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Capire i testi di Frah Quintale

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C'era un momento in cui Frah Quintale faceva hip-hop vecchia scuola: stava a Brescia e rappava nei Fratelli Quintale, con cui aveva un discreto successo. Poi è successo che il rap è diventato qualcosa di diverso e lui, accorgendosene in tempo, è diventato uno degli artisti di punta di quella cosa che chiamiamo itpop, o indie pop, o rap melodico. Fa musica tristolina, Frah Quintale, riuscendo nell'impresa a lungo creduta impossibile di passare in radio a ripetizione e fare costantemente sold-out coi live, nei circoli e ai festival.

Il suo primo lavoro solista è Regardez-Moi, un lavoro personale e intimo che chiede, appunto, “guardatemi” come fosse un autoritratto in musica. Frah usa un linguaggio pulito e immediato, di una semplicità quasi infantile. Le situazioni descritte sono più o meno sempre chiare e si alternano fra una canzone e l’altra con variazioni minime, senza brillare per originalità. E di che si parla? Ovviamente d'amore, con un bizzarro misto di malinconia e menefreghismo. È come se Frah si guardasse sempre alle spalle, ripensando al passato con un forte spirito di accettazione - la penultima delle fasi del lutto, quella che precede la speranza.

Da mixtape e date nei localini a riempire il palco del MI AMI, Frah Quintale con Regardez-Moi ha fatto parecchia strada. Il segreto secondo me sta nei suoi testi, e nel modo che ha trovato per parlare d’amore e della sua vita.

Come funziona un linguaggio immediato ed efficace: “8 miliardi di persone”, “Gli occhi” e “Cratere”

Quella di Frah Quintale è musica che nasce dal rap, e si sente. Nonostante affronti temi più personali di quelli che tendiamo ad associare all'hip-hop vecchia scuola, il suo stile è asciutto e telegrafico. Il perfetto contrario di Calcutta, forse il primo artista a cui pensiamo quando si tratta di musica italiana che parla di sé e d’amore. Riassumerei il senso di Regardez-Moi con "mi sto scoprendo per parlarti di me, quindi guardami": un auspicio che può avverarsi solo se basato su un linguaggio semplice.

L’immediatezza della scrittura di Frah riflette quella di una comunicazione fatta di messaggi brevissimi in cui non c'è spazio per l’ambiguità e si cerca di andare al sodo il più velocemente possibile. "Dove sei? Stavo cercando di vederti in mezzo a tutta questa folla" ripete in “8 miliardi di persone”. È come un bambino che perde i genitori al supermercato, in un certo senso. Qui, però, nessuno si è perso. Anzi, chi se n’è andato probabilmente ci pensava da tempo e non ha nessuna intenzione di tornare indietro: "E se ti stringo forte i polsi è solo per tenerti qui / Per vedere se sei ancora viva quando sei fredda". Ed ecco la conclusione: "E poi finisce sempre così / non ci si vuole più bene”, dice, con un linguaggio quasi infantile.

Frah è molto onesto ed efficace ne “Gli occhi”, nella quale fa una sorta di ammissione di colpe dopo la fine di una relazione: "Perché ho i sogni molto più grandi del cuore […] e io dovevo andare anche se non so dove / e ora tu mi starai dando dell’infame”, dice alla persona che ha lasciato per trasferirsi. È una continua confessione di sensi di colpa e paure: “e ho il terrore del tuo letto, che ci sia già dentro un altro / che ti sia sceso l’effetto della droga che ti davo io”.

Poi ci sarebbe “Cratere", la storia di una storia finita. Frah la racconta attraverso la metafora di un cellulare rotto, che rappresenta l’impossibilità di comunicare quando ci si lascia (o la necessità di lasciarsi quando non si riesce più a comunicare e a capirsi). Apre il pezzo con "Ho rotto un altro cellulare, capirai che sfiga / Tanto ormai non ho nessuno da chiamare": avere un telefono non mi serve a un cazzo se non posso chiamare te, perché l’unico contatto che voglio avere con il mondo sei tu. È la versione millennial della dichiarazione di Catherine su Heathcliff in Cime Tempestose: “Se tutto il resto perisse, e lui rimanesse, io continuerei a esistere; e se tutto il resto rimanesse, e lui perisse, l’universo mi diverrebbe estraneo”.

Sembra non esserci sollievo – non c’è – per chi si è mollato ed è distrutto: "Ho rotto un altro cellulare ma il tuo numero lo so a memoria / E posso cancellare una rubrica intera ma non questa storia". Resta che questa potrebbe essere LA soluzione definitiva per riuscire allo stesso tempo a distaccarsi dai propri possedimenti terreni e provare a superare una rottura: spaccate il telefono e forse vi sentirete meglio, se non avete già imparato il numero a memoria. Sottoni.

Parlare della provincia senza mai nominarla: "Avanti / Indietro"

“Avanti/Indietro” è sicuramente il brano più interessante e fresco di Regardez-Moi, sia per quanto riguarda la produzione sia dal punto di vista tematico. Il testo è disorientato e disorientante e parla di una cosa forse più universale dell’amore: la provincia, che quanto e più dell’amore almeno per me è un sentimento. Nello specifico, parla del venire meno della provincia: quando a un certo punto della vita ci si sposta in una città più grande senza avere forza, tempo o modo, di mettervi radici.

La città descritta è Milano: "quanto cazzo mi costa / e io quanto cazzo bevo” (hashtag: relatable). La sensazione di smarrimento dovuta al trovarsi in un ambiente più o meno sconosciuto è accompagnata dalla consapevolezza di essersi lasciato indietro definitivamente la vita di prima: "Non mi riporti su se ora cado dal cielo / Se a casa tua ora sono come uno straniero / Ogni volta riparto ma stavolta è da zero”.

La provincia non viene nominata espressamente, ma si rivela protagonista del pezzo nel ritornello cantato dal produttore e amico Ceri: "Vorrei solo essere libero di fare quello che voglio / Vorrei solo essere libero di volare dove voglio”. Frah stesso ha dichiarato che, venendo da Brescia, iniziare a suonare a Milano è stato un traguardo. Nella voglia di rivalsa, di provare a sé stessi di esserci riusciti, nel bisogno di libertà, la voce narrante è la voce della provincia – che io, in quanto figlia della provincia stessa, sono allenata a sentire.

Ti amo ma me ne frego: “Cratere”, “Si, ah” e “Colpa del vino”

In ogni caso, in Regardez-Moi si parla quasi solo d'amore. Ascoltandolo sono giunta a una conclusione: Frah Quintale è un fidanzato di merda. La mia tesi è fondamentalmente costruita su tre pezzi: la già citata “Cratere” (non è colpa mia se ogni verso è una perla rara), “Sì, ah” e “Colpa del vino”.

“Cratere” è la mia preferita ed è particolarmente malinconica – il passaggio “non hai letto la mia frase non ti sento più vicina / Non mi metti più mi piace, non sai quanto mi dispiace” tocca temi per me particolarmente delicati, cioè la fine di un amore e i pochi like su Instagram. Struggente. I brividi purtroppo però arrivano presto: "Tu volevi solo innamorarti, io soltanto possedere / Passo da esser l’unico che guardi a non ti voglio più vedere”. Ora, io non sono nemmeno certa di aver capito cosa Frah volesse dire, però secondo me una persona che voleva solo innamorarsi non passa a "Non ti voglio più vedere" e soprattutto non smette di metterti like, se non l’hai proprio trattata malissimo.

Poi c’è "Sì, ah", in cui Frah invita la sua ex a passare da lui nel weekend per farsi una scopata riallacciare i rapporti. E non c’è niente di male, ma al venticinquesimo ascolto alcuni punti del pezzo hanno fatto scattare la mia vena polemica. Le dice ad esempio, "Stasera ci mettiamo su un film, e poi passiamo la serata così / Non lo guardiamo nemmeno, ah". E poi ancora, "Ti faccio fare un altro giro della casa / E se finiamo nel mio letto è per caso, però non è che sei inciampata”. In tutto ciò, la ex sta con un altro, noioso e tranquillo, "ingessato tipo Ferragamo". Su "ingessato" intuirei anche un gioco di parole sulla coca, e non vorrei nemmeno finire a tifare per il fidanzato cocainomane perché insomma, perciò lo ignorerò. Qui ingessato = noioso, e noioso = OK per autopreservazione.

In "Colpa del vino" l’allarme-fidanzato-di-merda è particolarmente potente. Il punto centrale è il ritornello: "Tu non lo sai / Che la colpa non è la mia / Ma è colpa del vino / Se ho fatto un casino e poi sono sparito". Nonostante parli di una storia finita, questo è un pezzo mega divertente e melodico, ancor di più se messo a confronto con una cosa come "Why’d You Only Call Me When You’re High?" degli Arctic Monkeys, tematicamente molto simile. Con il pezzo degli Arctic però mi sono più volte trovata a ponderare di bere candeggina e farla finita con questa vita di strazi.

La differenza sostanziale tra i brani è una: mentre Alex Turner è realmente distrutto, Frah Quintale ha un approccio diverso. Prima della delusione perché la tipa non lo vuole e non gli ha risposto, prima dell'imbarazzo per le stronzate fatte da sbronzo, sopra il-mondo-delle-cose, svetta che lui fondamentalmente se ne sbatte e che non ha intenzione di prendersi alcuna responsabilità per le sue azioni. È preso male perché la tipa l'ha mollato ("M’hai detto per me si apre un nuovo capitolo”) e la gestisce nell’unico modo possibile: facendo serata a sbronzarsi e chiamando a notte fonda la sua ex, che gli manca nonostante pensasse di potersela cavare da dio anche senza di lei. "Pensavo non avessi bisogno di te / Ma a certe cose non ci pensi prima delle tre", dice.

Il tempismo non è il suo forte, ma non è colpa sua: sono il destino, la sfiga, le circostanze avverse della vita. Frah Quintale è la personificazione di quella foto di Mario Balotelli con la tee WHY ALWAYS ME. Orgoglio millennial, king dello scaricabarile. Il punto è che io tutta questa roba la capisco pure, e quindi invece di scrivere un finale ironico in cui sfotto un rapper finirò per farne uno in cui prendo coscienza di me stessa. E se anche voi non vi rivedete almeno un pochino nelle parole di Frah o state mentendo oppure siete realmente funzionali ed empatici e io con voi non ci voglio parlare.

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Guarda Booba e Kaaris, re del rap francese, che si picchiano in aeroporto

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Ieri Booba e Kaaris, due dei rapper francesi più famosi, sono venuti alle mani all'aeroporto di Parigi-Orly. Sono anni che tra i due non scorre buon sangue. Diversi video mostrano come, dopo una breve conversazione, sia scattata una rissa che ha coinvolto le crew di entrambi i rapper. Ci è andato di mezzo anche il negozio di profumi di un Duty-Free. La polizia ha arrestato undici persone, inclusi i due rapper. L'intero terminal è stato chiuso per qualche minuto e alcuni voli hanno subito dei ritardi.

Sia Booba che Kaaris dovevano esibirsi mercoledì sera a Barcellona, in locali diversi. Entrambi i concerti sono stati annullati. I nostri colleghi di Noisey Francia ci hanno detto che gli avvocati di Booba sostengono che lo scontro non sia stato un caso, ma che sia stato Kaaris a provocarlo. Il motivo? Il concerto di Booba era stato annunciato da tempo, mentre quello di Kaaris è stato annunciato solo il 30 luglio. Booba si sarebbe solo difeso.

Sono anni che il rapporto tra i due rapper si è rotto. La loro ultima collaborazione, "Kalash", risale al 2012. All'epoca Booba, già un grande della scena, aveva supportato l'allora semi-esordiente Kaaris dandogli credibilità all'interno della scena. Le cose hanno cominciato ad andare male quando Kaaris scelse di non supportare Booba nel suo dissing contro La Fouine. Dopo anni di minacce e mezze parole, oggi siamo arrivati a questo. I rapper non hanno ancora rilasciato dichiarazioni ufficiali su quanto avvenuto.

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Questo articolo è comparso originariamente su Noisey Germania.

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Le 3 migliori nuove uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ogni settimana ve ne consigliamo tre. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

BLADEE - SUMMER IN SILVER CITY

Yung Lean e Bladee sono praticamente Batman e Robin. Non solo perché sono amici nella vita, si esibiscono assieme e hanno una canzone insieme che si chiama "Gotham City", ma perché sono due menti creative complementari. Lean è il cervello, Bladee il cuore; Lean è la cura maniacale di ogni dettaglio, Bladee il grezzo impeto dell'emozione. Summer in Silver City è una coppia di nuove canzoni arrivate nel momento giusto per farvi rendere conto che forse non avete davvero bisogno di chitarrine allegre e drop da ballare. "I.E.E." sogna un'unione di corpi che vada oltre la carne ("Take your pain, now it's mine too") mentre "Smile" è una lancinante serie di domande senza risposta. Quello che ci vuole per cominciare agosto col piede giusto.

TRAVIS SCOTT - ASTROWORLD

Quando Giacomo Leopardi guardava le stelle dalla sua casetta di Recanati si prendeva super male paragonando le speranze della sua gioventù e l'amarezza della sua vita adulta. Quando Travis Scott guarda le stelle, invece, lo fa perché sta sotto MD e sta con un tipa che lo fa inginocchiare da quanto gli piace. Possiamo quindi dire che l'arte ha fatto un sacco di strada nell'ultimo paio di secoli e che ASTROWORLD, il nuovo album del vecchio LaFlame, è arrivato giusto in tempo per essere sparato di notte in spiaggia da un paio di casse bluetooth e rompere le palle alle coppiette che vogliono limonare. Se si lamentano, ricordategli che trap > limonare.

HELENA HAUFF - QUALM

La producer techno tedesca Helena Hauff ha mandato il suo nuovo album alla sua etichetta con una mail minimale: "Spero vi piaccia, è bello grezzo". Il contenuto di quel disco, che si chiama Qualm ed è uscito oggi, sembra provenire da una caverna preistorica in cui qualcuno ha fatto finire un generatore e dei sintetizzatori ficcandoli in un wormhole. Il titolo del disco gioca su un doppio significato: in tedesco, 'Qualm' signfica 'fumo', mentre in inglese si riferisce a una sensazione di disagio, dubbio, preoccupazione e paura. Ascoltatelo, cancellate il volo per Lloret de Mar e prendetevi subito un bell'EasyJet per Berlino, che fate ancora a tempo ad andare all'Atonal.

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Tutto quello che devi sapere sul nuovo album di Travis Scott, ASTROWORLD

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Era il 2016 quando Travis Scott annunciò al pubblico di un suo concerto il titolo del successore di Birds in the Trap Sing McKnight. Si sarebbe intitolato ASTROWORLD, disse Travis. Nessuno però poteva sapere che avremmo dovuto aspettare due anni per sentirlo. E invece eccoci qua: La Flame ha condiviso un trailer in cui sembrava in mezzo a una profezia di Daenerys Targaryen in Game of Thrones e nel giro di una settimana ha pubblicato l'album. È ancora presto per giudicarlo, ma intanto eccovi una breve guida all'ascolto da leggere per fare i saccenti con i vostri amici.

ASTROWORLD ESISTEVA DAVVERO ED ERA UN PARCO DIVERTIMENTI

La mappa di Astroworld.

In un'intervista rilasciata l'anno scorso, Travis ha rivelato che l'ispirazione per il titolo di ASTROWORLD viene da un parco divertimenti oggi scomparso, il Six Flags Astroworld di Houston, Texas, demolito nel 2005. "Lo hanno buttato giù per costruire altri appartamenti", dichiarò, "Ed è così che suonerà l'album: come un parco divertimenti tolto alla gente. Lo rivogliamo! Rivogliamo quel parco. È per questo che ho scelto quel titolo. Da quando non c'è più, Houston è meno divertente".

TRAVIS È STATO ACCUSATO DI TRANSFOBIA PER AVER MODIFICATO L'ARTWORK

L'artwork di ASTROWORLD è una fotografia scattata da David LaChapelle, un celebre artista e regista americano noto per le sue composizioni surreali. Sia Scott che LaChapelle lo hanno pubblicato sui loro profili, ma con una differenza fondamentale: nella versione postata da Scott era stato rimosso un elemento della composizione, cioè Amanda Lepore, icona trans e musa ispiratrice di LaChapelle.

La vincitrice della decima edizione del reality show RuPaul's Drag Race, Aquaria, ha postato un paragone tra le due immagini accusando Scott di transfobia. Scott non si è espresso riguardo alle accuse, mentre la Lepore ha rilasciato una dichiarazione ufficiale: "Non ci posso fare niente! Sono una distrazione troppo grossa. Ho messo in ombra tutti gli altri nella fotografia! Che dire... adoro David LaChapelle e Travis Scott. Amore e baci".

CI SONO DEI FEATURING CLAMOROSI

I featuring di ASTROWORLD non sono stati annunciati prima della pubblicazione dell'album e non sono dichiarati nei titoli delle tracce. Ascoltarlo senza sapere nulla è un'esperienza clamorosa. In ordine di apparizione, tra le pieghe dei nuovi brani di Travis fanno capolino: Frank Ocean, Drake, Swae Lee dei Rae Sremmurd, James Blake, Kid Cudi, Stevie Wonder, Juice WRLD, The Weeknd, 21 Savage, Quavo e Takeoff dei Migos, Thundercat e molti altri ancora.

Praticamente mezzo olimpo del rap statunitense più una leggenda della musica mondiale (Wonder), l'esordiente più di prospettiva della scena SoundCloud Rap (Juice) e il musicista inglese che è meglio riuscito negli ultimi anni a creare connessioni tra quieta post-dub e la grande tradizione rap americana (Blake: nel suo curriculum ci sono collaborazioni con Kendrick Lamar, Jay Z Frank Ocean, Beyoncé, Chance the Rapper).

TRAVIS PARLA DELLA SUA RELAZIONE CON KYLIE JENNER

Travis Scott ha cominciato a frequentare Kylie Jenner, iper-celebrità dei reality e parte del cast di Keeping Up With The Kardashians, ad aprile 2017. A febbraio è nato il loro primo figlio. "COFFEE BEAN", il pezzo che chiude l'album, è il primo in cui Travis parla della sua relazione, e lo fa con un certo peso nel cuore. Innanzitutto rivela di avere sofferto il modo in cui i Jenner hanno preso la cosa, accusandoli di avergli fatto pesare il colore della sua pelle:

"La tua famiglia ti ha detto che ero una mossa sbagliata / E poi mettici anche che sono nero! / Esco dal bagno con le mani mezze asciugate."

Poi parla del peso che le distanze hanno sul rapporto:

"È una settimana e mezzo / Che non parliamo come al solito / Quando non ci sono tu ti senti libera / È da un po' che ci penso dietro a 'sto vetro oscurato (È tutto qua, è tutto qua)."

E di come il suo successo e quello di Kylie si intersechino, rendendo pesante il loro rapporto:

"È stressata per tutti gli award a cui deve andare / È stressata per come si deve vestire / Ho comprato 'sta villa pignorata / Non importa quanti biglietti hai venduto col tour / Te lo senti nel profondo del torso / È come se qualcuno ti stesse leggendo l'oroscopo / È roba che sappiamo solo io e il Signore / SOS, questa è per chi ascoltano in codice morse".

Nel titolo del brano si nasconde però un lumicino di speranza: il "chicco di caffè" è una metafora per indicare un risveglio, una botta di vita, una nuova presa di coscienza sulla sua relazione.

L'ALBUM È STATO CONCLUSO CON UN RITIRO CREATIVO A HONOLULU

Non è la prima volta che un rapper paga voli a mille persone per farle lavorare con lui in studio in un posto esotico, ci mancherebbe: il re di questa pratica, Kanye West, lo fa dai tempi del suo capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy. Forse spinto dalla loro collaborazione "Watch", anche Travis ha pensato di fare la stessa cosa e invitare un po' di amici alle Hawaii per lavorare con lui ad ASTROWORLD.

Come raccontato da COMPLEX, Travis ha portato con sé una vagonata di producer con curriculum da far esplodere la testa: Gunna, Don Toliver, Sheck Wes, Allen Ritter, NAV, Amir Esmailian, Frank Dukes, Sonny Digital, WondaGurl, Wheezy e nientepopodimeno che Mike Dean.

"5%" È UN ENORME OMAGGIO ALLA TRADIZIONE SOUTHERN RAP

In "5%" Travis, nato e cresciuto a Houston, Texas, omaggia il southern rap che lo ha formato. Il titolo è un riferimento a "Still Tippin'", un classico del southern rap. Il brano era a firma di Mike Jones, che era passato dal sognare una carriera nel basket a umili lavoretti nei fast food di Houston e piccolo spaccio prima di mettersi a fare il rapper. Sulla traccia apparivano anche Paul Wall e Slim Thug, padre della barra a cui il titolo fa riferimento: "Five percent tint so you can’t see up in my window" ("Vetri oscurati al 5%, non mi puoi guardare in casa"). Il video, che potete vedere qua sopra, è un viaggio nel tempo da strapparsi i capelli.

Il beat è prodotto da FKI 1st, un producer di Atlanta: sua è l'intuizione di riprendere un altro classico del southern rap nel pezzo, cioè "Cell Therapy" dei Goodie Mob. Tutti nati ad Atlanta, i Goodie Mob facevano parte del collettivo Dungeon Family assieme a chi avrebbe portato la capitale della Georgia sul trono dell'hip-hop mondiale: André 3000 e Big Boi, gli OutKast, che li ospitarono su diverse tracce del loro esordio Southernplayalisticadillacmuzik.

Un ultimo riferimento potrebbe nascere dal tema del pezzo, cioè i rompicoglioni che ti spiano - da cui il discorso dei vetri oscurati del titolo. "Peepin Through My Window" è infatti il titolo di uno storico brano prodotto da DJ Screw, padre dello stile "Chopped & Screwed" e principale responsabile della fama della lean. Lo potete ascoltare qua sopra, a rappare è un altro storico MC della scena di Houston, Lil' Keke.

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C'è un filo rosso che lega la trap al prog rock italiano

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Non sono impazzito, lo so anch'io che da un punto di vista strettamente musicale la trap con il prog non c’entra proprio nulla. Il parallelo che voglio tracciare muove da un’ottica più ampia, e si riferisce più che altro al processo di assimilazione e rielaborazione di un trend musicale nato all’estero, ma capace di germogliare e prosperare, più che in altri posti, proprio nel Bel Paese.

La trap, esattamente come il prog, è un fenomeno musicale (e non solo) talmente potente da finire per rappresentare il suono di un intero decennio. E, ora come allora, in Italia ha portato allo sviluppo di una scena nazionale decisamente corposa, ora come allora. L’indie, dalle sue manifestazioni originarie fino alle degenerazioni più smaccatamente nazionalpopolari di Paradiso e compagnia molesta, rappresenta un caso nettamente diverso. Perché alla matrice originaria (talmente variegata e composita che servirebbe un altro articolo) si è aggiunta una fetta di italianissimo retaggio (il cantautorato più o meno impegnato, il pop da classifica, ecc) che ha portato alla nascita di un qualcosa a sé. La trap e il prog invece sono state prese dal loro habitat originario (rispettivamente USA e UK) e importate in Italia pari pari. Capire perché questa introduzione sia stata così facile, immediata e prolifica non è troppo immediato.

Il prog è stato capace di attecchire e fiorire in Italia perché riusciva a coniugare splendidamente le due anime principali che per tutta la sua storia hanno caratterizzato la musica italiana: una tradizione di musica classica (o “colta”) florida e radicata da una parte, e il sempreverde gusto per la melodia e il belcanto dall’altra. Nello studio di composizioni cervellotiche, con ritmi dispari e scale inusitate, hanno prosperato le ambizioni più accademiche e teoriche di musicisti rock magari con un solido background di studi al conservatorio. Il risultato sono state delle interminabili suite lunghe anche venti minuti, piene di cambi di tempo e atmosfera: delle odissee di onanismo compositivo virtuosistico nel peggiore dei casi, delle robe immaginifiche in altri. "Supper’s Ready" dei Genesis, "Tarkus" degli Emerson, Lake & Palmer, e buttiamoci pure "Red" dei King Crimson che non è proprio prog ma è la migliore di tutte. In Italia, nella sezione “bellissimi mostri”, possiamo vantare cose come Il "Giardino del Mago" e "Canto Libero per un Prigioniero Politico" del Banco, "Animale Senza Respiro" degli Osanna, "Felona e Sorona" delle Orme, "L’Amico Suicida" dei Biglietto per L’Inferno, e si potrebbe proseguire per un bel po’.

Al tempo stesso la melodia, così fondamentale nel decretare il successo di un fenomeno musicale dalle nostre parti, non veniva dimenticata. Basta farsi un giro in uno qualsiasi dei capolavori prog inglesi per imbattersi in melodie assolutamente magnifiche, dalle più intuitive alle più arzigogolate. Il solo trittico di capolavori gabrieliani dei Genesis (Nursery Crime, Foxtrot e Selling England By the Pound) può abbondantemente bastare come compendio esemplificativo. In Italia, dalla PFM alle Orme, dal Banco alle sperimentazioni degli Area, questa possibilità di unire melodia e sperimentazione veniva accolta con gioia e fertilità. L’assenza in ambito nazionalpopolare di una terminologia designata al tempo (il prog italiano viene chiamato così solo ex-post, ma nel suo periodo di maggiore fama è soltanto "musica pop") è sintomo sì di un’inadeguatezza giornalistica ma anche e soprattutto della percezione del fenomeno non tanto come frattura quanto come naturale evoluzione di spinte già note.

Il trionfo della trap muove esattamente dalle stesse dinamiche. Siamo all’inizio degli anni Dieci, l’hip hop inizia a diventare figo. Perché c’è Jay-Z, c’è Kanye, c’è Kendrick, prima di loro c’è stato Eminem. Qualcosa comincia ad arrivare anche in Italia, dove l’hip hop peraltro c’è già da almeno vent’anni. Fino a quel momento però il genere è ancora legato ad una narrazione che lavora quasi esclusivamente di stereotipi: Jovanotti che fa le corna e urla "Yea, boy", il “tradimento” di Fabri Fibra ospite alle Invasione Barbariche, poche altre eccezioni. Quello che filtra del fenomeno attraverso le maglie dell’informazione mainstream è ancora un rigurgito residuale di tutto un sottobosco ben più ampio e fecondo.

L’hip hop in Italia esce definitivamente dalla sua nicchia per aficionados anche e in buona misura quando la trap diventa mainstream: il giro di vite viene dato grazie alle produzioni di Lex Luger e a video virali come Harlem Shake o il Mannequin Challenge (che aveva "Black Beatles" dei Rae Sremmurd come sottofondo), che grazie al web arrivano anche qui come in tutto il resto del mondo. In quel momento, una folta schiera di giovani rapper e producer ha saputo raccogliere il momentum inserendosi in una tradizione già consolidata nel suo non troppo bazzicato orticello, incorporando quello che è il trend principale del periodo.

E anche tanti degli interpreti più storici e “istituzionalizzati” dell’hip hop italiano hanno saputo adeguarsi cogliendo la mano tesa dalle nuove leve. Apertura alla novità o mero opportunismo, il confine è piuttosto labile. Resta il fatto che la trap, con le voci ricoperte dall’autotune e le facili commistioni con il future r&b e il nu-soul, è il contenitore perfetto per la melodia che da sempre è condicio sine qua non del successo di un genere musicale in Italia. Riassumendo: l’hip hop diventa una cosa socialmente riconosciuta figa a partire negli anni dieci; in questo periodo gran parte dell’hip hop è trap; la trap si apre facilmente alla melodia, ed ecco la trap italiana.

E ora? Negli anni Settanta (e anche per un bel po’ di tempo dopo) gruppi prog italiani - penso soprattutto alla PFM - andavano in giro per il mondo riempiendo i palazzetti. Sulla possibile esportazione all’estero della trap italiana il discorso è ben intavolato. In questo senso quello che ha fatto i passi più importanti è Sfera, che ha teso da subito la manina alla Francia (vedi i feat. con SCH) ed è riuscito a tirarsi nel disco il feat di un peso massimo americano come Quavo. Se tutto questo avrà successo, e dopo oltre quarant’anni riusciremo a riesportare un genere musicale cui daremo un contributo significativo, è ancora tutto da vedere. Certo, accostare Impressioni di Settembre e Cupido sguinzaglia il mio lato più reazionario e non lascia troppo ottimismo sulle «magnifiche sorti e progressive» del pop italico, ma d’altronde anche la PFM ha fatto merdate come Chocolate Kings.

Luca è l'autore del libro Hip Pop. Metamorfosi e successo di beat e rime , pubblicato da Arcana Edizioni. Seguilo su Instagram.

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La musica elettronica "non è consona ai luoghi della cultura"

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FRAC Festival, dove la sigla sta per Festival di Ricerca per le Arti Contemporanee, è un bell'evento di musica elettronica e sperimentale organizzato dal Centro di Ricerca per le Arti Contemporanee di Lamezia Terme (CZ), che ha il merito di portare una botta di elettronica contemporanea e musica che spacca in un luogo periferico rispetto al "centro dell'Impero" come la provincia di Catanzaro.

L'edizione di quest'anno è in dirittura d'arrivo, infatti si svolgerà il 10 e 11 agosto e ospiterà artisti come Floating Points, Mavi Phoenix, Nu Guinea, Populous, Myss Keta, LNDFK (e molti altri, la lineup completa la trovi a questo link).

La locandina del festival, foto via Facebook.

Ma proprio oggi, a una settimana dall'inizio delle danze, è arrivata la doccia fredda. La location, già approvata e annunciata, del meraviglioso Parco Archeologico Scolacium non potrà ospitare l'evento. La decisione è stata presa dalla Direzione Museale della Regione Calabria: il documento presentato riporta paura di danni a monumenti e persone causate dalle installazioni ospitate dal festival "in un'area sottoposta a frequenti raffiche di vento" e di "interventi di musica elettronica, pop, avanguardia non consone ai luoghi della cultura".

L'organizzazione del festival ha risposto con un comunicato in cui denuncia queste motivazioni come "pretestuose e agghiaccianti", parla di "intollerabile violenza" verso lo staff e il pubblico e annuncia di essersi mossa per vie legali.

In tutto questo, fortunatamente sono giunte in soccorso al FRAC il Comune e la Provincia di Catanzaro, che hanno concesso d'urgenza al festival l'utilizzo dello spazio di Villa Margherita, nel centro di Catanzaro. Perlomeno la vacanza in Calabria con colonna sonora d'eccezione, consona o non consona, è salva.

Acquista i biglietti per il FRAC Festival sul sito e segui l'evento su Facebook.

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Nel metal non c'è posto per razzisti, molestatori e fanatici

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Se devo essere completamente onesta, credo che chi ascolta metal non possa più permettersi il lusso di separare l'arte dall'artista. Il mondo in cui viviamo è sempre stato orribile, violento e ingiusto. Ci sono sempre state disuguaglianze, la maggior parte di noi è sempre stata sfruttata, le comunità ai margini della società hanno sempre sofferto l'operato di chi è al potere e vive una vita di privilegi che spesso non si è guadagnato. Io sono americana, e la terra su cui poggio i piedi ogni giorno è terra rubata, macchiata del sangue versato durante un genocidio colonialista. Queste sono verità che restano tali indipendentemente da chi sia alla Casa Bianca o in qualsiasi altro parlamento. Ma data l'era iperconnessa in cui viviamo, è veramente impossibile chiudere un occhio di fronte alle ingiustizie che ci vengono costantemente messe di fronte.

Abbiamo visto i bambini chiusi in gabbia. Abbiamo visto i corpi di uomini neri innocui e disarmati, stesi sull'asfalto delle strade, uccisi dallo stato. Abbiamo visto cimiteri ebraici dissacrati, moschee imbrattate, svastiche sui muri, organizzazioni razziste come il Ku Klux Klan marciare per le strade delle città degli Stati Uniti. Ho sentito molta gente parlare di come avrebbe opposto il fascismo negli anni Trenta, quando cominciarono a bruciare libri e ritirare passaporti. Bé, ora possiamo farlo sul serio. Certo, ascoltare musica composta da un razzista, un molestatore o un fanatico non è un gesto così grave da poter essere paragonato a una violenza. Ma supportare tacitamente (o esplicitamente) le ideologie violente che queste persone abbracciano è una pratica pericolosa, disumana e vergognosa? Sì. Ignorare intenzionalmente il peso che la politica ha sull'arte ti rende un codardo? Ancora, sì. Saper scrivere un buon riff di chitarra non ti scagiona, non è mai stato così e soprattutto non lo è ora.

Detto questo, probabilmente potete immaginare che cosa ne penso del fatto che gli As I Lay Dying, una band metalcore cristiana (se lo sono ancora), hanno deciso di riaccogliere il loro ex cantante, Tim Lambesis, uscito di prigione prima del tempo. Lambesis era stato arrestato nel 2013 dopo aver tentato di assoldare un poliziotto sotto copertura per uccidere sua moglie, da cui era separato. Si dichiarò colpevole e venne condannato a sei anni di carcere. A dicembre 2016 gli è stata concessa la libertà vigilata e ora gli As I Lay Dying lo hanno fatto cantare su un nuovo pezzo che si intitola "My Own Grave", la mia tomba. Un titolo un po' rischioso dato, insomma, il fatto che quest'uomo ha appena tentato di far uccidere sua moglie.

La band ha poi pubblicato un video di mezz'ora in cui spiega la sua decisione di riaccettare Lambesis nel gruppo. Lo potete guardare qui sopra. Ogni membro dice la sua e a un certo punto il chitarrista, Nick Hipa, dice "Nessuno dimenticherà mai quello che ha fatto, ed è proprio così che doveva andare. Sarà un pensiero che accompagnerà Tim per tutta la sua vita... quando mi sono reso conto di chi fosse e d chi fosse diventato, mi sono sentito di lasciarmi dietro ogni cosa". Si parla del processo di Lambesis e della sua condanna, ma nessuno dice nulla sul motivo di quella condanna, o parla della sua ex moglie o dei suoi tre bambini.

Molti hanno commentato negativamente la scelta del gruppo ma c'è stata anche una robusta fazione di fan che ha reagito positivamente al ritorno di Lambesis. Tra le risposte che hanno ottenuto su Twitter ce ne sono tantissime che gli augurano solo il meglio e alcuni invocano persino Gesù Cristo. Io ho detto la mia e una persona mi ha risposto, "Che altro può fare un trentasettenne? I suoi compagni negli As I Lay Dying lo hanno mollato e hanno formato un altro gruppo, i Wovenwar, quindi credo che il problema siano più loro che lui". Il che ha senso solo se si pensa che "rockstar" sia l'unica carriera possibile per un uomo cis, bianco, sano e malapena di mezz'età negli Stati Uniti, sebbene con la fedina penale sporca.

Per essere chiari, avere la fedina penale sporca è una barriera decisamente difficile da affrontare per molti ex carcerati in cerca di lavoro (specialmente se neri o latini) ed è un altro brutale sintomo dello stato del sistema penale statunitense. Allo stato attuale delle cose Lambesis probabilmente avrebbe problemi a trovare un lavoro intellettuale e potrebbe doversi trovare un cosiddetto "lavoro di transizione" consigliatogli dal suo agente di custodia. Un altro commento che ho ricevuto faceva notare che Lambesis avrà bisogno di guadagnare abbastanza da sopravvivere e pagare gli alimenti ai suoi figli, il che è più che ragionevole. Ad ogni modo, questo non mi convince che abbia il diritto di ricominciare una carriera da musicista a tempo pieno, con un mare di fan che sbava ai suoi piedi. E che i suoi compagni di band non siano complici della diffusione di quest'idea.

Non credo che il carcere sia la risposta giusta per affrontare i problemi di uno stato; nessun essere umano dovrebbe mai restare rinchiuso in una gabbia a vita. L'obiettivo dovrebbe essere la riabilitazione e la guarigione dell'individuo, e quello che mi preoccupa del caso di Lambesis è che sembra non esserci traccia né dell'una né dell'altra. La sua immagine può essere stata riabilitata agli occhi dei suoi fan e di parte dell'industria musicale, ora che tra l'altro si è risposato. Ma a quale prezzo? È una questione spinosa e complessa e le mie risposte non sono certamente le uniche degne di essere ascoltate, ma non mi sembra che il sentiero intrapreso dagli As I Lay Dying sia quello giusto, anche se porgere l'altra guancia è un celebre precetto cristiano. Assurdo come si possa scegliere di scegliere delle piccole parti del cristianesimo e di usarle per giustificare anche i gesti più disumani, eh?

Ho chiesto un'opinione sulla questione all'etichetta del gruppo, la Metal Blade Records, ma si sono rifiutati di rilasciare dichiarazioni. Per ora, il mistero continua: che cosa succederà agli As I Lay Dying? Dovrebbe fregarcene qualcosa? Che cosa succederà quando andranno in tour o quando registreranno un nuovo album? La stampa ne parlerà? Tim Lambesis sta venendo perdonato perché ha commesso un crimine contro una donna? O perché il metalcore è un genere considerato superato e stantio, e non più tagliente e pericoloso come altri? O perché la sua band è stata importante per un grande numero di metallari della nostra generazione nel momento in cui stavano diventando metallari? Solo il tempo potrà dirlo, e trovo la cosa abbastanza frustrante.

Ma sarei stupida a scrivere tutto questo senza riconoscere che i metallari hanno storicamente creato spazi espressivi per razzisti, molestatori, fanatici e altra feccia. Alcune delle nostre leggende e tradizioni più apprezzate sono incentrate su odio e violenze e molti le hanno usato per lasciare segni indelebili sulla storia del metal, da Varg Vikernes in arte Burzum a quel razzista dei Malevolent Creation. Il problema è particolarmente sentito da chi ascolta black metal, dato che alcune delle figure più rispettate del genere sono persone orribili. O comunque persone che hanno fatto cose orribili.

Personalmente sono anni che cerco di capire la mia posizione sul tema e in passato ho certamente commesso degli errori. Oggi ho scelto di interrompere i rapporti con ogni artista le cui azioni o il cui credo politico non mi fanno sentire a mio agio nello svolgimento del mio lavoro e nella mia vita. Ma anche solo l'anno scorso, quando sono andata in Norvegia a intervistare Ihsahn degli Emperor, ho sentito un conflitto tra l'amore profondo che provo per la loro musica e la consapevolezza che ho del fantasma che aleggia su di loro. Quello di Magne Andreassen, l'uomo omosessuale che venne accoltellato e ucciso da Bård "Faust" Eithun, ai tempi compagno di band di Ihsahn, nel 1992. Sono quasi arrivata a decidere di non scrivere più l'articolo che dovevo scrivere.

È stato difficile. La prima volta che ho intervistato Ihsahn ero all'università e lo ricordavo come una persona gentile e premurosa. Quando mi si è palesata l'opportunità di incontrarlo di persona per parlare di uno dei miei album preferiti ho accettato senza pensarci due volte. Una volta arrivata in Norvegia, il giorno prima dell'intervista, ho parlato con dei metallari queer che mi avevano contattato dopo che avevo annunciato il mio incontro con Ihsahn su Twitter. Mi hanno detto che li avevo delusi e che, essendo io una persona che parla di metal senza limitarmi solo alla musica, dovevo comportarmi meglio. Inizialmente mi è venuto da mettermi sulla difensiva, ma sapevo che avevano ragione. Ho quindi deciso di fare il meglio che potessi per affrontare la situazione senza mettere a rischio il lavoro che ero stata mandata lì a fare. Ho contattato degli amici norvegesi che conoscono bene sia Ihsahn che Faust e abbiamo parlato della natura del male, della vita di Faust dopo il carcere, di come Ihsahn abbia interiorizzato quell'omicidio e del fatto che ci siano alcuni tra di loro che non riescono nemmeno più a guardare Faust in faccia.

Ho considerato il fatto che Faust non ha suonato su Anthems to the Welkin at Dusk, l'album di cui avrei dovuto parlare durante l'intervista. Ma sapevo anche che gli Emperor lo avevano ripreso nella band dopo che aveva scontato nove anni dei quattordici a cui era stato condannato. Ho pensato a come può essere avere 17 anni e scoprire che un tuo amico e compagno ha ucciso qualcuno. Andresti a denunciarlo o ignoreresti il problema sperando che scompaia? Che cosa può essere passato in testa a Ihsahn quando lo ha scoperto? Io mi sarei comportata diversamente?

Alla fine ho scritto quell'articolo. Capisco perché sono stata criticata e mi sento responsabile delle mie scelte. Non sono sicura che lo rifarei se mi venisse offerto oggi, ma queste sono esattamente le decisioni difficili che dobbiamo fare, gli errori che dobbiamo affrontare se vogliamo davvero un cambiamento. Tutti facciamo cazzate, prima o poi. La cosa più importante è fare qualcosa per rimettere ordine nel disordine che creiamo.

Ma come farlo? Non c'è una singola risposta e anche se mi conosco meglio che in passato mi ci è voluto un sacco per poter arrivare a questo punto. Si tratta di responsabilità e di politica, della voglia che hai di interagire, interrogare e persino abbandonare le cose che ami in nome di una maggiore e migliore comprensione del mondo, e di una riduzione del dolore. Ci sono un sacco di gruppi metal al mondo. Chiedersi se vale la pena ascoltarne uno problematico solo perché ha dei riff che spaccano è un passo tanto piccolo quanto cruciale. Comincia tutto da noi. Comincia tutto da te.

Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.

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La guida di Noisey per cominciare ad ascoltare Grace Jones

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Nel mondo della musica ci sono gli artisti, le star e le superstar. La maggior parte appartiene alla prima categoria. Alcuni alla seconda. Ma ci vuole una persona speciale per entrare nell'ultima categoria, e uno su mille ce la fa. David Bowie. Prince. Patti Smith. Kurt Cobain. Madonna. Beyonce. Alcune altre. E poi c'è Grace Jones, una stella che appartiene a una galassia tutta sua, che, a 70 anni suonati, si trova ancora in tour, pronta a far roteare un hula-hoop, completamente ricoperta di vernice colorata e cantando i suoi più grandi successi.

Anche se Grace Jones è considerata un'icona (e iconica lo è di certo, con la sua estetica androgina e la sua musicalità oltre ogni limite nel corso di 50 anni di carriera) la sua discografica non è conosciuta quanto quella di altri artisti del suo calibro. Il suo nome fa pensare immediatamente alle radicali collaborazioni con Jean-Paul Goude, Andy Warhol o Keith Haring, in cui ha usato il proprio corpo come vernice per audaci dipinti astratti. Oppure si potrebbe ricordare i suoi maggiori successi di metà anni Ottanta come “Slave to the Rhythm” o “Pull Up to the Bumper”. Ma, a meno che non siate fan, la Jones è riconosciuta più per l'ampiezza della sua influenza culturale che per le varie sfumature che si trovano nei suoi dieci album in studio e 53 singoli tra il 1976 e il 2008. Ed è un peccato, perché c'è un sacco di roba lì dentro, un sacco di roba di cui innamorarsi.

Nata e cresciuta in una terrificante famiglia religiosa militante a Spanish Town, in Giamaica, l'infanzia della giovane Jones è stata tutta disciplina e paletti. Ciò che poteva e non poteva fare. Ciò che doveva reprimere. Come avrebbe dovuto passare la vita. Adolescente, è scappata prima a Parigi, dove è diventata una top model per Kenzo e Yves Saint Laurent, poi a New York dove ha trovato la strada della recitazione della musica. Ma per capire bene l'opera di Grace Jones, dobbiamo prima stabilire esattamente da dove è venuta. Perché la cosa che le è sempre venuta meglio è infrangere le regole come se non si accorgesse nemmeno che ci sono. Il che è strano, se si considera la sua educazione, oppure forse ha perfettamente senso.

“Nascondersi, avere segreti e non essere in grado di essere se stessa è una delle cose peggiori che possano accadere a una persona", mi ha detto quando l'ho intervistata nel 2015. “Ti abbassa l'autostima. Non riesci più a raggiungere quel picco nella tua vita. Dovresti sempre riuscire a restare te stessa e a essere orgogliosa di te stessa". Gran parte del lavoro della Jones gira attorno a questo principio: fare quel che si vuole e farlo il meglio possibile. Le sue opere sono strane, vibranti e progressiste. Nel corso degli anni ha intrecciato disco, new wave, post punk, art-pop, industrial, reggae e gospel in un suono compatto che è solamente suo, legato da una voce esuberante e potente. Il suo stile di performance è come i suoi visual: fisico, pieno di movimento, di colore, di vita.

Praticamente, non c'è nessun altro come lei. Se non la conosci abbastanza, ecco tutto quello che ti conviene sapere:

Forse ti interessa: la Grace Jones delle discoteche gay anni Settanta

Provate a immaginare. Siete in un piccolo villaggio nell'estrema periferia di Spanish Town, e ogni sera siete costrette a prendere parte in incontri di preghiera e letture della bibbia. Improvvisamente, arrivano i tardi anni Settanta e vi trovate al centro di Manhattan, New York, mentre venite incoronata come "Regina delle Disco Gay" dalla popolazione locale. Le fotografie di Grace Jones risalenti a questo periodo la ritraggono in nightclub leggendari come La Sept, Studio 54 e Area a sorseggiare cocktail in abiti di seta, in posa sulle moto per il Playboy italiano il giorno del suo compleanno accanto a gente come la leggendaria drag queen Divine.

Parlo di tutto questo perché la prima produzione musicale della Jones, risalente ai tardi Settanta, consiste di tre album disco che fotografano nitidamente l'atmosfera da club queer di grande città che lei viveva a quei tempi. Portfolio (1977), Fame (1978) e Muse (1979) sono stati pubblicati da Island Records in tre anni, e si raccomanda di consumarli tutti e tre insieme. Composti a fianco del produttore disco Tom Moulton, che aveva già lavorato con Gloria Gaynor e The Trammps, questi album erano concepiti per essere ascoltati immersi nelle rifrazioni di una disco ball luccicante, filtrati dalla nebbia dei quaalude mandati giù con l'aiuto di un drink dolce e molto alcolico e per un pubblico di giovani queer, star della moda e outsider culturali.

Nonostante vengano da un mondo molto selvaggio, però, questi primi album sono tra i lavori più addomesticati della Jones. La sua voce è più leggera e femminile rispetto ad alcune tracce successive, e la musica stessa è fatta con ritmi classicamente four-to-the-floor e forme orchestrali tipiche della disco. Eppure, c'è qualcosa di magico anche in questi pezzi, perché hanno il potere di riportarci in quell'epoca dorata. Ascoltate "I Need a Man", per esempio, e chiudete gli occhi per immaginare Jones che la canta in una cantina affollata, con il pubblico vestito di tutto punto, il sudore che cola sui muri, parlando di se stessa in una stanza piena fino a scoppiare di uomini gay che cantano assieme a lei.

Playlist: “Fame” / "Do or Die" / “Autumn Leaves” / "La Vie en rose" / “I Need a Man” / "Send in the Clowns" / "Sorry" / "What I Did For Love" / “Sinning”

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Forse ti interessa: la Grace Jones new wave reggae

Ora sì che si ragiona. È difficile decidere da dove iniziare quest'epoca molto speciale nella carriera di Grace Jones, quindi partiamo dal 1980, quando la disco è improvvisamente andata fuori moda (tra parentesi, questo è successo in buona parte anche a causa degli attacchi di orde di uomini americani eterosessuali e bianchi). Spinta dal bisogno di cambiare un po' le cose, oltre che dal positivo ma relativamente modesto successo dei suoi primi tre album, la Jones si è recata ai Compass Point Studios, di proprietà della Island, alle Bahamas, e lì ha dato vita a una delle sue trasformazioni più radicali.

Qui, a fianco dei produttori Alex Sadkin e Chris Blackwell (allora anche presidente della Island), ha forgiato un suono e uno stile che avrebbero influenzato gran parte delle vostre pop star preferite. La "nuova" Grace Jones era per una parte post punk, due parti new wave, il tutto inondato di sapori reggae-pop, frullato tutto insieme con naturalezza. Da questa esplosione creativa sono nati Warm Leatherette (1980), Nightclubbing (1981) e Living My Life (1982), un altro trio di album che si godono al massimo uno dopo l'altro, considerando che ognuno contiene alcune delle sue canzoni più conosciute e qualitativamente migliori.

È stato attorno a quel momento che la Jones ha iniziato a collaborare con il suo amante di allora, l'artista Jean Paul Goude. La copertina di Nightclubbing, per esempio (disco in cui troviamo la sensuale e arrogante jam post punk “Pull Up to the Bumper”), è un dipinto firmato da Goude che ritrae Jones in una giacca Armani dalle spalle squadrate, con una sigaretta che le penzola dalle labbra, i capelli nella forma a spazzola androgina che è diventata il suo marchio di fabbrica. Per apprezzare al meglio la qualità del lavoro di questi due artisti, vale la pena guardare The One Man Show, un video musicale di 45 minuti diretto da Goude in cui Jones si vede da ogni angolo. È ricoperta di colori primari, mentre la visione netta e angolare di Goude converge con la musicalità di Jones creando un'opera d'arte senza tempo.

Per quanto riguarda la sua musica, questa manciata di anni è forse meglio rappresentata dal pioniere del synth Wally Badarou nel suo libro uscito nel 2010 The Story of Island Records: “Penso che nulla potrebbe mai raccontarla, come nulla potrebbe mai raccontare la Motown o la Stax", ha detto, parlando dell'epoca d'oro dei Compass Point. "Lo studio stesso, gli ingegneri, i produttori, gli artisti, l'atmosfera del tempo: soltanto la precisa combinazione di questi elementi può creare una cosa del genere".

Playlist: "Warm Leatherette" / "Private Life" / “Love is the Drug” / "Pull Up to the Bumper" / "Nightclubbing" / “Demolition Man” / "My Jamaican Guy" / "Nipple to the Bottle" / The Apple Stretching”

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Forse ti interessa: la Grace Jones icona dell'art-pop?

Ho passato anni a cercare di descrivere la hit del 1985 "Slave to the Rhythm" con le parole, ma non ci sono mai riuscita. Niente è come lei. La canzone inizia con luminosi accordi di piano e un leggero sussurrare di ritmi go-go sullo sfondo, mentre l'attore Ian McShane legge degli estratti dalla biografia di Goude, Jungle Fever. Poi presenta lei con le parole: “Ladies and gentlemen… Miss Grace Jones… slave to the rhythm”, prima che entri la batteria con un colpo fermo, la linea di basso umida che si distende sotto tutto, e la voce profonda e vellutata della Jones che fa l'occhiolino all'ascoltatore: "Sto solo giocando, baby".

Ci sono così tanti strati lì dentro, che fate prima ad ascoltarvela da soli. C'è il testo ("Continua ad aumentare, non rompere la catena / Faremo scintille, quando il fischietto fischierà") che sono state interpretate come un commento su razza e capitalismo. C'è il video, fatto con materiale di visual precedenti tagliato e incollato come un assurdo collage mobile. C'è la musica stessa, una mescolanza perfetta e ballabile di R&B, funk e go-go music. Si dice che il produttore Trevor Horn abbia speso 385 mila dollari per l'album Slave to the Rhythm, in cui compare questa canzone, e si vede. Ogni istante di quel disco è compatto, rifinito, stupefacente, come se qualcuno avesse sapientemente scolpito un blocco di marmo rivelando una meravigliosa statua al suo interno.

Questo è considerato dai più il momento più mainstream della Jones. Si era già fatta un nome nei tardi anni Settanta e primi Ottanta, quindi poco più tardi è diventata una strana megastar del pop. Dopo Slave to the Rhythm è arrivata la sua compilation di greatest hits Island Life seguita da Inside Story, co-prodotto da lei stessa e da Nile Rodgers dei Chic. Si tratta di alcune delle sue creazioni più accessibili, ma anche di quelle più concettuali e provocanti. Per me, l'energia di quest'epoca raggiunge il climax con “I’m Not Perfect (But I’m Perfect For You”), una traccia pop ipercarica in cui lei arricchisce ogni ritornello con cori feroci, prendendo per l'ennesima volta i suoni pop e spingendoli in angoli inaspettati e mostruosi.

L'era mainstream pop di Jones è culminata nell'uscita del suo nono album Bulletproof Heart, nel 1989, ma a questo punto era già passata alla recitazione, essendo già comparsa nel film fantasy Conan il Distruttore al fianco di Arnold Schwarznegger, e poi nel film di James Bond 007 - Bersaglio Mobile, tra gli altri. Nessuno lo poteva sapere ai tempi, a parte, forse, la stessa Jones, ma non avrebbe più pubblicato album per i successivi vent'anni.

Playlist: "Slave to the Rhythm" / "The Fashion Show" / “Jones the Rhythm” / "I’m Not Perfect (But I’m Perfect For You" / “Hollywood Liar” / "Victor Should Have Been a Jazz Musician" / “Party Girl” / "Inside Story"

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Forse ti interessa: la Grace Jones del ritorno alle radici

Nel 2008, l'ultima cosa che chiunque si sarebbe potuto aspettare era un album di Grace Jones. Giaceva "addormentata" da anni, sempre in viaggio tra Parigi, New York, Londra e la Giamaica, impegnata a prendersi cura del figlio Paulo e della sua famiglia. Ma a un certo punto ha cambiato idea e ha deciso di mettersi a lavorare a un decimo album, Hurricane. E così ha convocato con decisione alcuni dei migliori collaboratori che potesse trovare (Brian Eno, Tricky, Sly and Robbie, uno degli inventori dell'afrobeat Tony Allen, Antony Genn dei Pulp) e ha scritto il suo album più esplicitamente autobiografico e, a mio parere, più sottovalutato.

Non c'è bisogno di aver ascoltato niente del catalogo di Jones per apprezzare Hurricane, è una forza a parte. Intreccia dub, elettronica, industrial, reggae e gospel. Scrive di sua madre, che sposò un predicatore a 17 anni. Canta di suo fratello, di suo figlio, di alcuni dei suoi amanti. La sua voce è più profonda, a tratti anche più mascolina. In "Corporate Cannibal", un capolavoro industrial che dovrebbe fare da colonna sonora a ogni festa di Halloween per l'atmosfera che crea, la sua voce sembra quella di un robot: "Ti darò un'uniforme, cloroformio / Sterilizza, omogenizza, vaporizzati". Questa è la Jones più strana e più meravigliosa; lo scintillante risultato di una musa perenne che diventa musa di se stessa.

Senza voler suonare devota, potrei scrivere di Grace Jones per l'eternità. Ci sono così tante cose da dire di un'artista che ha sfondato porte che gli altri non riuscivano nemmeno a vedere. Ma probabilmente è meglio leggere le sue stesse parole. Nell'introduzione alla sua biografia del 2015 I’ll Never Write My Memoirs, dice questo: "Se volete me, questa sono io. Non la caricatura di me. Questa è la me profonda, l'altra me, e ci sono altre me che non sono ancora nemmeno riuscita a concepire. Ma ci arriverò. Continuerò a seguire il sentiero che ho lasciato dietro di me per scoprire dove sto andando. Ho solo una vita con cui lavorare e la spremerò fino all'ultima goccia prima di finirla".

Playlist: "This Is" / "Williams’ Blood" / “Corporate Cannibal” / "I’m Crying (Mother’s Tears)" / "Well Well Well" / “Hurricane” / “Love You to Life” / “Sunset Sunrise” / Devil in My Life”

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La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Noisey UK.

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Quella volta che un gruppo di nerd creò l'Intelligent Dance Music

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Nel 1993, Alan Parry e Brian Behlendorf crearono il primo spazio online dedicato alla cosiddetta “musica dance intelligente” – o per dirla brevemente e con l’acronimo inglese, IDM. La lista, nata per discutere di Aphex Twin, della compilation di Artificial Intelligence pubblicata nel 1992 dalla Warp Records e di qualsiasi altra forma di musica elettronica introspettiva, divenne ben presto un luogo frequentatissimo da fan e artisti: Darren Emerson degli Underworld e Jon Drunkman degli Ultraviolet Catastrophe bazzicavano regolarmente. A meno di un anno dalla sua creazione, la Warp utilizzò alcuni dei messaggi del forum per la grafica della sua seconda compilation Artificial Intelligence.

Chi ascoltava IDM sepp fare un uso estremamente creativo del web 1.0, comunicando già all’epoca con un sistema di chat primordiale dove /H indicava un abbraccio, e /S dei baci. Spesso alle feste connettevano un computer e si scambiavano saluti con altri fan dell'IDM a migliaia di chilometri di distanza. Eppure il lascito dell'IDM è profondamente complesso. La sottocategoria è divenuta nota e ha ricevuto critiche da artisti, giornalisti e utenti delle Liste stessi. Secondo alcuni, l’ipotetica complessità dell’IDM non la rendeva più “intelligente” di altri tipi di dance music. Ma cosa c'è di così complesso, per esempio, in un pezzo seminale del genere come "Xtal" di Aphex Twin?

Altri ancora sostengono che la maggior parte degli artisti di cui si parlava nella lista fossero uomini bianchi. Insomma, più la analizzi, più la storia dell’IDM – che affonda le sue radici a Detroit con Derrick May, Kenny Larkin e Gerald Donald – assomiglia a quella del rock’n’roll: un genere musicale che nasce tra la popolazione afroamericana ma che conosce il successo grazie ai musicisti bianchi. Ma cosa pensano oggi gli utenti di quella lista? Abbiamo preso troppo sul serio gli scherzi tra un gruppo di amici e fanatici? È vero che Richard D. James si insinuava nelle loro conversazioni come racconterebbe la leggenda? L'ho chiesto ad alcuni di loro per cercare di scoprirlo.

Alan Parry, co-fondatore della lista

Chi ha inventato il termine “IDM”? Penso sia stato Brian Behlendorf! È incredibile sfogliare un giornale oggi e ritrovare ancora quella parola, nata tra le mura della cameretta di Brian. Ci siamo “incontrati” online, poi io sono andato a San Francisco dove abbiamo deciso di creare la nostra Lista IDM. Sin dall’inizio, la figura di Aphex Twin è sempre stata circondata da un alone di mistero. Io volevo scoprire chi produceva quei dischi. E la cosa migliore da fare era mettersi in contatto con più persone possibili e parlarne.

La musica era la mia vita. Nella mia città, Baltimora, organizzavamo serate con gente come gli Autechre e μ-Ziq. A un certo punto avevamo anche fatto un disco: gli utenti della Lista ci avevano mandato le tracce, poi la gente aveva votato e avevamo fatto un CD. Mi ricordo di averlo dato ai ragazzi degli Autechre, ma non lo considerarono più di tanto [ride]....

Non si è mai parlato di razza o di genere. La maggior parte della musica IDM non aveva un volto, era proprio quello il punto, no? Le copertine dei dischi non mostravano quasi mai esseri umani, di nessun tipo. Forse era una scelta intenzionale.

Jon Drukman, Artista (Ultraviolet Catastrophe, Bass Kittens), ex utente della List

La lista IDM era diventata una droga per me. Era una sorta di club esclusivo. All’epoca non c’erano YouTube e Spotify, se volevi prendere parte alla conversazione dovevi rovistare tra i cestoni di dischi. Non avevo idea di che faccia avessero gli altri utenti della Lista: erano solo tantissime parole su uno schermo e tantissimo amore per un tipo di musica piuttosto esoterico. Parlarne ci sembrava una cosa importante da fare.

Molti dei precursori della house e della techno erano neri. Ma per qualche motivo, l'IDM dell’epoca era principalmente "fatta" da uomini bianchi, artisti e fan. Ricordiamoci che il web nemmeno esisteva all’epoca. Connettersi a internet era davvero un’impresa. Non c’era Google per trovare la Lista. Era tutto passaparola, e in genere se sei un nerd bianco, i tuoi amici probabilmente sono anche loro nerd bianchi, e via dicendo.

Il nome stesso era un peso. Un mucchio di geek bianchi avevano definito la “loro” musica dance “intelligente”, il che era già abbastanza sospetto. Nessuno aveva da ridire contro artiste come Riz Maslen, Mira Calix e Andrea Parker. E c'era un dibattito acceso su Björk e su come avesse osato "rubare idee" agli LFO, ma non credo fosse un problema di sessimo. Anche se, da nerd bianco, forse non ho proprio tutti gli strumenti giusti per valutare la cosa.

Simon Reynolds, autore di Energy Flash: Viaggio nella cultura Rave ed ex utente della lista

Simon Reynolds, foto promozionale.

Mi sono iscritto alla lista IDM in epoca più avanzata, credo verso la fine degli anni Novanta, ma non ero un utente attivo. Ero più un osservatore, monitoravo la sottocultura e il suo sviluppo. Non possiamo nascondere che fosse chiaramente un posto dominato da utenti decisamente uomini e decisamente bianchi. A volte non è semplice dedurlo dagli alias della gente ma è una cosa che senti, hai presente? Banalmente, i fan IDM rispecchiavano gli artisti del genere: decisamente uomini e decisamente bianchi.

Mi piaceva un sacco di IDM. Ascoltavo Aphex, Luke Vibert, Oval e tutti gli altri, ma sentivo che in qualche modo i fan si erano appropriati di un complesso di superiorità senza averne alcun diritto. Artisti come Squarepusher non facevano nulla di nuovo rispetto a quanto già fatto da 4hero, Omni Trio, Goldie e tantissimi altri producer hardcore e jungle, molti anni prima!

Gli Autechre producevano degli anti-groove pazzeschi, con beat imponenti e decisamente creativi ma anche impossibili da ballare. Non per tutti questo era importante, dipendeva da quanto ti piaceva ballare. I fan non sembravano interessarsi granché alla dimensione danzereccia della loro amata “intelligent dance music.” La musica funzionale—al ballo in questo caso—era considerata inferiore alla musica puramente sperimentale. Era chiaramente una sottocultura nerd, fatta di gente che era ben felice di starsene a casa ad ascoltare musica bizzarra, piuttosto che uscire e frequentare altri esseri umani nei club o ai rave.

Penso che il termine in sé sia problematico, ma il genere di musica e la sua tematica sono fatti sociali e una realtà innegabile. Cercare di nasconderlo sembrerebbe strano. Allo stesso tempo, ha dato vita a ottima musica che va oltre le critiche mosse al suo pubblico.

Mike Brown, Curatore del sito sulla rave culture Hyperreal e membro della Lista

Tra il 1993 e il 1994 la parola “IDM” non era presa troppo seriamente. Erano solo tre lettere con poco significato al di fuori della nostra piccola community di nerd che le usavano per definire un ramo dell’elettronica che ci piaceva. Nessuno aveva intenzione di creare il nome di un genere musicale o sottintendere che artisti e fan di quella sottocategoria fossero tutti geni.

Ti ricordi quanto era grossa l'hardcore techno all’epoca? O quanto era ballabile la house che mettevano nei club? Be’, proprio come i punk rocker amavano il punk rock, noi adoravamo quella musica “stupida”. L'avremmo ballata per sempre. Ma allo stesso tempo, ad alcuni di noi piaceva anche quella musica “meno stupida” con un sound più sperimentale e meno dance.

Da un lato, in tutti i posti che ho frequentato, tra i fan, i promoter e i DJ non ho mai percepito la diversità come un problema, anche se oggi non sono certo di poterlo affermare con certezza. O almeno, tutti quelli che conoscevo io erano persone inclusive. Dall’altro alto, non sono cieco. I dati demografici sul pubblico IDM parlavano chiaro, e ora le domande sulla community sembrano più che giustificate. Perché c’era una così scarsa rappresentazione? Forse sarebbe interessante chiederlo a Carl Craig o a Mira Calix.

Mira Calix, artista sotto contratto con Warp

Mira Calix, foto promozionale.

Devo dire che quasi tutte le persone su quella lista erano giovani maschi bianchi, ma era la musica stessa a rappresentare fortemente la categoria. Io ero l’unica artista donna in Warp. Si può e si deve criticare questo fatto, ma allo stesso tempo se le case discografiche non promuovevano artiste donne, era difficile che quei ragazzi potessero scriverne.

L’etichetta non era un ambiente a me ostile, dal mio punto di vista non c’erano molte opportunità per le donne di farsi avanti e farsi notare. Ma non era una cultura macho. Per quello che so, nemmeno la lista lo era; era solo un po’ nerd. Anche se, devo dirlo, questa caratteristica è prettamente maschile, è vero. Ma questo non significa che le ragazze non collezionassero dischi—parli con una che si considera una vera nerd, altrimenti non farei questo lavoro [ride], ma penso che sia anche giusto dire che i più fissati erano gli uomini.

C’erano poche donne che producevano musica o si esibivano— davvero poche—e ancora oggi è così. Oggi vediamo personaggi come Beyoncé e Rihanna e ci illudiamo che le donne siano equamente rappresentate ma non è così, ancora oggi le donne sono in minoranza nell’industria musicale.

Non penso che la Lista fosse molto considerata dalla gente di Warp. Quello che apprezzavamo era il supporto e il fatto che avessero creato una vera e propria cultura, una nuova forma di comunicazione: in qualche modo, quello è stato come un primissimo social media. Non sapevo dei mini-rave, figo! Penso che la stessa cosa non sarebbe successa con una rock band. Il fatto che la musica fosse sperimentale e strettamente connessa con la tecnologia attirava un determinato tipo di pubblico.

Mi ricordo che alcuni artisti di Warp dicevano, “IDM? Suona un po’ ostentato,” ma se ci rifletti, è solo un nome. Come la garage, o la house. Se Richard [D James] ha mai usato la Lista? [ride] Tu cosa ne pensi? Alcuni artisti erano sulla Lista ed erano attivi, altri c’erano ma erano invisibili...

Questo articolo è apparso originariamente su Noisey UK.

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"Infinity" è l'unica hit estiva di cui avremo mai bisogno

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Here's my key,
Philosophy.
A freak like me
Just needs infinity.

Secondo il filosofo Emmanuel Levinàs, l'infinito si palesa nel rapporto con l'altro. Io comunico con te, ma non posso conoscerti perché sei all'infuori di me. Quindi sperimento l'infinito, che in un certo senso è anche lo spirito. È uno sguardo che si alza al cielo per poi abbassarsi verso gli occhi di un altro essere umano.

È proprio all'infinito che un ragazzo inglese, tanti anni fa, dedicò una sua canzone. Ai tempi faceva rock e non aveva ancora scelto il nome con cui sarebbe diventato famoso, cioè Guru Josh. Un giorno in un pub di Londra qualcuno gli diede dell'ecstasy; lui disse addio alle chitarre e si diede alla house music. Era il 1989 e il Regno Unito stava venendo infiammato dalla Second Summer of Love, cioè quei mesi in cui la acid house, strabordata dai confini di Ibiza, si fece il mare e la Manica per diventare la colonna sonora preferita degli impasticcatissimi servi della regina, portando alla nascita dei rave.

"È un periodo della storia della dance music inglese che è stato mitizzato così a fondo che anche chi è troppo giovane per averlo sperimentato lo guarda con nostalgia", ha scritto Crack di quei mesi. Guru Josh lo visse a fondo frequentando gli spazi più leggendari di quell'epoca: su tutti l'Haçienda di Manchester, il cui DJ si innamorò della sua prima canzone. Si chiamava "Infinity (1990s... Time for the Guru)" e cominciava con l'assolo di sassofono di un suo vecchio compagno di band.

"Stampammo 500 copie e 480 finirono nel cestino. Tutti mi dicevano che ero un pazzo per averci messo un sassofono ma Mike Pickering, il DJ dell'Haçienda, lo mise su e il resto è storia."

Se ancora non sapete di cosa stiamo parlando, ascoltate qua. La parte di sassofono di "Infinity" è una delle melodie più riconoscibili della storia della musica. Comincia con un Do, la nota più felice e sognante di tutte. Quella con cui iniziano le canzoni d'amore felice, quella attorno a cui si avvolgono le filastrocche che cantano i bambini. E va su, fa vibrare l'aria con un soffio di sassofono. Le mani si alzano al cielo, lo stesso dove da qualche parte nel nulla immenso si cela Dio, lo stesso che sta negli occhi e nei corpi di chi è nel tuo stesso spazio.

La copertina originale di Infinity.

Il video originale di "Infinity" è esploso, caleidoscopico. Guru Josh indossa una camicia tie-dye enorme e aperta sul petto, il suo sguardo è a metà tra il rapito e l'inquietante, la sua voce come svitata da una gola arrugginita. Una folla colorata si dimena in una nuvola di coriandoli, spezzettata da laser innocui. "Era un periodo fantastico", dice un commento su YouTube. "Il muro di Berlino era appena caduto, il comunismo stava collassando e la Guerra Fredda sembrava finita. C'era un'aria di ottimismo tra molti di noi, ci sembrava che il mondo avesse finalmente capito come funzionare".

La storia di Guru Josh non ha però un lieto fine. Dopo altri singoli di medio successo lavorò come imprenditore e si trasferì a Ibiza. Lì ha vissuto fino alla sua morte, arrivata all'improvviso alla fine del 2015. Aveva 51 anni, Guru Josh, quando si è tolto la vita. Oltre alla musica, di lui resta una visionaria serie di videocassette, Dance In Cyberspace, collage psichedelici per raver da salotto che sembrano versioni maledette di screensaver di Windows 95. Ma "Infinity" è la sua eredità più grande, qualche minuto di utopia elettronica di cui convincersi sospinti dal soffio di quell'inconfondibile sassofono.

Senza un DJ tedesco, però, quell'eredità potrebbe non esistere. L'8 agosto 2008, dieci anni fa, Guru Josh decise assieme ad amici di reimpacchettare la sua hit a nome Guru Josh Project. Un remix venne affidato a tale Klaas. Il risultato? Questo:

Non è più il sassofono ad aprire "Infinity" ma una voce baritonale che sembra annunciare una comunicazione di servizio. "Rilassati, prenditi il tempo che ti serve", dice. Si fa poi vocalist dall'ugola d'oro: "Prenditi il tempo che ti serve per fidarti di me / E troverai l'infinito". Un traboccare che si realizza nel drop, non più il tessuto di ritmo e melodia degli anni Novanta ma il godimento istantaneo e liberatorio della linea di basso che rimbalza e rimbomba nelle casse e nelle orecchie. Come un grande cartello "APPLAUSI" di quelli che vengono mostrati agli spettatori dei talk show, ma con scritto "BALLATE". Non pensate a niente se non al drop, perché quello è l'infinito, il momento in cui guardarvi negli occhi e toccarvi, avvicinarvi; o piegare il collo all'indietro e accompagnare la linea delle pupille con quelle delle braccia e fare su e giù, come a scuotere il cielo.

La confusione tra estasi e artificio che anima "Infinity 2008" si palesa anche nel suo video. Una stangona si aggira per un bosco tutta suadente e trova una casa. Vi entra, accende una vecchia televisione e si stende su un divano. Davanti ai suoi occhi compare il video della vecchia "Infinity". Lei, rapita, si spoglia lentamente fino a restare in lingerie mentre sui pixel dello schermo passa una versione granulosa della gioia che fu. Come lei, anche noi all'ascolto godiamo di un'esperienza mai avuta, un'era mai vissuta. Il tutto si conclude con un enorme martello che spacca un muro di mattoni prima e la televisione poi, come ad affermare il potere distruttore del remake: "Io ti eternalizzo, ma ti distruggo", sembra dire all'originale.

Una vecchia foto di Guru Josh. Credit: R. Kennedy / EMPICS Entertainment

E così sarà, perché è "Infinity 2008" a essere entrata nell'immaginario collettivo dei millennial. Arrivato agli albori dell'internet contemporaneo, il remake dei Guru Josh Project ha vissuto un'era transitoria in cui la vastità di scelta dei servizi di streaming era ancora una lontana speranza. La musica che all'epoca poteva essere descritta come "commerciale" (David Guetta, Laurent Wolf, Yves LaRock, Bob Sinclair, un accrocchio di pop, pre-EDM e French Touch da filodiffusione di Pull & Bear) andava ancora guadagnata a forza di download e si affermava per passaparola, per le radio, per le serate a cui veniva suonata. E "Infinity 2008" era ovunque, dagli iPod Touch alle feste d'istituto, passando per la programmazione di RTL 102.5.

Ad oggi, il video di "Infinity 2008" ha quasi 100 milioni di views ed è l'ottavo video più visto sul canale di Ultra Music, etichetta che incarna il senso più profondo dell'EDM nella sua accezione contemporanea: giochi di nostalgia, canzoni idiote da tormentone post-Rana Pazza, drop faciloni, ragazze in costume che ballano in piscina. 100 milioni a cui si devono aggiungere gli innumerevoli ri-upload del pezzo nelle sue varie versioni, tra cui uno sfortunato ri-remix tentato da DJ Antoine nel 2012 in piena esplosione EDM. L'unica vera differenza è il drop, ancora più sintetico e lontano dalla palpitazione costante alimentata dall'MD e dal vento delle Baleari che teneva in vita l'originale.

Dietro alla nostalgia c'è però qualcosa di molto più concreto. "Io non sono un DJ, io scrivo canzoni e oggi devi usare i giusti producer", ha detto Guru Josh in un'intervista spiegando il senso di "Infinity 2008". "È fondamentale saper cogliere lo stile giusto [per il momento in cui vivi], e oggi va l'electro". Niente di più semplice di un'operazione commerciale che ha come increato l'originale, confondendola nell'infinito gioco di rimandi che è e resterà la dance music.

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Tutti i segreti di Napoli Segreta

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Da qualche anno a questa parte, Napoli sembra non avere più segreti. Tutti ne parlano come di un mondo (a parte) che conoscono a menadito, salvo confondere una città con l’allucinazione collettiva prodotta dalle luci del set di Gomorra, il bomberino di Liberato e il TripAdvisor di De Magistris. Inutile dire che, come ogni luogo in cui da secoli si addensano umani, imbarcazioni, merci e laterizi, Napoli di segreti è piena. Se ci limitiamo soltanto alla musica, è ormai quasi rituale tornare dalle nostre incursioni in città con qualche perla sbucata da un’ostrica camuffata da cozza, o incastrata nel catrame del mainstream e scovata dall’occhio e dall’orecchio sopraffino degli archeologi del sound partenopeo.

Tutto ciò accade soprattutto da quando siamo entrati gioiosamente in contatto con quella rete di musicisti, DJ, intellettuali (e forse ora è il caso di dire trendsetter) che prende i nomi di Famiglia Discocristiana, DNApoli, Nu Guinea, Early Sound Recordings e Napoli Segreta. A tre anni di distanza dalla scoperta del misterioso canale Soundcloud di Don Palinuro, tre anni passati a cercare informazioni su tracce che riuscivamo solo a cantare per giorni e giorni, spesi a collocare nel tempo e nello spazio musica che non avevamo idea di chi, come e perché, finalmente Napoli Segreta scuce la prima raccolta con nomi e cognomi, un Vol. 1 che ci fa sperare in un’enciclopedia, anche se forse questa rimarrà solo una speranza.

Famiglia Discocristiana è il nome collettivo di uno dei compiler di Napoli Segreta. “Un segmento di qualcosa di più grande che accade oggi a Napoli, un spirito diverso, che mette insieme la musica, la letteratura, e una estetica nuova, fuori dai soliti cliché sulla città”, nelle sue parole. Gli abbiamo chiesto tutto quello che potevamo, ma, nel rispetto della ragione sociale, qualche lato nascosto è rimasto. Perché i lati B, come leggerete, sono 'a cchiù bbella cosa.

Noisey: Voi avete un motto che è in pratica anche il vostro manifesto: “Esiste un solo modo perché Napoli sia davvero segreta, non parlarne affatto”. Sono d’accordissimo con questa idea carbonara (mi ricordo anche di progetti senza volto come Capri Psichica in tempi non sospetti), perché credo che uno dei problemi di oggi sia appunto una diffusione di musica e informazioni talmente eccessiva e acritica che la gente si appropria di cose di cui non capisce il vero valore, spesso travisandole. Ma allora come mai avete sentito l’esigenza di svelare una parte di questi segreti? Perché l’avete fatto? Pecché?
Famiglia Discocristiana: Quando abbiamo commissionato al dottor Gennaro Ascione un testo per il retrocopertina della compilation Napoli Segreta, avevamo intenzioni assai contrastanti. Il testo potrebbe essere considerato quasi anti-promozionale, esprime per l'appunto tutte le nostre contraddizioni interiori. Un manifesto che non è frutto di una collaborazione occasionale, bensì di un vero e proprio sodalizio artistico. Abbiamo tradito l’essenza del digging? Abbiamo sputtanato dei titoli che sarebbero dovuti rimanere sconosciuti? Meglio rimanere dei “nonchiavomai” a vita o provare a tirar fuori un oggetto/feticcio da collezione per i posteri? La risposta a tutte queste domande era già sotto i nostri occhi. Ogni mattina, da dieci anni a questa parte. Sai quando ti capita di vedere lo stesso cane che piscia vicino alla stessa serranda, poi allo stesso palo più in là e innaffia lo stesso platano più in avanti, accompagnato sempre dallo stesso padrone? Marcare il territorio diventa l’unico modo per relazionarsi con l’ambiente più prossimo.

In effetti di questa compila si è parlato molto, ma non si è posto abbastanza l’accento su quello che manca, si dà per scontato che questi nove brani siano già una sintesi del tutto. E invece io ricordo che la prima volta che ascoltai per intero una vostra compilation ero a Napoli a casa di Gennaro e rimasi veramente folgorato, soprattutto da un brano synthpop che recita così: “Sto computer che buo'/Sono un missile o sono un robot”, che in questa raccolta è assente. Quello che mi ha fatto amare Napoli Segreta è che, appunto, impazzivo per cercare informazioni su questi brani ed era impossibile scucirvi un titolo. Soprattutto perché in realtà in questi pezzi gli autori sono quasi superflui: in realtà l’autore è Napoli stessa, è “una città che compone”. Siete d’accordo?
Si dovrebbe fare un distinguo tra Napoli Segreta (DJ set), Napoli Segreta (progetto discografico) e Napoli Segreta (Spin-off di Famiglia Discocristiana). Questa distinzione è necessaria perché vede la partecipazione di diversi soggetti coinvolti a vario grado. La tracklist della compilation, ad esempio, è venuta fuori da una mediazione tra tre compiler (Lorenzo Sannino, Gianpaolo Della Noce e Nu Guinea) ed è stata concentrata su un periodo ben preciso: fine Settanta/inizio Ottanta. La compilation non è la Bibbia definitiva, né la sintesi del tutto. Vuole provare a racchiudere un determinato suono un po’ disco, un po’ funk, a tratti boogie, a tratti balearica. Ovviamente abbiamo dovuto escludere molto, sarebbe pretenzioso assai confinare un decennio in appena 9 brani. Considera, ad esempio, il fatto che in quegli stessi anni (giugno 1984) apriva le porte il Diamond Dogs Club (in pieno Rione Sanità) che aggregava esteticamente e musicalmente metallari, new romantics, dark, nichilisti, selvaggi napoletani. Il brano a cui ti riferisci, ad esempio, sarebbe stato una perfetta colonna sonora per quella stagione: vocoder, rullante dal sapore synthwave, liriche ai confini con la fantascienza più spinta. Il disco in questione è avanguardismo puro: dal titolo alla copertina, dal testo alla strumentazione utilizzata, tutto sotto la direzione di un consenziente (?) Enzo Di Domenico. L’anno riportato sul centrino è 1985. Il 24 gennaio 1984 Apple produsse un personal computer compatto e dotato di un nuovo sistema operativo a interfaccia grafica: l'Apple Macintosh. Visionari? Futuristici? O solo al passo con i tempi? E se in un futuro distopico finalmente il computer riuscisse a mettere i sentimenti in fila?

Quindi quella di concentrarvi sul periodo fine Settanta/inizio Ottanta è stata una scelta precisa rispetto a questa compilation. Ma anche ascoltando i vostri mix su Soundcloud l'impressione è che la maggior parte di queste produzioni vengano da quei due decenni. Del resto anche il Diamond Dogs ebbe vita molto breve, tre anni dopo chiudeva già i battenti. Come finì quella stagione? Si sono spenti gli studi? È cambiata la musica? L'eroina ha ucciso la voglia di suonare? Oppure c'è ancora un pezzo di Napoli Segreta degli anni Novanta e Duemila ancora da riesumare?
La storia è mutata non appena i campionatori hanno iniziato a colonizzare l'immaginario acustico glocale. Prima è arrivata una allucinazione house, dopo un miraggio techno. E tutti noi in mezzo, colpevoli non responsabili, completamente incastrati in un loop. Poi quel periodo coincide anche con la nascita dei primi nightclub, cambiano le abitudini e gli stili di vita, anche a Napoli nasce "la notte" come spazio di confine. Si scompaginano un po’ alcune rigidità dell’Italia del boom, della famiglia tradizionale, dopo l’ondata di crescita dell’occupazione cominciano i licenziamenti, la città diventa precaria, e allora le forme culturali ed estetiche che danno voce a queste esistenze oblique si moltiplicano e spesso confluiscono in sottoculture che a Napoli sono sempre state e sempre saranno minoritarie, che il più delle volte non si parlano tra di loro: che c’entrano i punks del Diamond Dog con la disco cantata da Donatella Viggiano? Potremmo dirvelo, certo, ma poi dovremmo uccidervi.

Ho letto anche che molti brani sono stati scartati per questa compila a causa della cattiva conservazione dei nastri, per cui non era possibile avere un suono di qualità. Però, voglio dire, questa roba è tipo blues: se io metto un disco di blues delle origini le incisioni sono tutte gracchianti ma il fattore emozionale aumenta esponenzialmente, come aumenta anche il coinvolgimento”storico”, si viene proiettati in un’altra dimensione. O forse il discorso è un altro, cioè che i brani contenuti in Napoli Segreta sono proposti in questo modo per sottolinearne l’avanguardismo e il fatto che, nonostante siano passati tanti anni, potrebbero essere usciti oggi?
La tracklist ha subito variazioni in corso d’opera, alcuni brani sono stati scartati perché non è stato possibile ottenere una licenza, altri non sono stati utilizzati perché suonavano male, altri ancora tenuti da parte perché è stato impossibile rintracciare gli artisti coinvolti. Quello che invece è stato selezionato con cura è un filo conduttore che unisce personaggi vicini e distanti e che in qualche modo si sono misurati con un genere musicale che all’epoca era considerato nuovo. Molte di queste perle sono degli unicum nelle produzioni di questi artisti: in alcuni casi finivano sul lato B, altre volte facevano persino fatica ad essere prodotte perché la casa discografica le considerava troppo di rottura. Prendi la copertina del 45 giri di Donatella Viggiano, per esempio: in primo piano c’è il volto di una ragazza, un tratto di henné sulla pelle scinde la faccia in due mezzi profili, come se la copertina volesse comunicare che da un lato c’è il suono della tradizione e dall’altro c’è il futuro. Oggi quel futuro risulta persino contemporaneo.

Uno dei vostri mix, per esempio, si apre con un pezzo che alla prima strofa mi ha fatto pensare subito a un Enzo Carella passato stranamente inosservato, ma già alla seconda era chiaro che si trattasse di un omaggio prodotto da mani abili in tempi più recenti, per scoprire infine che si trattava di un pezzo del 2016 dei Fitness Forever. In quest'alba dei vinti, quindi, affiorano anche tracce di un presente fortemente legato a quel sound che vuole riportare in vita.
I Fitness Forever sono uno dei nostri gruppi italiani preferiti, non a caso alcuni membri della band suoneranno (prestati) in giro anche con la Nuova Napoli live band. Credo che mischiare questo mazzo di carte sia stato positivo per tutti, ma il vero dieci di Denari resta Gaetano, il Burt Bacarach del vesuviano.

Quello che è interessante in questi pezzi non è tanto l’impianto disco/synthfunk ascrivibile al periodo Settanta/Ottanta, perché uno potrebbe dire “ammazza, grandissime gemme del periodo” e fermarsi lì, al mero genere. Invece quello che molti mi pare non abbiano capito è il contesto: quello di una Napoli che prende i suoni anglosassoni e li rielabora secondo un linguaggio e un’estetica completamente partenopea, insomma una cosa che eccede i generi usati, che sono il mezzo e non il fine. Soprattutto i testi sono micidiali, veramente una roba che mischia il linguaggio quotidiano a quello di strada, così come i miti della “passione” e della sceneggiata rivisti in una chiave che prevede anche la classica surreale ironia della città, perché Napoli sa divertirsi anche nelle difficoltà. Anche i brani in inglese sono allucinanti, un coraggiosissimo maccheronico che diventa assolutamente psichedelico proprio per la sua naïveté. I vari Enzo Avitabile, Bennato, ecc. hanno sempre fatto una cosa del genere. Ma lì l’autore spicca con la sua personalità: qui sembra invece che suoni e canti proprio un eterno inconscio napoletano collettivo.
La presenza della base NATO a Napoli ha segnato certamente alcune produzioni dell’epoca. I ‘mericani erano in città già da anni, James Senese è figlio di quella contaminazione. Se si aggiunge a tutto questo sottobosco integratissimo in alcune zone del porto anche l’esplosione delle radio libere, allora la storia della musica napoletana prende un'altra deriva. In questo contesto si muovono gli impresari, gli arrangiatori, i parolieri e tutti gli eroi di Napoli Segreta. Tony Iglio che si misura con "Caravan" di Duke Ellington potrebbe tranquillamente concorrere con Vincent Montana Jr., Tito Puente ed Eddie Palmieri. Con una corsa in tram parti da Nuova York e ti ritrovi dritto a Nuova Napoli scalo. Non trascurabile infine l’industria del falso. Cassette, CD e pure dischi falsificati. Il pezzotto era già Original Pirate Material?

C’è da dire che in questi pezzi aleggia anche uno spirito di “laboratorio sperimentale”. Penso a Oro e alla sua "Sasà", che praticamente è hip hop, pare che venga davvero da un Bronx pieno di napoletani che fanno breakdance (il ponte Napoli-New York d’altronde è storico). L’impressione di trovarsi davanti a qualcosa d’avanguardia è dovuto credo proprio alla povertà di mezzi, usati però al massimo delle loro possibilità espressive. Avete avuto, mi pare, modo di parlare coi diretti interessati a proposito delle loro tecniche di registrazione: c’è qualcosa che volete raccontarci a riguardo? Anche rispetto ai session man coinvolti ci devono essere storie niente male, immagino storie tipo quelle dei grandi jazzisti che per arrotondare suonavano colonne sonore per film porno. Per non parlare dei luoghi, studi d'incisione e piste da ballo, perché una produzione così corposa fa immaginare che prima di finire nelle cassetta delle offerte "3 dischi a 5 euro" molti di questi dischi circolassero o quanto meno fossero destinati a circolare nei club e nelle discoteche.
Dopo l’azzardo della presentazione presso i Giardini di Palazzo Reale, abbiamo deciso di non escludere la possibilità di altri appuntamenti sotto forma di ascolto guidato dove poter raccontare aneddoti, storie e curiosità sui musicisti coinvolti. Il momento talk, emozioni a parte, è stato fondamentale perché ha messo in chiaro il peso dell'operazione Napoli Segreta, che è prima di tutto un'azione di recupero. Alcuni degli artisti contattati hanno addirittura rinnegato questo passato, considerando quelle produzioni come una parentesi artistica da dimenticare, quasi ai limiti del trash. Altri hanno rimosso completamente quei momenti perché erano dei turnisti prestati alla registrazione. Tra i crediti degli album e dei 45 giri, comunque ci sono spesso dei nomi che ricorrono: Iglio, Moxedano, Visco, Esposito, Fasciano, Donniacuo, Vessicchio, solo per citarne alcuni.

La cosa interessante di questi pezzi è che sono senza freno alcuno nel descrivere delle situazioni. Penso a "Guagliù" e ai suoi “pesci omosessuali”.
Il brano "Guagliù" è stato un ripescaggio dell’ultima ora in verità. La traccia è stata scoperta da Flavia, la fidanzata tedesca di Massimo (insieme gestiscono la piattaforma Halfway Ritmo), che ovviamente è stata catturata dal sound più che dal testo. Quando ci fu proposto di inserire il brano in compilation è stato subito amore al primo ascolto proprio per la potenza della lirica. Quello che esce fuori da questa compilation è una visione un po’ più trasversale di Napoli che di solito viene schiacciata un po’ dalla tradizione. In realtà il sapore è molto più punk, molto più vicino alla nostra contemporaneità. Se ci fosse una tradizione di studi culturali consolidata in Italia, si starebbe utilizzando questo brano come una fonte per capire il periodo che va dal 1975 al 1985 con il terremoto in mezzo. Se fosse un contenuto multimediale, sarebbe l’allegato immaginario al volume 'O Vero! Napoli nel mirino (Museo MADRE). Uno spaccato che passa tra disoccupati, ultras, abbonamenti scroccati ai danni del Calcio Napoli, femminielli e pesci omosessuali.

E poi c'è l'aspetto criptico. Non è la pappa pronta, all’ascoltatore si concede il brano ma per il resto delle informazioni tien 'a faticà. È un modo grandioso per combattere la passività dell’ascolto moderno.
Combattiamo la passività dell’ascolto moderno dal 1995. Per chi viene dal collezionare cassette house (1992-1998), questo è un approccio normale. Ci sono tracce che abbiamo impiegato dieci anni a identificare. Mi ricordo di una uscita sulla etichetta inglese NOID Recordings, label gestita da gli Idjut Boys: il lato B di quel 12” veniva regolarmente suonato da Claudio Coccoluto nel 1996. Sul lato A c’era un edit di DJ Harvey, ma noi da allora amavamo il B side, CHE CULO! Forse ho ancora quella cassetta del 99 club, club dei nove nove. Prima di internet, quindi, ante-Discogs, il metodo era quello di andare alle feste, ballare, parlare con i DJ, passare le giornate nei negozi di dischi, procurarsi la cassetta di quella serata, ascoltarla e riascoltarla all’infinito. Adesso l’attitudine non è mutata. È cambiata solo la sorgente. Il supporto certamente aggiunge quel fascino da caccia al tesoro e a volte capita di comprare dischi in più copie solo per un dettaglio riportato nei crediti come, ad esempio, "fotografia di O. Pipolo".

In questo momento ci stiamo facendo un bel caffè, e a Napoli il momento caffè è una cosa importantissima: più che un’abitudine, è un prezioso concetto esistenziale. Ecco, anche rovistare nei mercatini ha lo stesso valore per voi, si respira dall’attitudine di questa raccolta. Trascende il vinile in sé, è più una magia che ovviamente si oppone allo sterile acquisto via Discogs: si compra spesso a scatola chiusa, si cercano cose che valgono al massimo 5 euro, si abolisce la ricerca sulla rete altrimenti è troppo facile. Anche per me la questione mercatini delle pulci è fondamentale, mi interessa la roba che non vale un cazzo perché so che ci troverò delle perle micidiali. La differenza però è che, se si parla di autoproduzioni risalenti all'epoca disco, Roma ha prodotto meno roba, perché Roma era già un posto più “istituzionalizzato” a livello di etichette discografiche mainstream, come Milano: gli artisti che avevano base lì venivano spinti a livello nazionale. A Napoli invece la produzione era sterminata, fatta da microetichette, la città è praticamente musica perenne, in cui anche il cantante più anonimo è famoso nel suo quartiere. È il motivo per cui a Napoli i cantanti neomelodici vendono più di qualsiasi cantante americano che cerca di colonizzarli. Napoli Segreta quindi è un secchio che non può contenere il mare, però di certo raccoglie delle ottime telline che danno l’idea di un oceano sterminato. Credo sia questo il vero senso dell’operazione.
Abbiamo ridato dignità a un suono spesso considerato "facile", abbiamo messo nel mirino produzioni e artisti che furono in qualche modo messi da parte. Per anni questi dischi sono finiti nella cassetta delle offerte "tre dischi a 5 euro". Il nostro più grande merito è avere avuto il coraggio di miscelarli ad altri dischi e proporli nei nostri DJ set. Nessuno se li filava, se non forse per il caso unico di "Stop the war" degli Oro che, cantato in inglese, aveva già da molto tempo catturato l’attenzione di molti diggers internazionali. Il senso dell’operazione è stato quindi di mettere sotto la lente di ingrandimento le produzioni di queste etichette scomparse. Uno zoom su chi non ce l’ha fatta, su chi ha cambiato lavoro uscendo completamente dalla musica, sugli sconfitti. Una produzione dal basso, nel senso che proviene dai bassi dei rigattieri e dei traslocatori che hanno custodito questi segreti meglio di molti negozi di dischi. Se questa fosse una nuova alba, sarebbe un'alba dei vinti. E comunque no, grazie: il caffè ci rende nervosi!

La compilation sta andando benissimo: molti sono cascati dalle nuvole perché non avevano idea che ci fosse gente come voi che dal 2015 setacciava questo mare. Molti ci sono arrivati grazie al fenomeno Nu Guinea. Dalle feste segrete alla fama il passo è breve? Quanto sono stati importanti per voi i Nu Guinea? È stato casuale o dietro di voi c’è un progetto alla Liberato in cui tutto è calcolato nei minimi particolari? Non starete mica pazziando?
Non a caso a inizio intervista è stato utilizzato il termine sodalizio, perché ormai Nu Guinea, Famiglia Discocristiana e DNApoli sono facce di una stessa medaglia. "Ddoje Facce". Ovviamente c’è chi fa questo lavoro di compiler / musicista come principale occupazione e chi può sentirsi più #libericomegabbiani e allontanarsi da alcune logiche di gruppo e di Public Relations. La scelta di presentare a Napoli la compilation con un DJ set al Molosiglio è stata letta da alcuni come una forma di snobismo verso gli operatori del club tradizionale. In una città che è scarsa di spazi pensati per la musica, ci siamo dovuti inventare di tutto: dal ristorante singalese all’ostello. Siamo aperti ad ogni forma di featuring e abbiamo sempre portato avanti la logica della rete e delle relazioni. Ben vengano le collaborazioni se queste portino in direzione Reggia di Caserta, al Jolly Hotel o al Parcheggio Brin, o più in alto ancora verso l’Ospedale Militare. Più che pazziare, stamm’ pariann'!

Ultima domanda: qual è il disco che non siete ancora riusciti a trovare e che vi sta facendo dannare? Magari un brano che può sintetizzare tutta Napoli Segreta nella sola durata di un 45 giri?
Il disco che ha avuto un potere perfino curativo nell’estate dell’anno scorso non è una produzione napoletana. È un LP del Quartetto Ettore Righello, Soft Music, uscito su Usignolo nel 1981. Se qualcuno avesse una copia da vendere o scambiare, che scriva pure a ballapomeridiano@gmail.com.

Se volete vedere Napoli Segreta in azione e poi morire manifestatamente sulla pista da ballo, il collettivo vi aspetta alla Reggia di Caserta il 9 agosto. È proprio il caso di parafrasare il grande Toto’: “Napule, si’ comm ‘o zucchero, terra d’ammore – che rarità!”.

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo, Italian Folgorati. Seguilo su Twitter: @DementedThement.

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Il blackgaze ha portato la luce nell'abisso del black metal

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La Francia non ha mai avuto chissà quale pedigree, in ambito estremo. Mentre la Germania scapocciava allegramente sulle note dell’Inverno Nucleare, la Norvegia dava fuoco alle chiese e la Svezia si riprendeva dalla sbornia hard rock ottantiana sputando death metal putrefatto, il Sud dell’Europa se ne stava più o meno placidamente a guardare. Con l’avvicinarsi del cambio di millennio però, qualcosa è scattato nei nostri cugini transalpini, e dall’eredità di quel qualitativamente discutibile movimento che furono Les Legions Noires prese pian piano vita una scena, in particolare una scena black metal, che oggi è tra le più floride al mondo.

All’interno di questo calderone rosso, bianco e blu, all’inizio degli anni Duemila muoveva i suoi primi passi un ragazzino dal profilo pronunciato che fin dalla tenerissima età si guadagnava da vivere e reputazione come turnista. Si chiamava Stéphane Paut, ma i suoi fan l’hanno sempre chiamato Neige, come la neve che nella sua Avignone si vede sempre più di rado, e che probabilmente in lui ha sempre evocato paesaggi esotici e lontani. Neige iniziò la sua avventura metallara come batterista dei Peste Noire, formazione chiacchierata a causa di una dichiarata simpatia del suo leader La Famine per le ideologie di estrema destra; meno che quindicenne, il ragazzo si è poi successivamente distanziato da qualsiasi coinvolgimento e affiliazione destroide, chiarendo la sua totale estraneità artistica alla sfera politica. Nondimeno, i Peste Noire sono un progetto particolarmente interessante dal punto di vista prettamente musicale: continui riferimenti a poeti più o meno celebri (da Baudelaire a Christine de Pizan) e utilizzi più o meno impropri di strumenti acustici e influenze diverse hanno reso la loro interpretazione del black metal una delle più personali degli ultimi vent’anni. E Neige, come è giusto che sia, bevve avidamente da quella fonte, scoprendo che il black metal non doveva per forza limitarsi alla furia cieca (ma nemmeno, fortunatamente, al nazionalismo). Non solo: la sua grande intuizione fu quella di unire il suo amore per le chitarre distorte e il tremolo alla sfrenata passione per effetti e pedaliere e per i riverberoni dei primi anni Novanta.

A neanche diciannove anni, più o meno consapevolmente, Stéphane tirò fuori dalla naftalina il suo progetto delle medie, sotto il cui nome aveva registrato solamente un demo anni prima, e ne fece qualcosa di profondamente diverso. Alcest pubblicò l’EP Le Secret e, con due canzoni dalla produzione sgangherata, scombinò le carte sul tavolo del black metal. I suoni erano tremendi, usciti dallo scantinato di un metallaro squattrinato, ma le idee erano assolutamente nuove: i riffoni zanzarosi e i suoni freddi questa volta non urlavano dolore e disperazione, ma di quelle volte in cui gli alberelli mossi dal vento iniziavano un curioso balletto e di come il nostro spirito si possa elevare e purificare con l’aria fresca nel cielo azzurro. Il tutto condito da una serie di effettoni a metà tra il fascino etereo degli Slowdive e la malinconia da sconfitti dalla vita dei My Bloody Valentine.

Per un paio d’anni ci si chiese di cosa si fosse trattato, se Alcest avesse pubblicato Le Secret un po’ per sbaglio o se ci fosse davvero della carne da cuocere su questo fuoco di emozioni novantiane. La risposta arrivò nel 2007, e si chiamava Souvenirs D’Un Autre Monde. I suoni erano stati aggiustati, lo scream (che in Le Secret era usato solo in uno dei due brani) era definitivamente sparito, l’immaginario estetico era ancora più curato e gioioso. A prima vista qualsiasi collegamento con il black metal sembrava definitivamente abbandonato, ma bastava ascoltare la chitarra ritmica per accorgersi che era ancora tutto lì: la batteria asciuttissima, il tremolo, le strutture circolari tipiche di un certo modo di fare black metal figlio di Burzum. Il fatto è che tutto questo veniva sommerso da arpeggini, vocalizzi soavi, copertine colorate con bambini che giocano nei prati e joie de vivre, ed era lecito aspettarsi che ai metallari, nichilisti senza frontiere, una roba del genere proprio non potesse andare giù. Nessuno si immaginava che la Prophecy Productions, etichetta tedesca da sempre attenta alle derive più colte del black metal e del neofolk, avesse trovato una gallina dalle uova d’oro (da cui, ad oltre undici anni di distanza, non si è ancora mai separata) e contribuito alla nascita di una nuova corrente all’interno dell’asfittico panorama black metal. Era definitivamente nato il blackgaze.

Dapprima il fenomeno rimase ascritto entro i confini francesi, e anzi, legato a doppio filo allo stesso Neige, che sembrava voler ficcare l’imponente nasone in qualsiasi progetto seguisse i suoi spunti. Fu in questo periodo che uscì l’unico, omonimo disco degli Amesoeurs, progetto in cui Neige aveva iniziato a far confluire un po’ delle sue idee, mitigate dalla presenza di alcuni altri musicisti nell’orbita dei Peste Noire e dell’amico Fursy Teyssier. Amesoeurs, uscito sotto la bolognese Code666 nel 2009, era un disco solo a tratti black metal, con un sacco di shoegaze e diverse punte di depressive rock da Katatonia versione fine anni Novanta. Le venature nere al suo interno erano limitate a un paio di pezzi, qualche blast-beat sparso e ai momenti in cui la voce cristallina di Audrey Sylvain si trasformava in un urlo disperato. Per la sua natura così profondamente ibrida e per la presenza di troppe teste pensanti, la band non riuscì a trovare una propria identità e a costruire un percorso, e appena dopo la pubblicazione dell’album si sciolse.

Il punto fermo sugli Amesoeurs diede la possibilità a Teyssier di concentrarsi sull’altro suo progetto, che di lì a breve avrebbe contribuito enormemente a rendere ancora più profondo il solco tracciato da Alcest: Les Discrets. Agli albori del 2010, sempre sotto l’ala di Prophecy, esce Septembre Et Ses Dernières Pensées. Più cupo e ombroso rispetto a Souvenirs, i punti di contatto sono evidenti, così come è evidente l’influenza che Teyssier ha assorbito con l’esperienza Amesoeurs: voce pulita, arpeggi e chitarre black metal pastosissime ad amalgamare e portare negli anni Dieci un sound preso di peso da un quarto di secolo prima. Paradossalmente, sono proprio Les Discrets, l’unica band a non avere un retroterra prettamente metallaro, a trovare il punto di equilibrio tra il più e il meno, gli umori (quasi) positivi di un genere come lo shoegaze e quelli totalmente negativi del black metal, grazie ad un lavoro oscuro e immaginifico, vicino al metal anche a livello estetico e grafico (Teyssier è anche illustratore, e l’artwork di Septembre è una sorta di illustrazione black metal per bambini che non sfigurerebbe in una raccolta di fiabe dei Grimm).

A questo punto, nell’arco di poco più di tre anni e in altrettanti dischi, questo strano ibrido tra shoegaze e black metal non solo era nato, ma era anche stato pienamente codificato. Alcest aveva dato il La, stravolgendo tutto e allontanandosi completamente dall’estetica e dal sound metal; addirittura, i suoi rimandi mitologici sfuggivano al mondo norreno per ripescare leggende celtiche (“Tir Nan Og”, la versione irlandese dell’oltretomba, dove tutti vivono felici), tipicamente più vicine agli ambiti folk. Les Discrets mantenevano un immaginario di riferimento cupo, con pezzi che si chiamavano “Il volo dei corvi”, “Canzone d’autunno” o addirittura “Svipdagr e Freyja”, tenendo aperto uno spiraglio sulla tradizione del nord Europa. Gli Amesoeurs, perfettamente a metà tra i due, per un po’ si distaccavano completamente, salvo poi tornare a riparare sotto l’ombrellone del metallo.

Tutti, ma proprio tutti quelli che sono venuti dopo, hanno pescato da lì. Persino gli stessi Alcest, che oggi oltre a Neige contano il batterista ex-Amesoeurs e Peste Noire Winterhalter, continuano ad attingere da quello stesso bacino: Écailles De Lune (2010) era un disco di mezzo (ed era anche un capolavoro): decisamente metal, ma con un sacco di melodie splendide ed effetti shoegaze. Facile ed orecchiabile, ma con diversi passaggi di scream lancinante che Neige aveva del tutto evitato in Souvenirs. Les Voyages De L’Âme (2012) era un trascurabile lavoro sulla scia di Septembre. Shelter (2014) era una minchiata apocalittica che voleva essere un disco in toto shoegaze, ma ne è uscito un aborto orripilante, mentre il più recente Kodama (2016) è finalmente un ritorno a sonorità più cupe, di nuovo in stile Les Discrets, ma questa volta con qualcosa da dire.

La ferventissima attività francese di quegli anni spianò la strada ad una serie infinita di gruppi che, chi sommando e chi sottraendo, chi deviando e chi no, si dedicarono e si dedicano ancora oggi al blackgaze. Tra i primi ad esplorare questi suoni ci fu Lantlôs, one-man band tedesca il cui debutto omonimo del 2008 era una sorta di versione edulcorata del black metal a tinte depressive sulla scia degli epigoni di Burzum e della scuola di cui fa(ceva?)no più o meno parte gli Shining di Niklas Kvarforth. Riff circolari, canzoni da otto minuti di media, ma anche un sacco di melodie, arpeggini e voci pulite. Già dal secondo album, però, il progetto di Markus “Herbst” Siegenhort si arricchì del prezzemolino per eccellenza, e Neige prese posto dietro al microfono. .neon (Prophecy, 2010) finì per essere l’album che portò il blackgaze in Germania: Stéphane urlava tantissimo, mentre Herbst prendeva i suoni de Les Discrets e li irrobustiva e “teutonizzava”, dando un tocco vagamente più marziale, asciutto e quadrato. Dopo un secondo disco con la medesima formazione a due (Agape, Lupus Lounge, 2011), le strade di Herbst e Neige si separarono, e il quarto e ad oggi ultimo parto del tedesco, che nel frattempo ha messo insieme una band intera per poter suonare dal vivo, Melting Sun (2014, di nuovo per Prophecy), è una fioritura di riffoni post-rock dai toni caldi e magmatici che più che al metal guarda ai God Is An Astronaut.

L’influenza del buon Neige si è spinta ancora più a est, fino in Ucraina, dove Roman Saenko, chitarrista e mente alle spalle dei Drudkh, si è lasciato ammaliare fortissimamente dalle suggestioni francesi, tanto da mettere in piedi un progetto parallelo a nome Old Silver Key, in cui coinvolse (manco a dirlo) il nostro avignonese preferito in qualità di cantante. Gli Old Silver Key, tuttavia, furono un mezzo buco nell’acqua e il loro unico disco, Tales Of Wanderings (Season Of Mist, 2011) fu un mero esercizio di stile pressoché scevro di qualsiasi punto di interesse o personalità. Dopo questa mossa poco felice, Neige stesso decise di concentrarsi esclusivamente su Alcest, e da allora non prese più parte ad altri progetti paralleli, secondari o precari.

Uscendo invece una volta per tutte dalla sfera d’influenza diretta di Stéphane Paut, è il caso di fare il nome dei Fen, gruppo black metal d’oltremanica originariamente molto vicino agli Agalloch per strutture e intuizioni, ma che allo scoccare degli anni Dieci prese l’abitudine di fissarsi le scarpe e di virare su suoni molto più contaminati e post-. I due album più recenti, Carrion Skies (2014) e Winter (2017), entrambi usciti per la nostrana Code666, sono dei veri propri inni al blackgaze, con pezzi lunghissimi e riff ripetuti ossessivamente ancora e ancora e ancora e ancora. Interessanti, ma con qualche problema di sintesi che li porta a registrare dischi da oltre settantacinque minuti.

Di un problema simile soffrono gli An Autumn For Crippled Children: il trio olandese scoperto dall’italianissima ATMF ha sempre pubblicato album di buon livello e neanche troppo lunghi, ma con un debutto datato 2010, nel 2016 già tagliava il traguardo del sesto full-length pubblicato. Come i loro cugini inglesi, gli AAFCC sono ben radicati in un retroterra metal, e anche nel loro caso lo shoegaze è un’aggiunta all’impianto originario. La loro peculiarità, tuttavia, è quella di aver invertito i paradigmi del metal, proprio come Alcest, ed essere arrivati a comporre un disco con arrangiamenti particolarmente ricchi ed elaborati, mettergli un fiore in copertina e infonderlo di ottimismo cosmico chiamandolo Try Not To Destroy Everything You Love (2013).

Sempre dal catalogo ATMF arriva invece una delle espressioni migliori, se non proprio la migliore, del blackgaze tricolore: il duo umbro Falaise, con la coppia di album As Times Goes By (2015) e My Endless Immensity (2017) è riuscito ad inventarsi delle melodie incredibilmente efficaci. Giocando soprattutto sulle combinazioni tra distorsioni e arpeggi melodicissimi, montati su una struttura di urla e blast-beat frullati insieme, i Falaise indovinano un arpeggino dietro l’altro, e il perenne up-tempo della loro musica dimostra come anche l’accessibilità del blackgaze possa regalare momenti concitati e “spessi”, oltre a farne il gruppo blackgaze per i fan dello screamo.

L’altro nome di rilievo per il blackgaze nostrano è quello dei Dreariness, trio capitolino che ha deciso di infischiarsene beatamente del metal e che ha preso il blackgaze come vero e proprio punto di partenza su cui sviluppare la propria musica, arrivando a fare uso addirittura di beat elettronici (per ora solo in downtempo) con forti rimandi alla scena goth e industrial. La cantante Tenebra dà quella varietà che troppo spesso è mancata a tante altre formazioni, e il suo timbro è riconoscibile sia pulito che in versione urla-lancinanti-trapana-timpani.

Come sottolineato anche per un’altra deriva recente del black metal, il blackgaze ha fatto fortuna tra i progetti da cameretta: one-man band che non si sono mai granché interessate alle esibizioni dal vivo, cui invece preferiscono costruire tutto dalla comodità della scrivania, davanti al PC. Questa facilità di preparazione degli album porta a delle distorsioni fortissime, su tutte l’impreparazione da parte di un artista, specie quando molto giovane, a capire quale materiale pubblicare e quale invece scartare. Ci si ritrova così davanti ad artisti come Sadness: talento da vendere, totale diarrea compositiva. Il blackgaze dalla forte impronta moderna ed elettronica di questo ragazzo messicano di stanza negli USA è però ricco di spunti: soprattutto, ha l’innata capacità di far convivere gli echi industriali di Jesu e uno scream black metal su effetti di chitarra che sembrano figli dei Lovesliescrushing.

Come dimostrato con l’ultimo Leave, le sue capacità si stanno affinando uscita dopo uscita, tanto che le prime etichette underground stanno iniziando ad interessarsi alla sua già sterminata produzione digitale.

Quantomeno, i lavori di Sadness sono semiseri e non parlano dello stile dei vampiri bevendo latte di cocco come il Giapponese Al-Kamar (“Luna”... in arabo) - per ora l’unica deriva semi-demenziale vissuta dal blackgaze.

Dopo ennemila caratteri e progetti provenienti da qualsiasi angolo di mondo manca tuttavia ancora una menzione. Il nome più altisonante dell’intero panorama, forse addirittura più altisonante di quello di Alcest stesso, è quello di un gruppo californiano con una grande passione per il colore rosa.

I Deafheaven. Nati come duo ai tempi del college, Kerry McCoy e George Clarke esordirono nel 2011 sotto l’etichetta di Jacob Bannon, la Deathwish Inc., con Roads To Judah, un album melodico, tenerone e soffertissimo. Una roba che ti veniva voglia di abbracciarli stretti stretti forte forte e dirgli che sarebbe andato tutto bene. “M'inchino a un monolite di dolore”, cantava Clarke in “Unrequited”, dicendo di non potersi muovere, perché non poteva liberarsi del peso di se stesso. E tutto questo accadeva in un connubio di riff e arpeggi emo che più emo non si poteva: le idee di Alcest qui venivano prese, fatte a brandelli e ricostruite sotto la forma di un immaginario screamo furioso e allo stesso tempo rassegnato. Non c’è mai stata speranza per i Deafheaven, che da figli degli anni Zero a stelle e strisce sono cresciuti con lo spauracchio dell’undici settembre, con la guerra al terrore e l’esportazione della pace. Lontanissimi dal (comunque improbabile) ottimismo francese, i californiani erano la prova di quanto anche il blackgaze potesse stare male. E il seguito di Roads To Judah, Sunbather, esasperò questa consapevolezza. Un sacco di metallari storsero il naso per quella copertina, ma la cosa importante fu che tutti la notarono. Un album metal che si intitola prendere il sole (colei che prende il sole, ma non è questo il punto) e che parla del sogno medioborghese californiano visto dalla parte di due sconfitti costretti a dormire sul pavimento perché non avevano manco i soldi per piangere. Con un sacco di urla. Con un sacco di arpeggi. Con una sensibilità che nemmeno gli American Football o i La Quiete. In cui l’unico sogno lisergico che valeva la pena di essere vissuto era quello della morte con un ago nel braccio. Insomma, un disco di una potenza dirompente, totalmente fuori scala.

Due anni dopo i Deafheaven cercano di agitare un po’ le acque con New Bermuda (Anti-, 2015) un buon lavoro, molto più cupo del suo predecessore, ma senza quella spontaneità, quella stessa ingenuità da perdenti che dava invece un gusto così particolare a Sunbather. E poi, beh, poi il tracollo.

Alcest suonerà al Santeria Social Club di Milano il 28 settembre.

I Deafheaven suoneranno al Legend Club di Milano l'11 ottobre.

Andrea è la luce che guida Noisey nelle oscure profondità dell'heavy metal, nonché uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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"Album of the Year Freestyle" di J. Cole è una prova di forza

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Prima di andare in vacanza, J. Cole ha avuto l'ottima idea di pubblicare un nuovo brano. Si intitola "Album of the Year Freestyle" e come potete intuire dal titolo non ha un testo proprio umile. Lungo il corso del brano, Cole non tradisce la sua identità di rapper impegnato. Se KOD si concentrava sul rapporto tra depressione e dipendenza, questo nuovo brano tocca temi diversi. Cole parla prima di tutto di stereotipi razziali:

E poi devo dire che sono bravo in matematica, tipo gli asiatici,
Mi sta sulle palle usare stereotipi, ma è roba leggera rispetto a quello che un negro deve subire da un bianco,
Zero race baiting.

Così Cole riprende un verso di "ATM", "Improvvisamente sono bravo in matematica", infondendola di un nuovo peso a livello di significato. Per "race baiting" si intende quella pratica per cui un artista fa musica che si rivolge specificamente a una razza, per intenderci. Più avanti Cole sposta la sua attenzione sull'idea che la società americana ha di quella parte della comunità nera che finisce a commettere crimini per sopravvivere:

La città è piena di CC Sabathia,
Pensate che 'sti negri stiano ingrassando a spacciare crack?
Bé, non proprio.
Non sono mica gli anni Ottanta, non dite cazzate.
Oggi spacciamo pasticche e vendiamo eroina a Billy,
E la mamma di Billy vuole che il giudice perdoni la sua dipendenza.
Ma quanti tossicodipendenti neri sono finiti in carcere
Senza storielle tristi da raccontare in TV in prima visione?
Sento puzza di contraddizione!

CC Sabathia era un giocatore di baseball noto per il suo peso (da cui il gioco di parole con "ingrassando" del verso successivo); Cole lo usa come metafora per indicare gli spacciatori, dato che il verbo "to pitch", cioè lanciare la palla, viene usato anche come "spacciare" appunto. Il pensiero di Cole va però non tanto al problema in sé quanto alla percezione che la società americana ha di esso. Se al bianchissimo "Billy" infatti viene perdonato tutto grazie alla clemenza del giudice di turno, magari fomentata da un intervento mediatico, un "tossicodipendente nero" non può che finire invischiato nel sistema carcerario.

Cole si concede però anche un po' di orgoglio: "KOD è l'album dell'anno, non c'è dubbio / La mia cadenza è la più grande dai tempi dell'MC scomparso che si faceva chiamare Notorious", dice. Una frase pesante, sebbene non rivoluzionaria. È però una conferma della concezione che Cole ha di sé, cioè quella di un grande vecchio a cui gli esordienti dovrebbero guardare con rispetto. Quest'idea è rafforzata dal fatto che il freestyle contiene una parte in cui Cole continua a parlare ai SoundCloud rapper, proprio come aveva fatto nell'ultima traccia di KOD:

Piccoli rapper, vi voglio bene, ma non siete un cazzo finché non vi offrono di suonare a Praga
Cercate quella merda se non la conoscete.
Un libro, negro, prendine uno
Ed espandi il tuo vocabolario.

Qualche mese fa Cole non si era risparmiato, parlando ai suoi giovani colleghi del loro eventuale invecchiamento: "Ok divertirsi, ma dovete costruire delle fondamenta per restare in vita", sembrava dire. Le sue parole avevano fatto breccia nel cuore del principale destinatario del discorso, cioè Lil Pump, che lo aveva attaccato con una trollata intitolata "Fuck J. Cole". I due avevano fatto pace e avevano anche pubblicato una lunga chiacchierata su YouTube in cui si confrontavano sulla questione.

Queste nuove barre dimostrano però che Cole ha ancora la questione a cuore e fungono più da generico consiglio per una nuova generazione che per un singolo artista. A qualche mese dall'uscita di KOD e prima dell'estate, il rapper cresciuto a Fayetteville ha voluto regalare al pubblico e alla scena una prova di forza: non solo il suo nome è tornato al centro della conversazione mediatica musicale statunitense, è stata anche l'occasione per annunciare il suo nuovo progetto.

All'inizio del video, infatti, c'è un riferimento a quello che sarà probabilmente il titolo del suo nuovo mixtape: The Off-Season. Nella descrizione del brano, sia su YouTube che su SoundCloud, Cole ha infatti scritto "The Off Season coming soon... tutte le strade portano a The Fall Off", titolo invece del suo nuovo album. Ancora non c'è una data di uscita né per l'uno né per l'altro, ma non sarebbe una sorpresa se questo autunno e questo inverno saranno stagioni sotto il segno di Cole.

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Guarda la Odd Future che si riunisce per un concerto

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La serata Low End Theory, che in 12 anni di programmazione ha ospitato a Los Angeles gente come Flying Lotus, Thom Yorke ed Erykah Badu, ha chiuso ieri sera. Un minuto di silenzio per la fine di un'era.

Naturalmente, un evento di queste proporzioni non poteva che finire con il botto, ed è esattamente quello che è successo la scorsa notte, quando il collettivo rap Odd Future è salito sul palco per una mini-reunion. Tyler, the Creator era l'headliner designato dell'evento, ma è stato raggiunto dagli altri membri della Odd Future Earl Sweatshirt, Syd, Hodgy Beats e altri. Da qualche parte migliaia di verginelli con i calzini GOLF stanno piangendo lacrime salate sulle loro tastiere.

Questa è una bella sorpresa. Agli occhi del mondo esterno, i membri di OFWGKTA sembravano aver preso strade separate nei sei anni passati dal loro ultimo album collettivo, The OF Tape Vol.2. In questo periodo, alcune carriere sono fiorite, per quanto i fan si siano concentrati anche sui vari tweet e commenti Instagram che avrebbero confermato la fine del gruppo.

Ma il passato è il passato, torniamo nel presente, cioè a ieri sera, quando i membri chiave del collettivo losangelino hanno cantato una manciata di canzoni, compresa l'amatissima "Orange Juice". Potete vedere qualche testimonianza qui sotto.

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La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.

Guarda The People Versus Tredici Pietro

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Era da marzo 2016 che aspettavamo questo momento. Quando è uscita "Pizza e Fichi", il primo singolo di Tredici Pietro a.k.a. Er fijo de Gianni Morandi, non riuscivamo a credere alle nostre orecchie. Un'intervista e un People Versus erano d'obbligo.

Se nel People Versus ha dovuto affrontare una pioggia di insulti a tema nepotismo e coprofagia, uscendone molto dignitosamente con un solo vaffanculo, nell'intervista ci ha raccontato molte più cose molto più nel dettaglio. Potete leggerla qua sotto, non appena avrete finito con il video in cima al post.

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Le 3 migliori nuove uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e a partire ogni settimana ve ne consigliamo tre. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Già che ci siete, seguite la nostra playlist della settimana su Spotify per non perdervi le altre cose che ci piacciono e pensiamo possano piacere anche a voi.

DJ MUGGS - SOUL ASSASSINS: DIA DEL ASESINATO

DJ Muggs ha cinquant'anni ma a sentire il suo nuovo progetto, Soul Assassins: Dia del Asesinato, sembra infuso di quella creatività vulcanica che di solito va a segnare gli inizi delle carriere. Questo è il suo quarto progetto a nome Soul Assassins, nome dell'etichetta dei Cypress Hill ed enorme collettivo hip-hop. In un ecosistema in cui l'interpretazione dei rapper si va a fare sempre più sintetica e distaccata, un progetto oscuro e livoroso come questo è uno schiaffo in faccia che ti convince della bellezza del sadomaso. Tra le barre ne compaiono alcune firmate da MF DOOM, Raekwon e Freddie Gibbs, così da rendere il rosso della pelle irritata ancor più bello da grattare.

QUAVO - "B U B B L E G U M"

Un paio di anni fa, poco prima della pubblicazione di Culture, i Migos erano solo dei rapper di Atlanta; oggi sono superstar, ambasciatori della trap a livello mondiale, modelli a cui aspirare. A differenza di Takeoff e Offset, Quavo ha sfruttato lo slancio della carriera del gruppo per affermarsi come artista solista. Dopo numerosi featuring, tra cui "Cupido" con Sfera Ebbasta, e un progetto collaborativo con Travis Scott, Quavo ha pubblicato oggi tre singoli con cui annuncia il suo primo album solista. "B U B B L E G U M", è il migliore, il più dinamico e divertente dei tre. Come già era successo con Culture II, il rischio è che Quavo metta il pilota automatico e rompa il giochino dell'intrattenimento a forza di ripetersi. Ma per ora è bello gasarsi con tutti questi gloriosi skrr skrr.

MITSKI - "TWO SLOW DANCERS"

"C'è odore di palestra? / È buffo, si assomigliano tutte / È buffo, te lo ricordi sempre / E l'abbiamo già fatto cento volte / È buffo, me lo dimentico sempre". "Sarebbe cento volte più semplice / Se fossimo ancora giovani / Ma per come stanno le cose / E per com'è / Stiamo solo ballando un lento, siamo gli ultimi ad andarcene". Con il suo nuovo singolo, Mitski dipinge una tipica scena d'amore americana: due ragazzi che ballano, avvinghiati, un lento ricordando i tempi del liceo e dei prom. Se Puberty 2 l'aveva fatta conoscere a un pubblico ampio come cantautrice complessa, capace di raccontare il rapporto tra identità, amore ed economia negli Stati Uniti d'oggi, il suo nuovo album Be The Cowboy si preannuncia come un'ottima conferma.

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'Straight Outta Compton' compie trent'anni

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Quando le acque si calmarono, dopo le lettere di minaccia dall'FBI, dopo i conflitti con la polizia ai concerti, dopo i milioni di dollari e dopo che MTV ebbe capitolato sotto il peso della scuola della strada, i capi si odiavano. I N.W.A., uno dei gruppi più importanti tanto dal punto di vista creativo quanto da quello commerciale della storia del rap, non furono in grado di rimanere insieme per dare un degno seguito al loro capolavoro. E così Straight Outta Compton, l'LP che fece per la prima volta pendere la bilancia a Ovest, lontano da New York, e che portò come un cavallo di Troia il gangsta rap nelle case della classe media in tutto il paese, resta l'unico comunicato del gruppo al completo al picco della propria potenza. L'album è stato studiato e vivisezionato e adattato per il grande schermo; è stato campionato e reintepretato e smontato, ma anche usato come arma per le successive faide tra i membri del gruppo.

Eppure, seppur Straight Outta Compton sia stato accuratamente piazzato nella storia dell'hip-hop (e della cultura pop americana di fine anni Ottanta), non è mai stato veramente capito come punto di inflessione nella storia musicale della Contea di Los Angeles. Al punto di rottura di una di queste faide interne — “Real Muthaphuckkin G’s,” il violentissimo diss di Eazy-E contro Dr. Dre del 1993 –– il fondatore del gruppo si prendeva gioco del producer per aver adottato l'immagine temeraria e stradaiola del gruppo in età ormai adulta. Quello che Eazy dimenticava (o ometteva per convenienza) era che quella era sempre stata la forza del gruppo: i N.W.A. non erano soltanto il prodotto dell'orribile razzismo americano e del corrotto sistema giudiziario della California. Erano anche il prodotto di sfacciate manovre decise a tavolino e delle discoteche. Straight Outta Compton si può sintetizzare facilmente in un paio di dichiarazioni chiave, certo, fuck the police è la prima a venire in mente. Ma è altrettanto affascinante se lo si legge come atto di sintesi.

Oggi, basta menzionare Compton per evocare un impressionante peso morale e narrativo nell'hip-hop. Kendrick Lamar, l'artista più amato dalla critica di questo decennio, è stato in grado di utilizzare il nome della città come simbolo per un'intera genealogia che i fan del rap hanno interiorizzato. Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, Compton era un quartiere periferico invitante per le famiglie di colore a Los Angeles; negli anni Ottanta, quando Dre, Eazy, Ice Cube, MC Ren e DJ Yella (e il membro fondatore Arabian Prince) sono cresciuti, era in declino e piena di polizia.

Come si è verificato in molte culture ed epoche, questa situazione di disagio è stata terreno fertile per ottima musica, ma all'inizio ben poca era rap di strada. Le radici creative dei N.W.A. si possono ricondurre all'Eve's After Dark, la discoteca di Avalon Blvd in cui è nata la World Class Wreckin' Cru, un collettivo di DJ che comprendeva Yella e Dre. La Wreckin’ Cru esplorava tutto lo spettro musicale tra R&B ed electro, e servì da scuola sia di tecnica che di come posizionarsi di fronte a un pubblico per Yella e Dre. Fu proprio all'Eve's che i DJ formarono l'alleanza con Ice Cube.

Quando a Eazy venne lo schizzo di fondare un'etichetta discografica tutta sua e, poco dopo, di diventare uno dei suoi artisti di bandiera, sapeva che avrebbe avuto bisogno di un producer che facesse da pilastro musicale. Leggenda vuole che, nell'87, Eazy abbia pagato la cauzione di Dre dopo un arresto in cambio dei suoi servigi da produttore. Quello che Dre portò ai N.W.A., a parte la perizia tecnica e le sue doti da maestro in studio che trasformarono Eazy da principiante in una delle voci più inimitabili del rap, fu un'ampia paletta musicale. Quando i N.W.A. iniziarono a registrare Straight Outta Compton, le sue canzoni si sviluppavano tra groove ariosi e brillanti (“Gangsta Gangsta”), furia alla Public Enemy ("Straight Outta Compton") e attacchi giocosi (“I Ain’t Tha 1,” “Parental Discretion Iz Advised”). L'album si conclude addirittura con "Something 2 Dance 2”, un lungo sfoggio di tecnica da DJ che ha più tratti in comune con “Planet Rock” che con “P.S.K.”

Ovviamente, le immagini che abbiamo tutti in mente di Straight Outta Compton vedono il gruppo tutto vestito di nero, che cammina fra le fiamme e lancia pietre verso la polizia; la voce che lo definisce è quella di Ice Cube che si scaglia contro gli sbirri violenti. Certo, si tratta di un disco di protesta. Erano voci ai margini che urlavano sopra il rumore di fondo. Ma la musica che accompagnava quegli urli era tutt'altro che utilitaria. Era una complessa panoramica degli istinti che Dre e gli altri avevano rifinito durante un'infanzia ossessionata dal ballo nella seconda città più grande d'America, in uno dei quartieri più culturalmente vari.

Come già menzionato, i frammenti di Straight Outta Compton furono impugnati come armi dai membri dei N.W.A. in guerra l'uno con l'altro: La dichiarazione di Dre di essere drug-free nel singolo "Express Yourself" lo rese un facile bersaglio per Eazy; quando Ice Cube fece uscire "No Vaseline", uno dei dissing più famosi del mondo, nel 1991, campionò la voce di Eazy che rappava “Ice Cube scrive le mie rime”, da “8 Ball”. Ma per un attimo i N.W.A. trovarono il perfetto equilibrio tra arroganza e potenziale commerciale, tra il sarcasmo e la furia. Straight Outta Compton spicca in netto contrasto con l'avida e patinata immagine di prosperità che si ritraeva a Wall Street nell'epoca di Reagan, e ha spianato al rap la strada che l'ha portato a diventare la forma dominante di musica americana. Fortunatamente, è anche una capsula temporale per tutto quello che stava succedendo sulle larghe strade e negli affollati club di Los Angeles nell'epoca in cui fu realizzato.

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Guarda la nuova preoccupante intervista di Kanye West da Jimmy Kimmel

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Ieri sera Kanye West è stato ospite di Jimmy Kimmel, celebre talk show americano, e ha rilasciato un'intervista delle sue: piena di assurdità e, come quelle che ha concesso negli ultimi mesi, decisamente preoccupante. A un certo punto ha dichiarato che la nostra società è diventata "troppo protettiva". "Non vogliamo mai ferire nessuno. Pensate quello che può avermi detto il mio pubblicista quando gli ho detto che volevo tornare in TV!", ha detto Kanye. Ecco, peccato che l'ultima volta che era stato in TV Kanye aveva definito la schiavitù "una scelta", non proprio un'affermazione pensata per non ferire nessuno.

Ormai quando Kanye parla pubblicamente infarcisce le sue dichiarazioni di ragionamenti lasciati a metà, falsità da stato di Facebook scritto di getto e momenti di auto-esaltazione. Quando Kimmel gli ha chiesto—stupidamente—se non si è preoccupato quando sua moglie, Kim Kardashian West, è andata da sola a parlare a Donald Trump, un uomo accusato di molestie da diverse donne, Kanye ha dato una risposta inquietante: "Bé, ci sa fare con le donne!" West ha confermato tutte le impressioni che aveva dato negli ultimi mesi e ha giustificato il suo supporto a Trump dicendo che si è sentito come "bullizzato" dalla comunità nera, dai suoi vicini di Hollywood e dai suoi contatti nell'industria musicale perché si adeguasse a una scuola di pensiero. Ha detto che possiamo scegliere tra "la paura" e "l'amore", una banalità espressa come se fosse una grande verità filosofica. Ha detto che gli è piaciuto vedere i suoi commenti generare reazioni negative. Ha passato un minuto a spiegare una metafora sui tavolini da salotto.

Kimmel non ha punzecchiato particolarmente Kanye, probabilmente per non mettere troppo a disagio il suo ospite. Ma appena prima di una pausa pubblicitaria gli ha fatto una domanda che milioni di suoi fan aspettavano gli venisse posta da mesi e mesi:

“Penso che [combattere “la paura” con “l’amore”] sia una bella idea, ma in termini più concreti, ci sono delle famiglie che vengono separate al confine di questa nazione. Ci sono letteralmente delle famiglie che vengono separate in conseguenza di ciò che questo presidente sta facendo. E penso che non possiamo dimenticarlo. Che ci piaccia la sua personalità o meno, le sue azioni sono quello che importa veramente. Voglio dire, tutti sanno che tu una volta dicesti, con grande forza: ‘A George Bush non interessa la gente nera’. Mi viene da chiederti che cosa ti fa pensare che a Donald Trump interessi [la gente nera] o qualunque altra gente.”

West si è girato dall’altra parte, con lo sguardo perso nel vuoto, ed è rimasto in silenzio. Kimmel ha lasciato il silenzio per tre secondi, e poi ha lanciato la pubblicità. Quando sono tornati, Kimmel ha chiesto dei bambini Kardashian-West e del loro gusto nel vestire. Poco dopo, Kanye stava parlando delle sue categorie di PornHub preferite.

Alla fine, come in tutte le interviste recenti di West, c’era qualcosa di leggermente deprimente nascosto dietro al titolo. Kimmel ha chiesto se Kanye si consideri o meno “lavoratore compulsivo”, visto che ha appena prodotto e pubblicato sei album, compreso il suo, nel corso di una sola estate.

"No, in realtà ho dormito molto durante il progetto”, ha risposto Kanye.

“Mentre registravano?"

“Sì, ho una mia squadra. Abbiamo lavorato insieme”. Dopo essere uscito dall’ospedale, un anno e mezzo fa, andava regolarmente da Amoeba Records a comprare degli album da poi campionare come faceva quand’era un ragazzino. È stato “terapeutico”. Una volta arrivato a iniziare le session in Wyoming, per quanto lo riguardava, il lavoro era già finito. “Abbiamo una squadra allo Yeezy Sound che mi aiuta con le batterie, con i testi, con i ritornelli. Quindi davo la mia idea della canzone a sei o sette persone e poi me ne andavo a letto”.

Forse non sarebbe cambiato nulla se Kimmel avesse insistito per far spiegare a West questo processo meccanico o i suoi pericolosi commenti pro-Trump o, beh, qualunque delle cose dette nei 20 minuti che hanno passato insieme. E forse la TV da late-night, che predilige la chiacchiera superficiale su ogni altra cosa, è lo spazio peggiore per questo tipo di conversazioni. Ma guardare Kanye lottare con un’idea, anche una così apparentemente ovvia come il fatto che strappare dei bambini dalle braccia dei genitori al confine non abbia nulla a che fare con “l’amore”, non è piacevole, ma è necessario. Purtroppo, quei tre secondi potrebbero essere l’unica risposta che otterremo.

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Cinque dischi (+1) per capire la New Wave Sinfonica italiana

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Ho notato che, nella musica di oggi, nonostante l’artificio futuristico che pervade tutto, c’è una grande voglia di ritorno al “passato”. Classicismi, recupero di strumenti tradizionali, nostalgia dell'orchestrazione, seppur con la tensione di rinnovarla attraverso l’innesto di elementi sintetici. Già ne parlammo a proposito di Branduardi: quello che sta accadendo davanti alle nostre orecchie (vedi 0PN, Björk, Arca, Actress, Teho Teardo) è evidentemente sorto in risposta a un “horror vacui” musicale che in questo presente incerto porta direttamente a un futuro ancora più incerto.

Ciò che si pone in modo “classico”, tutto sommato, rassicura e dà l’impressione di qualcosa di autentico; pone delle ideali fondamenta per delle costruzioni che ancora non si sa dove andranno a parare e che forse, in virtù di queste basi, potranno reggere all’urto del tempo. Anche per questo la commistione volontaria o involontaria di classicismi con i nuovi trend sonoro-elettronici e la conseguente spinta a produrre musica strumentale non è semplice azione conservatrice e reazionaria, anzi: sembra concepita come indolore passaggio di testimone, un confronto di linguaggi per capire chi la spunterà tra l’uomo e la macchina, nel loro eterno ciclo di amore/odio. La cosa interessante è che non è la prima volta che accade. Italian Folgorati oggi vuole esplorare un campo che proprio nella nostra penisola ha avuto un discreto sviluppo: quello, molto peculiare, che potremmo definire la "Nuova Onda Sinfonica".

Negli anni Settanta e Ottanta, infatti, l'Italia pullulava di dischi che cercavano di unire suoni moderni alle arie classiche più banalmente conosciute (e dico banalmente perché era davvero roba da ABC). A volte, addirittura, ci troviamo di fronte a vere e proprie versioni scolastiche di grandi brani strumentali del passato le cui principali linee melodiche sono sostituite al volo da sintetizzatori, per lo più Moog e affini. Un’idea che certo non nasce in Italia, ma prende piede un po’ ovunque sicuramente dopo l’exploit di Switched on Bach (1968) e poi della colonna sonora di Arancia Meccanica, entrambi per mano di Wendy Carlos. Ma mentre lì il recupero implicava una sperimentazione sonora strabiliante (Carlos usava esemplari unici di synth, customizzati da Bob Moog in persona), in questi casi ci troviamo invece di fronte a una “volgarizzazione” della faccenda, una semplificazione commerciale utile probabilmente a foraggiare una quantità di scapoli che per creare l’atmosfera giusta nelle loro "tane" utilizzavano questi LP al posto di quelli di Fausto Papetti.

Inoltre, nel genere frettolosamente etichettato come “easy listening” o “new classical” (termini dei coevi movimenti esteri che però sono molto diversi rispetto alle espressioni della nostra penisola), s’incontravano affluenti che derivavano dal prog sinfonico italico, perlopiù sciolto in una melassa romantica a volte talmente estrema da risultare insopportabile. Insomma, la musica pop sinfonica e romantica aveva anche un ruolo sociale, gli amori e il relax dopo il lavoro nascevano anche grazie a queste registrazioni, perciò il fine giustificava i mezzi. Ma non per questo la sperimentazione musicale si arrestava.

Poi, a un certo punto, arriva la new wave. L’amore prende un altro colore, meno rassicurante, cambiano le regole dei giochi; anche la new classical internazionale deve farci i conti. E le cose prendono una piega tale che in Italia si diventa quasi dei capiscuola di commistione tra suoni algidi, chirurgici, e modelli classici che finalmente, più che rifatti di sana pianta, sono d’ispirazione per brani originali scritti per l’occasione e mescolati a rifacimenti di opere imperiture, perché non guasta mantenere un nesso col mercato generalista. È insomma un perenne mash up in cui vero e falso si confondono senza problemi e senza morale alcuna.

Abbiamo dunque deciso di proporvi cinque album del genere, in alcuni casi delle chicche che allieteranno e rinfrescheranno le vostre serate estive lontane dalla pazza calura cittadina, possibilmente, visto il tema romantico, in dolce compagnia.

Rondò Veneziano, Odissea Veneziana (1984)

I Rondò Veneziano sono senza dubbio dei capiscuola del genere. Da un’idea di Freddy Naggiar, capoccia della Baby Records, la fantomatica band nasce nel 1979 durante una pausa pranzo con il succitato boss e il grande Gian Piero Reverberi, già collaboratore di Battisti, Dalla, New Trolls, De André nonché, più avanti, artefice del sound ”pornoromantico” di Albano e Romina. Freddy si rende conto che in campo internazionale manca un progetto di musica strumentale italiana che riesca a fondere il passato col presente per creare… il futuro.

All’inizio Reverberi pensa a una specie d’ibrido tra Branduardi e Stephen Schlaks, che nella musica strumentale più terribilmente commerciale era il capo dei capi, un bilanciamento fra qualità e musica di massa. Poi però decide di ispirarsi a un disco de Le Orme che aveva appena coprodotto, Florian, nel quale c’era un tentativo di rivisitare in chiave pop/prog la musica barocca e l’immaginario di Venezia, patria della band. Florian non ha il successo sperato, ma proprio in virtù di questo parziale fallimento Reverberi perfeziona l’idea e usa questo limitante “sentimento veneziano” per trasformarlo in un vero e proprio marchio imbattibile.

Mette su un gruppo fantasma con tanto di vestiti del XVIII secolo e parrucche d’epoca, componendo brani ispirati alle strutture del Rondò e saccheggiando però di volta in volta anche la classica di vari periodi storici. A questo, e a un’orchestrazione prettamente da camera, il nostro Reverberi aggiungeva massicce dosi di basso e batteria di estrazione disco/wave e di elettronica che proiettavano il tutto in una dimensione allo stesso tempo futuristica e atemporale.

L'impatto mediatico fu fortissimo, non solo perché nel 1979 Venezia era tornata a celebrare il suo carnevale storico, ma anche perché nessuno sapeva chi fossero i musicisti coinvolti, tutti session man, metà dei quali completamente sconosciuti (si trovano delle liste in giro, ma sempre incomplete). La musica dei Rondò Veneziano da questo momento avrà una grandissima diffusione, non solo per le TV private che usavano i loro pezzi come sigle, ma per la forza dei brani stessi scritti a quattro mani da Reverberi e da sua moglie, la compositrice Laura Giordano.

Tracce che in qualche modo davano l’illusione di essere degli originali, sì, ma del Settecento. Molti, abituati ai rifacimenti, cadevano nella rete di una vera e propria illusione ascoltando questa perfezione formale fatta di formule ariose, a prova di ogni orecchio ma non per questo dozzinali, anzi a volte particolatamente complesse.

Il nostro consiglio è di ascoltare Odissea Veneziana del 1984, in cui si ritrae una Venezia oltre l’anno 2000. L’elettronica è usata per dialogare e abbracciare letteralmente gli strumenti classici, in una specie di misto tra Jean Michel Jarre e colonne sonore di fantascienza, come nei fenomenali brani “Cà D’Oro”, “Rosso Veneziano” e la title track “Odissea Veneziana” in cui Diego Farina, in quel frangente collaboratore di Reverberi, intuisce la necessità di rivedere Bach e portarlo alle masse filtrandolo con il synth pop.

Nonostante per anni molti abbiano screditato il progetto come una baracconata per ascoltatori medi e passivi, i Rondò Veneziano, al contrario, sono stati d’esempio per molti esperimenti elettronici futuri. In Italia senza dubbio la ricerca di Reverberi viaggia, anche se in un senso più commerciale, parallela a quella di Franco Battiato (come vedremo più avanti) e nel campo estero l’influenza è stata a lungo raggio anticipando di poco quello che succedeva oltralpe con il new romantic: “Sounds Like a Melody” degli Alphaville ha molto in comune con i nostri, e gli Adam and the Ants settecenteschi di “Prince Charming” sembrano voler indossare le stesse parrucche. Ma quelli che davvero hanno raccolto il testimone sono stati i Daft Punk, che in “Veridis Quo” (e forse anche nella suggestione fumettistica, guardate il promo di Odissea Veneziana) rendono chiaramente omaggio alla creatura di Reverberi sfiorando il plagio. Mai quindi sottovalutare quello che all’apparenza sembra scontato.

Conservatorio Claude Sebastian, Guerrieri Eccellenti (1982)

I Conservatorio Claude Sebastian sono un esperimento curioso: un progetto di Franco Talò (urlatore negli anni Sessanta e artefice di successi minori come “Il rimorso”, poi vago progger solitario con Il Sole del 1976) che negli anni Ottanta decide di aprire una sua etichetta chiamata, in maniera abbastanza imperativa, Uomo Musica, la cui prima creatura è proprio il Conservatorio con un disco dal titolo degno dei primi Litfiba: Guerrieri Eccellenti.

A proposito dei musicisti coinvolti nella produzione regna il più fitto mistero e la cover raffigura i bronzi di Riace su sfondo sabbia/siderale (l’immaginario è la Magna Grecia, essendo Talò tarantino di origine). Sembra un upgrade del Battiato-sound in senso strumentale, ricordando da vicino gli arrangiamenti “svuotati” de L’Arca di Noè, che uscirà un anno dopo. Nonostante questi riferimenti tanto ingombranti quanto lungimiranti, il disco mantiene una sua coerenza compositiva fra arzigogoli romantici di violoncello, bassi e batterie wave e un synth che più algido non si può, come si evince dall’oppiacea title track o nella tiratissima "Adulterio Mantovano" (nome che è tutto un programma), scelta come singolo di traino.

Ma il brano di successo di questo LP sarà un altro: la cover di "Aria sulla IV corda" di Bach, che diverrà celebre per essere la sigla storica del programma Quark di Piero Angela, tanto da venire ancora oggi confusa con l’originale e all’originale preferita. E, in effetti, quel synth dal sapore quasi theremin ti solletica la corteccia cerebrale per bene, come se si viaggiasse in un cosmo di liquido amniotico drogato. Insomma, roba bizzarra, ma il nostro Talo’ non era nuovo a queste stramberie. Anzi, se dobbiamo dirla tutta, probabilmente, il copyright della band in costume settecentesco con tanto di parrucche è proprio suo. Nel 1966 infatti incontra questo gruppo chiamato Rocky + 4, li ingaggia, li fa vestire da Lady Oscar e li ribattezza CICISBEI, nome improponibile ma la musica forse lo è anche di più: una specie di beat spastico che a volte sembra anticipare i Devo. Un pioniere della contaminazione tra classico e moderno, insomma, non ci sono dubbi.

Giusto Pio, Legione Straniera (1982)

Con Giusto Pio spostiamo l’ago della bilancia su un diverso peso specifico: dopo il suo esordio micidiale chiamato Motore Immobile, il nostro mastro violinista cambia completamente rotta abbandonando i droni e perfezionando il discorso musica strumentale nella linea new wave del Battiato-sound. E, infatti, Battiato co-firma praticamente tutto il disco, partecipando anche con la sua riconoscibilissima voce e con altrettanti arrangiamenti di elettronica sapientemente dosata, anche se stavolta il coltello dalla parte del manico ce l'ha evidentemente il nostro Pio.

Giusto è la faccia eterea della medaglia “progetto Battiato”, e in Legione Straniera la fa da padrone con le sue lussureggianti melodie cantate al violino e i suoi riccioli neoclassici. Di Motore Immobile rimane l’idea di minimalismo, in questo caso però si tratta di minimalismo orchestrale alla Philip Glass o Steve Reich inserito in un contesto pop sinfonico. Qui Pio sfida i Rondò Veneziano sullo stesso campo che lui stesso aveva seminato un anno prima della fondazione del gruppo. Parliamo del progetto Astra, messo su a quattro mani con Battiato. In copertina del loro primo misconosciuto singolo ("Adieu" sarà però riciclata in futuro da Battiato in molte vesti, l’ultima delle quali il ritornello dell’eccezionale brano “Una storia inventata” per Milva) è ritratto il figlio di Pio, per mantenere il mistero sulla vera identità di Astra, con Battiato che canta con la voce camuffata, avvolto in un curioso arrangiamento sinfonico/wave pestone, in pratica un test sulle future scorribande sonore dei duo. La cosa curiosa, ma neanche troppo visto l'argomento di questo articolo, è che il lato B del singolo si chiama proprio "San Marco".

Giusto Pio era veneto e la sua formazione musicale avviene proprio a Venezia, ma le influenze di Legione Straniera, rispetto al campanilismo dei Rondò, spaziano veramente da Oriente a Occidente. Come nella concitata "Eritrea’s", nella soave "Celestial Tibet" o in "Giardino Segreto", in cui si superano a sinistra proprio i suddetti Conservatorio Claude Sebastian, con una citazione proprio di "Aria sulla IV corda" di Bach puntellata da dialoghi in una non meglio identificata lingua orientale. Del resto Battiato nutre un’ossessione totale per questo pezzo di Bach, tanto che in realtà la citazione era già apparsa in Fetus, il suo primo album del 1972, alla fine di "Meccanica", dilatata e impreziosita dal dialogo tra Nixon e l’equipaggio dell’Apollo 11. Un’apripista per i neoclassici insomma, come lo sarà Legione Straniera per la new age in Italia: qui si sentono i primi vagiti (come esemplifica il brano finale "Aria di un tempo", un’incredibile sinfonia pre-HD) di un mondo di relax sonorizzato nell’Eden, non importa quanto artificiale e quanto elementare. Un must.

Mauril + Zulian, S/T (1982)

Fra i progetti/mistero è impossibile non citare questo duo messo su per un solo disco nel 1982. Zulian è Franco Zulian degli Armonium, nativo di Udine, compositore e arrangiatore di oscuri singoli di pop italiano (ma anche di cose più main come Flavia Fortunato e Pupo). Mauril è Elio Palumbo dei celeberrimi Santo California, originario di Taranto e tra i capoccia della Yep, etichetta romana di pop stramelodico che vedeva tra i suoi artisti di punta gente come i Romans e Mino Reitano.

L’insieme è un po’ una sintesi del sentimento neosinfonico del nord e del sud analizzato fin ora, che s’incontrano al centro. Quindi abbiamo il brano d’apertura "Mauril", che fa sfoggio di strutture settecentesche imbottite di sintetizzatori e ritmi disco, oppure "Speranza" che è un saltarello di sinfonica sintetizzata al massimo. Il resto del disco gioca fra melodie classico-epiche derivate dal prog pop (i Pooh di Parsifal fanno capolino qua e là), l’easy listening e spianellate di epoca romantica, su cui appoggiano synth e ritmiche funk/wave.

Non mancano le citazioni, come in "Se te ne vai", che riprende temi circensi trasformandoli in un pathos nostalgia da ribaltabile. Anche in questo disco i nomi dei musicisti sono assenti, l’ignoto assoluto la fa da padrone: solo con l’intuito potremmo carpire qualcosa dei session man convocati (che alla batteria ci sia il nostro Tullio De Piscopo? A giudicare dai fill sui tom potrebbe anche essere).

La copertina raffigura perfettamente questo spirito romantico e misterioso, e lo fa in maniera quantomeno ambigua: avvolta da uno sfondo rosa profondo, la foto in copertina sembra raffigurare un bellissimo efebo, non è chiaro in realtà che sesso abbia il protagonista dello scatto ma è evidente che la copertina nasce per scatenare pruriti. Un prodotto sicuramente di nicchia pur essendo (anzi proprio perché lo è) “scandalosamente commerciale”.

Accademia, In Classics (1982)

Chi sono davvero gli Accademia? Boh. Di loro si sa pochissimo, sembrano spuntare dal nulla nel 1981, ma il loro sound è ancora acerbo e troppo derivativo del pop italiano leggerissimo che era alla destra di Baglioni. Ma solo un anno dopo, improvvisamente, gli Accademia sembrano tutt’altro gruppo: tirano fuori le unghie e producono questo disco delirante composto di un mash up di brani classici diviso in quattro parti, una per lato.

Si passa da Liszt a Mozart, da Tchaikowsky a Beethoven, con predilezione per i compositori italiani come Rossini, Verdi e Puccini tutti compressi non stop in un missile di sintetizzatori senza cuore e una drum machine marzialmente spietata e suonata a tutto gas, con una rozzezza pari agli Stupid Set di "Rangoon Patrol". Si va al sodo, poche storie, con cori che sembrano più una minaccia di ultrà da stadio che bel canto di musicisti “accademici”. E ovviamente non poteva mancare la cover dell’onnipresente "Aria sulla IV corda" di Bach, con la quale gli Accademia fanno lo sgambetto a tutte le cover del brano finora prese in esame. Il loro sound era infatti chiaramente e saldamente ispirato alle produzioni di Conny Plank (Kraftwerk e Ultravox in primis), e il concetto di new romantic era preso alla lettera e trasportato in un contesto ultraclassico, rinnovando anche la tradizione dei sintetizzatori ben temperati italiani.

Ovviamente ospitati dalla Ariston, l’etichetta dei Matia Bazar che all’epoca stavano passando definitivamente all’elettronica allenandosi anche loro con le cover dei grandi classici (ricordiamo la loro "Lili Marlene" versione technopop, probabilmente studiata dagli Accademia per il loro progetto), i nostri eroi registreranno altri tre dischi, tra i quali il successivo e interessantissimo Accademia Style, che vede, oltre alle solite cover di musica classica, delle composizioni originali che in gran parte sono vere e proprie canzoni in stile new romantic (vedi l’epica “Spedizione Utopica in Alaska”), in altri casi si spostano in zone esotiche Giusto Pio-style ("Shangai" parla chiarissimo).

Il tentativo di aderire a tutti gli effetti al new romantic (nel disco c’è addirittura un pezzo entusiasticamente dedicato al movimento omonimo) confonderà il pubblico, ponendoli in una terra di mezzo poco credibile sia al facile consumatore di dischi sia all’area alternativa. L’unica cosa certa di questa strana band è che Leonardo Schiavone, il tastierista, ha fatto parte degli Stormy SIx nel periodo Macchina Maccheronica e che il violoncellista Claudio Frigerio ora si occupa solo di suonare il suo strumento nelle orchestre di musica classica. Ma si sa, quando si tratta di new sinfonica nulla è sicuro.

Fuori concorso: Il Guardiano del Faro, Oasis (1978)

Il lettore più attento avrà forse storto il naso non vedendo citato uno dei padri di un certo tipo di sensibilità classico-romantica applicata ai sintetizzatori, Federico Monti Arduini anche conosciuto come Il Guardiano del Faro, il “principe del Moog”, che ha praticamente sdoganato tale strumento nel 1972 a quell’altissima percentuale d’italiani ai quali della PFM non fregava nulla. Ma pur entrando di diritto nella categoria new sinfonica e anzi essere un assoluto pioniere del genere, ha sempre favorito l’easy listening, per cui a nostro parere fa stile a sé.

Nonostante ciò, è impossibile non citare “fuori concorso” il suo assoluto capolavoro sintetico-classico-romantico Oasis. Disco di culto in quanto senza dubbio è il primo disco proto-chillwave/glo-fi mai prodotto in Italia (e siamo solo nel 1978!), rappresenta un cambiamento notevole nella produzione del nostro. Abbandona infatti i facili trick compositivi e le smancerie dolciastre per un meraviglioso oceano di sintetizzatori usati allo scopo di evocare isole di lucente silicone. Alla batteria (qui ne siamo sicuri) c'è un Tullio De Piscopo che sembra un’inarrestabile drum machine in carne ed ossa. Disco fondamentale per le vostre vacanze “in classic”, non ci sono dubbi.

Ci sarà davvero un ritorno di fiamma per questa musica, atta a evocare mondi idilliaci e umanisti, visto gli anni terribili che viviamo? È presto per dirlo. Voi comunque mettete su questi dischi e chiudete gli occhi. Con i classici non sarete mai soli, ve lo garantisce Italian Folgorati.

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Abbiamo fatto ascoltare i tormentoni dell'estate italiana a degli inglesi

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Abito a Londra da diversi anni, ma non avevo mai beccato un'estate così. Con 32 gradi, mi sembra proprio di essere tornato nella mia terra natia, ma senza la pizza, le sigarette a cinque euro e i ristoranti e i bar dai prezzi abbordabili. Così l'altro giorno, mentre agonizzavo sul divano, la mia nostalgia si è focalizzata su un altro caposaldo dell'estate italiana: i tormentoni.

Trovandomi all'estero, non ho avuto accesso alle radio italiane, e ho dovuto usare Google per scoprire quali fossero i tre brani più trasmessi a casa nostra. Così ho scoperto che si tratta di:
Fedez & J-Ax, "Italiana"
Boomdabash feat. Loredana Bertè, "Non ti dico no"
Takagi e Ketra feat. Giusy Ferreri e Sean Kingston, "Amore e Capoeira"

Nell'ascoltarle per la prima volta, non ho potuto fare a meno di domandarmi che effetto avrebbero potuto suscitare in un ascoltatore non italiano. Così, dato che tanto anche sul divano si moriva di caldo, ho preso l'iPad e un paio di cuffie e mi sono recato al primo pub affollato per interrogare gli autoctoni.

Questi londinesi D.O.C. avranno provato fascino o repulsione per i nostri inni estivi? Andiamo a scoprirlo.

Daniel, 30 anni

Noisey: Ciao Daniel, piacere. Ora che hai visto i tre videoclip, ti andrebbe di darmi un rapido parere sulle tre canzoni? Cosa ti ha colpito?
Daniel: “Italiana” mi sembra che nel complesso funzioni. Anche se è la solita cosa pseudo-dance… anzi, l’ho trovata abbastanza insipida. Ma non mi stupisce che possa funzionare. Più che altro sono rimasto colpito dai due cantanti.

In che senso?
Non lo so, ho avuto come la sensazione che fossero due presi e messi lì a tavolino. Due che a telecamere spente non si parlerebbero neanche per sbaglio. Poi li ho trovati abbastanza male assortiti anche come stile. Sembrano il cantante dei System of a Down e un concorrente di Temptation Island che cantano una canzone degli LMFAO.

E di “Non ti dico no” cosa mi dici?
Mi piace il beat. Complessivamente mi piace più della prima. Mi trovo in sintonia con questo mix abbastanza rilassato di dance e reggae. Ma sono anche loro famosi? Mi sembrano tutti troppo vecchi per essersi improvvisati cantanti dall’oggi al domani [ride].

Sì, sono tutti artisti con un seguito importante in Italia.
La terza mi sembra un’altra tipica canzone dance europea. Per questa vale lo stesso discorso che ti facevo per la prima. Quello che mi sorprende è che Sean Kingston sia diventato così sfigato da dover cambiare lingua per riuscire a spacciarsi ancora per un rapper.

Inseriresti una canzone in una lingua straniera nella tua playlist? O il fatto che sia in italiano è una discriminate troppo grossa?
Se si parla di musica da ballare ti direi di sì, senza dubbio. Le parole contano poco o nulla, è tutta vibe. Comunque non ho pregiudizi, anche se al momento mi viene da citarti soltanto i Rammstein. Non so di cosa stiano parlando ma è tutto l’insieme di musica e immaginario che manda avanti il pezzo.

Ciaran, 33 anni

Noisey: Allora? Cosa ne pensi?
Ciaran: Gesù. Quella sulla capoeira era una merda assoluta. Davvero una schifezza. Anche il video era abbastanza imbarazzante, e di solito quella è una delle poche cose che si salva in quel tipo di musica.

Ok, la Ferreri non fa per te. Nel complesso?
Ma mi sembra che nel complesso siano tre versioni diverse dello stesso tipo di canzone. R&B misto pop americano misto rap misto dance… quella roba lì. Non penso che sia un problema italiano, anzi, penso che sta schifezza si trovi un po' ovunque. Cazzo, sto ancora pensando a quanto faceva schifo quella della capoeira.

So che verosimilmente non avrai capito un tubo del testo, ma dammi un parere generale anche sulle altre due.
Della prima [“Italiana”] ho avuto l’impressione che tentassero di fare gli spiritosi, ho anche capito che c’era un passaggio dedicato a Kim Jong Un e alle fake news. Si sentono rivoluzionari alla Bob Dylan? [ride]. La seconda dei Boomdabash è forse quella che mi è dispiaciuta di meno nel complesso, anche se ho trovato la signora anziana [Loredana Bertè] abbastanza disturbante. È una ragazza travestita o è davvero una vecchia?

È una grande cantante italiana con quasi 50 anni di carriera!
Perché sta sempre con la schiena piegata?

Andrew, 26 anni

Noisey: Impressioni? Mi sei sembrato bello divertito.
Non posso certo dire di essere un fan di nessuna di queste canzoni, sia chiaro. Al tempo stesso, come per tante canzoni latine, c’è un non so che di estivo che me le fa stare simpatiche. “Non ti dico no” è probabilmente la mia canzone preferita delle tre, ha un bell’incedere e delle melodie che mi piacciono, specialmente il ritornello. Ho trovato strano che abbiano fatto cantare un’anziana, mi ha un pò distratto.

E il fatto che cantino in italiano è una discriminate?
No, non credo. Certo se fossero canzoni in cui fosse il testo a farla da padrone, come il rap ad esempio, sarebbe un altro discorso. In questo caso mi sembra che siano tutte canzoni rivolte a creare una buona “vibe” per l’estate. Onestamente non avverto come un problema il fatto di non capire il testo.

Marion, 23 anni

Resta immobile e inespressiva durante l’ascolto di tutti e tre i brani.

Stai bene? Ti devo portare un bicchiere d’acqua?
[Ride] No guarda, è solo che non è proprio roba che fa per me. Non saprei neanche cosa dirti, mi sembra tutto abbastanza surreale, dal duo iniziale [Ax e Fedez] che sembrano nonno e nipote, alla vecchia in tuta di pelle. Sono abbastanza perplessa.

Dimmi solo una tua impressione generale sul livello dei brani e dei video, poi ti lascio tornare a bere.
Le canzoni mi sembrano di discreta fattura, il solito minestrone per raggiungere la vetta delle classifiche. Immagino che possano anche essere delle canzoni divertenti da sentire nel contesto di una festa. Così a freddo le trovo abbastanza terribili.

E i video?
Forse quello di “Italiana” è quello che mi dispiace di meno, ma non abbastanza da farmi piacere la canzone.

Pia, 25 anni

Dai, dimmi tutto. Siamo riusciti a stupirti?
Non direi, è più o meno la stessa roba che tiriamo fuori anche noi in estate. Hanno un buon ritmo, ma al tempo stesso sembrano davvero tutte uguali. La classica canzone per arrivare in cima alle classifiche. A essere sincera non penso ci sia niente di particolarmente interessante e degno di nota. "Italiana" era quella con maggior potenziale, mi piace la parte rap.

C’è qualcosa che hai trovato particolarmente ridicolo?
Sono amici tuoi? Non vorrei offendere nessuno. Ho trovato la signora anziana che canta nel brano dei Boomdabash abbastanza spaventosa. Mi mette a disagio. È un peccato perché la canzone non è male, ma lei è davvero da film horror.

Il fatto che fossero in Italiano le ha rese più ridicole alle tue orecchie? Metteresti una canzone italiana nella tua playlist?
Certo che ce la metterei, anche se magari non una di queste. Non m'interessa particolarmente in che lingua è cantata la canzone, spesso anche se sono in inglese non presto attenzione alle parole. È tutto un discorso di emozioni, e a volte ci si emoziona anche senza capirsi.

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