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Il nuovo album dei Gerda è un rito di purificazione noise rock

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A onor del vero, la premiere di questo album risulta un po' stonata su Noisey. Poco sembra adattarsi infatti l'attitudine cazzara del vostro sito di musica preferito all'aura drammatica di Black Queer, il quinto LP dei marchigiani Gerda. Formatisi a fine anni Novanta, si tratta degli alfieri più conosciuti di quella scena noise rock sorprendentemente florida sulla costa Est dello stivale, come se lì la produzione musicale di Steve Albini avesse trovato terreno fertile più che nel resto d'Europa.

Ora, se c'è un lato positivo nel recente declino della musica "con le chitarre" è che, se ti trovi in un edificio fatiscente e abbandonato, nessuno se la prende se pisci in un angolo o butti giù qualche muro. Così i Gerda se ne approfittano per prendersi un po' di libertà e arricchire la propria palette sonora, dilatando i tempi, rallentando l'andatura e adottando un approccio più riflessivo alla loro ruvidissima materia sonora fatta di caos ed epica post-hardcore.

Black Queer, che esce per una cordata di piccole etichette DIY capitanata dalla fedele Wallace, assomiglia a un tunnel buio e spaventoso che però bisogna attraversare e affrontare per raggiungere la luce dall'altra parte. La scelta di cantare in italiano contribuisce a rendere più minacciosa l'atmosfera, e lo stesso fa una batteria che predilige un approccio scarno e solenne alle sfuriate del passato. Pezzi come "Notte" sconfinano addirittura in territori shoegaze, senza mai perdere la spigolosità noise ottenuta tramite chitarre dissonanti e un basso pesante come un macigno. In generale, disquisizioni sui sottogeneri a parte, questo album comunica un'intensità peculiare, una sicurezza negli intenti e nelle pratiche di un gruppo che dopo vent'anni di attività sa esattamente che cosa vuole dire e come farlo.

E il messaggio di Black Queer si esplicita nell'omaggio a Francesco Vilotta, cantante dei Vel (progetto in cui ha suonato lo stesso Alessio Compagnucci che imbraccia il basso nei Gerda) e personaggio chiave della scena locale di Jesi, morto di depressione tre anni fa, descritto come "musicista e inquieto inseguitore dell'assoluto". Il disco è un grido di dolore, ma un dolore vivo, che vivo vuole restare e resterà. Il sarcasmo di "Theme" dei PIL, che chiude il disco, ne sigilla l'intenzione: viva la morte dell'ego, viva la morte dell'identità imposta dallo sguardo esterno e viva la personalità pura, l'io più intimo.

Black Queer esce per Wallace, Bloody Sound Fucktory, Shove e Sonatine venerdì 30 marzo. Ascoltalo tutto in anteprima qua sotto.

I Gerda porteranno il nuovo album in giro dal vivo per le seguenti date:
ven 30 marzo Jesi AN @ Man Cave Cafè
sab 31 marzo Civitanova Marche @ Officina Popolare Jolly Roger
sab 28 aprile Napoli @ Mensa Occupata
dom 29 aprile Perugia @ Free Ride
gio 17 maggio Bologna @ Freakout
sab 26 maggio Roma @ 30 Formiche
sab 9 giugno Porto Sant'Elpidio @ Scars of Rage 4

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Album Première: Boccardi/Pilia - Bastet

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L’egiziana Nashazphone è una delle etichette più interessanti che siano venute fuori negli ultimi anni, caratterizzata dall’enorme varietà del suo catalogo, che non ha paura di osare e pubblicare cose molto diverse tra loro ma sempre estremamente affascinanti.

Se non ve ne foste accorti con le loro prime uscite (a inaugurare fu, nel 2006, nientemeno che un live dei Sun City Girls), non potete averla ignorata quando nel 2014 ha fatto esplodere quel mito assoluto di Islam Chipsy con Live At The Cairo High Cinema Institute - seguito poi nel 2015 da Kahraba, l’esordio in studio.

Da allora la creatura di Hicham Chadly è indubbiamente nel radar di tutti quelli che hanno le orecchie attente, e i lavori di Sam Shalabi, Costes, Alvarius B., 5599, Skullflower e molti altri hanno dimostrato che si tratta di una di quelle label che vanno seguite a prescindere, fidandosi del gusto del loro fondatore e curatore.

La novità è che siamo felici di ospitare su Noisey la première del loro primo disco “italiano”, e cioè di un album in collaborazione tra Alberto Boccardi e Stefano Pilia intitolato Bastet.

Entrambi i nomi dovrebbero già essere conosciuti ai lettori di Noisey, ma per sicurezza facciamo un breve recap.

Alberto è un musicista elettronico attivo in questa veste dai primi anni Duemila, che ha avuto base a Milano fino a pochi anni fa. Qui si è trovato a condividere collaborazioni e esperienze con altri musicisti dell’ambito molto apprezzati anche a livello internazionale come Nicola Ratti (con cui ha condiviso il progetto dello spazio Standards), Attila Faravelli e Giuseppe Ielasi. È autore anche di ottimi dischi in collaborazione con Lawrence English e Maurizio Abate. Da qualche anno si è trasferito in pianta stabile al Cairo, dove lavora come ingegnere, e lì ha potuto per l’appunto avvicinarsi anche all’attivissima scena locale, di cui sicuramente Nashazphone è uno dei centri di gravità.

Ad affiancarlo in questo disco è Stefano Pilia. Proveniente (come Claudio Rocchetti e Valerio Tricoli) da quel grandissimo gruppo che sono stati i 3/4HadBeenEliminated, è senza ombra di dubbio uno dei migliori chitarristi d’Italia, tuttora parte integrante delle formazioni di monumenti come Afterhours e Massimo Volume. È inoltre parte di una band che da queste parti amiamo molto come gli In Zaire, ma anche sodale di Mike Watt ne Il Sogno Del Marinaio. Come se non bastasse, è molto prolifico anche come solista (consigliato il suo Blind Sun New Century Christology del 2015) e in varie collaborazioni estemporanee (citiamo sia il trio con Andrea Belfi e David Grubbs che l’album realizzato con Oren Ambarchi e Massimo Pupillo).

Ora giunge il momento di questo primo disco in collaborazione tra i due, registrato tra Milano e Bologna, e il risultato è quello che ci si può aspettare dall’incontro di due pesi massimi.

Non è un disco facile, si tratta un lavoro molto astratto e minimale, in cui percussioni e chitarra elettrica si incontrano e dialogano tra elettronica e acustica creando una narrativa assolutamente affascinante e profonda, oscura ma intensa. Una stanza nella quale entrare con un po’ di timore ma nella quale poi ci si troverà bene, e magari si vorrà tornare spesso a fare un giro, specialmente a tarda notte.

Non ci dilunghiamo oltre e ve lo lasciamo testare con le vostre orecchie.

Buon ascolto.

Federico è su Instagram.

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Fuma una canna, fatti due passi e leggi questa intervista con Neil Young

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Sto parlando con Neil Young di melodie. "Quelle che mi stanno venendo in mente ultimamente sono splendide", dice, mentre batte i palmi delle mani sulle sue gambe incrociate nella suite di un Four Seasons nel centro di Austin, in Texas. Sotto alla sua camicia nera, aperta, c'è una maglietta della Third Man Records. "Ma tutti i testi che ho scritto per quelle melodie sono davvero volgari. Tutto è volgare, e la cosa mi confonde". I suoi occhi azzurri tagliano lo spazio fresco sotto al suo trilby nero. Quelle volgarità sono tutte dirette ai servizi di streaming e agli algoritmi, dice. Forse l'unico modo possibile per articolare la rabbia e la frustrazione che causa vivere nel 2018 è tramite le parolacce. E la musica, certo. Neil sembra deciso: "Se pubblicassi questo album, Profane, che sarebbe il titolo, e tutte queste bellissime melodie fossero piene di parolacce... insomma, sarebbe una scelta radicale".

Young ha 72 anni, ha pubblicato quasi 40 album in studio e ha passato sei decenni a cementare il suo status di genio, ribelle e icona. In tutto questo, sta ancora provando a salvare il mondo. E il fatto che qualcuno possa impedirglielo lo fa incazzare. È qua con me per parlare di Paradox, un nuovo Western surreale in cui recita. E invece liquida la questione in poche parole e si mette subito a parlare dei Neil Young Archives, il progetto di archivistica online che ha lanciato l'anno scorso. È una risorsa vasta e affascinante: contiene ogni canzone mai pubblicata da Neil, partendo dai primi pezzi surf degli Squires passando per i suoi capolavori folk, i famigerati Trans ed Everybody's Rockin', e arriva fino al suo ultimo album, The Visitor, uscito l'anno scorso. Ovviamente tutto è disponibile in qualità da master. Young è famoso per il suo attivismo: ha promosso campagne contro la guerra, la Monsanto, la corruzione e tutto quello che ci sta in mezzo. La battaglia che sta combattendo in modo più fervente, negli ultimi anni, è però quella contro la tecnologia che abbassa la qualità della musica che ascoltiamo.

Per lui fa tutto parte dello stesso insieme. La musica, dice, nutre lo spirito, e gli mp3 di qualità dubbia che ascoltiamo nei servizi di streaming ci danno solo una frazione, se ce la danno, del nutrimento che ci spetterebbe. Per capire perché Young abbia tentato (e fallito) di produrre su larga scala il Pono, un lettore mp3 ad alta qualità, o la sua dedizione ad avere un archivio di tutto ciò che ha pubblicato alla massima qualità, dovete vedere quello che lui vede. Cioè un branco di ricconi in giacca e cravatta che stanno cospirando per fotterti l'anima, che ti spetta per diritto divino. E quindi come può non continuare a combattere?

La nostra conversazione con Young si è mossa rapidamente e ha continuato a prendere nuove direzioni in modi inaspettati. La potete leggere qua sotto.

Noisey: Recentemente hai ripercorso tutto il tuo catalogo per creare i Neil Young Archives. Mi chiedevo come ti fossi sentito lungo il processo, all'effetto che ti aveva fatto ripensarti quel giovane musicista che reagiva ai cambiamenti del mondo.
Neil Young: Sai, non ci penso molto. Potrebbe sembrare il contrario, data l'esistenza degli archivi, ma in fondo sono solo una cronaca, una piattaforma per organizzare cose già successe. Tutto ciò che sto facendo in questo periodo è mettere a posto roba che ho già fatto. Ogni tanto la spulcio un po' e devo dire che è figo poterlo fare. Ed è figo poterle ascoltare come si deve, dato che ormai tutto suona davvero male. La musica ha sofferto tantissimo per mano delle grandi aziende tecnologiche. La maggior parte degli ascoltatori, oggi, non si rende neanche conto di quanto gli venga tolto. Possono ascoltare musica liberamente, e la amano—e questo va bene. Ma stanno ascoltando solo il 5% del suono della musica—specialmente quando pensi a quello che si sentiva nei decenni che vanno dagli anni Trenta agli Ottanta. Queste nuove copie in mp3, che cazzo siano, sono il 5% di quella roba. O anche meno, lo so. Se fossi un pittore e la gente vedesse una brutta copia dai toni seppia di un mio quadro sarebbe preoccupante. È il mio carburante. Ed è per questo che continuo ad occuparmi di tecnologie audio.

Vengo dal passato, e dico che c'è una porta o una finestra che potrebbero venire aperte. E tutti voi che amate la musica, la scena e tutto quello che significano potreste sentire e provare cose a cui non avete mai avuto accesso. Questo è il mio approccio, oggi. Vado dalle compagnie discografiche e dico, "Perché dovreste restringere l'accesso ai cancelli dorati della musica—ai gioielli della corona, a questi cazzo di antichi dischi incredibili di gente tipo Frank Sinatra, Cab Calloway, Jimmy Reed, Muddy Waters, Glenn Miller, chiunque. Perché dovreste diminuire la qualità di quei pezzi al 5% dell'originale? Che vantaggio c'è?"

Quindi quanto è difficile per te sentirti ottimista nello scrivere musica e nella tua vita, dato che la tua storia è fatta di scontri e battaglie?
Bé, sono molto ottimista riguardo al fatto che lo spirito umano possa superare molte cose. Non penso che lo stato di cose attuale sia un segno della direzione che abbiamo preso. Penso che stiamo vivendo un punto basso—il momento centrale del moto del pendolo. E ora le cose non vanno bene. Ma la cosa che mi preoccupa di più non è il fatto che il tizio che ha il potere oggi non abbia le palle e non sappia dire addio alla gente e sia un modello terribile per i nostri figli. Il che mi importa molto, ma non è nulla in confronto al male che sta facendo all'ambiente. Quello è proprio sconsiderato. E mi preoccupa.

Sta succedendo qualcosa di veramente, veramente pesante. E la gente sta iniziando ad accorgersene. Non voglio che la gente faccia log in ai miei archivi da Facebook. Se vogliono farlo, voglio che abbiano l'opzione di leggere qualcosa su Facebook una volta arrivati sul sito, così che sappiano da dove sono venuti. E continuo a usare Facebook perché i miei utenti, i miei fan, le persone che vogliono sapere quello che stiamo facendo, si meritano di sapere quello che stiamo facendo. Ma devi venire da noi, e non devi sottostare ad alcuna regola, e non terremo traccia di ciò che fai. Non ti useremo. Una volta che te ne vai da quell'area entri in un'area sicura. Il nostro posto. Vogliamo che la gente sappia che sono cose che ci importano. Insomma, quando esistono algoritmi che fanno cominciare bambini di meno di 10 anni a guardare i porno...

È qualcosa di terrificante e distopico. È assurdo che esista.
È un abuso della tecnologia. La tecnologia dovrebbe rendere la vita migliore. I cattivi ora possono usare gli stessi strumenti dei buoni, che sono stati fatti per i buoni. Ma li hanno anche i cattivi, e quelli che li fanno si sbagliano di brutto a dire che non è responsabilità loro. È responsabilità loro, ma non vogliono svolgere un lavoro controllo. Non vogliono essere come quelli che butterebbero a terra. Ma devono capire che il potere implica la responsabilità. Devi far sì che la gente sappia quello che succede. Faglielo sapere.

"L'ossigeno dell'arte, l'arte che respiriamo, ci salverà."

Qualcosa va creato. Non per me, ma per l'arte. Che dire del giovane artista che sta provando a cominciare a lavorare ma non sa da che parte sbattere la testa perché non c'è alcun valore, non c'è alcun valore in una canzone, e non c'è modo di pubblicarla e avere qualcosa in cambio, così da poter comprare un amplificatore e un furgone e portare la tua band a un altro concerto? Pubblichi un album incredibile e un sacco di gente lo ascolta, ma nessuno viene pagato. Tutte le canzoni che ho fatto, tutto ciò che ho fatto, mi paga. Le mie canzoni mi pagano, ma nessuno paga i Crazy Horse. Nessuno paga le band, nessuno prende delle royalties. E la cosa non riguarda me e i miei ragazzi. Riguarda le persone che non conosco e che non ho mai incontrato. Riguarda il ragazzino di dieci anni che comincia a suonare uno strumento. Dove cazzo andranno a tirare su due soldi? Non ce la possono fare. È una situazione grave per l'arte. Non voglio essere negativo. Dobbiamo trovare un modo per approcciarci alla questione in maniera positiva.

Forse la cosa più insidiosa è che l'arte stessa sta cominciando a diventare così mercificata da far sì che il pubblico non sappia quasi più discriminare. La gente la vedrà come un accessorio, invece che arte che li influenza a livello spirituale ed esistenziale.
È un grave pericolo insito nelle piattaforme.

Ormai vediamo l'arte come un capitale.
È davvero brutto.

E man mano che i musicisti diventeranno sempre più dipendenti da queste piattaforme, forse cominceremo a vedere l'arte venire assorbita da tutto questo.
Non succederà. No. Non preoccuparti.

Che cosa pensi che farà muovere il pendolo dall'altra parte, allora?
L'ossigeno dell'arte, l'arte che respiriamo, ci salverà. Così che quando potremo tornare all'arte alla sua forma originaria—e io sto dimostrando che la tecnologia può permettercelo—ci renderemo conto che non c'è alcun motivo per cui tutti questi altri luoghi in cui si ascolta musica non possano offrire una qualità pari a quella che c'è sul mio sito. L'unico motivo sono gli interessi economici delle case discografiche. E io risolverò la questione. La rivelerò, e farò la differenza. Succederà. E se non succederà, morirò provandoci e sarà qualcun altro a farlo.

"È questo che rese gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta così belli—la gente era immersa nell'arte perché la sentivano fisicamente. E ora non più. Quando riavremo quell'esperienza, le cose ricominceranno ad andare bene."

Succederà. Perché l'arte non morirà. Non puoi uccidere l'arte. E l'arte ha bisogno di respirare, quindi devi darle tutta l'aria, possibile. Non solo un poco. L'arte sta soffrendo, ora come ora. Quindi se la lasci respirare, tutti la respireranno. Anche loro la respireranno, e quindi staremo tutti meglio. Andrà tutto meglio perché sarà l'arte a sostenerci. Non stai provando il bello dell'arte perché non puoi sentirlo—è solo il cinque per cento di quanto ce n'era in origine. Quello che succedeva al mio corpo quando ascoltavo grandi album ai miei tempi, quando ero completamente eccitato dalla musica, oggi non succede. È questo che fece nascere il movimento. È questo che rese gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta così belli—la gente era immersa nell'arte perché la sentivano fisicamente. E ora non più. Quando riavremo quell'esperienza, le cose ricominceranno ad andare bene. Potranno non essere libere quanto lo erano prima, ma penso che la gente che ascolta musica sulle piattaforme potrebbe plausibilmente essere molto più libera respirando l'arte, sentendola, sentendola nelle proprie anime. È questo il senso dell'arte, e queste tecnologie ci stanno impedendo di rendercene conto. È quello il grande crimine.

L'avvocato del diavolo potrebbe dire che molta tecnologia sta democratizzando la musica, rendendola più accessibile. Il che non implica che i musicisti non debbano venire pagati o che la qualità non debba tornare quella di un tempo. Ma in che modo la questione dell'accessibilità si coniuga con il resto del discorso?
Bé, se la gente ha accesso a questa roba, allora dovrebbero poter accedere alla qualità. Il prezzo dovrebbe essere lo stesso. Non c'è alcun motivo per cui dovrebbe costare di più. Veramente, alla musica le cose andranno meglio. Sto parlando solo di musica. Stiamo parlando di roba pesante. Ma non penso che sia una situazione irrisolvibile, anzi. La gente deve solo sentire la differenza. Deve rendersi conto che c'è molto di più di quello che sta ottenendo. È per questo che gli anni Sessanta furono così—perché la gente lo sentiva. Non era il fatto che andassero ai concerti, erano i dischi che ascoltavano. I dischi hanno tutto.

Un disco è un universo di suoni. Ha dentro ogni cosa. È un riflesso dell'originale, come uno specchio, come il monte Shasta riflesso nel lago Shasta quando è piatto e senza onde. È un riflesso perfetto. Ecco cos'è un disco. E il digitale—che sia ad alta o bassa risoluzione, soprattutto bassa—non fa che ricostituire ciò che era successo, rimetterlo assieme così da poterlo controllare. C'è un sacco di bellezza nella tecnologia, ma non usandola al massimo livello non può essere percepita. Quindi la qualità è molto più scarsa rispetto al secolo scorso. Nel Ventesimo secolo dovevamo rendere tutto più semplice perché tutti dovevano pagare per la memoria. Ora non c'è più la sfida della memoria. Abbiamo lo streaming. Non serve la memoria.

Sono legato a questa cosa perché ci sono cresciuto. La mia vita si basa sull'arte, è fondata sulla musica. E tutto quello che sta succedendo ora con le piattaforme, è una battaglia che bisogna risolvere e bisogna portare avanti. Ormai è un poema epico.

Che cosa pensi dell'arte dell'archivio? È una cosa che ci troveremo davanti sempre di più perché abbiamo una tecnologia che lo permette più facilmente? O farà perdere valore a tutto, perché è tutto a disposizione, usa-e-getta?
È quello che succede quando non lo senti, quel sentimento. Niente è importante perché è tutto disponibile online. Al momento, non è disponibile online. Al momento, quello che riesci a ottenere non ti fa sentire che non è usa-e-getta. Ti dà l'impressione di essere carta da parati. Quindi puoi cambiare il muro, fare un muro diverso, non importa. Dipingerlo di un altro colore. Domani cambi canzone, ecco un'altra sensazione. È tutta merda, non importa. È un po' deprimente, perché non ti dà niente. Ascolti quella canzone che tutti adoravano nel 1975, che ha venduto milioni di dischi, tutti ci vanno matti. E fai: "Oh, è uguale a tutto il resto". È perché riesci a ottenere soltanto quanto basta per riconoscerla, ma non abbastanza per sentirla. Il sentimento è molto, molto importante. È di questo che parlo; è per questo che esiste questa tecnologia. Archiviare vuol dire semplicemente mettere in ordine, e la piattaforma per gli archivi serve solo a organizzare la produzione di una persona, che si tratti di libri, di film, che tu stia studiando i Presidenti degli Stati Uniti.

Perché viene raggruppato in playlist per pulire la casa.
Esatto. Ci servono dei nuovi algoritmi che abbiano rispetto dell'arte. È questo che ci serve.

Mi ricorda una frase di Jarvis Cocker. Dice che la musica è diventata come una candela profumata.
Una candela profumata elettrica. C'è un interruttore, e l'accendi e la spegni. Non inquina, è molto pulita. È un po' preoccupante se ci pensi bene. Quello che fate voi di Noisey, dovreste continuare a farlo. È una grande cosa. Non sto dicendo che quello che ascoltate non è buono, che vi state perdendo tutto. Perché la gente apprezza quello che viene fatto. Sto dicendo che c'è una finestra. Guarda fuori da questa finestra, vedi se riconosci o se vedi qualcosa che non hai mai visto prima, un sentimento. Ascolta questa musica per una mezz'ora. Fuma un po' di erba e ascolta questa roba. Fa' quello che devi fare. Bevi una birra, fuma una canna, fa' una passeggiata, respira un po' d'aria, ascoltala, vedi se ti fa sentire diverso o diversa. Ti farà bene all'anima. Perché non c'è niente sulla piattaforma che ti faccia bene all'anima tanto quanto la vera qualità.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey USA.

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Guarda il trailer della nuova serie di Netflix sull'hip-hop americano

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Non c'è dubbio che la cultura di questo inizio di millennio sia stata segnata più di ogni altra cosa dall'hip-hop e da alcuni suoi esponenti. L'ossessione delle ultime generazioni per i rapper, alimentata dall'ascesa dei social network, ha raggiunto un livello per cui questi artisti fanno parte della nostra vita quotidiana e ci accompagnano minuto per minuto.

Netflix ha deciso di andare ancora più in profondità, realizzando la serie Rapture, che in otto episodi seguirà da vicinissimo le vite di nove artisti accompagnandoli in una loro giornata tipo, facendosi raccontare le loro storie, cercando di vedere la loro vita e il loro lavoro attraverso i loro stessi occhi.

I protagonisti della serie saranno Nas and Dave East, T.I., Rapsody, Logic, G-Eazy, A Boogie wit da Hoodie, 2 Chainz e Just Blaze. La prima puntata, tutta incentrata su G-Eazy, andrà in onda venerdì 30 marzo e qui sopra potete vedere il trailer in anteprima.

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Recensione: The Ex - 27 Passports

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Non è un mistero che la musica con le chitarre non stia vivendo esattamente il suo periodo di massimo fulgore. Sia dal punto di vista qualitativo che da quello dell’attenzione del pubblico non c’è nulla che stia raccogliendo grandi consensi, non ci sono nuove scene, né sta succedendo nulla di particolarmente nuovo o interessante, perfino generi storicamente legati a quei suoni stanno prendendo tutt’altra direzione.

Al limite esce ogni tanto qualche buon disco di qualche band storica (parlavamo recentemente dei Superchunk) che fa contenti i fan ma non riesce a andare oltre a quello, né probabilmente si pone obiettivi ulteriori.

Non è che questo nuovo disco degli Ex possa cambiare la tendenza, purtroppo si inserirà in quel segmento lì, lo ascolteranno i fan, saranno contenti e fine. Però. Però è davvero un bel disco, anche se non è una sorpresa o una novità.

Gli olandesi Ex sono in giro dal 1979 e sono, possiamo dirlo, una delle migliori rock band in attività.

Hanno cominciato come una specie di Crass olandesi, fatto uscire mille dischi, sono diventati più sperimentali nei Novanta, si sono uniti a un esponente delle avanguardie come Tom Cora, hanno suonato con mille persone, creato un ensemble di 20 elementi, si sono fatti amare da John Peel…

Fanno post-punk, hanno le chitarre rumorose, il groove e un certo amore per la musica africana, come dimostra il fatto che uno dei loro capolavori sia quel Moa Anbessa in cui duettano con Getatchew Mekuria (c’è anche un seguito del 2012, bello anche quello).

Se il loro disco più bello, famoso, importante è Scrabbling At The Lock del 1991 non si può dire però che abbiano mai sbagliato niente, per esempio anche il disco precedente (con i Brass Unbound) era ottimo, e quello prima ancora (Catch My Shoe) pure. Che suonino da soli o con ospiti sono sempre una garanzia di qualità, inoltre la loro storia è una storia di indipendenza, di radicalismo, di etica, di posti occupati, una bellissima storia tra Olanda, Etiopia, jazz e punk, come testimonia per esempio la fondamentale raccolta di pezzi live registrati tra il 1991 e il 2015 sempre nello stesso posto, il Bimhuis di Amsterdam, una specie di seconda casa.

È vero che questo nuovo album non ci dà nulla di diverso da quello che ci saremmo potuti aspettare, e che probabilmente non muoverà di un millimetro i destini della musica, però è davvero un gran bel sentire e, per una volta nei dischi di gruppi storici, non sa di qualcosa fatto tanto per fare. Suona invece come figlio di un entusiasmo genuino, lo stesso che possiamo provare anche noi ascoltandolo e facendoci avvinghiare dalle sue ritmiche. Avercene.

27 Passports è uscito il 22 marzo autoprodotto.

Ascolta 27 Passports su Bandcamp:

TRACKLIST:
1. Soon All Cities
2. The Heart Conductor
3. This Car is My Guest
4. New Blank Document
5. Silent Waste
6. Piecemeal
7. Birth
8. Footfall
9. The Sitting Chins
10. Four Billion Tulip Bulbs

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Guarda Mac DeMarco che coverizza malissimo Radiohead e Red Hot Chili Peppers

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Fare una cover dei Radiohead è un'impresa titanica. Molti dei loro fan sono bambini troppo cresciuti che ti verranno a cercare su ogni social network possibile se solo osi mettere in dubbio la grandezza di Yorke e soci (fidatevi, abbiamo le prove). Eppure, ciononostante, alcune persone hanno deciso di correre questo rischio: chi meglio (Regina Spektor, Frank Ocean) e chi peggio (Robbie Wiliams che fa "Creep" al cabaret), fino ad arrivare a quello che è successo al Lollapalooza in Cile alcune settimane fa – ovverosia Mac DeMarco e la sua band che suonano "High and Dry".

Ovviamente non vi resta che premere play qua sopra e farvi la vostra opinione. Per me, se posso esprimere la mia idea, questo è il sogno di ogni stonato cronico che ama il karaoke. Capirete subito perché ascoltando. In un altro momento la band ha anche suonato un altro classico del "tutti insieme!", l'immortale inno al drogarsi sotto un ponte, la canzone "Under The Bridge" del pilastro del rock losangelino Red Hot Chili Peppers. Non perdetevi neanche questo capolavoro qui sotto.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.

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Chi è Santii?

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Incontro Miki e Alex pochi secondi dopo aver visto per la prima volta il video di "Outsider", che ora potete tranquillamente vedere anche voi e che troverete embeddato da qualche parte nel corso di questa intervista. Da ascoltatore quasi passivo del loro progetto precedente, gli M+A, erano circa tre anni che non avevo notizie di loro. Non sapevo cosa facessero, se facessero, perché facessero. Così è stata una sorta di sorpresa sapere che sarebbero tornati con un'altra pelle, con un singolo su cui canta il rapper irlandese Reijje Snow e che volevano spiegare il perché di questo cambiamento.

M+A era più che un progetto, era un successo: rispetto all'interno dei confini nazionali, premi ed airplay dal Regno Unito, concerti in giro per il mondo, un nome riconoscibile a molti. Ricominciare da zero non è una scelta semplice, soprattutto se la materia sonora alla base del progetto cambia passando da un'elettronica vellutata e carezzevole a produzioni più diagonali e strambe. Dopo aver ascoltato “Dear Annie” per l’ennesima volta, essere salito in un ufficio, aver visto il video, mi accingo a parlare con loro.

Noisey: Leggendo il comunicato e vedendo il video, ho notato questa sorta di dicitura “stagione 01, episodio 01”, quindi innanzitutto volevo chiedervi da dove veniva l'idea di ripartire da zero con questa connotazione di serialità. Ripartite con un progetto nuovo e lo fate con una parvenza di continuità…
Alex: No ma non la vedrei come continuità, la vedrei come poliedricità.
Miki: L'idea era quella di fare una cosa molto easy, ma sostanzialmente di togliere la distanza tra band e disco. Quindi volevamo fare una cosa per cui ogni volta fosse una declinazione diversa in formati anche diversi, dal video al magazine, senza avere ogni volta l'annuncio Santii fanno il disco, che si chiama…
A: È come se fosse un percorso unico, un flusso.
M: Consapevoli che comunque dietro c'è un elemento di studio. Ci piacciono determinati artisti e quindi li vogliamo coinvolgere nel progetto. Ma di volta in volta potrebbero cambiare le modalità, i generi. Per quanto riguarda il cambio di nome, invece, era semplicemente che eravamo molto carichi per quello che avevamo fra le mani e non ci volevamo sentire troppo legati a una bolla di una band passata, che ci faceva molto paura. Quando avevamo proposto di cambiare nome tutti ci avevano detto di stare attenti, per termini di numeri, burocratici. Quindi, quando ci hanno messo in allerta, abbiamo capito che era la cosa che volevamo fare. Viene percepito come un cambio radicale, del tipo “oh mio dio cos'avete fatto?!”, ma sia in termini di numeri che poteva avere il vecchio progetto, sia in termini artistici non ci spaventa così tanto.
A: Poi non è stata mai una decisione a tavolino. Non è che siam partiti dicendo: ok, la roba vecchia ci ha stancato, facciamone una nuova. Ci sono state più o meno tre fasi, vissute nell'arco di questi tre anni. Inizialmente ci siamo messi a lavorare alla roba nuova degli M+A, poi andando avanti ci siamo resi conto che la roba nuova c'entrava poco con quella del passato, quindi abbiamo pensato per un po' di tempo di fare un side project. Infine più andava avanti la produzione artistica, più ci appassionava questo mondo che stavamo creando, e più abbiamo messo la pulce nell'orecchio alle persone con cui lavoravamo del cambio nome, più la risposta era “No, no, ma cosa fate, mi raccomando tenete tutto com'è”. E così quasi per gusto di distruggere ciò che hai costruito fino al giorno prima, quasi per rigetto dell'imposizione, abbiamo deciso di dar vita a qualcosa di completamente nuovo e centrale.
M: Anche l'idea di cancellare le tracce, in qualche modo, ci stuzzicava. L'idea che qualcosa possa non essere per sempre mi affascina.



Quindi: vi trovate in mano una cosa completamente nuova, quasi per definizione in continua mutazione. C'è un fil rouge che lega quest'uscita—la prima—alle future uscite di Santii o l'idea è proprio essere un'incognita?
A: Il filo rosso siamo noi due. Per quanto noi cerchiamo di allontanarci da noi stessi, che è davvero qualcosa che inseguiamo, non riusciremo mai effettivamente a diventare un'altra cosa.
M: L'aspetto divertente è anche quella delle collaborazioni, un aspetto fondamentale di questo nuovo progetto. Il featuring è una sorta di medio per poter essere non totalmente me stesso, ma potermi ritrovare in una maniera diversa. Parte tutto dall'ospite, per così dire, e poi a noi tocca rielaborare qualcosa che non è nostro, quindi diventa per forza un elemento di novità.
A: Sì perché poi devi considerare che tutte queste collaborazioni non sono nate come: “Ho questa produzione, la mando a tizio, lui ci metterà la voce sopra”. Noi mandavamo tipo venti ruff da pochi secondi a un artista e lui da quello doveva scegliere ciò che gli piaceva.
M: Sì, la tracklist è stata praticamente decisa dai featuring.
A: Quindi è come se noi nella fase iniziale avessimo voluto intenzionalmente lavarci le mani dal prendere delle decisioni artistiche, per poi revisionare in maniera molto più estrema nel post.

Paradossalmente quindi ci possono essere dei ruff che a voi piacevano tantissimo ma che nessuno ha scelto?
A: Esatto.
M: Che poi alla lunga ci siamo accorti che la scelta esterna è stata quella più azzeccata. Un occhio terzo talvolta ti rende un filino più oggettivo, anche magari in maniera cinica. Se vivi inglobato in due è molto speculare, quindi non sempre è facile giudicarsi.

Ma per quanto voi collaboriate da un sacco di anni, già il fatto di essere in due, per fare un passo indietro, non vi dà la possibilità di essere un po' meno voi stessi alla fine? Attraverso la conciliazione, intendo.
M: In realtà, per come lavoriamo, abbiamo un approccio al contempo simile, ma diversissimo, nonché molto eclettico. Per esempio in questo disco c'erano dei brani alla fine di generi completamente diversi fra di loro, erano delle intuizioni delle volte di generi che uno dei due aveva in testa. Considera che però, lavorando sempre in due, l'altro bene o male sa benissimo quello che hai in testa. Lui e io alla fine ci plasmiamo nel corso del tempo.

L'artwork ufficiale di "Outsider".

Ma parliamo di ciò per cui siamo qui: il vostro primo “nuovo” brano, quello con Reijje Snow, che se vogliamo ha un percorso simile al vostro. A un certo punto si è fermato, nonostante l'hype, e non si sapeva se sarebbe tornato, quando lo avrebbe fatto, come lo avrebbe fatto… Com'è nata? Lui è stato il primo a cui avete pensato e/o mandato i ruff?
A: No, non è stato il primo. Però la cosa è nata in maniera molto informale: gli ho scritto io su Facebook, quando ancora doveva firmare per 300, quindi non era ancora esploso. Era già in fase di fermo dopo i singoli del 2013, ma era ancora in una sorta di limbo. Gli scrissi perché entrambi eravamo in piena per lui, proprio artisticamente. Lui ascoltò i brani, si prese bene, lavorò al pezzo, inteso come al ruff. Poi da lì, a quando è realmente andato in studio a completare il brano è passato un sacco di tempo, perché nel frattempo lui ha firmato il contratto, si è messo a lavorare a Dear Annie e alla fine il brano è stato uno degli ultimi a essere chiuso. È stato bello perché quando gli scrissi ebbi proprio un rapporto umano con lui, non mediato da nessun manager o simile. Alla fine noi abbiamo sempre cercato di collaborare con artisti che, oltre a convincerci artisticamente, potessero garantirci un confronto umano. Proprio per il fatto di lasciare all'ospite la responsabilità di scegliere il ruff.

Tornando al progetto, invece: quando parlate di creare vari media, cosa intendete? In questo caso l'uscita del brano è abbastanza classica: audio su Spotify e simili, qualche giorno dopo video su YouTube. Quali possono essere le declinazioni differenti?
M: No, le modalità di uscita sono quelle standard, ovviamente. Semplicemente non sono declinate come se ci fosse un preciso concept unico che lega il tutto. Per il resto le uscite sono quelle classiche del 2018.
A: Nel comunicato c'è scritto magazine, per esempio. Quell'idea nasce perché abbiamo una passione per il mondo grafico e in generale visivo. Per dirti: all'inizio avevamo l'intenzione di far uscire, con ogni traccia, un sedicesimo in tiratura limitata. Perché alla fine a me del vinile non frega un cazzo, mi provoca anche noia, invece qualcosa che ti accompagna nell'ascolto, un supporto visivo, mi sembra un plus. Se devo effettivamente abbattere degli alberi, li abbatto per un contenuto che ha senso e che ha un valore. Lui scrive molto, io faccio il grafico e quindi ho un sacco di materiale fermo, per cui l'idea nasce abbastanza naturalmente.


L'intervista continua dopo il link, torna su a cliccarci sopra quando hai finito di leggerla:


E invece, vedendo il video di “Outsider”, partendo dalla scelta degli attori, fino ad arrivare a qualche riferimento esplicito all'Europa intesa come unione, mi chiedo se anche questo tema, che potremmo banalmente definire della “fratellanza”, non possa essere uno dei leitmotiv di ciò che uscirà d'ora in avanti. Oppure è qualcosa che rimane circoscritto qui?
M: Diciamo che la base del progetto e in parte dei feat non vuole mai essere troppo diretto, né didascalico. L'idea era di riuscire a tenere insieme il macro e il micro, senza perdere né l'uno né l'altro. Il video è strutturato così, sia nella parte iniziale, che nella parte più di ripresa dei corpi. Storicamente ho notato che ci sono due tendenze, una del macro che è il vuoto, e una del micro che è quasi del localismo, che fino a cinque o sei anni fa sarebbe sembrata ben inquadrata a livello politico. Quindi nella musica ci piaceva tenere insieme questi elementi che non fossero né spudoratamente europei, né che fosse spudoratamente hip hop americano, ma che fosse una miscela di questi due elementi senza perdere l'essenza di nessuno dei due.
A: Sì, diciamo che non siamo grandi fan dell'esplicitare i concetti, ma poi a un certo punto il tutto ci è sembrato necessario. Più che l'Europa di per sé, dunque, ci è chiaro il concetto di unione, di fare squadra, senza concentrarsi sul singolo. Da qui anche le tante collaborazioni.

Anche l'idea di strutturare tutto in maniera così mutevole, credo sia la conseguenza della fruizione della musica oggi. È molto più difficile sottoporre a un pubblico il disco, piuttosto che proporre tanti brani a tante piccole fan-base, fatte di ascoltatori di playlist et similia, no?
A: In effetti è proprio così, non è un disco, è u più un flusso in cui io posso permettermi di cambiare molto e tu ti puoi permettere il lusso neanche ascoltare una determinata cosa se non fa per te, ma ascoltare il brano dopo, con la possibilità che sia il tuo brano. Questa cosa ti lascia molta libertà, ma a livello di marketing, rende anche molto difficile la creazione di una fanbase vera e propria. Però alla fine abbiamo accettato quest'idea, ci viene spontaneo farlo. Alla fine è il discorso di prima: anche se tu hai un tabacchino, intorno a te si crea una bolla. A un certo punto distruggere quella bolla, per prima cosa ti consente di capire con più lucidità cosa hai avuto tra le mani fino a ora.
M: L'approccio distruttivo è stato paradossalmente molto costruttivo. Per esempio l'approccio che avevamo alle voci era molto più eclettico, spesso in molti non riconoscevano la mia voce, perché a volte era super acuta, a volte molto pitchata, a volte senza effetti. Ecco, con Santii abbiamo deciso di dare un aspetto più familiare alle voci.

Cambia anche l'approccio live?
M: È più bello! È più performance, continua anche qui la sperimentazione su di noi, abbiamo deciso di goderci l'esibizione, senza bisogno di dimostrare ciò che si sta facendo, ma con il solo scopo di divertirsi. Vedrai che storia, perché poi c'è anche una matrice MC che sarà molto divertente, non vedo l'ora.

Tommaso è su Instagram: @tom.hardee

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Maria Antonietta non ha paura di deluderti

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Ultimamente, in un autodistruttivo gesto di ribellione contro me stesso e contro i buoni consigli di tutti i miei amici e amiche, sto invecchiando. Ma non parlo della pancetta e degli hangover e dei tatuaggi sbiaditi, che nel magico mondo di internet in cui viviamo tutti noi dipendenti di VICE sono l'unico indicatore del passare del tempo: parlo di quell'invecchiamento che ti fa diventare insofferente verso certe pose, certe finzioni, certe ipocrisie; parlo anche di quell'invecchiamento che ti fa venire voglia di parlare di cose intime, magari noiose, ma importanti; quell'invecchiamento che ti fa diventare un po' troppo sincero e incurante dell'offesa o dell'imbarazzo che potresti procurare agli altri. E voi vi starete chiedendo: perché ce lo racconti, Giacomo? Perché anche Maria Antonietta sta invecchiando.

Il suo nuovo disco s'intitola Deluderti ed esce venerdì 30 marzo per La Tempesta, ed è un album che in maniera sfrontata e orgogliosa esibisce una certa saggezza. È talmente incentrato sulla realizzazione di sé che sembra quasi un concept album (e quando lo dico durante l'intervista che leggerete più avanti, l'artista annuisce), scritto per riaffermare un senso di indipendenza, di fiducia e, perché no, di felicità, una felicità conquistata e difesa con le unghie e con i denti contro la corrente di un mondo che, soprattutto quando sei una donna con un microfono, incoraggia l'insicurezza, la vergogna e la bidimensionalità.

L'idea che Letizia Cesarini alias Maria Antonietta si sia lasciata andare in Deluderti è molto forte: dove in passato trovavamo l'aderenza agli schemi più rigidi dell'indie folk o dell'indie rock o del punk rock, ora sentiamo esperimenti che mescolano vecchio rock'n'roll e melodia spectoriana, pop anni Ottanta, suggestioni new wave, echi britpop e alt-pop fine anni Novanta e l'aggiornamento della classica canzonetta italiana agli anni Dieci operato dalla contemporanea scena pop nazionale. Insomma, avrei anche potuto scrivere semplicemente che Maria Antonietta e la sua squadra di arrangiatori e co-produttori (composta da Giovanni Imparato aka Colombre, Tommaso Colliva e Fabio Grande) hanno fatto un po' quel cazzo che volevano, indovinando una serie di canzoni pop dal forte potenziale canticchiabile che mi hanno perseguitato per giorni (in particolare "Pesci", di cui potete vedere il video tra una risposta e l'altra).

Letizia è venuta a trovarci in redazione un giovedì pomeriggio, e abbiamo chiacchierato in maniera pluridimensionale. Per capire cosa significa, tocca leggere qua sotto.

Noisey: Devi sapere che la prima volta che ti ho vista sarà stato il 2009 o 2010 e tu suonavi nel giardino di casa di Tiziano Sgarbi a.k.a. Bob Corn, a San Martino Spino, in mezzo alla campagna. Suonavi seduta per terra sul prato e ricordo che avevi queste scarpe col tacco alto di colore rosso intensissimo che non si addicevano per nulla all'ambiente rurale. È la stessa sfrontatezza che oggi mi sembra di ritrovare nelle tue canzoni. Com'è stato per te iniziare nel circuito underground?
Maria Antonietta: Ho cominciato a svolgere questa attività un po' per caso, perché quando ho iniziato a scrivere i brani per me era una questione piuttosto privata. Io sono sempre stata molto timida, non è che avessi velleità di esibirmi in pubblico. Quello che è successo è che io ero super appassionata di questo gruppo incredibile che si chiamava Parenthetical Girls, e nel 2007 loro vennero in Italia a promuovere il loro secondo disco, bellissimo, intitolato Safe As Houses e io andai a tutti i concerti. In una di queste date, mi sembra fosse Verona, Bob Corn aprì il concerto. Io non lo conoscevo, ma siccome ero andata lì da sola in autostop, cominciai a parlarci. E gli dissi che scrivevo canzoni anch'io però non volevo farle sentire a nessuno, e lui mi rispose: "Ma no, hai la faccia simpatica, secondo me le canzoni sono belle". [ride] E così mi invitò a casa sua la settimana dopo per registrare un demo. E questo mi diede un po' di coraggio e cominciai a crederci un po' di più, e tornai nel 2010 per registrare il mio primo vero disco, con l'aiuto del suo amico Enrico.

Sei una "creatura" di Bob Corn, insomma.
Proprio così! [ride] Quello che dici sulla sfrontatezza è vero, credo che sia riuscita a mantenere intatta questa attitudine, pur avendo cambiato stile e forma nel tempo. Non sono mai stata molto in pace con gli stereotipi e con la semplificazione, anzi, porto avanti una certa crociata contro la semplificazione. Penso che la vita sia molto complessa, e contraddittoria, e piena di prospettive differenti che a volte stridono. E a volte siamo noi stessi ad autocensurarsi, magari per non deludere un'aspettativa, anche nei confronti di te stessa. Quindi mi piace pormi in tutta la mia complessità anche in contesti che non lo richiedono.

Il tema delle aspettative è praticamente il concept del tuo album ed emerge in molti punti; da dove viene questa "ossessione"?
Viene da lontano, perché proprio per il mio carattere ho sempre aspettative piuttosto alte nei confronti di me stessa. Se per fare una cosa basta un impegno da 6, per me 6 non è accettabile, devo andare sempre oltre. E lo stesso vale per le mie aspettative di felicità e di realizzazione spirituale nella vita. Ovviamente fare i conti con questo approccio costa molta fatica e molta sofferenza, perché l'aspettativa nella maggior parte dei casi non corrisponde mai alla realtà, no? E a volte è anche una fortuna, perché con la delusione delle aspettative spesso si apre una porta che non avevi immaginato e che ti sorprende molto di più. Quindi è un meccanismo per nulla virtuoso, che più che altro ti inchioda alla passività, perché quando l'aspettativa è troppo alta e ti senti di non essere all'altezza, alzi le mani e fai un passo indietro.

Conosco bene questo meccanismo.
Invece è un'illusione, una costruzione. È una cosa che è sempre esistita per tutti, eh, ma penso che oggi sia molto presente e incisiva; pensa alla ricerca costante di approvazione, di dimostrazioni di stima, di far validare la tua ricerca e quello che tu sei tramite l'approvazione degli altri. È un meccanismo assolutamente morboso, perché tu costruisci la tua ricerca sull'approvazione e sull'aspettativa dell'altro, quindi la tua ricerca muore lì, se anche raggiungi il tuo obiettivo il frutto è senza valore. Scontrarsi con la delusione non è certo un piacere, ma è più sano.

Però per te l'idea di deludere è un atto di ribellione.
Sì, è una libertà che vale la pena prendersi. Tanto per cominciare destabilizza, e tutte le cose destabilizzanti sono positive perché disturbare lo status quo vuol dire portare un cambiamento.

Pensi che questo punto di vista abbia influenzato anche la tua scelta di non pubblicare dischi per alcuni anni (l'ultimo, Sassi, è del 2014) e di rimanere decentrata, a Senigallia, invece di tuffarti nello show business, trasferirti a Roma, e fare quello che ci si aspetta da chi si dedica alla musica per lavoro?
Credo che questa sia una scelta che si fa in base al proprio temperamento. Per me, questa è la scelta migliore. Sono una persona molto contemplativa, ho bisogno di ampio respiro, e stare molto a contatto con la natura mi permette di coltivare il mio mondo interiore, avere il mio spazio e una situazione psicologica che mi aiuta a creare. Quindi sicuramente è una scelta ben precisa che mi fa stare in pace con quello che sono e con quello che faccio. Ovviamente ha i suoi contro. Ma cerco di rendere giustizia alle mie esigenze.

Nei quattro anni che sono passati tra un disco e l'altro hai studiato e ti sei laureata in storia dell'arte; come sarebbe stato Deluderti se invece fosse uscito nel 2015?
Sicuramente sarebbe stato molto diverso, soprattutto perché io avevo una consapevolezza diversa. Maturare una certa visione, un minimo di consapevolezza circa quello che tu sei e che vuoi rappresentare dentro al disco, richiede tempo. Ognuno ha il suo ritmo, è un discorso molto personale. Però penso che alcune cose richiedano sempre tempo, e quando forzi la mano rispetto al tempo che il tuo corpo ti richiede, il risultato è sicuramente peggiore. Quindi non so come sarebbe stato Deluderti nel 2015, ma di certo sarebbe stato un disco più brutto di questo. Ne sono convinta, non perché creda di aver realizzato il capolavoro del secolo ma perché rispetto a questo lavoro mi sento soddisfatta ed è una sensazione... strana. [ride]

Sono soddisfatta perché sono riuscita a concentrare le mie energie su un punto, perché si è chiarita la mia visione. Ho fatto pace con quello che avevo in testa. Perché questo succedesse, avevo bisogno di passare del tempo in solitudine, in un luogo astratto rispetto alla civiltà, alle contingenze, al mondo della musica. Avevo bisogno proprio di altro, così mi sono concentrata sul prendere la laurea e poi ho fatto uno stage in un laboratorio di arteterapia, in cui tenevo un corso di collage per ragazzi con disabilità psichiche. Questa è stata un'esperienza molto particolare, molto forte e che soprattutto ha ridimensionato certe ansie e aspettative. Penso sia assolutamente vitale per chiunque confrontarsi con cose molto distanti dalla propria attività principale. È come una purificazione ciclica che ti permette di rinnovare la tua volontà, perché altrimenti il tempo passa e tu non sai più bene perché fai quella cosa, no? Diventa un'attività che svolgi per inerzia, o per guadagnare dei soldi, o per compiacere il tuo ego. Ciclicamente, ri-tarare il fuoco è vitale per il bene di quello che stai facendo – e il modo migliore per farlo è confrontarsi con cose molto distanti, modalità differenti, mettendoti in gioco in cose che magari ti spaventano.

Durante questo periodo che ruolo ha assunto la musica nella tua vita? Cioè, mentre eri impegnata a studiare o nello stage, continuavi ad avere il pensiero fisso della musica o ti sei totalmente estraniata?
Per parecchio tempo non ci ho proprio pensato. Ascoltavo della musica così, come la ascoltano tutti. Più che altro mi sono dedicata tantissimo alla poesia, ho letto tantissimo. Sono sempre stata appassionata di poesia, ma avendo una finestra di tempo così grande e con dei ritmi così casalinghi mi sono procurata tantissimi libri e mi sono dedicata proprio alla lettura. È quello che mi ha fatto riaccendere la voglia di scrivere.

Quindi l'album è partito soprattutto dai testi?
Sì, proprio così. Mi sono ispirata soprattutto ad autrici come Emily Dickinson, Sylvia Plath, Marina Cvetaeva, Wisława Szymborska, Antonia Pozzi, Cristina Campo... insomma, mi sono confrontata con delle voci altissime, che hanno scritto cose incredibili, e quindi, sai, quando vedi una cosa molto bella ti viene voglia di farne parte, di partecipare. E quindi è stato quello che mi ha fatto venire voglia di produrre qualcosa.

Ultimamente ho notato che la musica italiana si sta rivolgendo di più al proprio passato, alla tradizione nazionale dei cantautori (o dei folgorati). Anche tu ti sei avvicinata ai Dalla e ai Battisti in fase di composizione di questo disco?
In generale ho sempre fatto un po' fatica ad apprezzare la musica italiana, perché quando ho cominciato a fare questa attività mi ci sono avvicinata da appassionata al movimento punk femminile degli anni Novanta: Bikini Kill, Babes In Toyland, L7, Hole, ecc. E poi di lì ho condotto una ricerca, diciamo, femminile, approdando ai girl group degli anni Sessanta: Shangri La's, Shirelles...

Ti volevo proprio dire che nel disco si sente molto l'influenza delle Ronettes...
[ride] Grazie, che bel complimento! In effetti ci ho infilato un po' di trucchetti spectoriani, mimetizzati. Perché ho sempre avuto il pallino delle melodie e quindi quel mondo è proprio un punto di riferimento per me, l'apoteosi della melodia. Poi sono arrivata anche a cose tipo le Supremes, cose più anni Settanta, ma rimanendo nel filone girl group. Un altro disco che mi è piaciuto tantissimo e che ho ascoltato tanto mentre cominciavamo a produrre l'album è stato il disco di Miley Cyrus con i Flaming Lips. Quel disco è stato rivelatore, perché riesce ad avere ottime canzoni pop con l'aggiunta di una forte componente elettronica e "spaziale" e in cui si insinua un rock'n'roll un po' marcio e sghembo, e lei ha un timbro bellissimo. Insomma, ha un equilibrio molto sottile, che in certi momenti ti fa fare "uhm" [storce il naso] e in altri ti fa gridare al capolavoro. A me piace molto quando riesci a fondere cose molto distanti fra loro.

Visto che nel disco e nel track-by-track che ci hai mandato parli molto dell'idea di fare fatica per stare bene, di lottare per la felicità, mi piacerebbe che tu dessi un consiglio ai lettori da mettere in pratica per essere più felici. Se ci piace ti diamo un'intera rubrica tipo "La posta del cuore".
Penso che la cosa più utile sia anche quella più difficile, cioè cercare di acquistare un po' di fiducia in se stessi. Sembra banale, ma è la cosa più complicata che esista, perché ti trovi a confrontarti in continuazione con modelli, aspettative, standard e un senso di competizione costante, e anche se sei una persona pacifica questa cosa ti si insinua dentro e mina la tua sicurezza. Naturalmente ci sono persone che non hanno questo tipo di problemi, ma la maggior parte fatica, anche se non lo ammette. Ma è la premessa per tutto il resto, se tu non hai fiducia in te stesso e rispetto per quello che sei, è molto difficile avere una relazione non fallimentare, dedicarti a un lavoro credendoci e cercando di portare avanti la tua visione, è difficile confrontarti con gli altri; perché gli altri si porteranno sempre dietro la loro opinione, la loro visione, spesso in conflitto con la tua. Quindi finisci per censurarti, nasconderti oppure rinunciare. Lo dico perché ho sempre faticato io stessa e continuo a faticare.

Credo che stare sul palco davanti a un pubblico numeroso aiuti...
Guarda, a me il pubblico mette in imbarazzo. Quella situazione, certo, ti lusinga, però la dinamica dell'autostima è un fatto talmente privato che quel tipo di cosa fa fatica a incidere. È un meccanismo che si deve sbloccare dentro di te. Sei tu che devi trovare i motivi giusti, i moventi giusti, l'ispirazione giusta, il confronto con le persone giuste per fare un ragionamento su te stesso. Quindi purtroppo il pubblico non è sufficiente, perlomeno per me non lo è stato.

Cito una frase che hai scritto a proposito di "Vergine": "ciò che non porta al vero porta al nulla". Qual è il tuo rapporto con la verità e la sincerità nel contesto dello spettacolo? Perché sei pur sempre una cantante, cioè una donna di spettacolo, e si sa che nello spettacolo di verità ce n'è storicamente poca...
Questa è una cosa che fa sempre soffrire, infatti anche in "Deluderti", quando dico "non assomiglio a una linea di contorno", parlo proprio della tendenza all'appiattimento verso la bidimensionalità. Già per una persona che fa un'attività non pubblica riuscire a gestire la propria complessità è... complesso, perché quando ti relazioni con gli altri ti semplifichi per forza di cose. Quando fai una cosa del genere, quindi ti inserisci in dinamiche molto pubbliche, il rischio di vedere mortificata la propria complessità è ancora più grande. Io cerco di mortificarla il meno possibile, ci provo in tutti i modi, ma temo sia inevitabile, bisogna farci i conti. Però io faccio tutto ciò che è in mio potere per cercare di farmi schiacciare il meno possibile in una cosa piatta e mantenere la tridimensionalità, anzi, la pluridimensionalità. Ma non posso avere lo stesso dialogo che sto avendo con te con tutti quelli che ascoltano le mie canzoni.

Prima parlavi della tua passione per la scena riot grrrl, inoltre so che sei un'appassionata di gender studies, quindi devo farti questa domanda: come vedi la rappresentanza femminile all'interno della scena indie italiana, o itpop che dir si voglia? La mia sensazione, come ho avuto modo di scrivere, è che le donne in questa scena compaiano soltanto nei video – scorrendo la playlistIndie Italia di Spotify, le uniche voci femminili che si sentono sono la tua e quelle di Verano, CRLN e Coma Cose. Per un ambiente musicale che si pone come l'altro polo della musica italiana, in contrapposizione alla durezza e al machismo del rap, mi sembra un po' poco.
I numeri non mentono, è un dato di fatto. Sicuramente c'entra anche il pubblico: quando uscì il mio primo disco nel 2012, io utilizzavo nei testi delle parole un po' crude, e questo scatenò una reazione che per me, all'epoca abituata ad ascoltare le Bikini Kill che hanno dei testi non esattamente pacifici, fu assolutamente esagerata, si scatenò il finimondo per un paio di parolacce. Quindi effettivamente c'è... non dico ostilità, ma sicuramente disabitudine al fatto che le donne si esprimano in modi non esattamente edulcorati o posati. Al tempo stesso credo che molto di questo sia dovuto anche alle donne stesse: c'è tutta una tradizione, un senso di abitudine, che ha plasmato le aspettative che le donne hanno di se stesse, non mettendosi in condizione di fare questa attività. Ma non siamo in un regime per il quale la donna debba stare in casa e non si possa dedicare a un'attività come la musica: se vuoi, puoi farlo. Non ci sono veti, non ci sono restrizioni. Molto spesso secondo me ci si autoimpone un vincolo, un limite, una censura, e alla fine diventi vittima di te stessa. Non lo so, forse è un discorso ingenuo, però penso che la responsabilità sia, certo, di un sistema, ma anche tua.

C'è da dire che quando una ragazza imbraccia una chitarra, o un microfono, o qualunque altro strumento, ho l'impressione che il giudizio sia molto più severo.
Quello senza dubbio. Anche perché sei molto più attaccabile per tutta una serie di aspetti che non sono assolutamente inerenti a quello che stai facendo. Sicuramente non sto dicendo che sia facile, però è un peccato limitarsi per paura di ricevere dei feedback di un certo tipo. Penso a tante donne che nelle loro vite hanno fatto cose ben più coraggiose o importanti, come ad esempio il movimento per il suffragio; penso a tutte quelle donne che sono state messe in carcere, che facevano lo sciopero della fame e venivano nutrite a forza con una canna in gola. Quella è una cosa che mi fa dire: "Non so se sarei pronta a un'azione così forte". Ma suonare? Questo secondo me lo si può fare. Con fatica, cercando di separare le critiche mosse per misoginia da quelle legittime, ignorando i commenti sulla tua vita sessuale e sul tuo aspetto, gli standard che ti vengono imposti. Si può fare. Io mi sento semplicemente una persona che cerca di fare una cosa, e porto avanti la mia ricerca liberamente, cercando di elevarmi al di sopra degli attacchi. Bisogna essere un po' salde e avere coraggio, perché senza coraggio in fondo è come assecondare il pregiudizio, e io non voglio assecondare un bel niente. Se poi hai la fortuna, come me, di avere vicino persone che ti stimano e che ti amano, sei inattaccabile.

Maria Antonietta sarà in tour per promuovere il suo nuovo album Deluderti, queste le date:
ven 20/04 @ TPO, Bologna
sab 28/04 @ Hiroshima Mon Amour, Torino
ven 4/05 @ New Age Club, Roncade (TV)
ven 11/05 @ Monk, Roma
sab 12/05 @ Teatro Sperimentale, Pesaro
sab 26/05 @ MIAMI (Circolo Magnolia), Milano

Giacomo è su Instagram, ma non lo usa abbastanza. Vincenzo, invece, su Instagram è un drago.

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Nessuno può mettersi LNDFK in tasca

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Linda Feki è italiana di origini tunisine, ha sempre portato in valigia ogni esperienza del suo trascorso ricco di scelte, cambiamenti e passioni. Lo scorso anno ha deciso di iniziare a condividere il proprio bagaglio di esperienze con il mondo tramite la musica.

Con l’EP d’esordio Lust Blue, la voce e lo stile di LNDFK hanno da subito individuato una personalissima impronta stilistica, capace di combinare i tecnicismi di un sound elettronico moderno con un impianto delicato e particolare che ricorda un soul d’altri tempi. Il 28 marzo esce “Pocket P Song”, singolo che anticipa una serie di nuova musica su cui ha lavorato nel corso degli ultimi mesi, tra una data e l'altra in giro per l’Italia.

Il concetto, in questo ritorno, è più marcatamente emotivo: il testo porta a galla tutte le problematiche comportamentali cui la figura femminile è soggetta, nel mondo del lavoro così come nel resto delle sue esperienze quotidiane. La sensualità viene utilizzata come un boomerang, perché stavolta mira a catturare il presente nelle sue arcaiche concezioni di genere e sesso, mettendo a nudo tutte le debolezze del sistema in cui ci troviamo.

Ne ho parlato con lei per capire più a fondo le sue idee di linguaggio e di stile, in una conversazione che ha portato a galla tutto ciò che c’è nel suo caratteristico mondo ricco di vibrazioni differenti.

Noisey: “This is not another love song” è a mio parere la frase simbolo di questo brano, quella che più ti rimane in testa. Si percepisce fortemente come l’intento sia quello di far rincorrere una provocazione nella provocazione, in maniera continua. Ma in realtà il messaggio è molto serio.
LNDFK: Il testo affronta il tema del sessismo nel mondo del lavoro e, in particolare, nel mondo della musica. La tendenza alla discriminazione di genere, una vera e propria consuetudine, ha radicato la convinzione che la donna sia innanzitutto un corpo e poi - forse - una figura professionale. Non c'è bisogno di ricorrere ad esempi eclatanti: le molestie si consumano ogni giorno, a ogni latitudine e longitudine. Una battuta sciocca, volgare; un apprezzamento sul proprio aspetto e non sul proprio operato; la perdita di un diritto perché non si appartiene al "sesso forte"; ma anche, al contrario, vantaggi e agevolazioni, non derivanti dal merito. "Pocket-Pussy” parla del timore che tale atteggiamento discriminatorio venga interiorizzato, regolarizzato e banalizzato, non solo da chi se ne fa portavoce, ma anche dalle donne stesse, ormai educate a vivere e a fronteggiare piccole battaglie quotidiane come una condizione intrinseca del loro stesso essere donne. “This is not not another love song” si presenta quindi come indizio della provocazione disseminata in tutto il testo e come sintesi di tutti i cliché delle canzoni d’amore smielate.

E in effetti è un gioco di allegorie che rende molto bene anche musicalmente.
Ho ricercato proprio il contrasto tra due entità volutamente opposte sovrapponendo un contenuto crudo e diretto ad una forma più delicata e a un sound che mi piace definire “mellow”. Il testo vuole toccare delle corde precise sempre in maniera traversa, attraverso differenti espedienti. È una cosa che la musica mi aiuta a fare in maniera naturale e che sto cercando di sviluppare sempre meglio.

Ci sono, a mio parere, dei rimandi a “Catch Your Breath” – che apriva l’EP d’esordio – da un punto di vista della comunicazione emotiva. Se lì il monito era lasciarsi andare in un respiro che poteva riportarti a galla o liberarti con un orgasmo, qui è quello di prendere quella stessa libertà sul serio, usarla nella maniera giusta.
In effetti “Catch Your Breath”, pur non avendo un testo, fotografava la sensazione estrema, eppure così necessaria, di riprendere fiato, respirare, ripartire. Potremmo dire che se in “Catch Your Breath” risalivo a galla, in “Pocket P Song” la risalita si è compiuta del tutto.

Anche il titolo nasce da questo tipo di approccio?
Sì, il titolo nasce da un gioco di parole tra “Pocket Piano” – il midi-synth che ho suonato nell’intro, ispirato al suono del synth critter & guitar – e la parola “Pussy”, una citazione a Kendrick Lamar, nel brano “Blow in the Wind” di SZA.

Blues, soul, funk ed elettronica: il modo di combinare questi fattori stilistici all’interno del tuo linguaggio è stato il fondamentale di successo nell’esordio con Lust Blue. Come descriveresti l'evoluzione che ha avuto?
Da un punto di vista del sound, direi che la produzione è più personale, essendo anche il primo brano che produco, e lo sento molto più affine alla mia identità artistica rispetto ai miei lavori precedenti.

Nel dettaglio, si sente anche una decisa componente rap – nelle strofe – che non avevamo ancora scoperto in LNDFK.
C’è decisamente molto dell’hip-hop che sto ascoltando quasi ininterrottamente, che mi sta dando stimoli ulteriormente diversi, specie nell’esplorare il flow e l’armonia del cantato su più livelli. L’esigenza di attingere a questo linguaggio è venuta fuori innanzitutto dalla necessità di raccontare cose che mi risulta più difficile dire cantando e basta. Dal punto di vista unicamente musicale il rap è decisamente più stimolante e soddisfa meglio la mia ricerca espressiva sul piano ritmico. In più, il rap mi ha dato la possibilità di esplorare la dimensione ludica nella musica, elemento che mi manca quando mi esprimo esclusivamente cantando.

Si prova spesso a definire un artista, includendo decine di sottogeneri accattivanti tra le loro influenze, ma spesso in fondo non si capisce bene che musica facciano realmente. Qui ci sono degli elementi del vero e proprio soul, quasi puro, se si prova a destrutturare il brano.
Dal punto di vista musicale credo sia la forma in cui mi rispecchio maggiormente. Lungo il percorso ho aggiunto tutte le influenze che provengono dalle mie passioni per il rap ed il jazz, e la black music in genere. Questo brano ha una forte componente gospel, armonicamente, e forse rintracciabile nei riferimenti alla struttura tradizionale della canzone.

Ricordo diversi aneddoti sull’utilizzo di campioni registrati in maniera creativa durante la realizzazione del primo EP. Cos’altro avete inserito stavolta a livello sonoro?
Siamo tornati un po’ più sul digitale tradizionale, pur mantenendo quel fattore estetico affine al mondo Brainfeeder sullo sfondo, in grado di tracciare un filo conduttore con i brani del primo EP. Non abbiamo un metodo di produzione rigido e non ho neanche idea di come la mia musica possa evolversi. Mi viene in mente qualcosa e lo faccio.

La tua passione per l’espressionismo astratto e per il colore come carica emotiva si nota ancora una volta nella cover del singolo, che contiene un evidente messaggio subliminale.
Sono molto legata alla potenza comunicativa del colore. Sono convinta che, nel processo creativo, i due mondi, quello musicale e quello artistico figurativo, non solo siano inseparabili ma si rincorrano costantemente: il beat mi ha suggerito l’icona, che ho disegnato divertendomi nelle IG story, realizzata poi definitivamente da Martina Bliss, e l’icona mi ha ispirato il contenuto del testo, scritto insieme ad Aston Rico. Quel rosa e quel disegno secondo me evocano esattamente “Pocket P Song”: sono la sua trasposizione figurativa.

Credo si evinca una cura molto dettagliata in questi aspetti del tuo progetto, a livello visivo nulla è lasciato mai al caso. É così?
Assolutamente sì. La passione per l’arte, e in particolare per il colore, è sempre stata molto presente e molto forte in me.

A me sembra comunque evidente quanto l’oriente e l’occidente si incontrino sempre in un modo particolarissimo nella tessitura del tuo stile, sia nell’immagine che nella musica. Ti riconosci in questa ricostruzione?
Il mondo orientale è sicuramene una parte di me, anche solo come mondo inconscio, ma credo che in superficie emerga maggiormente il mondo occidentale che mi ha formata e che mi influenza, anche se non escludo che in futuro possa emergere maggiormente l’interazione tra questi due mondi.

Oltre alle peculiarità della black music, azzarderei si intravedano diversi elementi della carica malinconica del blues di Pino Daniele.
È stato chiaramente un’influenza spontanea, che ho assorbito crescendo a Napoli. La mia passione verso questo grande artista è stata sicuramente nutrita ed esaltata da DaryoBass, con il quale collaboro. Credo però siano più che altro componenti molto legate alla mia formazione jazzistica, che forse fanno emergere questa connessione in alcune sfumature.

Un paragone che sicuramente ti si è presentato spesso è quello con FKA Twigs, per un’avvenenza mistica e mai immediatamente accessibile dei suoni. Ma soprattuto a livello estetico, per quell’uso di una sensualità estremamente velata.
FKA è un artista che ammiro molto, e che sento molto vicina sul piano visivo ma molto poco sul piano musicale. Il suo video di “Papi Pacify” lo considero tutt’ora un capolavoro ed è stato di molta ispirazione per me. Credo che “Water Me” mi abbia definitivamente conquistata. Guardare ipnotizzata quegli occhi giganteschi mi ha portata a riflettere sull’unicità dei nostri difetti e su quanto la perfezione, intesa in senso tradizionale, possa essere vuota. Perfezione e avere coraggio di mettersi a nudo, ed è questo che ricerco nell’arte: la crudezza di essere ciò che si è.

Sono d’accordo, riuscire a costruire un concetto di stile così personale è la prova più difficile che esista. Come definiresti ciò che trasmette il tuo, se dovessi raccontarlo?
Non credo di essere ancora arrivata al punto di conoscere e quindi poter esprimere la mia identità a pieno attraverso la mia musica, con la quale spero di riuscire a ricostruire anche le mie radici, che ancora a fatica non riesco ad accettare del tutto. Il rifiuto è probabilmente riconducibile alla mia figura paterna per cui affido alla mia musica una sorta di missione catartica adeguando il percorso musicale al mio percorso di vita.

Questo ti aiuta anche a capire come sviluppare le tue idee, come farle diventare la tua vera espressione.
Credo sia possa trattare di una forma di terapia, attraverso cui affrontare le difficoltà della vita per tramutarle nella bellezza che il linguaggio della musica può cristallizzare. Ricostruisco il mio passato creando una finestra su un futuro che possa raccontarmelo.

Per chiudere il cerchio sul tema della sessualità di cui parla il pezzo e contestualizzare la discussione sul mondo della musica, pensi esistano differenze tra underground e pop, in termini di costume?
Assolutamente. Il pop conta sulla semplicità, sull’omologazione, tutto è finalizzato a quello. Esistono delle etichette prestabilite dalle quali non puoi distaccarti. Non c’è mai un vero “oltre”. Questo è causa di ognuna delle complessità che si palesa in termini di questioni importanti come la sessualità e di parità di trattamento tra figura femminile e maschile, ancora oggi un assurdo tabù. Non credo ci si possa trovare gioia in un ambito del genere, per le difficoltà che incontri come persona prima che come artista.

Abbiamo parlato molto di background e di ascendenti che provengono dal tuo passato, ma adesso musicalmente cosa ti fa stare bene?
Adoro tutta la scena di Chicago e Los Angeles, il rap e l’hip-hop che si sta contaminando con la musica elettronica, il jazz, il soul e il gospel. Passo dalla trap al jazz mainstream o più moderno. Adoro Monte Booker e Cam O'Bi, che in questi mesi ho ascoltato molto e che stanno visibilmente influenzando il mio approccio alla produzione. La black music e in generale la popular music americana. Quest'ultima, in particolare, un'accezione molto diversa dalla nostra e le differenze sono, a mio avviso, rintracciabili nella qualità del prodotto.

C’è qualche artista in particolare che ti da quella sensazione?
Anderson .Paak, Tyler the Creator, SZA sono icone di uno stile e di un carisma che fatico a trovare in altre realtà, perché rendono la complessità e l’estro una cosa apparentemente semplice e universale, alla portata di tutti.

Il prototipo di artista contemporaneo quindi appartiene a quella categoria?
Considero Kendrick Lamar l'artista simbolo di questo processo, colui che, più di tutti, è stato in grado di rendere universale un linguaggio che, fino a poco tempo fa, coinvolgeva una cerchia considerevolmente più ristretta. Ho visto recentemente una data del suo tour ad Amsterdam e sono rimasta estasiata dalla scena a cui ho assistito durante l’applauso finale del pubblico, in chiusura di serata: lui era al centro del palco, immobile, a fissare ciascuna di quelle persone, con uno sguardo umile e commosso e allora stesso tempo consapevole e orgoglioso.

Giovanni è su Twitter: @storiesonvenus.

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Guarda questi anziani che suonano una canzone punk

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La generazione punk, come tutte le altre generazioni che hanno dato vita a movimenti giovanili come il rock, l'hip-hop e fondamentalmente ogni cosa su cui si fonda la nostra cultura oggi, non pensava di diventare vecchia. Il motto era "Vivi veloce, muori giovane". E invece, maledizione, morire non è poi così facile, e ora anche i punk devono curarsi gli acciacchi e li si vede aggirarsi sempre più spesso in prossimità di cantieri e tranquilli bar di periferia.

Dev'essere per questo che Francesco Roggero aka Auroro Borealo, famoso per essere il caporedattore della (grandiosa) webzine Orrore a 33 Giri, ha pensato di farsi accompagnare da sua madre e da un paio di suoi coetanei (tutti ultrasettantenni) nel video di "Villano", il primo singolo estratto dal suo nuovo album intitolato Sappi che ti ho sempre voluto bene.

Il disco è uscito l'8 marzo e contiene hit demenziali totali come "Vecchi che urlano", "Alfabeto hippy", "Trentenni pelati" e una cover di "Orinoco Flow" di Enya che va ascoltata per comprenderne la grandezza. Ma oggi parliamo di "Villano" e del suo attacco super punk a piaghe sociali come le ragazze di Bra, le madri che non sanno usare Android, Asterix, Gianna Gianna, la capacità riproduttiva degli esseri umani: il ritornello "One two three / Ti odio di merda" sarà il vostro mantra per il resto della settimana.

Se vi sembra che gli anziani presenti nel video in cima al post non stiano davvero suonando, siete persone piene di pregiudizi che diventeranno stronzissime da vecchie.

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Recensione: Diplo - California EP

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Se non hai girato con dei tappi nelle orecchie per tutta il tempo che hai passato su questa terra, hai ascoltato almeno una canzone prodotta da Diplo. Sebbene il suo nome sia molto più famoso nei paesi anglofoni rispetto al nostro, la sua penetrazionecosì come il suono che ha cominciato a sviluppare dieci anni faè letteralmente globale. Questo recente profilo del Guardian spiega bene il suo tragitto da DJ sfigato di Philadelphia a superproducer milionario portatore di una visione globale del pop. Veniva dall'elettronica più zarra e dall'hip-hop, Diplo: poi sentì il baile funk brasiliano e se ne innamorò. Da lì, non ha più smesso di prendere suoni dal mondo e integrarli in beat elettronici dal grande potenziale pop.

Il grande merito di Diplo è quello di aver predetto la svolta mondialista del pop contemporaneo: già undici anni fa, "Paper Planes" di M.I.A. (ai tempi sua ragazza) la affermava come voce ibrida e fortemente politicizzata, potenzialmente oggetto dell'adorazione sia di chi aborriva le grandi strutture capitaliste che di chi ci viveva, ignaro e spensierato, in mezzo. Da allora non si è più fermato: affascinato dalla dancehall, ha fondato quel progetto di iper-successo che sono i Major Lazer. Sospinto dalla bolla EDM, Diplo è sopravvissuto al suo scoppio affermandosi con "Lean On", singolo che ha influenzato il mondo intero lanciando la moda del drop vocale che avete sentito in "Roma-Bangkok", "Vorrei ma non posto", "Assenzio", "Pamplona" e altri 372891372187312 singoli in giro per il mondo. Una volta raggiunte le vette del pop internazionale, ha preso con sé Skrillex salvandolo dal naufragio della brostep producendo assieme a lui "Where Are Ü Now", cantata da Justin Bieber. In tutto questo, Diplo ha buttato il suo nome su pezzi di stelle come Beyoncé, Madonna, Britney Spears, Drake, Snoop Dogg e Lil Wayne.

Tra un successo planetario e un altro, nell'ultimo anno Diplo ha dato una mano a rapper come Lil Yachty e XXXTentacion a trasformarsi in bestie del pop producendo, rispettivamente, le loro "Forever Young" e "Looking for a Star". E ora, su questo suo nuovo EP solista, sembra voler fare la stessa cosa per altre nuove, o semi-nuove, leve dell'hip-hop americano. Nonostante questi pezzi escano a suo nome, Diplo ha però deciso di mettersi in secondo piano rispetto a chi gli ha prestato la voce: i suoi beat sono morbidi tappeti R&B, più che magnifiche impalcature pop. Con due eccezioni: "Get It Right", qua remixata con un'onesta strofa di GoldLink, è un'altra "Lean On" un po' meno efficace dell'originale; e "Look Back" è un noioso lentone rock su cui il falsetto di DRAM risulta più fastidioso che, come succede quando lo usa nei suoi pezzi, tenero e coccoloso.

I restanti quattro pezzi, invece, sono esercizi di hip-hop-diventato-ormai-pop. "Worry No More" riporta Yachty in mezzo alle acque azzurre che hanno fatto la sua fortuna facendo dimenticare il catrame di Lil Boat 2; su "Suicidal" Desiigner dimostra che fare l'ospite-urban-su-pezzoni-pop, come aveva già dimostrato assieme a Mura Masa, gli riesce meglio che fare il rapper; Trippie Redd e Lil Xan portano, rispettivamente su "Wish" e "Color Blind", i loro flow sbiascicati in un contesto pettinato. Trippie sbotta accorato, Xan snasa frenetico, ed entrambi risultano energizzati dalle produzioni solari di Diplo. È assurdo che in così poco tempo nomi come i loro potessero essere accostati a sonorità come queste, ma finché l'hip-hop resterà il linguaggio favorito di questa generazione faremo meglio ad abituarci al fatto che il grande pop abbracci e inglobi le voci dei ragazzi che, utilizzandolo dal basso, si creano enormi seguiti di appassionati. È anche così che si fanno le hit.

Il California EP è uscito venerdì per Mad Decent e Because Music.

Ascolta il California EP su Spotify:

Tracklist:

1. Worry No More (feat. Lil Yachty & Santigold)
2. Suicidal (feat. Desiigner)
3. Look Back (feat. DRAM)
4. Wish (feat. Trippie Redd)
5. Color Blind (feat. Lil Xan)
6. Get It Right (Remix) (feat. MØ & GoldLink)

Elia è su Instagram: @lvslei

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Recensione: Sol Invictus - Necropolis

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Non è dato sapere perché, non trovo riscontro online, ma Prophecy nel comunicato suggerisce che Necropolis possa essere l’ultimo disco dei Sol Invictus. Forse Wakeford, dopo trent’anni a suonare lo stesso accordo, si è stufato. Personalmente ci credo poco, ma soprattutto mi auguro che non sia così.

Necropolis dovrebbe essere circa il quindicesimo album dei Sol Invictus, collaborazione più collaborazione meno, e probabilmente il milionesimo di Tony Wakeford in generale, e per quanto il rotondo inglesotto abbia da parecchio finito i colpi di classe del suo repertorio, ogni volta che se ne esce con un disco nuovo vale la pena buttarci un orecchio per capire con chi o cosa se la sta prendendo questa volta. Come da tradizione, anche questo nuovo lavoro segue un filo concettuale ben preciso, pur senza poter essere definito un vero e proprio concept, e il tema sviscerato questa volta dal vocione più afono di Londra è nientemeno che Londra stessa.

Dopo alberi, lame e Gesù Cristo, è il momento di cantare di quelle viuzze, quelle chiese, quel fiume che tanto hanno dato alla cultura popolare attraverso i secoli, e ovviamente la lettura da parte di uno dei bardi neofolk per eccellenza non può che essere cupa e decadente. E infatti Wakeford dichiara che “Londra una volta era l’apice di un impero, ma ora non è che il parco giochi di altri imperi che la sovrastano”, che se l’avesse detto prima del 23 Giugno 2016 l’avrei detto euroscettico, invece oggi non so bene cosa pensare e per comodità etichetto il tutto come il solito pensiero non allineato da neofolker della prima ora cui non va mai bene niente.

Citazione nella citazione, a quanto pare la Necropoli del titolo ha anche un riscontro nella reale geografia cittadina: dal 1854 al 1941 infatti è esistita una vera e propria London Necropolis Railway, che collegava la città con il Brookwood Cemetery, nel Surrey, il cui capolinea era appunto la stazione Necropolis. Lo scopo della ferrovia era quello di svuotare i cimiteri di Londra, ormai sovraffollati, e concimare le verdi campagne circostanti. Di nuovo, però, Tony l’intonato ci tiene a specificare che “Necropoli è anche la percezione che ho della Londra di oggi, città di massoni e mausolei, infestata dai crimini e dalle azioni dei morti e dei vivi”.

Per i londinesi Necropolis sarà un piacevole gioco di riferimenti e rimandi di un uomo insoddisfatto e particolarmente critico: “Kill kill kill! London’s very ill!” è il mantra di “Kill Burn”, per dare un’idea, ma Wakeford si augura redenzioni violente più o meno per tutto e tutti: la distruzione del London Bridge (“Still Born Summer”), presenze oscure nelle periferie (“Set The Table”) e tutta una serie di altre immagini rosee e piacevoli. Per i forestieri, il lavoro dei Sol Invictus potrebbe rivelarsi una divertente guida turistica alternativa per scoprire una Londra diversa, fatta di streghe, brughiere maledette e roghi purificatori per riportare la capitale del Regno Unito al suo antico splendore (?) quale che esso fosse. Al servizio di questo alto traguardo, e per la seconda volta dei Sol Invictus, da segnalare anche la chitarra di Don Anderson.

Necropolis è uscito venerdì 23 per Prophecy.

Ascolta Necropolis su Spotify:

TRACKLIST:
1. Necropolis: Portal
2. Nine Elms
3. Old Father Thames
4. See Them
5. Serpentine
6. Still Born Summer
7. Brick Lane
8. Turn Turn Turn
9. The Last Man
10. The Garden Of Love
11. Kill Burn
12. Set The Table
13. Murder On Thames
14. Shoreditch
15. Necropolis: Egress

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Queste foto da Miami raccontano lo stato della scena EDM nel 2018

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Siete mai stati a Miami? Neanche noi. Ma abbiamo visto i video di Pitbull, e ora che abbiamo visto anche queste foto di gente che balla seminuda al sole, provenienti dall'Ultra Music Festival di Miami, abbiamo capito che forse abbiamo sbagliato tutto. Forse non siamo le persone che credevamo di essere. Forse dobbiamo buttare le magliette dei Joy Division e comprare una visiera verde acido e cominciare a goderci la vita.

L'Ultra è nato nel 1999 e si è gradualmente trasformato nell'evento EDM dell'anno. Tra EDM mainstream, techno underground e hip-hop, la lineup del festival porta in Florida circa 150mila partecipanti ogni anno. Negli ultimi due anni, DJ Mag l'ha nominato "Miglior Festival del Mondo" e la formazione del 2018 non è stata da meno, con nomi quali Steve Aoki, Azealia Banks, DJ Snake, Marshmello e anche gli Swedish House Mafia, con un ritorno a sorpresa dopo cinque anni di silenzio. Il nostro consiglio è di comprare un salvadanaio e scriverci sopra "Ultra" oppure, se volare a Miami per voi è improponibile, potete guardare le foto di questa edizione qua sotto.

Tanto per ricordarvi quanto è bella l'estate, il fotografo Benjamin Diedering è stato all'Ultra per ritrarre i raver più cool del 2018. Già che c'era, non si è lasciato sfuggire le palme, i palazzi e le scene più affascinanti della festa EDM più bella dell'anno.

Ecco le foto:

La versione originare di questo articolo è stata pubblicata da Noisey Germania.

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Tutti gli artisti che suoneranno a Radar Festival

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Il Radar Festival ha appena annunciato nuove aggiunte alla sua già ricca line-up che si sta profilando come una delle più internazionali e contemporanee presentate in Italia negli ultimi anni. Innanzitutto sembra un festival vero, con tanti palchi e tanti artisti in pochi giorni, e in una location che dovrebbe rendere onore all'evento: il Parco dell'Idroscalo di Milano, appena fuori dalla città verso est. Il tutto si terrà in un weekend, i prossimi venerdì 8 e sabato 9 giugno.

Ad ogni modo, i nuovi artisti annunciati dal festival ci piacciono tutti molto. Il più importante è Sampha, una delle giovani voci R&B più eccitanti del mondo, autore di un ottimo album che si intitola Process. Tornerà in Italia dopo il suo splendido concerto al Fabrique di Milano di qualche mese fa. Poi ci saranno gli scozzesi Young Fathers, vincitori del prestigioso Mercury Prize, il cui rap non è solo rap ma è qualcosa di più storto e diverso rispetto a qualsiasi cosa possiate aspettarvi.

Continuiamo con l'elettronica vapor-distopica e post-umana di Fatima Al Qadiri, con cui un paio d'anni fa avevamo parlato di politica e autoritarismo. Poi c'è il queer rap di Cakes Da Killa, che avevamo fatto intervistare nientepopòdimenoche a Lady Gaga. E finiamo con Populous, che da quando ha pubblicato il suo ultimo album Azulejos ha cominciato a far ballare sempre più gente in giro per il mondo fino a farci sperare che non ce lo portino via dall'Italia definitivamente.

Qua sotto trovate la line-up completa. Comprate i biglietti asu Ticketone e a quest'altro , che poi se finiscono vi resta solo da mangiarvi le mani.

8 GIUGNO: SAMPHA, YUNG LEAN, THE BLACK MADONNA, ABRA, PALE WAVES, CAKES DA KILLA, POPULOUS & FRIENDS + altri artisti ancora da annunciare

9 GIUGNO; CHARLOTTE GAINSBOURG, YOUNG FATHERS, SUPERORGANISM, SOPHIE, KELLY LEE OWENS, FATIMA AL QADIRI, RINA SAWAYAMA, MAVI PHOENIX, BAD GYAL + altri artisti ancora da annunciare

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E leggi questi articoli sugli artisti che suoneranno al festival:

I dieci album più bizzarri pubblicati dalla Apple Records dei Beatles

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Nel lontano 1968 le cose erano ben diverse da oggi. Non esistevano netlabel, non c’era Spotify, e le etichette indipendenti dovevano faticare non poco per raggiungere il pubblico, nonostante a volte fossero una tale fucina di talenti che era inevitabile che sfociassero nel mainstream. Una di queste fu la Apple Records, i cui padri e padrini furono nientepopodimeno che i Beatles.

Episodio all’interno di un progetto ben più ambizioso pensato per concentrare tutte le energie creative dei Beatles in una corporazione sulla carta imbattibile, la Apple Corps, che comprendeva diverse divisioni come la Apple Electronics, la Apple Publishing la Apple Films e la Apple Retail (e di conseguenza la Apple Boutique, dove i fan dei Beatles e della filosofia freak potevano trovare abbigliamento e gingilli che più gli si addicevano), è uno dei primi casi di etichette indipendenti fondate da artisti major, le cui fortune, paradossalmente proprio per questo, erano altalenanti e destinate a essere inglobate dalle major a causa dello scarso senso pratico/commerciale dei fondatori (basti pensare che l’Apple Boutique fallì perché la gente rubava indisturbata e la Apple Electronics venne messa in mano ad un vero e proprio “cialtrone” ovvero Magic Alex, che, riuscito ad abbindolare Lennon e soci grazie a una specie di mini-dream machine da lui ideata, da solo affossò di parecchi soldoni la compagnia).

Ciononostante i Beatles, oltre a lanciare i propri lavori ed esperimenti controllando personalmente (per quanto in maniera surreale) ogni passaggio della produzione, pubblicarono della roba gajarda di altri. Altri che spesso erano perfetti sconosciuti, incuranti delle classifiche pop e impegnati con il soul, il jazz e l’avanguardia più inascoltabile, dimostrando una capacità di mutare fra un genere e lì’altro sorprendente, soprattutto perché il tutto sembra frutto di assenza di calcoli e di una scelta “a pelle” praticamente random e affidata al solo e unico istinto.

Quest’anno cade il sessantennale di questa gloriosa e scoppiata etichetta, e ci rendiamo conto di quanto sia importante la sua esperienza per tutte quelle label visionarie che in qualche modo, anche oggi, vogliono azzerare la realtà nelle loro produzioni e fare spazio alla fantasia volando nello stesso tempo dentro e fuori dalla storia.

Nonostante la Apple Corps sia stata ideata nel 1967, la Apple records di base nasce nel 1968 con la pubblicazione del suo primo disco ufficiale, il famigerato White Album dei Beatles che già al suo interno porta il seme della frantumazione dei generi e lo sprezzo delle regole come forma d’arte che è alla base della concezione del pop beatlesiano. Ritroveremo questa attitudine nelle produzioni Apple. Per non parlare di quell’inquietudine esistenziale salita alla superficie dopo la morte del manager storico Brian Epstein, per cui la Apple sarà da quel momento il cuore di una rivoluzione per la creazione fine a se stessa, fuori dalle logiche comuni del gusto e della forma, a costo di fallire. Un investimento coraggioso, a perdere, a volte mettendo sotto contratto gente nuova per puro caso, a volte rimettendo in gioco vecchie glorie (come Ronnie Spector, ex Ronettes, che inciderà un singolo micidiale scritto da Harrison).

Sì, certo, la Apple avrà nella sua scuderia artisti di successo come James Taylor, i Badfingers, Billy Preston, Mary Hopkin e Jackie Lomax: ma a noi interessano più che altro quei musicisti nella cui poetica il rischio è alto e la proposta spiazzante. Ecco quindi una classifica dei miei personali dieci album Apple del cuore, bizzarri esempi di come la musica può diventare talmente fisica da scappare via con le proprie sue gambe e darci la forza per osare, per fare casino, per lanciare il cuore (o la mela, mitico logo dell’etichetta) oltre l’ostacolo.

1. John Lennon, Yoko Ono - Unfinished Music No.1: Two Virgins (1968)

Per essere precisi la Apple records prevedeva anche una sottoetichetta chiamata Zapple, nata per occuparsi di spoken word e musica sperimentale, ma ebbe vita breve. Solo nove mesi di gloria, dopodiché il malvagio Allen Klein (subentrato alla guida della Apple e dei Beatles dopo il bancarottaro Paul McCartney e, per giunta, ex-manager degli Stones) la chiuse a causa delle vendite ovviamente non eccelse. Quando negli anni Novanta misi le mani sulla ristampa in CD non credevo ai miei occhi e alle mie orecchie, figuriamoci chi si ritrovò ad ascoltare questa roba nel 1968. La storica coppia Ono/Lennon posa nuda in copertina, fatto che attirerà subito la censura e lo scandalo generale, ma il contenuto è ancora peggio (o meglio, secondo i punti di vista). Una impro devastante registrata dai due in un contesto domestico, casa di Lennon, proprio in quella notte in cui faranno per la prima volta l’amore (da qui il simbolico titolo) dando la parola “fine” alla storia con Cynthia Lennon e l’inizio di quella che sarà l’unione più mitizzata dell’intera storia del rock. Ebbene il disco è un vero e proprio casino proto weird noise, a base di vocalizzi informi, tape loops, fischietti, distorsioni a palla, atonalità a pacchi e spirito harsh, in cui la tensione erotica tra i due si percepisce palpabilmente, in un’urgenza espressiva che è palesemente un prodromo al consumo dell’amplesso. Insomma una roba lontana centomila anni dalla forma canzone dei Beatles e l’anticamera per un cambiamento epocale quali la suite "Revolution #9" nel White Album, ovvero la musica concreta e aleatoria trasformata in pop music. Strano ma vero, nonostante lo shock, negli Stati Uniti il disco arriverà al 124° posto in classifica USA: seguiranno altri due LP sempre più estremi come Life with the lions a base di urla, feedback di chitarra e battiti del cuore di feti, e il Wedding Album che addirittura presentava una facciata in cui i due chiamano i loro nomi a vicenda fino allo spasimo, diciamo una versione in “musica leggera” degli esperimenti di Ulay e Marina Abramovich.

2. George Harrison – Electronic Sound (1969)

Un disco in un certo senso, anzi sicuramente, antesignano dell’harsh noise più feroce e delle spappolate elettroniche di casa Mego e derivati, il secondo album di Harrison (il primo è la colonna sonora del film Wonderwall, molto più rassicurante) è una mappazza di sbuffi elettronici, di devastanti sequenze random e di casino vorticoso, una smanopolata senza freni su un sintetizzatore Moog nuovo di pacca. Il lato A è tutta farina del sacco di Harrison, o per meglio dire è farina del caso che in quel momento si posava su Harrison: il lato B invece sembra sia stata una registrazione pirata dello stesso Harrison ai danni del compositore Bernie Krause che stava dimostrando le potenzialità dell’apparecchio al Beatle, in quella che a tutti gli effetti è una geniale truffa concettuale in cui l’aleatorietà supera ogni aspettativa (e il buon Bernie si ritroverà giustamente solo accreditato come assistente). La paternità della noise music è in qualche modo confermata da una frase in copertina: “Ci sono molte persone che si muovono facendo molto rumore, eccone dell’altro”. Il disco nonostante l’ostilità dei suoni arriverà al numero 191 di Billboard, ma non basterà a salvare l’etichetta Zapple che sarà chiusa poco dopo la pubblicazione dell’album. Per il sottoscritto rimane un must imprescindibile d’insuperabile caos.

3. Modern Jazz Quartet – Space (1969)

L’ensemble nato dall’orchestra di Dizzy Gillespie e già noto ai più all’epoca, registrerà due album per la Apple: il primo è Under a Jasmine Tree, interessante scorribanda jazz all’interno del buco di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il sottoscritto preferisce, però, il successivo Space, in cui la band riesce a rendere perfettamente l’idea di fluttuare nello spazio attraverso l’uso incrociato di effetti elettronici, campanelli, vibrafoni volanti e piani sognanti che riescono a essere pop nonostante l’uso di dissonanze di seconda e roba del genere, unendo con brio la tradizione jazz con la sperimentazione. Sicuramente influenti a livello sonoro sui Beatles del White Album, ma anche su Sgt. Pepper: basti sentire alcune progressioni stile "A Day in the Life" (il primo album dei Modern Jazz Quartet è del 1967), soprattutto per la capacità di rendere accessibile qualcosa di potenzialmente ostico senza perdere personalità. Nonostante le accuse di “sbiancare” la loro musica, si trattava esclusivamente di un tentativo di anticipare quello che poi farà Miles Davis nel periodo primi Ottanta, abbattendo le frontiere razziali. Space rimane uno dei miei dischi preferiti soprattutto se si vuole “sviaggiare” senza il timore di rimetterci il cervello; d’altronde i nostri sono dei pionieri della third stream music, nella quale la classica si unisce al jazz, come le zollette di zucchero (imbevute o meno di LSD) nel caffè. Pare che già Yoko Ono li bazzicasse prima del contratto alla mela, e non ci stupiamo affatto di questo.

4. John Tavener – The Whale (1970)

Prima di essere sdoganato da La Grande Bellezza, Tavener nei tempi moderni è stato poco frequentato dai più. Eppure nel 1968 il grande compositore britannico sfoderò questa poderosa opera classica/sperimentale ispirata al passo biblico di Giona e la balena, ovviamente trasferito nel mondo moderno a livello di metafora esistenziale. Il nostro eroe arriverà a registrare per la Apple perché il fratello, costruttore, lavorava a casa di Ringo Starr. Il batterista diventerà il fan numero uno del compositore, per una volta surclassando i colleghi a livello di interazioni con la musica contemporanea (parteciperà di persona alla registrazione dell’opera prestando la sua voce). Tanto che nel singolo "Yellow Submarine" è evidente l’influenza del Maestro: stesse voci ovattate come attraverso megafoni di navi alla deriva, uno spazio siderale fatto di effetti, rumori, riverberi e quel misto fra Messiaen, Penderecki, Stravinsky e compagnia cantante che ne fanno un autore assolutamente originale ed eclettico. Nel disco ci sono tutte quelle sensazioni anni Settanta di mistero, di liquido amniotico spaziale e fiabesco che anche oggi rimane intatto e ispira meraviglie. Un disco di culto senza alcun dubbio, da avere.

5. Yoko Ono – Fly (1971)

Ristampato di recente, il secondo album di Yoko Ono dopo l’esordio di Yoko Ono and Plastic Ono Band rappresenta un passo avanti rispetto al seminale disco di cui sopra, che di fatto inventa il kraut rock e la no wave. Fly infatti è composto di quattro facciate una peggio dell’altra in cui si passa dal rock'n'roll sfatto di "Midsummer New York" al disastro no-blues di "Mind Train", tutti gridi belluni al limite del noise e svisate di chitarra pre-Arab on Radar, fino a registrazioni di scarichi di cessi, al noise automatico di “Airmale” e l’imitazione di una mosca della title track, degna colonna sonora di un delirante corto della stessa Ono. Insomma una pietra miliare di roba al limite dell’ascoltabile o meglio del vivibile, per cui la precedente prova sembra bubblegum music. Con il solito apporto di Lennon alla chitarra, Ringo Starr alla batteria e Klaus Voormann al basso (ovvero l’autore della copertina di Revolver), la nostra “strega” nipponica getta i semi della musica alternativa del millennio a venire. Un must, soprattutto quando si ascolta “You”, una musica meccanica in cui il sequencer è fatto di legno e sangue, in un vaso orientale fatto di mosse di go e giardini di pietra.

6. Rahda Krsna Temple – S/T (1971)

Probabilmente il primo allucinante esempio di Krishna-music che entra nel pop (Boy George ci riproverà anni dopo con i Jesus Loves You ma con risultati minori), geniale intuizione di George Harrison che produce il disco della branca inglese del movimento Hare Krishna e ne ottiene due incredibili hit single che a tutti gli effetti faranno pubblicità al movimento religioso in occidente. Prodotto da un jazzista devoto a Krishna e poi capoccia dell’ISKCON (International Society for Krishna Consciuosness), ma principalmente pianista di Pharoah Sanders, il disco nacque da un formale incontro fra uno dei leader del movimento e Harrison, che già in qualche modo aveva sdoganato le idee Hindu con i suoi ibridi fra musica indiana e occidentale in molti brani dei Beatles. L’incontro andò benissimo, quindi non solo Harrison diede il nullaosta per l’incisione dei mantra, ma lui stesso si trovò spesso nel quartier generale dei nostri a suonare l’harmonium e addirittura a inserire, ovviamente a cazzo, parti di sintetizzatore suonate da Billy Preston. Risultato, un successo commerciale inaspettato che, in effetti, rappresenta un dirompente buco nero nel music business d’epoca, raggiungendo con “Hare Krishna Mantra” il dodicesimo posto nella classifica inglese e, di fatto, diventando un’ispirazione chiara per "Give Peace a Chance" di John Lennon, visto lo spirito iterativo del pezzo. Di base è un disco in cui i mantra diventano per la prima volta rock, anzi in alcuni casi post punk per il suono che prevede dei bassi quasi da chitarra baritono chorusata, in un certo senso riscontrabile anche nel Paolo Tofani degli Ottanta, nei Siouxie and the Banshees di "Rawhead and Bloodybones", e per finire nei Ganesh (progetto di due loschi personaggi dei Metro Crowd).

7. Ravi Shankar - Raga (Original Soundtrack) (1971)

Nel 1967 Ravi Shankar, da grande musicista di musica classica indiana, si tramutò inaspettatamente in una specie di rock star, grazie all’utilizzo del sitar in praticamente gran parte degli act psichedelici dell’epoca e soprattutto dai gruppi mainstream come i Rolling Stones e gli stessi Beatles. In particolare Harrison, in qualche modo, trovò il perfetto ibrido fra la musica pop inglese e quella indiana, ribaltando in qualche modo le forze fra colonialisti e colonie e andando a lezione di sitar proprio da Shankar. Nel 1971 quindi, uscì un documentario prodotto dalla Apple Films, Raga, a proposito di questo folle periodo di Shankar, proiettato in una situazione decontestualizzata, un po’ come Omar Souleyman oggi che si ritrova a suonare la sua musica per matrimoni nelle feste hipster. La colonna sonora, prodotta da Harrison, esprime in pieno questa collisione fra musica indiana e occidente drogato, grazie a una serie di musiche incidentali, quindi improvvisate, del nostro e di un brano allucinante come “Frenzy and Distortion”, in cui viene descritto magistralmente questo capogiro culturale, un brano in cui alle svisate di Shankar si affiancano effetti elettronici spiazzanti, voragini psichedeliche e assurdità soniche stile tapestry; insomma, la versione indiana di "Revolution #9".

8. Alejandro Jodorowsky - El Topo (Original Soundtrack) (1971)

Il cult movie del geniale “tuttofare” Jodorowsky, western colmo di simbolismi panteisti, surrealismo e cultura freak, uscì nel 1970 e con la sua potenza immaginifica colpì subito John Lennon che lo definì il suo film preferito e ne volle pubblicare su Apple la colonna sonora, opera dello stesso Jodorowsky e di Nacho Mendez. Per l’occasione chiamerà a curarla John Barham, meglio conosciuto come l’arrangiatore di George Harrison. Idea giusta, poiché la colonna sonora così assemblata è una cornucopia di suoni latini, musiche blaxpolitation ispirate a Morricone, fiati a pioggia psichedelici, il caos organizzato per cercare se stessi. Un capolavoro.

9. Elephant's Memory - S/T (1972)

Gli Elephant's Memory si formano a fine Sessanta e sono di base una band politicamente attiva, diciamo “street”, dedita a un rock'n'roll sanguigno, duro e privo di fronzoli. A volte, però, quando vanno oltre, si annusano odori proto grunge o proto metal, se proprio vogliamo forzare la mano. A ogni modo salgono agli onori di cronaca per la famosa colonna sonora di Un uomo da marciapiede, alla quale contribuiscono con due brani, e ottenendo una hit minore con il brano "Mongoose". Poi ecco l’incontro con John e Yoko che li sostituirono alla Plastic Ono Band come backing band (tra l’altro la Plastic neanche esisteva veramente, essendo un gruppo virtuale a seconda dei membri reclutati per l’occasione). Da quel momento saranno inseparabili e questa relazione musicale darà alle stampe l’album Elephant's Memory del 1972 (da non confondersi con l’album omonimo del 1969), in cui al roccioso rock'n’roll caratteristico della band si contrappongono momenti psichedelici coadiuvati dagli stessi Lennon e Ono alla chitarra e alla voce (tra l’altro produttori del disco). Buffa la traccia “Local Plastic Ono Band”, tipico divertissement in stile finto messicano che ricorda gli episodi malato/ludici della coppia. Un disco potente quindi, che si fa voler bene proprio per la sua grezzezza: non passerà alla storia, ma di sicuro la storia è passata dentro di lui.

10. David Peel – The Pope Smokes Dope (1972)

Fra i tanti artisti, Lennon ci vide lungo nel mettere David Peel sotto contratto per la Apple: stiamo parlando di uno dei padri del punk rock. Se ne andava in giro per strada a cantare le sue canzoni contro la polizia e a favore dello sballo, canzoni apparentemente folk ma solo per il fatto di essere suonate con la chitarra acustica. In effetti si tratta di pezzi zozzi, crudi, con la stessa urgenza vocale e sonora del punk, solo che il disco qua sopra esce nel 1972. Il titolo esplicito e i testi senza compromessi gli assicureranno la censura in un sacco di paesi facendolo diventare un caso. Ad ogni modo poi, con l’arrivo del punk, rivendicherà la paternità del genere autoproclamandosi King of Punk. E a ragione, poiché uno dei suoi grandi fan era il prode GG Allin, col quale collaborerà negli Ottanta sempre all’insegna di un’espressione estrema, priva di filtri e fuori dai canoni prestabiliti. Sicuramente uno dei dischi più “avanti” del catalogo Apple.

Fuori classifica: The Beatles - Yellow Submarine (1969)

L’unico disco dei Beatles che citiamo: non perché vogliamo dimenticarci i grandi numeri dei Fab Four su Apple, ma perché in questo caso il disco è praticamente uno split fra i Beatles e il loro mitico produttore George Martin, che nel lato B spadroneggia con i suoi strumentali scritti appositamente per la colonna sonora del celebre film animato omonimo (prodotto ovviamente dalla Apple Films). E che strumentali! Sir Martin si scatena unendo la sua tensione al barocco, alla musica da camera, alle orchestrazioni ariose e sognanti, e soprattutto le contamina con la psichedelia facendo per una volta il contrario del suo mestiere: cioè portare i Beatles in territori classici. Per una volta è lui a contaminarsi. Molti considerano questo episodio come uno dei più bassi dell’intera discografia dei quattro, quasi un riempitivo, ma, beh, si sbagliano: trattasi infatti di un disco solista di George Martin in cui i Beatles fanno capolino astutamente solo per confondere le acque… e farlo acquistare.

Fuori classifica: Paul McCartney – McCartney (1970)

Impossibile non citare il primo disco di McCartney: apparentemente nato dalla pacata voglia di ritrovare se stesso nelle campagne britanniche, lontano dai riflettori, in realtà McCartney è una specie di furioso rifiuto verso tutto quello che riguardava la fama, i Beatles, l’hi-fi, gli arrangiamenti laccati, la forma canzone. Pezzi che possono essere considerati fra i primi esempi di lo-fi, a volte totalmente incompiuti, in cui Paul suona tutto da solo, stufo di una qualsivoglia band. Un disco fondamentalmente depresso e per questo sperimentale e importantissimo per il movimento DIY che verrà. Il dito medio musicale di Paul andrà a segno, giacché i critici per la maggior parte considereranno l’album un abominio, tra i quali gli stessi Beatles con i quali incomincerà una lunga serie di cause legali che avveleneranno ancora di più l’atmosfera. Il pubblico invece accoglierà come aria fresca questo tentativo di fare tabula rasa degli orpelli del passato. Poi, ci saranno i Wings.

La nostra carrellata è finita, ma la Apple no. Continua a sfornare pubblicazioni concentrandosi principalmente sui quattro baronetti: sarebbe bello però vederla su Bandcamp, per poter magari assaggiare tutte quelle mele musicali prelibate dimenticate dai più, magari accanto alla Orange Milk Records o alla Skin Graft, d’altronde tutti devono qualcosa a questa mela avvelenata.

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Recensione: Chris Carter - Chemistry Lessons Vol. 1

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Vi dirò, c'è proprio bisogno di gente che pensi alla musica e non alle cazzate. Come Chris Carter, che in questo surclassa tutti i musicisti elettronici radical chic, quelli che ti elencano tutti i synth usati nel disco per far vedere che wow e poi magari hanno fatto l’imitazione dell'imitazione dell'imitazione.

Chris non ha bisogno di presentare alcunché, né tantomeno ha bisogno di presentazioni: militante nei Throbbing Gristle, guastatore nel duo Chris and Cosey (con la bandmate dei TG Cosey Fanni Tutti), uomo dalle mille risorse che si presenta col suo primo disco solista da 17 anni a questa parte. Un mattone di 25 pezzi che però scivolano leggeri come l’acqua, nonostante siano appunto pesanti come un meteorite che si frantuma in mille frammenti una volta raggiunta l’atmosfera.

In questo disco c'è di tutto, praticamente un Bignami delle possibilità elettroniche di ieri e di oggi. Si va da landscape sintetici che tu pensi subito a prendere a calci in culo Hans Zimmer per la sua pacchianata nel nuovo Blade Runner, alla techno sinfonica, all’elettronica occulta, alle svisate HD ("Dust and Spider" ad esempio). Però non si tratta di un discorso senz’anima, nient’affatto. Qui si sente quasi il tocco del demiurgo, dell’oracolo, delle profondità del cuore umano pulsante – o, meglio, dell’androide finalmente svincolato da un destino artificiale e finalmente libero di “sentire”.

Le voci, vocine e vocette sintetiche che cantano in questo disco lo dimostrano: alcune vintage, probabilmente ottenute con vecchi software fine anni Novanta e da vocoder non meglio identificati, alcune nuove di pacca e ispirate (se non proprio ottenute) col Vocaloid, ma tutte incredibilmente melodiose, quasi in maniera celestiale. Il motivo di tanta squisitezza è dovuto al fatto che il nostro Chris si è ispirato (pensate un po’) a del vetusto folk inglese, trasportato giustamente nei circuiti di oggi dove la musica popolare è, appunto… sintetica.

A mettere la ciliegina sulla torta è anche l’ispirazione presa dalla musica radiofonica degli anni Sessanta, incontrando anche sprizzi di Joe Meek, ovviamente in versione cyborg. I suoni sono perfetti, in linea con quello che il nostro (provetto ingegnere del suono) ci ha sempre abituato ad ascoltare, se non addirittura meglio. Un disco che rimarrà? Può essere. Sicuramente servirà a ricordare alla gente che a volte la vecchiaia è l’unica soluzione per comprendere il nostro tempo e saper distinguere i sassi dalle pepite d’oro. Musicali, s’intende.

Chemistry Lessons Vol. 1 esce oggi, venerdì 30 marzo, per Mute.

Ascolta Chemistry Lessons Vol. 1 su Spotify:

TRACKLIST:
1. Blissters
2. Tangerines
3. Nineteen 7
4. Cernubicua
5. Pillars of Wah
6. Modularity
7. Field Depth
8. Moon Two
9. Durlin
10. Corvus
11. Tones Map
12. Dust & Spiders
13. Gradients
14. Lab Test
15. Shildreke
16. Uysring
17. Ghosting
18. Noise Floor
19. Post Industrial
20. Rehndim
21. Roane
22. Time Curious Glows
23. Ars Vetus
24. Hobbs End
25. Inkstain

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C'era una volta a Napoli la techno

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Davide Squillace mi risponde su Skype assieme a Ivan Maria Vele, membro fondatore di United Tribes—collettivo multidisciplinare che funzionò, tra la fine degli anni Ottanta e il 1994, come cuore pulsante della scena techno napoletana. Era "un movimento dance che aveva intellettualizzato l'elemento punk irriverente", United Tribes, la cui origine era da identificarsi in una passione per il post-punk ibridata, con il passare degli anni, con la progressive house e la techno. Organizzavano serate e rave con i grandi della techno internazionale, i ragazzi di United Tribes, portatori di un'idea di tribalismo urbano e edonismo psichedelico che segnò una breve e intensa era dell'elettronica italiana.

Si trova a Barcellona nel quartier generale di This and That, Davide, il laboratorio multidisciplinare che ha fondato con Massimiliano Abbatangelo nella città dove ha deciso di trasferirsi una volta salutata la sua città natale. La lasciò la prima volta nel 1995, attirato dal suono di Londra, e ci tornò nel 1999 per studiare sound engineering. Fu in quel momento che cominciò a disegnare il disordinato percorso che lo ha portato a stabilirsi a Barcellona nel 2004, raggiungendo pian piano i vertici del clubbing internazionale. La sua discografia è infatti così fitta e sparpagliata tra etichette, alias e nazioni che Borges avrebbe benissimo potuto usarla per scriverci un racconto con un immaginario archivista incartapecorito in cerca di un determinato singolo come protagonista. I punti fermi all'interno della sua esperienza artistica sono pochi, e anch'essi affastellati in un mucchio di riferimenti geo-temporali difficili da mettere in ordine: il più saldo è sicuramente la sua residency alla storica serata Circoloco del DC-10 di Ibiza. Ma siamo qua per parlare di un nuovo, importante caposaldo per la sua carriera. Il suo primo album ufficiale, che ha pensato di dare alla luce vent'anni dopo la sua prima pubblicazione.

Si intitola Once Upon a Time in Napoli, quell'album, nonostante dei rave semi-legali e delle serate sudate che lo avevano affascinato all'inizio della sua carriera non sembri restare molto al suo interno. Il trucco sta nel concentrarsi sull'approccio creativo, più che sulla singola scelta sonora. Mi sembra che il gesto di Davide non sia da leggersi come nostalgia per un passato lontano: è più il mistico ricordo di un'energia primordiale e multiforme capace di esprimersi sia nell'impetuosità dei quattro quarti che di perdersi nel tiepido magma psichedelico e aritmico della sperimentazione. Il suo è un disordine ragionato, frutto di una loquacità torrenziale che sembra trascinarlo costantemente in direzioni diverse—sia all'interno della sua arte che di un qualsiasi discorso, come potete leggere dall'intervista qua sotto. Trovate Once Upon a Time in Napoli in streaming a metà intervista.

Fotografia di Arne Grugel.

Noisey: Come ti sei rapportato, crescendo, alla scena techno napoletana?
Davide Squillace: Napoli è dove sono cresciuto socialmente e musicalmente. Con un gruppo di amici abbiamo creato prima di tutto una crew di appassionati di techno. Abbiamo acquistato strumenti, suonato, ballato e sognato. Un fenomeno di crescita organica che ci ha portato alla creazione della scuola napoletana, esportata poi in tutto il globo. Soprattutto passione, prima ancora che music business. Ovviamente ognuno di noi, con il passare del tempo, ha poi creato uno stile proprio ed inconfondibile.

Ho letto un’intervista in cui un tuo collega paragonava la scena di Napoli a quella di Detroit… tu come la racconteresti a chi non la conosce? Quali sono le cose che la definiscono?
Napoli è una città molto contraddittoria. Tradizione e rivoluzione convivono da sempre. La bella vita ed I disagi pure. Le tendenze di chi è esterofilo si sommano all'atteggiamento di chi è e resterà napoletanocentrico. Napoli oggi però non è sole, mare e musica blues ma anche notti insonni e cultura techno. Evidentemente abbiamo lavorato bene.

Ma secondo te perché Napoli, nonostante la sua storia, non sia conosciuta dal pubblico generalista come un centro nevralgico della storia del clubbing internazionale?
La techno napoletana non è nel mainstream perché genuinamente non ce ne è mai fottuto di dirlo troppo alle persone che non volevano stare ad ascoltare. Noi l'abbiamo fatta ed è esplosa nel mondo. Stai fuori se vuoi fare il DJ per diventare famoso: i risultati saranno quelli che saranno, ed è così che è stato per la techno napoletana.

Mi racconti il tuo innamoramento nei confronti della musica elettronica? Cosa ti ha portato a dedicargli la tua vita e a renderla una costante nella tua esperienza artistica?
Non penso sia stata una scelta cosciente, ma più una naturale evoluzione di quello che mi circondava. A Napoli in quel periodo c’era un esplosione della club scene, house, techno, drum n bass ed altre forme più sperimentali. Ogni settimana venivano a suonare i piu importanti DJ e produttori di varie scene. Avevo 14 anni ed andavo a ballare, pian piano abbiamo creato un gruppo di promoter verso i 15 anni ho iniziato con amici ad organizzare eventi. La scena a cui ci avvicinammo di piu fu quella di Detroit e quella progressive-techno inglese. Ero a contatto giornarialmente con DJ, produttori, designer e promoter, diciamo tutte le sottoculture della club scene. Pian piano ho provato a divertirmi con i technics …e da quel momento non ho mai più smesso. Le produzioni musicali sono arrivate in un secondo momento, e devo dire che assieme al Djeeing sono due forme di performance in totale simbiosi che avvengono in circostanze diverse, non potrei fare l’una senza l’altra.

Che cosa ti portò a trasferirti a Barcellona e abbandonare Napoli?
Avevo solo bisogno di un ambiente più cosmopolita che non fosse troppo lontano visivamente e come abitudini alla mia Napoli e dopo aver vissuto quattro anni a Londra, dopo sono venuto a contatto con diverse texture musicali e incredibili tipi di performance sperimentali. Mi sono reso conto che socialmente gli anglosassoni erano troppo diversi da me, avevo bisogno di un surrounding cosmopolita ma più latino, e Barcellona è stata la scelta perfetta.

Fotografia di Arne Grugel.

Come cominciasti a collaborare con Circoloco? Qual è, secondo te, la chiave che lo ha reso così leggendario?
Circoloco è famoso per aver fatto sempre talent scout, per aver fatto maturare molti artisti di un certo spessore. Sono sempre stati una delle vetrine piu importanti del mondo; hanno dato la possibilità di performare davanti a molte persone chiave del music business e sembra abbiano una sorta di bacchetta magica.Il fattore piu importante del DC10 è sempre stato una motivazione di base che ha portato loro ad essere chi sono, la passione,la parte di business è venuta dopo,oltre a questo il DC10 è sempre stato un club dove una volta entrato non importa più chi sei nella società. C’è sempre stata una libertà ed un fattore di valorizzazione umana, gente della cosi detta alta società o grandi artisti interagivano con il resto del pubblico, non esisteva un who is who. Quando sei dentro sei uguale a tutti gli altri.

Per una persona esterna al mondo del clubbing, della techno e dell’elettronica il mare di label che anima la scena sembra difficilissimo da navigare: tu come ti ci sei rapportato, prima come ascoltatore e poi come musicista?
Sì, purtroppo questo è uno dei lati oscuri della digitalizazzione della musica e dell’abbattimento quasi totale dei costi della produzione: una mancanza di controllo, una mancanza di filtri di qualità, che può essere soggettiva, ma fino ad un certo punto. Qualsiasi persona ormai può creare una label digitale e far uscire qualsiasi tipo di prodotto. Personalmente nel corso degli anni e della rivoluzione digitale con l’introduzione degli mp3 mi sono creato delle liste di label ed artisti favoriti che seguo sempre. Mi sono in pratica creato dei filtri in entrata, che però a volte mi fanno perdere delle perle. Il lavoro della label di oggi è molto più organico di quanto si possa immaginare.

Quali sono i set, da spettatore, che hanno cambiato la tua vita, e perché? E da DJ, invece?
Sicuramente quelli di Richie Hawtin. Le prime volte che venne a Napoli fu un esplosione di nuove sonorità mixate in una sequenza logica impressionante, e con una tecnica impeccabile, con i bei vecchi vinyls. Quei set sono sicuramente stati il Sacro Graal della scena napoletana: tecnica e logica musicale nel mixing, le due cose dovevano essere entrambe ad altissimi livelli. Il che può sembrare una cosa evidente dell'arte del djing, ma ti posso assicurare che pochi riescono ad avere entrambe ad un certo livello. Questa, secondo me, fu una delle chiavi vincenti dell’evoluzione e l’affermazione della nostra scena: il rapportarsi sempre a questa idea di perfetta simbiosi.

Mi racconti il tuo rapporto con Burlon e la vostra collaborazione? In un’era in cui la moda sembra più vicina che mai alla cultura hip-hop, qual è per te il rapporto tra techno e moda?
Ho conosciuto Marcelo tramite un mio caro amico, io ero fan suo e lui mio, così un giorno lo chiamai e gli dissi: "Perché non facciamo un progetto insieme, io ti invito in studio da me e facciamo musica e tu mi inviti da te e creiamo un oggetto di moda”? È stato un processo totalmente genuino, incentrato sulla verve creativa e non realizzato per motivi economici. L'idea era quella di creare un prodotto come oggetto d’arte. La scena che mi segue è molto vicino alla moda, a Ibiza ed in giro nel mondo ci sono sempre main designer di case di moda importanti. Sia la techno che la moda sono forme d’arte contemporanee che hanno fonti di ispirazioni dalla società. Prima o poi si dovevano intrecciare. Anche il fatto che la mia scena sia stata un po più riconosciuta dai media ha fatto sì che questo avvenisse. Per i media, techno is the new hip-hop. Sento più ragazzini che vogliono fare i DJ che i rapper.

Credo che sia molto sottovalutata l'influenza che l'elettronica ha sui ragazzini, soprattutto a livello mediatico.
Secondo me è un tema da trattare per nazioni. In Italia l'hip-hop è molto forte e vedo che i ragazzini impazziscono per loro. Ma in Germania penso che la scena sia molto meno forte, e lo stesso vale per la Spagna. In Inghilterra c'è un po' di tutto. Tu mò senti un ragazzino che dice "Mamma voglio fare l'avvocato da grande"? Zero. Vogliono fare tutti i DJ.


Ascolta un assaggio di Once Upon a Time in Napoli, l'intervista continua:



C'era uno stigma attorno alla figura del DJ quando hai iniziato a farlo seriamente?
Verso i 24, 25 anni qualcuno della famiglia, durante il classico pranzo italiano della domenica, mi disse "Allora, Davide, poi che farai da grande?" E io da un lato rimasi amareggiato per una mancanza di comprensione, mentre dall'altro pensavo avrebbero capito. Nel corso degli anni, a forza di vedere il movimento mondiale che mi seguiva le cose sono cambiate. Tutto cambiò verso i quindici, sedici anni quando organizzammo un gruppo di promoter. Quindi ci frequentavamo tra amici e uno faceva il DJ, uno il produttore, uno il graphic designer... io non ho ancora trovato una cosa più divertente da fare.
Io sono sempre stato un autodidatta. Ho sempre comprato manuali e ho studiato da me. Quando ho deciso di cominciare a produrre ho voluto fare quel passo in più e capire che cosa ci fosse dietro alla macchina. Quindi ho fatto un corso da ingegnere del suono. All'epoca non c'erano ancora corsi da producer o da DJ, era ancora fantascienza. Ho imparato molto a livello teorico, ma in realtà la cosa non ha tanto influito sulla produzione in sé. Non ho nessun titolo, dato che all'epoca la materia era totalmente nuova. Oggi ti insegnano tutto, dalle basi alle singole parti della produzione. Io mi ricordo quando, a 21 anni, ho comprato il mio primo modulare mi sono dovuto mettere a imparare la sintesi da solo. Fu una cosa assurda.

In che modo hai visto Ibiza evolversi lungo il corso della tua carriera? Dove consiglieresti di cercare la sua anima, oggi che rischia di essere considerata più meta per turisti inglesi ubriachi in cerca di bordello più che mecca del clubbing internazionale?
I turisti ubriachi ci sono sempre stati. Il problema è il costante scendere della quantità e della qualità, la mancanza di rispetto verso un'isola cosi bella e così piena di storia. Non penso che l’estrema massificazione di un qualcosa abbia mai giovato. Inoltre, da un po' di anni sull'isola si è intensificata la presenza di nuovi super ricchi arrivati dal sud della Francia. I prezzi sono andati alle stelle. Se inizi a girare con le Bentley a Ibiza mi fai ridere. E quindi si fanno gli hotel a cinque stelle super lusso, e l'economia dell'isola soffre un terremoto. I prezzi salgono. Gli eventi più intimi sono sempre stati nelle ville private, dove suoniamo per poche centinaia di amici. E da questo punto di vista c’è ancora da divertirsi. Poi c'è da dire che l'Amnesia non è un posto esclusivo. Ha dei tavoli perché deve campare, la massa è tutta giù. La gente pensa al Pacha come un posto commerciale, ma 35, 40 anni fa era il club underground per antonomasia. Poi negli ultimi anni c'è stata un'evoluzione in senso mainstream, certo.

Che idea ti sei fatto del fenomeno EDM? Che effetto ha avuto sull’idea di elettronica a livello mondiale? La mia impressione è che, dopo una fase di esplosione a livello pop, l’EDM si sia come cristallizzata facendo un passo indietro. È comunque una sottocultura enorme che muove numeri impressionanti di persone, vedi il Tomorrowland, ma incapace di affermarsi come vera forza pop dopo i successi di Swedish House Mafia, Avicii, Martin Garrix (e anche Guetta volendo inserirlo nel calderone).
Sicuramente la risonanza mediatica che ha avuto l'EDM ha giovato in qualche modo anche alla nostra scena, sicuramente è un tipo di musica molto accessibile. Si tratta dell'entry point di molti ragazzini che si avvicinano alla club culture, che dopo aver mangiato da McDonald's vogliono provare qualche gusto più raffinato e si avvicinano a noi. Resta che io rispetto tutti i generi, ognuno fa quello che vuole ed ascolta quello che vuole, live and let live.

Fotografia di Arne Grugel.

All’interno della scena di cui fai parte, cosa credi significhi fare-un-album? Te lo chiedo perché, per esempio, per una band o per un rapper l’album è storicamente stata una consuetudine, mentre non è raro per un DJ o un producer andare avanti a singoli e mix vari. E quindi è come se l’album, come concetto e oggetto, avesse un peso diverso.
In effetti concordo, io non ho mai pensato di fare un album. Ho fatto oltre cinquanta dischi nella mia vita e non ho mai pensato di raggruppare tutto in una sola uscita. Once Upon a Time in Napoli è un pò il racconto delle mie esperienze dentro la musica, in tutti gli aspetti. Quello che mi è successo mi ha cambiato ovviamente, come uomo e come artista. È il primo album di una trilogia che racconterà più a fondo la mia vita. Nel primo album racconto più la dimensione 4/4 club, poi continuerò con il mio aka Telemaco con influenze più indie e sperimentali, e l'ultimo progetto della trilogia uscirà con il mio altro alias, Eriko Tanabe.

Ci sono alcuni brani che suonano in maniera diversa rispetto agli altri, all’interno dell’album: “Dada Is Black” con le sue percussioni eteree, per esempio.
Per "Dada Is Back”, prendendo spunto dal dadaismo, ho provato a rifiutare logiche nell’arrangiamento e ho creduto nelle mie intuizioni. E ho utilizzato le capacità di Paki Palmieri, che ha vissuto in Africa per molto tempo per studiare percussioni sotto ogni forma.

Poi c'è “Iron Odyssey”, un brano che percepisco come particolarmente riflessivo e complesso.
"Iron Odyssey" mi ricorda le tante disavventure di Ulisse, il suo dover attraversare I confini dello scibile prima di poter tornare indietro nella amata Itaca. Ci sono tanti piccoli momenti che possono passare inosservati nella traccia effettuati con un lavoro di design del suono che mi appassiona molto. La maggior parte dei suoni sono stati realizzati con sintetizzatori modulari.

“The Sin”, invece, è un brano ai limiti dell'ambient. Quasi una pausa per prendere il respiro in mezzo alla frenesia dell'album.
È un brano che introduce il mio nuovo album/progetto Telemaco. Racconta l’impressione che io mi trovi su un altro pianeta in cui la forza di gravità non è la stessa del pianeta Terra e io provo ad adattarmi e a camminare. Puoi solo immaginare come sia andata…

Fotografia di Arne Grugel.

Ti interessi a forme di clubbing sperimentale, basate magari sull’aritmicità, la distorsione, l’ibridazione di forme e generi?
Sì, il secondo e terzo album della trilogia hanno come DNA l’ibridazione sonora e la sperimentazione.

E che cos'è per te la sperimentazione?
Io mi sono avvicinato alla musica sperimentale all'epoca con roba tipo Mille Plateaux e Warp dei primi anni. E devo ringraziare un ragazzo che stava in studio con noi ai tempi, che faceva solo quella roba. Gli devo molto. Per me sperimentazione è provare a fare qualcosa sulle macchine, perché è quello che genera il suono, tenendo un approccio che non classicamente useresti, di modo che l'outcome in ritmi e texture sia qualcosa di nuovo. Non puoi pensare a quale sia il risultato mentre lavori. C'è un forte fattore di sorpresa, di randomizzazione e di errore. Non penso che chi sperimenti, ma nemmeno gli Autechre, pensi, "Ah, facciamo quello". Ovviamente devi pensare a come arrangiare il materiale sonoro per dargli un senso e una storia, ma alla base c'è qualcosa di inaspettato.

Tu come riesci a esprimere al meglio, dal vivo, questo tuo lato?
Con il progetto Eriko Tanabe, che nasce da un rimbalzo della sola techno che c'era a Napoli all'epoca. Io non sono mai stato uno di quelli che riusciva a fare techno troppo dura. Nessuno mi faceva suonare perché ero troppo morbido. La mia reazione fu creare Eriko, che era un po' sulla scia di Atom Heart, una house molto distrutta, e la roba alla Perlon, più sofisticata e sexy. Ai tempi mi piaceva molto quest'etichetta svizzera che ora non esiste più, Morris Audio, il cui proprietario ne aveva anche un'altra su cui ero uscito, SuperBra. E volevo che questa mia nuova musica fosse giudicata e analizzata senza filtri. Quindi presi il nome di uno dei personaggi di Kitchen di Banana Yoshimoto, Eriko Tanabe: ibrido, uomo che era dovuto diventare donna, ed era sia padre che madre per la sua famiglia. E quindi mi sono presentato come una ragazzina giapponese che mandava il suo materiale in Svizzera. Quella era l'idea, e dopo tre giorni mi ha scritto per dirmi che voleva fare uscire il disco. E questa è una delle cose che mi ha reso più contento nella mia vita.

E poi c'è il tuo progetto Better Lost Than Stupid assieme a Matthias Tanzmann e Martin Buttrich.
Sì, ero con loro a Londra fino a pochi giorni fa. È nato tutto per scherzo circa cinque anni fa. Dovevamo suonare a un festival a New York e il promoter ci disse di provare a fare un back to back. Andò benissimo e ci divertimmo, quindi cominciammo a portare il nostro show in giro. A me però sembrava che non stessimo suonando cose così diverse rispetto a quelle che facevamo come artisti solisti. Suonare assieme era diventato più un asset per vendere uno show, quindi ci siamo fermati e abbiamo deciso di fare un passo ulteriore. Ci siamo messi in studio, abbiamo deciso di preparare un album e un live show. Ovviamente tieni conto che Martin viveva a Los Angeles, Matthias in Germania e io qui, quindi il progetto non può essere il nostro focus principale. Ci è voluto abbastanza tempo per ingranare, ma è una sfida che ci siamo dati. Devo dire che il disco si lancia verso il mondo mainstream, ma non nella sua declinazione cheap. Ci saranno 11 tracce e uscirà per Skint, che comunque è sotto Sony BMG, e ha un processo estremamente professionale. Ci siamo trovati con diversi songwriter per iniziare a capire come creare melodie per poi mandare le tracce agli artisti che ci compariranno sopra come main.

Elia è su Instagram: @lvslei

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Ascolta la playlist settimanale con Noyz Narcos, A$AP Rocky e The Weeknd

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Questo fine settimana pasquale sarà particolarmente lungo quindi sentiamo una particolare responsabilità nel fornirvi l'abituale playlist del venerdì. Sperando che il tempo regga e che tutti ci ritroviamo nel grande prato della nostra connessione tra lettori e rivista, a grigliare la grande grigliata virtuale della musica sotto il caldo sole della primavera della presa bene, abbiamo selezionato altri quaranta minuti di musica eclettica, nuova nuovissima, ma soprattutto bella.

La playlist è embeddata da Spotify qua sotto, ma ovviamente se la apri con la app poi puoi premere il pulsante "segui" e ricevere l'aggiornamento automaticamente ogni venerdì, così io potrò smettere di scrivere questi post che, diciamolo chiaramente, sono assolutamente superflui (talmente superflui che ecco un po' di frasi a caso messe apposta per migliorare l'indicizzazione su Google: "Le migliori canzoni della settimana"; "I migliori singoli della settimana"; "La classifica settimanale di Noisey"; "Che cosa ascoltare nel weekend"; "Kylie Minogue").

Fatto sta che questo weekend, siccome è lungo, vi abbiamo messo The Weeknd (lol), Noyz, A$AP Rocky feat. BlocBoy JB ma anche cose un po' più strambe di quelle che piacciono a noi come Monofonic Orchestra, Mamitri Yulith Empire, Chris Carter, Zeal & Ardor... e tante altre cose interessanti che potete scoprire schiacciando play fortissimo qua sotto.

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Recensione: Rich The Kid - The World Is Yours

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Piccolo disclaimer: se metti in un disco i Migos, Kendrick Lamar e Lil Wayne (non necessariamente in quest’ordine) è difficile che nel momento in cui mi trovi a scrivere di suddetto disco non gridi al capolavoro. Se poi a questi aggiungi un Future e un Rick Ross in forma smagliante, un Chris Brown che tra un calcio e uno schiaffo alla pati di turno sembra tirato a lucido (vedi anche il featuring con Lil Dicky), non è assurdo che The World Is Yours, il primo album ufficiale del rapper classe 1992 Rich The Kid sia davvero una bella e piacevole scoperta nel piovoso venerdì santo.

Così, dopo aver posato con il suo bel platinone per “New Freezer” (una delle migliori performance dell’ultimo Kendrick, a parer personale, in cui K-dot dimostra di spaccare il culo anche sul suono più grezzo possibile) accanto alla mamma, Rich The Kid si prepara a veder realizzata l’auto-profezia del titolo del suo disco e prendersi — ovviamente per i tempi di questo periodo storico — questa fetta di mondo, e guardarla dall’alto.

Il disco è un ottimo lavoro che rispecchia alla perfezione ciò che un album con certe sonorità dovrebbe garantire, con quello spirito mega rap di collaborazioni tra nuova e vecchia generazione (per quanto faccia strano definire Rozay o Weezy vecchia, però ci siamo capiti) e il giovane rapper del Queens non sfigura anche nei (pochi) pezzi senza spalle (penso a quella pugnalata nel cuore che è "Dead Friends"). Forse davvero il mondo è di Rich.

The World Is Yours è uscito oggi, venerdì 30 marzo, per Interscope.

Ascolta The World Is Yours su Spotify:

TRACKLIST:
1. World Is Yours Intro
2. New Freezer f. Kendrick Lamar
3. No Question
4. Plug Walk
5. Too Gone f. Khalid
6. Made It f. Jay Critch & Rick Ross
7. Drippin’ f. Chris Brown
8. Tonight
9. End of Discussion f. Lil Wayne
10. Solitude
11. Gargoyle f. Swae Lee
12. Small Things f. Bryson Tiller
13. Listen Up
14. Dead Friends

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Jack White è arrivato primo in classifica grazie alle copie fisiche

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Jack White ha legato le fortune della sua carriera post-White Stripes a quelle della sua etichetta, Third Man Records. Ama così tanto le copie fisiche, Jack, che ha aperto una stamperia di LP facendo produrre macchinari che non venivano realizzati da 35 anni. A un reporter della CBS che è andato a girare un documentario su Third Man, ha dichiarato:

"Vorrei che un giorno [la mia etichetta] fosse quello che la Ford era per Henry Ford. Da questo lato entrano i materiali, dall'altro lato della fabbrica escono macchine".

L'unica cosa che White non produce in casa, dice, sono le etichette e le buste dei dischi. È stato inoltre molto intelligente, White, a far parlare dei dischi che ha prodotto negli anni inventandosi edizioni limitate matte promuovendole con iniziative ancora più matte. Tra queste:

- Quella volta che ha lanciato un giradischi nello spazio e ha messo su un singolo del celebre scienziato e divulgatore scientifico Carl Sagan;
- Quella volta che ha pubblicato un singolo a tema baseball e l'ha reso disponibile esclusivamente come parte di un pacchetto in collaborazione con la squadra che tifa, i Detroit Tigers;
- La creazione del Vault, una serie di uscite esclusive per iscritti al fanclub dell'etichetta contenenti live e rarità che vengono puntualmente riprese dai media statunitensi;
- La produzione di pellicole fotografiche per Polaroid brandizzate Third Man Records, presentate come progetto artistico
- L'acquisto del primo singolo di Elvis Presley per 300.000 dollari e la sua ristampa per il Record Store Day;
- Quella volta che ha stampato un LP che proiettava un ologramma.

Insomma, White si sbatte ogni giorno per far sì che il suo nome e la Third Man Records siano una parte fondamentale della conversazione musicale internazionale, e ci sta riuscendo benissimo. A tal punto che il suo nuovo album Boarding House Reach è arrivato al primo posto della classifica Billboard negli Stati Uniti, e ce l'ha fatta non grazie allo streaming ma alle copie fisiche vendute.

A quanto riporta il New York Times, White ha venduto 121.000 copie dell'album, di cui 27.000 erano copie fisiche in vinile. Ha ottenuto 4.2 milioni di stream dei suoi pezzi, ma sono relativamente pochi: per darvi un'idea, i pezzi di ? di XXXTentacion sono stati ascoltati in streaming 159 milioni di volte e hanno venduto solo 20.000 copie fisiche. Da cui l'ottimo risultato dell'album, nonostante abbia ricevuto diverse recensioni non proprio positive.

La lezione può essere: le copie fisiche hanno ancora importanza, e spingere la cultura del vinile nella sua città, Detroit, e per conseguenza nella sua intera nazione, ha aiutato White a continuare ad affermarsi usando metodi tradizionali. Certo, stiamo parlando di Stati Uniti: la cultura delle copie fisiche in Italia è ancora piuttosto arretrata, e le vendite di LP si concentrano ancora su ristampe di grandi classici probabilmente acquistate alla Feltrinelli di turno. Le vendite di CD aiutano gli artisti a raggiungere ottimi risultati, ma sono ancora legate a pratiche come gli instore - e quindi l'accesso fisico alla celebrità - piuttosto che al piacere dell'acquisto di un oggetto fisico.

Nonostante questo, White è riuscito a comparire in classifica anche dalle nostre parti: nella classifica FIMI dei vinili, Boarding House Reach è all'ottavo posto. In una classifica in cui (nel 2018) compaiono ancora Emozioni di Battisti, The Dark Side of the Moon, The Wall e Wish You Were Here dei Pink Floyd non è un risultato da poco.

Dai a Jack White un po' di vendite in più ascoltando il suo album in streaming su Spotify:

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