che sono le parole di Eminem. Il pezzo è un'altra dichiarazione di orgoglio e integrità contro chi lo ha criticato negli ultimi tempi con un po' di ceffoni alla scena attuale buttati in mezzo con cura certosina:
Se sto rispondendo tardi è perché mi ci vuole tempo A rendermi conto di voi, ecco quanto sto lontano. 'Sti rapper sono tipo Hunger Games, Un attimo e stanno prendendo per il culo Jay. E un attimo copiano lo stile dai Migos, e poi da Drake.
Il collegamento tra Hunger Games e il verso successivo è intraducibile: il primo libro della celebre serie, "Il canto della rivolta", in originale si chiama Mockingjay (che è un uccello, la ghiandaia). Eminem divide la parola in due, così da ottenere "prendendo per il culo Jay". Eminem ha leggermente a cuore l'integrità e l'originalità e non risparmia parole per nessuno; in un certo senso nemmeno per chi rispetta, come i Migos. A fine pezzo, infatti, strizza l'occhio all'uso del termine "Culture" per riferirsi all'hip-hop, reso popolare proprio dal trio di Atlanta con i loro ultimi due album:
Non parlatemi della cultura! Io ho ispirato gli Hopsin, i Logic, i Cole, gli Sean, i Kendrick, i 5'9 e... Oh, ho portato 50 Cent al mondo!
E insomma, è difficile dargli torto.
L'ARTWORK È UN OMAGGIO A UN CLASSICO DELL'HIP-HOP, LICENSED TO ILL DEI BEASTIE BOYS!
La copertina di Licensed to Ill.
Licensed to Ill dei Beastie Boys, pubblicato nel 1986, fu il primo album rap a ottenere enormi risultati di critica e pubblico negli Stati Uniti. Fino a quel momento l'industria discografica non aveva mai dato troppo peso alla nascente cultura hip-hop, ma i Beastie Boys - insieme ai Run D.M.C., che quell'anno uscirono con Raising Hell - dimostrarono al mondo intero che le rime e i beat potevano diventare qualcosa di enorme.
Particolarità: i Beastie Boys erano bianchi, ebrei e provenivano da un contesto mediamente privilegiato. Nonostante questo ottennero consensi anche dalla comunità hip-hop afroamericana, affermandosi tra i grandi padri del genere. Contesto sociale a parte il loro fu un percorso simile proprio a quello di Eminem, la cui pelle bianca non lo aiutò particolarmente all'inizio della sua carriera ma fu di enorme importanza per costruire la narrazione che ne consacrò l'affermazione a livello mainstream.
C'È "GREATEST", UN PEZZO CHE OMAGGIA "HUMBLE" DI KENDRICK LAMAR E "WOKEUPLIKETHIS*" DI PLAYBOI CARTI!
In mezzo alla mitragliatrice che è il flow di "Greatest", il secondo pezzo dell'album, a un certo punto Eminem si trasforma in Kendrick Lamar. Nello specifico, nel Kendrick Lamar di "HUMBLE":
Revival non è diventato virale! Denaun e Royce mi dicono che dovrei fare la cosa giusta. Fanculo, risponderò a ogni colpo finché non finirò la polvere da sparo e avrò spaccato in due la scena!
Eminem riprende il "My left stroke just went viral! / Right stroke put lil' baby in a spiral" di "HUMBLE" per sottolineare quanto non gli siano andate giù le critiche al suo ultimo album Revival, citando le parole dei suoi amici e consiglieri Royce da 5'9 e Denaun "Mr." Porter. Lo fa per riconoscere la loro importanza, ma anche per mettere in chiaro che non ha la minima intenzione di ascoltarle.
Nel ritornello, inoltre, c'è una piccole ripresa del flow di Playboi Carti in "wokeuplikethis*" con Lil Uzi Vert: un segno che in fondo Eminem non ha scelto di tapparsi le orecchie ogni volta che un giovane rapper apre bocca.
SECONDO IL MANAGER DI EMINEM, KAMIKAZE NON ERA UNA BUONA IDEA
Paul Rosenberg ed Eminem in una foto d'epoca.
"Paul - Skit" è la registrazione di un messaggio che Paul Rosenberg, il manager di Eminem e co-fondatore della sua etichetta Shady Records, ha lasciato nella sua segreteria. La sua opinione?
Ho ascoltato il nuovo album. Davvero vuoi metterti a rispondere a tutte le cose su di te o sulla roba a cui stai lavorando che non ti è piaciuto sentire? Voglio dire, forse non è una buona idea. Tipo, dopo che farai? Kamikaze 2, l'album in cui rispondi a tutti quelli a cui non è piaciuto l'album che avevi fatto per rispondere a quelli a cui non era piaciuto l'album prima?
Fortunatamente Eminem ha inserito nell'album anche la sua risposta, "Em Calls Paul - Skit", in cui dice al suo manager che non ha intenzione di rispondere a tutte le persone che hanno qualcosa da dire su di lui, ma che ci sono certi commenti di Revival che lo fanno incazzare. Tra cui quello di un tizio che lo ha criticato per una rima sbagliata senza rendersi conto che in realtà Eminem stava rimando l'intera frase. Al che uno dice, non c'è poi da incazzarsi tanto. Ma non essendo noi i rapper più famosi del mondo forse, dico forse non abbiamo idea di come ci si senta a vedere il proprio lavoro sezionato, studiato e criticato da milioni di persone.
Quando ero piccolo, i tatuaggi in faccia erano una roba da pazzi. Ciccioni da stadio che non ci mettevano niente a spaccarti la testa. Mike Tyson. Quel tizio all'università che era riuscito a costruire una macchinetta per tatuaggi con uno spazzolino elettrico e l'aveva testata sulla sua stessa fronte.
Poi, con l'ascesa di un certo sottogenere musicale negli ultimi anni, il contesto è cambiato. Improvvisamente, i tatuaggi in faccia non erano più soltanto per duri. Erano anche il simbolo di una nuova generazione di artisti rap: pieni di Xanax, completamente apatici e potenzialmente problematici. Lil Peep (RIP) si era fatto scrivere "Cry Baby" ("Piagnone") sopra il sopracciglio destro. 21 Savage ha risposto a una domanda sul suo tattoo con "issa knife", dando vita a un nuovo meme. Lil Uzi Vert, Lil Xan, Lil Pump, Trippie Redd, 6ix9ine... e potrei andare avanti.
Il più famoso di tutti, però, è Post Malone. Prima di tutto bisogna dire che Posty è la cosa più distante possibile dallo storico portatore di tatuaggi facciali. È paffuto come un orsacchiotto. La sua musica è oggetto di adorazione ("Rockstar" l'anno scorso ha raggiunto il numero uno su Billboard) e di disprezzo, come è lecito aspettarsi dal successo di un artista bianco in un genere a maggioranza nera.
Post non è il primo e unico rapper con i tatuaggi in faccia a scalare le classifiche. Lil Wayne ci era riuscito nel 2008 con "Lollipop", ed è la sua particolare immagine fatta di dread troppo lunghi, grill e numerosi tatuaggi che ha servito da principale ispirazione per questa nuova generazione di rapper, basta guardare questo meme che spiega "Come diventare un rapper famoso nel 2018". Ma con la sua visibilità in costante crescita, Post Malone è una delle figure più famose del movimento dei tatuaggi facciali, ancora più di Wayne. Abbiamo raggiunto il punto in cui si possono comprare dei trasferelli dei suoi vari tatuaggi, come questi:
Un sito chiamato Post's Tattoo Parlor vende i tatuaggi qua sopra, che riproducono esattamente le opere che adornano il tenero visino barbuto di Posty. Non mi farò mai un tatuaggio in faccia, ma siccome il mio editor voleva qualcuno che affrontasse la realtà della vita con i tatuaggi di Post in faccia, mi sono fatto applicare questi trasferelli in un durissimo martedì mattina in ufficio.
Quando gli è stato chiesto il significato dei suoi tatuaggi facciali, che includono le parole "STAY AWAY" e "ALWAYS" sulla sua guancia sinistra, Post ha risposto che avrebbe fatto "qualunque cosa per far incazzare mia madre". Il che a) è esattamente un ragionamento da 23enne immaturo quale lui è e b) ha fatto incazzare anche me, perché non c'è nulla che quel giorno volessi di meno che girare per il centro di Londra con la faccia piena di scarabocchi.
Come me, Post Malone è un tipo piuttosto mediocre a cui è capitato di ottenere un buon numero di follower su Twitter. Ma per darvi un po' più di contesto, ecco alcuni dati:
È nato a Syracuse, cresciuto a Dallas e si è interessato alla musica dopo aver giocato troppo a Guitar Hero II. Quando ha finito le superiori si è trasferito a Los Angeles in una casa piena di YouTuber e gamer, dalla quale trasmetteva le proprie sessioni di Minecraft in live streaming. Nei primi anni Dieci ha postato delle cover di Bob Dylan online. In maniera simile a Donald Glover, il suo nome proviene da un generatore automatico online. Ma mentre Glover ha lavorato per anni come Childish Gambino prima di esplodere nella coscienza collettiva con il suo terzo album ( Awaken, My Love, 2016), Malone ha goduto di un'ascesa alla fama accelerata grazie al successo del suo singolo del 2015 "White Iverson".
Nello stesso modo in cui si sarebbe poi sviluppata tutta la sua carriera, "White Iverson" è stato oggetto di tante lodi quante prese in giro. "Lmao io sono un uomo adulto, voi divertitemi con quella roba", ha twittato Earl Sweatshirt. Da qualche parte, magari nella profonda provincia inglese, un adolescente di classe media nel frattempo comprava dei grill.
Dopo averlo conosciuto al 18esimo compleanno di Kylie Jenner, Malone è stato invitato a registrare con Kanye West, registrazioni i cui frutti sono apparsi sulla traccia "Fade", su The Life of Pablo. A questo sono seguiti featuring con 50 Cent, Justin Bieber e Young Thug. Sembrava che essere Post Malone fosse facile, un'ipotesi che lui ha voluto smentire in un'intervista con GQ, nella quale sosteneva che "è una lotta essere un rapper bianco".
Un altro dato:
Non è divertente portare i tatuaggi facciali di Post Malone in pubblico. È proprio roba da "ti prego Terra inghiottimi".
Non inaspettatamente, la gente ti guarda in modi diversi dal solito. Modi che ti ricordano immediatamente che hai dei tatuaggi in faccia. Davvero, a parte il valore artistico che è soggettivo, farsi dei tatuaggi del genere è una questione di avere o meno un certo gusto per sentirsi dei reietti.
Comunque, ho stretto i denti e continuato la mia giornata tipo:
Ho comprato un panino da Pret, carburante per tutta la strada che avrei dovuto fare a piedi.
Ho letto qualcosina in biblioteca, per farmi una cultura.
Sono stato al museo, per imparare la storia.
Ma tutte queste esperienze, a causa dei tatuaggi, sono state un po' meno divertenti del solito. Era come se avessi un riflettore sempre puntato su di me, ogni sguardo puntato nella mia direzione. Mi è venuto in mente Hostgator Dotcom, il tizio che si era fatto tatuare in faccia la pubblicità di alcuni siti porno per soldi, e ho pensato a quanto dovesse essere disperato per accettare di andare in giro con DrFreak.com in fronte. Non si era fatto quei tatuaggi per far incazzare sua madre; l'aveva fatto per non far finire i propri figli sulla strada dopo aver perso il lavoro a causa della crisi economica.
Storicamente, i tatuaggi facciali sono radicati in qualcosa di più di semplice estetica. Tatuaggi da prigione o da gang sono spesso usati come segnale di carica o tipo di crimini commessi. Il popolo indigeno Maori della Nuova Zelanda si marchia con il tā moko, un notevole tatuaggio di solito a forma di spirale. Anche all'interno della cultura del tatuaggio, il tatuaggio in faccia può essere usato per indicare una passione a vita per l'arte del tatuaggio, lasciando il viso come ultima parte del corpo da coprire.
Post Malone è diverso, perché i suoi tatuaggi sembrano essere lì soltanto per stile.
Post ha coltivato un'estetica che sembra allo stesso tempo povera e ricca. Una barba incolta che sembra fatta per essere coperta di latte, e vestiti da rivista di moda. I tatuaggi hanno un effetto simile, perché hanno il potenziale di presentare Post come una persona dal passato diverso da quello che ha effettivamente vissuto. O forse non è così complicato e gli piacevano semplicemente i disegni e io sono tutto acido perché ho dovuto passare una giornata con una spadina disegnata sulla faccia.
Non è che voglia parlare male dei tatuaggi facciali, sono già pesantemente stigmatizzati e tutte la gente che ho conosciuto che ne aveva era tanto gradevole quanto qualunque altra persona. È che la selezione di Post risulta circa di 180 gradi più esagerata di quanto dovrebbe essere. Questi sono, perlopiù, tatuaggi davvero strani da piazzarti in faccia.
Chissà, forse questo è l'inizio di un grande movimento tellurico nel mondo dei tatuaggi facciali. Forse, nel 2049, saranno associati più a piscialetto che a duri di strada e saranno comuni quanto le punte dei capelli decolorate. È una buona previsione per il futuro? Suppongo dipenda da quanto ti interessano le facce delle altre persone.
Tornando a Post Malone, lui è sempre stato uno strambo; è questo che attira il suo pubblico. I tatuaggi in faccia sono un'estensione di questo: simboleggiano il suo desiderio di farsi notare ed essere come tutti gli altri allo stesso tempo. Quello che è forse più peculiare è che puoi comprare questi trasferelli, provare la sensazione di avere un tatuaggio in faccia e poi lavarli via come se nulla fosse mai accaduto. Provali, e magari penserai a un sacco di cose, al contesto di tutta questa storia. O forse non penserai a niente. Post Malone per esempio non lo fa, finché non è ora di chiedere scusa.
Lo zoo di Ernia si arricchisce di un nuovo ospite e dopo l'usignolo e il puma arriva il re della giungla Simba. Il rapper milanese surfa le onde di un beat sexy e minimale con un flow giocoso che cambia registro e accento in continuazione, facendo ben sperare per il seguito di Come Uccidere Un Usignolo.
NENEH CHERRY - "SHOT GUN SHACK"
Con questo singolo Neneh Cherry annuncia il nuovo album, come il precedente prodotto da Four Tet, intitolato Broken Politics. Secondo il comunicato stampa, sarà un disco "più tranquillo e riflessivo" e pervaso da un messaggio politico filtrato attraverso la sensibilità personale della cantante. Nel frattempo con questa "Shot Gun Shack" ci ha regalato 4 minuti emozionanti, vellutati e pieni di groove.
Stavo per scrivere che Danny Brown è impazzito e poi mi sono messo a ridere per aver pensato una tale stupidata. Che Danny Brown sia completamente fuori di melone lo sappiamo ormai da secoli, e un'altra cosa che sappiamo è che il suo Atrocity Exhibition del 2016 è uno dei dischi migliori del rap più recente. Ultimamente Danny è andato in fissa con la piattaforma di livestreaming Twitch, così ha pensato di fare un regalo ai suoi fan e follower e far ascoltare il suo nuovo mixtape esclusivamente durante una sessione di live gaming online. Poi è saltato fuori che i nove pezzi del mixtape contenevano dei sample per cui non era stata pagata la licenza e questo è il motivo per cui non è uscito ufficialmente. Ma poi pare che il problema sia stato risolto e il mixtape, intitolato Twitch EP, è stato caricato per lo streaming e il download gratuiti sulla piattaforma Datpiff. La musica che contiene è, naturalmente, roba da scoppiati totali. Il mix è approssimativo, i testi incomprensibili, i beat duri come il cemento: insomma, il Bowser del rap nel 2018, se ti piace questa roba totalmente surrealista e senza scrupoli vuol dire che non c'è cloud, mumble o lo-fi che ti possa spaventare.
Dopo aver passato un periodo di relativo silenzio Young Signorino è, come si suol dire oltremanica e oltreoceano, on fire. Solo una settimana fa ha pubblicato "Coma Lover", un pezzo che parlava rischiosamente di depressione e ci aveva fatto venire in mente una domanda. Era la prima volta che Signorino si presentava come essere umano e non come un personaggio diabolico: quali sarebbero state le conseguenze per la sua carriera?
Raggiunto il mezzo milione di views, però, un colpo di scena: qualcuno ha cancellato il video ufficiale del pezzo da YouTube. In una storia ora scomparsa, Signorino ha espresso la sua sorpresa a riguardo e ha promesso che verrà presto ricaricato, senza però spiegare nel dettaglio l'accaduto.
Ancora scosso dalle onde di questa mini-controversia, Signorino si è trovato all'improvviso in un ciclone tropicale. All'improvviso Dua Lipa, cioè una delle popstar più famose del mondo, ha condiviso nelle sue storie, e quindi con i suoi quasi 18 milioni di follower, il video di "Mmh ha ha ha" dicendo di essere "seriamente innamorata" della canzone. Un endorsement tanto inaspettato quanto interessante che va a confermare quanto quella canzone, nella sua assurdità, generi opinioni forti e discussioni accese - anche al di fuori dell'Italia.
La settimana del Signorino si è però conclusa con un'altra sorpresa. Il nostro ha aperto un profilo su SoundCloud, ha chiesto ai suoi follower di seguirlo anche lì e dopo un po' ha pubblicato un nuovo pezzo. Si chiama "TAXI PUNK", lo potete ascoltare qua sotto. Sappiate che è forse il più strano e difficile da ascoltare che pubblica da qualche tempo a questa parte, almeno da quando ha cominciato ad avere un team dietro e dei video ufficiali. Sembra di ascoltare una versione malata dei suoi primissimi pezzi, quando non faceva altro che gracidare parole generando una sensazione di alienazione nell'ascoltatore.
Durante il mese di agosto 2018 nel gruppo Facebook di Chiamarsi MC, una delle community rap più grandi e influenti d'Italia, hanno cominciato a comparire post in cui si parlava di "canzoni in 8D", sotto a cui comparivano in egual misura post confusi e sinceramente esaltati. Dato che una ricerca su Google del termine non porta grandi risultati, ho pensato di analizzare la questione e capire bene che cos'è la musica in 8D e, soprattutto, perché così tante persone ci stanno uscendo pazze. Spoiler: non è niente di scientifico e vi state tutti auto-convincendo di qualcosa che non c'è.
Prima di cominciare a leggere, vi consiglio di ascoltare una canzone in 8D così da farvi un'idea di quello di cui stiamo parlando. Qua sotto trovate una versione in 8D di un grande successo di questo 2018, "Lucid Dreams" di Juice WRLD. C'è una condizione: dovete ascoltarla con un paio cuffie, preferibilmente se di buona qualità. D'altro canto è il video stesso a consigliarvelo.
Sotto al video i commenti danno un'idea delle reazioni medie ai pezzi in 8D: "Fratello, è come se la musica mi avesse attraversato la testa"; "Anche a voi sembra di avere la stanza piena di casse?"; "Il suono sembra venire da uno stanzone vuoto"; "Questo pezzo mi sta letteralmente girando attorno alla testa". Nel momento in cui scrivo il canale che lo ha caricato, 8D TUNES, ha un milione e mezzo di iscritti.
In teoria, secondo questi commenti, ascoltare musica in 8D sarebbe ricreare nella propria testa l'esperienza di un impianto audio composto da più casse posizionate in punti diversi della stanza. La mia personale impressione, maturata ascoltando video come quello qua sopra con cuffie di buona qualità, è che si tratti solo di brani in cui il suono viene "pannato" da destra a sinistra, creando una sensazione di cerchio ("Pannare", dall'inglese "to pan", significa distribuire il suono all'interno del campo stereo; semplificando, si tratta di decidere da dove far provenire all'orecchio i suoni che sentiamo quando ascoltiamo una canzone).
Come spiega un utente di Quora, il termine "8D" non ha in realtà alcun senso. Innanzitutto il fatto che viviamo in un mondo tridimensionale rende piuttosto difficile concepire una dimensione in più. Ci sono diverse tecniche sviluppate negli anni per riprodurre in cuffia l'esperienza uditiva dell'orecchio umano: una delle più celebri è Ambisonics, sviluppata a partire dagli anni Settanta e oggi applicata principalmente alle esperienze in Realtà Virtuale.
Mentre tradizionalmente, per tecniche come il Dolby Surround, il suono viene suddiviso in diversi segnali - da questa cassa esce questo, da quest'altra esce quest'altro - la tecnica Ambisonics permette all'ingegnere del suono di lavorare su una sorta di "campo sonoro" o "sfera sonora" che viene poi suddivisa nel setup dell'ascoltatore. È un'altro approccio alla cosiddetta "registrazione binaurale", cioè quella pensata per farvi sentire al centro di una cosa che sta succedendo, come in questo audio in cui vi trovate dal barbiere. Il che è tutto molto bello, ma a meno che ascoltiate la musica con un Oculus Rift probabilmente non è roba che vi interessa davvero.
A chi si è lasciato ammaliare dal termine "8D" tutto questo non sembra importare. Diversi iscritti a Chiamarsi MC hanno cominciato a caricare su YouTube versioni in 8D di pezzi rap italiani, ottenendo reazioni entusiaste nei commenti. Qua sopra potete ascoltare una di quelle che sembrano andare (relativamente, data la dimensione del fenomeno) per la maggiore: "Il ritorno delle stelle" di Dargen D'Amico con Tedua, Rkomi e IZI. Sinceramente, sembra solo una versione cavernosa dell'originale, ricoperta di riverbero.
In alcuni casi i pezzi sono decisamente amatoriali, come in questa versione di "OGNT" di Sfera Ebbasta in cui il suono passa semplicemente da destra a sinistra, creando un senso di disorientamento nell'ascoltatore. Nonostante diverse persone facciano notare la cosa, c'è comunque chi commenta entusiasta: "è rilassante, soprattutto se ti sdrai sul letto e chiudi gli occhi"; "sembra di non avere su le cuffie e di trovarsi ad esempio in un concerto".
Sembra di trovarsi di nuovo di fronte a una grande operazione di auto-convincimento collettivo simile a quella delle cosiddette "droghe sonore" che, acquistate alla modica cifra di 17 dollari a traccia o ascoltate su YouTube in qualità discutibile, avrebbero avuto diversi effetti sulla psiche dell'ascoltatore. Il fenomeno si collocava (e colloca) nel vasto, caotico e ascientifico mondo dell'ASMR, cioè quell'insieme di pratiche simil-sinestetiche pensate per stimolare il cervello dell'ascoltatore.
Citando le parole sul tema di Tom Stafford, un professore di psicologia e scienze cognitive dell'università di Sheffield, l'ASMR "può anche essere una cosa realmente esistente, ma è [al momento] intrinsecamente difficile da ricercare... è una cosa che non puoi vedere, o provare, e non succede a tutti". Probabilmente lo stesso vale per tecniche di ascolto immersivo come l'8D, già complesse da praticare e sperimentare per ingegneri del suono, impossibili da apprendere in poco tempo usando una copia craccata di Ableton.
Morale: la musica in 8D è una grande illusione collettiva e usare degli effetti su delle tracce già registrare in stereo non è "il futuro" o "una rivoluzione". È solo un passatempo a cui potete tranquillamente prendere parte. Altrimenti potete acquistare dei costosissimi setup, trovare le tracce separate dei pezzi da cui vi volete sentire circondati, passarle a un ingegnere del suono e pagarlo perché ve le renda effettivamente qualcosa di simile a un pezzo che vi arriva addosso da tutte le direzioni.
Venerdì scorso Eminem ha pubblicato a sorpresa un nuovo album, Kamikaze. L'editoria online ha tempi molto brevi e quindi, quando mi sono trovato a scriverne una breve guida all'ascolto, ho colpevolmente mancato di notare una parte problematica del testo di "Fall", la sua collaborazione con Bon Iver. Nel pezzo, Eminem dice:
Tyler non ha creato nulla, mi rendo conto del perché ti sei dato del fro**o, stronzo Non è solo perché non ricevi abbastanza attenzioni È perché veneri le palle dei D12, sei sac-rilego Se mi vuoi criticare devi almeno essere bravo come me, o più bravo di me
Il "sac-rilego" è un gioco di parole su "ball sack", "scroto" in inglese. Eminem sta rispondendo a un tweet di Tyler del 2017 in cui criticava "Walk On Water", il pezzo con cui si apre il suo album Revival.
Screenshot del tweet in questione.
"Dio, questa canzone è orribile, che cazzo?", aveva scritto Tyler. Come fa notare l'annotazione del testo su Genius, Tyler in passato aveva parlato positivamente di Eminem e dell'influenza che aveva avuto su di lui. Aveva detto di amare il suo album del 2009, Relapse, e Slim Shady aveva dimostrato di aver apprezzato le sue parole rappando "Sono una combinazione di Skylar Grey, Tyler the Creator e Violent Jay" su "Wicked Ways", pubblicata nel 2013.
Non è la prima volta che Eminem usa la parola "faggot", cioè "fr**io", nei suoi testi. Ai tempi del Marshall Mathers LP 2 aveva rilasciato un'intervista in cui giustificava così l'uso del termine nei suoi nuovi pezzi "Rap God" e "Bad Guy":
"Era come dare a qualcuno della puttana, dello sfigato o dello stronzo ["bitch", "punk" e "asshole", nda]. Era una parola che, ai tempi, veniva usata normalmente. Si tratta di quella battaglia, che si svolge nella mia testa, per cui voglio sentirmi libero di dire quello che voglio dire e poi mi preoccupo del modo in cui la gente reagisce alle mie parole. Non voglio dire che sia giusto o sbagliato, ma a questo punto della mia carriera – insomma, dico un sacco di cose in modo ironico. Prendo in giro la gente, come prendo in giro me stesso. Ma il vero me, seduto qua a parlare di fronte a te, non ha alcun problema con i gay, gli etero, le persone transgender. Sono felice di vivere in un'era in cui le persone stanno cominciando a poter vivere le loro vite ed esprimersi come meglio credono. E non so come altro dirlo, quando penso a me stesso mi considero la stessa persona che ai tempi, senza un solo in tasca, combatteva quella battaglia".
Eminem e Tyler The Creator, fotografia via Instagram.
Anche Tyler, The Creator era stato criticato per aver usato "faggot" in "Yonkers", pubblicata nel 2011: "Schianterò quel cazzo di aeroplano su cui sta quel neg*o fro**o di B.o.B. E ficcherò un coltello nel cazzo di esofago di Bruno Mars, E continuerò finché non arriverà la polizia". Come avevo scritto traducendo e spiegando i testi del suo ultimo album Flower Boy, Tyler aveva specificato di aver scelto di usare quella parola per toglierle qualsiasi connotato omofobo. Il collettivo di cui faceva parte, la Odd Future, era apertamente queer friendly; Tyler stesso avrebbe poi parlato della sua sessualità in Flower Boy, dichiarando apertamente:
Il prossimo verso gli farà fare "Woah!" È dal 2004 che bacio ragazzi bianchi.
In quell'album Tyler parlava di sé e del suo amore per un ragazzo con grande limpidità, sovvertendo la tradizionale narrazione maschilista del rap statunitense e dando a chi lo ascoltava un messaggio di pace e comprensione: "Sii te stesso, accettati per quello che sei e per quello che ti piace", sembrava dire. Tyler ha poi giocato con la tematica senza mai parlare chiaramente della sua identità sessuale, dando però una chiara e apprezzabile svolta progressista al messaggio del suo rap.
Come ha fatto notare l'Independent, sono invece decenni che Eminem viene letto come un personaggio sboccato e irriverente, volutamente cattivo e controverso. Secondo questa logica, riproposta da Eminem stesso nella risposta che vi ho tradotto qua sopra, c'è una separazione tra Slim Shady e Marshall Mathers, tra rapper e persona. Ma Eminem non è più il ragazzino infuriato dei tempi di 8 Mile: è un uomo maturo che, a 45 anni, ha fatto un album incazzatissimo in cui prende sul personale critiche fatte al suo album e risponde punto per punto a chi ha parlato male di lui e della sua musica.
In Kamikaze non c'è una storia da raccontare: c'è una persona reale che vuole dimostrare di essere ancora il rapper migliore di sempre. Il punto è che Eminem lo ha fatto con un progetto più che solido in cui suona vivo e infuriato come non succedeva ormai da anni. L'uso di "faggot" è però un passo falso che va notato e analizzato, un freno a mano tirato nel punto di maggiore accelerazione.
Una foto d'epoca di Eminem, quando si esibiva con una maschera sul viso e una motosega in mano.
È difficile, oggi, percepire Eminem come un personaggio. Il mondo in cui cominciò a rappare era molto diverso da quello in cui viviamo oggi: internet non era ancora così esplicitamente un luogo di diffusione di odio e razzismo, in Occidente non si usava ancora così tanto la paura dell'altro e del diverso per guadagnare consensi politici, non si parlava ancora così tanto di diritti civili e della loro protezione, non eravamo ancora abituati a interrogarci sulle ramificazioni etiche e politiche del nostro linguaggio e dei nostri gesti, non si parlava ancora in modio ampio e organizzato di sessismo e molestie. Usare il termine "fro**o" come insulto non è mai stato accettabile; non lo è oggi, non lo sarà mai.
Bon Iver, che compare su "Fall" cantandone il ritornello, ha preso pubblicamente le distanze dalla collaborazione: "Non ero nello studio per quella traccia, che è venuta fuori da una sessione con Mike Will e BJ Burton. Non mi piace il messaggio che ha lanciato, è stanco. Gli ho chiesto di cambiarla, non hanno voluto farlo", ha twittato. E poi, ancora:
Eminem è uno dei migliori rapper di sempre, non c'è dubbio. Lo rispetto e lo rispetterò. Ma non è il momento di criticare i giovani, è il momento di ascoltarli. Di agire. Sicuramente non è il momento di usare insulti omofobi. Avrei voluto ci ascoltassero quando gli abbiamo chiesto di cambiarla.
E infine: "Mi sbagliavo, ammazzeremo quella canzone". A cose fatte, è probabilmente tardi perché "Fall" venga cambiata o tolta da Kamikaze. Ma sarebbe anche sbagliato, credo, andare a rimuoverla dall'album. Ci sarà sempre chi userà "fro**o" come insulto, magari senza essere omofobo, magari solo per abitudine e per il contesto in cui ha sviluppato i suoi valori, magari solo perché non ha mai pensato alle ramificazioni del suo uso. Cancellare quel termine significherebbe rimuovere il problema, rimandare la sua risoluzione a data da destinarsi; parlarne e discuterne significa invece, come dice Bon Iver, "agire". Elia è su Instagram.
La settimana scorsa Lil Pump è stato arrestato dalla polizia per aver guidato una macchina senza patente (e con la targa sbagliata). Sul momento avevamo scritto del fatto con leggerezza, dato il modo in cui Pump aveva risposto agli agenti e al sorrisone che illuminava la sua foto segnaletica. Oggi però il giovane rapper ha condiviso su Instagram un video in cui rivela che alla fine dovrà andare in prigione per due mesi.
"Ascoltate, andrò dritto al punto", dice Pump nel video. "Avete visto tutti quello che è successo a Miami. Mi hanno arrestato per una stronzata. Sono a Los Angeles, sotto libertà vigilata. E l'ho appena violata, quindi devo andare in prigione e farmi un paio di mesi".
Lil Pump ha tranquillizzato i suoi fan spiegando che continuerà a pubblicare nuova musica anche dal carcere: "uscirà della roba assurda mentre sarò lì dentro", ha detto. Stando a quanto dice il testo sotto al video, sarà il suo team a gestire i suoi account per la durata della sua permanenza in carcere. Trovate il video-messaggio di Lil Pump qua sotto.
I miei genitori mi dicono sempre che da piccola l’unica arma efficace per farmi stare buona era mettermi sul divano davanti ad un film con qualche Plasmon e qualcuno accanto. Mio padre, con il tatto tipico di tutti i padri, mi fece vedere il film di The Wall dei Pink Floyd alla tenera età di 5 anni. L'esperienza mi procurò una paura cronica (esiste?) del tritabimbi e un senso di rigetto di fronte a qualunque tipo di carne perché, dicevo, "sono bimbi tritati”. Dato che solitamente guardavo gli stessi film più e più volte, mio padre capì che non era il caso di farmelo rivedere ma di propormene un altro, magari più adatto alla mia età. Scelse Billy Elliot, e quel DVD non uscì dal lettore per qualche mesetto.
Billy Elliot racconta la storia di Philip Mosley, un ragazzino che scopre di amare la danza ed imperterrito decide di prendere lezioni per sviluppare il suo talento, nonostante l'opinione contraria del padre e del fratello. Il messaggio di quel film l’ho capito dopo qualche tempo. Nel fantastico mondo dei bambini, quelli non tritati, non esistono limiti imposti dal sesso né da qualunque altra cosa. Billy vuole vivere di danza, un mondo che appare essere in mano alle donne. E io, che ero una bambina che tornava a casa con il grembiule sporco di terra perché giocava a calcio con i compagni, ascolto rap, un mondo che appare essere in mano agli uomini.
Uno screenshot da Billy Elliot.
Ho sedici anni ed è questa l’età in cui generalmente prendi coscienza dei tuoi talenti perché hai un estremo bisogno di sapere cosa sei capace di fare. Nel mio paesino c’è qualcuno che prova a farcela col rap, ma sono solo ragazzi. Non conosco nessuna ragazza per la quale sputare rime su beat old school americani presi da YouTube sembra essere l’unica ragione di vita. Mi sono chiesta il perché, ed eccolo qua: immedesimandomi in una ragazza che vuole intraprendere la strada del rap, non riuscirei a conciliare questa mia passione con una prerogativa che tutti gli adolescenti hanno, cioè quella di essere accettati.
Ciò comporta di attenersi agli schemi, a quelle regole non scritte che tutti sanno a memoria. Significa soffocare qualunque passione o atteggiamento che non sia conforme alla massa. Se sei un ragazzo che viene da un paese e fai danza classica, sicuramente ti pioverà addosso qualche insulto o battuta scomoda uscendo la sera. Almeno in un paesino piccolo come il mio, dove qualunque piccolezza diventa argomento di infiniti pettegolezzi e chiacchiere. Lo stesso accade se sei una ragazza e fai calcio o vorresti provare a rappare.
Per spiegarmi, mi viene in mente una rima di Fedez in "Generazione Boh": "Non ci fermiamo alle precedenze ma ci fermiamo alle apparenze". Mi sembra che nel mio paese e nella mia nazione l'atteggiamento tipico purtroppo sia proprio questo: si è fermamente convinti che il figlio maschio debba fare cose da maschio, come giocare a calcio, e quindi che il rap lo facciano gli uomini e non le donne. Chi crede non andrebbe mai allo stadio per vedere una partita di calcio femminile, allo stesso modo non è portato ad YouTube per ascoltare qualche voce femminile.
Credo che questo sia avvenuto anche perché le donne che fanno rap sono sempre state messe in ombra dai grandi del genere. Da quando il successo non si misura più in dischi venduti ma a forza di risultati ottenuti su internet regna la meritocrazia, ma per fare musica non serve solo talento. Ti devi anche misurare con il contesto in cui vivi e operi, e se sei donna devi superare dei paletti che ti sono stati imposti.
CRLN, fotografia di Ciro Galluccio.
L'episodio che ha visto coinvolta CRLN a Messina è calzante. Aprendo il concerto di Gemitaiz, CRLN ha ricevuto dal pubblico insulti sessisti che, insieme ad altre situazioni avvenute lungo il corso della serata, hanno scatenato in lei tutto ciò che normalmente non si dovrebbe provare dopo un concerto. Come ha dichiarato lei: "L’ordine di lasciare il backstage appena scesa dal palco, l’attesa paragonabile a quella di un agnellino che sta andando al macello (...) la voglia di scappare da lì sopra il prima possibile, la sensazione che ti stanno in qualche modo violentando”.
Anche io sono andata ad una data del tour di Gemitaiz, precisamente tre giorni dopo l’accaduto a Messina. Saranno state circa le 8.30 e tutti avevano deciso di alzarsi in piedi. Nonostante il sole fosse calato, faceva caldo. Due ragazze si sono sporte dalla finestra della struttura adiacente al palco facendo un video. Chi non le avrebbe invidiate? Vedevano il concerto meglio di tutti, senza aver fatto un minuto di fila. Evidentemente a qualcuno rodeva, e così sono partiti da parte del pubblico i soliti insulti e "Ollèlè, ollàlà, faccela vedè, faccela toccà". E io mi sono vergognata di stare lì nel mezzo. Il pubblico era abbastanza eterogeneo; posso capire che un ragazzino di 15 anni non sappia cosa dice, ma se anche a 20 non hai ricevuto un'educazione adeguata e non hai un'idea di limite, allora è un problema.
Un mio amico con cui parlavo del tema di questo articolo" mi ha detto una frase perfetta per parlare di un episodio come quello di cui sopra: "Sei l’unica ragazza che conosco che ascolta rap, secondo me è il genere che più in assoluto vi strumentalizza”. Il che mi ha fatto pensare molto: è vero, spesso si parla di "bitch", della donna come merce di vanto. Ma non è forse lo stesso atteggiamento che permea ogni ambito della società, dalla TV al lavoro? Le veline di Striscia la Notizia non fanno niente di strano o sconcio che possa offendere il genere femminile, ma il loro corpo non è comunque strumentalizzato? Il rap è lo specchio della società senza filtri e chi si scandalizza davanti ad un testo è, per dirne uno, lo stesso imprenditore che non assume un’operaia donna. Il problema esiste ed è inutile calarsi le tendine davanti agli occhi facendo finta di non vederlo. E c’è solo del positivo se qualcuno ha voglia e coraggio di dire queste in modo che arrivino a più persone possibili.
Screenshot dal video di "British".
Quando ascolto rap, personalmente, non faccio neanche caso ai "bitch" che sento. Faccio un esempio pratico, usando "Peace & Love" di Ghali e Sfera e il suo "No, non mi piace la bianca / Una pussy nera e una gialla". Dal punto di vista del mio amico queste "pussy" (sinonimo, non proprio sinonimo, di donne) sembrano oggetti, maglie che tu hai a disposizione di tre colori diversi. Qualcuno potrebbe dire “Ma devi vederla con più leggerezza, è un singolo estivo". Io direi che la leggerezza non fa parte di me, ma anche che non faccio nessuna colpa a Sfera per questa barra. Se anche noi donne ci siamo abituate a sentirlo parlare così e non ci scandalizziamo, perché dovrebbe farlo un uomo?
Non che "Peace and Love" non sia piena di frasi a cui pensare. Sfera dice “Cambio la tipa come cambio flow”: cosa succederebbe se in contesto musicale una donna dicesse una cosa del genere? Sicuramente si guadagnerebbe il nomignolo di troia o quant’altro, mentre se un uomo si vanta di cambiare tipa ogni sera colleziona solo applausi. Magari anche la richiesta di un tutorial.
Un altro esempio: "British" della Dark Polo Gang è un classico loro-pezzo che martella le orecchie, me la canticchio spesso in testa. Quando la ascolto con le mie amiche la balliamo e cantiamo senza problemi, anche se stiamo pronunciando le parole "Ho troppe bitch intorno / Non so più quale scegliere". Ed è strano rendermi conto che a me non sdegni neanche un pochino leggere quelle frasi. Perché? Perché sono pochi, i rapper che parlano di donne e non delle loro tette. E va a finire che diventa la normalità.
Nella scena, quando si parla di Zaytoven—con i suoi collaboratori, con i suoi fan, con chiunque—vengono sempre fuori due cose. Che non è per niente come gli artisti con cui lavora e che suona ancora la tastiera in chiesa, alla messa, ogni domenica. Mentre i vari Gucci Mane, Future e Migos diventavano stelle, caricature perfette per popolare i racconti che scriviamo sulla trap e su Atlanta, lui è rimasto un semplice, modesto essere umano. In parte il merito può anche essere nostro, dato che abbiamo cominciato relativamente da poco a riconoscere il valore dei producer nei pezzi rap che ascoltiamo. Ma è un po' strano che l'architetto che ha progettato e costruito il suono che ha definito prima Atlanta e poi l'era dell'hip-hop che stiamo vivendo si presenti a un'intervista solo con qualche amico e una piccola catenina di diamanti. Ok, è arrivato su una Bentley bianca, ma è la stessa con cui sarebbe andato in chiesa a suonare, due giorni dopo.
Sono in un hotel di Atlanta per parlare con Zaytoven del suo nuovo progetto solista, Trapholizay, uscito a maggio. Al suo interno compaiono le voci di Lil Uzi Vert, Kodak Black, 21 Savage e del 66.6% (periodico) dei Migos. Ma anche quelle Future, OJ Da Juiceman, Plies e Gucci Mane. E pure quelle di 2 Chainz, Ty Dolla $ign, T.I. e Young Dolph. Dimostrazione che quando Zaytoven chiama tutti arrivano a rapporto, giovani e vecchi della scena. E la cosa ha senso, dato che lui non ha mai smesso di lavorare di fino ai suoi beat per restare al passo con le nuove ondate di producer che, di anno in anno, si affacciano sulla scena. È difficile definire Zaytoven un grande vecchio della trap; lui stesso fa tutto il possibile per essere, e restare, solo un grande.
Noisey: Il tuo ultimo progetto è Beast Mode 2, con Future, il seguito di un tape che è praticamente diventato un classico. Come vi siete approcciati al progetto? Zaytoven: Io e Future facciamo musica assieme proprio da Beast Mode. Avevamo pensato di pubblicare Beast Mode 2 nel 2016 e di chiamarlo Beast Mode 16, ma era come se il clima non fosse quello giusto. Poi quest'anno io ho pubblicato Trapholizay e Future ha lavorato su un suo pezzo, "Mo Reala". Le strade se lo sono mangiato. E il sound era proprio quello di Beast Mode, quindi abbiamo deciso che fosse il momento giusto. Non sapevamo se volevamo davvero renderlo un seguito, una parte 2, ma secondo me il sound era proprio quello. E in fondo, davvero, è per le strade. È un mixtape per le strade.
Quindi hai seguito lo stesso sentiero che avevi percorso con Beast Mode, in un certo senso. Sì, esattamente. È un modello. Dovevano esserci ancora quelle melodie di strada affamate, appassionate. Non stavamo provando a tirare fuori delle hit. Non volevamo fare roba che potesse passare alla radio. Stavamo solo ed esclusivamente provando a toccare il cuore della strada.
La copertina di BEASTMODE2. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.
Ci sono anche delle novità, però. Su "Hate The Real Me" hai usato dei fiati da classicone di Atlanta d'altri tempi. Bé, per forza! Ci devi mettere un po' di sapore in più. Sono passati anni.
Beast Mode 2 ti piace più di Beast Mode ? Devo dire di sì. Non ho ancora smesso di ascoltarlo, ed è uscito ormai più di due mesi fa. Avrò ascoltato il CD mille volte.
Penso che tu sia il miglior producer con cui Future lavora, dato che sei l'unico a riuscire a tirargli fuori emozioni crude, aperte, oneste... che cos'è che lo fa sentire a tuo agio quando rappa su un tuo beat? Le radici del mio suono affondano nel soul. Molta musica che senti in giro, come molta della roba di Future, è pensata per essere messa nei club, è piena di energia. Ha ritmi alti, è movimentata. La mia musica invece è piena d'anima, ha un cuore che batte a un ritmo diverso. E Future lo percepisce, perché mostra un suo lato che di solito resta nascosto. Gli viene da parlare e cantare in un altro modo. Cazzo, Beast Mode è il mio progetto preferito di sempre.
Ti è mai venuta voglia di lavorare a pezzi più pop con Future? Il mio nome è rimasto quello che è oggi grazie a quello che faccio e a quello che porto al gioco del rap. Mi piace portare quella merda al momento giusto, alla persona giusta. Non voglio passare dal lato del pop, mai.
La malinconia che pervade ciò che fate mi fa pensare a una sorta di nuovo blues. Sì, esatto! È il blues.
La copertina di Trapholizay. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.
E molto di ciò viene dalla musica che hai sempre suonato in chiesa, a messa? Certo. Se riesco ad accedere a un lato di Future a cui nessun altro riesce ad accedere è grazie alla musica con cui sono cresciuto, alle esperienze che ho fatto.
Recentemente hai prodotto Let The Trap Say Amen, un mixtape di LaCrae, un rapper cristiano. Con lui succede la stessa cosa? Assolutamente. È un artista cristiano. Io sono un musicista da chiesa. Siamo entrambi cristiani. Lavorare insieme aveva senso come poche altre cose.
Pensi che la tua esperienza in chiesa si senta in tutti i beat che produci? Non importa con chi io lavori. Anche quando ho cominciato a fare trap, quando lavoravo con Gucci. Anche se i ragazzi parlavano di furti, omicidi e droghe c'era sempre un'anima che attraversava la musica che producevo per loro, e si sente.
È per questo che la tua carriera è stata quella che è stata, è quella che è oggi? Secondo me sì. C'è un sacco di gente, oggi, che fa musica per finire in radio o per far prendere bene la gente quando va a ballare. Io non ho mai scritto per la radio, non ho mai scritto per i club. Ho sempre solo voluto fare musica che le strade avrebbero amato, e su cui gli artisti avrebbero potuto sanguinare in un modo diverso. Per fortuna, poi, quella roba è finita anche in radio o nei club.
Credo che ai rapper piaccia lavorare con te perché sei molto bravo a trovare una tua nicchia all'interno del sound dei "tuoi" artisti. Quando sei a casa e lavori a un beat pensi a chi potrebbe rapparci sopra? Spesso mi metto a lavorare a mente aperta, comincio a creare. Quando mi rendo conto di aver finito una traccia mi rendo conto di certe cose, tipo "Oooh, Future spaccherebbe su questa!" Oppure, "Oooh, questa è roba da Migos". Peccato che spesso succeda che i pezzi che io credo essere perfetti per i Migos vengano presi da Future, ha! Ma è così che vanno le cose.
Lasci che siano loro a scegliere? Devi lasciare che gli artisti facciano gli artisti. Se c'è qualcosa che li tocca in un certo modo, ci sarà un motivo.
Credo però cheTrapholizay sia qualcosa di diverso, un progetto in cui tu sei al timone, ti poni in modo più aggressivo. Sì, ora sono io al comando. Su Trapholizay è stato tutto un "Ho questo pezzo e ci voglio sopra Yo Gotti, T.I. e Rick Ross". E loro non hanno avuto scelta. Mi hanno chiesto su quale canzone avrebbero rappato e io gli ho detto quello che dovevano fare. Era una situazione diversa.
Dove tracci il confine tra il lavorare per te stesso e per gli altri? Dipende dal progetto. Provo a non darmi mai regole.
Hai giù cominciato a lavorare al successore diTrapholizay? Sissignore. Gli ingranaggi si stanno già muovendo.
Che cosa cambierà rispetto al primo? Sarà molto più giovane. La gente dirà tipo, "Cazzo, Zay ha preso lui? Zay sta lavorando con lui?" Voglio una roba del genere.
Ti consideri un mentore? Esattamente.
Essendo uno dei padri della trap, senti mai l'onere di dover contribuire alla sua evoluzione? O preferisci continuare a esplorare lo spazio che hai aperto e che ti ha reso famoso? Non sento pressioni da parte di nessuno. L'unica pressione che sento proviene da me stesso, ed è la voglia di fare sempre meglio. Mi metto sempre pressione da solo. Devo concentrarmi di più, devo fare questo, quello. Devo sempre inventare, reinventare.
Tutti conoscono il tuo sound. Come fai a crescere, senza però allontanarti troppo da esso? Devo riconoscere il merito ai vari artisti con cui lavoro. Quando lavoro con Future la mia roba non sembra la stessa che è uscita lavorando con Gucci. Anche con questi nuovi artisti... Lil Uzi Vert mi tira fuori qualcosa di diverso quando sono con lui. Sarà sempre roba alla Zaytoven, ma con qualche particolare diverso. È per questo che resto a contatto con i giovani. Perché mi tirano fuori delle cose che non sapevo di avere dentro.
È bello da sentire, perché ci sono delle leggende dell'hip-hop più vecchie di te che sono piuttosto restie ad accettare quello che fanno le nuove generazioni. Sì, sì. Non riescono nemmeno a spostarsi di un millimetro! Ma il gioco del rap è un gioco da giovani.
Quali sono alcune delle cose che hai imparato dagli artisti più giovani con cui hai lavorato? Mi hanno insegnato delle cose sulle strutture delle canzoni. Ricordo che una volta stavo facendo un pezzo con Uzi, e cos'è successo? Hanno preso il beat che avevo fatto e lo hanno velocizzato. Hanno tagliato a metà delle parti che volevano usare e si sono messi ad assemblarle. Io non avrei mai pensato di fare una roba simile. Questi ragazzi stanno scrivendo nuove regole. Stanno facendo roba nuova.
È una nuova lingua. È qualcosa di completamente diverso. E mi piace, perché mi apre.
Hai imparato da solo a fare beat? Il ragazzo che mi ha insegnato a fare beat si chiamava JT The Bigga Figga. Mi prese con sé nel suo studio e mi fece vedere come lavorare con tutta quella roba. A quel punto ho cominciato a comprarmi la mia roba e a studiare, a fare miei beat.
È da tutta la tua vita che vivi in prima persona la scena di Atlanta. Qual è la cosa che è cambiata di più, negli anni, secondo te? Ha un nuovo sapore. Quello che, secondo me, definisce la musica di Atlanta è il suo continuo cercare nuovi linguaggi e nuove cadenze. Quando ascolto i giovani mi rendo conto che le cose che dicono possono anche essere le stesse di sempre, in parte, ma il modo in cui le dicono è completamente diverso.
Segui anche altre scene in giro per gli Stati Uniti o ti concentri sul tuo territorio? Perlopiù mi tengo impegnato con quello che succede al sud. Quando comincerò a lavorare con artisti da altre parti della nazione allora comincerò a esplorare anche le loro zone.
C'è un artista con cui ti piacerebbe lavorare? Dico sempre Rihanna. Ho sempre pensato che fare un pezzo con Rihanna sarebbe fantastico. Starebbe benissimo su un mio beat. Potremmo davvero fare qualcosa di speciale.
Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.
"Metterà fine alla tua carriera". The-Game sa che cosa succede quando dai fastidio a Eminem. Ma c'è anche chi non lo sa - o, semplicemente, ci sono persone a cui piace rischiare. Sul suo nuovo album Kamikaze Eminem se l'è presa con diversi giovani rapper. Alcuni, come Vince Staples o Tyler, The Creator (che Em ha attaccato usando un termine omofobo, creando un gran casino) avevano avuto qualcosa da ridere sulla qualità del suo rap. Altri, come Machine Gun Kelly, avevano solo espresso apprezzamenti su sua figlia.
L'origine del cattivo sangue tra MGK ed Eminem risale al 2012, quando il giovane rapper, allora ventenne, pubblicò un tweet in cui diceva che la figlia di Eminem, allora sedicenne, era "davvero figa", specificando che lo stava dicendo "nel modo più rispettoso possibile, perché Eminem è il re". Eminem non la prese bene ed MGK ha colto l'occasione per rivelare, in un nuovo diss intitolato "Rap Devil", tutto quello che Eminem ha fatto per mettergli i bastoni tra le ruote.
Eminem aveva dissato MGK su "Not Alike", dedicandogli un'intera strofa in cui spiegava come e perché i due non avevano niente in comune. "Sto parlando con te ma sai già chi cazzo sei, Kelly / Dico le cose come stanno, non nascondo i miei diss / Ma tu continua pure a parlare di mia figlia Hailie", rappava Eminem, accusando MGK di fingersi più cattivo di quello che era e sfidandolo a chiamare il capo della sua etichetta, P. Diddy, perché venisse a salvarlo.
Screenshot
La risposta di MGK? Eccone qualche parte, tradotta in italiano.
Regalategli un rasoio elettrico! Ha la barba strana. Che parole pesanti, da un rapper che paga milioni all'anno la security! "Mio padre è impazzito", sì, Hailie, hai ragione. Papà è fuori di testa, lì chiuso in studio, a gridare al microfono. Sei sobrio, ti annoi, eh? Hai quasi 46 anni, cane! Dici roba tipo, "Chiamerò Trick Trick". Amico, sembri una cagna! Sii uomo, risolvi da solo i tuoi problemi.
MGK inizia prendendo in giro Eminem per la leggera barba che si è fatto crescere ma sposta subito l'attenzione sull'origine della loro rivalità. Cita infatti "My Dad's Gone Crazy", un classico di Eminem, in cui Hailie pronunciava le parole "Mio padre è impazzito", per raccontare un Eminem vecchio, solo e livoroso, chiuso in studio a invocare l'aiuto di altri rapper suoi amici (Trick Trick è un rapper di Detroit che ha collaborato spesso con Em in passato).
Sei incazzato per una roba che ho detto nel 2012, Ti ci sono voluti sei anni e un album a sorpresa per tirare fuori un diss? Amico, abbiamo capito, sei il rapper più bravo del mondo. Cazzo di secchione, passi le giornate chiuso in casa a leggere il dizionario! Fanculo il Rap God, io sono il Rap Devil.
Lungo il corso del pezzo MGK accusa Eminem di aver agito per danneggiare la sua carriera, impedendogli di partecipare a celebri programmi radiofonici e facendo parlare male di lui alla sua etichetta dal suo manager, Paul Rosenberg. Prosegue poi rispondendo al riferimento a Puff Daddy: "Sei tu che lo hai chiamato / E poi hai chiamato Jimmy [Iovine, importante discografico nda] / Mi hanno chiamato il mattino dopo / Mi hanno detto che eri incazzato per un tweet / E volevi che mi scusassi / Giuro su Dio, non ci credevo / Ti prego, ti prego! / Il bullo più cattivo del rap game non sa nemmeno prendere una cazzo di battuta!"
MGK continua ad attaccare Eminem sull'età, prima con un gioco di parole tra 50 Cent ("Lasciamo a lui i dissing") e i suoi quasi cinquant'anni e poi usando il ritornello di "The Real Slim Shady": "Quel vecchio è caduto, aiutatelo ad alzarsi / Non gli reggono le ginocchia, il vero Slim Shady non riesce a stare in piedi". E poi un finale piuttosto pungente:
Sì, c'è una differenza tra di noi. Io mi sono guadagnato tutto quello che ho senza nessun Dre ad aiutarmi. [...] Hai droppato un album che si chiama Kamikaze, allora vuol dire che sei morto! Ho già scopato la tipa di un rapper 'sta settimana, non farmi chiamare Kim.
Insomma, MGK non si è trattenuto. G-Eazy ha dimostrato il suo supporto per Eminem in un'altra traccia, "BAD BOY", anch'essa la risposta a un altro diss di MGK: "Non voglio tirare fuori quel casino, ma rispetta quell'OG [Original Gangster, nda] di Eminem". Sembra che Eminem abbia ottenuto quello che voleva, cioè l'alzarsi di un grande polverone sulla scena rap statunitense. Ora c'è dentro fino al collo e sarà interessante capire come e se reagirà all'attacco che ha ricevuto.
Circa un anno fa Matteo Professione, in arte Ernia, ci avvisava di cambiare un flow per pezzo, chiudendo la rima con uno statement per nulla banale (“sono il nuovo Guercio”) che veniva consacrato dalla presenza di Gué Pequeno in un featuring. Solo in pochi fino ad allora avevano osato tanto, su tutti Emis Killa (“la prima differenza che c’è tra me e te è che io / rimo da quando nessuno copiava Gué, zio”) il quale per lungo tempo sembrava destinato ad essere davvero l’erede designato dei Club Dogo, ma che poi scelte e periodo storico sbagliato hanno fatto sì che ciò non avvenisse. Con una generazione di scarto, dunque, Milano sembra aver trovato il suo “duca” e se allora l’incoronazione era sembrata legittima, ad oggi sembra quasi scontata.
Ovviamente c’è un abisso di differenza tra Ernia e Gué Pequeno e il paragone che ho teso in queste righe si spegnerà di qui a poco, anche perché se il rapper del QT copiasse pedissequamente i passi del padre putativo non riuscirebbe mai a esserne davvero l’erede.
Per il suo album d’esordio, dunque, Ernia effettua l’ennesimo passo in avanti nella sua crescita, in un cammino che sembra essere contro-intuitivo rispetto a quello dei suoi colleghi coetanei: all’interno del disco c’è rap cristallino, c’è un solo featuring che era praticamente annunciato (Tedua, con il quale Ernia è cresciuto e che cita addirittura nel suo secondo singolo “Simba”). Ma la forza di questo disco è di non lasciare per strada nessuna sfaccettatura del rap: c’è il rap cafone (personalmente la parte che più preferisco), c’è quello conscious che gli permette di dimostrare di avere una penna che si discosta da quella di molti altri, c’è persino del riferimento al passato. La title track, per esempio, è un chiaro rifacimento a tutta quell’epoca di g-funk romano, che già di recente qualcun altro aveva omaggiato.
È nel citazionismo che abbiamo le migliori dichiarazioni d’intenti del nostro. Se prendiamo ad esempio un pezzo come "King QT", chiara ispirazione a uno dei banger più potenti di Kendrick Lamar, andiamo subito a rintracciare le massime ispirazioni di Ernia, che non ricadono su tutti quei Lil che, a parte Wayne, diciamocelo chiaro, non contano un cazzo.
Una menzione d’onore a Marz, che come al solito si rivela essere il partner perfetto per colui con il quale ha stretto il sodalizio, ma soprattutto a Luke Giordano, che dopo “Gotham” continua a suonare come una delle sorprese più promettenti del beatmaking.
Con le dodici tracce di cui si compone 68, dunque, l’autunno del rap italiano si apre alla grande.
Nonostante Eminem non lo abbia tirato in causa personalmente, il nostro amico dalla faccia tatuata ha pensato di far parlare ancora un po' di sé postando su Instagram un video in cui rappa su "Lose Yourself" di Eminem. Oddio, "rappa" forse è un po' troppo dato il flow non proprio invidiabile che sfoggia, come potete vedere nel video qua sopra.
Le sue parole: "Hai fatto bene a non dissarmi / Sono una leggenda delle liriche, so che vi manco / Tutti voi ragazzini che fate mumble rap, coi capelli colorati / Non potete nemmeno paragonarvi al fenomeno che avete di fronte". E fin qua tutto bene, se non fosse che 6ix9ine le pronuncia con la stessa convinzione di un ragazzino alla sua prima jam.
Il tutto finisce con una risata e un impappinamento, tanto per mettere in chiaro che la cosa non deve essere presa sul serio. Speriamo comunque che Eminem la prenda sul serio, che sicuramente Slim Shady avrebbe un sacco di materiale per far male a quella persona orribile che è 6ix9ine.