Quantcast
Channel: VICE IT - NOISEY
Viewing all 3944 articles
Browse latest View live

L'Italia sta ignorando Bugo, il suo Liam Gallagher

$
0
0

Magari ai più giovani, adepti dell'Itpop, il suo nome non dirà nulla. Ma c'è stato un periodo, circa dieci anni fa, in cui Cristian Bugatti da Cerano, Novara, in arte Bugo, era una delle punte di diamante dell'indie italiano. Erano altri tempi per la scena: promozione e vendite praticamente inesistenti, ascolti (su Myspace!) ridicoli, festival minuscoli e numeri ridotti davvero alle briciole. Chi c'era ricorderà sicuramente una situazione opposta a quella attuale, un ambiente in cui luoghi di discussione e diffusione come Diesagiowave erano un miraggio.

Pur dichiarandosi estraneo a quella nicchia, al suo interno Bugo spadroneggiava. Era protagonista perché con la musica sapeva fare bene qualsiasi cosa volesse: un giorno si dedicava al cantautorato lo-fi, il giorno dopo all'elettronica e il sabato sera all'hard rock. E il pubblico, dalla sua, rispondeva agli stimoli. La critica era unanime nello spendere fiumi d'inchiostro su di lui, anche se non tutti erano d'accordo sull'effettiva caratura dei suoi lavori. Lo si definiva "fantautore" e l'associazione più immediata era quella con Beck: come lui, il nostro mescolava generi diversi in anarchia, forte di un piglio stralunato, surreale e provocatorio.

L'album Contatti, uscito nel 2008, rappresenta la vetta più alta della sua discografia. la sintesi perfetta, su un meticoloso tappeto elettronico, delle anime in lui in circolo da almeno un decennio. Con pezzi memorabili come "C'è crisi" e "Nel giro giusto" riuscì addirittura a piazzarsi contemporaneamente fra gli headliner del MI AMI e nel pomeriggio di RaiDue, quando ancora RaiDue faceva programmi musicali al pomeriggio.

Un Bugo d'altri tempi, screenshot da YouTube.

Poi, però, qualcosa si è rotto. Dal successivo Nuovi rimedi per la miopia è stato un passo falso, un po' per un evidente calo d'ispirazione, un po' per un discutibile cambio di rotta verso lidi più morbidi. Così, mentre l'indie italiano iniziava a cambiare / crescere (scegliete voi il verbo che preferite), il pubblico e la critica hanno rivolto altrove la loro attenzione, tagliandolo fuori dal giro giusto.

Ormai anagraficamente lontano dai giovanissimi, Bugo iniziò un processo di metamorfosi che l'ha portato a staccarsi dall'immagine del Beck italiano per assomigliare a un altro nobile decaduto della musica: Liam Gallagher. E noi, nonostante quest'occasione imperdibile, da bravi stronzi abbiamo continuato a ignorarlo. Ma andiamo con ordine.

Perché Liam Gallagher? Come il frontman britannico, anche Bugo si è creato il suo coagulo di riferimenti sacri e intoccabili, appartenenti a un passato dorato a metà fra l'alternative e il nazionalpopolare, messi sull'altare per essere ostentati quando necessario. Poi, se l'ex Oasis ha addirittura chiamato suo figlio Lennon, il Bugatti ha invece deciso di credere nell'Italia rock dei suoi ascolti di gioventù: Grignani, Celentano e il Vasco degli esordi.

Come l'ultimo album di Liam, As You Were, anche le nuove opere del Bugo non sono certo brutte. Ma sono anacronistiche, scritte con uno sguardo vitreo rivolto più al passato che al presente e dunque anche riluttanti per loro stessa natura all'interesse della stampa di settore e degli ascoltatori, oggi più che mai in cerca della spiazzante novità. Ora: non che il resto dell'indie italiano sia particolarmente avanguardistico, ma è proprio quel suo modo un po' morboso di guardarsi indietro a determinare quest'impressione finale. Nessuna scala da salire ad esempio sembra un solo un bel revival di Bollicine, e lì si ferma.

Bugo, foto di Michele Piazza.

Parlare dei nuovi album di Bugo significa parlare di dischi che non si è filato nessuno: né i novizi del genere, né i veterani che non si perdono un'uscita, né la critica. Certo, è rimasto lo zoccolo duro dei suoi fan, ma rispetto a dieci anni fa oggi Bugo vive in una situazione di disinteresse diffuso.

Bugo non l'ha certo presa con filosofia, equi veniamo alla sua componente più gallagheriana. Come Liam, anche per lui lo stare in disparte è una forzatura in risposta alla quale ha continuato sì a fare musica ostinata, ma al contempo non ha risparmiato insulti e considerazioni al vetriolo sul resto della scena. Su chi, in pratica, se la passa meglio. Le sue crociate su Facebook, con post provocatori spesso firmati allo stesso inutile modo dei tweet di LG, hanno avuto finora come credo un po' naif lo scorno fra un passato "vero" e un presente "corrotto", che l'ha fatto fuori senza motivo. Bugo narra, o immagina, una serie di faide che non risparmiano nessuno: dai "social" come entità astratta ai giornalisti di settore, dai discografici ai colleghi più o meno "indie".

Stilarne un elenco sarebbe controproducente, anche perché molti dei post sono stati poi cancellati dall'autore stesso. Ricordiamone, però, gli highlights: la rottura con la Carosello, con delicati dettagli privati; il tira e molla con Facebook, del tipo "prima lo uso, poi no, poi passo a Instagram, poi forse ci torno"; la polemica con RockIt e, più in generale, con l'informazione musicale tutta, rea di averlo ignorato persino durante la presentazione del suo disco; Cosmotronic/"Cagatronic", che tutto insieme non varrebbe una nota del Contatti di cui sopra.

Le reazioni ovviamente non sono mancate, e il più delle volte l'hanno visto passare per l'invidioso di turno o, peggio ancora, per un ottuso che non sa o non vuole capire la nuova musica. Di contro Bugo, un po' per necessità di uscirne e un po' per animo cazzone, ha mischiato le carte in tavola, sostenendo quanto il suo atteggiamento sarebbe in realtà soltanto sarcastico. Come a dire che, in fondo, quelle provocazioni altro non sono che un gioco per rendere meno monotona la comunicazione fra gli artisti, per rinnovare il proprio personaggio e mettere un po' di pepe sulla scena.

In ogni caso, al momento Bugo ha cancellato tutti i messaggi che poteva cancellare, che restano oggi solo in ricerche di Google che portano a link morti. È partito in tour per supportare il suo nuovo progetto RockBugo: guarda caso, una raccolta dei suoi classici arrangiati in chiave rock. Nella faida fra chi lo reputa un santone (pochi) e chi un rosicone in cerca d'attenzioni (tanti), ci siamo noi, che siamo angioletti super partes e non ci perdiamo mai una polemica. E intanto sorvoliamo sulla lezione che, non sappiamo con quanta consapevolezza, il nostro ci insegna: prendersi meno sul serio, con più leggerezza, una volta tanto. Non c'è mai da credere troppo a ciò che si vede: è solo il grande gioco del rock, direbbe lui. Un valore potenzialmente essenziale, questo dell'ironia, di cui il Bugatti si è nominato alfiere e che l'indie italiano, a tratti troppo permaloso e serioso, ha un po' trascurato.

Patrizio è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.


Chi è Rvssian, il produttore di "Pablo" di Sfera Ebbasta?

$
0
0

Oggi che Sfera Ebbasta è il rapper italiano più popolare fuori dall'Italia, è curioso rendersi conto che sia realmente esploso con il pezzo più local del suo repertorio. "Ciny" era un inno di quartiere, un tentativo più che riuscito di dare un'identità condivisa a chi a Cinisello Balsamo ci è nato e morto, punto d'arrivo ideale delle storie di strada che animavano i pezzi di XDVR. Nel rispetto della tradizione narrativa del rap, le rime si fanno tanto per rendere leggenda la propria comunità che per fuggire dal quartiere. E Sfera, a partire dal suo album d'esordio, così ha fatto.

Uscito per un'etichetta storica come Def Jam, Sfera Ebbasta era pensato come prima tappa della costruzione di un sistema. Come dimostrato dallo sfondamento dei PNL oltreoceano, due anni fa le scene europee, asiatiche e latino-americane hanno cominciato a colmare il gap storico e culturale che storicamente ha confuso le loro voci in mezzo al grande marasma dell'hip-hop statunitense. Def Jam non ha fatto altro che capitalizzare su questo fenomeno, così da eliminare i confini tra scene e nazioni e portare i propri artisti a nuovi pubblici e stabilendo obbiettivi sempre più ambiziosi.

La prima tappa di Sfera è stata la Francia, quella che ha visitato con noi nell'episodio de La nuova scuola a lui dedicato. Il risultato sono state "Cartine Cartier" e "Balenciaga" con il marsigliese SCH, due pezzi intrisi di malinconia ed edonismo che sono serviti a entrambi i rapper per affermarsi nelle scene geograficamente e culturalmente a loro più vicine. Rockstar ha invece segnato un'apertura al mondo: la Germania di Miami Yacine, autore della hit "Kokaina"; il Regno Unito di Tinie Tempah, nobile decaduto del rap d'oltremanica; la Puerto Rico di Lary Over, uno dei volti principali della trap latina; e gli Stati Uniti di Rich the Kid e Quavo dei Migos, gioiello sulla corona dell'album nella ballatona che è "Cupido".

Nel giro di qualche pezzo, Sfera è così diventato il primo rapper italiano ad affermarsi realmente a livello globale. Dall'uscita di Rockstar in poi, lui e il suo team hanno seguito come segugi il profumo delle tendenze internazionali, cogliendo per primi in Italia il potenziale dell'incontro tra trap americana e la scena latina e caraibica. Lungo il corso del 2017, la trap latina si è affermata come un mastodonte culturale e commerciale; in questo 2018 il mondo ha cominciato a prendersene pezzi a forza di collaborazioni di alto livello. Per citarne solo un paio: "I Like It" di Cardi B, J Balvin e Bad Bunny; e "Krippy Kush" di Farruko, ai cui remix hanno partecipato Nicki Minaj, 21 Savage e Travis Scott. Quest'ultima prodotta, e ci arriviamo tra poco, dal producer giamaicano Rvssian.

Negli ultimi mesi Sfera ha messo la sua voce prima su "Mwaka Moon" del rapper della Martinica Francese Kalash e poi su "Machika" di giganti come J Balvin e G-Eazy, in un remix che vedeva anche la partecipazione dei brasiliani MC Fioti e Anitta, dell'argentino Duki e dell'arubano Jeon. Praticamente il sogno bagnato di ogni ascoltatore che considera la musica un grande patrimonio internazionale e non un gioco di scene nazionali.

E ora ecco arrivare "Pablo", non un remix ma un pezzo di Sfera a tutti gli effetti - prodotto non dal suo compagno d'arte Charlie Charles ma da Rvssian, un nome non proprio conosciutissimo dalle nostre parti ma che dovrebbe lasciarci a bocca aperta, oltre che farci ben sperare per il futuro della dominazione mondiale di Sfera.

Rvssian, nella vita Tarik Johnston, è innanzitutto un figlio d'arte. Suo padre è tra i fondatori di Micron Music Limited, una storica etichetta reggae fondata nel 1971. Cresciuto a Kingston, Giamaica, in una famiglia normale, cominciò a collezionare musicassette reggae, dancehall e hip-hop già da ragazzino. Immerso nella cultura dei sound system, quei muri di casse itineranti che sono parte integrante della tradizione musicale della sua nazione, cominciò a proporsi come DJ.

Cominciò a fare sul serio, Rvssian, solo quando si rese conto che non voleva davvero andare a frequentare l'università a cui si era iscritto dopo le superiori, la NYU di New York. Con il benestare dei suoi, si prese un anno per provare a diventare un musicista professionista. Aiutato dal contesto in cui era cresciuto, non ci mise molto a stringere un rapporto d'amicizia con il cantante e DJ Vybz Kartel, una delle più grandi e controverse leggende musicali della Giamaica, condannato nel 2014 per omicidio e oggi all'ergastolo. Nel 2010 uscì la loro prima collaborazione, "Life Sweet". Come ha raccontato a THE FADER, quelle sono le parole che Rvssian si è tatuato sul braccio "per ricordare il suono che lo ha reso famoso".

In tutto questo, Rvssian continuò a stringere conoscenze: "Ogni sera ero per strada a promuovere la mia roba", ha detto sempre a THE FADER, "Andavo a tre o quattro feste ogni sera, stringevo mani e davo in giro i miei CD, andavo a letto alle nove del mattino e mi svegliavo alle due del pomeriggio e poi ricominciavo". Fu allora che fondò la sua etichetta, la Head Concussion Records: quella sul cui canale è stato caricato, oggi, il video di "Pablo".

Con il passare degli anni, Rvssian cominciò a stringere contatti con la scena musicale latino-americana. A farlo conoscere da quelle parti fu la sua "Wine Slow", affidata al cantante reggae Gyptian: nel 2009 Farruko, gigante della scena portoricana, gli chiese di apparire su un remix del pezzo. Lui accettò, e qualche tempo dopo architettò una collaborazione tra Farruko e un altro gigante della cultura giamaicana: Sean Pal. Il risultato, "Passion Whine", fu l'inizio dell'affermazione di Rvssian a architetto del suono della latin trap: oggi, quasi dieci anni dopo, nel suo curriculum ci sono beat per giganti dell'R&B come Shaggy e Sean Paul, leggende del grime britannico come Dizzee Rascal.

Sfera Ebbasta è il primo artista italiano a collaborare con lui su un singolo brano, ed è un'opportunità enorme tanto per lui quanto per la scena italiana tutta. Se gli artisti statunitensi hanno già cominciato ad allargare enormemente il loro pubblico affidandosi allo spagnolo dei loro colleghi latino-americani, gli italiani hanno spesso trattato i pezzi latineggianti come parentesi estive all'interno di discografie seriose, collaborazioni estemporanee con belle voci dai nomi tanto famosi nei propri territori di riferimento quanto trascurabili in contesto europeo. Rvssian ha invece posto Sfera Ebbasta sul suo stesso piano a livello di attribuzione del pezzo, ospitandolo oltretutto sul suo canale YouTube. "È uno di noi, Sfera", sembra dire. Ed è un'affermazione dal valore immenso.

Elia è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Recensione: Lotic - Power

$
0
0

Sarò schietto: non è che io sia contro i concept, anzi sono avvezzo anche io a fare dischi il più delle volte con un concetto dietro, ma mi sembra che nel 2018 il concept venga messo avanti alla musica, proprio come le mani quando si fa una cazzata.

Praticamente va a finire che la musica è un “accessorio” a tutto il resto, mentre a mio modesto parere dovrebbe essere il contrario, sennò il trucchetto non regge. Se la musica non è all'altezza, non basta avere una bella storia da spiegare. Lotic non si sottrae alla moda del concept che imperversa in ambiente HD, tanto che sembrano tutti tornati indietro all’era del progressive (e che palle).

In questo caso il tema intorno al quale gira il disco è il “potere”: la forza di restare se stessi da persona transgender, affrontando la forza opposta della società. Potrebbe essere un facile "strillo", un modo per attirare pubblico e semplici curiosi. E invece in questo caso c’è sostanza. Il disco è forse la cosa migliore che abbia mai sentito di Lotic, ed è un debutto sulla lunghezza dell'album tra l’altro, cosa che ne rende ancora più interessante l’ascolto.

Si passa dal pop evocativo e romantico-fantasy di "Love and light" al post-Autechre di "Bulletproof", tutta scatti e vocalità sciolta nell’olio di macchina (l'impressione è in realtà di una cameretta che viene invasa dal grasso di marchingegni sbarattolanti), fino ad arrivare alle danze post-internet di "Distribution of Care", tutta scatti e fake sounds, e alle breakcorate proiettate in un’altra dimensione con "The Warp and the Weft". C’è anche spazio per una sorta di trap scoordinata e strarallentata con "Nerve", che forse è il momento meno interessante perché strizza troppo l’occhio al trend, ma è bello uguale.

Concludono il disco tre brani disastrati: "Heart", pop song incastrata dentro presse e scanner in paranoia; "Power", title track che sembra Pita preso a calci nel culo da una serie di pugilatori d’acciaio dai cui pori sgorgano gocce di sintetizzatori algidi e paesaggi evocativi di mondi digitali che cercano di uscire dagli algoritmi; e "Solace", che ci fa intravedere come Björk finalmente reinventarsi se solo riuscisse a liberarsi di se stessa e diventare un ologramma musicale.

Insomma, Lotic ha fatto un disco che vince e convince a prescindere dal concept, che potrebbe anche non esistere, la musica parla da sola. Fosse tutto così, il prog, tornerei ad ascoltarmi i Genesis immediatamente.

Power è uscito il 13 luglio per Tri Angle.

Ascolta Power su Bandcamp:

TRACKLIST:
1. Love and Light
2. Hunted
3. Bulletproof
4. Distribution of Care
5. The Warp and the Weft
6. Resilience
7. Fragility
8. Nerve
9. Heart (feat. Moro)
10. Power
11. Solace

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Recensione: Miss Red - K.O.

$
0
0

Spero che non ci sia bisogno di troppe parole per introdurre chi è The Bug, visto che quello di Kevin Martin è uno dei nomi più fondamentali nella musica underground degli ultimi decenni: colonna portante dei GOD e dei Techno Animal, collaboratore di Justin Broadrick, autore di compilation importantissime (una per tutte Ambient 4: Isolationism del 1994), grande teorico e amante della musica, grande divulgatore, dopo tutto questo realizza almeno un altro capolavoro nel 2008 con London Zoo, fonda i King Midas Sound e collabora un po’ con chiunque lo meriti (recentemente ha pubblicato un lavoro con Burial). Questo soltanto in brevissimo.

Una cosa che va detta è che da un certo punto in poi della sua ricerca si è appassionato molto alla musica giamaicana, dapprima al dub per poi arrivare fino alla dancehall.

La storia narra che un giorno del 2011 Kevin si trovi a Tel Aviv e stia facendo un DJ set particolarmente infuocato in un seminterrato imballato fino all’inverosimile. A un certo punto una ragazza gli chiede il microfono, lui è perplesso ma lei praticamente se lo prende. E così The Bug scopre un talento. La ragazza è una MC locale che si chiama Miss Red e i due già durante la serata si trovano talmente bene che il giorno dopo vanno in studio insieme a registrare dei pezzi; poi lei finisce la leva militare obbligatoria e va a vivere a Londra dove diventa parte integrante dei suoi live insieme a Flowdan, e compare anche sul suo Angels & Devils del 2014.

Nel 2015 esce il primo mixtape di Miss Red, Murder, sempre prodotto dal nostro (mentre sia lei, ormai amica inseparabile, che Kevin e famiglia si sono trasferiti a Berlino), e ora giunge il momento del primo album vero e proprio, autoprodotto sull’etichetta di The Bug, la Pressure, primo LP a uscire per questa label dopo un paio di 12”.

I due si sono trovati: lei è una MC potente, originale e dotata e ha trovato sulla sua strada uno dei migliori produttori del mondo; lui voleva una voce all’altezza delle sue produzioni e della sua esplorazione di una dancehall oscura e futuristica, e ha trovato una forza della natura.

Sia nei pezzi più infuocati che in quelli più sperimentali le cose funzionano benissimo, c’è sinergia tra i due e una ventata di freschezza per un genere ormai molto uguale a se stesso e un po’ conservatore, una serie di ipotesi entusiasmanti per quella che si potrebbe inquadrare come dancehall del futuro.

E, francamente, qui non vediamo l’ora che lo portino live da queste parti.

K.O. è uscito il 13 luglio per Pressure.

Ascolta K.O. su Bandcamp:

TRACKLIST:
1. Shock Out
2. One Shot Killer
3. Money Machine
4. Alarm
5. War
6. Come Again
7. Big
8. Clouds
9. Dust
10. Dagga
11. Slay
12. Memorial Day
13. K.O.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

L'elettronica può aiutare a combattere la depressione?

$
0
0

La prima volta che ho sentito la musica di Fragments mi sono spaventato. Avevo messo su distrattamente la sua prima collezione di pezzi, A Musical Guide To Understand Mental Illness, e me lo stavo lasciando passare sotto le orecchie quando un urlo mi ha congelato. Ero arrivato alla quarta traccia, "Nightmares Seem So Real", un minuto di cascatelle di melodia seguito da un grido disperato che va poi a scandire il resto del brano, un lento incedere meccanico e apocalittico. E lo chiude, lancinante, lasciando spazio a un pianoforte dolceamaro.

Quell'album era dedicato a una persona che soffriva di depressione ed è morta suicida, scriveva Sara: "È per questo che ho finalmente deciso di lasciare che l'etichetta pubblicasse questo lavoro. È tutto. Pensavo che fosse l'unico modo che avevo per dire: Non dimenticherò mai quello che ti hanno fatto. Ti ricorderò sempre. E mi mancherai sempre".

L'impressione è che Sara usi l'elettronica (la techno, il noise, l'ambient) per tamponare le ferite della mente, condividendo il processo di analisi e guarigione con chi dedica del tempo ad ascoltarla. Ed è da questo spirito di condivisione esperienziale che è animato il suo nuovo lavoro, che si intitola DRAMA ed esce per Intelligent Models - cioè la nuova etichetta di Chino Amobi, fondatore dell'etichetta e collettivo apolide NON Worldwide e grande interprete musicale della violenza del mondo in cui viviamo.

Potete ascoltare DRAMA qua sotto, quattro tracce sospese tra caos e contemplazione. I loro protagonisti sono voci, i frammenti che danno il nome al progetto, discorsi decontestualizzati tagliuzzati da film. Sia Sara che Chino ci hanno raccontato come e perché è nato questo progetto, tra voglia di x e y.

Noisey: Chino, perché fondare una nuova etichetta e perché chiamarla così?
Chino Amobi:
Ho avuto l'idea di fondare un'etichetta che personificasse la vita narrata, o cinematica, mediata dalla tecnologia contemporanea. Il nome Intelligent Models è un gioco di parole, può rappresentare sia oggetti che esseri umani. Un modello può essere un prototipo. O anche un modello che lavora nella moda, un fac-simile, un archetipo, un motore, una versione, un vuoto o tutti contemporaneamente. Il modello ha un'aurea fatta di una sorta di ambiguità incorporea. E la vita di un modello è molto cinematica.

Come hai conosciuto Sara e cosa ti ha colpito della sua musica?
Chino Amobi: Quando ho ricevuto la sua demo ho pensato subito che fosse musica perfetta per l'etichetta, in particolare per l'uscita del nostro primo album. La sua musica, la sua vita, il suo spirito e lei come persone sono una personificazione totale di ciò che l'etichetta e il suo nome rappresentano. Non ci siamo mai incontrati di persona ma mi sento vicino a lei a livello mentale e spirituale. Abbiamo passioni simili e scrivendoci ho capito meglio determinati aspetti riguardo alla direzione che l'etichetta prenderà.

Qual è la tua visione per l'etichetta, quindi? Come rappresenterà il tuo gusto e le tue idee?
Chino Amobi:Vivendo, semplicemente. Attraverso l'esperienza. La crescita di una condizione. Useremo la tecnologia a nostra disposizione e pubblicheremo usando forme comunicative innovative, sia fisiche che non-fisiche.

Sara, da dove sono tratti i vari dialoghi che hai inserito nei pezzi?
Fragments: Uno è tratto dalla scena di Alphaville in cui viene citato Capitale de la douleur di Paul Éluard. Un altro da The Tracey Fragments, un film indipendente canadese con Ellen Page che consiglio a tutti di vedere. Un altro ancora da Neon Demon, che nemmeno a farlo apposta, parla di una modella. Per l'ultimo pezzo invece non ho usato un film, ma la scena di Marissa che sfasa come una matta in The OC.

E che ruolo gioca il cinema in DRAMA e nella tua vita?
Fragments: Mi sono laureata con una tesi in cinema e mi sarebbe piaciuto occuparmi di colonne sonore. Per una serie di motivi non ho potuto farlo. Due anni dopo la laurea ho aperto Ableton e il mio sogno si è evoluto in FRAGMENTS. Il termine si riferisce ai frammenti dei dialoghi che utilizzo nei miei pezzi, che concepisco come una sorta di nuova colonna sonora per una determinata scena. Il fatto che Chino abbia subito capito le mie intenzioni e il significato delle mie tracce è stata un’ulteriore conferma per me. Spesso ho momenti di crisi in cui mi chiedo se sto facendo qualcosa che abbia un senso, non solo per me, ma per tutti quelli che mi ascoltano, o se sto semplicemente buttandomi totalmente a caso in un progetto, come faccio quasi sempre. Ecco, penso che questa volta la decisione che ho preso sia stata quella giusta.

Hai cominciato a fare elettronica senza aver studiato. Quale pensi sia il valore di questo approccio?
Fragments: Il fatto che io produca la mia musica quasi per caso non è voluto, o non lo era inizialmente. È che non ho trovato nessuno disposto ad insegnarmi effettivamente come si realizza un pezzo. La cosa mi ha fatta abbastanza incazzare, ma poi ho deciso di provare a farcela da sola. Prendi "Tracey". È il mio primo pezzo in assoluto. Ho scelto il dialogo che volevo utilizzare, l'ho registrato e modificato. Tutto il resto è venuto fuori naturalmente. Non penso di essere un genio e Ableton è anche abbastanza intuitivo. Credo solo che la cosa più importante non sia la tecnica, ma avere ben chiaro in mente cosa si vuole dire e come lo si vuole dire. Per realizzare una traccia ci metto massimo un pomeriggio.

A parte i dialoghi, che cosa unisce i pezzi di DRAMA?
Fragments: I pezzi di DRAMA hanno avuto una storia un po’ complicata. Il mio pc ad un certo punto è impazzito e mi ha cancellato un sacco di file, quindi non ho più potuto intervenire sulle tracce. Quello che senti è esattamente il pezzo come è stato creato di getto. Non ci sono modifiche o miglioramenti perché non ho proprio potuto farli, avrei dovuto rifare ogni traccia da capo. Infatti la prima cosa che ho pensato è che a me i pezzi piacevano anche così ma nessuno li avrebbe voluti pubblicare perché non li potevo più toccare. E invece.

In che modo pensi che l'elettronica possa aiutare chi la ascolta?
Fragments: È una questione delicata. È un po’ come quando sei triste e ti chiudi in camera al buio ad ascoltare musica deprimente. E alla fine stai meglio perché capisci di non essere il solo a stare male. Pensi “cavolo, le parole di questa canzone le avrei potute scrivere io”. È quello che vorrei succedesse a chi ascolta le mie tracce. E quando succede mi aiuta rispetto al mio disturbo. Non solo vorrei che le persone, ascoltandomi, si sentissero meno sole, ma anche io vorrei sentirmi meno sola sapendo che chi mi ascolta si riconosce in quello che dico. È questo meccanismo che, attraverso un brano, mette in una comunicazione profonda e onesta artista e pubblico. Il che può portare qualcuno a sentirsi un po’ meglio.

E che rapporto c'è tra la tua salute mentale e le tue produzioni?
Ovviamente, nonostante creda un sacco nel potere terapeutico che la musica può avere, non penso di poter guarire semplicemente facendo musica. E ci sono periodi in cui stai davvero troppo male per poter lavorare. Però di sicuro mi risulta più facile esprimere quello che provo attraverso una traccia, rispetto a parlarne con uno psicologo e poi riempirmi di farmaci. È come se dicessi a me stessa: ok Sara, adesso sei da sola di fronte al tuo computer, non ha senso mentire a te stessa, hai un sacco di strumenti a tua disposizione per tentare di spiegare ciò che senti, e in qualche modo sublimare così il tuo dolore. A volte metterti a nudo in un pezzo ti costa un sacco di fatica e alla fine stai peggio di prima, ma tanto vale provare.

Da dove viene l'artwork di DRAMA?
È una foto che ho scattato al Cimitero Monumentale di Milano. L’ho scattata anni prima che nascesse il mio progetto. Mi piaceva e allo stesso tempo mi rendeva un po’ triste, quel frammento di una foto di una persona sconosciuta. Quando ho messo insieme i pezzi mi è subito tornata in mente. Rappresenta perfettamente il significato della mia musica: il frammento, l’idea di qualcosa di rovinato e abbandonato, l’atmosfera del Monumentale, che è uno dei miei posti preferiti.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Sono andata al Tomorrowland con mia mamma

$
0
0

Avevo tredici anni quando i miei genitori mi lasciarono andare per la prima volta a un festival. Ancora non bevevo e mi vennero a prendere alle undici di sera. Non fu una grande esperienza, ma ai tempi mi sembrava una cosa incredibile. Mi ero preparata mesi prima, outfit e tutto. Ero andata a farmi tagliare i capelli portando una foto di Avril Lavigne al parrucchiere e avevo comprato una macchina fotografica digitale apposta. Ora ho venticinque anni e dopo essermi fatta la mia buona dose di festival posso dire che ne ho abbastanza.

Forse non mi piace davvero passare le mie estati in mezzo a gente sudata fatta di MDMA, forse mangio abbastanza patatine fritte nella vita normale da non doverle pagare l'ira di Dio da una bancarella, forse le mie aspettative si sono alzate troppo. O forse, semplicemente, sono già troppo vecchia?

Mia madre, che ha molti più anni sul groppone di me, riesce ancora a non farsi scattare il cinismo quando parliamo di musica. Sono tre anni che voleva andare al Tomorrowland, il più grande festival EDM d'Europa, e quando ha preso il biglietto ha passato tre settimane a fare stati su Facebook tutta presa bene. Mi rendo conto che sia assurdo che io, sua figlia, abbia la metà dei suoi anni e non abbia già più voglia di fare esperienze simili. Quindi, per lasciarmi ispirare, ci sono andata con lei.

Il Tomorrowland è il festival dance più grande del mondo. L'anno scorso ci sono andati in quattrocentomila, da ogni parte del mondo, pagando un biglietto da centinaia di euro e investendone altri per aerei e alloggi. Questa devozione nasce forse dal fatto che più che un festival musicale il Tomorrowland sia una sorta di enorme parco giochi. Mia mamma non è il tipo da pomparsi Steve Aoki nelle casse, di solito ascolta musica classica e hit del passato, ma l'idea di abbandonarsi completamente all'esperienza del Tomorrowland l'aveva sempre incuriosita.

Quando abbiamo davvero deciso di andare assieme, quindi, è partita in quarta preparandosi un outfit per l'occasione. Come potete vedere dalla foto che mi ha mandato, la sua scelta è caduta su un cerchietto con delle palme e delle scarpe da trekking.

Dato che quest'anno il tema del festival era "The Story of Planaxis", cioè qualcosa di vagamente marittimo, mamma ha pensato di interpretare il ruolo di una sirena con dei resti di palma tra i capelli. Le scarpe, invece, le ha scelte perché "non è così abituata a camminare sui piedi, a forza di usare la sua coda da pesce". Ok.

Il giorno del festival mi sveglio con la morte nel cuore e un hangover clamoroso. Fa un caldo clamoroso e arrivare fino al festival sarà un'odissea. Nonostante questo, io e mia mamma ci facciamo forza a vicenda, convinte che sarà comunque un'esperienza da ricordare. Ed è questo, credo, che ci spinge a migrare ogni anno in enormi campi fangosi a guardare concerti: vogliamo stare assieme ai nostri amici e non perderci l'opportunità di creare dei bei ricordi. Tutto qua.

Dopo un viaggio in treno eterno, un pezzo in macchina e un altro pezzo a piedi arriviamo finalmente al festival, dove ci sta aspettando il suo fidanzato. Mia mamma si sente già spompata e si deve subito abituare a essere circondata da una mandria di tipi palestrati e tipe scosciate, tutti euforici e carichi. E mi rendo conto del perché: la musica tuona da casse montate su palchi impressionanti, il sole splende in mezzo a un cielo azzurro e siamo circondati da creature favolose che camminano su tacchi alti mezzo metro. In lontananza vedo degli enormi funghi luminosi e un drago che sputa fuoco. La prima reazione di mamma è quella di scappare, ma alla fine decide di arrendersi a quella che chiama "questa pazzia".

Mia mamma.

Andiamo al palco principale, dove si sta esibendo Salvatore Ganacci, cioè il tizio che è diventato virale negli ultimi giorni dopo aver fatto il peggior DJ set della storia. Io sono genuinamente orripilata dai suoi balletti sul palco, mentre mia madre ci vede una certa bellezza. "Non mi piace la musica che sta mettendo, ma quando partono le voci e i cori cambia tutto", dice. Inoltre apprezza il fatto che il "disc jockey" stia ballando, ma il suo momento preferito del concerto è quando tutto finisce e il palco viene occupato da degli acrobati travestiti da meduse e orche che si mettono a ballare mentre una voce fuori campo ci dice che dobbiamo tutti lavorare assieme per creare un mondo migliore. Vedo una lacrima sulla faccia di mamma: "È bellissimo. Ma dove trovi un festival con un messaggio del genere? Solo qua!"

Io e mia mamma sedute davanti al palco.

Io annuisco per darle ragione e ci sediamo un attimo sull'erba. Come tutti, anche mia mamma è determinata a fare un sacco di foto. Quindi decide di farsi una foto mentre salta in braccio al suo fidanzato, proprio come stanno facendo i tizi svedesi iper-belli di fianco a noi. Fortunatamente a mia mamma non frega niente di nulla e il risultato, che potete vedere qua sotto, dimostra che ne è valsa la pena.

Ecco.

Ridendo, si alza e ci riprova. La foto viene bene, ma sfortunatamente non è che puoi andare al Tomorrowland e stare tutto il giorno seduta sul prato a bere birre. Secondo il programma che ci siamo date dobbiamo andare alla "Rave Cave". Lungo la strada incontra un tizio vestito da alieno che la fa ridere un sacco e conosce "l'uomo più forte del mondo", un body builder decisamente modesto, e si rende conto di voler diventare vegetariana passando davanti a un furgoncino che vende panini ed espone una mezza carcassa di maiale.

Devo dire che mamma mi sembra molto felice, come io non mi sento da anni quando vado ai festival. Ma non appena scende il sole le cose cambiano. La gente sta cominciando a essere palesemente ubriaca, l'effetto dell'MD comincia a vedersi e tutti migrano in massa verso il palco principale, dove dovremmo andare a sentire il DJ set di Alesso. In quel momento mamma entra in panico. Sembra che tutto il festival si sia improvvisamente spostato attorno a noi e lei non ha intenzione di stare lì in mezzo. Non vuole sentirsi obbligata a passare tre ore ad ascoltare "quella robaccia". Ha quasi un attacco di claustrofobia e le viene paura di perderci in mezzo alla folla. E ha ragione, dato che perdere le persone con cui sei a un festival è una delle esperienze più brutte che possono succederti in eventi del genere. Quindi decidiamo di allontanarci dal palco e andare alla ruota panoramica che sta dall'altra parte del festival.

Il pubblico del Tomorrowland.

Mentre camminiamo passiamo accanto a un palco da cui sentiamo provenire un remix di "CoCo" di O.T. Genasis. Non c'è quasi nessuno a ballare, ma l'atmosfera è davvero bella. Mia mamma si rende conto di avere già sentito la canzone da qualche parte e subito si prende meglio: una cosa che sento anch'io. Sapere il testo di un pezzo iper-famoso e poterlo cantare è un momento di liberazione, la presa di coscienza che anche per noi c'è un posto in questo festival così grande da sembrare terrificante.

Mentre balliamo, mia madre si rende conto che tutta la musica che ha sentito oggi segue la stessa struttura. Tutto è piuttosto tranquillo, cresce piano piano, c'è un momento di silenzio e poi parte il drop. Vederla rendersi conto di come funziona l'EDM è emozionante per me, soprattutto quando si mette a saltare all'ennesimo WUB WUB WUB. A un certo punto dei ragazzi che stanno facendo un trenino ci passano accanto. Mia mamma si unisce a loro e un ragazzo si gira, la abbraccia e le dice "Sono incredibilmente felice che tu sia qui". E poi scompare. Lei è felicissima, io le risparmio una spiegazione sugli effetti dell'MD.

Mia mamma, decisamente felice.
Mia mamma, mentre fa il trenino.

Alla fine arriviamo alla ruota panoramica e ci godiamo la vista del festival completamente illuminato. È come una piccola città che osserviamo stanche ma soddisfatte. "La musica non mi dice niente, ma sono felicissima di essere in mezzo a tutta questa gente", mi dice mamma. "Di solito non ti metti a parlare con gente a caso e non ti metteresti mai ad abbracciare persone che non conosci. Invece qua sono tutti tenerissimi". Sì, mamma, è vero, le rispondo.

Mia mamma ha un'anima romantica per cui ha senso che il Tomorrowland sia un'esperienza particolare per lei. Per un giorno è entrata in un parco giochi per adulti in cui ha potuto immaginarsi in pace col mondo, ha avuto a che fare con persone che non chiamano la polizia quando qualcuno gli si avvicina per parlargli e si è divertita a mettersi a saltare con delle palme gonfiabili in testa.

Passare una giornata con lei mi ha fatto capire perché i festival non mi piacciono più, ma anche che dovrei dargli un'altra opportunità. Da qualche parte in mezzo alla nebbia dell'EDM, tra laser, droni, petti sudati, glitter e ideali forzati, mi sono quasi dimenticata di essere cinica. Magari la prossima volta comincerò di nuovo a prendermi male, ma nel frattempo sarà stato bello avere sentito anch'io un po' del suo entusiasmo.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Questo articolo è comparso originariamente su Noisey Olanda.

Il medioevo digitale di Angelo Branduardi

$
0
0

"Going Backwards", ci dicevano i Depeche Mode nel loro ultimo disco dipingendo un quadro a tinte amare su un mondo che tende a diventare sempre più brutale e fideistico, se non proprio bestiale. Non navighiamo in buone acque è vero, ma è anche difficile sapere quali saranno le possibili evoluzioni di questa devoluzione. Nel frattempo però capita spesso che vengano tirati in ballo paragoni scomodi con epoche passate, della serie “siamo tornati all’età della pietra, al medioevo".

Ecco, il medioevo. Ultimamente gli stiamo accollando un po’ troppe responsabilità. In musica poi non ne parliamo. Basti citare il nuovo concept album di Oneohtrix Point Never, Age Of, che analizza il periodo storico in cui stiamo vivendo come fosse un medioevo digitale che non meglio identificate intelligenze artificiali un giorno guarderanno con curiosità, idealizzazione e finanche sberleffo, come facciamo noi con il medioevo originale.

Age Of ha subito trovato una serie di adepti, alcuni dei quali hanno visto nell’uso del clavicembalo MIDI una specie di metafora estetico-narrativa. Un'idea a cui dobbiamo anteporre dei però. Innanzitutto il clavicembalo è uno strumento barocco, e col medioevo c’entra ben poco. Poi, molti prima di OPN hanno sperimentato queste sonorità: dai Beatles di "Piggies" ai Genesis di "Watcher of the Skies", un brano che parla di alieni che immaginano come potessero essere gli abitanti estinti della Terra su cui sono appena atterrati. Infine il folktronic ha già rivisitato l’antico, con o senza autotune. Ma senza entrare nel merito della validità o meno di questo lavoro e della sua trama, è proprio il giudizio sul medioevo che è a nostro avviso discutibile.

Scrive il compagno Valerio Mattioli, indefesso fan di OPN, parlando di Age Of su Il Tascabile: “se, per riprendere Jacques Le Goff, il medioevo era a sua volta il tempo 'delle citazioni, dei passi scelti, dei digesti' non verificabili (post-verità?), del 'libro che soccombe sotto l’esegesi' (i commenti sui social?), della 'confusione temporale [che] unisce passato, avvenire e futuro' (il castellsiano 'tempo acrono' della Rete?), della cultura antiscientifica, del sentito dire, delle cospirazioni diaboliche e delle teorie di seconda mano, insomma, se il medioevo era tutto questo, allora viene fin troppo facile ipotizzare discendenze tanto storicamente discutibili quanto emotivamente illuminanti”.

È vero, la storia si ripete: saggiamente però il nostro Valerio, seppur credo in linea con Le Goff, mette davanti un se; esiste infatti, tra le tante, anche una corrente di pensiero che ha smesso da un pezzo di dare addosso al medioevo come periodo disastrato. Una corrente che vede il medioevo come quello della fiducia nella ragione, di Tommaso D’Aquino, per cui tutto quello di negativo che noi comuni mortali scarichiamo su questo periodo storico, influenzati dalle teorie di Flavio Biondo, sarebbe invece da attribuire alla crisi del medioevo stesso, iniziata nel XIV secolo, che poi porterà al pensiero moderno.

Questo buco nero sarebbe in pratica una cosa a parte: volendo fare un serio paragone con l’era pre social, il nostro medioevo va individuato nel periodo in cui si pensava che l'internet nascente avrebbe cambiato la vita in positivo a tutto il mondo. C’era fiducia nella ragione, fiducia nella scienza e nella tecnologia: ora invece viviamo una fase di stallo che di quel medioevo rappresenta la crisi se non essenzialmente la fine e che, appunto, ci permette di confondere il suono del barocco con quello del medioevo senza timore che ci tirino un calcio nel culo. Questa fase confusionaria è forse ben evidenziata dal fatto che lo stesso fautore di un certo tipo di manifesto digitale, ovvero OPN, adesso ci va praticamente contro.

Invece, mettendo da parte Lopatin, in Italia abbiamo una certa tradizione di personaggi che hanno musicalmente tentato di “digitalizzare il medioevo” o “medioevalizzare il digitale” con accezione positiva, riconoscendo varie età di mezzo, anzi, microetà di mezzo anche nel pieno del cosiddetto progresso. Eredi di quanto già teorizzato in era squisitamente analogica, con il progressive italiano che si interrogava spesso sulle stesse tematiche politico/sonore (Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi), abbiamo argomenti pratici più che teorici. Senza scomodare il periodo new age, in cui abbondano le imitazioni digitali degli strumenti antichi, troviamo numerosi esempi nelle libraries (i vari Giombini, Alessandro Alessandroni col suo curioso disco medieval-barocco Baroque Mandolin del 1985); nelle arlecchinate elettroniche di Alberto Camerini e Roberto Colombo (basti pensare alla grandissima e super elettronicamente medioevale “Morgana e il Re”); in quel grandioso esperimento di “new wave medievale” che è Ann Steel Album di Roberto Cacciapaglia, veramente peculiare nel descrivere il medioevo anni Ottanta, procedendo in modo inverso, con un suono che imita il digitale usando strumenti rococò e una cantante specializzata nel madrigale che si cimenta in canzoni pop. Come non citare poi Battiato, teorizzatore del “medioevo rinascimentale“ nel testo della straniante “Personal Computer”, concetto condensato poi nei Novanta attraverso i suoi strumenti acustici pilotati via MIDI in "Medievale" dentro a Fleurs e il concept dell'età buia in Gommalacca. Un altro esempio più recente l'ho prodotto proprio io, ma non vorrei passare per megalomane.

Ma quello che ci sta più a cuore e che ha davvero incarnato l’idea di medioevo perenne è Angelo Branduardi. E a lui va riconosciuto di essere stato tra i primi a ipotizzare un medioevo digitale musicale col suo disco dell’81, chiamato, come il suo esordio del 1974, Angelo Branduardi.

Branduardi lo conoscono anche i sassi a causa de "La Fiera dell'Est", una versione riveduta e corretta di un antico canto pasquale ebraico. Ed è proprio la specialità del nostro bardo moderno flirtare con l’inattuale. La sua missione è recuperare la tradizione barocca, madrigalistica, celtica, e popolare, insomma quella del folk “vetusto”, e sbatterla in un pentolone che ribolle di suoni moderni. Gli stessi testi, nonostante riprendano spesso gli originali, sono comunque metafore dell’oggi. Come volesse dire che quei tempi non sono mai passati, che si ripetono in altre forme ma la sostanza è la stessa e che quando idealizziamo il medioevo stiamo in realtà idealizzando noi medesimi, la nostra epoca, la nostra stessa essenza di uomini. La cosa fondamentale che dà all’operazione-Branduardi quel tocco di predigitalizzazione tanto geniale quanto paracula è quella di prendere di peso interi brani antichi con i diritti d’autore oramai scaduti e registrarli a proprio nome in SIAE.

Ma non è un caso isolato: nei Settanta il folk era un po’ ovunque, anche nel pop sinfonico dei Pooh (forse tra i maggiori fan del clavicembalo e della spinetta, per essere precisi, strumenti che usati in una canzone come “1966” diventano un modo per criticare la decadenza politica e di costume del 1975), o nel canzoniere di De André (anche qui usato per rievocare un'epoca di repressione, come in “Il re fa rullare i tamburi”), e perfino negli excursus del geniale Jannacci quando, coadiuvato da Dario Fo, si rifaceva a ballate medievali o giù di lì. Nella maggior parte dei casi erano però discorsi più estetici che di sostanza, e a volte duravano anche solo un battito di ciglia. Branduardi sembra invece giungere a noi da una macchina del tempo, un cervellone elettronico che legge il moderno, lo vede con distacco e poi lo fa dialogare col passato. Ascoltandolo sembra davvero di vivere in mezzo a un periodo storico trasfigurato, che diventa finalmente tutt’altra cosa, probabilmente il vero suono di sempre, oscillante tra paura e sicurezza.

Il progetto Branduardi, c’è da dirlo, non è un entità singola. È in realtà sostanzialmente un duo: importantissimo è infatti il lavoro della moglie Luisa Zappa, la quale, oltre ad essere un’esperta di letteratura inglese, è stata quella che più l’ha incitato a recuperare la storia dei madrigali in maniera massiccia, affiancandolo nella stesura dei testi, fondamentali, arricchendoli di una sostanziosa e importante visione femminile del mondo. Visione, quella delle canzoni del duo Branduardi, che il più delle volte è inquietante, in cui il medioevo e la sua crisi più che un’epoca storica sono uno stato della mente, una roba cui non si può sfuggire, nel bene e nel male.

L’esordio omonimo di Branduardi è quello più acclamato dalla critica, per la partecipazione attiva del grande Paul Buckmaster, meglio conosciuto per il suo lavoro con Elton John, ma anche tra gli artefici di cose incredibili quali On the Corner di Miles Davis. Buckmaster produce e influisce pesantemente su Angelo Branduardi, suonando di tutto e caratterizzandolo in momenti di grande apertura psichedelica. Branduardi ricorda questa collaborazione così: “Paul in quel momento era il più grande e non solo per me: era l’arrangiatore che aveva inventato il suono del primo Elton John, stravolgendo in senso ritmico l’uso degli archi. Mi procurai l’annuario di Billboard, trovai il contatto, gli scrissi e lui venne a Milano. [...] Quando era stato respinto il mio disco di prova [quello prodotto da Maurizio Fabrizio], senza nemmeno conoscerlo, scrissi a Paul e con mia grande sorpresa lui arrivò in Italia e cominciò a insegnarmi. Mi insegnava tutto, giorno e notte in quanto lui per sua abitudine non dormiva mai”. A tutti gli effetti, Branduardi diventa l’allievo prediletto di Paul: “Era come se lui sapesse più di me che cosa sentivo io. Così fra me e lui si era creato un rapporto da bottega artigianale, da sacerdote e allievo. Di fatto se la mia musica è quella che è lo devo in buona parte a Paul”.

L’allievo, quindi, se non supererà il maestro, troverà però quella via per diventare maestro lui stesso: tanto che il successo conferito da critica e pubblico ai successivi dischi di Branduardi, con l’apoteosi (mettendo da parte "Alla fiera dell’Est") nel '78-'79 de La pulce d’acqua e Cogli la prima mela, non ci fa venire dubbi in tal senso.

Nell’81 però Branduardi vuole resettare tutto, trovare un nuovo modo di esplorare la sua idea di folk. Nasce Branduardi '81, conosciuto con questo nome per non confonderlo con il disco omonimo d’inizio carriera. Angelo agogna una vera e propria tabula rasa delle precedenti esperienze, un passo avanti rispetto al suo modo di intendere la musica. Più che di tabula rasa bisognerebbe parlare però di nuovo esordio. Infatti ai comandi c’è di nuovo Paul Buckmaster, che si ripresenta come produttore e polistrumentista, ma in un rapporto di forze diverso, quasi alla pari, come a sottolineare che col passato bisogna fare i conti se si vuole evolvere davvero.

L’innovazione principale è che questo lavoro è il primo disco registrato in digitale da Branduardi: i suoni quindi risultano più definiti, più “scolpiti”. Sebbene gli esperimenti con la registrazione digitale Branduardi li avesse iniziati in sordina già nel 1979, ora finalmente ha il coraggio di andare al sodo, di rischiare, e questa scelta comporta un nuovo modo di valorizzare i suoni, più aperto e cristallino, lontano dalle passate tentazioni valvolari.

Angelo abbandona gli arrangiamenti sostanziosi e a volte ingombranti dei precedenti LP, ancora in qualche modo intrisi d’influenze progressive e procede per sottrazione, asciugando ed esprimendosi in maniera minimale. È qui che scatta il paragone con OPN. Branduardi infatti non abbandona il discorso medioevale, che è comunque musicalmente presente, ma lo usa soprattutto in maniera straniante e post-storica. Proprio come le intelligenze artificiali di Age Of, Branduardi prende gli anni Ottanta musicali e li interpreta come fossero neo-medievali.

La maggior parte dei brani sono basati sul loop, sulla reiterazione, sull’ipnosi intorno a figure semplici, anticipando di molto un'idea che poi diventerà di uso comune con le moderne sorgenti di suono. Per la prima volta troviamo brani totalmente reggae come “Musica”, che di medievale non hanno nulla ma sembrano credibilissimi come colonna sonora doc di una età di mezzo nuova di pacca. La stessa copertina ricorda un linguaggio criptico, totalmente computerizzato, un gioco di nove serie di nove quadrati rosa che simboleggia gli altrettanti album fino ad allora registrati dal nostro e il numero di brani dell’album (anche visivamente una previsione del medioevo digitale). All'interno del disco troviamo anche un sintetizzatore ARP (in parte digitale) suonato personalmente dal bardo. I testi del disco sono per la prima volta interamente opera di Luisa Zappa Branduardi e sono anche in questo caso cesellati come espressioni di una civiltà perennemente intrappolata nel passato. Tutta roba che il Branduardi degli anni Settanta non si sarebbe mai sognato. Insomma, un disco che, nella sua apparente linearità, è piuttosto difficile: andiamone a sezionare le parti, come fosse il libro (consigliatissimo) di Giovanni Tabacco Le ideologie politiche del medioevo.

Apre il disco "L'Amico", ballata suadente in cui le chitarre suonano algide, come digitalizzate, con archi sintetizzati mescolati all’orchestra, che però è filtrata in modo da dare un’idea di design sonoro ben preciso. La storia di un uomo che fa visita a un amico che l’ha dimenticato e si autoinvita praticamente a casa sua, è una specie d’intro a sé stante che supera di poco il minuto, minimale, vuota, diretta. Un piccolo gioiellino in cui Angelo ci entra nel cuore senza chiedere il permesso.

In "Girotondo" c’è il primo guizzo di loop, solo due accordi due, un andazzo medieval-rinascimentale futurizzato (e volendo anche un rock'n'roll stile Bo Diddley) con delay sparsi e un breve stacco disco che è una citazione straniante. Gli strumenti si sovrappongono gerarchicamente mentre un drone di ARP, quasi un coro sintetico, sembra mangiarsi il paesaggio, poi sbuffi di archi appaiono e scompaiono come filtrati da un vocoder. Manate di sintetizzatore e campane tubolari fanno il resto sorretti da un basso minimale e leggermente afro sui quali Branduardi svisa col violino. Il testo è un quadretto squisitamente female power, in cui una bambina diventa velocemente donna con ogni giro di girotondo: nel suo giocare troviamo un atto inconsciamente rituale che nutre l'immaginazione con la libertà. Il tempo scorre inesorabile: la sua accelerazione, simboleggiata dal girotondo, a volte è il solo modo per rompere le catene del destino.

"La cagna" è la conseguenza naturale del brano precedente: traduzione di Luisa da una poesia di Esenin. SI apre con un flauto andino effettato con dei delay digitali e frenati da un gate, sospeso sopra un drone sempre di flauto. Solo chitarra e sfrugugliare di wind chimes, effetti freddi e svisate rumoriste tra sintetizzatori e colpi di psichedelia alla ricerca del vuoto. “Nell’acqua nera sette cuccioli d’oro” spariscono, portati via dalle mani dell’uomo mentre la madre cagna rimane scioccata a guardare la luna specchiarsi sul luogo del delitto. Un testo di violenza e sopraffazione che rimane attualissimo e applicabile a molte delle situazioni di oggi che non hanno bisogno di essere ricordate a voi lettori.

"I tre mercanti" prosegue sulla linea del vuoto, con piccole sovrapposizioni di strumenti. Un basso educatamente funk si scioglie in un dialogo fra chitarre slide e pianoforte. Il pezzo è un brano pop nel senso classico del termine, ma interpretato e arrangiato con l’idea di un brano antico, ipnotico, sospeso nell’eterno. ”In silenzio noi ci siamo ritrovati / Nel deserto abbiamo ripreso a navigare / Inseguendo una luce sconosciuta / Proprio come un tempo si partiva per mercati più lontani”. Un elogio a ritrovarsi stranieri, nomadi, in cerca di una nuova luce futura che non tiene conto di frontiere, dazi e nazioni. Ancora una volta l’attualità penetra nell’antico.

In "Barche di carta" ecco il neo-medioevo. È un reggae ripetitivo a proposito di bambini che giocano e “fanno piccole barche di carta per attraversare il mare”. Botte di synth gonfie per “fragili castelli di sabbia che poi distrugge il mare”, mare in cui grandi navi si perdono mentre ancora una volta la fantasia dei bambini resiste e raccoglie piccole conchiglie vuote: i resti di una civiltà in mano ai millennial? Forse. Un abile gioco fra effetti sonori sporadici e strumenti che appaiono e scompaiono in maniera preziosa e dosatissima.

Ma l’incursione nel reggae non si arresta, riprende immediatamente, inaspettatamente, con il brano/manifesto "Musica". Anche qui nessuna concessione al medioevo nel classico dei termini, a parte piccoli accenni nei riff. Anzi, ci sono citazioni addirittura di “Crimson and Clover”. Stralci di castagnette che sembrano campionate, momenti afro-caraibici che anticipano di molto lo Sting di “Love is the Seventh Wave” nel riff del sintetizzatore, che imita delle steel drums. Ampio uso di giri simil-clavicembalo suonati dalla chitarra elettrica trattata, mallets a profusione. Un’ode alla musica come modo per annullare tutta la merda esistente nelle ere umane perché “sopra di noi le nuvole non si fermano mai/ è sempre musica”. Fu la sigla di Discoring nel 1981, scelta probabilmente, oltre per il titolo telefonato rispetto alla trasmissione, anche per la notevole qualità sonora, assolutamente innovativa per l’epoca. Una curiosità: Venditti prende appunti e trasforma la linea “non si fermano mai “ in “non si arrendono mai” per la sua hit dei novanta“in questo mondo di ladri”, chiaramente non rivelandolo. Ma si sa, se parliamo di Branduardi inutile vanneggiare di copyright e similia..

"La collina del sonno" è uno dei pezzi più trattati elettronicamente, i colpi di marimba sembrano passati attraverso un autotune ante litteram, così come il riff ostinato di sintetizzatore ricorda elettronicamente una kalimba. Qui le influenze, a dispetto degli strumenti usati, sono chiaramente orientali, da Sudest asiatico o Giappone. Un brano quasi vapor nella sua composizione stupefatta e oppiacea, un invito a lasciarsi andare tra le braccia di Morfeo e verso la cancellazione dei dati mentali, almeno per poco...

Perché a volte i desideri riempiono tanto la mente da, al contrario, impedirci di capire cosa è veramente importante. "Il disgelo" è una ballata che analizza il concetto di libertà, la voglia di avere “bianche vele per navigare”, forse è il brano più da “classico Branduardi”, è un invito a vedere l’amore come un trampolino di lancio verso una libertà tangibile, lontana da immaginarie “navi di ghiaccio” che non portano da nessuna parte: il virtuale lasciamolo dove sta, questa è la realtà, baby. L’andazzo lento ricorda le soluzioni oppiacee che in futuro Angelo adotterà con Branduardi canta Yeats (1986), un altro album misconosciuto ma di grandissima classe.

"Vola" è ancora una volta un brano sulla libertà, stavolta tangibile, senza inutili idealizzazioni. Su una struttura da ballata semi-rinascimentale, grandi numeri agli archi di Buckmaster, che passa dagli staccato disco a botte dinamiche che evocano sbuffi accelerazionisti, e flauti dinamici, anche qui inseriti a mo' d’inserti minimali di synth mentre il tutto s’interseca perfettamente, dipingendo mondi paralleli che manco l’ultima Björk.

Nonostante le indubbie innovazioni Branduardi '81 non sarà un disco particolarmente fortunato (solo al quarantacinquesimo posto tra i dischi più venduti del 1981) né particolarmente ricordato. Il motivo è essenzialmente la sua ricercata semplicità e la sua mancanza di fronzoli (sensibilità probabilmente anche figlia del sentimento “punk” dell’epoca) e per quella sensazione di “guardarsi dall’esterno” che permea tutta l’opera, riducendo le nuove tendenze musicali del periodo (tra le quali la minimal wave, la new wave) all’essenziale e proiettandole in una vera e propria “Age of Branduardi”. Da qui in poi Angelo comincerà a cambiare rotta verso un pop più codificato e meno sorprendente, a volte zoppicante nell’ispirazione, anche se nel successivo Cercando l’oro del 1983 ci regala esperimenti notevoli come "Ora che il giorno è finito", una piece elettronica con la E maiuscola, inedita per gli standard del nostro bardo, che da sola vale l’acquisto.

Oggi Branduardi potrebbe tornare tranquillmente a gamba tesa con un disco inedito, approfittando di questo rinnovato interesse per il confuso concetto di “medievale”, ma è perennemente in tour con il progetto Camminando Camminando, nel quale ripropone i suoi brani storici campando di rendita. Malgrado le apparenze, però, il nostro non ha mai perso interesse per le novità e la tecnologia. Proprio quest’anno ha prestato infatti la sua voce a un personaggio del videogioco fantasy Elsemir e i cinque doni magici. "L'amico che tu hai dimenticato” non si è dimenticato di noi, anzi, rimane suo malgrado un tendsetter. E che il folklore sia digitale o analogico, la "Musica" resta Musica.

Demented è su Twitter.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Recensione: Aa. Vv. - Napoli Segreta Vol. 1

$
0
0

Sentite a me: il problema dell’estate non è tanto il caldo o dove andare in vacanza. Il problema è trovare il giusto sound per accompagnarla. Ovviamente, le “immondizie musicali” di battiatiana memoria che escono oggigiorno dalle radio non sono degne di accompagnare il relax delle vostre ferie, ma fortunatamente è arrivata la compilation che fa per voi.

Napoli Segreta nasce dopo anni di DJ set carbonari, misteriose tracce sparse qua e là, ricerche in mercatini impolverati dai quali è venuto alla luce un vero e proprio tesoro: tracce di disco napoletana anni Settanta/Ottanta, funk sintetico d’epoca, produzioni misconosciute e sotterranee per non dire totalmente oscure. Come minimo comune denominatore c'è la sperimentazione su un territorio musicale americano ribaltato e trasformato in “vesuviano” a tutti gli effetti, portando se vogliamo a un livello ancora più alto quello che abbiamo sempre conosciuto come “neapolitan power”.


La recensione prosegue qua sotto, ma poi leggi anche:


Come non trasalire all’ascolto di pezzi paradossali quali "Sasà" di Oro, oppure "Follia" del mitico Giancarlo D’Auria? Impossibile non restare catturati dal groove e dal peculiare modo di approcciarsi al testo, veramente scoppiato, privo di limiti espressivi e particolarmente verace, davvero “intostreet” (non ce ne voglia Liberato).

Gli artefici di questa genialata sono i ragazzi di Famiglia Discocristiana, DNApoli e gli onnipresenti Nu Guinea, genialata nata tra amici e poi trasformata in patrimonio dell’umanità tutta, perché le pietre preziose non possono rimanere più di tanto nascoste sotto il materasso.

Napoli Segreta è una compilation che farà scuola. Napoli non è mai stata tanto attuale, nella sua eterna inattualità (se questa è la vecchia Napoli, forse Napoli è sempre nuova). E speriamo che, per quanto divulgata, ci sia sempre una Napoli Segreta dietro l’angolo: oggi ne abbiamo bisogno come non mai.

Nu Guinea, Mystic Jungle e Filippo Zenna saranno a Siracusa per Ortigia Sound System questo weekend con un imperdibile showcase Napoli Sound. Consulta la line up del festival su Noisey e acquista i biglietti sul sito del festival.

Napoli Segreta è uscita il 20 giugno per NG Records / Early Sounds.

Ascolta Napoli Segreta su Bandcamp:

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.


Quando i Rage Against The Machine protestarono nudi contro la censura

$
0
0

Quando i Rage Against the Machine arrivano a Philadelphia per un concerto di 15 minuti sul palco del Lollapalooza ‘93, uno dei festival rock più importanti del mondo, sanno già di essere nei guai. Zack de la Rocha, il loro cantante esplosivo dalla dialettica schietta e potente, è senza voce. Un mese di tour a supporto del loro album d’esordio ha distrutto le sue corde vocali. La band però è ancora agli inizi, sta cercando di conquistarsi il favore del pubblico e non può certo permettersi di cancellare uno show su un palco così importante.

Si tratta di fare una scelta: cancellare il concerto, lasciare posto a un’altra band, oppure tentare di esibirsi con un altro cantante? Niente di tutto questo. I quattro membri del gruppo hanno ben altro in mente.

“Dovevamo suonare per primi sul palco principale. Era il momento in cui iniziavamo a farci conoscere in America. Era la nostra grande occasione,” dirà il bassista Tim Commerford a ESPN nel 2015. “Nello stesso periodo, Tipper Gore, moglie dell'allora vicepresidente Al Gore, aveva creato il Parents Music Resource Center [Centro d'Informazione Musicale per Genitori, ndt], quello che mette gli adesivi Parental Advisory sui dischi. Noi non eravamo d’accordo, pensavamo fosse davvero una cazzata. E così abbiamo scelto la protesta, ‘Non suoniamo a questo show, protestiamo.’”

“Siamo saliti sul palco, ma invece di suonare abbiamo appoggiato le chitarre agli amplificatori, creando così un riverbero continuo, e siamo rimasti fermi impalati davanti al pubblico. Ah, eravamo completamente nudi. Ognuno di noi aveva una lettera scritta sul petto a formare la sigla PMRC.”

Il 18 luglio 1993, i Rage Against the Machine salgono sul palco davanti a migliaia di persone a Philadelphia in tutto il loro splendore, così come mamma li ha fatti.

La band di Los Angeles si è formata da un anno quando firma il suo primo contratto con una major, nel 1992. Il loro sound sta tra heavy metal, funk, punk e rap, attira parecchio l’attenzione e solleva anche qualche polemica. All’epoca delle collaborazioni tra rock e hip-hop come quella tra Aerosmith e Run-DMC, o quella tra gli Anthrax e i Public Enemy, i Rage Against the Machine sono una vera e propria rivelazione. Dal vivo, poi, sono ancora più forti che in studio. Hanno una potenza tale da far partire il pogo sotto al palco, ma allo stesso tempo da animare un dibattito politico. La sezione ritmica di Tim Commerford e Brad Wilk, rispettivamente al basso e alla batteria, fa da base ai riff delle chitarre di Tom Morello, violente ma non convenzionali, mentre il frontman Zack de la Rocha sbraita i suoi manifesti taglienti in modo talmente aggressivo e dogmatico da obbligare la gente a starlo a sentire.

Rage Against the Machine è anche il titolo del loro fortunato album d’esordio, che nel 1992 ha un forte impatto sia a livello musicale sia visivo, grazie a una copertina fortemente evocativa che non lascia spazio a dubbi quanto all’orientamento politico del gruppo. L’immagine, divenuta la rappresentazione di un’epoca, è quella del monaco buddista Thích Quảng Đức avvolto dalle fiamme a Saigon, in Vietnam, in segno di protesta contro il regime cattolico per l’uguaglianza tra le religioni. L’immagine vincerà il premio Pulitzer per la fotografia, ma per tutta la generazione X diventerà, semplicemente, il simbolo dei Rage.

Pubblicato il 3 novembre 1992—giorno in cui Bill Clinton sconfigge George Bush alle elezioni presidenziali—Rage Against the Machine è un successo immediato. Contiene un pezzo che ripete per ben 17 volte "fuck", e sarà proprio quello a trascinarli verso la gloria. Si tratta ovviamente di quello che diventerà il loro inno, “Killing in the Name,” inizialmente censurato dalle radio e da MTV.

Come molti altri album pieni di “fuck” e “shit” di quegli anni, anche Rage Against the Machine si merita lo spregevole adesivo “Parental Advisory – Explicit Lyrics” in copertina, cosa che i Rage non prendono benissimo considerandolo un affronto alla libertà di espressione. Nel 1985 il PMRC, il comitato dei genitori di cui sopra, aveva infatti stabilito che tutti gli album con contenuti espliciti dovessero riportare questa etichetta denigratoria. Musicisti come Frank Zappa, Dee Snider dei Twisted Sister e John Denver cercarono di protestare e fare ricorso, ma la decisione fu confermata in appello.

L'adesivo riempiva di orgoglio gli adulti perbenisti che cercavano di ripulire l’industria musicale, ma allo stesso tempo incuriosiva ancora di più i ragazzini in preda alla voglia di trasgressione. I dischi con l’adesivo erano i più fighi e accattivanti di tutti, proprio come i film in cui c'erano scene di violenza o nudo.

Molti artisti hanno parlato della campagna Parental Advisory nei loro testi, ma nessuno è riuscito a superare Ice-T in quanto a rabbia e potenza. In “Freedom of Speech”, pubblicata nel 1989, si rivolgeva direttamente ai giurati di questo santissimo comitato con le seguenti parole: “Hey, PMRC, idioti pezzi di merda / È l'adesivo sul disco che mi fa diventare ricco / Non ve ne rendete conto, stupidi ubriachi? / Più cercate di reprimerci, più cresciamo.”

Quando ai Rage Against the Machine fu offerto il posto in apertura al Lollapalooza, fu un colpo grosso che molte band invidiarono moltissimo. E nonostante l’importanza dell’occasione, i RATM non si tirarono indietro e decisero di portare avanti la loro protesta.

Dal palco di Barrie, in Ontario, de la Rocha aveva spiegato al pubblico la scelta della band di non vendere merchandising: “Alcuni pensano che ce la tiriamo, ma in realtà abbiamo deciso di non vendere T-shirt per non piegarci al consumismo spinto e vendere maglie a 23 dollari, quando a noi costano sette dollari di produzione.” Questa scelta fu solo l’inizio della presa di posizione forte della band, che non faceva altro che onorare il proprio nome.

Quel pomeriggio, de la Rocha e soci salirono sul palco con del nastro isolante sulla bocca e le lettere disegnate sul petto a comporre l’acronimo del collettivo moralista, PMRC. Mentre le casse alle loro spalle riverberavano, i quattro rimasero nudi di fronte al pubblico per quindici minuti, in segno di protesta contro la censura musicale.

“L’esibizione quel giorno fu una sorta di performance artistica, più che un vero concerto rock,” come dirà poi Morello a NME. “Volevamo solo ricordare a tutti che non potevamo più dare nulla per scontato, nemmeno che avremmo potuto continuare ad ascoltare musica contro lo status quo. Volevano portarci via i diritti del Primo Emendamento.”

Inizialmente il pubblico incoraggiò, divertito, l’iniziativa della band sul palco, ma quando si rese conto che i RATM non avrebbero mai nemmeno accennato una nota iniziò a infastidirsi. “Inizialmente la gente rideva e ci incitava, ma dopo dieci minuti che ce ne stavamo nudi sul palco, hanno iniziato a tirarci addosso bottiglie e insultarci. Erano molto delusi.”

Nei ricordi di Morello, la cosa più dolorosa furono le monetine. “Lasciatemelo dire: ci hanno tirato un sacco di monetine sul cazzo quel giorno,” ha detto a NME.

Alla fine, la polizia dovette scortare la band giù dal palco, ma nessuno fu arrestato per atti osceni in luogo pubblico. Per farsi perdonare, i Rage tornarono a Philadelphia qualche mese più tardi per un concerto gratuito, e in quell’occasione si misero a vendere merchandise a prezzi onesti: 8 dollari per la t-shirt, 10 dollari per la maglia a maniche lunghe.

Intervistato da Modern Drummer, Brad Wilk racconterà quello che gli passò per la testa in quel momento: “Pensavo alla sensazione del vento sulle palle, a quello che avrebbero pensato le persone lì davanti, a tutte le telecamere e a cosa sarebbe venuto fuori nelle riprese. Ma la cosa in sé, per me non fu un problema. Non mi spaventava. Anzi fu un momento liberatorio, è così che veniamo al mondo.”

Sono passati 25 anni da quando i Rage fecero bella mostra dei loro genitali sul palco del Lollapalooza, eppure la censura musicale non ha fatto grandi passi avanti. Il comitato PMRC non superò gli anni Novanta, ma l’adesivo Parental Advisory viene applicato ancora oggi a tutti quegli album che usano un linguaggio offensivo, mentre le canzoni vengono ancora modificate per poter essere passate in radio. La cosa davvero assurda è che la foto dei Rage sul palco di Philadelphia, l'unica mai pubblicata dell'accaduto, è comunque sempre censurata quando appare online.

I Rage Against the Machine non si arresero e portarono avanti le loro battaglie. Nel 1997, Morello fu arrestato durante una marcia contro lo sfruttamento in fabbrica. La band suonò inoltre in concerti di protesta sia nel 2000 alla convention dei democratici, sia nel 2008 alla convention repubblicana, dove però si limitarono a salire sul palco con tute arancioni e cappucci neri, come i prigionieri di Guantanamo, senza suonare.

Impossibile non citare il video di "Sleep Now in the Fire", che documenta il loro show improvvisato e abusivo davanti alla borsa di New York e che, soprattutto, aveva previsto la presidenza Trump con ben 16 anni di anticipo. Ma alla fine, di tutti i loro atti di ribellione, quello che rimarrà nella storia sarà proprio il loro spogliarello sul palco del Lollapalooza.

Questo articolo è apparso originariamente su Noisey US.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Beba e Rossella Essence sono la girl gang che stavamo aspettando

$
0
0

Quando la gente parla di rap o trap come di musica per ragazzini, dimentica la portata rivoluzionaria della musica per ragazzini. Non erano forse folle urlanti di minorenni quelle che accolsero i Beatles durante la loro British Invasion? E che poi, qualche anno più tardi, invasero le strade di Washington, Parigi e Roma in una rivoluzione che, fallita o meno, riuscì a cambiare il volto dell'Occidente? E non erano ragazzine urlanti a sventolare i cartelloni con scritto GIRL POWER ai concerti delle Spice Girls, le stesse che ora guidano la terza ondata femminista che sta faticosamente ma speriamo definitivamente spezzando le reni al patriarcato?

Sono proprio le Spice Girls il punto di riferimento citato da Beba nel suo ultimo singolo "Chicas", prodotto come sempre dalla sua socia Rossella Essence. Il cambio di marcia rispetto al singolo precedente "3ND" è evidente: il beat è latineggiante, la melodia zuccherosa, ma resta di fondo quella botta rap che deriva da anni di studio del genere.

Beba viene da Torino, Rossella da Napoli e insieme, dalla loro base a Milano, si stanno facendo strada nel rap game nazionale con talento, tenacia e forza di volontà. Le abbiamo intervistate per parlare, ovviamente, di donne nel rap, ma anche della loro nuova passione, la dancehall, e di dove sta andando la musica in Italia nel 2018.

Noisey: Cominciamo dall’inizio. Da quanto tempo fate musica, e da quanto collaborate?
Rossella Essence: Io ho iniziato a produrre a 16 anni, sempre lavorando da sola e producendo beat per vari artisti che mi piacevano. Ho avuto a che fare con la musica fin da bambina, ho studiato pianoforte e chitarra, poi mi sono appassionata all’hip hop e ho scoperto che mi piaceva l’idea di stare nelle retrovie e creare la musica per le canzoni hip hop. Poi ho cominciato anche a fare la DJ e ho girato l’Italia, ma al momento sono resident per Akeem Of Zamunda al Rocket di Milano. Ho iniziato a collaborare con Beba circa due anni fa.
Beba: "Io ho iniziato a fare rap circa cinque anni fa e, siccome ci tenevo a maturare bene e trovare le mie sonorità e la mia voce prima di pubblicare qualcosa, mi sono messa a lavorare sodo. Infatti, diciamo che considero il mio primo vero e proprio singolo ufficiale "Grizzly". Comunque incontrando Rossella ho capito che questa era la mia occasione di mettere in piedi il primo duo rap femminile in Italia, e ora le cose stanno andando molto bene."

Recentemente mi è capitato di leggere alcune vostre colleghe definite “esponenti del genere female rap”, come se fosse possibile differenziare un genere musicale a seconda del genere di chi lo pratica. Io lo trovo ridicolo, ma come ve la vivete voi?
Beba: Di sicuro noi non abbiamo alcuna intenzione di definirci esponenti di una scena femminile! La musica è il rap, e il fatto che non ci siano molte donne nella scena è soltanto la conseguenza di una certa arretratezza. Considerarlo un genere a parte vorrebbe dire isolarci ulteriormente, esattamente il contrario di quello che vorremmo. Noi infatti ci relazioniamo a colleghe e colleghi nello stesso identico modo, non facciamo distinzioni perché non vogliamo essere oggetto di distinzioni.
Rossella Essence: La penso allo stesso modo. Sarebbe assurdo parlare di pop al femminile o di rock al femminile. Ovviamente ci teniamo al fatto di essere riconosciute come donne che fanno questo genere, ma non possiamo essere categorizzate secondo questo criterio.
Beba: L’unica distinzione che conta è tra chi lo fa bene e chi lo fa male.

Parlando di musica, finora avete pubblicato soltanto alcuni singoli. State puntando all’album oppure continuerete su questa strada? Quali ambizioni avete per il futuro?
Beba: Per ora ci interessa lavorare di singolo in singolo. Cerchiamo di curare molto bene ogni singolo progetto, dalla parte tematica a quella visiva. Non è ancora il momento dell’album, ma io sto scrivendo tantissimo e la gente ce lo chiede, quindi si tratta solo di questione di tempo.
Rossella Essence: Siamo sempre state d’accordo sul fatto che il nostro album debba cambiare qualcosa nel rap, vogliamo che abbia un impatto molto forte.

Nel vostro stile incastrate molto bene la leggerezza della trap italiana contemporanea più pop e la pesantezza del rap più classico. Voi vi sentite di appartenere più alla scena hip hop o più alla moderna idea di rap come nuovo pop?
Rossella Essence: Io sono cresciuta con l’hip hop e ci sono stata molto legata per molti anni. Ma a un certo punto c’è stato un momento di rottura che mi ha fatto allontanare dalla scena. Dopo aver conosciuto Beba invece ho iniziato a sperimentare, ad esempio cinque anni fa non avrei mai prodotto un beat come “Chicas”. Ora, grazie al mio lavoro nei club, la dancehall influenza molto le mie produzioni e non mi sento più legata al genere hip hop, ma non voglio nemmeno fare la solita trap. Sto cercando di seguire una mia strada.
Beba: Io sono cresciuta ascoltando l’hip hop classico, ho imparato con Fibra. Uomini Di Mare mi piace ancora, ma non mi viene da scrivere su quelle sonorità. Ora ascolto principalmente cose straniere, e mi viene automatico seguire quell’onda perché mi sembra più fresh. Con “Chicas” mi piaceva l’idea di fare una cosa un po’ più soft, soprattutto dopo i sei freestyle che ho fatto uscire su Instagram, che erano molto rappati e molto tecnici, però al di là degli esperimenti più pop io resto anche molto legata alla tecnica del rap. Siamo un po’ una via di mezzo.

Beba, ti è mai capitato di venire tirata in mezzo nella polemica sui contenuti? Come la vedi tu? Beba: Sì, mi è capitato eccome. Se si parla dei freestyle, la cosa non mi tocca: la gente non capisce che è roba scritta veramente in 10 minuti, un esercizio di stile, quindi è ovvio che non parli della pace nel mondo. Ma in generale non mi interessa dare un messaggio o un contenuto preciso, lascio spazio all’interpretazione dell’ascoltatore. In molti, soprattutto donne, mi scrivono per dirmi che ascoltando i miei pezzi si sono sentite più forti, più determinate. E penso che sia proprio quello il mio messaggio: non ti dico nulla di preciso, ma se tu percepisci la determinazione che c’è dietro il mio progetto e dietro quello che faccio, il messaggio lo trovi da te.
Rossella Essence: Secondo me in “3ND” c’è un messaggio abbastanza forte, che poi abbiamo inserito anche in maniera più “pop” su “Chicas”. Magari non lo senti isolando una rima, ma se ascolti bene l’insieme della canzone capisci qual è il contenuto alla base. Magari più in là ci saranno cose più impegnate, soprattutto considerando che il nostro pubblico è composto per la maggioranza da ragazze giovani. Mi piacerebbe che fossimo un punto di riferimento per loro.

Approfondiamo questo punto, il rapporto con le vostre fan.
Beba: Che si tratti principalmente di ragazze giovani dipende anche dal fatto che gli ultimi due singoli che abbiamo pubblicato sono rivolti proprio a quel pubblico, ma questa è una cosa che abbiamo fatto apposta. Io sono cresciuta ascoltando solo rap, e non c’era una canzone in cui potessi identificarmi come donna; così ho voluto farlo io. All’inizio è stata dura, i primi due video sono stati bersagliati da commenti indecenti. Ma ora anche la parte maschile del mio pubblico è molto rispettosa nei miei confronti, magari mi scrivono “sei bellissima”, ma parlano anche di musica, mostrano ammirazione, mi chiedono di fare un feat o di scrivere un pezzo. Credo che ci siamo meritate questo rispetto.
Rossella Essence: Spesso mi scrivono ragazze che vorrebbero diventare DJ per farmi domande; io rispondo sempre, perché un giorno mi piacerebbe sapere di aver ispirato una ragazza a prendere questa strada.
Beba: Questo vale anche per me. È bellissimo ricevere i messaggi di ragazze che dicono: “Pensavo che una donna non potesse farcela nel rap in Italia, invece grazie a te ho capito che ci devo provare”. E ci mandano le loro canzoni, fantastico.

Quando voi avete iniziato, avevate dei punti di riferimento a cui ispirarvi?
Rossella Essence: All’inizio ascoltavo tanti DJ americani, cercando di copiarli. Ma la cosa più importante è stata l’aiuto dei miei amici. Ora questo contatto umano si è un po’ perso e le cose si fanno con i tutorial.
Beba: Io ho fatto la maggior parte del lavoro da sola in cameretta, nessuno mi ha aiutata. Eppure sono cresciuta a Torino in mezzo ai rapper, ma per quanto fossero miei amici non mi hanno mai supportata. Anche questo fa comunque parte della mia formazione: ho fatto sempre tutto da sola e i risultati si vedono, mentre quelli che mi trattavano con sufficienza magari adesso non stanno facendo niente.

Un argomento che ritorna ciclicamente nelle conversazioni tra i redattori di Noisey è quello della misoginia nei testi rap. Fa parte dello stile o è ora di superarla?
Beba: Io penso che un ascoltatore di questo genere sia consapevole di questo fatto, e condivida in un certo senso la responsabilità con l’artista. È il modo di comunicare del rap: è sempre stato forte, d’impatto, violento, senza peli sulla lingua. La misoginia riflette le origini di questa musica e, secondo me, è una componente che si andrà perdendo con gli anni.
Rossella Essence: Prendiamo Fabri Fibra, che qualche anno fa è stato escluso dal concerto del Primo Maggio per le proteste delle femministe. In quel caso secondo me gli è stata negata la libertà d’espressione. Io non credo che lui sia misogino nella vita, è un personaggio che ha scelto di interpretare. Credo che l’ascoltatore debba anche saper capire le sfumature di certe cose. C’è chi lo fa con gusto e chi no. Ma non credo che la misoginia nel rap sia un grave problema, credo che il problema stia nell’ascoltatore che interiorizza quel messaggio. È un po’ come dire che i videogiochi istigano alla violenza.
Beba: È come il Truceklan che dice “bevo rum, fumo crack, faccio rap”: è ovvio che se un ragazzino di 13 anni dopo averla ascoltata si mette a fumare il crack il problema non è di Noyz Narcos, ma suo. Se Fibra dice che se le scopa tutte e tu inizi a trattare le donne come oggetti il problema è tuo, non di Fabri Fibra.

Vi sentite parte di una corrente o di una scena in Italia? Con chi vi sentite a vostro agio?
Rossella Essence: Io ho sempre bazzicato nell’ambiente hip hop, ma prima di conoscere Beba avevo deciso di smettere perché mi ero stufata dei rapper. Ora la situazione non è cambiata di molto, nel senso che noi due non frequentiamo rapper, non abbiamo in programma nessun featuring e io sento molto distaccata dal resto della scena. Quasi nessuno dimostra supporto.
Beba: Conosciamo tutti personalmente, sia chiaro. Ma la nostra musica non viene riconosciuta, per loro non stiamo facendo quello che fanno loro. Poco tempo fa ho fatto un live con un altro rapper che ha più o meno i miei stessi numeri, e a fine concerto lui mi ha detto: “Spacchi… per essere una donna”.

Avrebbe bisogno di un ripassino del movimento riot grrrl, insomma.
Rossella Essence: Ma noi andiamo avanti da sole. Io sono molto contenta che nessun rapper ci spinga, perché sembra sempre che debba essere il rapper maschio a dire che spacchi. Fa anche capire che noi non lecchiamo il culo a nessuno per fare i numeri che stiamo facendo.
Beba: Abbiamo fatto tutto da sole.

Come vi rapportate al live?
Rossella Essence: Vanno sempre meglio. Sempre più gente canta i pezzi, sempre più maschi anche. Beba rappa sempre dal vivo, non teniamo la voce in base come fanno tanti altri rapper, e in pezzi più tecnici come “3ND” il pubblico nota la differenza, quindi a ogni concerto guadagniamo nuovi fan.
Beba: Questo per noi è fondamentale, è live che un artista si migliora, se canti con la voce in base non serve a nulla.
Rossella Essence: Se vai a vedere uno di sti rapper spesso rimani delusa, mentre quello che vogliamo noi è che la gente venga al live e abbia ancora più voglia di ascoltare la nostra musica.

Per concludere, una domanda un po’ scema: qual è il vostro featuring da sogno? Se poteste collaborare con chiunque nel mondo?
Rossella Essence: A me piacerebbe tantissimo Bad Bunny.
Beba: Anche a me!
Rossella Essence: Per me questo è proprio il momento della trap latina. Tra l’altro non è nemmeno così impossibile, perché se Sfera è arrivato a lavorare con il suo stesso produttore, Rvssian, ce la possiamo fare anche noi.

Giacomo è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Sono ancora innamorata di Peter Steele, il vampiro del goth metal

$
0
0

Avevo 15 anni, e insieme al mio fidanzatino dell’epoca stavo bigiando la scuola; eravamo sul divano di pelle di casa dei suoi e guardavamo Kerrang! TV. Quella è stata la prima volta che ho visto Petrus Thomas Rataczyk in vita mia, meglio noto come Peter Steele, voce e bassista del quartetto goth-metal di Brooklyn, i Type O Negative. Quasi due metri di altezza, i capelli lunghi e sciolti, perfettamente descritto da Wikipedia come un essere umano colpito ‘dall’effetto vampiro’, Peter Seele era il paradigma assoluto del diformismo sessuale, con gli occhi crudeli ma la pelle diafana, i pantaloni neri attillati da satanista e un’innocente maglia girocollo.

La prima volta che ho intravisto Peter era nel video di “Black No. 1 (Little Miss Scare-All),” in cui il suo volto etereo entra ed esce dall’oscurità, si contorce per il desiderio e poi si scaglia con forza contro la gola pallida della povera malcapitata. E poi quella voce baritonale così profonda. "Lei ha un appuntamento a mezzanotte con Nosferatu / oh baby, Lily Munster non è nulla in confronto a te.”

Ode accorata in chiave pop-maledetto, la canzone fu scritta per una delle sue ex-fidanzate (“Era così concentrata su stessa” spiegò [Steele] a Rock Out Censorship, “che una volta mi fece tenere uno specchio davanti alla faccia perché lei potesse guardarsi mentre veniva.”) Con quelle sonorità macabre e l’odio malcelato per il genere femminile, la canzone potrebbe sembrare una semplice lista di tutte le donne che facevano la fila per fare sesso con uomini come lui. Eppure all’età di 15 anni, suonava semplicemente come una “Sheena is a punkrocker” degli anni Novanta.

La mia ossessione successiva fu “Love you to death,” una fantasia distruttiva di un amore deleterio per entrambi: “Macchie di rossetto nero / un bicchiere di vino rosso / sono il tuo servo / posso accenderti la sigaretta?” In questo caso, anche le intimidazioni più soft di Steele sono colorite da una chiara minaccia: “la bestia dentro di me ti verrà a prendere, ti prenderà.” Entrambi i pezzi furono i singoli trainanti di Bloody Kisses (1993) e October Rust (1996) rispettivamente, di cui il secondo responsabile del successo mainstream dei Type O e di Steele. Gli album precedenti, Slow, Deep and Hard nel 1991 e The Origin of the Feces nel 1992 (in cui, ricordiamo, la copertina riporta una foto dell’ano di Steele in primo piano), non avevano certo la stessa narrativa romantica problematica.

Slow, Deep and Hard, che Steele sostiene di aver scritto in una sola notte dopo una rottura, è una fantasia violenta di vendetta, la storia di un omicidio efferato. Sin dal pezzo di apertura, "Unsuccessfully Coping With the Natural Beauty of Infidelity": “Pensavi solo al cazzo e avevi l’alito che puzzava di sperma / hai messo il diaframma prima di andare via / io pratico da ginecologo freelance / dovunque c’è un ventre, c’è una strada aperta / con te è gratis.”

E poi come dimenticare il canto poetico prima del ritornello “vacca / stronza puttana / puttana / sei una stronza / stronza.” In “Zero Tolerance” l’intento del narratore appare più chiaro: “Mentre ti guardo da quassù che ti avvinghi tutta sudata / ti metto il mio attrezzo in faccia / amico spero che lei ti sia piaciuta”.

Un po’ di organo da chiesa, e l’album si chiude con un tributo erudito all’heritage musicale delle fantasie maschiliste di revenge, con “Hey Pete,” cover di “Hey Joe.” Qui la pistola diventa un’ascia, e la “vecchia signora” una “puttana.” Va detto che Steele stesso, più tardi, rinnegherà questo pezzo: “...doveva rimanere solo una demo. Ero ubriaco e incazzato, ho scritto tutto in quattro ore [...] Se dovessi rifare tutto da capo, Bloody Kisses sarebbe il mio primo album.”

Tuttavia, l’album rimane un colosso di rabbia e odio nei confronti del tradimento femminile, con testi davvero spaventosi. Allo stesso, però, è anche un disco divertente, dipinge un archetipo psicotico così ben definito da sembrare grottesco. C’è un umorismo nero che in pochi sono in grado di capire. Mi rendo conto che io stessa, da donna che vive in una società in cui la violenza misogina è ancora troppo radicata e diffusa, forse lo trovo più divertente di quello che dovrei. Tre anni prima di morire, Steele trascorse 30 giorni in carcere per aver aggredito un rivale in amore. Questo, forse, dovrebbe farci capire la natura oscura e violenta del personaggio (che a quanto dicono, firmò il contratto della band con un misto di sangue e sperma), una sorta di rappresentazione apocrifa degli stereotipi del gothic fantasy. È lo stronzo felliniano. È uno pericoloso.

Nel suo studio sul genere e il metal del 1993, Running with the Devil, Robret Walser analizza la storia della misoginia nel metal di fine anni Ottanta, quando il pubblico femminile iniziò ad appassionarsi al genere e l’estetica della musica metal prese una direzione nuova e inattesa: “Narrativa, immagini e musica insieme rappresentavano la donna come una minaccia alla supremazia dell’uomo e in alcuni casi alla sopravvivenza del genere maschile. In queste interpretazioni, il carattere misterioso delle donne non fa che confermare il loro essere diverse, e il loro fascino è rappresenta una seria minaccia. Le fan del Metal sono quindi invitate a identificarsi con la posizione di potere che viene costruita per loro,” scrive Walser. Personalmente, trovo che questa critica sia riduttiva e non riesca a cogliere il potere liberatorio del metal, nonostante i suoi lati fortemente sessisti, e ignori del tutto lo spirito di gruppo che io stessa e molte altre ragazze trovammo nella scena metal dell’epoca.

La sua valutazione del legame tra il prototipo di femme fatale nell’immaginario metal e il pubblico femminile del genere assume ancora più rilevanza se applicata alle atmosfere sensuali del goth metal tra gli anni Novanta e i primi Duemila, rispetto a quelle che erano le band più glam dalle folte chiome su cui si basava il suo studio.

Con Bloody Kisses e October Rust, Steele abbandona la misoginia aperta e violenta dei primi dischi dei Type O per dedicarsi a forme più insidiose di sessismo. Hit come “Christian Woman” e “My Girlfriend’s Girlfriend” fanno ancora abbondante uso di stereotipi rozzi legati alla sessualità femminile e descrivono una donna-oggetto nettamente inferiore.

Ma per me, era—ed è ancora—il personaggio brutale di Steele e il suo appeal di vampiro a rendere queste canzoni in qualche modo accettabili e liberatorie. Sono i suoi occhi verdi e tristi ad aver trasformato tutta la voglia di metal di una ragazzina adolescente goth in forza ed emancipazione. La mercificazione delle donne, così evidente in pezzi come “Christian Woman” ha una doppia interpretazione.

Nel 1995, con il supporto dell’etichetta discografica dei Type O, Steele posa senza veli per Playgirl, il magazine. “Quando [Steele] parla, la sua voce è una rivelazione intima ed eccitante, un serpente che ti raggiunge strisciando e tocca la tua libido,” queste le parole che introducono le immagini. “Il suo sguardo è potente, serio, ma cela una voglia di divertimento che riaffiora in superficie inaspettatamente.”

In modo piuttosto inaspettato quanto inusuale, Steele mostra un’immagine di sé che aspira al sublime (mentre disteso su un lato abbraccia un bouquet di fresie, o mentre tiene in equilibrio sul pacco un vassoio di candele rosse) quanto al quotidiano (tiene in braccio una ragazza in sottoveste di pizzo, o attorciglia il filo del telefono), sempre mettendo ben in evidenza la sua erezione. L’esempio perfetto di pornografica gothic, ma senza l’ironia di personaggi come Marilyn Manson, che sperimenteranno più tardi la stessa estetica.

A questa, seguirono molte altre apparizioni bizzarre di Steele sui media, anche se il frontman non farà segreto, poi, della sua immensa delusione quando scoprirà che la maggior parte dei lettori di Playgirl sono uomini. L’idea che potessero essere donne mi sembra così ingenua che non riesco ad accettarla da un uomo che ha girato il mondo come Peter.

Ora del 1999, quando ho guardato Symphony for the Devil per la prima volta, il documentario sul tour dei Type O, il mio amore per Pete era ormai cresciuto a dismisura, fino a toccare livelli inimmaginabili. A parte le riprese dei backstage della band e delle loro avventure in tour, non c’è molto altro nel film. I ragazzi della band si fanno i dispetti mentre dormono, disegnandosi svastiche addosso, le donne sono insultate per il proprio corpo e le scene di sesso sono chiaramente riprese senza alcun consenso da parte dei protagonisti. È qui che mi ricordo che i nostri eroi a volte ci deludono, ma che il desiderio va oltre il nostro controllo razionale.

Steele è morto nel 2010 per un aneurisma, aveva 48 anni. Nella parte finale di “Love You To Death,” ripete “Sono abbastanza per te? Sono all’altezza?” ammorbidendo quella voce baritonale. Un verso profondamente toccante, era la prima volta che pensavo che un uomo potesse non sentirsi all’altezza di una donna, o inferiore e impotente davanti al desiderio. Penso a tutte le volte in cui Pete è stato una sorta di tabù per me, e per tante donne. Un codice segreto e oscuro che apriva le porte a un’esperienza condivisa che solo la musica migliore può veicolare. A tutto quello che univa ognuna di noi, sotto il palco e nel backstage. Quel sorriso sui nostri volti, quella complicità, quella condivisione.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Noisey US.

Abbiamo intervistato Tredici Pietro

$
0
0

La frase "Bella pe 'r fijo de Gianni Morandi" è forse la più memetica di quel famoso episodio di The People Versus Dark Polo Gang che abbiamo realizzato ormai due anni fa. Oggi Tredici Pietro non è più soltanto il figlio di Gianni Morandi, è uscito allo scoperto e in una piccola catarsi legata a The People Versus, è passato in redazione per rispondere ai commenti più cattivi sotto al suo primo singolo "Pizza e Fichi".

L'episodio The People Versus Tredici Pietro sarà disponibile giovedì 9 agosto, ma nel frattempo abbiamo approfittato per fare due chiacchiere con lui e abbiamo parlato del suo rapporto con la fama, con la fama di papà, con i social network e con quella pesante eredità che si porta sulle spalle chiunque provi a fare rap a Bologna.

Noisey: Quando e come hai cominciato ad appassionarti di rap?
Tredici Pietro: Ero in quarta, quinta elementare. Il periodo in cui uscì "Applausi per Fibra" e stava nascendo il mercato mainstream del rap italiano. I primi dischi che mi hanno davvero appassionato sono stati Tradimento di Fibra e Che bello essere noi per i Dogo. Ascoltavo comunque musica, ma non è che prima di allora fossi indirizzato verso un genere.

E in famiglia com'era vista questa cosa del rap?
Ti sputano in faccia, se rappi!

Ma davvero?
Mia madre dice che siamo troppo bianchi, troppo di famiglia buona. È bigotta! "Tu sei figlio di papà", ha! Scherzo, è molto intelligente. Lei comunque si ascoltava i Fugees, in cui c'è del bel rappato. Non ho mai parlato propriamente del rap ai miei, è una cosa che ho fatto da solo al 100%. Poi che il nome abbia dato la botta è una conseguenza inevitabile della mia persona, ma sinceramente pensavo sarebbe venuta fuori più tardi.

Ho lottato un sacco con la figura del padre proprio perché volevo fare il rapper ma non lo volevo dire in casa. Loro hanno sentito il pezzo una volta uscito, il prossimo non hanno idea di cosa sia. Ma ora si sono gasati, e mia madre dice che spacca. Ho fatto ricredere un hater.

Crescendo che rapporto hai avuto con la musica, dato che è una parte così fondamentale della tua famiglia?
Ho visto molti concerti di mio padre. L'ho seguito molto, anche di recente, però devo dire che c'è questa bella collezione di dischi a casa da cui potevo attingere. C'era roba dei Doors, dei Depeche Mode, tutta roba che si ascoltava mia madre. Poi mi sono fatto la roba mia col rap, allontanandomi da casa.

Prima di "Pizza e fichi" avevi registrato altre cose?
Sì. Ricordo un'intervista di Fibra in cui diceva che bisogna aspettare prima di far uscire la roba, che bisogna sentirsi pronti, e io ho fatto così. In realtà però ci sono pezzi di quattro anni fa, registrati su beat di Dr. Dre - "The Watcher", "Bitch Please" - neanche andavamo a cercarci i beat nascosti, Dr. Dre e via! E facevamo la roba in cameretta. C'è ancora tutto su internet! A Bolo c'era questa forte componente old school fatta di regole, credibilità.

Ecco, parliamo di Bologna.
Da noi c'è sempre stata una bolla in cui si è rimasti nei Novanta in cui si rappava ancora come Joe Cassano. Dovevi sapere a memoria SxM sennò non passavi. Noi facemmo due battle di numero, due live nel locale del nostro amico, l'Arteria. Dopo un certo periodo di accettazione dell'old school mi è venuta voglia di iniziare a fare skrr skrr e a rifiutare quella roba.

Come hai vissuto nella tua città il passaggio alla Nuova Scuola?
A Bologna sicuramente ci sono voluti un paio d'anni rispetto a quanto c'è voluto nelle altre città per accettare Sfera e quello che è venuto con lui. C'era una componente di fedeltà alla vecchia guardia che in realtà esisteva perché non si sapeva neanche a cosa appigliarsi. Lo si faceva per l'onore del nome, era bello dirsi che Bologna fosse stata la capitale dell'hip-hop, che abbiamo inventato un linguaggio, ma che ci fai con la roba vecchia? È lì per essere ascoltata, capita e conosciuta. Basta, ora bisogna fare la roba nuova.

E che ruolo ha giocato DrefGold in tutto questo?
DrefGold è un'ispirazione, a parte che un amico. Già prima che uscisse nel mainstream spingeva con della roba fresca. Credo che tutti a Bolo gli siano riconoscenti e lo stimino. Sicuramente siamo di parte, ma ci serviva. Io ci ho sempre tenuto alla mia città, ho sempre voluto che portassimo su qualcuno, e adesso spacchiamo pure noi! Non abbiamo ancora avuto il modo di crescere a livello locale ma mi piacerebbe mantenere i contatti. Il mio primo live lo vorrei fare lì a Bolo.

Ti hanno già contattato per dei live quindi?
Mi chiamano, mi chiedono quanto voglio, io gli dico "Guarda..." Ma come con Noisey e The People Versus... Io non volevo venire subito perché volevo avere la credibilità per poterlo fare. Almeno due, tre pezzi che ti confermano. Poi però mi son detto "Dai, mettiamo un po' di hype tra un pezzo e l'altro".

Come ti sei sentito quando "Pizza e fichi" ha fatto un milione di views?
La previsione di Monkey era 100k views in sei mesi. Pensavamo spaccasse, ma non abbiamo fatto niente per far uscire il mio nome. La mia speranza era quella di uscire un giorno, tra qualche anno, e rivelare che fossi il figlio di Morandi. Mi sarebbe piaciuto essere consapevole al 100% dei miei passi, ma questa cosa del nome distorce la realtà da una parte. Le conferme poi arriveranno se dovranno arrivare. Con un nome così alle spalle dobbiamo spaccare ancora di più, ecco.

Quali erano i piani per i prossimi anni, prima che cominciasse questa cosa del rap?
Io sto studiando storia, mi sono iscritto a scienze della comunicazione e poi ho fatto il cambio. Il piano rimane quello di studiare. Questo "lavoro" non è mai una certezza. Non ci sono contratti e chissà se la gente ti ascolterà ancora tra un mese. Il tempo ci dimostrerà se riusciremo a farlo o meno. Avrei comunque voluto rappare, ricevere risultati e attenzioni, con un tempo sano e normale. invece è stato tutto molto veloce e vediamo come va.

Mi dicevi che i rapper con cui vorresti collaborare sono Rkomi e Giaime. Quindi ti prende meglio il lato più cerebrale della nuova scuola?
Ovviamente mi prendono molto di più i tamarri! No, scherzo, mi piacciono tutte e due le correnti. È che ora so come muovermi a livello musicale e credo che la mia roba si sia spostata su un mondo leggermente più conscious, anche se "Pizza e fichi" non lo palesa. Penso che tutta la scena sia piena di roba che spacca il culo, sia che sia piena di contenuto o meno.

Come hai gestito l'uso dei social da parte di tuo padre?
Malissimo! Mio padre mi voleva pagare per avermi sui social, all'inizio! A parte la trasformazione della persona, l'umano che viene mangiato dalla macchina... chiaramente il telefono cambia le persone, anche chi è cresciuto con tutt'altre abitudini. È diventato veramente un fissato. In casa era un problema e ora abbiamo capito che se non gli diamo il giochino non è soddisfatto.

Partì tutto da un video che lui credeva essere una foto. C'è questo spezzone del 2011, 2012 che è un video di tre secondi con tutti in posa a fare la foto, lui lo postò lo stesso e via. Lui ha sempre avuto questa capa del suo fan club che gli ha consigliato di tenere un ritmo e oggi, sei anni dopo, lui ancora trova ogni giorno un post da fare.

E come hai vissuto il momento in cui la Dark Polo Gang ti disse "Bella per 'r fijo de Gianni Morandi" durante il loro storico People Versus?
Ero troppo preso bene. Nel 2015 iniziarono a uscire Sfera, la Dark, questa nuova onda che mi prese subito benissimo. Io ero lì che avevo finito di pranzare e mi volevo fare gli affari miei, non voglio mai apparire sui social di mio padre, proprio perché volevo fare il rapper! Se ti presenti sul profilo di Gianni Morandi, insomma... avevo questo complesso. Mi tirò in mezzo a questa live e mi chiese quali fossero i miei rapper preferiti. Io non sapevo cosa dire, se fare l'altezzoso e sparare nomi conosciuti come, boh, Guè Pequeno o sparare degli emergenti? Mi son detto, "facciamo una cosa figa, va bene". C'era IZI con Julian Ross Mixtape, Tedua con Orange County e la Dark con Crack Musica. Io ero fuori di testa per loro, ero totalmente pro-wave. E il resto è storia.

The People Versus Tredici Pietro sarà online giovedì 9 agosto, iscriviti al canale YouTube.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Il nuovo video di Solomun è stato realizzato interamente dentro GTA V

$
0
0

Non c'è limite al numero di modi in cui puoi rubare un elicottero, sfidare un cartello del narcotraffico o (se proprio ti piace fare la parte del supercattivo) farti una partitina a golf. Da quando è uscito cinque anni fa GTA V ha messo in fila tutta una serie di attività più o meno edificanti che si possono svolgere nell'universo del gioco. L'ultima aggiunta è stata la possibilità di costruire il proprio night club: con l'aggiornamento After Hours potete mettervi lì e giocare a menare i paparazzi (che tra l'altro è un'attività particolarmente estiva).

Anche la colonna sonora ha beneficiato di un piccolo upgrade, con nuove collaborazioni firmate The Black Madonna, Dixon, Tale of Us e Solomun, migliorando ulteriormente quello che, da GTA III in poi, è stato sempre e comunque un piccolo capolavoro.

Il nuovo video di Solomun "Customer Is King" (che è anche la centesima release di Diynamic Music) vede un alter ego digitale di Solomun impegnato in una sessione di trekking particolarmente bizzarra per le strade di Los Santos. Per una serie di fortunate coincidenze il video è in esclusiva qua sopra.

Questo articolo è stato adattato dalla versione US di Noisey.

Recensione: Zu93 - Mirror Emperor

$
0
0

Gli Zu sono una delle entità più liquide del panorama italiano, se non del pianeta, se non dell’universo. David Tibet è una delle entità più riconoscibili del panorama del multiverso. Insieme, hanno scritto un disco di cui nessuno sembra aver capito una sega. Me per primo, per cui tutto quello che segue è in perfetto disordine.

La prima volta che ho incontrato Tibet, prevedibilmente, lui era su un palco. Stava piangendo e strisciando per terra urlando la sua disperazione sui toni doom e psichedelici che contraddistinguevano il suo passaggio tra gli anni zero e i dieci, tra una collaborazione con gli Om e un tour con Baby Dee. Tutto questo succedeva a Roma. Tanto tempo fa, prima che finissero a Bologna, in Norvegia, sull’Himalaya o in Perù, era anche la città di Massimo Pupillo e Luca Mai. Ancora prima, Roma era la città eterna, la capitale dell’impero. E la collaborazione tra Zu e Current93 finisce per parlare di imperi, imperatori, specchi e ombre. Lo fa su House Of Mythology, che nei suoi tre anni di vita ha pubblicato Ulver, ma anche Laniakea (che poi sono Pupillo e Daniel O’Sullivan, il tastierista degli Ulver), Hypnopazuzu (Tibet e Martin “Youth” Glover dei Killing Joke) e proprio l’anno scorso Jhator, l’ultimo insospettabile album degli Zu.

A quanto pare, il seme di Mirror Emperor venne piantato quasi dieci anni fa (chissà, magari proprio in occasione di quel concerto dei Current93 a Roma), ma vede la luce solo oggi. Gli Zu sono profondamente diversi da quelli che erano allora, reduci dai droni e dai riffoni di Carboniferous; da progetto in perenne ricerca e in continua mutazione, arrivano nel 2018 muniti di accompagnatori e idee e suoni completamente diversi da quelli cui (non) ci hanno (mai) abituati. Al cospetto dello sguardo allucinato di Tibet si presentano in ensemble allargato, con la partecipazione di Luca Tilli, Andrea Serrapiglio, Sara D’Uva e soprattutto Stefano Pilia (In Zaire, Sogno del Marinaio, Massimo Volume, Afterhours e probabilmente altre cose di cui non sentiremo mai parlare, ma che sicuramente erano bellissime), che qui si occupa anche di registrazione e missaggio.

Con questa formazione, alle spalle della voce dei Current93 gorgoglia un magma musicale vicino agli Zu più recenti (lo stesso Jhator, o la collaborazione con il cantante degli Oxbow Eugene Robinson The Left Hand Path). Soundscapes, atmosfere morbide e fortemente intrise ora di elettronica, ora di archetti e arpeggini, ora di stuoli di pedali per chitarre. Niente riff, niente math-, niente -rock, niente jazz, qui siamo su territori altri, che non godono nemmeno di una precisa categorizzazione, ma tanto quelli cui piace ascoltare gli Zu e i Current93 con i generi bene o male ci si sciacquano le treccine.

Morale, Mirror Emperor finisce per essere costruito come musica da camera o quasi, un concentrato di spoken word e strumenti che si mettono al servizio di chi le parole le recita. David Tibet, appunto. E qui chiudo il cerchio aperto all’inizio: quale sia il significato vero di Mirror Emperor, quali siano i simboli, i significati, i riferimenti, le cose di cui parla Tibet in queste tredici canzoni, lo sa solo lui. “Siamo nati liberi e caduti attraverso lo Specchio in un Non Mondo, un Impero Specchio. Qui, siamo sotto il giogo dell’Imperatore Specchio”, prova a chiarire Tibet. Io continuo a non capirci un cazzo, ma finché è lui a recitare e disquisire e parlare e cantare, mi fido.

Mirror Emperor è uscito il 6 luglio per House Of Mythology.

Ascolta Mirror Emperor su Bandcamp:

TRACKLIST:
1. The Coming of the Mirror Emperor
2. Confirm the Mirror Emperor
3. Enters the Mirror Emperor
4. To the Mirror Emperor
5. The Heart of the Mirror Emperor
6. The Teeth of the Mirror Emperor
7. (The Absence of the Mirror Emperor)
8. Before the Mirror Emperor
9. To Meet the Mirror Emperor
10. (The Mirror Emperor is Absent)
11. The Imp Trip of the Mirror Emperor
12. Awake (Mirror) Emperor

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Le hit estive segrete della musica italiana

$
0
0

Non sono proprio pronto per quest'estate. È un periodo storico in cui c’è poco da rilassarsi, e sono a un passo dal ricovero alla neuro. Parliamoci chiaro: il desiderio di vacanza è pressoché totale, ognuno in cuor suo vorrebbe fare due mesi di mare fisso, con i cellulari accesi solo per farsi i selfie col drink in mano e la barriera corallina alle spalle. E invece, ahinoi, la maggior parte si faranno gran parte dell’estate in casa, con quarantamila gradi, aiutati solo da ventilatori cinesi, facendosi selfie con lo sfondo finto del pc. I più fortunati accenderanno a cannone i condizionatori d’aria e chi è maggiormente rustico si farà refrigerare da bagnarole di acqua fredda e bicarbonato nelle quali immergere i piedi.

Allora, siccome una delle grandi tradizioni dell’estate è quella della colonna sonora, e chiaramente questo è l’anno delle compilation italiane weird (vedi Napoli Segreta e poi muori), Italian Folgorati, che da sempre si batte in quel senso, ha deciso di stendere una playlist di vecchi singoli da mare e da amare. Canzoni che non hanno spopolato solo per meri motivi promozionali, perché troppo avanti o perché troppo indietro o perché scomode o poco decifrabili, ché, si sa, anche oggi quando il proverbiale italiano prepara la compilation dell’estate sembra che faccia lo scontrino dal salumiere, viste le fette di prosciutto che si mette nelle orecchie. Ma bando alle polemiche: lasciamoci cullare da questi motivetti che vado a presentarvi, consigliando un gin tonic alla cannella o speziato a piacere per gustarli meglio.

Roberta D’Angelo – "Noce di cocco" (1983)

Roberta D’Angelo è un personaggio stranissimo nel panorama della musica italiana. Cantautrice orgoglio romano di Cinecittà, esordisce nel 1975 ponendosi come una delle poche donne della musica ad affrontare lo strapotere maschile dei vari Venditti, De Gregori e compagnia bella. Almeno all’inizio il suo target era quello del cantautorato: il suo primo disco omonimo era ricco di bizzarrie come la stupefatta “Spazzatura”, racconto di un viaggio a base di THC. "La luna ancora", un brano precedente, toccava invece il leggerissimo tema della prostituzione.

Roberta, diplomata al conservatorio, ha alle spalle una solida cultura musicale. Ben presto quindi si spinge verso la sperimentazione di nuovi linguaggi, un po’ come la Nannini, della quale la D’Angelo ai tempi sembrava l’unica vera rivale. Infati nel 1980 a produrre quel suo album mozzafiato che è Casablanca è il grande Roberto Cacciapaglia, che l'anno successivo curerà per l'appunto G.N. della Nannini. Un concentrato di pop, new wave, suoni tropicali deviati, sperimentazone, tutto basato sulle vocalità che sembrano quasi asportate da un pierrot lunaire versione tonale e rock. Già in questo disco troviamo un brano da bagnasciuga, la sognante "Caraibi", ma è solo nel tra l'82 e l'83 che la D’Angelo spinge l’acceleratore al massimo, decisa a fare il botto: nonostante le apparizioni alla RAI su Mister Fantasy, non venne mai abbastanza promosso e rimane ancora oggi introvabile.

"Noce di Cocco", il brano dell'estate che potete ascoltare qua sopra, è il suo canto del cigno. Presto Roberta decide di optare per il ruolo più defilato di insegnante di musica, non per questo rinunciando alla sua follia compositiva: i video dei saggi di fine anno dei suoi allievi sono una roba delirante in cui il prog, la classica e Cage vanno a braccetto. A riascoltarlo ora, "Noce di Cocco" è in realtà un piccolo capolavoro che avrebbe meritato le prime posizioni in classifica: una presa per i fondelli delle canzoni commerciali del periodo ma nello stesso tempo un modo per usare intelligentemente a proprio favore i luoghi comuni, con spruzzate di Devo, B-52s e Martha and the Muffins. Sul lato B del singolo, poi, la D'Angelo piazza "L'ascensore funziona?", una pièce contemporanea a base di solo piano e due clarinetti. Roba dodecafonica improvvisata con strizzate d’occhio a un Satie allucinato che con il rock del lato A non ha alcun collegamento, anzi: è registrata apposta per far impazzire gli ignari acquirenti.

Giorgia Fiorio – "Un’altra estate" ( 1983)

Giorgia Fiorio, figlia di Cesare (celebre dirigente sportivo promotore del rally come disciplina professionistica), è un altro personaggio borderline nel panorama italiano. La sua carriera inizia nel 1982 con "Bimbo", uno sparato pestone pop-wave-rock con cui si fa notare a causa del suo timbro vocale particolarmente ruvido, androgino. La popolarità arriva però con il cinema: la Fiorio recita infatti la parte di (l'avreste detto mai) Giorgia nei due Sapore di sale dell’appena compianto Carlo Vanzina.

Questa salita alla ribalta delle cronache è la spinta per pubblicare nel 1983 il singolo "Un’altra estate", scritto dalla premiata ditta Enrico Ruggeri-Luigi Schiavone. I due compongono un micidiale pezzo synth pop anfetaminico con inserti di chitarre surf e l’utilizzo del classico giro di Do, cifra delle estati italiane degli anni Sessanta. Agli arrangiamenti il mito Roberto Colombo, all'epoca collaboratore di Matia Bazar e Alberto Camerini. Praticamente una garanzia. E invece niente: poche interviste, un tentativo di riciclare il pezzo su un EP l'anno successivo, ma le classifiche non la abbracciano.

È un peccato, dato che il pubblico va quindi a identificarla sempre più come un'attrice più che come una musicista, sbagliando di grosso. Nel 1986 però Giorgia ci ritenta buttandosi sull'italo disco con un album omonimo che vede tra gli autori anche Giorgio Moroder, tentativo di lancio internazionale nato per abbandonare i luoghi comuni dell'italietta. Ma evidentemente non è aria: la carriera di cantante di Giorgia finisce nel 1989. Ma ogni cosa che termina apre altre strade. Giorgia Fiorio infatti si dedica tosto alla fotografia con buoni risultati. "Un'altra estate" rimane comunque un gioiellino da spararsi sotto l’ombrellone, magari insieme a un missile spritz. È l'esempio più lampante che non basta avere i soldi per ottenere il successo, soprattutto se meritato. Meglio starsene in vacanza e aspettare i frutti cadere dall'albero.

Skiantos – "Ti spalmo la crema" (1984)

Gli Skiantos sono i padrini del punk demenziale italiano. Dopo aver incendiato i palchi con le loro surreali performance, si sciolgono nel 1980. La band si rimette però assieme poco dopo in formazione a tre: Freak Antoni, Dandy Bestia e Stefano Sbarbo. Tra i motivi c'è anche un interessamento da parte della CGD di Caterina Caselli, che li costrinse a debuttare sulla sua etichetta con un improbabile disco di cover di canzoni estive.

La Caselli vorrebbe vendere tonnellate di copie tramite questa operazione biecamente commerciale, probabilmente per mettere le mani avanti e rifarsi poi di un eventuale fallimento del disco successivo. Già, perché c'era la promessa di far uscire subito dopo il vero LP di inediti a firma Skiantos, che era già pronto e sarebbe poi diventato Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, pubblicato sulla Carosello di Vasco. Come prevedibile il progetto è un flop totale, e la Caselli abbandona gli Skiantos al loro destino.

La combo Skiantos-fratelli La Bionda, artefici del successo degli amici di merende ex punk Righeira, era però particolarmente sfiziosa. Forse sarebbe stato sufficiente pubblicare come singolo gli unici due inediti dell'LP, la pimpante “Ti spalmo la crema” e la polemico-ironico-autobiografica "Canzone per l’estate", brani caratterizzati da un mischiotto tra il sound dei Righeira sound, il Rino Gaetano de "Il cielo è sempre più blu" e i Devo post Oh No! It’s Devo. Insomma, un successo mancato che però vanta un rifacimento di tutto rispetto: "Te pongo la crema" dei Los João, gruppo messicano popolare soprattutto per la celebre "Disco Samba", cioè quella che chiamate "PE-PE, PE-PE-PE-PE, PE-PEEE", brano sempre al top quando si devono fare i trenini di capodanno.

Ombretta Colli – "Cocco fresco cocco bello" (1983)

Siamo nel 1983 e le classifiche italiane sono dominate da un solo nome, ovvero Franco Battiato. Che sia Alice, che sia Milva, che sia Giuni Russo, inverno ed estate non hanno segreti per il Franco nazionale. Soprattutto l’estate, visto il clamoroso successo della Russo con "Un'estate al mare”: Franco ci riprova affidando a Ombretta Colli questo pezzo di metalpop scritto a sei mani con il braccio destro Giusto Pio e il mitico Francesco Messina, che poi si apre a colpi di marimba in stile La voce del padrone, minacciato da synth e vocoder.

Il testo è apparentemente scritto dal punto di vista di una donna in vacanza da sola che si rompe i coglioni del mare e del sole. Ma forse è la storia di una venditrice ambulante di cocco costretta a farsi il culo lontana da casa, avanti e indietro sulle spiagge per compiacere gente che poi alle due di notte gli fa la corte a cazzo di cane. Dato il passato impegnato dell'Ombretta, moglie di Giorgio Gaber e cantante politicizzata lungo il corso di tutti gli anni Settanta, c'è anche chi ci ha letto un riferimento allo spaccio (il "cocco") e alla prostituzione. Opinione giustificata tra l'altro dalla presenza nel suo palmarès di un disco impegnato sul tema, Una donna due donne un certo numero di donne.

Il lato B presenta un brano più duro e politicamente polemico, "Evaristo", un mezzo delirio di tape pop music in cui Battiato sperimenta senza freni quello che tutti vorremmo fosse la musica dell'estate di sempre e in cui la Colli, qui anche autrice, canta col naso letteralmente tappato come fosse annegata sott’acqua. Il problema è che dopo un passato rosso fuoco e femminista, la nostra paladina si ritroverà più tardi ad appoggiare Berlusconi in mezzo alla destra più totale e becera: segno che in effetti la vita della venditrice di cocco non faceva per lei. Vista l’aria che tira, con il nostro delirante ministro che vuole multare chi acquista dagli ambulanti, direi che “Cocco bello” potrebbe essere il brano manifesto dell'estate 2018. Per non dimenticare.

Righeira – "Rimini Splash Down" (1987)

i RIgheira sono un must quando si tratta di hit estive: "Vamos a la playa" e "L’estate sta finendo" sono singoli pop talmente potenti che possiamo definirli degli standard senza tempo. Però la magia non sempre si ricrea, per cui il dinamico duo si trovò presto di fronte a un calo di vendite. Come rilanciarsi? Ma scrivendo un brano per Rimini Rimini, commedia di Sergio Corbucci, vera e propria pellicola all-star. Nel cast compaiono tutti i maggiori comici dell'epoca, da Jerry Calà a Paolo Villaggio, passando per Gigi e Andrea e un sex symbol come Serena Grandi.

Il pezzo si chiama "Rimini Splash Down" ed è firmato ancora una volta dai fratelli La Bionda, assieme a Raffaella Riva del Gruppo Italiano, quelli di "Tropicana", quindi una garanzia sulla carta. Il film ha un successo strepitoso, ma quello che doveva essere il brano portante della colonna sonora non ha grande diffusione. Eppure si tratta di un pezzo in pieno stile RIgheira: fieramente digitale, con ampio uso di campionature di voci quasi pre-HD e testi che spaziano fuori dall'italiano tracciando visioni surreali, bagaglio di estati teen.

Penalizzati dal momento di passaggio verso situazioni più acide, a partire da "Rimini Splash Down" i Righeira cadono a picco nelle classifiche. Ricordiamo però questo brano come un ambizioso quanto difficile tentativo di unire mondi pop frastagliati verso il ritornello eterno, che forse necessitava di un’interpretazione vocale più convinta. Ma d’altronde cosa ti vuoi convincere quando tutto quello che desideri è farti un tuffo e un cocktail? "Rimini Splash Sown” rimane un inno dello svacco che oggi più che mai ha senso nelle nostre orecchie.

Bobby Solo – "Signora dell'estate" (1982)

In un'estate lussureggiante non può mancare la ballata di classe. E quando si tratta di ballate alla Elvis, chi è più abile di Bobby Solo a creare l'atmosfera marina più adatta? Certo, negli anni Ottanta Bobby non vendeva più chissà cosa ma era pervicace e non temeva confronti, vivendo in un mondo a parte. "Signora dell'estate", al suono di “Vino rosso tu mi ubriacherai / Onda chiara tu mi abbraccerai” è un chiaro omaggio a Demis Roussos cucinato in una salsa di leggera e algida synthwave, strizzata d'occhio a una perdizione carnale neanche troppo velata.

Saranno anche lontani i fasti della surreale "Domenica d’agosto", ma nonostante anche gli assurdi tentativi disco della cover di "Arrivederci Roma" e di "Una lacrima sul viso" l'album che ospita la nostra hit estiva è l'ultimo colpo di reni del nostro Bobby, rocker che ha sempre sfidato l'industria musicale andando contro qualsiasi moda. Perdendo, ovviamente, ma dimostrando grande fierezza del suo ruolo di perdente, un po' come Johnny Cash. Dato il resto della sua discografia, continua riproposizione di successi già digeriti, è meglio ricordarlo così: ubriaco fracico mentre fornica in mezzo al mare.

Pooh – "Rubiamo un’isola" ( 1979)

"Rubiamo un'isola" dei Pooh non è un singolo, ma avrebbe potuto esserlo. È un crocevia tra il folk mediterraneo/balcanico, il kraut elettronico a cassa dritta e il Vangelis più ispirato. "Rubiamo un'isola" è contenuto in quel bignami pop che è Viva e ne assorbe tutto il tiro. Ci sono i bassi serpeggianti di Canzian, i pestoni elementari di D’orazio, il classico tastierone di Facchinetti e un Battaglia in stato di grazia che da solo potrebbe reggere tutto il brano con il suo arsenale di strumenti a corda, dal mandolino al bouzuki.

Notevole è lo stacco finale, in cui i Pooh prendono i Goblin per il collo e li impiccano a suon di basso fretless e grappoli di synth. "Rubiamo un'isola" è un pezzo in cui la vacanza è vista come libertà assoluta, un viaggio della vita, un perdersi in un’avventura selvaggia, quasi anarco-primitivista. La penna di Valerio Negrini si erge contro gli ingranaggi della vita produttiva moderna in maniera dirompente quanto essenziale. Un brano imprescindibile per disintossicarsi dai social e dalla vita quotidiana che accelera ogni cosa. Meglio vivere "con l’acqua nelle scarpe ma col sole dentro l’anima / E un po’ di tempo in più", fidatevi dei Pooh.

Edoardo Bennato – "Tu chi sei" (1993)

Edoardo Bennato è uno dei più importanti rocker italiani e da solo ha influenzato, grazie al suo piglio sperimentale e su di giri, molteplici generazioni. Il suo modo di vedere la musica, eclettico e impossibile da etichettare, lo ha messo automaticamente contro il sistema discografico che lui ha cercato in tutti i modi di seminare anche a costo di apparire incoerente. Nel caso di questo singolo estivo tocchiamo l’apoteosi.

Bennato viene da una serie di successi incredibili, considerati gli anni di militanza nel rock che si porta sul groppone. SI pensi al boom di "Ok Italia", il plebiscito assoluto di "Viva la mamma", l'exploit di "Notti magiche", inno dei mondiali del 1990. Ma nel 1992 la popolarità del nostro comincia seriamente a scricchiolare. Invece di cedere a facili compromessi, Bennato tira fuori un singolo perfetto. Ha un arrangiamento storto, un andazzo musicale inquietante e un testo allucinante. In piena era Mani Pulite, Bennato attacca lo stato e il giustizialismo fine a se stesso. Non ha prezzo il verso in cui Bennato prende per il culo gli italiani che ipocritamente vanno al mare contenti di essere tutti “persone pulite” mentre fino a dieci minuti prima facevano il cazzo che gli pareva.

"Tu chi sei" è un suicidio commerciale, un pezzo che proprio per il suo coraggio ancora oggi non è ricordato da nessuno ma è senza dubbio uno dei migliori brani del Bennato più caustico, che riprende a bastonare il potere dopo anni di ammorbidimento. Oggi questo singolo appare sempre più attuale: una volta gli italiani si lavavano la coscienza tirando le monetine ai politici, ora invece scagliandosi a caso contro gli immigrati . C’è sempre un altro da sé da punire, mentre il colpevole sei proprio tu. D’altronde "Nelle buie discoteche delle notti italiane / Come è bello sentirsi tra persone per bene".

Dobri – "Discocieca" (1981)

È impossibile pensare all’estate senza le discoteche. Non so effettivamente se questo brano sia uscito in estate, ma Dobrilla in arte Dobri non si è mai trattenuta con le uscite estive: nel 1984 pubblica "Rose Rosse", venendo spinta dalle manifestazioni marittime che contano, dal Festivalbar e dalle trasmissioni estive più in voga dell'epoca. Ma tre anni prima, con il nome ridotto di dobri, arriva il rock di "Discocieca".

"Discocieca" è patrocinato da un pezzo grosso come Alberto Radius, cioè la chitarra dei Formula 3 e dei maggiori successi di Franco Battiato. Assieme all'autore Oscar Avogadro, Radius scrive un brano senza peli sulla lingua sulle serate da sballo dell'estate tutte whisky, cocaina, maniaci, ambiguità sessuale e zinne al vento. "In un deserto sarei forse meno sola", canta Dobri, attuale come non mai visto il pop da generazione disagiata di scuola Charli XCX.

Purtroppo Dobrilla finisce velocemente nell'oblio. Di lei si sa pochissimo, ma di sicuro ha lasciato indirettamente un'impronta nell’immaginario collettivo: la sigla di Pollon di fatto si rifà al riff iniziale di synth del suo pezzo “Sarò a casa mia” del 1984. “Sembra talco ma non è…”

Flavia Fortunato – "Delirio" (1982)

Le canzoni di Flavia Fortunato sono una totale allucinazione infilata in una confezione pop-sintetica assolutamente inattaccabile e new romantica, quanto basta per definirla la mosca bianca delle cantanti pop post wave italiane. Se non si era ancora capito, sono un suo fan dissennato.

A parte la commovente "Verso il 2000”, Flavia ha cantato roba assurda come "L'amore è", un brano technopop nucleare ancora adesso trattato come immondizia e invece sintesi di un sentimento collettivo che appare quasi la fredda descrizione di un algoritmo. "Delirio" è il suo esordio, prodotto da Elio Palumbo dei Santo California: un brano reggae perfetto per un'estate delirante. In effetti non si capisce un cazzo, è un eccedere continuo, una melodia che si muove senza centro, un testo incasinatissimo tra stelle con i guanti e regine-ragno. Praticamente quello che accade quando ti prendi un insolazione, è una "Lucida pazzia / che scotta”. La Fortunato, tra l’altro, qui canta ancora in maniera punk e totalmente ineducata. Facciamoci quindi scoppiare il sangue nelle vene anche noi, in una passione senza freno e senza ombrelloni inibitori.

Toto Cutugno – "Un'estate con te" (1983)

Una posizione fuori classifica spetta al grande Toto, che nel 1983 incide questo brano tipicamente estivo che tra pattini, gelosie e immaginario agostano sembra un esercizio di stile costruito a tavolino, con il classico e astuto giro di Do che funziona sempre, citazioni dei Platters comprese. È proprio per questo che risulta avvolgente, nel suo arrangiamento a base di Fairlight e lucidi suoni digitali che evocano situazioni vaporwave. Ma la cosa più bella è il lato B: "Non è lontano il cielo" è un pezzone, forse uno dei migliori brani di Toto. Altro che i Soft Cell: una canzone d’amore micidiale sintetizzata e tesissima, drum machine a stecca, bassi gonfi di chorus, sequenze quasi Carpenteriane che poi si sciolgono nella "sana malattia" del ritornello tipicamente melodico.

Insomma, un perfetto ibrido tra amore e morte. Che poi, si sa, è il sale dell'orgasmo (soprattutto se consumato di notte, sulla spiaggia, alla luce della luna). Ad ogni modo il singolo passerà praticamente inosservato a causa del successo prepotente della celeberrima "L'italiano", del febbraio dello stesso anno, che diventerà un best-seller praticamente eterno. Volendo dimenticarci di questa circostanza, “Un estate con te” rimane un brano adatto per dei “tuffi introversi”: non è che per forza dobbiamo andare al mare spensierati, anzi.

Qui termina il volume uno di una probabile mixtape di successi estivi folgorati mancati. Vi auguro invece di non mancare le vacanze: partite subito, caricate questi brani nei vostri lettori, mollate tutto. Come dice Toto Cutugno “non è lontano il cielo”, figuriamoci il mare.

Demented è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.


Siamo stati al concerto per i 25 anni del primo album del Wu-Tang Clan

$
0
0

Venerdì scorso il Wu-Tang Clan si è riunito per festeggiare il venticinquesimo compleanno del loro leggendario album d'esordio, Enter the Wu-Tang (36 Chambers), pubblicato nel 1993. Tutti e nove i membri del Clan ancora in vita si sono esibiti assieme: RZA, Method Man, Raekwon, Ghostface Killah, GZA, Inspectah Deck, U-God, Masta Killa e Cappadonna. Al concerto c'era anche DJ Mathematics, collaboratore di lunga data del gruppo e designer del loro logo.

Il concerto si è tenuto allo Shrine Auditorium, un locale gremito di fan assembratisi per celebrare quello storico album. Oltre a tutti i suoi brani, il Clan ha attinto anche dal resto della sua discografia e ha invitato sul palco Redman durante la loro collaborazione "How High". Ha partecipato allo show anche Steve Rifkind, fondatore e presidente di Loud Records e SRC Records, che il Clan ha ringraziato per il suo supporto nei primi momenti della loro carriera.

The1point8, il nostro fotografo, ha passato con il Wu-Tang i momenti prima del concerto e gli ha scattato un po' di fotografie nel backstage e sul palco. Le trovate tutte qua sotto.

The1point8 è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Questo articolo è apparso originariamente su Noisey US.

Il mio primo appuntamento con Joan Thiele

$
0
0

Devo uscire con Joan Thiele, che fa la cantautrice e la produttrice ed è fresca di un disco su Universal. La nostra non deve essere un'intervista ma qualcosa che somigli più a una serata piacevole che a una conferenza stampa. Dove portarla, però? L’illuminazione arriva soffermandomi sul titolo del suo album: Tango. Perfetto, allora andremo a ballare il tango! Nel cercare una serata per la data prestabilita scopro con sorpresa che a Milano non c’è qualche serata di tango alla settimana, come pensavo, ma bensì più o meno tre serate ogni giorno. Del tutto inconsapevolmente, solo per comodità, scelgo quella che poi si rivelerà essere una delle più storiche di Milano, quella all’Arci Bellezza.

Passo a prendere Joan alle dieci di sera. Prima di entrare nel locale parliamo un po' di lavoro e, in un raro momento di professionalità, le faccio qualche domanda-da-intervista sulla sua formazione musicale e sulla sua carriera. "Sono del lago di Garda, Desenzano. Mia mamma è italiana, di origini napoletane, mentre mio papà è svizzero-colombiano. Sono nata sul lago, sono cresciuta in Colombia, poi io e mia madre siamo tornate sul lago quando avevo sette anni e sono rimasta lì fino alla maturità. Poi sono andata in Inghilterra, e poi a Milano".

Le chiedo se è vero che è venuta a vivere qua per una storia d’amore, come si legge da qualche parte: "In realtà sono andata via da Londra perché mi ero innamorata di questo trombonista inglese. Ho girato un po', poi a ventidue anni, sola e col cuore spezzato, sono tornata in Italia. Sono tornata sul lago ma non c'era molto da fare, e quindi ho deciso di venire qua".

E ancora: "Facevo già musica e ho iniziato a suonare nei localini, dappertutto. Non mi facevo scrupoli, scrivevo a chiunque per suonare. Arrangiandomi da sola, senza una struttura dietro, e senza neanche un disco. Avevo un bel po' di pezzi però, e li portavo live, tutto in acustico. Ho iniziato a suonare sempre di più, conoscere gente, mi sono appassionata all'elettronica, ho iniziato a usare programmi, smanettare, fare un po' di produzioni. Ho conosciuto gli Etna, con cui poi ho prodotto il disco, abbiamo iniziato a lavorare. In un localino ho conosciuto una ragazza di Universal e anche il rapporto con l'etichetta è nato così, un po' alla vecchia”.

Le chiedo come ha cominciato a suonare: "Ho iniziato a studiare la chitarra a dodici anni perché ero appassionata dei Led Zeppelin. Non ascolto molto roba simile a quella che scrivo. I miei idoli erano Crosby, Stills, Nash e Young e il mio sogno era essere Jimmy Page. La colpa è della mia babysitter Cecilia, è lei che mi ha trasmesso l'amore per la musica. A nove, dieci anni mi sparava i Led Zeppelin. Ma anche i fratelli delle mie amiche, dato che ti attacchi un po' a quelli più grandi per scoprire le cose. A scrivere ho cominciato verso i diciotto. Stando a Londra mi veniva naturale farlo in inglese, il che non pregiudica farlo in italiano prima o poi".

Entriamo nel giardino del locale e prendiamo i primi di una lunga serie di gin tonic (per me) e moscow mule (per lei). Io non sono mai stato a una serata di tango e provo a farmi spiegare da lei la differenza tra tango e milonga, ma scopro che anche lei non è così ferrata sull'argomento. "Il fatto che abbia chiamato il disco Tango non è assolutamente legato al ballo, il motivo principale è il significato della parola. Mi affascinava il significato latino da tangere, toccare, emozionare, sedurre. Questo per me è un disco molto intimo e emozionale quindi ho trovato che fosse un titolo giusto. È un disco molto legato a mio padre, al Sud America e alla mia famiglia".

"L'ho iniziato nel 2016 quando sono andata a Armenia da mio padre, vicino a Bogotà, nella zona Cafetera", continua. "Si era ammalato e volevo stargli vicina, quindi sapevo che mi aspettava un periodo intenso. E ho iniziato a scrivere. Il primo pezzo è stato 'Armenia'. Don't give it up è un po' un mantra. Fare uscire questo disco è stato terapeutico. Sono riuscita a trasformare tutto quel dolore e quelle emozioni in liberazione totale".

Le chiedo se torna spesso in Colombia. “Una o due volte all'anno. Mi sono portata dietro tutto quello con cui suono. Mi è piaciuto molto anche filmare, cosa che non so fare ma che mi piace, quindi l’ho fatta a livello molto amatoriale: filmando per esempio queste due bambine nostre vicine di casa, che impazzivano per il mio ukulele. Poi da lì sono partita con mia zia e mio cugino, che fa il biologo marino, e abbiamo fatto un mese in mezzo alla giungla. Zero turismo, solo indigeni e paramilitari che controllano il narcotraffico. È una zona incredibile perché è dove nascono le balene. Anche lì ho scritto e fatto un sacco di video. Poi sono tornata da mio padre ancora un po', poi di nuovo a Milano e sono entrata in studio".

Parliamo poi in generale di musica e dei nostri ascolti recenti. "Uno dei miei dischi preferiti degli ultimi anni, che ascolto in maniera compulsiva, è Mala di Devendra Banhart. Poi uno dei miei preferiti è Anderson .Paak. Mi piacciono molto St. Vincent, la seguo tanto, e Anna Calvi". Parliamo bene di qualche collega italiano come Any Other e Generic Animal, di festival come Saturnalia, Zuma e Terraforma, degli ultimi viaggi che abbiamo fatto.

Joan mi racconta ancora della Colombia, di cui è davvero innamorata: "L'edilizia a Cartagena è cresciuta tantissimo. Ha questa zona del centro che è coloniale quindi ha tutte le case colorate, un posto meraviglioso, ma appena esci hanno cominciato a nascere miliardi di grattacieli. Adesso hanno fatto i voli diretti da New York ed è pieno di americani, e c'è un'edilizia senza senso al fianco di un sacco di povertà. La cosa che distrugge di più della Colombia è l'assenza totale di classe media: o sei ricco o sei povero. Vedi il palazzo di quaranta piani e poi il garage con quindici persone dentro.”

A questo punto giunge il momento della classica domanda di prassi in questa serie di interviste di Noisey: quella sui peggiori (e migliori) primi appuntamenti che ci siano mai capitati. "Io in realtà sono piuttosto timida, non è che abbia tutti questi appuntamenti, soprattutto la cosa classica dell’uscita senza conoscersi. Però quello che mi è capitato, e che odio, è uscire con qualcuno pieno di se, che parla solo di se stesso e di quanto è figo, e che non è interessato a quello che hai da dire tu. Odio la gente spocchiosa, in generale. Io sono timida ma anche una cazzona. Una cazzona timida!"

E il più bello? "Una specie di appuntamento al buio! Da piccola ero appassionata di finger picking, e a un festival avevo conosciuto un chitarrista americano, Marcus Eaton, che mi diceva che aveva lavorato con David Crosby. Siamo diventati amici, e un anno e mezzo fa mi chiama e mi dice 'Sono a Milano e ho una sorpresa, ti porto in un posto'. Arriviamo fuori dal teatro Dal Verme, va a bussare a un tour bus e apre David Crosby. Io basita. Avrei voluto dirgli un miliardo di cose, lo ascoltavo e piangevo, uno dei momenti più belli della mia vita. Mi offriva il te e suonava la chitarra. Odio la gente spocchiosa ma ho notato che i più grandi sono super easy”.

Ci apprestiamo quindi a andare verso il fulcro della nostra serata, verso la sala dedicata alle danze, e scopro definitivamente che anche Joan è una principiante. "Non ho mai ballato il tango. Sono finita una volta quasi per sbaglio a una serata di tango verso Porta Venezia, in una sala stupenda, con le balconate, ma non ho ballato. E erano tutti super vestiti! Balli stasera? Facciamo una prova?"

Entrando dal giardino, il primo ostacolo: ci viene chiesto se abbiamo mai ballato. Alla nostra risposta imbarazzata ci viene detto che se non l’abbiamo mai fatto non ci conviene andare in pista, ma stare a lato a guardare. Sì, proprio come gli sfigati che siamo. Ci viene concesso comunque di entrare a vedere com’è la situazione e effettivamente i ballerini sembrano proprio dei professionisti. Ci mettiamo a impezzare qualcuno di quelli seduti un attimo a riposarsi e ci facciamo raccontare della serata e del loro rapporto con la danza.

Tendenzialmente non vengono a ballare le coppie, ma gente che si conosce qui e poi magari alla lunga sviluppa un rapporto fisso allenandosi insieme. Il tango è un lavoro complicato, di pratica continua. Ma spesso le coppie cambiano anche nel corso della serata, soprattutto nei primi anni. È solo dopo almeno un paio di anni di pratica che incominciano a formarsi coppie fisse. Molti ci raccontano che hanno cominciato in gruppo, e poi è diventata una specie di droga. Una ragazza ci dice che ha cominciato perché era un modo per conoscere gente senza dover parlare, visto che già per lavoro deve parlare con la gente tutto il giorno.

Joan chiede se ci si innamora ballando il tango, ma le risposte (oltre a "anche tre o quattro volte a sera") riguardano più altri tipi di connessione, di contatto: non è così comune come si penserebbe che le cose si spingano più in là. Per quasi tutti l’elemento passionale è già tutto nel contatto che avviene sulla pista. Anzi, spesso le coppie già formate scoppiano, ci dicono. "Soprattutto se sono in crisi: se provano il tango per risolvere altri problemi, tendenzialmente il tango questi problemi li fa esplodere".

Notiamo che il DJ Roberto Nicoli, veterano del genere, suona con due computer davanti. Andiamo a chiedergli perché. Ci dice che è perché ha paura che uno dei due si impalli, e così ha sempre il secondo pronto a intervenire. Ci spiega le differenze stilistiche tra i vari tipi di tango e che i pezzi che vanno di più sono quelli degli anni Quaranta, Cinquanta e al massimo Sessanta, e che i quattro pilastri che non mancano mai sono Pugliese, D’Arienzo, Troilo e Di Sarli.

Joan comincia a appassionarsi alla questione e la prendo in giro chiedendole se il prossimo disco a questo punto lo farà veramente di tango. Non lo sa, ma sicuramente comincia a prospettare seriamente l’ipotesi di iscriversi a un corso.

Usciamo a fumare una sigaretta. "È strano per me fare interviste: fai comunque un lavoro in cui ti apri, però raccontarlo esplicitamente è diverso. Io sono una persona timida. Ma in un contesto del genere è meglio, mi devo un attimo abituare, però così almeno ci si conosce, è più informale e viene più spontanea".

Verso la fine della serata danzante giunge anche per noi il momento di scendere in pista, assistiti da alcune delle persone con cui abbiamo parlato. Tra qualche imbarazzo e molti piedi pestati, balliamo un po’ tra di noi ma anche assistiti da alcuni esperti che provano a metterci sulla strada giusta. Sorprendentemente, per l’uomo forse è più facile: essendo quello che conduce è più difficile sbagliare. Ricevo quindi anche qualche mezzo complimento, nonostante sia sicuramente meno portato di Joan. Intanto ci chiediamo come facciano a non calpestarsi i piedi in continuazione ("Impari, ci vuole pratica. È come quando impari a suonare uno strumento").

Rimaniamo in pista finché le luci si spengono. Quando usciamo è ormai notte fonda e decidiamo di andare a mangiare qualcosa. L’opzione migliore è il vicino Chiosco Maradona, aperto tutta la notte e rinomato per i suoi panini gourmet. Io sono di casa, ma scopro che anche Joan lo conosce bene. E fa notare peraltro che dopo il tango anche Maradona farà proseguire la nostra serata all’insegna dell’Argentina.

Tra panini, birre e amari ci godiamo la raffinatissima selezione musicale del chiosco fatta di Jennifer Lopez, "La Gasolina" e Sean Paul, esaltandoci entrambi quando parte “Pem Pem" di Elettra Lamborghini e facendo altre chiacchiere, che acconsento di fare a registratore spento. Sono ormai le quattro del mattino quando la riaccompagno a casa e, per quanto mi riguarda, sono sicuro di avere passato una serata diversa e divertente. Fossero tutti così i primi appuntamenti. Inoltre ci ho anche guadagnato un bellissimo accendino che Joan mi ha regalato e che potete ammirare nella foto qui di seguito.

Federico è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Una setta suicida vuole fare causa a Lil Uzi Vert

$
0
0

Era il 1997 quando la cometa di Hale-Bopp passò vicino alla Terra. Per la maggior parte degli esseri umani fu un evento come un altro, ma per 39 persone significava qualcosa di più. I membri di Heaven's Gate, una setta fondata da un ex-sacerdote cattolico, erano convinti che nella scia di quella cometa ci fosse un'astronave che era arrivata a prenderli per salvarli. Il mondo stava per finire e gli alieni erano arrivati a salvarli e a farli evolvere in qualcosa di post-umano. Ma come salire sull'astronave? Bé, ma con un bel suicidio di massa, che domande.

Lungo il corso di tre giorni, 39 membri della setta si suicidarono bevendo veleno e mettendosi dei sacchetti in testa. Heaven's Gate entrò così nella storia assieme ad altre sette finite in tragedia, come quella del reverendo Jim Jones. C'è stato però un fattore che ha contribuito a rendere Heaven's Gate davvero famoso: due membri ancora in vita continuano ancora oggi a tenere in attività il sito ufficiale della setta e hanno caricato su Vimeo diversi video deliranti.

Il sito di Heaven's Gate ha una grafica pazzesca, perfetta per affascinare una generazione fissata con la retromania grafica post-vaporwave e gli spigoli del primo internet. Una generazione di cui fa parte anche Lil Uzi Vert, che non ha mai nascosto la sua passione per i colori accesi, le forme buffe e lo spazio. Non dovrebbe quindi essere troppo una sorpresa l'artwork del suo nuovo album, che si intitola Eternal Atake.

Bello, no? Molto. Ma avete mai visto il logo di Heaven's Gate? No? Eccolo.

Notate una somiglianza? Anche gli amici di Heaven's Gate l'hanno notata e hanno deciso di fare qualcosa: indignarsi. Un rappresentante della setta ha dichiarato a Genius che Lil Uzi "sta usando e adattando immagini registrate che ci appartengono senza il nostro permesso, l'infrazione verrà gestita dai nostri avvocati". E ha aggiunto che "Non si tratta di uso leale o di una parodia, è una chiara infrazione".

Sinceramente, qua da Noisey speriamo solo di poter ascoltare Eternal Atake il prima possibile e di farci portare verso le stelle del cielo dalla vocina nasale di Lil Uzi. Ci auguriamo quindi che gli amici di Heaven's Gate mollino il colpo e continuino a ragionare sul rapporto tra Dio, gli alieni, la Terra e la loro mortalità senza rompere le scatole al rap.

Elia è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Siamo stati a NeXTones, dove la roccia prende vita

$
0
0

Domodossola non è soltanto una città che inizia con la D. È anche un punto nevralgico per il turismo, una terra di confine circondata da montagne in cui si scontrano da un lato il rigore e la mentalità montana e dall'altro la voglia di diventare un punto di riferimento internazionale.

È anche la casa di Tones On The Stones, un format artistico unico che dà spazio a spettacoli di vario genere e per diversi tipi di pubblico, dalle sonorizzazioni live di film a concerti di musica classica, tango e teatro. Ma non solo.

NeXTones è il festival internazionale di musica elettronica e arti digitali nato all'interno del più vasto cartellone di Tones On The Stones. Giunto alla sua quinta edizione ha ospitato, negli anni, artisti del calibro di Andy Stott, Fennesz, Clark e Holly Herndon, tanto per citarne alcuni.

Ha una particolarità: tutti i live si svolgono all'interno di una cava di estrazione. Provate a immaginarvi di ballare circondate da pareti rocciose, immerse nel buio e nel silenzio dei boschi. Una resa acustica praticamente impossibile da replicare per uno spettacolo reso ancora più particolare dall'utilizzo di visual dinamici, proiezioni e laser.

La cava. Foto per gentile concessione di NeXTones.

È strano pensare che sono scappata proprio da quei monti più di 10 anni fa: non so se sappiate cosa voglia dire crescere in un paesino di montagna, dove metà della popolazione non si è mai spostata dal proprio centro abitato e il massimo a cui ambisce è la sequela di sagre e manifestazioni cittadine ad alto contenuto alcolico, sostenute dalla cover band di Ligabue. Praticamente un incubo. Se non fosse che la bellezza di quei luoghi ti rimane scavata in testa e non c’è alcuna città del mondo che possa reggere il confronto con il panorama visto dall’Alpe Devero.

La prima serata del festival è interrotta bruscamente da un forte temporale, lasciando il tempo di esibirsi solo a Petit Singe. L’artista bengalese trapiantata a Milano riesce a concludere con difficoltà il set in cui ha presentato Akash Ganga (bel titolo che in italiano significa "Il Gange del Cielo"), il suo terzo disco prodotto da Haunter Records. Le nubi nascondono il manto stellato sopra la cava ma, devo ammettere, il suono dell’acqua che scroscia dagli alberi dona all’esibizione un’aura mistica e delicata. Il sound di Hazina è fortemente strutturato su poliritmie a metà tra la tradizione occidentale e quella orientale, quest’ultima amplificata dalle improvvisazioni sulla tabla indiana. Il risultato è un contrasto tra una superficie eterea, intima e melodica e un nucleo dalla forte intensità percussiva e destrutturata, che poggia su ritmi disordinati e bruschi rumori digitali che si infrangono sulle pareti rocciose rendendo la sua figura ancora più minuta.

Approfitto dell'interruzione della serata per scambiare due chiacchiere con Danilo Cardillo, consulente artistico del festival nonché promoter, organizzatore e responsabile di Basemental, una piattaforma per la promozione e distribuzione di spettacoli focalizzata in particolare su nuovi stili musicali e nuove tecnologie, specializzata nella realizzazione di eventi multimediali immersivi. Nel roster di Basemental si trovano alcuni dei più importanti artisti di musica elettronica contemporanea, come Oneohtrix Point Never, Tim Hecker, Ben Frost e Demdike Stare.

Danilo mi spiega che organizzare un festival di questo tipo ha sicuramente dei pro e dei contro. L’aspetto più interessante è sicuramente il potenziale “site-specific” della proposta: il loro obiettivo è offrire spettacoli che interagiscano il più possibile con lo spazio che li ospita. L’aspetto più complesso da gestire è quello organizzativo: "Si tratta sempre di cave in funzione, di conseguenza ogni uno o due anni bisognare cambiare location e ricominciare da capo. Il lavoro in cava inizia almeno una settimana prima dell’apertura. Vista la lontananza dagli aeroporti anche la parte di logistica è leggermente più complicata rispetto a un evento che si svolge in città, ma dobbiamo dire che per molti artisti è un piacere passare l'intero weekend con noi, visto che siamo in un’area unica al mondo”.

Quest'anno il festival ha anche testato le Xperience, una serie di attività legate al territorio circostante il festival ma non alla musica. Tra avventure nei torrenti, trekking, zipline, ho trovato anche qualcosa di più adatto alle capacità ginniche di una come me: una visita al villaggio-laboratorio di Ghesc.

Maurizio Cesprini viene a prendermi verso le 10 in centro a Domodossola e insieme ci dirigiamo verso questo piccolo borgo che per decenni ha giaciuto addormentato nel cuore di una foresta nei pressi di Montecrestese, prima che lui e la sua associazione (Associazione Canova) lo ristrutturassero completamente, a mano, rivalorizzando l'architettura rurale. Ora qui si tengono campi scuola in collaborazione con università da tutto il mondo, ma anche convegni, conferenze, feste, concerti. Quando arriviamo a Ghesc rimango totalmente affascinata dai suoi racconti. Mi spiega come datare gli edifici: “Vedi, lì dove ci sono le scale retrattili in legno vuol dire che la costruzione è meno recente rispetto a questa con le scale esterne. Le facciate rivolte verso sud sono invece coerenti con il cambiamento di clima della piccola era glaciale del XVI secolo”. Mi spiega che per riparare il tetto di uno degli edifici ci ha messo più di tre anni e come ha restaurato la sua casa pietra dopo pietra.

Ben Frost. Foto dell'autrice.

Arriva la sera. Ben Frost sale sul palco a piedi nudi, come volesse creare una connessione con la pietra delle cave che, da lì, a poco, farà da sfondo a visual stroboscopici e annichilenti che, man mano, lasceranno spazio a forme più naturali e seducenti, come grandi nuvole blu e pareti glaciali, moltiplicate da teli riflettenti.

L’elemento visuale è stato molto presente nel percorso di Frost sin dai tempi di Aurora, quando l’artista australiano aveva realizzato uno studio multi-sensoriale sul concetto di abrasione grazie ai mini-film di Trevor Tweeten e Richard Mosse, con i quali ha anche collaborato per l’installazione Incoming, che poneva al centro il tema dell’esperienza umana della migrazione. Frost ha poi portato in scena una sonorizzazione del film Solaris di Andrej Tarkovskij e ha inoltre realizzato l’intera colonna sonora del telefilm Netflix Dark. A NeXTones ha presentato The Centre Cannot Hold, il suo quinto album registrato da Steve Albini, con MFO (che si era occupato anche dei live di Aurora) all’impianto visuale.

Il musicista e compositore, ora di base a Reykjavík, sembra aver assorbito la natura desolata e solitaria della nuova terra, amalgamandola però con il ritmo e calore delle lande australiane. I suoni creati da Frost sono una miscela di minimalismo e black metal come dentro una camera iperbarica, fortemente pressurizzati. MFO s’è ispirato al Mare del Nord per creare i visual che accompagnano questo live, unendo immagini dell’oceano a filmati realizzati in studio, dando vita a frame drammatici e ondulati che portano alla deriva visiva lo spettatore, annientando i punti di riferimento statici, come in un regno di movimento senza fine. Le bordate di suono sono come lame taglienti, armonie lamentose che si accumulano una sull’altra e risuonano con profondità, mentre la figura irrequieta di Frost resta china sulle sue macchine.

“Non ho mai visto niente di simile”, mi dirà nel backstage.

Lumière III. Foto di Robert Henke, per gentile concessione di NeXTones.

Il momento più atteso del festival è sicuramente quello della performance Lumière III di Robert Henke. L’ingegnere e sound designer tedesco è uno dei più importanti protagonisti dell’elettronica mondiale anzi, potremmo dire che ne è quasi il padre della versione più contemporanea dato che è uno dei creatori di Ableton Live.

A NeXTones ha presentato l’ultima di una serie di performance audiovisive che esplorano il dialogo artistico tra laser ad alta precisione e suoni percussivi. Il software realizzato dall’artista è in grado di tracciare rapide successioni di figure astratte associandole a eventi sonori. Se non avete capito che cosa ho scritto qua sopra, ve lo ripeto in modo più semplice: se non ci eravate, vi siete persi uno dei live più incredibili della vostra vita.

Henke ha giocato con la parete più vasta, creando figure geometriche tridimensionali e minimali in un contrasto tra luci intense e buio assoluto, coinvolgendo anche gli alberi che circondano la cava e trasformandoli in figure aliene che sembravano volerci trasmettere un codice fatto di date, geroglifici, simboli chimici. Un dialogo arcaico e futuristico allo stesso tempo, dove ogni elemento in campo fa sentire la propria voce: le striature della pietra prendono vita grazie alla luce, arrivando ad assomigliare a figure umane volteggianti. Ma Lumière III è anche un omaggio al cinema e alle sue sperimentazioni: impossibile, infatti, non riconoscere tra quelle figure un chiaro rifacimento a Matrix III del pioniere della computer graphic John Whitney realizzato in collaborazione con Terry Riley, che si è occupato della soundtrack. In alcuni parti il live di Henke è pressoché identico.

Il numeroso pubblico rimane in silenzio per tutta la durata, applaudendo rumorosamente sul finale.

Lumière III. Foto di Robert Henke, per gentile concessione di NeXTones.

Il palco viene poi lasciato a Max Cooper che dovrà darsi davvero da fare per poter competere con i live che lo hanno preceduto. L’artista irlandese nell’ultimo decennio è diventato il protagonista di sonorità che mescolano la sperimentazione elettronica più emozionale con un sound design e un impianto visuale straordinari.

Mi guardo attorno e cerco di capire se tra i presenti c’è qualcuno che conosco: un ex compagno di scuola, un compaesano, un vecchio amore. Purtroppo mi accorgo di come sia quasi impossibile trovare un local, e la cosa mi intristisce parecchio.

Nel frattempo Cooper porta all’estremo il suo live fatto di universi, città organiche e stringhe di DNA, andando a scavare negli animi dei presenti grazie ad un approccio metodico, quasi chirurgico, a quella che possiamo definire un’elettronica “scientifica” e che forse per questo, almeno a me, risulta un po’ fredda.

Arrivano un gruppo di addio al celibato con una bambola gonfiabile. Fa sempre più freddo e tutti si scaldano ballando fino alle 4 del mattino. Per questa volta salterò l'after.

Serena Mazzini fa parte del collettivo ANW e ha fondato l'etichetta DIY Tanato Records. Seguila su Facebook e Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Cosa significa l'ingresso di Gué Pequeno in BHMG?

$
0
0

Nel 1996 VIBE pubblicava una copertina iconica che illustrava i quattro capisaldi del braccio della morte del rap americano su uno sfondo nero, i quali osservavano il lettore come una versione più stilosa della Gioconda. Snoop Dogg, Dr Dre, Tupac e Suge Knight aka la Death Row e quella foto sono così iconici che i riferimenti e gli omaggi sono all’ordine del giorno – solo qualche settimana fa Radio Raheem ha trasmesso uno show con la copertina che li citava, se vogliamo in qualche modo anche la copertina di Full Metal Dark ricorda quell’atmosfera — che non è davvero un caso che Sfera, Charlie e Shablo abbiano pescato da quell’immaginario per annunciare l’ingresso di Gué Pequeno in BHMG, prima Billion Headz Money Gang, ora Billion Headz Music Group (ma anche Billion Headz Money Gué, il perché lo capiremo dopo).

Ma cosa vuol dire che Gué Pequeno ha firmato per BHMG? Ora, ovviamente il tutto è qualcosa di simbolico, le persone che lavoreranno con Gué sono sempre le stesse (Shablo, in primis), ma negli ultimi anni abbiamo visto che a G Pek i loghetti piacciono molto — e non a caso, ogni marchio può e deve significare qualcosa, alla fine siamo nel rap, l’ostentazione è un caposaldo. Tanta Roba all’inizio significava “sono il più grosso e concedo un po’ della mia grandezza agli altri”, come poi hanno provato a fare in molti non con lo stesso successo (Salmo, Fedez nah mean?) e Def Jam significa(va) “sono il primo italiano a uscire come stessi all’estero”, un concetto che Gué ha sempre voluto mettere bene in chiaro.

Quello di BHMG, però, è il primo simbolo in cui almeno apparentemente, Gué Pequeno si mette al servizio di qualcosa di più grande di lui senza poter dire di essere né il primo né il migliore. La storia ovviamente parla chiaro, ma firmare per quella che per tutti è l’etichetta di Sfera e Charlie è davvero un passo indietro?

Chiaramente no, non lo è. BHMG come nuovo management di Gué Pequeno ha un valore importantissimo per tutte le parti in causa: Sfera e Charlie possono urlare ai quattro venti di aver riscritto la storia, come più volte hanno urlato al mondo di aver fatto, e questa volta nessuno potrà dire il contrario. Alla fine due ragazzi che fino all’altro giorno erano perfetti sconosciuti e che avevano usato il loro potere solo per spingere nuove reclute, ma oggi usano il loro potere per dare nuova linfa vitale a uno dei migliori rapper della nostra storia. Per Gué, invece, vuol dire molto di più: innanzitutto, per l’ennesima volta si mette in gioco in un terreno apparentemente non suo e sarà pronto a spaccare il culo (lo ha fatto da solista senza i Dogo, lo ha fatto con il peso di Def Jam sulle spalle, lo farà ora in un campionato di “ragazzini”).

In secondo luogo se c’è qualcosa che ci ha insegnato la nuova scuola è che l’unione fa la forza. Se, come era prevedibile, le strade dei vari Sfera, Ghali, Rkomi e Tedua si sono divise, è normale che ora si formino nuove squadre. Chi non vorrebbe stare in una squadra composta dall’artista più venduto e probabilmente più influente d'Italia, da un rapper che da vent’anni gioca ai livelli massimi di questo campionato e da un produttore che ha messo il pepe al culo a tutti i colleghi?

Sicuramente presto ne sapremo di più, anche perché l’album di Gué sembra essere alle porte. E chissà che, almeno a livello metaforico, non siamo pronti ad accogliere un nuovo Doggystyle.

Tommaso è su Instagram.

Segui Noisey su Instagram e su Facebook.

Viewing all 3944 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>