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Fotografie dal backstage del video dei Tauro Boys "2004/2005"

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Avete visto il video dei Tauro Boys (feat. Tutti Fenomeni) "2004/2005"? Dovreste. È una bella botta di nostalgia tra feste in casa, beer pong e primi esperimenti con le droghe, esattamente il tipo di roba che i vostri genitori non vorrebbero mai sentire uscire dalle vostre casse e di conseguenza esattamente la musica e il video che fanno per voi.

Siccome Noisey è Tauro honoris causa e Prince, Maximilian e Yang Pava sono amici nostri, ci siamo fatti passare un po' di foto del backstage del video, così capiamo meglio che atmosfera si respirava quando "andavamo in terza e tu facevi la quinta".

Tutte le foto sono di alezz.pizza.

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Il Sud Africa balla a ritmo di kwaito

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Per molti aspetti, il Sudafrica è un paese in fase transitoria quasi permanente. All’inizio degli anni Novanta si è risollevato dopo decenni di Apartheid e supremazia bianca per trasformarsi in quella che molti hanno definito la “nazione arcobaleno”. Il termine, coniato dall’Arcivescovo Desmond Tutu dopo le elezioni democratiche del 1994, voleva rappresentare la comunità inclusiva e multirazziale che ora convive in pace nel paese, portando una ventata di ottimismo contagioso.

Con il “nuovo Sudafrica” emerse anche un nuovo genere musicale: il kwaito nacque per dare voce e speranza ai milioni di cittadini neri di tutto il paese. Il Kwaito—BPM non troppo elevati, bassi potenti e una netta somiglianza con l’house music—fu di fatto la colonna sonora della democrazia nascente. Nel 1995 Arthur Mafokate, anche conosciuto come il “re del kwaito”, pubblicò “Kaffir”, un pezzo in cui faceva satira sull’uso che i sudafricani bianchi facevano di quel termine, equivalente locale del termine razzista “nigger”. Tre anni più tardi i Boom Shaka pubblicarono “Nkosi Sikelela”, in cui rivisitarono l’inno nazionale con un testo nuovo tra mille polemiche.

In risposta alle accuse Junior, un membro del gruppo, dichiarò: “Non stiamo insultando nessuno, questa è solo la nostra versione… [molti ragazzini] non conoscono nemmeno il testo originale della canzone. La reazione alla nostra versione è stata incredibile, la adorano.” L’iniziativa, incompresa e criticata fortemente all’epoca, è forse uno dei migliori esempi di quello che rappresenta ancora oggi la musica kwaito per il paese: rimettere in discussione il progetto della nazione arcobaleno, criticarlo quando necessario e definire il proprio concetto di libertà.

La musica kwaito esiste fin dalla nascita della nazione arcobaleno. E ha continuato a esistere fino al crollo di questo progetto utopistico all’inizio degli anni 2000. Ma quindi cosa resta oggi di questo genere dimenticato? La faccenda è complicata. Occorre probabilmente precisare che, nel 2018, il kwaito non si può più chiamare “kwaito”. Il genere è profondamente mutato, dando vita a diversi sottogeneri quali il Durban kwaito a KwaZulu Natat, lo skhanda (un genere rappresentato dal rapper KO che unisce kwaito e hip-hop) a Johannesburg, il kwai-hop a Soweto e il kaito new-age di Okmalumkoolkat, Cassper Nyovest e Riky Rick.

Ad aprile ho visto due esponenti della nuova generazione kwaito esibirsi a Braamfontein. Kid X—rapper dell’etichetta skhanda Cashtime—ha suonato alcuni pezzi in chiave kwaito davanti alla folla in visibilio del club Republic of 94. Kid X ha acceso il pubblico con il tradizionale schema kwaito botta-e-risposta che applica a pezzi come “Aunty” e “Pass ne Special”, che ricordano il genere nelle loro sonorità roche e nel ritmo rallentato delle percussioni.

Poco lontano da lì, in un noto pub chiamato Kitcheners, ho visto in concerto il duo future kwaito Stiff Pap, di Città del Capo, dove nei quartieri di Rondebosch e nel vicino Observatory anche i Bougie Pantsula stanno reinterpretando il kwaito. Quella sera, gli Stiff Pap sono riusciti a conquistare il pubblico con un mix di gqom, kwaito ma anche drone music e sonorità industrial. Entrambe le band, i cui membri studiano all’università di Città del Capo non si definiscono band di kwaito ma si ispirano apertamente al genere. Ed è proprio questo, forse, il contesto migliore per lo sviluppo di un nuovo kwaito. Una produzione musicale ispirata ai predecessori dei primi anni Novanta—da cui prende in prestito le tavolozze di colori, lo slang e la cultura pop—ma reinterpretata in chiave moderna, per una generazione che è cresciuta con MTV e internet. Ma per capire quali saranno i futuri sviluppi del genere, è fondamentale ascoltare e scoprire i nuovi artisti che lo stanno reinterpretando.

Stiff Pap

Prendi il basso e il ritmo del kwaito, uniscilo al drone, aggiungi un po’ di gqom e house: questi sono gli Stiff Paff, un duo di rapper e producer spesso definiti come una band di future kwaito—etichetta che i diretti interessati non amano molto. Il loro produttore Jakinda ha fortemente influenzato le sonorità di pezzi come “Jaiva Pantsula,” “Amagroovist” e “Dlala,” del loro primo EP. Lo stesso, ha prodotto anche pezzi kwaito per altri artisti, tra cui Mx Blouse, rapper genderqueer di Johannesburg.

“Entrambi ascoltiamo musica kwaito” spiega il rapper Ayema. “TKZEE, Zola e più recentemente KO sono tra gli artisti che ascolto di più. Ma quando sono in studio, l’influenza è inconscia.”

Bougie Pantsula

“L’origine del nostro nome è piuttosto bizzarra,” dice Matt Ryan, producer e metà del duo Bougie Pantsula assieme al rapper Just Jabba. “Siamo entrambi di ekasi, il quartiere, ma abbiamo frequentato scuole per bianchi e volevamo che questo venisse fuori nel nome. Bougie Pantsula rappresenta proprio questo. Bougie è il mondo in cui ci siamo ritrovati, noi ragazzini neri in una scuola privata per bianchi, e Pantsula si riferisce al nostro background nel quartiere.”

La pantsula è una danza nata in Sud Africa negli anni Cinquanta, durante il periodo di segregazione razziale, nei villaggi abitati dai neri. Si è poi sviluppata in una forma espressiva da cui è nato anche un certo stile nel vestire, e che ancora oggi caratterizza la cultura kwaito. I cappelli alla pescatora, l’uso dello tsotsi-taal (cioè il dialetto locale) e la vocazione politica del genere sono in qualche modo nati dalla pantsula.

Ad aprile i Bougie Pantsula hanno pubblicato il loro primo EP su Soundcloud. Ci sono influenze hip-hop e house, ma il suono di base resta inequivocabilmente kwaito. In “Ungajumpisi”, Just Jabba racconta del suo incontro con una ragazza a una festa in un mix di isiZulu e inglese su una base fatta di accordi melodici, pacchi di synth e ritmi incalzanti. La seconda parte del pezzo vira verso l’hip-hop e gli elementi classici del rap, tra cui versi contro gli hater e la paura.

Batuk Music

Spoek Mathambo e Carla Fonseca coniugano sapientemente kwaito e house music nel loro progetto Batuk Music. Se normalmente la loro produzione musicale spazia tra house music, kwaito ed elettronica, il loro Move! EP può essere definito un prodotto essenzialmente kwaito, “molto più di tutto il resto della nostra produzione,” conferma Fonseca. “È stato il nostro tributo al kwaito anni Novanta, in particolare con ‘Dala What You Must,’ ‘Niks Mapha’ e ‘Move.’ D’altronde, siamo cittadini sudafricani cresciuti negli anni Novanta. Il kwaito ha avuto una forte influenza culturale e musicale su di noi. È una cosa che va oltre la musica: arriva a toccare lo stile e l’atteggiamento, il linguaggio e l’orgoglio per le nostre origini.”

Darkie Fiction

Come i Bougie Pantsula, questa coppia di artisti e performer esprime attraverso la musica le due anime della propria cultura. “È l’unione tra il mio passato nell’area rurale della provincia del Capo Orientale e il background suburbano di Yoza che ha vissuto nella zona di East London,” spiega il rapper Katt Daddy. Dalla natura incontaminata, alla metropoli in continuo fermento, il risultato è una produzione artistica che rispecchia le due culture, apparentemente agli opposti, e ne celebra i punti in comune.

Katt, con il suo passato da rapper, compone versi onesti e dal ritmo lento, mentre Yoza canta i ritornelli e le strofe con un registro di ispirazione soul. Dal punto di vista visivo e musicale, ricordano una versione kwaito new-age di Bonnie & Clyde, alle prese con una cultura mainstream piuttosto chiusa e retrograda.

“Vi ricordate quanto era rilassata l’atmosfera in passato?” chiede Yoza. “La nostra musica si ispira proprio a quel sentimento nostalgico. Il nostro singolo d’esordio, ‘Selula’ è un gioco di parole. Selula è un cellulare ma nella lingua isiXhosa può essere tradotto con ‘quando era semplice’. Quindi la canzone parla di come i cellulari abbiano complicato tutto e ricorda con un filo di nostalgia l’epoca passata—quando da bambini non avevamo nulla di cui preoccuparci.”

Dopo “Selula”, è stata la volta del singolo “Bhoza,” dove su un groove di batteria trascinante, il duo parla di superare gli ostacoli. Il pezzo sarà inserito nel primo EP del duo, Sobabini (“noi due”), che sarà pubblicato a breve.

Riky Rick

Riky Rick viene spesso definito un rapper, ma lui si considera un artista kwaito a tutti gli effetti. Il fenomeno di Johannesburg mutua da sempre slang e stile dal tradizionale genere sudafricano, con le sue giacche di pelle, il cappellino alla pescatora e gli anelli in oro.
Riff di basso graffianti, cassa e charleston veloci scandiscono il ritmo, proprio come nei brani tradizionali kwaito. Lo scorso anno, ha detto a Pause Magazine che nonostante le persone lo considerino un rapper, lui si sente profondamente kwaito. “Sono un artista kwaito. Il kwaito è il mio genere principale,” spiega. Pezzi come “Boss Zonke,” “Amantombazane” e “Stay Shining”—il cui video è deliberatamente ispirato al leggendario gruppo kwaito TKZEE e alla loro “Dlala Mapantsula”—ne sono la prova. Nel video di "Stay Shining", Riky Rick rappa su un ring di boxe, proprio come avevano fatto TKZEE in uno dei loro videoclip più noti, mentre la scena in cui, insieme alla famiglia, posa davanti a casa prima di entrare a vedere la TV è ripresa da "We Love This Place" (un’altra hit TKZEE).

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.

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Gli stadi hanno incoronato Cesare Cremonini re del pop italiano

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Stasera su Rai2 andrà in onda Una notte a San Siro, l'ultimo concerto di Cesare Cremonini a Milano. Sono contento perché finalmente lo vedrà anche mia madre, dopo un mese che non le parlo d'altro.

Non è un live qualunque, per lui e per l'Italia. In primis perché si tratta della sua prima tournée in assoluto negli stadi dopo una rincorsa partita nel 1999 e arrivata a destinazione solo ora, dopo anni passati in tono decisamente minore. Ma non lo è soprattutto perché il Cesare Nazionale non incarna certo il prototipo del cantante da stadio all'italiana.

Qui da noi, se vai a vederti un concerto a San Siro lo fai per assistere alla performance di un artista internazionale, che si tratti di popstar affermate e credibili o di autentici dinosauri. In altre parole, lo fai se ci sono Beyoncé e JAY-Z, se ci sono i Depeche Mode. Al contrario, di italiano c'è poco a cui assistere: fra proposte non all'altezza (Pausini, Antonacci), in cui è difficile persino recitare la parte degli imbucati, e occasioni liquidate magari da una punta di snobismo (qui meglio non fare nomi, ma tranquilli: NON Ligabue), tutto è una cartina tornasole abbastanza fedele del panorama sconclusionato che rappresentano.

Sembra quasi banale, specie dopo l'ultimo asso pigliatutto di Possibili Scenari, sottolineare come invece Cremonini sia una mosca bianca rispetto a tutto ciò, unico e trasversale com'è nel mainstream italiano. Trasversale nel senso di poliglotta, in grado di parlare a tutti tramite un pop assolutamente valido, che travalica i singoli, personalissimi ascolti; trasversale nel senso, soprattutto, di immune a ogni forma di snobismo e pregiudizio, un po' per motivi di cuore (inutile nascondersi: gli si vuole bene), molto per l'assoluta integrità che negli anni, con ostinazione, è riuscito a cucirsi addosso, punto d'arrivo di una ricerca sonora e stilistica credibile e mai paracula, talvolta persino audace (la ballad "Poetica" è tutto tranne che radiofonica, eppure eccola lì in cima alle classifiche) e comunque riconosciuta anche dalla critica più scettica. E poi c'è una poetica solida e arguta: la semplice precisione con cui canta i sentimenti è una qualità che gli ha portato ammiratori da vari campi.

Va da sé, quindi, che gli stadi rappresentino un appuntamento chiave per testare come si tradurrà su un palco tanto grande la sua integrità e per capire se si possa riempire davvero uno stadio di spettatori così diversi. Nel dubbio, io sono andato alla data di Roma dello scorso 23 giugno. Oltre a me quella sera c'erano, a giudicare dalle stories della mia filter bubble, più o meno tutti i tipi di ascoltatori possibili: il mio amico affezionato che lo segue dai tempi dei Lunapop, la ventenne che ha Cremonini come unico credo e il resto (inteso proprio come il resto della scena musicale planetaria) semplicemente lo ignora, la fangirl in prima fila in tempesta ormonale e la mia amica che se la tira tantissimo in quanto ad ascolti ma poi guai a toccarle Cesare. In mezzo, chiaramente, una serie infinita di sfumature mediane.

Che lui fosse uno showman si sapeva, ma il dubbio su come avrebbe risposto al boato di cotanti spettatori rimaneva. Niente turbamenti: un salto nel buio e via. Quando armeggia al synth per l'opener "Possibili scenari", l'impaccio iniziale è già praticamente alle spalle, mentre una presenza scenica straripante (ma mai pacchiana, grazie a Dio) non lascia spazio a timori reverenziali, ma solo alla voracità di chi vede l'Olimpico come un bambino, la mattina di Natale, il giocattolo che più desiderava. E qui, già metà del lavoro è fatto.

Quando poi alla seconda "Kashmir-Kashmir" il tiro si alza e lui, avvolto in una giacca di brillantini, inizia a ballare, davanti passano i riferimenti di una vita.

Freddie Mercury, di cui Cremonini sfoggia anche un tatuaggio a dir poco discutibile, nel senso di una presenza eccentrica perno di uno show colossale, della ricerca ossessiva della spettacolarizzazione glam, con effetti video, laser e coriandoli vari. Ma c'è forse un altro modo per entrare in uno stadio, oggi? Lucio Dalla è l'altro polo, l'altra faccia della sintesi fra cantautorato e pop per vent'anni ambita e finalmente trovata: nazionalpopolare, al pianoforte, groppo in gola e malinconia ("che commozione, che tenerezza", avrebbe detto Dalla), "Le sei e ventisei" e una puttana che magari è la stessa di "Disperato erotico stomp", "PadreMadre" e il ricordo vero dell'infanzia, "Nessuno vuole essere Robin" e forse il momento più bello del concerto.

In due ore di show, Cremonini dà una prova di repertorio enorme, tale da potersi permettere di inserire in scaletta solo cinque canzoni dell'ultimo, applauditissimo, ascoltatissimo, vendutissimo, Possibili Scenari, pur garantendosi lo stesso un ritorno di pubblico assordante. Si procede a ritroso, quindi, verso un passato che riesumato appare ancora più luminoso, che fa pensare che sì, "Marmellata #25" e "PadreMadre" sono proprio belle canzoni e forse le avevamo tutti un po' sottovalutate all'epoca, mentre "Logico #1" è un piccolo miracolo per cui la base EDM non deflagra in una cafonata.

Restano fuori persino classiconi come "Maggese" e "Io e Anna", sostituiti a mo' di rivincita da brani più "difficili", meno noti, come "Dev'essere così" e "Il pagliaccio", rivisitato in una chiave indie-rock un po' bizzarra, mentre sul finale torna anche il periodo Lunapop, con "50 Special" e il rituale conclusivo di "Un giorno migliore".

Così, mentre tutti, ma proprio tutti, cantano a squarciagola le hit ingenue dell'esordio e lui si dimena con vestiti sempre più stravaganti, ci si accorge che Cremonini sul palco può fare quello che vuole. Può farlo perché ha un innegabile talento compositivo, un'integrità prima costruita e poi alimentata e difesa anche quando le cose non andavano bene, perché è l'unica popstar, ora che anche Jovanotti, che comunque con la critica ha da sempre un rapporto più controverso, ha rinunciato a questo nobile intento, veramente solida, credibile e matura che abbiamo.

Può farti cantare i Lunapop, ma non è un guilty pleasure e non lo sarà mai: è un artista che ha una visione della musica chiara, che per rifuggire l'immagine del cantante da ragazzine ha pagato dieci anni di pregiudizi e alla fine è rinato negli stadi, sotto il segno della coerenza col passato e di un pop intelligente e attuale senza copia-incolla, che si diverte e sa divertire, che con eleganza ha trovato la formula per rimanere integro e convincere tutti, guardandosi dietro e poi lontano, da Lucio Dalla all'Inghilterra.

Così, quando ti volti e vedi l'Olimpico pieno (e San Siro, e il Dall'Ara di Bologna), realizzi che Cremonini è veramente l'unico volto del pop italiano in grado di competere su più livelli, il solo in grado di riempire uno stadio di fan tanto diversi, e questo tour è l'ovvia conseguenza di tutto ciò, la consacrazione che mancava. Non si ricicla mai, non ammicca, non cade in tentazione; ci insegna piuttosto che un pop da stadio può avere senso anche qui.

Patrizio è in giro per i colli bolognesi. Seguilo su Instagram.

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Recensione: Deafheaven - Ordinary Corrupt Human Love

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I Deafheaven hanno sempre sofferto di quell’intrinseca ambivalenza, quella roba che li rendeva indigesti al pubblico metal perché troppo indie, e allo stesso tempo li rendeva indigesti al pubblico indie perché troppo metal. Facendo un po’ schifo ad ambo le parti, finivano per prendersi gli insulti di tutti, nessuno ammetteva di ascoltare davvero gli arpeggini di Kerry McCoy e le urla di George Clarke; la verità è che Sunbather aveva fatto impazzire chiunque, perché era un gran disco. E non è vero che quello dei Deafheaven è un pubblico hipster, o meglio, non solo, perché basta andare a un loro concerto per ritrovarsi circondati da capelloni dall’aria incazzata con magliette de Les Légions Noires.

Come nel caso del loro padre spirituale Alcest, anche i Deafheaven hanno finito per diventare una band di discreto successo (dove per successo si intende la possibilità di campare facendo musica) che alterna dischi più luminosi ed episodi più oscuri, a seconda di come gli gira. Se nel caso del nasone francese l’ultimo Kodama è un album cupo, che riporta in alto il progetto dopo quella cacata clamorosa di Shelter, che invece era il disco felicione, per i Deafheaven è l’esatto opposto. Tre anni fa New Bermuda, a dispetto del titolo, trasudava disagio e malessere da ogni nota. Oggi Ordinary Corrupt Human Love è la dichiarazione che va tutto bene, che ci si può dare una ripulita e si può vivere apprezzando le piccole cose e andando a vedere le anatre al parco e dedicandosi alla fotografia d’antan. Ecco, no.

Io capisco il mal di vivere, capisco che anni di vita in tour ti portino agli eccessi e che il down da coca e MD ogni mattina ti faccia pentire di quello che hai fatto la sera precedente, capisco anche che se vuoi fare l’artista nella vita devi rispettare il cliché della rockstar che rischia di ammazzarsi almeno tre volte a settimana, però il disco rehab in cui mi dici “I’m reluctant to stay sad” e che poi “...the world will know of you, of all things love, of all things true” no. Ma che cazzo è, la colonna sonora di The OC?

Musicalmente i Deafheaven sono sempre loro: un po’ più luminosi, con un pezzo in apertura che regala soavi e melliflue note di pianoforte su cui far veleggiare l’amore per la vita e si chiama “You Without End”, ma ancora in grado di spingere e fare blackgaze come si conviene. C’è più varietà, perché “Near” è un (bellissimo) pezzo solo -gaze che richiama da vicinissimo Ride e Slowdive versione pucciosa, perché in “Night People” c’è un duetto (ruffianissimo, ma giusto, perché è l’unico momento in cui non si cantano cose pervase dall’ottimismo cosmico) con Chelsea Wolfe e per tutta una serie di piccoli accorgimenti che ne fanno un lavoro musicalmente interessante.

È il novero di idee alle spalle di questo album a farmi strizzare lo stomaco. “The midnight blue of your calmness like evening chamomile, peppermint.” Siamo seri? Gente che drogata fino al buco del culo si sentiva morire e lo viveva come un sogno adesso ti racconta della camomilla della sera come se niente fosse.

Ordinary Corrupt Human Love è uscito il 13 luglio per ANTI-.

Ascolta Ordinary Corrupt Human Love su Spotify:

TRACKLIST:
1. You Without End
2. Honeycomb
3. Canary Yellow
4. Near
5. Glint
6. Night People
7. Worthless Animal

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L'educazione alla presa bene di Dani Faiv

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Aveva senso che il Dani Faiv di Teoria del Contrario e The Waiter venisse da La Spezia, la città del nord in cui si vive peggio. Cioè, non male. Solo in modo un po' anonimo e scassato. Come il quotidiano di tanti ragazzi di provincia, quelli che vanno a scuola senza troppa voglia, fumano le canne e cazzeggiano in pomeriggi sempre uguali. E poi li mettono nel rap, ma quello vero. Quello delle quattro discipline e dei freestyle fatti per strada in città, quello che fumo la ganja e fanculo la finanza. Quello che portato al suo massimo potenziale per l'epoca, per intenderci, diventava "Welcome to Baggio" di Entics: un inno spontaneo e grezzo buono tanto per gasarsi per le punchline che per dimenticare gli sbattimenti da primo mondo.

Ecco, Dani quello faceva, ma senza una vera gioia. Con passione e mordente, certo, ma crogiolandosi nel nulla invece che reagendogli. Da ragazzino, Dani passava il tempo andando a fumare le canne in una chiesa sconsacrata e si lamentava con i suoi amici di quanto La Spezia facesse schifo. Neanche ci andava tanto, al mare, d'estate. Andava al bar. "È una cosa assurda", dice oggi. "Crescendo apprezzi di più quello che non hai, ovviamente. Fossi rimasto lì mi sarei concentrato sui suoi lati negativi, ma quando esci, te ne vai fuori, vivi da un'altra parte"-(un'ottima climax che rende bene l'idea di quanto valore abbia l'andarsene per un ragazzo di provincia)-"certe cose cominciano a mancarti. O almeno le vivi in un modo diverso".

"Ho fatto le mie cazzate, ci divertivamo, uscivamo", dice Dani, "io non l'ho fatto comunque troppo". Perché se n'è "Andato via di casa presto", come cantava in "Looper", uno dei brani migliori del suo esordio per Machete The Waiter. Non andava male a scuola Dani, dice. In quarta aveva la media del 7 ma scelse comunque di non iscriversi in quinta. E poco prima di compiere diciotto anni partì per Minorca, dove si mise a lavorare come animatore. A portarlo lì fu la monotonia, racconta. Tra quelli che chiama "i suoi fratelli" serpeggiava un senso di disagio, una continua lamentela: "Allora, che cosa facciamo? Questa vita è una merda". E quindi Dani decise di ribellarsi alla stasi e, senza un obiettivo, partire.

A dire la verità, un obiettivo l'aveva avuto per dieci anni della sua vita. Dai sei ai sedici anni Dani fece breakdance, il che gli permetteva di dare un senso alle sue giornate con una passione. Smettendo in nome di quella che chiama "voglia di divertirsi", Dani si rese conto di non avere le idee chiare. Da cui l'abbandono della scuola. "I miei mi hanno odiato. Su quel lato lì sono proprio una merda. Fra, non ho patente, non ho diploma. Però avevo questa voglia di spaccare tutto. Sono andato a Minorca, a Londra, a Palermo. Sempre da solo".

Dopo il via-di-qua, "Looper" continuava dicendo "Cresciuto grazie alla paura". Ma di cosa? Dani racconta. "A Londra mi cagavo addosso. È stata un'esperienza un po' così. Avevo i soldi contati, un budget di 12, 15 sterline al giorno. Uno schifo, sai le docce che puzzano, i letti a castello con 20 persone con la gente che ti scopa a fianco? Dormivo con le valige nel letto per paura [che me le rubassero]. È stato forse il mio periodo più brutto, 'Looper' l'ho scritta pensando anche a quelle situazioni. Ma qualsiasi cosa che fai ti forma e ti aiuta a crescere".

La prima età adulta di Dani è stata segnata da un forte senso di instabilità. Come testimoniano le barre della prima fase della sua carriera, il rap sembrava essere per lui sia un modo di auto-affermare il proprio valore che di lasciarsi scorrere tra le dita i continui ribaltamenti di fronte che la sua vita subiva. "Ho un sogno ricorrente / Uccidevo me o eliminavo il mondo”, cantava in "Contrario della speranza". In "Scompaio" parlava di “Troppi dubbi nella testa che mi ammazzano”. “L'ansia è una cartina che mi fumo tutti i giorni”, sbottava "Pragaras". A risolvere tutto fu la conoscenza di un ragazzo, Pitto Stail.

"Conoscevo un ragazzo che aveva la casa a Sarzana e aveva amici di Milano. Un giorno mi portò uno di loro, Pitto. Quel giorno aveva un microfono con sé registrammo un pezzo". Quell'esperienza fu tanto elementare quanto rivoluzionaria per Dani, che ricorda di avergli detto "Tu sei la persona giusta, che ha la fotta mia. Ora ho le idee chiare, ho trovato te, vengo a Milano". E così fece, facendosi ospitare da Pitto nella sua casa di Melzo, a pochi chilometri a nord dalla città. Dani ricorda: "Pagavo l'affitto a sua madre. Vivevamo in una situazione un po' strana, la sorella-poverina-è andata a dormire con la madre per fare dormire lui con me e altri due cani". Lì sarebbe rimasto tre anni, lavorando a Sesto San Giovanni e sviluppando il personaggio-cameriere che avrebbe poi raccontato una volta che il rap sarebbe diventato la sua occupazione.

L'ingresso di Dani in Machete è stato già raccontato mille volte: fu Jack the Smoker a contattarlo, dopo aver ricevuto dalle sue mani in uno studio una copia del suo primo tape Teoria del Contrario, e assieme cominciarono a lavorare a The Waiter. Ascoltare oggi quel Dani è assurdo, se consideriamo il porto a cui il suo rap è approdato. Introspezione a parte, sono le sue dichiarazioni di intenti a essere state sradicate: "Chi è Dani Faiv? / Meno T-Pain, più El-P & Killer Mike", diceva in "Intro (Teoria del Contrario)". Ma la musica contenuta sul suo nuovo progetto Fruit Joint deve molto al gusto per la melodia autotunata di cui T-Pain è stato pioniere negli Stati Uniti di inizio millennio.

Commentando le sue parole di allora, Dani comincia a ripercorrere i passi che lo hanno portato a cambiare radicalmente il suo sound. I due pezzi di cultura che lo hanno formato, dice, sono Anarchy di Busta Rhymes e Breakin', il film del 1984. La sua era una cultura di protesta, più di sinistra che di destra: "Oggi la situazione si è ribaltata quasi completamente e i rapper sono immagine, sono come Berlusconi. Ma io mi sono focalizzato sulla parte musicale e ho trovato molto interessante l'evolversi della scena". Cita Lil Uzi Vert e Ski Mask the Slump God come artisti che lo hanno sconvolto e ritiene che "avere un background solido di aiuta meglio a sviluppare quello che va oggi". "Hai un margine molto più grosso di un ragazzino per cui il rap è Travis Scott e conosce solo quello. Madlib e J Dilla mi hanno salvato".

"Intro (Teoria del Contrario)" conteneva un altro verso che sarebbe assurdo sentire uscire dalla bocca del Dani di oggi: "Nel rap italiano non esiste giudizio obiettivo / O fai schifo o sei mio amico". Come ha dimostrato nella puntata di The People Vs che ha girato per noi, Dani risponde agli insulti con un sorriso e un generale invito alla presa bene. Quelle parole le spiega come semplice presa di coscienza delle regole del gioco del rap, non come espressione di un fastidio. È normale, dice, supportare chi ti è vicino: conosci la sua passione, ti rendi conto dei sacrifici che fa. Ma quando gli chiedo conto della leggerezza con cui sembra gestire gli scontri, Dani è felice di spiegarsi.

"C'è un motivo semplicissimo. Quando cominciavo sognavo di entrare in una realtà credibile. Cazzo, Machete era un'aspirazione, anche di più. Quando è successo, che senso aveva continuare a fare i testi da preso male? Racconto quello che vivo. Una volta avveratosi uno dei miei più grandi sogni, che devo dirti? Che la vita è una merda? Col cazzo. Sono qua a pigliarmi bene, a fare i live, a fare delle cose stupende. Rimango me stesso, chi mi ascolta sa che sono rimaste le mie punchline e la mia voce. Però in un'altra chiave. Che poi è ora, magari tra un anno mi girano di nuovo i coglioni".

Come fa notare lui stesso, Fruit Joint è un album in cui compaiono entrambe le sue anime, così da valorizzare anche quello che c'è stato prima e presentare ai nuovi fan il vecchio Dani, sebbene in maniera più matura. I due momenti in cui questo avviene sono "Pollo (Intro)" e la conclusiva "Melinda". Qualche citazione? "Fanculo sbirri, prendeteci". "Servitori, ma di uno stato ladro". "Abbiamo urlato, sì ma è sempre stato piano". "Questi ragazzini non c'hanno peli sulla minchia". "Fanculo i preti, bestemmio tanto". "Soffro d'ansia alle feste". Piccoli momenti in cui, come fanno molti giovani rapper statunitensi, parole aggressive e pesanti inserite in contesti musicali foderati di melodia, colorate pareti imbottite di una camera contro cui lanciarsi con le braccia chiuse da una camicia di forza creativa.

Per Dani lo scontro tra temi bui e suoni luminosi è "bello", e "quasi incuriosisce di più [di una convergenza tra suono e teso]". Ma sostiene ci sia una differenza tra Italia e Stati Uniti: se dalle nostre parti è probabile che si aderisca a un certo stile senza averlo vissuto, oltreoceano esiste un sentimento di comprensione tra ascoltatore e artista. "In Italia non viviamo situazioni davvero pesanti... fumati due canne", dice, senza minimizzare l'esistenza di reali problemi ma facendo notare la pericolosità dell'emulazione. "Purtroppo ci sono ragazzini che cominciano a farsi di Xanax solo perché lo fa il loro mito".

"Quello che facevo un tempo era tutto cupo e chiuso. Volevo uscire da quei canoni, trovare nuovi modi di comunicare", conclude. E ci è riuscito, Dani, a creare nuove lingue con cui esprimersi. A livello sonoro, ovviamente: dalle vulcaniche "Gameboy Color", "Gameboy Advance" e "La La La La La", prodotte dal sedicenne Tha Supreme ("il mio artista preferito, il più forte di tutti"), passando per lo ye-ye anni sessanta imbastardito da Strage in "Lemon Haze", fino ad arrivare ai flautini sognanti di "Fortnite", partoriti da Low Kidd. Ma ce l'ha fatta soprattutto a livello testuale, concentrandosi sulla costruzione di lunghe strutture di punchline sorridenti.

"Almeno so / Che sono tranquillo, non menoso", dice Dani in "Fortnite". E ancora, "Se sei preso male, fatti un tiro, accendi / Poi vai a giocare, sono sempre happy". "Più guardo il mondo / Più vedo che sorride", esordisce "Gameboy Color", prima di lanciarsi in un amarcord scolastico in cui il grigiume di Spezia si colora di tavolozze accese, ragazzini e sbirri sembrano personaggi di Super Smash Bros e l'erba diventa un grande, utopico unificatore: "C'era una volta una palma / Che venne fumata da tutti / Poi dopo la calma / Ci si voleva bene tutti". Parole da brividi, anche se pronunciate con la leggerezza nel cuore. Parole che ricordano all'ascoltatore la possibilità del linguaggio come gioco. Dice Dani, prima di salutarmi, "[Fare Fruit Joint] mi ha intrippato tantissimo. Mi sono proprio divertito". Bé, si sente eccome.

Elia è su Instagram.

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Discografia segreta dei Cure

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Mettiamola così: mi succede raramente di avere un desiderio incredibile di andare a vedere concerti-evento irripetibili. Pronuncio fra me e me un sereno “sticazzi” mentre vedo gli altri partire, farsi ore di aereo per i loro beniamini o spendere fior di quattrini per vedere, che ne so, Beyoncé. Il 7 luglio scorso, però, ho rosicato.

I Cure festeggiavano quarant’anni dal primo disco e io sarei dovuto essere a Hyde Park, perché lo sanno anche i sassi che sono una di quelle band che mi hanno cambiato la vita e dato una nuova prospettiva musicale. Finalmente ascoltavo un gruppo a cui non fregava un cazzo di niente, che nei pezzi ci infilava tutto e il contrario di tutto. Grazie a loro in tenera età ho letto Kafka, Camus, Sartre. A tredici anni sono andati a vederli al tour di Disintegration a Roma, con una maglietta che avevo fatto io personalmente con l’Uni Posca. In quell’occasione, oltre a spappolarmi il cervello, hanno fatto una versione di dodici minuti di "Faith" dedicata alle vittime di piazza Tienanmen (era l’89), palco rosso sangue, uno sbrago emotivo che ricorderò per tutta la vita.

Nei live sono sempre stati al limite, come quando il bassista Simon Gallup faceva fischiare il suo ampli con bordate di feedback come fosse una versione punk di Jaco Pastorius, o come quando a volte improvvisavano brani a caso nello stupore generale. Infatti da questo concerto londinese mi aspettavo fuoco e fiamme; poi però ho letto la scaletta e mi sono detto che potevano osare di più, con lo sterminato canzoniere che hanno. Ma, per mettere d’accordo tutti, la cosa più rapida da fare è dare al pubblico quello che vuole, magari con dei brani più festaioli, vista la ricorrenza.

In realtà, i Cure hanno sempre fatto il contrario di quello che la gente si aspettava, e la mia reazione conferma questa regola. Ci sono dischi eccezionali che si ricordano due persone, esperimenti che hanno funzionato in parte ma coraggiosi, album rivalutati solo dopo anni e anni. Anche le loro cose più commerciali non nascono da un calcolo a tavolino, ma giusto per infastidire chi li voleva e ancora li vuole rinchiusi in un’etichetta, qualunque essa sia. Insomma dei tipi francamente poco prevedibili.

In occasione di questo quarantennale ho quindi deciso, da fan sfegatato, di proporvi una carrellata (anzi, una curellata) di album e incisioni che per la loro controversia sono a mio avviso fondamentali: roba tosta che a volte non ha ricevuto il giusto plauso, a volte è persino sconosciuta. Ma siamo qui, citando "The Top", per lanciare la trottola, giusto? E allora andiamo al sodo.

Carnage Visors (1981)

È il 1981: i Cure sono nel pieno della loro era gotica, dopo un inizio ancora derivato dal punk distorto come Three Imaginary Boys e la sbandata wave al gusto minimal synth di Seventeen Seconds, che è a tutti gli effetti il primo capitolo della trilogia della morte. La pubblicazione di Faith rappresenta però il momento in cui i nostri cesellano il loro suono e definiscono la loro interpretazione del genere gotico, abbandonando distorsore prima e chorus poi. Indugiano invece su muri di flanger e riverberi da cattedrale gotica (appunto), portando a uno step superiore le batterie minimali e ipnotiche del disco precedente, puntando molto sulla tribalità, sul rito pagano, sui sintetizzatori a pad che suonano come una carezza fredda, una specie di solarizzazione del nero da effetto Fata Morgana (come nel capolavoro “The Funeral Party”), con echi forse delle opere per organo di Bach.

Critica e pubblico oggi considerano Faith come un disco fondamentale, anche se all’epoca c’era gente che ne attaccava spietatamente l’alone religioso dicendo (citando un giornalista del periodo) “una volta il rock era farsi tazze di droga e più ragazze possibile…”. Nel disco, al contrario, si pone volutamente l’accento su ben altro: non tanto sulla religione in sé quanto sull’esistenzialismo, sull’affrontare l’idea della morte, sulla violenza inconsapevole e sugli amori idealizzati e quindi morti in partenza ( Faith contiene più di una citazione da La Nausea di Sartre, per dire).

Questa violenza repressa redenta dalla fede nel nulla riappare anche in un disco parallelo a Faith: Carnage Visors. I Cure, infatti, sperimentano da questo momento una differenziazione tra la cassetta e il vinile. Nell'edizione vinilica di Faith la durata è quella di un LP normale, la cassetta invece va oltre il minutaggio consentito e contiene, nel lato B, proprio quest’opera che a tutti gli effetti rappresenta un capitolo e un’uscita a parte. Carnage Visors è la colonna sonora di un video del fratello di Gallup, Ric, che veniva proiettato prima dei concerti. Un video che già dal titolo risulta ostico e di cui sono rimasti pochi frammenti, roba in stop motion astratta e visionaria. In sé, Carnage Visors è una lunga e lenta suite strumentale di ventotto minuti e rotti in cui basso e chitarra si snodano serpeggianti dipingendo paesaggi deserti, con una drum machine di strano gusto simil Detroit che risuona marziale per tutta la sua durata. Potremmo definirla una sorta di versione new wave dei Drecxya, che probabilmente si sono ispirati anche a quest’album per le loro intuizioni sonore; mentre lì vige un mondo subacqueo, qui è la terra nera a trionfare. Un lungo cammino verso una landa promessa che non esiste, in pratica quella del subconscio.

Non disdegna momenti funk, presenti in quella che potrebbe definirsi la cesura tra il primo movimento e il successivo, con un basso che pulsa improvvisamente in levare tra lisergici sintetizzatori a dente di sega che ricordano un po’ il Richard Wright di “Welcome to the Machine” (non a caso molti indicavano i Cure come i Pink Floyd degli anni Ottanta). Poi eccola aprirsi in un momento dream di assoluta e disarmante dolcezza, che in un certo senso riporta alla mente i primi Cocteau Twins risucchiati in gorghi new romantic, così come atmosfere nebulose proprie di Faith. L’aspetto più interessante del disco, però, è il sentore d’improvvisazione modulare che pervade l’esecuzione, una specie di esperimento impro-goth, che in effetti è un campo poco se non per nulla battuto, la cui resa è semplicemente perfetta.

Dieci e lode, quindi. Non a caso Carnage Visors sarà spesso commercializzato come pezzo unico in diversi bootleg e da un bel po’ appare anche nell’edizione deluxe di Faith, in cui si rende finalmente giustizia all’incisione.

"Airlock" (1982)

Tredici minuti abbondanti di delirio, "Airlock" (con sottotitolo "The Soundtrack") era una traccia che veniva diffusa prima dei concerti del periodo Pornography per scaldare l’audience. O, per meglio dire, per farla sbroccare e quindi costringerla a entrare in quella dimensione di follia che è appunto il disco succitato.

Pornography, come penso sappiano tutti, è uno dei dischi più influenti di sempre nella storia dell’anti-rock, in cui la furia nichilista del terzetto, dopo la contemplazione esistenziale di Seventeen Seconds e Faith, finalmente viene in superficie. Un disco saturo di malattia, un viaggio all’interno della schizofrenia (come ben descritto dalla maniacale “A Short Term Effect”) e dalla schizofrenia ispirato.

Partendo dall’assunto che la pornografia è appunto quello che noi vogliamo sia, quindi tutto può esserlo, anche un semplice battito di ciglia, i Cure con assoluta naturalezza tirano fuori il peggio di loro, sicuri che saranno perdonati. Suoni al limite dell’harsh noise più cacofonico, claustrofobia da internamento, bad trip di LSD che puntualmente era consumato durante le session che, come dice la leggenda, diventarono sempre più violente tanto che la band arrivò presto al capolinea in malo modo, fino a venire alle mani. Un disco intenso e spietato, quindi, la cui appendice è l’aspetto sperimentale che, seppur presente in Pornography in maniera deflagrante come nella devastante title track, è ben dosato e legato al formato canzone.

Quest’aspetto sperimentale lo troviamo invece emergere in tutta la sua allucinazione in "Airlock" che, con le sue sbuffate di rumore bianco, i suoi pianoforti presi a cazzotti, i flauti di beatlesiana memoria che ”stonano” arie atonali e le voci modificate in maniera terrorizzante, non solo può essere considerata la loro "Revolution 9", ma è anche una palestra per definire quello che poi sarà fissato nel successivo The Top. In altre parole, è la faccia puramente psichedelica dei Cure. Ci sono però anche parti di piano (ovviamente scordato) e di contrabbassi slide stranamente jazzati che portano subito alla mente gli esperimenti futuri di "The Lovecats". Notevoli sono anche le svisate tapestry che starebbero bene in un disco di Aaron Dilloway. Perché c’è un pullulare di effetti sonori stranianti come cavalli al galoppo e risate maniacali, mentre i sintetizzatori che emulano il suono detunato di bicchieri di cristallo sfiorati col dito fanno il resto. Per quanto risulti evidente l’influenza del White Album, sembra più che altro una versione negativa di Sgt. Pepper. Le percussioni, ad esempio, si limitano a un uso sconsiderato dei crash, ricordando le uscite di “Being for the Benefit of Mr. Kite”. Insomma, "Airlock" è la prova che i Cure hanno anche un lato free form non indifferente (i Wolf Eyes di oggi possono tranquillamente leccargli la suola delle scarpe, ad esempio) che la storia non ha mai abbastanza rilevato. Oggi potete ascoltarlo in tutta la sua potenza nella versione deluxe di Pornography.

Japanese Whispers (1983)

L’importanza di Japanese Whispers è stata sempre messa colpevolmente in secondo piano: il motivo è principalmente che non è un vero e proprio album in studio, ma una raccolta. Comprende infatti l'EP The Walk e altri singoli sparsi con i rispettivi lati B, fra i quali "Lament", per la prima volta apparsa in un flexi con al basso Steve Severin dei Banshees e qui invece registrata in una versione nuova di zecca meno drogata; o la famigerata "The Lovecats", che a tutti gli effetti apre ai Cure la porta del mainstream. Non manca anche "Let’s Go To Bed" che, da brano claustrofobico registrato durante le session di Pornography con il titolo provvisiorio di "Temptation", diventa qui un pezzo di gothic power funk, in bilico fra il party e il malessere, il primo esperimento commerciale dei nostri. Commerciale fino a un certo punto, perché a fare un pezzo da classifica classico non gli riesce manco provandoci, però la svolta è chiara.

Oramai i Cure, a parte il feat. del session man Steve Goulding già nei Brilliant, sono un duo limitato a Smith e al braccio destro di sempre Tolhurst, che dalla batteria è passato direttamente ai sintetizzatori, anche se in tutto l’EP The Walk si produrrà, ovviamente, anche nella programmazione della nervosissima drum machine. Gallup se n’è andato sbattendo la porta e paradossalmente, dopo questo evento, la ricerca dei restanti Cure si focalizza sul lato più pop, come per reazione a un periodo teso e negativo che è durato fin troppo per poterlo accettare e sostenere. Dalle stesse parole di Smith, questo momento è definito come un’esperienza in cui lui e Lol sono i Lennon e McCartney della situazione, concentrati sulla produzione di singoli orecchiabili quanto basta, soprattutto per levarsi di mezzo lo stigma di gruppo dark, cosa che sta loro stretta.

Ma a parte il geniale plagio/citazione di "The Walk" ai danni dei New Order di "Blue Monday" (operazione che a pensarci è coerentissima e anticipa l’atteggiamento italo disco degli Eighties riguardo questo brano, vedi anche Divine), Japanese Whispers, nella sua interezza, suona proprio come il disco dei nuovi Cure. Incoerenti, imprevedibili, che nel giro di pochi mesi passano appunto da "Let’s Go To Bed" fino al synth pop iper plastificato ma dalle sfumature romantico decadenti di "Upstairs Room", rotolando nel proto shoegaze di "Just One Kiss", per finire con il jazz gotico dadaista di "Speak My Language", anche qui in un esperimento impossibile che nessuno avrà più il coraggio di ripetere.

Sono due individui e sembrano in realtà tre band diverse, e in un certo senso è anche vero, giacché da "The Lovecats" in poi si aggiungono alla band il batterista Andy Anderson e il bassista Phil Thornalley, meglio conosciuto come il produttore di quel sublime casino chiamato Pornography (e a proposito di produttori, nel disco appare Steve Nye, ovvero l’artefice dei suoni di Tin Drum dei Japan). Ancora oggi Japanese Whispers suona alieno e spiazzante, tanto che non ho dubbi a definirlo uno dei migliori dischi del gruppo. Ma il meglio (o il peggio) deve ancora venire…

The Top (1984)

Ancora oggi i fan dei Cure si dividono rispetto a The Top. Alcuni lo odiano altri lo amano alla follia: tra questi il sottoscritto. The Top rappresenta infatti l’altra faccia dei disturbi mentali dei Cure. Non quella nera di un bad trip, ma quella di un viaggio allucinogeno che prende la via giusta.

Anche gli episodi più oscuri sembrano, infatti, parto di una mente che non ha nessun interesse a stare con i piedi per terra, su questo pianeta, magari a rimuginare su quanto la vita faccia schifo e a fare resistenza: no, anzi, si vola e sarà quel che sarà. I suoni sono acidi, i protagonisti dei pezzi sono orsi polari, ragazze bruco, cani malati, uccelli pazzi, maiali nello specchio. Sembra una versione deflagrata di Alice nel Paese delle Meraviglie, con repentini sbalzi di umore tipici dell’esperienza lisergica.

Basti pensare a "Give Me It", un coacervo di oscenità passivo aggressive, un missile noise senza capo né coda da far impallidire la Skin Graft. Al suo contraltare, la title track che con la sua lascivia d’inedito gothic blues con inserti di piano "preparato" alla Cage, con quelle due note due suonate a caso in un vuoto siderale che però fanno buona parte della tensione, gioca col doppio senso tra “trottola“ e “cima“, nel senso del massimo livello raggiunto, forse di stupefacenti. Frutto di un esaurimento nervoso in avvicinamento, poiché Smith militava in ben tre gruppi (oltre ai Cure infatti era il chitarrista ufficiale dei Siouxie and the Banshees e membro fondatore dei Glove), la gestazione di The Top è influenzata dall’assunzione massiccia di droghe psicotrope. Famosissimi sono i tè all’LSD del batterista Andy Anderson, che rimpinzerà Smith a tal punto che quest’ultimo non riusciva neanche a reggersi sulle sue gambe alla fine delle session, e doveva tornare a casa letteralmente "lanciato" dentro un taxi. Un’aura di contraddizione perenne avvolge la band e il suo sound.

All’epoca, infatti, i Cure sono acerrimi nemici del movimento new romantic, per quanto paradossalmente lo abbiano loro malgrado ispirato: i Duran Duran, ad esempio, rappresentavano quel mondo patinato al quale si sono sempre opposti. Ironia della sorte, proprio i Duran porteranno via ai Cure il bassista, chiamandolo a fare l’ingegnere del suono di Seven and the Ragged Tiger ammirando enormemente il lavoro fatto su Pornography. La band ridotta temporaneamente a trio, quindi, è senza dubbio composta da tre fattoni senza controllo che in preda al gas esilarante si dimenano tra il pop e la cacofonia. A parte Andy e Robert, Lol si carica di alcool come una botte: la title track descrive quindi un periodo sfasato, paranoide, privo di centro eppure estremamente vitale e colorato, su di giri. La metafora della trottola come qualcosa che non si riesce a fermare, giocosa, ma pericolosissima.

Smith sarà costretto a mettere uno stop a questa vita dissoluta, congedandosi definitivamente dai Banshees e concentrandosi solo sulla sua creatura. Per la prima volta i Cure sembrano avere un certo ascendente sulla classifica, grazie forse anche ai video surreali di un Tim Pope in stato di grazia. Eppure Smith all’epoca dichiarò “ogni gruppo ha il suo brutto disco: questo è il nostro”. Siamo certi che parlasse di brut più che di brutto, anche perché per la prima volta dopo la fondazione, i Cure ritrovano nelle sue file il chitarrista Porl Thompson fino ad allora relegato al reparto grafico, che qui suona, anzi, maltratta il sassofono. Ancora adesso nessuno è riuscito a capire dove si trovi nel mix, il che è uno dei tanti misteri di questo disco. Album apripista del movimento weird del 2000? Sicuramente sì. Ma, ascoltando la voce pitchata in basso di "Piggy In The Mirror", viene da dire forse anche della "generazione purple" di DJ Screw.

Curiosity (1984)

Nel 1984 un’altra uscita dei Cure segna un passo importante: Concert è infatti il primo disco dal vivo in assoluto della band. Esce racchiuso in una copertina micidiale che fa il verso ai vari bootleg dal vivo in circolazione del gruppo, un bianco e nero spartano quanto basta per superare i riferimenti di partenza. Il suono è compatto, quasi granitico, volutamente rozzo per recuperare l’impatto live (probabilmente la lezione proto lo-fi dei PIL di Paris Au Printemps non li ha lasciati indifferenti). Nella cassetta però abbiamo ancora una volta l’esperimento del doppio lato a lunga durata. Curiosity, situato sul lato B, è una raccolta di pezzi live che si divide tra inediti e brani conosciuti eseguiti nel periodo d’oro del terzetto, quello che va da Three Imaginary Boys a Pornography per intenderci, dove in tre sembravano duecento, impegnati com’erano tra tastiere, pedaliere per organi sintetici, pad di batteria e chitarre, bassi e voci supereffettati. In un certo senso Curiosity, in una ideale macchina del tempo, rappresenta il primo live album in assoluto dei Cure, recuperando il tempo perduto e documentando la prima formazione nel suo splendore. E gli inediti? Beh, abbiamo "Heroin Face" che risale al '77, quindi ai primissimi vagiti, un tiratissimo pezzo punk/glam rock; "All Mine", un delirio chitarristico-vocale, probabilmente improvvisato dal vivo, dal periodo Pornography; e poi una versione di "Forever" dell’84 (l’originale è su Seventeen Seconds) irriconoscibile, anche questa improvvisata di brutto sia in termini testuali che musicali, in cui si sentono le incredibili capacità tecnico/emotive dei nostri. Un pezzone che non può assolutamente mancare nelle vostre playlist, con i suoi improvvisi guizzi accelerati, il sassofono di stampo free jazz, e le liriche febbricitanti di Smith che, in effetti, era solito esibirsi anche con la febbre a 40.

Standing On A Beach (1986)

Per tutti, anche per un gruppo come i Cure, viene il tempo della raccolta di hit. Non stiamo certo parlando di una band propriamente da classifica, ma dopo The Top i Cure hanno virato verso un pop mutante: The Head On The Door del 1985 è un disco bizzarro come il precedente, ma riesce incredibilmente a risultare accattivante, con incursioni addirittura nella break dance campionata ("Screw"), nelle sfuriate DEVO-lute ("The Baby Screams") e nei brani sonici pre-Pixies ("Push"). I tempi dispari entrano prepotentemente in gioco ("Six Different Ways"), ma soprattutto entrano in gioco delle ballate dark claustrofobiche che sono allo stesso tempo gioiellini da fischiettare al cesso ("Close To Me").

Quindi si scommette sul greatest hits dal furbo titolo balneare (che in realtà è un verso della terrificante "Killing An Arab"). E, guarda un po’, la selezione di singoli sembra coerente e mette alla luce il fatto che alla fine sì, i Cure sono pop! Ovviamente nel termine più alto, quello per dire che potremmo attribuire ai Beach Boys, anche loro spesso in bilico tra depressione ed euforia.

In questo stato mentale, Standing On A Beach ha ancora una volta una versione a cassetta a lunga durata, che contiene tutti i lati B dei rispettivi singoli e 12". Troviamo quindi delle perle inestimabili come "I’m Cold", con una Siouxie non accreditata a prodursi in vocalizzi da pizia su una base di roccioso punk rock hendrixiano; "Descent", tratta dal lato B di "Primary", che è a tutti gli effetti uno dei primi esperimenti di slowcore tradotto in una discesa negli inferi di due bassi flangerati e poche botte di piatti; la terrificante "Splintered In Her Head" che è praticamente ipnotica roba afrodark; le bizzarre B-side dei singoli di The Head On The Door, tutte saltellanti e demenzialmente euforiche.

Ad esempio, citiamo un brano di grande potenza come "The Exploding Boy", che è a tutti gli effetti il primo pezzo composto dalla ritrovata formazione originale in cui Porl sembra finalmente suonare il sax in maniera "normale". C’è "Mr. Pink Eyes", esclusa da Japanese Whispers e qui proposta in tutto il suo splendido free jazz/swing gotico con largo uso di cacofonie pianistiche; c’è la grandiosa "New Day" che è una specie di esperimento Mantronix meets The Cure, solo batteria elettronica, bassi profondi e una voce che cerca di toccare i limiti con acuti acidi e imbattibili. Non a caso la raccolta sarà da molti critici indicata come il miglior disco degli Ottanta, quasi un racconto a sé come lo fu Sucking In The Seventies degli Stones. L’intero pacchetto troverà di nuovo posto nella raccolta Join The Dots, la quale raccoglie tutti i lati B del periodo Fiction per la gioia dei completisti.

Mixed Up (1990)

E ci troviamo già proiettati nei Novanta. Dopo il fortunato doppio album Kiss Me Kiss Me Kiss Me del 1987, praticamente il crossover visto dai Cure, l’ormai quintetto fa bingo con Disintegration, che diverrà il nuovo megaclassico della band. Il disco apre loro le porte del successo a larga scala, producendo ovviamente nei nostri eroi il desiderio di staccarsene quanto prima. Ecco quindi l’idea di Smith di produrre un disco che fosse sul pezzo rispetto alle nuove direzioni dei remix, con largo uso di elettronica, nel tentativo di spiazzare i fan. Inizialmente pensato come un sequel di Japanese Whispers, l’ambizione di farne un album d’inediti cade ben presto sulla sua fattibilità e sull’ispirazione che vacilla. Si ripiegherà quindi sul remixare vecchi brani affidandoli alle sapienti mani di produttori di grido (come ad esempio Paul Oakenfold), ottenendo a volte dei risultati stranianti. Pensiamo a "In Between Days" trasformata in salsa acid house da un William Orbit/Richard Dight in formissima, oppure a “The Caterpillar” virata r'n'b da Bryan Chuck New.

Rimasterizzato in versione deluxe con lati B (come una micidiale "Primary" ad opera di Keith Leblanc aka DJ Spike) e nuovi remix dello stesso Smith raccolti con il titolo di Torn Down, Mixed Up, rappresenta una bizzarria peculiare nella discografia del gruppo, tanto arrischiata e discutibile da risultare attraente. Sicuramente un peccato che i brani non siano stati scritti per l’occasione: solo con "Harold and Joe", brano nuovo di pacca spruzzato di ecstasy generation, abbiamo una lontana idea di quello che sarebbe potuto essere se... se quest’ultimo non fosse in realtà solo il lato B del singolo "Never Enough", unico inedito del disco, che invece ha sapori rock grunge completamente antitetici al concept. Quest’inaspettata e incoerente virata sarà però l’antipasto di quel mischiozzo tra indie e noise rock/shogaze a venire chiamato Wish, il primo alto piazzamento nelle classifiche americane.

Lost Wishes (1993)

Prima che il fenomeno Wish venisse alla luce, la band, fresca del successo di Disintegration, si era barricata in sala cercando un nuovo stile che fosse più rumoroso e nello stesso tempo dilatato. Da qui le improvvisazioni e i bozzetti di questa cassetta edita solo attraverso il fan club ufficiale, che però è degna di essere analizzata come un prodotto a sé stante, fatto di strumentali avvolgenti e doom, ma che sanno anche essere post rock nella loro architettura sonora che a volte sfiorano paesaggi cinematografici (e i Mogwai forse devono molto a questi ritratti, perché all'epoca erano ancora in fasce). In un certo senso, si tratta di brani che fanno pensare che il futuro coinvolgimento dei nostri eroi nelle colonne sonore di film come Il Corvo e Judge Dredd non sia per niente un caso, anzi.

Wild Mood Swings (1996)

Tutto quel che sale prima o poi scende, dice il saggio. E infatti, il miracolo di Wish non si ricrea all’uscita di Wild Mood Swings, uno dei maggiori flop del gruppo. Questo perché questo disco arriva in un periodo di transizione in cui la musica alternativa si sta spostando verso nu metal e affini. Nello stesso tempo, la band perde due elementi fondamentali, il batterista Boris Williams e lo storico chitarrista/polistrumentista Porl Thompson, cosa che immediatamente li indebolisce, tanto che prima di reclutare alle pelli Jason Cooper tramite un annuncio su NME, nel disco suoneranno vari batteristi arruolati alla bisogna.

I Cure non riescono a stare al passo con i tempi e a rinnovare il loro linguaggio, sembrano al palo, almeno apparentemente. Questo perché la genesi del disco è ben diversa dal risultato finale che ascoltiamo oggi. L’idea di Smith era quella di scrivere un disco interamente acustico, quindi dalle caratteristiche intime, canzoni toccanti e dirette, quasi “classiche” e senza tempo come potrebbero esserlo quelle di Leonard Cohen. In effetti Wild Mood Swings è pieno di brani di questo tipo: "Jupiter Crash", "Bare", "Treasure" e via dicendo. Brani che convincono e sicuramente aprono una nuova finestra sul lavoro del gruppo: la stessa “The 13”, nel suo bizzarro arrangiamento mariachi, funziona se non altro per spiazzare i fan (nonostante sia chiara l’autocitazione di “The Caterpillar”).

Ahimè però, Smith diventa improvvisamente democratico durante la lavorazione del disco, ed ecco quindi i contributi dei bandmates, che nulla aggiungono nulla tolgono alla loro storia. "Want", per quanto non sia male, è un po’ la fotocopia telefonata di "Open" dal disco precedente; "Gone" sembra un outtake di "The Lovecats"; "Strange Attraction" è fin troppo sbarazzina e teen-oriented; "Mint Car" si vendica degli scippi subiti per mano dei Ride periodo Going Blank Again, plagiando senza problemi la loro "Twisterella". Insomma a parte rari casi come “Club America” che sfodera un rockone madchester style in cui Smith canta forse per la prima volta in tonalità vocali da basso, il resto sembra accessorio all’idea originaria. Ecco perché a Wild Mood Swings va data una nuova possibilità: isolate i brani acustici da quelli elettrici e ne possiamo riparlare come un grande disco mancato. Attendiamo l'edizione deluxe, perché ad ogni modo trattasi dell'ennesimo disco impossibile dei "tre ragazzi immaginari" e non a caso Robert Smith lo considera “uno dei miei cinque dischi preferiti di sempre”. Meditate, gente.

The Cure (2004)

A differenza di quanto si dice fra i fans, The Cure rappresenta l’ultimo grande disco della band. Dopo Bloodflowers, che doveva essere il canto del cigno, i nostri tornano infatti incredibilmente rinvigoriti con questo lavoro. Almeno a livello di suoni, dato che ai comandi c’è Ross Robinson, produttore di Korn, At The Drive-In, Slipknot e Blood Brothers, cioè una gran parte degli act nu metal e post hardcore del periodo. Non è un mistero che molta di questa gente stesse in fissa con i Cure, ragion per cui chi all’epoca gridava all’eresia non aveva affatto le idee chiare. Anzi, il coraggio di Smith e co. va applaudito: finalmente si abbandonano le facili sicurezze per tentare l’ignoto. Tanto che le sessioni di registrazioni saranno durissime, con scontri fra Robinson e la band, soprattutto con un Simon Gallup incazzatissimo e sull’orlo di mollare baracca e burattini. Il produttore infatti voleva a tutti i costi azzerare lo status istituzionalizzato dei Cure.

Anche nel disco precedente, ovvero Bloodflowers, le session erano pesantissime, ma in quel caso erano in qualche modo pilotate “a tavolino”. Uno Smith in vena di chiudere in bellezza la carriera voleva infattti ricreare nei suoi compagni, a costo dell’alienazione indotta, il disagio di Pornography e Disintegration, pensando che alla soglia dei suoi 40 anni ci volesse un disco alla loro altezza. Ognuno di quei lavori, infatti, rappresentava la crescita anagrafica della band (e soprattutto di Smith), ed erano tutti capolavori. Bloodflowers, ahimè, pur avendo grandissimi pezzi a livello di scrittura, negli arrangiamenti soffre troppo di questo mashup tra i succitati album e quindi sembra una specie di bignami del Cure-pensiero in cui i nostri avrebbero potuto osare di più (ad esempio, l’idea iniziale era di fare un disco elettronico, abbandonata subito dopo il primo pezzo “Possession” perché la scrittura andava in tutt’altra direzione, ispirata non tanto velatamente ai Mogwai).

The Cure invece sembra un disco di un gruppo che rinasce dalle ceneri: doveva sciogliersi invece eccolo qua, riparte senza farsi troppo domande e senza troppe certezze sul proprio futuro, in positivo e in negativo. Il risultato lo vediamo subito: c’è l’urgenza punk dei primi Cure mischiata alla furia degli At The Drive-In ("Never"), c’è la malattia post- Pornography di "Lost" che qui ha sapori noise rock pestoni da Arab on Radar (e, a proposito, la canzone della vita di Eric Paul è "M"). C’è l’anti-"Just Like Heaven" "Taking Off", un pezzo di psychedelic power pop di delirante sogno, c’è il singolo "The End Of The World", con quella melodia spastica e la vocalità sguaiata che ricorda le follie di The Top e si permette anche di maciullare le formule dei Blink 182 (grandi fan di Smith), c’è la cavalcata allucinogena di "The Promise" e uno dei più bei pezzi romantici della loro storia, la commovente "Before Three", una canzone d’amore e di perdita struggente e inarrivabile. E, cosa molto importante, il batterista Jason Cooper sembra in grado di avere un suono potente, rotondo e preciso senza essere un mero metronomo senz’anima né personalità com’è invece normalmente. A dare ragione alla tesi di un disco finalmente centrato basterebbe notare che negli Stati Uniti il disco arriverà all’ottavo posto nonostante i Cure fossero dati per spacciati da un pezzo in quelle lande, e che in Europa andrà alla grande diventando uno dei dischi più venduti del loro catalogo a prescindere dal fenomeno nu metal, che stava tra l’altro velocemente declinando. Da rivalutare assolutamente.

4:13 Dream (2008)

L’ultimo album dei Cure rappresenta tuttora un’occasione mancata. Perché uscendo nel pieno del boom hypnagogico (definito solo un anno dopo come genere a se) avrebbero potuto capitalizzare tantissimo visto che gran parte delle band correlate si rifacevano a loro in maniera neanche tanto velata (Ducktails in primis). In un certo senso, già dalla copertina “Dramarama style”, fluorescente quanto basta e dal titolo che evoca un momento di passaggio dal sonno alla veglia, ci provano con alcune soluzioni sonore come dei chorus inediti che mangiucchiano le voci e altri accorgimenti sparsi, come l’abolizione delle tastiere a favore delle chitarre liquide di Porl Thompson ritornato nelle file (nel frattempo il chitarrista Bamonte e il tastierista O'Donnel sono stati messi clamorosamente alla porta). Ma i pezzi hanno il problema di indugiare un po’ troppo sul rock, come dimostra la produzione di Keith Uddin, e soprattutto non riescono a essere abbastanza ispirati. L’esempio pratico è che l’unico brano veramente potente del lotto è "Sleep When I’m Dead", che era stato inizialmente scritto durante le session di The Head On The Door e l’altro brano di un certo interesse è “Underneath The Sky”, che riprende un brano contenuto in Lost Wishes, "Uyea Sound". In linea di massima però, dell’hypnopop mantengono una certa leggerezza di fondo, anche troppo: in realtà 4:13 doveva essere un disco doppio con una facciata solare e una scura, poi l’etichetta discografica costrinse Smith a rinunciare all’idea e ancora oggi questa facciata “nera” risulta inedita. 4:13 quindi rimane ancora in bilico, potrà essere giudicato solamente dopo l’uscita del fantomatico 4:14 Scream, in cui il tutto si completerà.

L’errore forse più grande da parte della band è stata associare la grande intuizione dell’avanzare hypnopop con nomi noti del mainstream alternative, come i 30 Seconds To Mars o i My Chemical Romance per i remix del disco, pubblicati con un nome inequivocabile, per chi avesse ancora dei dubbi: Hypnagogic State. Un caso? Probabilmente sì, ma, appunto, per questo 4:13 Dream rappresenta un guizzo di genio nel prevedere il nuovo trend che gli perdoniamo anche questi scivoloni.

La nostra curellata termina qui. Adesso stiamo tutti aspettando che Robert mantenga le promesse e ci regali il tanto annunciato disco del quarantennale; disco che potrebbe nascondere delle grosse sorprese, in primis le performance stellari del nuovo arrivato Reeves Gabrels, ovvero l’ex braccio destro di Bowie di scuola Adrian Belew, che dalla chitarra sa tirare fuori dei veri e propri mostri.

In quarant’anni di carriera i Cure sono stati preveggenti, sono riusciti ad arrivare dove gli altri sono arrivati duecento anni dopo, a volte centrando subito il segno, a volte guardando talmente oltre nei loro passi falsi che possono essere paragonati a un Leonardo che inventa macchine avveniristiche senza sapere come farle funzionare. Siamo sicuri che i Cure, dopo aver provato qualsiasi cosa, non hanno ancora detto tutto e se l’hanno detto, beh, possono anche non dirci niente, come da prassi dell’isolazionismo dark. Noi saremo comunque sempre sottocassa a cantare “Sleep When I'm Dead”.

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Qualche tempo fa parlavo con alcuni amici e dicevo: “Se io fossi un musicista famoso, di cui un locale o, ancora meglio, un festival ha assolutamente bisogno per attirare il pubblico, tirerei la corda tantissimo. Vieterei i telefonini, riempirei di gente il backstage e ogni lista possibile, renderei la vita impossibile alla security”. Perché l’unica cosa che conta, da un certo punto in poi, è il rapporto tra artista e pubblico. Non sto sputando sopra al music business, è una cosa molto utile che aiuta a raggiungere quante più persone possibile e a guadagnarsi da vivere. Quello che voglio dire è che questa tensione è necessaria; naturalmente è impossibile che una pop star stabilisca un contatto personale con ogni singola persona che compone il suo pubblico, ma, se smette di provarci o di desiderarlo, il declino è dietro l’angolo. Il compito di manager, promoter e indotto vario è di tentare di contenerlo e soffrirne le conseguenze. C’est la vie.

Non so se vi è giunta voce di quello che è successo al festival Mad Cool di Madrid la settimana scorsa, durante il concerto dei Queens Of The Stone Age. È successo che, come abbiamo visto succedere ormai troppe volte, l’area del pit, quella immediatamente sotto il palco e riservata ai possessori dei biglietti più costosi, era mezza vuota. E invece l’altra area, quella dei biglietti “normali”, strabordava di persone.

Come abbiamo avuto modo di notare al concerto di Milano un mesetto fa, il frontman Josh Homme non accetta di buon grado ipocrisia, regole e costrizioni, e ci tiene molto a stabilire un rapporto stretto con il suo pubblico. Così, si è detto: ehi, chi è che ha diviso il mio pubblico? Io e il mio pubblico siamo una cosa sola, chi si è permesso di separarlo per reddito o stato sociale?

Josh non ha torto. I festival possono darci tutte le giustificazioni che vogliono sul valore economico, organizzativo e di soddisfazione del pubblico per avere una o più aree VIP, ma non sono disposto a stare a sentire. Quella dell’area VIP è una spia che indica un cambiamento a livello di psicologia di massa, che fotografa una società sempre più a disagio con il contatto e la vicinanza umana.

“Abbiamo fatto migliaia di miglia per suonare alla vostra festa e per farvi vivere una serata che non ricorderete mai [sic]”, ha detto Josh Homme dopo aver fatto aprire l’area VIP. “E non ce ne andremo finché non sarete distrutti e fatti, finché non starete tutti ballando, limonando o passando la più bella serata della vostra vita. Altrimenti non siamo altro che animali addomesticati” ha concluso, introducendo uno dei pezzi dell’ultimo album dei QOTSA Villains.

E chi può negare il problema del contatto? Stiamo vivendo anni in cui parlare in diretta con un’altra persona è fonte di disagio. Lo spazio privato personale si allarga sempre di più, e allargandosi diventa sempre più sottile, fragile. Alzi la mano chi non ordina la pizza se non può farlo online, o chi si sente perduto se ha il cellulare scarico durante un viaggio sui mezzi pubblici. Soffro anch'io di questo problema.

Possiamo fare in modo che le strutture della nostra vita si adattino a questo cambio, per cui sempre più persone sono disposte a spendere più soldi per entrare meno in contatto con altre persone e godere di un'esperienza come quella di un concerto nella maniera più sicura e asettica possibile (la posizione più esclusiva di tutte, quella riservata ai veri VIP per cui i biglietti non si possono acquistare, è spesso d'altronde su una terrazza lontana dal palco). Oppure possiamo esporci a una certa quantità di disagio e vivere un'esperienza con un certo livello d'intensità, qualcosa che faccia sì che ce la ricordiamo e non ci limitiamo ad archiviarla sulla nostra cloud.

A Josh non fa mica tanto piacere essere osservato come un animale allo zoo. Lui, per scrivere queste canzoni, ha vissuto una vita di introspezione dura e sanguinolenta, e non apprezza di essere chiuso in una teca per essere osservato da gente che più di ogni altra cosa ama scorrere le dita su superfici lisce e trasparenti.

Il grande orco Josh Homme, con le sue simpatie conservatrici e la sua passione per le armi e la sua retorica anti-correttezza politica, ha fatto i capricci sul palco, sì. Ha trattato male la security che stava facendo solo il suo lavoro ("Voi lavorate per me stasera"; "Andateci piano con questi ragazzi, altrimenti sbatto fuori tutta la sicurezza e lascio questo posto a se stesso. Siate gentili o ve ne potete anche andare"), ma l'ha fatto con l'afflato disperato di un artista che non si rassegna a un pubblico freddo e assente.

Richiede uno sforzo collettivo, ma se la smettessimo di comprare quegli stupidi biglietti a prezzo maggiorato forse i festival si sbarazzerebbero di questa pratica classista e ridicola. Potremo ritornare a sentire la musica come qualcosa che colpisce in maniera profonda, a vivere il concerto come un'esperienza che lascia qualche cicatrice. Come ha detto una persona saggia, che, casualmente, era anche uno dei musicisti che suonava al volume più alto della storia, non voglio vivere per sempre.

Giacomo, in aperta contraddizione con quanto scritto qua sopra, è su Instagram.

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The André e Dolcenera suoneranno insieme a Reggio Emilia

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Certo, siamo molto orgogliosi del nostro lavoro quando giriamo dei documentari fighissimi o vi facciamo scoprire musica incredibile (a proposito, abbiamo una playlist settimanale su Spotify che dovreste seguire), ma il vero divertimento è quando, anche grazie a noi, una internet sensation prende forma nel mondo reale. Come The André o, come preferiamo chiamarlo noi, De André Canta La Trap, che abbiamo intervistato quando aveva poche migliaia di visualizzazioni e ora è ha folle adoranti a seguirlo.

La collaborazione con Dolcenera su "Cupido" di Sfera Ebbasta è ormai leggenda, ma vi abbiamo messo il video qua sopra in caso viviate nelle caverne, e ora il duo si prepara a esibirsi anche dal vivo, debuttando a Reggio Emilia, all'Eleva Festival che si svolgerà l'8 e il 9 settembre. Sarà una memata di proporzioni galattiche, ma sarà anche una bomba totale perché nel corso dei due giorni suoneranno anche alcuni dei preferiti di Noisey: Santii, Quentin40, MYSS KETA, Bruno Belissimo, Cimini, oltre a un ospite internazionale che non vi possiamo rivelare ma fidatevi che vi fa ballare finché non vi fanno male le piante dei piedi.

Tutte le informazioni che vi servono e il link per acquistare i biglietti early bird sono sul sito di Eleva. Ci vediamo là.

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Dieci anni di A Kid Named Cudi

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È difficile definire Kid Cudi con una sola parola. È il tossico solitario. È l'uomo sulla luna. È in un certo senso il fratello minore di Kanye West, come era successo a Kanye con Jay Z. È rockstar, rapper, attore - in una parola, artista. Se hai ascoltato le sue uscite recenti, come Kids See Ghosts o le sue nuove collaborazioni, ti sarai sicuramente accorto che è “rinato”, che si sente “libero come un fringuello”. Continua a cercare di raggiungere la stratosfera a forza di hhmmmyhheah, come ha sempre fatto, ma a è innegabile che qualcosa sia davvero cambiato. La sua voce sembra più nitida, più leggera e tutto attorno a lui sembra meno buio.

Per chi segue da tempo le vicende di Cudi, ormai 34enne, è un sollievo e un vero trionfo riscoprire la sua ritrovata lucidità, come se un macigno fosse stato sollevato dalle sue spalle. Come è capitato a molti di noi, Cudi ha vissuto momenti difficili: ha passato periodi in cui soffriva di ansia e depressione, è stato ricoverato, ha condiviso il suo dolore. Di tutte queste esperienze parla apertamente nei suoi album, e così è diventato sia un artista di successo che un essere umano estremamente trasparente. “È l’artista più influente degli ultimi dieci anni,” ha detto Kanye West di lui. Una dichiarazione piuttosto difficile da quantificare concretamente ma che ha una certa autorevolezza, se analizziamo il panorama rap contemporaneo.

A Kid Named Cudi, il mixtape da cui è cominciato tutto, è uscito dieci anni fa. Fu in quelle canzoni che il mondo scoprì la voce e le sonorità instabili di Cudi, lanciandolo nell’iperspazio della scena rap a velocità supersonica. Due mesi dopo Cudi firmò con la G.O.O.D. Music, l’etichetta di West. Prima della fine del 2008, Cudi aveva già partecipato alla scrittura di alcuni pezzi di West per 808s & Heartbreak (“Robocop”, “Welcome to Heartbreak”, “Paranoid” e “Heartless”) e di Jay Z per The Blueprint 3 (“Already Home”). Un esordio col botto, quello di Cudi, che fu considerato fin da subito tra le promesse della nuova scuola.

Ad oggi, 808s è considerato un momento di svolta, quello in cui il rap si è lasciato alle spalle i toni spacconi e arroganti del passato per lasciarsi andare ai sentimenti. Sebbene l’impatto di 808s sia indiscutibile e nonostante abbia aperto la strada ad artisti come Drake, forse quell'album non sarebbe neanche esistito senza Kid Cudi. Oggi, però, mettiamo da parte le polemiche e celebriamo A Kid Named Cudi in occasione del suo decimo anniversario. Cosa l’ha reso così cruciale? Qual è la storia che ha portato alla sua nascita? Ma soprattutto, chi / come / cos'è Kid Cudi?

Kid Cudi, foto promozionale.

Come molti ragazzi della sua età, Cudi approda in una grande metropoli a circa vent’anni e con appena 500 dollari in tasca. Nel suo caso, la meta è New York. Per un periodo abita da uno zio nel Bronx. Una volta trovato un lavoretto si trasferisce in un appartamento con il producer Dot Da Genius, la mente dietro A Kid Named Cudi, di cui produrrà due tracce (“Day 'N' Nite” e “Cleveland is the Reason”). Sebbene Cudi stesse plasmando la sua identità musicale da un bel po' è solo nel 2006 che le cose cominciano ad andare nel verso giusto, quando un producer gli presente un potente talent scout: Plain Pat. Come Cudi disse nel 2010, Pat non gli offrì subito un contratto ma lo prese comunque sotto la sua ala protettiva. Una partnership fondamentale, visto che Pat lavorava anche con Kanye West.

All'epoca il rap si fosse già diversificato. La dicotomia East Coast-West Coast era ormai superata grazie al contributo della scena del Sud degli Stati Uniti e artisti come Kanye e Lil Wayne stavano mettendo le fondamenta per l'esplosione creativa che il rap avrebbe vissuto nei dieci anni a seguire. Ma Cudi era un artista ancor più versatile di loro. In A Kid Named Cudi c'erano tantissimi sample: l'elettronica di Nosaj Thing, l'indie dei Band of Horses, il classic rock di Paul Simon, l'indie dei Ratatat, il grande R&B dei N.E.R.D. di Pharrell. Forse l’elemento più significativo è da ricercare in “Day 'N' Nite" e in “Cleveland is the Reason”, i pezzi in cui Cudi e Dot Da Genius unirono hip-hop e clubbing—un approccio che oggi ritroviamo nella produzione di Noah ‘40’ Shebib e Boi-1da, in Big Fish Theory di Vince Staples, in Danny Brown.

Kid Cudi, foto promozionale.

Altrettanto fondamentale per il rap che ascoltiamo oggi fu l’apertura di Cudi su temi delicati quali la salute mentale. In “The Prayer" Cudi parlava di morte, di avere sognato la propria fine sin dalla nascita, e diceva di essere “pronto per un funerale”. In “Down and Out” era ancora più diretto: “Ti suicideresti se potessi leggere nella mia mente.” In “Man on the Moon,” Cudi apriva la strada ai due temi che sarebbero diventati la base del suo album di debutto, cioè gli astri e le emozioni più crude. “Penso che se avessi avuto una mente semplice / tutto sarebbe andato per il meglio,” diceva nel testo, alludendo alla forte ansia di cui soffriva e trasformava ogni cosa in una situazione complessa.

Molti rapper, oggi, parlano apertamente dei loro problemi di depressione, di ansia e suicidio. Anzi è ormai difficile trovare qualcuno che non abbia affrontato queste tematiche. In parte, questo è dovuto al fatto che i giovani di oggi siano più inclini a parlare di salute mentale rispetto alla generazione precedente. Ma anche al rap di Kid Cudi, che lo ha reso uno dei personaggi-guida ed esempio per tutti i giovani rapper che hanno poi sentito il bisogno di esternare i propri sentimenti nella loro musica. Per intenderci, nel 2016 Travis Scott scrisse un tweet per Cudi, poi cancellato, in cui decretava “FACCIO MUSICA GRAZIE A TE”.

Nei dieci anni passati da quel mixtape, Cudi ha attraversato parecchie difficoltà a livello mentale. Nel 2016 si ricoverò volontariamente in un centro di riabilitazione per la depressione e gli istinti suicidi. “Non mi sento in pace con me stesso,” scriveva su Facebook al tempo. “Tornerò, più forte, una persona migliore. Rinato." E se i testi di Kids See Ghosts non mentono, tutto sembra essere andato a buon fine. “Sono rinato, sto facendo passi avanti… / non ti preoccupare per me, Signore, sto andando avanti,” canta oggi Cudi in “Reborn”. La sua è una storia di grande ispirazione, una storia umana e vera, e riascoltare A Kid Named Cudi oggi significa rendersi conto di quanta strada abbia fatto questo ragazzo, sia come persona che come artista. Senza Cudi, il rap di oggi sarebbe diverso: da un lato non sarebbe così cupo, ma dall’altro non sarebbe nemmeno così luminoso e ricco di speranza.

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Leggi anche:

I SoundCloud rapper non sono capaci di parlare d'amore

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"Beatrice – costruttrice
Della mia beatitudine infelice"
- Giovanni Giudici, "O Beatrice", 1971

Nel 1971 Settanta Giovanni Giudici pubblicò una raccolta di poesie e la chiamò O Beatrice. Quella di Dante, la donna-angelo di cui dire ciò che non è mai stato detto di alcuna. Ma se nel Trecento il poeta-uomo lodava la perfezione della sua donna, personificazione dell'amore e della fede e di tutto ciò che esisteva di buono e bello, nel Novecento Giudici fa un salto molto alto, si aggrappa alla caviglia di Beatrice e la tira giù dal paradiso. Beatrice è i suoi seni, occhi azzurri e vizi capitali. È una donna vera, piena di bellezze e difetti, che Giudici canta per quella che è: fonte di gioie e dolori, della sua "beatitudine infelice".

Nel 1999 i Taking Back Sunday, una delle band emo punk di maggior successo della storia degli Stati Uniti, pubblicarono il loro singolo più celebre: "Cute Without The 'E' (Cut from the Team)". Era un pezzo in cui il cantante sfogava la sua ira nei confronti di una donna che lo aveva fatto stare male. La minacciava dicendole che si sarebbe suicidato per lei e annunciava che si sarebbe messo a stalkerarla spiandola dalla finestra con il suo nuovo ragazzo. E come la chiamava, in tutto questo? Angelo.

"Il tuo rossetto, il suo colletto / Non provare nemmeno a spiegarti, angelo / So perfettamente quello che sta succedendo."

Se tra Dante e Giudici si passa dal paradiso alla Terra, i Taking Back Sunday prendono l'angelo e lo caricano del peso di ogni male. L'uomo ferito non accetta il fatto che la sua storia d'amore sia andata male e quindi comincia a concepire la donna come un demonio da esorcizzare, la fonte di ogni suo dolore. E voi direte, sticazzi dei Taking Back Sunday. Ma io dico, la loro scena di riferimento - l'emo dei primi anni Duemila, nella sua concezione meno underground - ha formato generazioni di ragazzi e ragazze. Gli stessi che oggi prendono quelle modalità emotive e le usano per fare rap.

Prendiamo Juice WRLD, uno dei rapper esordienti più interessanti di cui si è cominciato a parlare negli ultimi mesi. La sua è una voce vibrante, simile a quella di Post Malone, e il suo gusto per la melodia è a dir poco affinato.

Juice WRLD, screen dal video di "Lucid Dreams".

"Lucid Dreams", il cui beat campiona "Shape of My Heart" di Sting, è una hit da manuale: riferimento musicale che tutti conoscono rilavorato in chiave contemporanea + melodie memorabili + un ritornello che si stampa in testa indipendentemente dal suo contenuto. Lo stesso vale per "Wasted", che contiene la strofa di Lil Uzi Vert più coinvolgente dai tempi di "XO Tour Llif3", la sua voce come la moltitudine di zampette di un millepiedi che corre sulla pelle dell'ascoltatore. E anche, in chiave lo-fi, per "All Girls Are the Same", il pezzo che lo ha fatto conoscere alle masse grazie a un video diretto da Cole Bennett, videomaker artefice del successo di rapper come Lil Pump, Ski Mask the Slump God e Lil Xan.

Ma che cosa dice il testo di "All Girls Are the Same"? Tendenzialmente, che le donne sono tutte stronze. Che lui, voce narrante, vuole solo un amore vero e sta male un sacco perché non riesce a trovarlo. Ma non per colpa sua: per colpa delle ragazze, che sono tutte uguali. Ragazze che, guarda caso, sono "il diavolo, che sogghigna". La figura della donna-angelo-diavolo, bambola voodoo in cui ficcare gli spilloni della propria frustrazione, torna spesso nei pezzi di Juice:

"Sono così in alto che sono tra le nuvole con gli angeli caduti / demoni con le aureole"
- "End of the World"

"Lei è un angelo con le corna da diavolo / Ha messo la mia roba fuori dalla porta / Chiudi la bara, mettila in un obitorio"
- "Devil Horns"

"Spero senta il mio messaggio / Lo giuro, è un angelo rinato in paradiso"
- "Forever"

"È un angelo, ha la bamba / Io sono fatto, sono drogato / Che cosa faresti per amore? / Spareresti per amore?"
- "Shoot for Love"

In Juice WRLD l'amore è qualcosa di complesso e irraggiungibile. Incapace di concepire il rifiuto, lui si rifugia nell'alcool e nella cocaina. Si crogiola nel dolore, invece di analizzarlo, arrivando anche a fantasticare su soluzioni estreme come il suicidio e l'omicidio: "Sono arrivato alla conclusione che non puoi uccidermi se ti uccido prima io", dice in "Candles". Proprio come facevano i Taking Back Sunday, millantando pistole alle tempie come se fossero soluzioni plausibili alla semplice rottura di un rapporto.

La fregatura è che Juice WRLD è davvero bravo. Le sue melodie sono memorabili e prendono l'ascoltatore al lazo, felice di essere trascinato sulla ghiaia come una capretta dalle sue acrobazie vocali. E quindi ti puoi trovare a cantare "So che mi vuoi morto / Prendo medicine per stare bene" come se fosse la cosa più normale del mondo. E un conto è farlo consci dell'operazione artistica del rapper di turno: Juice probabilmente non è depresso, è capace di avere una relazione sentimentale normale ed è solo gasato per quel-tipo-di-emo. Un altro è assorbire concetti e sviluppare la propria idea di relazione basandosi su una visione prettamente maschilista e vittimista del rapporto amoroso.

Geneva Ayala, la ragazza che XXXTentacion avrebbe aggredito, in una fotografia postata da lei stessa su Twitter.

Le stesse idee tornano nell'opera di XXXTentacion. "WingRiddenAngel" è un pezzo narrato dalla prospettiva di un uomo che si è suicidato perché innamorato di una donna-angelo che lo ha fatto stare male: "Shhht, stai zitta angioletto / Bottiglietta di pasticche, svenuto sul marciapiede [...] Mi taglio le vene per il lungo, non per il largo, voglio sanguinare / Tu fatti crescere le ali, vola via".

X ha fatto del tormento amoroso la chiave di lettura della sua esperienza di vita, usandolo sia per fini nobili - cioè per parlare di depressione e spingere i suoi ascoltatori a non arrendersi alle loro debolezze - che per pararsi il culo dalle accuse rivolte nei suoi confronti dalla sua ragazza, che lui avrebbe picchiato e rapito mentre lei era incinta. "Mi sono ficcato le unghie nelle braccia / Lei si è girata e ha riso delle mie cicatrici", diceva in "ALONE PART 3", dipingendosi come vittima di una donna-diavolo.

Angels & Demons è anche il titolo di un EP collaborativo di Trippie Redd e Lil Wop. Nella prima canzone, "Like a Savage", Trippie esordisce dicendo "Dice che mi ama, penso di no / L'ho chiamata e l'ho scopata / È innamorata del cazzo", coronando lo schifoso messaggio che Lil Wop affida al ritornello:

"Le ho spezzato il cuore, l'ho guardata piangere e mi sono messo a ridere / Mi hanno fatto male troppe volte, ormai non me ne frega un cazzo [...] Quella tipa mi ha spezzato il cuore, giuro, è colpa sua se sono un selvaggio / Ma ogni tanto la chiamo ancora per scoparla, come un selvaggio".

Lil Peep faceva invece quasi eccezione. Invece di definire la donna un angelo caduto si identificava lui stesso nella figura dell'essere soprannaturale tra sacro e profano, risultando paradossalmente più sincero dei suoi colleghi. Sebbene le sue relazioni siano sempre causa di un dolore che sceglieva di gestire drogandosi e deprimendosi, la sua voce era cosciente di essere almeno in parte colpevole della sua incapacità sentimentale.

Lil Peep, fotografia di Christopher Bethell.

Peep aveva ancora stupide fantasie femminicide ("Preferirei guardarti morire dissanguata / Piuttosto che guardarti mentre te ne vai, come le altre", cantava in "Pick Me Up"). Si presentava comunque come uno stalker ("Lei dice che si sente in pericolo / Ma che pericolo? / Sono io che la seguo", dichiarava in "Beat It"). Ma almeno sapeva di essere una persona problematica, e l'immagine dell'angelo-demone lo aiutava a giustificarsi:

"Hai già preso il mio numero? È 666 / Anelli di diamanti, sono un diavolo con le ali d'angelo"
- "Last Fall", GOTHIBOICLIQUE

"'Sti occhi hanno visto le cose più strane / Passando nessuno nota le mie ali d'angelo / Mi faccio perché per me la vita non vale un cazzo"
- "Angeldust"

In Italia spesso ascoltiamo rap perché ci gasano le melodie e i personaggi-rapper, non perché capiamo quello che stiamo ascoltando, e quindi le sue implicazioni. Non sappiamo l'inglese e ce ne freghiamo se chi canta è una persona problematica. Ma comunque assorbiamo idee e stili di vita di chi ascoltiamo, ci rifacciamo ai grandi modelli traducendoli nella nostra lingua, diamo validità al loro punto di vista. Il rap è una forma espressiva dominata da uomini che, fedeli alla tradizione misogina cominciata negli anni Ottanta con le parole di Ice T, degli N.W.A. e dei 2 Live Crew, continuano in buona parte ad aderire all'uso di un linguaggio sessista. Le voci maschili che fanno eccezione sono fortunatamente molte e sembrano diventare sempre di più con il passare del tempo: da Chance the Rapper a milo, da Jay Z a Tedua. Ma nel SoundCloud rap queste faticano a fare capolino.

Se il SoundCloud rap ha avuto l'enorme merito di introdurre nel canone hip-hop il grande tema della salute mentale, dall'altro ha aderito all'immaginario emo nella sua declinazione più maschilista e cieca alle istanze femminili in ambito relazionale. Come ha ricordato Tom Breihan di Stereogum in un articolo che è servito da ispirazione a quello che state leggendo, nel 2003 la giornalista Jessica Hopper diede uno scossone all'emo americano riconoscendo la problematicità della figura femminile nell'opera delle più grandi band della sua epoca:

Nelle canzoni emo alle donne viene negata la dignità dell'umanizzazione sia attraverso l'uso del linguaggio che della narrazione. Siamo onnipresenti ma simili a miraggi, solo una conseguenza in scenari romantici.
- Jessica Hopper, "Where the Girls Aren't", 2003

Sebbene resti una sottocultura popolata principalmente da uomini problematici che mettono il proprio ego al centro del loro personale discorso amoroso, l'emo ha dimostrato di essere capace di di cogliere le sfumature più sottili degli incastri relazionali che costruiamo in quanto esseri tanto razionali quanto emotivi, e anche di essere esplicitamente femminista. Il SoundCloud rap si è appropriato delle sue sonorità introducendole a un pubblico enorme ma non è ancora riuscito a parlare d'amore senza ridurre una donna a un pezzo di carne, una bitch o una stronza, semmai giustificando i propri comportamenti in nome di un generico senso di edonismo fatalista.

Ragioni storiche e sociali hanno impedito per secoli alle donne di narrare i loro amori, e le arti sono state finora fatte in gran parte dagli uomini. Il che vale anche per la musica, e soprattutto per il rap: voci femminili a cui è permesso di esprimere emozioni complesse in forma-canzone sono ancora una novità per cui ci esaltiamo, sebbene dovrebbe essere la normalità. Perché lo diventi è necessario un impegno comune, un ascolto attento, la voglia di approfondire. Altrimenti possiamo sempre accontentarci di 6ix9ine che rappa dei pompini che si fa fare da ragazze che poi sbatte fuori dalla porta a calci.

Elia è su Instagram.

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Pusha T ha annunciato un concerto in Italia

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Se seguite le cose del rap saprete che Pusha T ha pubblicato uno degli album più belli di questi primi sette mesi del 2018, che si chiama DAYTONA e che ha scatenato uno dei dissing più esaltanti della storia recente dell'hip-hop, culminato nella rivelazione che Drake aveva un figlio segreto. Bene, ora sappiate anche che Pusha sta per tornare nel nostro paese a cinque anni da quella volta che ve lo portammo noi a Milano.

Pusha T ha annunciato un concerto in Italia, che si terrà martedì 9 ottobre al Fabrique di Milano. Noi saremo media partner dell'evento e saremo lì presenti a conoscervi e regalarvi delle cose assieme ai ragazzi di Radar Concerti, che hanno organizzato il tutto. Al concerto manca ancora un bel po', ma almeno questa cruel summer in attesa del ritorno di King Push la passeremo assieme. I biglietti sono già in vendita. Eccovi la locandina, ci aggiorniamo presto.

Un genio ha fatto una mappa delle città nelle canzoni di Calcutta

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Poco fa stavo scorrendo le Instagram stories di Calcutta perché è il mio lavoro, e mi sono trovato davanti una di quelle cose semplici e geniali che ti fanno dire "ma come ho fatto a non pensarci prima". L'ironia sulle città citate dal cantautore di Latina non ha limiti e sfocia nel macchiettistico, ma ciò non ci impedisce di apprezzare il genio di un fan di nome Stefano Monteduro, che ha costruito una mappa interattiva con tutti i luoghi menzionati nelle sue canzoni. Si sarà ispirato a quell'altra grande opera d'arte che era Mappiato, la mappa dei luoghi citati da Franco Battiato? Chi può dirlo.

Calcuttamappadi.it è un capolavoro. Non è solo per la gag di zoomare sull'Italia e vedere tutte le bandierine che Calcutta ha piazzato (e scoprire così che le sue simpatie si concentrano principalmente su Lazio e Veneto, ma che t'ha fatto la Toscana, per dire?), ma cliccando su ogni città si apre un pop up con la trascrizione e il frammento audio della strofa in questione, completo di link per ascoltare o acquistare il brano online. Cosa c'è di meglio in questo pigro pomeriggio estivo che viaggiare con la fantasia sulle note di Calcutta?

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Sono stata al concerto dei Justice con Quentin40

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Non so che cosa amiate fare voi, se vi viene la febbre a luglio e siete a Milano, ma so quello che amo fare io: rollarmi in un lenzuolo e desiderare di morire. Ah, e ovviamente rendere compartecipe di quel desiderio di non esistenza chiunque si trovi nei miei paraggi. Quando va appena un po’ meglio desidero insultare il prossimo, ascoltare la Bandabardò e guardare film con Hugh Grant, non so se per stare meglio o peggio. Ecco, questo per dire che tra le ultimissime cose che mi verrebbero in mente di fare, subito dopo la doccia-male-assoluto, ci sarebbe andare a un concerto.

Ed è invece quello che ha fatto Quentin40, che nonostante stesse male (proprio male) è comunque venuto con noi al Milano Summer Festival, piazzato in quella location da rave party di zanzare che è l’Ippodromo di San Siro, per vedere i francesi Justice. Un’impresa stoica quella di Vittorio, e su più strati: il primo quello segnalato dal termometro, il secondo quello del contesto, che vedeva in line-up anche MGMT e Parcels. Tutta roba che non lo fa esattamente volare via di testa. Ma lui, che come leggerete è un ragazzo realmente sorprendente, ha tenuto botta, e meno male, perché chiacchierarci è stata senza dubbio la cosa più bella della giornata.

Fan degli MGMT al concerto degli MGMT.

Noisey: Partiamo dai Justice. Fanno parte dei tuoi ascolti?
No, però qualcosa conoscevo, alcuni pezzi me li sono andati a cercare in vista di oggi, perché non li sapevo ricondurre a dei titoli. Non è il mio genere, ma sono carichi e questo mi piace.

Un legame tra te e loro c’è, visto che usi il francese nei tuoi pezzi.
Il francese è andato di pari passo con il tagliare le parole, è stata più una scelta stilistica che non qualcosa di dettato da un legame con la Francia. Ho provato, suonava bene, mi è piaciuto farlo, e da lì ho cavalcato un po’ questa commistione, che si sposa bene con le parole a metà.

Ti piace il rap francese?
Mi piace, non sono un super appassionato che sa tutto, però apprezzo tanto la cultura musicale rap che c’è lì. È una cultura vera, a differenza della nostra.

Questo è un momento in cui Francia e Italia stanno andando d'accordo, tra l'altro, a livello di scena hip-hop.
Iniziano a esserci dei bei legami ma penso proprio a livello europeo, sai? C'è voglia di collaborare tra artisti di varie nazioni, piuttosto che di chiudersi. E lo dobbiamo soprattutto ad alcuni di noi italiani che hanno fatto queste cose pazze, nuove. Come Sfera, che è riuscito ad uscire dai confini nazionali senza fare roba pop, senza fare cose da centro sociale. Ecco, oggi i grandi numeri li puoi fare anche senza per forza rientrare in quelle due categorie lì.

Al di là della tecnica che usi, mi sembra che nei tuoi nuovi pezzi tu abbia anche voluto cambiare le tematiche che tratti.
Sì! Anzi, sarà ancora più evidente nei prossimi pezzi. Ho cercato di stravolgere non solo la metrica, ma anche il concetto che arriva all’ascoltatore.

Quanto è difficile in Italia essere innovativi?
Abbastanza. Le cose più semplici sono quelle che funzionano meglio, che vengono cantate da tutti ai concerti. Questo lo sapevo anche quando ho fatto le parole a metà. Solo adesso, per dire, le persone iniziano a cantare qualcosa di "Thoiry" quando mi vengono a sentire. All'inizio arrivavano per me ma non la sapevano cantare.

Da che cosa è nata questa voglia di cambiare tutto?
Innanzitutto bisogna considerare che siamo tantissimi, oggi, a fare rap. Già un anno fa lo eravamo e io ho iniziato in un mondo che già straripava di gente, quindi l’obiettivo che mi sono posto è stato quello di colpire nei primi secondi di ascolto. Magari può sembrare che le parole a metà siano una scemenza ma è qualcosa di particolare, e questo può fare la differenza. A livello di testi, invece, resto il più lontano possibile dal gangsta rap. Non mi rappresenta in alcun modo.

In che senso?
Lo vedi. Non sono tutto tatuato e anche se sono cresciuto in una periferia tosta di Roma non ho mai sentito il bisogno di dover continuare a dimostrare qualcosa. Per me il rap è condivisone, non è una dimostrazione. I voglio arrivare ai ragazzi con dei valori veri. Non con questa cosa della paura, del rispetto che ti fa dire che “io devo essere rispettato per questo, questo e questo”.

È quest'idea di condivisione che ti ha fatto conoscere Achille Lauro?
Con Lauro è andata che io ero sempre alle sue serate, anche quelle piccole nei centri sociali. Poi lui ha sentito "Thoiry", s’è preso bene, mi ha chiamato e mi ha detto “è Natale per te”. E in effetti lo è stato, perché mi ha cambiato la vita. Io da ottobre sto a Milano, prima lavoravo al bar.

"Thoiry" inizia con una citazione de L’Odio, quindi ti chiedo: fino a qui tutto bene?
Penso sia presto per avere paura dell’atterraggio, però non ci vedo un futuro a lungo termine in questa cosa. Anche se adesso è il momento del rap, io non penso sia l’arma per arrivare al cento per cento ai ragazzi.

Quentin40 e l'autrice.

Ti piace guardare avanti?
Sì. Penso molto a che cosa voglio realmente dalla vita. Figli, moglie, famiglia. Non che non possano convivere con una carriera nel rap, però sono obiettivi diversi.

Nel video di “Scusa ma” unisci spesso le mani in segno di preghiera: è stato causale o è qualcosa che fa parte della tua vita?
Rispecchia molto di me. Diciamo che c’è stata una lunga parte della mia vita molto legata a questo. Per me la spiritualità è molto importante.

Questa cosa la riesci a condividere con i tuoi colleghi?
Sì, ma vorrei che fosse proprio il mio discorso, capisci? Quello che vorrei veramente far arrivare ai ragazzi. Ci sono tante cose molto più importanti di quelle che oggi vengono ostentate. Non voglio fare il nonno della situazione, però fino a qualche mese fa stavo al bar a lavorare e in TV vedevo cose che non mi rispecchiavano per niente. Allo stesso tempo, sognavo di esserci dentro anch'io, ma dicendo cose diverse. Senza omologarmi pur di arrivare, che è una cosa terribile. A volte penso "Fortunato chi sveglia una mattina, impazzisce e cambia tutto quanto". Se qualcuno lo facesse lo apprezzerei tanto.

Questo è anche un momento in cui si stanno rompendo certi tabù, penso a Gemitaiz che ha detto di essere stato in analisi.
Certo, questo è molto importante. Tanti artisti, che piacciano o meno non conta, hanno aperto un varco a discorsi più intimi ed è una cosa che fa bene a tutti quanti.

Credi sia un po' finito il tempo del dissing?
Incredibilmente sì. E penso sia legato al fatto che ci siano più professionisti del settore che lavorano meglio e fanno sì che prevalga l’amore piuttosto che il voler pestarsi i piedi.

Con Roma, invece, che rapporto hai?
Ho sempre voluto non dico scappare, ma allontanarmi sì. Preferisco Milano per mille motivi, sia professionali che personali. Sono legato al mio quartiere e mi mancano gli amici, perché qui non ne ho, però Roma è L’odio. L’odio vero.

Chi è la persona che ti ha supportato di più?
Il mio migliore amico. Lui ha scritto al mio attuale produttore per farmi andare a registrare, perché io facevo tutto a casa col telefonino. Mi ha proprio spinto. Glielo devo a vita, non ce l’avrei mai fatta senza di lui. Ma proprio nemmeno ad aprirmi, ce l’avrei fatta, figuriamoci il resto.

E a casa i tuoi come l’hanno presa questa scelta di fare musica?
Mio padre non l’ha mai presa bene. Anche se ho preso il diploma lavoravo quasi tutti i giorni al bar e iniziavo ad avere una vita normale. Comprare la macchina, portare una ragazza a cena fuori. La musica è stata vista con paura, come qualcosa che potesse distrarmi dalla normalità e farmi perdere tempo. Oggi i miei sono un po' più sereni, ma cambia poco.

Tre tipici membri del pubblico dei Justice e l'autrice.

Sei uno cha va spesso ai concerti?
Ci andavo di più prima e soprattutto in situazioni piccole, da caciara proprio, da centro sociale, perché sono quelle che ti fanno stare più vicino all’artista che ami. Comunque sono stato anche ad eventi più grossi. Sono un grande fan di Max Pezzali e sono andato un sacco di volte a vederlo al Palalottomatica. Di lui, come di altri artisti americani che fanno un genere più dolce e delicato, mi attrae il fatto che poi nella vita di tutti i giorni siano un matto vero, che abbiano una personalità così forte che, appunto, uno di solito associa al gangsta rapper, al maschi alfa per eccellenza.

Mi dici qualcosa in più di "Fahrenheit", il tuo ultimo pezzo?
È nato poco tempo fa a Milano ed è l'ultimo che ho registrato. Per me è molto importante perché è semplice ma contiene la situazione più reale di tutte, sia a livello di sonorità che di mio racconto. C’è dentro Milano, l'Enjoy, tutte le cose nuove della mia vita.

Nelle tue canzoni hai citato Ruben Sosa e Bobo Vieri, riferimenti calcistici di qualche tempo fa. Perché?
Oggi di bomber ce ne sono tanti, ma più bomber di Vieri non c’è stato nessuno. Ruben Sosa è un gioco di parole riferito al mio produttore, Dr. Cream, che si chiama Ruben e io tormento chiamandolo così. Anche per la leggenda legata a Sosa, che lo voleva mezzo criminale.

Quindi non sei laziale?
No, assolutamente. Questo lo scriviamo bello grande, eh.

Hai un'estetica e un modo di riferiti alle cose che sembra essere quella di uno sportivo. Oserei dire di un pugile.
Sì, facevo proprio pugilato. Sia sul ring che sul palco, lo sport è sia forza esplosiva che rigore e freddezza. In ambito musicale sto iniziando solo ora ad avere questo controllo. Prima l’emozione mi sopraffaceva, ora riesco addirittura a mangiarmi una pizza prima del live. Per me sono passi da gigante. Sono molto ansioso, quindi ho dovuto lavorare il triplo su questa cosa, ma adesso me la vivo molto meglio.

I Parcels.

A questo punto abbiamo abbandonato i divanetti incandescenti su cui eravamo seduti per raggiungere la zona concerti, dove la gente ingannava l'attesa del concerto inventandosi modi per scacciare le zanzare. Immaginate un pubblico formato dai pupazzi gonfabili che salutano come degli scemi dei Griffin. Seppur in modo involontario il tutto si sposava bene al live dei Parcels, cinque ragazzi che sembravano essere in uno stato di presa bene completa che però non ha contagiato me, Vittorio e la sua manager. Tant’è che ne abbiamo approfittato per mangiare e chiacchierare ancora un po’.

Mentre diventata via via più pallido e si accasciava sul tavolo, Quentin mi ha raccontato che “a differenza di molti che fanno il mio genere, io durante il live non ho la voce registrata in base. Inizialmente non era un presa di pozione, semplicemente mi andava così. Poi quando tutti mi hanno voluto convincere a metterla, allora mi sono proprio impuntato e ho detto no". Poi alle 20 e 20 spaccate hanno iniziato gli MGMT e io avrei voluto avere una fascetta da mettere intorno alla testa per tuffarmi appieno negli anni della nu rave.

Andrew VanWyngarden degli MGMT.

Il loro concerto è stato segnato da luci e ombre. L'idea era quella di un viaggio psichedelico aperto da "Little Dark Age", un brano che però parla un sacco di morte e non ha quindi aiutato il mio ospite a riprendere colore. Nel frattempo il nostro fotografo, Kevin, aveva cominciato a lagnarsi del fatto che gli altri fotografi stessero guardando la sua macchina ("la più piccola di tutte") con un misto di tenerezza e disprezzo. In un tentativo di risultare affascinante si è messo a farsi una foto con Xavier dei Justice, che era sceso sotto la transenna per guardare il concerto degli MGMT. Quando questo gli ha chiesto perché si tagliasse via la faccia dal selfie gli ha risposto "I'm a mysterious photographer". Questo è stato il momento in cui tutto sembrava dover precipitare, ma poi gli MGMT hanno fatto un mash-up tra "Kids" e la canzone de La storia infinita, confondendo tutti i nati dopo il 1988, e tutto è tornato degno di essere vissuto.

Xavier dei Justice a guardare gli MGMT.

Alle 22:30 è arrivato il momento dei Justice, che hanno deciso di toccarla piano piazzando una quarantina di casse Marshall sul palco (che poi si sarebbero rivelate, come da loro tradizione, solo dei grandi LED). Sono passati poco più di dieci anni dallo storico concerto all’Arena Civica di Milano, quando avevano fatto uscire solo il loro primo album capolavoro . Oggi che sono arrivati al terzo si presentano all'Ippodromo di San Siro con un repertorio molto più vasto e anni di tour trionfali alle spalle, ma con un hype decisamente più basso. E invece quando Xavier De Rosnay e Gaspard Augè si sono presi il palco hanno ricordato all’istante a tutti perché ha senso definirli gli eredi dei Daft Punk.

I Justice.

I Justice sono e saranno sempre delle rockstar armate di sintetizzatori, ma con tutta la classe di chi ha interiorizzato e perfezionato l'arte della French Touch. Quello che mi ha colpita, guardando i gesti scomposti di chi divideva con me un pit non eccessivamente denso di umanità, è stato che i fan dei Justice sono trasversali. Ci sono hipster, raver, metallari, fighetti, cinquantenni, e un trio di geni vestiti uguali ma provenienti da angoli diversi del globo.

I Justice.

E poi c’era Quentin, che ormai non ce la faceva più e che desiderava solo ingurgitare della tachipirina e infilarsi a letto. Ma dato che, come avrete capito, è uno che tiene fede ai patti, prima di salutarmi ha così commentato il live a cui lo abbiamo trascinato: "Trovo molto interessante come un gruppo diciamo del passato possa risultare così all’avanguardia, anche grazie al fatto che sanno mixare perfettamente i generi. Non c’è gap generazionale quando artisti del genere danno una vera dimostrazione di personalità sul palco, nella loro musica e nella vita".

Carlotta è su Instagram.

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Guarda il nuovo episodio di Noisey Personal con Rasty Kilo

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"Se vi aspettate che questa cosa mi abbia ammorbidito, vi sbagliate di grosso. La detenzione mi ha incattivito", ci aveva raccontato Rasty Kilo quando lo avevamo intervistato una volta libero dai domiciliari. Nel nuovo episodio di Noisey Personal abbiamo parlato con lui di depressione, di com'è vivere in un quartiere al di fuori della normalità e di quella volta che ha pensato di abbandonare la musica.

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Un giro ad Atlanta con Lil Baby, predestinato della nuova trap

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Pochi mesi fa, Lil Baby si è comprato una macchina che la maggior parte delle persone non potrebbe mai permettersi e che molti nemmeno conoscono. La Chevrolet Corvette Z06 2019 costa circa 85.000 dollari, senza optional aggiunti. È un'automobile che senti arrivare da molto lontano, e il rombo profondo e potente che emana è il motivo per cui la gente la acquista. “Ti dà la carica,” spiega Lil Baby. Siamo ad Atlanta, nel parcheggio degli studi della Quality Control, la sua etichetta, la stessa dei Migos, di Rich the Kid e di Lil Yachty. Dobbiamo urlare per sentirci tanto è forte il rombo della Chevrolet SS del suo amico. I due stanno provando il motore e osservano una macchia sul tubo di scappamento, che sembra essersi fuso per il calore.

“Quando sei un ragazzino nero che viene dal quartiere, hai bisogno di una macchina che faccia un sacco di casino,” spiega Baby. C’è una frase della sua canzone "Trap Star" in cui descrive il momento in cui arriva al centro commerciale di West End ad Atlanta con la sua prima auto, una Dodge Hellcat, e gli sembra un sogno.

Gli ho chiesto se potessi salire sulla Corvette con lui. Mi ha guardato, dall’alto verso il basso e poi mi ha chiesto, “Sai sparare?”. Dal momento in cui ci siamo incontrati mi sta insultando perché non ho portato con me una videocamera per documentare ancora meglio il suo stile di vita. Mi ripete la domanda, facendo il gesto di una pistola con la mano. Poi ride e immagina da solo la risposta, “Allora non puoi salire sulla coupé!”

Così sale sulla Corvette con il suo amico G-Five, il ragazzo di cui parla in “To the Top” quando dice “free G-Five on the G5”. Poi svolta bruscamente, fa manovra in quei pochissimi centimetri di asfalto a disposizione ed esce dal parcheggio, lasciando i segni degli pneumatici sul cemento.

È passato poco più di un anno dall’esordio di Lil Baby, eppure è già riuscito a diventare uno dei rapper più forti della scena di Atlanta. A partire dallo scorso aprile ha pubblicato quattro mixtape: Perfect Timing, Harder Than Hard, 2 The Hard Way e Too Hard. Il 18 maggio ha pubblicato il suo album d'esordio, Harder Than Ever. È migliorato di uscita in uscita, perfezionando il suo stile e affinando una sonorità già piuttosto ricca.

La canzone che lo ha reso famoso, "My Dawg", è uscita la scorsa estate. È una hit ritmata con un ritornello memorabile. Il suo pezzo più famoso è però “Freestyle”, una traccia vagamente melodica di due minuti e mezzo senza ritornello. Altro singolone da radio è stato “Suddenly,” un duro ma divertente botta e risposta con il rapper Moneybagg Yo senza alcuna melodia.

Pezzo dopo pezzo, il sound di Baby cresce e si arricchisce, di pari passo con la generazione di Young Thug e dei Migos, con cui ovviamente ha già collaborato, visto che sono amici. Ha anche fatto un pezzo con Gucci Mane. E ha fatto uscire una canzone con Drake. Si chiama “Yes Indeed.” Ed è una bomba.

I fondatori di Quality Control, Pee e Coach K, si sono resi conto del potenziale artistico e musicale di Lil Baby prima ancora che se ne accorgesse lui stesso. Pee conosceva Baby sin da quando era adolescente: sono cresciuti nello stesso quartiere, anche se con un paio di generazioni di distanza. “Tutti conoscono Lil Baby nel quartiere,” spiega Pee. “Era sempre in studio, scommetteva contro gli altri rapper e roba del genere, conosceva tutti. Coach diceva sempre, tipo, ‘Lil Baby ha stile, lui è proprio il tipico tipo vero di Atlanta'".

Nonostante ci fosse gente importante che credeva in lui, Lil Baby ha cominciato a valutare fonti di reddito che non fossero lo spaccio solo quando si è preso una condanna a due anni di carcere. Una volta uscito di prigione Baby ricominciò a frequentare lo studio, ma stavolta per fare musica. Pee lasciò che i producer gli passassero i beat, così che lui potesse capire quale fosse il suo stile. “Si capiva che era agli inizi, ma i pezzi erano piuttosto accettabili,” dice Pee. “Io gli ho detto, ‘l’unica cosa di cui devi parlare è la tua vita. E tutto quello che hai visto e fatto.’”

Un’ora dopo l’orario del nostro appuntamento ricevo una telefonata dal manager di Lil Baby, Rashad, che mi dice che sta andando sul set di un video e se posso raggiungerlo lì. Baby arriva nel parcheggio sgommando sulla sua Corvette e va dritto verso Rashad, che gli molla in mano una mazzetta di contanti per il video.

“Baby è troppo esplicito per essere raccontato da un giornalista,” mi dice all'improvviso Lil Baby, passandomi di fronte. I suoi amici–che si presentano come Hotboy Nunk, Baby Gangsta, 4PFDT, Lil Tiger e G-Five–annotano il loro nome sul mio taccuino, nel caso in cui l’articolo venisse decente. Nelle foto, anche quelle che posta sul suo profilo, Lil Baby è stoico: guarda l’orizzonte con un’espressione piatta. Nella realtà, è sempre in movimento. Adora essere al centro dell’attenzione ed è bravissimo a tenere lontano gli sconosciuti.

Lil di nome e di fatto, Baby è basso e gracilino. I pantaloni ovviamente gli vanno piuttosto larghi. Un gruppo di ragazzi sta spostando una Lamborghini dal parcheggio nel magazzino per girare la scena. Tre modelle in tacchi a spillo e body succinti gli gironzolano intorno prima di prendere coraggio e chiedergli una foto.

Lil Baby vive in un mondo di modelle e auto da corsa, ma non lo fa per le apparenze. Lo fa per vantarsi. Per uscire a testa alta (e rombando forte), dopo aver fatto da supporter a un concerto davanti a una folla di persone che sa a memoria tutti i suoi pezzi anche se era lì per vedere un altro rapper. È per la soddisfazione di sfrecciare tra le strade di Atlanta, passare col rosso, assordare tutti con il rumore di quel motore potente. È raccontare con gioia al tuo manager, il giorno dopo, quanti semafori hai completamente ignorato.

La musica di Baby si inserisce all’interno di una dimensione più ampia di voci distorte, introdotte nella trap di Atlanta da Future e Young Thug nell’ultimo decennio, ma il suo stile tende più verso pezzi ben ritmati e cantabili. “Devo tutto a Dio, e credo che fosse tutto già dentro di me,” mi dice. “Ho dovuto solo tirarlo fuori. Dovevo farlo. Non c’era altro modo.” Tuttavia la pratica è stata fondamentale. Baby ha trascorso il 2017 chiuso in studio a produrre musica e i suoi progressi sono evidenti nella successione di mixtape che ha prodotto.

Il suo talento innato si rivela nel modo in cui Baby si dimena agilmente tra le rime, come se stesse raccontando agli amici le sue storie folli. I versi veloci e concitati sono la cosa che gli viene meglio, come se stesse mettendo insieme le idee per giungere a una conclusione. In “Hurry,” snocciola rapidamente una serie di minacce, rappando, “Non dirò il tuo nome in una canzone / Metterò la tua faccia su una t-shirt / Il tuo corpo nel fango / N**** sei una fighetta, dov’è la tua gonnellina?” Generalmente sceglie beat poco vistosi, per fare sì che le sue parole risaltino ancora di più.

Non è solo estetica, è l’eredità di Atlanta a determinare il sound di Baby. Nel rap, come in tutta l'industria musicale, ci si concentra troppo sul contorno e poco sulla sostanza: tutti a discutere di tweet, gossip e prestigio, ma nella produzione di Baby c’è qualcosa di più autentico. “Lil Baby non è il classico rapper di internet,” ha detto Pee. “Non ha buttato una canzone su SoundCloud e basta. Ma è andato là fuori, nelle strade del quartiere, a conquistarsi il successo passo dopo passo.” Una cosa che conferma anche Lil Baby stesso. “Non so neanche bene come funzioni il SoundCloud rap,” mi dice.

Può sembrare azzardato sperare che Lil Baby riporti in auge la trap più classica. D'altro canto il suo nome è Lil Baby, mentre Young Jeezy rappa come se fosse nato con manciate di cocaina tra le mani. Ma se ci pensate bene è molto più logico di quello che sembra, considerando quello che la sua figura rappresenta. La trap effettivamente parla molto di droga, ma anche di motivazione, di come ci si sente a essere l’eroe del quartiere. Quasi tutti quelli con cui ho parlato hanno descritto il sound di Lil Baby come “reality rap,” e inizialmente mi è sembrata una definizione già sentita. Tutti gli artisti si definiscono reali, autentici. Ma Lil Baby vuole che anche tu capisca la realtà che lui racconta e rappresenta. La cosa davvero autentica di Baby, oltre alle cose che dice nelle canzoni, è l’ispirazione dietro ogni pezzo.

E così, io e la mia crew ci ritroviamo a inseguirlo per le strade di Atlanta fino a un centro commerciale, il West End Mall, mentre lui sfreccia sulla sua Corvette nell’ora di punta. A un certo punto, passa accanto a un poliziotto sgommando, e facendolo incazzare parecchio. Una volta raggiunto il centro commerciale, Lil Baby fa un giro e compra un cappello nuovo (ed è super gentile con la commessa). Due ragazzine si avvicinano timide, sperando di riuscire a scattare una foto. Poco dopo si scopre che a una delle due avevano appena rubato il cellulare nel bagno del centro commerciale. Lil Baby non dice nulla, le dà 500 dollari in contanti e se ne va. Così.

Il quartiere qui attorno è quello dove Lil Baby è cresciuto. Lì c’era il supermercato, ci spiega, dove andava a riposarsi dopo aver lavorato tutto il giorno su e giù per le strade. Entra per comprare delle caramelle, il ragazzo alla cassa è nuovo, non lo riconosce. Ma tutti gli altri sì. Mentre passa in auto, un tizio gli urla di andare a vedere il suo nuovo negozio. Delle ragazze si sporgono dal tettuccio di un SUV decappottabile gridando il suo nome. “Nessun altro rapper ti porterebbe nel suo quartiere a fare un giro, senza sicurezza,” e me lo dice così, in tutta tranquillità. Eppure in quel momento, era davvero difficile immaginare che qualcuno potesse avercela con lui.

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Una versione più ampia di questo articolo è comparsa originariamente su Noisey US.


Quattro persone sono state incriminate per l'omicidio di XXXTentacion

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Dopo Dedrick Williams, ragazzo di 22 anni arrestato dalla polizia a fine giugno con l'accusa di omicidio volontario, altre tre persone sono state incriminate per l'omicidio di XXXTentacion. Lo riporta una testata locale, il Sun-Sentinel. Una conferma ufficiale è arrivata anche dallo sceriffo della contea di Broward, lo stesso che aveva confermato la morte di X la sera dell'omicidio.

I nomi degli accusati sono Michael Boatwright, Dedrick Williams, Robert Allen, e Trayvon Newsome. I primi due sono già stati arrestati, mentre Allen e Newsome sono ancora a piede libero. Tutti e quattro sono accusati di omicidio volontario e rapina a mano armata. Vi aggiorneremo su eventuali sviluppi della situazione.

Le 3 migliori nuove uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e a partire dalla settimana scorsa ve ne consiglieremo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

CHANCE THE RAPPER - "I MIGHT NEED SECURITY"

Quattro nuovi pezzi di Chance The Rapper sono comparsi a sorpresa su Spotify ieri e internet è immediatamente impazzito. D'altro canto era dai tempi di quel piccolo capolavoro che fu Coloring Book che Chance restava in silenzio. Tra tutti, "I Might Need Security" è il più importante e particolare: costruito su un sample che ripete ossessivamente un liberatorio FUCK YOU, Chance scrive quello che forse è il testo più politico della sua carriera, annunciando inoltre di aver acquistato un giornale di Chicago.

Chance canta: "Ho comprato il Chicagoist per farvi fallire, figli di puttana / Parlando di razzismo, fanculo le vostre micro-aggressioni / Vi farò mettere a posto le vostre parole come se vi facessi notare un refuso". The Outline ha analizzato in maniera intelligente questo pezzo alla luce del rapporto complicato che Chance ha con la stampa, ricordando quella volta che minacciò MTV di non lavorare più con loro dopo la pubblicazione di un pezzo solo leggermente critico nei suoi confronti.

PALAZZI D'ORIENTE - MORGENGABE

Palazzi d'Oriente è un ragazzo italiano che produce beat che starebbero benissimo su una radio lo-fi hip-hop ma sa anche fare partire la cassa dritta restando in equilibrio tra atmosfere pesanti da club sotterraneo mezze trip-hop e ariosi drop liberatori. morgengabe era già uscito qualche tempo fa fisicamente, ma da oggi è ufficialmente fuori ovunque per La Tempesta. Qualcuno gli chieda un beat il prima possibile: già così i suoi pezzi sono una piccola fuga dalla realtà, ma con una voce sopra sarebbero un sogno che si avvera.

88RISING - HEAD IN THE CLOUDS

88rising è opera di un imprenditore che ha pensato di aprire un canale YouTube tramite cui avvicinare la tradizione asiatica alla scena hip-hop americana. E c'è da dire che c'è riuscito molto bene, dato che dovete ringraziare proprio questo canale per Rich Chigga aka Rich Brian, Joji aka Pink Guy e gli Higher Brothers. Head In The Clouds è il primo album collettivo del canale-diventato-etichetta e contiene anche qualche nome che potreste esservi perso, tra cui la bravissima NIKI. Ci sono anche un paio di apparizioni di BlocBoy JB e Playboi Carti, per non farsi mancare niente.

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Tutto quello che sappiamo dell'aggressione a 6ix9ine

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Ieri sera 6ix9ine è stato aggredito a Brooklyn, New York. Quello che è successo non è ancora del tutto chiaro e l'unica certezza è che il rapper è stato ricoverato in ospedale per i colpi subiti ed è in condizione stabile. Ci sono però due versioni degli eventi: la prima è quella di TMZ, che per primo ha pubblicato la notizia ma essendo un sito di gossip non è necessariamente una fonte autorevole. La seconda è quella ufficiale, condivisa da 6ix9ine con le forze dell'ordine.

LA VERSIONE DI TMZ

Stando alla versione dei fatti riportata dalle fonti di TMZ, 6ix9ine stava lavorando a un video musicale nella notte di domenica e verso le quattro del mattino sarebbe salito in macchina per tornare verso casa. Parcheggiando nel proprio vialetto, un'altra vettura gli avrebbe chiuso la strada. Tre uomini sarebbero scesi dall'auto e lo avrebbero aggredito, colpendolo con il calcio delle loro armi da fuoco.

Gli aggressori lo avrebbero poi trascinato sulla loro autovettura e si sarebbero messi a guidare mettendo in chiaro che volevano derubarlo, minacciandolo di morte se non avesse collaborato. Il gruppo sarebbe poi tornato a casa di 6ix9ine, e due degli aggressori sarebbero entrati con lui mentre l'altro sarebbe rimasto fuori a fare la guardia.

Una volta dentro, gli aggressori avrebbero rubato circa 750.000 dollari di gioielli e tra i 15.000 e i 20.000 dollari in contanti. In casa ci sarebbero state anche la ragazza e la figlia di 6ix9ine, che sarebbero rimaste illese.

Gli aggressori se ne sarebbero poi andati portando 6ix9ine con sé. A un certo punto, il rapper avrebbe aperto la portiera posteriore del veicolo e si sarebbe lanciato per fuggire. Uno dei criminali lo avrebbe cominciato a inseguire per poi fermarsi e lasciarlo andare. 6ix9ine avrebbe poi chiesto aiuto a un passante, che avrebbe chiamato le autorità.

LA VERSIONE DI 6IX9INE

TMZ ha aggiornato il suo articolo circa due ore dopo la pubblicazione, riportando una seconda versione dell'accaduto in base a quanto dichiarato da 6ix9ine stesso alle autorità. Questa è stata citata anche da fonti autorevoli, tra cui NBC e The FADER .

6ix9ine ha dichiarato alla polizia che la macchina su cui si trovava come passeggero sul sedile posteriore sarebbe stata tamponata verso le quattro e mezza del mattino di domenica. Gli aggressori sarebbero scesi dall'auto, avrebbero minacciato il guidatore con un'arma da fuoco e gli avrebbero rubato l'iPhone. Avrebbero poi rapito 6ix9ine, obbligandolo a salire sulla loro vettura.

Gli uomini si sarebbero poi fatti portare da 6ix9ine a casa sua, dove lo avrebbero obbligato a chiamare un'altra persona perché gli portasse dei gioielli. 6ix9ine avrebbe collaborato e consegnato i gioielli agli aggressori, che lo avrebbero portato via con sé. Da lì le versioni combaciano, con il salto dalla macchina e la denuncia.

La polizia ha inoltre affermato che 6ix9ine ha smesso di cooperare dopo aver sporto denuncia, ma che il guidatore della macchina su cui si trovava ha collaborato alle indagini, appena cominciate. Per il momento nessuno è stato ancora arrestato.


6ix9ine ha una lunga storia di problemi con la legge. È stato condannato anni fa per essere apparso in un video in cui una minorenne compieva atti sessuali: lui la teneva, nuda, in braccio e la sculacciava mentre lei faceva sesso orale con un altro uomo. La scorsa settimana è stato invece arrestato per aver tentato di soffocare un ragazzino di sedici anni.

Vi aggiorneremo su eventuali sviluppi della situazione. Se vi interessa, oggi è uscito un nuovo video di 6ix9ine, "FEFE", una collaborazione con Nicki Minaj.

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I festival stanno cominciando a proporre campeggi VIP, ma chi ci va?

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I campeggi dei festival grossi, in Italia, sono spesso delle enormi distese di disagio a cielo aperto. Corpi stanchi e polverosi si svegliano alle sette al suono di centomila casse bluetooth accese in contemporanea. Energizzati da tre ore di sonno sudato e polveroso, si lavano sotto docce all'aria aperta e fanno i loro bisogni in cessi chimici già sporchi dopo tre ore dall'inizio dei concerti. Terminata la loro scorta di insalatissime, pagano 15 euro per fare colazione con un panino in busta e una Heineken da 0,33. Ma almeno c'è la musica! La loro musica preferita! Dal vivo! La musica!

Quando si tratta di festival medio-piccoli la situazione è diversa, certo. Le dimensioni contenute, se associate a location ben scelte, permettono agli organizzatori di creare aree campeggio più che dignitose. Ma da qualche anno, come nel resto del mondo, anche dalle nostre parti sta cominciando a palesarsi un fenomeno che ha tanti nomi ma è sempre la stessa cosa. Camping VIP, Glamping, Luxury Camping: cioè la possibilità di pagare un sacco di soldi per stare in una tenda perfettamente accessoriata mentre i poveri brindano a suon di Faxe calde stesi su materassini gonfiabili acquistati al LIDL.

Il campeggio VIP è stato proposto in Italia per primo da The Pop-Up Hotel, una società inglese che costruisce piccoli angoli di paradiso in mezzo a campi fangosi. Tra gli eventi che hanno accolto le sue tende di lusso ci sono Home Festival, Terraforma, Locus e Polifonic. "Finalmente anche in Italia potrai vivere l’emozione di un grande festival internazionale", dice il sito ufficiale della società. "Il Pop-Up Hotel sarà il tuo campo base per essere parte dell’evento giorno e notte e non perdere un attimo di festa!"

Anche da noi, quindi, i festival stanno cominciando a capitalizzare sull'esperienza dei loro utenti. Vuoi pagare 100 euro in più per stare in un pit, che magari si rivelerà essere mezzo vuoto? Nessun problema. Hai 600 euro da parte e vuoi usarli con degli amici per avere una tenda con salottino e biancheria compresa? Eccoci qua. Ma all'estero la situazione è già degenerata. Come scrive Rolling Stone, è dagli anni Novanta che l'industria dei festival sta sviluppando un paradigma classista nei propri eventi. Grandi promoter come Live Nation stanno investendo sulle esperienze VIP ai propri eventi e uno studio di Billboard ha riscontrato un aumento di circa 2 euro di spesa a testa per chi va ai concerti da loro organizzati.

L'Openair Frauenfeld si tiene ogni anno in Svizzera ed è uno dei più grandi festival hip-hop d'Europa. Quest'anno ci suoneranno Eminem e i Migos. Fa di media 180.000 persone, che pagano un biglietto di circa 200 euro. Ma chi vuole può investire fino a 10.000 (diecimila) euro per una "premium mansion" da condividere con altre otto persone. I nostri colleghi tedeschi si sono posti un domanda: chi spende così tanti soldi per andare a un festival? Hanno trovato una risposta andando a intervistare Joel e Tomi due ragazzi che hanno pagato 1025 euro per una "tenda premium" all'Openair Frauenfeld. Una delle opzioni più economiche.

Seduto su una sedia da giardino bianca di fronte a casa dei suoi, Joel si presenta con Nike ai piedi ("solo 214 euro"), un marsupio Supreme e una felpa di Kanye West appoggiata sulle spalle. Nel garage della casa si vede la Porsche di suo padre. Lui si guadagna da vivere nel settore commerciale. Questa sarà la sua terza edizione dell'Openair Frauenfeld.

Noisey: Che ti hanno detto i tuoi amici quando hanno scoperto che avevi preso una tenda da 513 euro?
Joel: Erano piuttosto gelosi, credo. Loro sono tutti nel campeggio "normale". Ma andremo ai concerti assieme. È un po' egoista stare da solo con Tomi nell'area VIP. Ma sembra davvero figa, ci sono anche le palme.

Qual è la cosa che ti piace di più dell'area VIP?
Nel campeggio VIP può entrare solo chi ha comprato una tenda lì. L'anno scorso io e Tomi siamo andati al campeggio normale e volevamo fare una grigliata coi nostri amici, mangiare qualcosa fino al tramonto. Ma c'era così tanta gente alle griglie che siamo riusciti a mangiare che era già buio.

Sei mai stato nella situazione opposta? Cioè che ti abbiano mai escluso da qualcosa perché non avevi abbastanza soldi?
Sì, certo. Una volta ero a casa con uno dei miei amici, e lui è molto ricco. Villone, piscina, piscina coperta e tutto quanto. La prima volta che sono andato da lui e ho conosciuto i suoi non avevo addosso niente di firmato. E ricordo che loro erano tutti scettici, come se non si fidassero di me. Mi sono sentito rifiutato. La seconda volta mi sono messo roba costosa e improvvisamente erano più interessati a me. Non gli importava nulla del fatto che fossi la stessa persona.

E come ti è sembrato quel comportamento?
Vergognoso. Sono stato rifiutato fin dall'inizio. Si sono messi ad ascoltarmi solo quando mi sono messo praticamente a gridargli "sto bene, non sono povero!".

Vedi questo processo di esclusione anche nel tuo giro di amici?
Non ti tratteremmo mai male se non fossi vestito firmato. Ma magari non ci metteremmo subito a girare con te. Niente di estremo come i genitori del mio amico, comunque. Lì mi ignorarono proprio. Non decido sul momento se una persona può o meno essere mio amico, ecco.

Ma è comunque una distinzione che fai.
In realtà non la puoi davvero fare a prima vista, magari uno ha addosso una felpa normale ma a casa ha un macchinone.

C'è qualcosa da cui ti rendi conto se la persona con cui parlando sta bene da un punto di vista economico?
Spesso guardo le scarpe della gente, ma non sempre. Guardo se è nuova o no. E com'è il loro outfit. Il che è un po' superficiale, lo ammetto, ma lo faccio senza giudicare nessuno.

Tomi, l'amico di Joel, andrà al suo secondo Openair Frauenfeld. Vive con i suoi genitori in un condominio. Studia ingegneria informatica ed è al secondo anno. Porta i capelli corti e ha addosso una maglietta Supreme. Ha una stanza con un po' di videogiochi, ma è molto più orgoglioso della sua collezione di sneaker.

Noisey: Che ti hanno detto i tuoi amici della tenda VIP?
Tomi:
All'inizio non avevano ben capito cosa fosse. E io ci scherzavo... "Ho una presa elettrica!" E poi niente, ci siamo spiegati.

513 Euro per una presa elettrica? È almeno mezzo stipendio.
Abbiamo anche una tenda, un materassino gonfiabile, due sedie, dei tavoli e una lampada. E possiamo portarci tutto a casa a festival finito. Ne vale la pena, se consideri che il biglietto normale è 200 euro e. passa. L'anno scorso poi, al campeggio normale, ci hanno quasi rubato in tenda. Stando nell'area VIP ci sentiamo più sicuri.

Sembra che tu sia appassionato di moda. Come reagisce la gente quando ti vesti firmato?
Credo che la gente mi consideri un riccone che spende tutto quello che ha in vestiti. Uno che si fa pagare la roba dai genitori. Uno che non fa un cazzo nella vita.

Però hai un po' di sneaker che costano un sacco... roba di Off White, tipo. Che cos'è che te le fa comunque comprare?
È che mi piace portare roba che non ha nessuno. Roba in edizione limitata. Non voglio andare in giro come tutti gli altri.

Il fatto che la gente pensi che siano i tuoi pagarti tutto ti fa arrabbiare?
A volte sì. Ma non mi faccio pagare niente. Prenderei soldi da loro solo se fosse l'unica opzione possibile. Tipo se non riuscissi a pagarmi da mangiare. Ma potrei comunque anche mettermi a vendere le mie scarpe. Tutta questa roba che vedi l'ho pagata io.

Qual è la cosa che ti sta più a cuore della tua stanza?
Questa foto di quando ero piccolo. Ero bello grosso. E crescendo ero ingrassato ancora di più. La gente si è messa a bullizzarmi. A una certa mi sono reso conto che la roba che avevo addosso mi stava troppo piccola. Quindi me la sono tolta e ho perso peso. E i miei compagni hanno cominciato a considerarmi, a voler fare roba con me. E questo mi ha insegnato a non giudicare mai nessuno per le sue apparenze.

Questo articolo è comparso in una versione differente su Noisey Germania, con la collaborazione di VICE Svizzera.

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Questo DJ set è la vera natura del Tomorrowland

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Nessuno ha mai fatto il pensiero "Hey, non vedo l'ora di andare al Tomorrowland a vedere un bel DJ set". Nessuno. La gente va al Tomorrowland per divertirsi, bere, mangiare, spaccarsi, limonare stranieri a caso, mostrare i propri addominali e gridare POOO-POOO-PO-PO-PO-POO-POOO con i suoi amici sudati. È l'EDM, baby, con le sue torte in faccia, i suoi droppettoni a caso e fuochi d'artificio.

Con il passare degli anni, il Tomorrowland si è affermato come principale momento di celebrazione dell'EDM a livello mondiale. In generale è sempre andato tutto abbastanza bene, a parte quella volta che Carl Cox suonò di pomeriggio davanti a un'arena vuota. L'edizione di quest'anno, però, ha accolto un DJ che sta facendo molto discutere per il suo "set". Le virgolette sono d'obbligo, dato che Salvatore Ganacci (che è bosniaco, nonostante il nome italiano) non ha quasi toccato un tasto lungo il corso della sua esibizione.

Ma fate prima a guardare il video qua sotto, in cui Salvatore fa le flessioni, abbassa la musica a caso per gridare cose nel microfono, twerka e fa fare le coreografie al pubblico, proprio come il miglior animatore di villaggio vacanze.

Ora, possiamo indignarci per questa esibizione e gridare al cielo tutta la nostra rabbia, dichiarando ufficialmente morta l'elettronica e l'arte del DJing. Oppure possiamo riconoscere a Salvatore Ganacci il merito di avere finalmente personificato la vera natura del Tomorrowland e dell'EDM tutta con un'esibizione memorabile che entrerà nella storia assieme a quella volta che David Guetta premette dei tasti alla finale degli Europei.

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