Immagino che questo sia lo spazio dove vi convinco a guardare il video qua sopra, quindi proverò a farlo con un elenco numerato:
1. C'è Mike Bongiorno che intervista i Depeche Mode. 2. "Sembrate dei bravi ragazzi, ma perché vi vestite di nero che è un colore così triste?" 3. "Ah ecco, questo deve essere il più intelligente dei 4" 4. "Qualcuno conosce il francese? Cosa vuol dire Depeche Mode?" 5. Playback di alta qualità.
Quarantatre anni di attività. Sedici album in studio. Decine di migliaia di concerti in giro per il mondo. Una delle più grandi band metal, rock e probabilmente della musica popolare in senso ampio, nonché principale influenza musicale sulla mia vita e la mia brutta personalità. Scrivere degli Iron Maiden non è meno difficile che scrivere dei Beatles, degli Stones o dei Pink Floyd, quantomeno per me, un tizio qualunque loro fanboy da quando “populismo”, “hipster” e “reddito di cittadinanza” erano concetti per lo più astratti. E adesso che mi hanno portato via le mezze stagioni, la prospettiva di una pensione e i treni che arrivavano in orario (e di questo passo i treni in generale), posso dirlo apertamente: questi signorotti che ormai si avvicinano ai sessanta sono una delle poche certezze che mi rimangono. E in un momento di sconforto e débacle bisogna ripartire dalle certezze.
Casomai ci fosse qualcuno che per qualche ragione non si fosse mai confrontato con la band capitanata da Steve Harris (in Italia i loro regolari concerti vanno altrettanto regolarmente esauriti, ma sempre dalla stessa gente, ormai discretamente attempata), niente paura: anche tu come me puoi trovare una certezza nella band di punta della NWOBHM. All’anagrafe New Wave Of British Heavy Metal, è quel movimento di capelloni brit che riuniva gli ultimi hard rocker settantiani e i primi protometallari ottantiani con un sacco di chitarre e degli atteggiamenti spacconi sul palco, all’interno del quale i Maiden rappresentano un unicum assoluto.
Senza scendere troppo nei dettagli storici, perché per quelli c'è almeno una cinquantina di libri a disposizione, il percorso dei Maiden è particolare (soprattutto) per due ragioni. La prima è che, a differenza dei loro colleghi, anche quelli più famosi e musicalmente interessanti, l’impianto originale della band londinese non derivava soltanto dall’hard rock zeppeliniano e dai riffoni spessi di Toni Iommi, ma affondava le sue radici anche nella modernità del punk di periferia. Nessuno al mondo nel 1979 aveva dei suoni classici, tipicamente inglesi, e allo stesso tempo così nuovi e attuali, e Iron Maiden, il debutto omonimo classe 1980, è ancora oggi uno spartiacque tra vecchio e nuovo. La seconda è che, in un panorama affollatissimo di gente che parlava di motociclette e ad andar bene qualche strega, i Maiden hanno avuto una capacità espressiva tra le più ampie e variegate: soprattutto dall’ingresso in formazione del supereroe Bruce Dickinson, uomo dal multiforme ingegno e ugola impareggiabile, non c’è un argomento che non sia stato esplorato dalla Vergine di Ferro.
Tra una ballad sulla solitudine e un uptempo in 4/4 sulla pioggia, però, è possibile individuare un nucleo forte di temi all’interno di questi quarant’anni di musica, argomenti cui Harris e la sua ciurma sono particolarmente legati e che si sono divertiti a sviscerare. Tanto per non ripetere la solita tiritera del “per iniziare con gli Iron Maiden devi ascoltare tutti i primi sette dischi e il Live After Death in ordine cronologico”, qui trovi una manciata di playlist tematiche per avvicinarti al magico mondo di Eddie. Però fai il bravo, dopo averle ascoltate ascolta anche tutti i primi sette dischi e il Live After Death in ordine cronologico: nonostante i trent’anni rimane il modo migliore per diventare fanboy.
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It’s heavy metal, baby. Non potrebbe esistere un gruppo metal che non facesse del conflitto una parte della propria poetica - a parte forse quelli power finlandesi, ma loro hanno un problema più ampio. E gli Iron Maiden prendono i conflitti molto seriamente, soprattutto con un cantante laureato in storia e letteratura. Dalla Charge of the Light Brigade durante la guerra di Crimea (che ispirò anche un componimento di Alfred Tennyson) di “The Trooper” allo sbarco in Normandia di “The Longest Day” passando per la guerra del Golfo raccontata in “Afraid To Shoot Strangers”, i Maiden hanno dato una loro personalissima lettura di parecchi scontri e battaglie, spesso lanciando il povero Eddie nel mezzo della mischia, ferendolo, mutilandolo e facendogli vivere tutti gli orrori del caso.
Playlist:"The Trooper" / "Aces High" / "Tailgunner" / "Afraid To Shoot Strangers" / "Paschendale" / "The Longest Day"
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Iniziamo ad entrare nel vivo della questione: è sempre interessante vedere dove vanno a parare i Maiden, quale particolare episodio andranno a ripescare nella prossima canzone. Fin dalla Vergine Di Norimberga stessa, uno strumento di piacere settecentesco, Harris e compagni si sono sempre dilettati a raccontare storie di storia. “Invaders” parla dei raid vichingi sulle coste del continente europeo, “Run To The Hills” della conquista del Far West a scapito dei nativi americani, “Powerslave” della maledizione di Tutankhamon, “Alexander The Great” della vita del Macedone, “The Clansman” delle lotte indipendentiste scozzesi (eh sì, quell’anno era uscito Braveheart), “Empire Of The Clouds” del dirigibile sperimentale R101. Negli anni, con l’invecchiamento la maturazione, i Maiden hanno perso la verve ironica che caratterizzava le loro goliardate da ventenni in favore di un approccio più serioso e da vecchi tromboni, e la differenza tra “Iron Maiden” ed “Empire Of The Clouds”, un singolone da quattro minuti e una suite con pianoforte da quasi venti, è abissale. Vedi tu, ce n’è per tutti i gusti.
Playlist:"Iron Maiden" / "Invaders" / "Run To The Hills" / "Powerslave" / "Alexander The Great" / "The Clansman" / "Empire Of The Clouds"
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Nettamente la fonte d’ispirazione più prolifica per il gruppo, la letteratura spunta più o meno in ogni dove, soprattutto verso la metà degli anni ‘80 - Piece Of Mind, del 1983, è senza dubbio il disco letterario per eccellenza all’interno del suo vasto repertorio. I Maiden hanno sempre voluto mettere in musica parte delle loro opere preferite: dal Fantasma Dell’Opera (il romanzo originale, il musical uscì solo diversi anni dopo la pubblicazione della canzone) al Signore Delle Mosche, anche in questo caso la gamma è ampia e comprende narrativa occidentale, asiatica, racconti, romanzi, poesie. Qualche chicca sparsa: “To Tame A Land”, da Piece Of Mind, è una canzone che parla di Dune, ma quando la band chiese a Frank Herbert il permesso di utilizzare il nome del romanzo per il titolo, l’ufficio stampa di questi rispose che “Herbert non apprezza la musica rock, tantomeno la musica rock estrema, in particolare gli Iron Maiden”. “Still Life”, sullo stesso disco, è invece un racconto lovecraftiano all’inizio del quale viene registrato un messaggio al contrario fintamente satanista, per sfottere i benpensanti statunitensi che da The Number Of The Beast tacciavano la band di adorare il demonio. Per la rubrica “onore italiano”, invece, “The Sign Of The Cross” (The X-Factor, 1995) è liberamente ispirata a Il Nome Della Rosa di Eco.
Playlist: “Phantom Of The Opera” / “Murders In The Rue Morgue” / “Revelations” / “Still Life” / “Sun And Steel” / “To Tame A Land” / “Rime Of The Ancient Mariner” / “Stranger In A Strange Land” / “The Loneliness Of The Long Distance Runner” / “Lord Of The Flies” / “Sign Of The Cross” / “Brave New World”
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Per quanto affezionato a Lucifero e al mal de vivre, il metal è sempre stato anche un grande caleidoscopio di cultura pop, soprattutto nei suoi generi più classici (heavy, prog, power e thrash). Non poteva fare eccezione la produzione maideniana, che anzi mi stupisco oggi non conti ancora un brano dedicato a qualche serie originale di Netflix. “Where Eagles Dare” è l’immancabile rappresentante della cinematografia bellica, mentre “Bring Your Daughter” è un più insospettabile contributo per la colonna sonora di quella minchiata apocalittica che fu il quinto Nightmare On Elm Street, ma non mancano le serie TV Brit (“The Prisoner”) o il ripescaggio di horror di culto (“The Wicker Man”). In particolare, The Wicker Man sembra avere un grande ascendente sul mondo del metallo, tanto che persino i compianti Agalloch ne ripresero addirittura dei dialoghi all’interno dell’EP acustico The White. A ulteriore riprova del cambio di sensibilità della band nell’arco di questi quarant’anni, poi, c’è “Tears Of A Clown”, canzone dedicata a Robin Williams: nessuna ironia, nessuna moralizzazione, solo il grido disperato di chi deve indossare una maschera per lavoro.
Playlist: “The Prisoner” / “Children Of The Damned”/ “Where Eagles Dare” / “Quest For Fire” / “Bring Your Daughter To The Slaughter” / “Man On The Edge” / “The Edge Of Darkness” / “The Wicker Man” / “Out Of The Silent Planet” / “Tears Of A Clown”
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Va bene l’impegno letterario, il nerdismo cinematografico, l’attento studio di battaglie e guerre mondiali, ma ogni tanto ci vuole qualcosa di diverso, di più epico, di più imprevedibile. E per quanto all’interno del gruppo ci sia sempre stato un regime a dir poco austero riguardo gli stupefacenti - “calvinista”, per usare le parole dello stesso Dickinson - qualche viaggione gli Iron Maiden se lo sono fatti, almeno musicale. "Strange World" è escapismo surrealista che non fosse per quanto appena detto sembrerebbe proprio figlio dell’LSD, e “The Number Of The Beast” è un incubo avuto da Harris che diede il via a tutta la mala parata degli Iron Maiden satanisti ripresa dall’immancabile Centro Culturale San Giorgio sempre nei nostri cuori. “Infinite Dreams” è una parte di un concept album estremamente onirico, Seventh Son Of A Seventh Son, in cui il protagonista non riesce a comprendere i suoi stessi poteri. “Fear Of The Dark” è l’inno per antonomasia dei Maiden che da 25 anni infiamma stadi e arene di tutto il mondo raccontando una passeggiata al parco in compagnia di oscure presenze, mentre “Futureal” è uno dei pezzi più brutti e banali dell’intera discografia, in cui la Vergine Di Ferro si interrogava sul proprio futuro trovando discutibili risposte su un campo di calcetto. Meno male che di lì a poco Steve Harris e soci hanno ritrovato la luce, e il viaggio successivo è la ben più piacevole “Dream Of Mirrors”, sorta di ballata downtempo vagamente retorica (come tutto l’album in cui è contenuta, Brave New World), ma soprattutto sarebbe arrivata di lì a poco Dance Of Death, titletrack dell’omonimo disco del 2003. Nove minuti e svanzica di baccanale con ninfe negromanti o qualsiasi cosa siano, senza alcun ritornello, in una spirale di tensione crescente che culmina con il protagonista che cerca di salvarsi la vita scappando da un ballo con la Morte.
Playlist: “Strange World” / “The Number Of The Beast” / “Infinite Dreams” / “Fear Of The Dark” / “Futureal” / “Dream Of Mirrors” / “Dance Of Death”
Parlare di uno come David Byrne non è facile: è un personaggio che ha fatto la storia, e dopo che hai fatto la storia (soprattutto con i sempreverdi Talking Heads) difficile potersi ripetere. Lontani sono i tempi di Catherine Wheel, il primo bellissimo disco solista del nostro concepito come colonna sonora e a volte poco ricordato dalla critica, o di quel My Life in the Bush of Ghosts con Brian Eno che ancora oggi influenza un sacco di wannabe elettronici.
Eppure il nostro ci riprova sempre, ad ogni nuova uscita, a interpretare il suo tempo e ad entrare nell’attualità con tutte le sue forze (e come dimostra il suo popolarissimo libro Come funziona la musica ci riesce pure, a volte). In questo caso si affida, prevedibilmente, a nuovi collaboratori, ma anche a vecchi e collaudati amici. L’elenco è notevole, si passa da appunto Brian Eno e Joey Waronker a Patrick Dillett, Rodaidh McDonald, Sampha: resta anche lui contagiato (ahia) dalla scuffia accelerazionista e prende in scuderia Daniel Lopatin aka Oneohtrix Point Never, che fa giovane.
Ecco, il problema del disco è senza dubbio questo: ha bisogno, Byrne, di tutti questi collaboratori se poi canta come David Byrne? A livello di sonorità ci sono senza dubbio delle soluzioni interessanti per tutti i brani, con parti elettroniche fresche, oserei dire frizzanti (vedi “Here”) che in qualche modo stemperano le parti più tradizionali affidate alla chitarra “white funk” che a volte stuccano (ma in "Everybody’s Coming To My House" il solo è trattato e filtrato egregiamente), con repentini cambi di paletta e di scena che rivelano un’attenzione e una vitalità che da un settantenne che ha teoricamente già dato tutto non ti aspetteresti.
Ma il modo in cui Byrne interpreta le sue canzoni si trova in una confort zone che stona col resto: sarebbe bastato dimenticarsi di essere David Byrne per avere sicuramente una pietra miliare della sua discografia, abbandonando quegli stilemi che ahimè risultano datati, sappiamo già dove vuole arrivare mentre se sentiamo le basi è tutto il contrario. Insomma, è come se avesse un’automobile fiammante da corsa e desse gas col freno a mano inserito. Anche l'idea di vedere il disastro americano tramite il filtro dell’ottimismo a tutti i costi (per quanto ovviamente critico) risulta fuori rotta (distopia o utopia, sempre lì siamo... e poi st’utopia, dai, ce l'aveva già ampiamente raccontata Björk) ma non gliene facciamo una colpa, il Maestro è il Maestro.
American Utopia è un disco fatto col cuore, prezioso seppure imperfetto. Di questi tempi, in cui i “capolavori” sembrano fatti in serie, ben venga l’arzillo nonno Byrne a ricordarci chi siamo: esseri umani.
American Utopia è uscito il 9 marzo per Todomundo.
Ascolta American Utopia su Spotify:
TRACKLIST: 1. “I Dance Like This” 2. “Gasoline and Dirty Sheets” 3. “Every Day Is a Miracle” 4. “Dog’s Mind” 5. “This Is That” 6. “It’s Not Dark Up Here” 7. “Bullet” 8. “Doing the Right Thing” 9. “Everybody’s Coming to My House” 10. “Here”
C’era una volta Patrick Flegel, che suonava nei Women. Ve li ricordate i Women? Il loro Public Strain del 2010 era un gran bell’album. Nel 2012 uno di loro quattro morì nel sonno, e così finì anche la band. Alla fine di quell’avventura, due di loro hanno formato i Viet Cong, mentre Patrick ha dato il via al progetto Cindy Lee.
Cindy Lee è il suo alter ego in drag, ispirato alle dive di un tempo, e dalle sonorità piene di una dolorosa bellezza, che ricordano le colonne sonore dei film di David Lynch, ma pure i Broadcast e in generale un romanticismo underground, qualcosa che fa venire in mente le fotografie di Nan Goldin e tutto un immaginario ben preciso.
I due lavori principali a nome Cindy Lee sono usciti nel 2015, uno (Malenkost) soltanto in cassetta, e l’altro - proprio questo Act of Tenderness - in LP per la CCQSK, di proprietà della stessa Cindy.
L’anno scorso la bolognese Maple Death (già nota ai lettori di Noisey per ottime cose come Geodetic, Havah, His Electro Blue Voice, Stromboli, Hallelujah! e His Clancyness - il buon Jonathan Clancy dell’etichetta è anche il fondatore) si è messa insieme all’americana Superior Viaduct (una delle mie etichette preferite in assoluto, non vi faccio neanche la lista, se non la conoscete andate a cercarvela) per ripubblicare su scala più ampia questi preziosi e un po’ misconosciuti lavori di grandissimo fascino.
Nel 2017 è stato il turno di Malenkost, e ora viene il momento di quello che era stato l’esordio, un disco continuamente sospeso tra poesia e inquietudine, bellezza e tristezza, e come pervaso da una grana fatta di un bianco e nero nevoso, che incarna un po’ tutto l’immaginario e le sonorità di questo bellissimo progetto in grado di mescolare il noise e il pop di una grande diva del passato che suona in un teatro, la no wave e le melodie dei gruppi soul al femminile, i Velvet Underground e Velluto Blu, le riscoperte della Blackest Ever Black e un televisore sintonizzato su un canale morto, il punk e un locale chic della New York dei primi anni Ottanta in orario di chiusura.
Ma Act of Tenderness è soprattutto un disco pieno di personalità e in grado di rapire chiunque si trovi ad ascoltarlo. Una perfetta incarnazione del concetto di “disco di culto”, in senso assolutamente positivo.
Act of Tenderness esce oggi, 16 marzo, per Maple Death (Mondo) e Superior Viaduct (Nord America).
Ascolta Act of Tenderness su Spotify:
TRACKLIST: 1. Act Of Tenderness 2. Power And Possession 3. What I Need 4. New Romance 5. The Last Train’s Come And Gone 6. Operation 7. Quit Doing Me Wrong 8. Fallen Angel 9. Bonsai Garden 10. Miracle Of The Rose 11. Wandering And Solitude 12. A New Love Is Believing
Dopo queste infauste elezioni (ma quale elezione, ditemi, non lo è), lo sport preferito della gente è... sparare cazzate. Tutti figli di D’Agostino, tuttologi a ogni angolo, analisi lucidissime come il fondo di un bidè, una visione d’insieme delle cose che ti fa comprendere come mai è andata a finire così. Ma ancora prima c’erano i bellissimi commenti sull’ITPOP, o come vogliamo chiamarlo, la nuova musica leggera italiana che ovviamente si distingue dalla vecchia per le influenze “moderne”, “giovani”, e giù parole e paroloni e parolacce. Poi ti rendi conto che nessuno ci ha capito un cazzo e si paragonano progetti antitetici fra loro come se venissero tutti dallo stesso baraccone, il più delle volte additandoli con accezioni negative.
Ecco, non è così: non sono tutti uguali, né tantomeno rappresentano il cancro della nostra musica. E oggi in qualche modo lo dimostreremo parlando di una giovane cantautrice che da qualche tempo è una promessa del nuovo pop italiano. Ma il suo operare è, a differenza di molti altri, privo di strombazzamenti, assente da pruriti di visibilità quasi compulsiva, di sponsorizzazioni danarose atte a convincere i gusti della gente. La nostra eroina, infatti, è quasi timida, volutamente distante dai riflettori: e nonostante bazzichi acque che possono dirsi quasi “mainstream” (e l’allusione non è casuale), mantiene, però saldo il volante verso strade diverse dalla maestra, sentieri che portano nel bosco per camminare a piedi scalzi. Anzi, che dico: nel bosco? Nel “sottobosco” che, per chi come lei abita a poca distanza dal parco nazionale del Circeo, rappresenta un underground che respira aria pura e che alle cantine preferisce suonare a casa, davanti ai gatti.
Signore e signore, MasciaTi. Da Latina, col suo primo EP Svegli sempre uscito per Giusville Dischi. Leggi la nostra intervista sotto il player di Bandcamp.
Noisey: Allora Mascia, raccontami un po' come siamo arrivati fin qui. Che cosa ti ha spinto a imbracciare una chitarra e a diventare una cantautrice (o una cantantessa, per dirla alla Carmen Consoli)? Mascia: Nel lontano 2012 Daria (mia cara amica nonché prima bassista del mio progetto) mi portò a sentire le prove del suo nuovo gruppo (i Comunione), e a fine prove un ragazzetto che conoscevo solo di nome e di vista imbracciò la chitarra e suonò un pezzo. Io rimasi letteralmente stupita, anche stupida… insomma, quasi mi vennero le lacrime agli occhi per quanto era bello quel brano e per come lo aveva interpretato. Iniziammo a parlare, a frequentarci... fatto sta che mi regalò una chitarra - che poi si riprese però [ride] - e m’invogliò a suonare. Da lì è iniziato tutto (storia d'amore a parte).
Tu sei di Latina, scena di cui abbiamo parlato sommariamentee che ha comunque sfornato numerosi talenti riconosciuti. Quanto sei legata a questa città e quanto pesa sul tuo immaginario? Per quanto banale credo sia una domanda fondamentale da porti. Latina è la mia città, ci sono nata e cresciuta e mi piace viverci tuttora. Non offre molto, ma a me piace così: un po’ spoglia, bruttina e umida, soprattutto stasera. È sempre stata il mio contorno, il mio sfondo. Forse a volte preferisco immaginarla un po' più offuscata dalla nebbia.
Un’altra tua particolarità è la scelta di rimanere diciamo una sorta di one woman band. So che in precedenza ti accompagnava Daria al basso, ma il tuo modo di porti live è andato sempre più per sottrazione, con sporadici interventi di ospiti. Anche nel disco appaiono personaggi come Marco Scisciò (ex Shokogaz e ora negli All Against All) e Gianlorenzo Nardi alla sega musicale (già Lac Observation e Gran Diavolato). Si passa dal math rock alla psichedelia allo sperimentalismo scoppiato. Quindi spesso collabori con individui non propriamente avvezzi al tuo genere musicale. Come mai? Tutti i pezzi che ho scritto provenivano da emozioni, sentimenti, paure che avevo bisogno di esprimere e già il solo suono di una chitarra era tanto per me, era proprio un modo per esprimere i miei pensieri cercando di non appesantirli troppo. Ovviamente le persone che suonano nel mio disco lo fanno o lo hanno fatto perché apprezzavano i brani (credo) e perché hanno capito che non avevo la minima idea di come volevo registrarlo.
Questo tuo tendere alla semplicità è evidente nel nuovo disco, in cui la chitarra acustica è centrale. Durante le fasi di registrazione, sono stati eliminati tastiere e bassi dal mix finale di gran parte dei pezzi. Avendo partecipato alla realizzazione di alcune parti ci sono inizialmente rimasto un po’ male, poi però ho capito che la scelta era tutto sommato necessaria per lasciare un senso di vuoto incombente nei brani, che è un po' una sorta di manifesto esistenziale, anzi forse addirittura antitetico all'essere... Come scomparire nell'atmosfera. Ti senti così? Cosa c'è dietro alle storie di questo EP? Scomparire nell'atmosfera mi piace molto come definizione. Era quello che volevo mentre scrivevo questo EP, speravo che ogni parola, ogni nota portasse via piccoli pezzi di quello che provavo. Speravo di tirare tutto fuori così da potermi ritirare di nuovo nella mia normalità, non riapparire, solo essere. Forse più che scomparire volevo solo disperdermi nell'atmosfera. Per questo motivo ho preferito la semplicità nel disco, pochi suoni, pochi ornamenti, perché era semplice quello che avevo da esprimere.
La gestazione di questo EP è stata forse un po' travagliata, in quanto si notano due direzioni e due diversi tipi di produzione. Da una parte quasi tutto il team di Forse... di Calcutta, con un gettonatissimo Manuel Cascone (Nastro, Cascao & Lady Maru, Steve Pepe) ai comandi, dall’altra invece vede lo stesso Calcutta sotto nome di battesimo, Gianmarco Monti (meglio conosciuto come Gimonti e produttore tra gli altri di 1933 del rapper Campidilimoni), Jacopo Federici e Flavio Scutti (quest’ultimo, fra le tante cose, produttore dell’osannato Ragni Giganti di tab_ularasa) che all’aspetto più folk sostituiscono un pop elettronico comunque non invadente come invece, a volte, accade nelle recenti produzioni di Edo. In qualche modo questa schizofrenia viene equilibrata dal fatto che tutti i soggetti chiamati alla realizzazione sono legati fra loro dalla condivisione di una stessa storia di partenza, di un vissuto, di un affetto forte. Com’è nata l’idea di mettere insieme questi mondi? È venuto naturale? Avevi le idee chiare? No, non avevo le idee chiare. Per questo motivo mi sono ritrovata a registrare i brani in posti e con persone diverse. Ero incuriosita dai tanti aspetti che potevano assumere le mie tracce, ad esempio con Manuel tutto risulta più “grezzo” (perché lo volevo così) mentre con Jacopo e Edoardo si è provato a fare una cosa più "radiofonica". A un certo punto mi sono ritrovata con molte tracce registrate in maniera molto differente l’una dall'altra, e ho pensato che mi piacevano perché descrivevano un percorso, il mio percorso. Per questo ho selezionato quelle più distanti tra loro e le ho inserite nell'EP.
D’altronde non è la tua prima pubblicazione su supporto fisico: la prima risale al 2016 ed è uno split a cassetta con Tunonna prodotto dall’etichetta L'Amor Proprio di Gaetano Lo Magro, agitatore delle serate weird romane con il suo (((Reb))) e anche "uomo immagine" sulla copertina di Mainstream di Calcutta. In quella tape si sente ancora la Mascia lo-fi che si autoproduce con mezzi di fortuna e che in alcuni casi suona della roba di disarmante naiveté e di commovente dolcezza. Quanto sei cambiata da quei primi brani? Sicuramente qualcosa è cambiato, prima scrivevo senza l'idea di avere davanti un pubblico, al massimo cantavo le canzoni al mio gatto che puntualmente si addormentava. Mi rendo conto che ho subìto tante influenze in questi ultimi anni e quindi trovo più difficile essere spontanea come agli inizi. Comunque continuo a scrivere pezzi senza pormi troppo il problema di quanto possano piacere… come prima cosa il disco deve piacere a me, se poi il gatto si addormenta, vuol dire che funziona [ride].
Parlando delle tue origini, in questo disco c'è una cover di Maurizio Abbenda, mente dei Penthotal e grande autore pop di Latina che spesso si muove in sordina. "Pesca" è uno dei brani clou dell'album e anche Calcutta a suo tempo aveva inserito un brano di Abbenda ("Dinosauri") nel suo disco d’esordio. Tu e Edo in qualche modo siete cresciuti musicalmente insieme respirando il modello "abbendiano"? Per quanto mi riguarda la risposta è sì, il ragazzo citato nella prima risposta era appunto Edoardo e il pezzo che cantava era di Abbenda. Quindi confermo, sono cresciuta ammirando la musicalità di Maurizio e tuttora credo che sia il migliore, almeno nella nostra zona, a scrivere canzoni.
Prima di approdare alla Giusville sei stata corteggiata da un bel po’ di label, e la tua ultima scelta decisiva sembra essere stata ponderata a lungo ma anche un po’ telefonata per ragioni affettive e di campanilismo. Raccontami un po' di questa etichetta pontina con la quale sei uscita, cosa produce e come ti hanno convinta alla release. Allora, Gusville Dischi più che un’etichetta è un gioco tra amici, fanno qualche produzione, quando ne hanno tempo e voglia. Direi che la loro caratteristica principale è una certa purezza d'animo, loro sono i buoni e stanno con i buoni, o almeno io li ho sempre visti così. Quindi sostanzialmente hanno fatto di tutto, dal punk al twee-pop all’hardcore, l'importante è che non sia musica pensata per rimorchiare. Preferisco far parlare loro su come mi hanno convinta alla release, riportando qui una loro mail. Perché mi sono commossa mentre la leggevo: "Siamo contenti di aver contribuito, seppur minimamente, al tuo disco perché sei una dei nostri autori preferiti di canzoni, veramente. Pensiamo che le tue canzoni siano scritte benissimo, che dal vivo le esegui in modo fantastico e sinceramente spontaneo. Sei la messa a nudo del pop da cameretta reale, quello che uno suona da solo quando nessuno lo sente. E poi perché secondo noi tu rappresenti il fascino nascosto di una certa atmosfera pontina, fatta di case ariose, pini marittimi e edifici di cemento paradossalmente accoglienti, come i corridoi delle scuole pubbliche”.
Concordo: il pregio di questo disco a mio parere è di unire una vocalità pop moderna con un modo di intendere la canzone come cantabile ovunque, leggera ma che colpisce nei punti giusti e che non sembra mai strafare anzi, ha timore di farlo. Un po' come come il De André de La domenica delle salme (in "Come il vento"), un po' come il primo De Gregori ma anche a una serie d’input brasiliani non indifferenti, per non parlare degli spunti hypno... Quali sono le tue fonti d’ispirazione maggiori quando scrivi? Anche a livello letterario intendo, credi più nell’attualità o nell’inattualità? Credo in tutte e due, però forse propendo per l'inattualità. Le ispirazioni a livello letterario sono varie, sicuramente Sylvia Plath, Amelia Rosselli, poi c'è Panella che penso sia uno dei miti della scrittura italiana; spostandomi dall’altra parte del mondo (dove ho vissuto per un breve periodo) ovviamente non posso non citare Caetano Veloso, Jorge Ben Jor, Os Mutantes insomma tutta la scena del tropicalismo che mi ha formato a livello musicale, ma anche i Broadcast e tutta la scena più dream pop… in effetti se ci penso sono molti i gruppi che mi hanno ispirato e sicuramente ne sto dimenticando la maggior parte.
Parliamo del tuo immaginario visuale. La copertina è bellissima e ti vede appunto quasi soffiata via dal vento, in un bianco e nero classicissimo quanto chiaramente espressionista. Nel video di “Come il vento” agiscono i ragazzi della 148 produzioni audiovisive che, oltre ad essere tra i più interessanti videomaker di oggi, riescono perfettamente a rendere il tuo mondo sonoro attraverso paesaggi d’assenza nei quali però la tua sensibilità viene amplificata. Tu partecipi attivamente alla produzione di questi elementi visivi o lasci carta bianca? Ci tengo a precisare che sulla copertina dell’EP non ci sono io, anche se lo pensano tutti. La ragazza in foto è la fidanzata del fotografo Mauro Renzetti, che ringrazio di essersi prestata. Per quanto riguarda il girato Michele Catalano e Pierluca Zanda appena sentirono il pezzo mi chiesero subito di poter fare il video: io lasciai loro totalmente carta bianca perché parlandoci avevo già capito che eravamo sulla stessa linea d'onda. Infatti sono molto contenta di quello che è venuto fuori. Ringrazio tantissimo anche loro, soprattutto per il gelo cui si sono sottoposti per girare le scene in pieno inverno.
Arriviamo alla domanda da un milione di dollari: che ne pensi della questione della donna in musica? Pensi se ne parli troppo, in maniera anche controproducente, oppure pensi che sia sempre doveroso sottolineare le differenze e vedere le produzioni femminili come uno stile a sé, orgogliosamente conquistato, come molte e molti ritengono? Sinceramente non ho mai distinto la scena femminile da quella maschile in musica, penso che da entrambi le parti ci siano cose valide. Però mi rendo conto anche che si tende a valorizzare di più la scena maschile soprattutto in quest’ultimo periodo e soprattutto in Italia. Forse è solo il periodo?
Quali sono i gruppi e i singoli autori da tenere d'occhio oggi? Dimmi il nome di qualcuno che produrresti immediatamente. Qualcuno da produrre immediatamente? Uhm, non mi viene in mente, sarei ripetitiva se dicessi Abbenda?
Per concludere: cosa può essere considerato "Come il vento" in questa vita moderna che va veloce ma del vento ha perso la poesia? Non saprei, mi metterei a soffiare.
Quando ho detto ad un amico che avrei scritto del nuovo album dei Judas Priest mi sono sentito rispondere: “Non so se avrò cuore di leggere la tua sferzante stroncatura made in Vice”. Smettiamola con questi luoghi comuni, Michele: le nostre sferzanti stroncature sono riservate solo e soltanto ai dischi se le meritano. E Firepower, contro ogni mia previsione, non se la merita.
Il fatto che il diciottesimo (d i c i o t t e s i m o) disco in studio dei Judas Priest a quarantaquattro (q u a r a n t a q u a t t r o) anni dalla nascita riesca davvero ad avere delle cose da dire e a dirle bene è già una notizia di per sé. Se poi ci aggiungiamo che i Priest arrivano da un periodo quantomeno travagliato, allora Firepower assume dei contorni a dir poco mitologici. In pillole: il disco precedente, Redeemer Of Souls, era una martellata sui maroni. K.K. Downing, uno dei due storici chitarristi, nel 2011 ha deciso di andare in pensione. Glenn Tipton, l’altro dei due storici chitarristi, ha dichiarato poche settimane che non andrà più in tour con la band e continuerà solo a scrivere e registrare in studio perché ha il Parkinson. E poi Firepower.
Come da copione c’è già chi parla del nuovo Painkiller, di uno dei migliori dischi dei Priest in assoluto e della rivelazione dell’Arcangelo Gabriele sotto forma di strofa-ritornello-bridge-strofa; ecco, forse non è proprio così, forse Firepower non cambierà la vita al metallaro medio, ma è indiscutibile che nel 2018 sentire un disco heavy che scorre così bene e che non faccia cadere i maroni nella più totale atrofia prima della fine è sicuramente un evento. Anzi, bisogna dirlo: Firepower è proprio divertente. Le melodie acchiappano e i ritornelli sono da cantare a squarciagola, poco importa se mentre sei a casa a fare i mestieri o in macchina col finestrino giù e il braccio fuori. E poi la varietà: è commovente sentire come dopo quarant’anni e rotti sia ancora possibile tirare fuori le stesse cose, ma in modo diverso, in modo fresco, in modo giusto. Sono tutti pezzi heavy al duecento percento, eppure non ce n’è uno uguale all’altro, un risultato abbastanza raro persino negli anni d’oro della NWOBHM.
Tipton ha fatto un ottimo lavoro, come se avesse voluto infondere tutta la sua voglia, il suo desiderio di continuare a tenere alto il vessillo del metallo nonostante gli impedimenti fisici, e Halford, beh, è Halford. Istrionico, iconico, pacchiano. Un eroe. Insomma, il Prete di Giuda predica ancora benissimo, a dispetto delle avversità. Non si sa ancora se Firepower sia un punto fermo o un preludio a una nuova era di terza, ma anche quarta età, fatto sta che qualsiasi cosa sia, è molto più di quanto fosse lecito aspettarsi.
Firepower è uscito il 9 marzo per Sony.
Ascolta Firepower su Spotify:
TRACKLIST: 1. Firepower 2. Lightning Strike 3. Evil Never Dies 4. Never The Heroes 5. Necromancer 6. Children of the Sun 7. Guardians 8. Rising from Ruins 9. Flamethrower 10. Spectre 11. Traitors Gate 12. No Surrender 13. Lone Wolf 14. Sea of Red
Il fatto che il rap italiano abbia scoperto quello francese e abbia deciso che — almeno tanto quanto quello americano — potesse essere fonte d’ispirazione e paradigma, è qualcosa che indubbiamente ha fatto bene a tutta la scena. Ci ha resi in qualche modo meno babbi agli occhi dei cugini che sono venuti a bussare alle nostre porte (o noi alle loro, trovandole comunque rigorosamente aperte) e piano piano il rap italiano ha guadagnato quella credibilità che sento sognare da quando sono poco più che un poppante. Penso a Youssoupha e SCH, per esempio, che negli ultimi tre anni hanno collaborato con due importanti rapper italiani, e lo hanno fatto perché anche a loro interessava quel panorama che tanto amiamo bistrattare: il nostro.
Circa tre anni fa, su queste pagine, parlavamo dell’influenza di Gomorra sul rap francese, del fatto che dei mostri sacri come i PNL e il già citato SCH avessero scelto le Vele come sfondo per i propri video musicali. In quel periodo, in molti, attribuirono quella precisa scelta stilistica a un rapper, che intervistammo. Non suona come una bestemmia dire che Vale Lambo aveva sdoganato un immaginario che, in modo più o meno inconsapevole, anche in Francia iniziava ad attecchire.
Da quella prima intervista con Lambo sono passati 36 mesi e due album sotto i ponti: uno con il socio di sempre, Lele Blade, e — in uscita oggi — Angelo, il suo primo disco ufficiale solista. Angelo contiene 14 tracce e, per quanto faccia strano usare certi termini in riferimento ad una corrente come la trap, è un disco molto conscious e molto personale. E nonostante quest’album sia interamente un manifesto di Vale, è anche il primo in cui lo troviamo in una veste inedita: l’italiano. La semplicità del disco si evince fin della scelta dai titoli (“Io”, “Angelo”, “Nemici Miei”, “Perché”, per fare alcuni esempi) che mostrano come Vale non manchi neanche uno dei punti della to do list per essere un rapper — dall’introspezione all’egotrip.
È un disco molto leggero nelle sonorità, che in qualche modo scivola senza mai risultare ingombrante, in contrapposizione con i temi, mai scontati e banali, per alcuni aspetti inediti nella scena. A meno che non si riprenda infatti qualche testo dei Co'Sang, che però avevano un atteggiamento molto più gangsta, o qualche testo di Enzo Dong, che invece ha un approccio più urlato e ironico, colpisce il racconto quasi da cronista della sua città o ancor meglio del suo quartiere. Vale Lambo, nonostante nelle interviste e nell’uso dei social risulti grezzo, sa essere molto raffinato ed elegante anche nei banger come “Wuah”, che altro non sono che esercizi di stile.
Infine, menzione d’onore per due tracce in particolare: sono felice che in questo disco ci sia il recupero di quella che è a tutti gli effetti una delle mie tracce preferite di questo nuovo filone trap, “È Meglio Pe Loro”, che suona quasi come una preghiera di strada e che, se non l'avete ascoltata all’epoca dell’uscita, dovreste ascoltare ora. La seconda menzione d’onore spetta alla strofa di Coco su "Io", che se Dio vuole anticipa una sua possibile uscita in questo 2018.
Angelo è uscito oggi, 16 marzo, per Universal.
Ascolta Angelo su Spotify:
TRACKLIST: 1. Intro 2. Angelo 3. Over fai 4. Io feat. Coco 5. Africa 6. Numero 1 7. Patrizio 8. Senza e te 9. Nemici miei feat. MV Killa 10. Arò stat e cas 11. Perchè 12. Wuah 13. Medusa 14. È meglio pe loro 15. Un altro giorno un altro Euro feat. Guè Pequeno
? comincia, come il suo predecessore 17, con una breve traccia parlata in cui X ci racconta un pochetto quello che stiamo per sentire. Parla di "lealtà nei confronti di se stesso" e chiede a chi non apprezza "il suono alternativo" di approcciarsi all'album "con la mente aperta". Prima di salutarci e cominciare realmente a cantare, afferma lui stesso l'aspetto contraddittorio della sua musica: "È un album in cui puoi trovare conforto, ma può anche essere molto sconfortante".
Ecco, "il suono alternativo". Essere alternativi è una fissazione che, a un certo punto della vita, quasi tutti gli esseri umani si fanno crescere dentro. Soprattutto quando si è ragazzini si vuole andare controcorrente, provare emozioni forti, fare incazzare chi si percepisce come parte della massa informe da schifare al grido di "non saremo mai come loro".
X è diventato famoso proprio in quanto, per un breve periodo, ha incarnato perfettamente l'idea di "alternativo". Il SoundCloud rap, quella deriva grezza, greve ed emotiva del canone rap di cui X è stato uno dei principali esponenti, è stata letta come controparte DIY del genere nel suo momento storico di maggior splendore mediatico. Ma se un tempo l'alternativa aveva tempo e spazio per proliferare e solidificarsi prima di ritrovarsi così grossa e influente da diventare lei stessa la norma, oggi non ha più né l'uno né l'altro. E rendersi conto di questo fatto può cambiare la carriera di un artista nel lungo termine.
Lil Pump fa "Gucci Gang", entra nella testa degli adolescenti del mondo intero e nel giro di qualche mese fa i milioni senza aver cambiato di una virgola la formula che lo ha fatto sbancare alla lotteria della fama. X fa "Look at Me!", entra nella testa degli adolescenti del mondo intero e nel giro di qualche mese fa i milioni - ma capisce che il modo migliore per diventare ancora più famoso e fare ancora più milioni non è continuare a ripetersi, ma trovare un modo per continuare a incarnare l'idea di alternativa. Era questa già l'idea dietro al suo scorso progetto, 17, un album che avevo descritto così:
"Musicalmente parlando, è un prodotto della contemporaneità. È all'intersezione tra generi e culture, trova valore nell'immediatezza del fai-da-te: funziona un po' come un meme, creato impetuosamente e condiviso per generare una reazione. Personalmente, ascoltarlo mi spiazza—come se non riuscissi a trovare la quadra tra i suoi pregi e i suoi difetti."
Bene, ? è la stessa cosa, ma ancora di più. 17, un album tutto chitarrini tristi e pianoforti da GarageBand ficcati in mezzo a generici pezzi rap e R&B che parlava di depressione e suicidio dicendo "hey, sono un matto violento ma è perché sono fragile e confuso", stupiva perché veniva da un musicista controverso che ci aveva abituato, fino a quel punto, a un'espressività brutale. ? è l'alternativa all'alternativa, un pastrocchio di espressioni musicali estremamente emotive che, frullate assieme, risultano affascinanti e sbagliate allo stesso tempo.
È perfettamente comprensibile ascoltare ? e pensare "Hey, questo mi sta trollando". Non c'è la parvenza di una linea comune musicale all'interno dell'album. La cosa ha però perfettamente senso per il pubblico ideale di X, cresciuto - proprio come lui, nato nel 1998 - in un ambiente culturale disordinato e fruibile in modo completamente libero, al contempo dominato da algoritmi e playlist omogeneizzanti. Essere catalogato come "rapper" e fare un album con dentro elementari ballatine acustiche, trap languida, pezzi alt-rock da nuovo millennio, reggaeton, omaggi al nu metal, al pop punk e addirittura allo screamo significa immediatamente fare scoppiare la testa a chi, nell'omogenizzazione dell'algoritmo, ci è cresciuto.
L'articolo continua dopo il link, torna su e leggi quest'altro quando lo hai finito:
Soprattutto, però, significa suggerire la presenza di un'enorme potenziale creativo, di una sorta di arte universale e onnicomprensiva che potrebbe dirigersi un po' ovunque senza alcuna logica di base se non il supposto genio creativo del suo autore. Poco importa che, presi singolarmente, molti dei brani di ? siano formulaici: "schizophrenia" sembra un pezzo brutto di Marilyn Manson, ma messo in bocca a un giovane rapper diventa il terrificante grido d'aiuto di una mente spostata. "NUMB" è praticamente una ballata di una band alt-rock disgraziata alla Creed, ma messa appena prima di un pezzo hip-hop tradizionale assieme a Joey Bada$$ (aka una delle più grandi giovani voci del rap impegnato e iper-rispettoso della vecchia scuola) diventa simbolo di un approccio poliedrico.
Sembra oscillare costantemente tra due modalità, X: da un lato c'è il lamento emotivo che, come dicevamo, risponde al bisogno di emozioni forti proprio dell'adolescenza e della giovinezza. È quello che gli fa intitolare canzoni "the remedy for a broken heart (why am i so in love)", scrivere efficaci confessioni strappalacrime coi violini come "changes" e buttare fuori una collaborazione con Travis Barker dei blink-182 che a un certo punto suona come se fosse un pezzo screamo alla Raein.
Dall'altro c'è l'audacia tipica del rapper a cui non frega un cazzo di niente, da cui la presenza nell'album di un pezzo reggaeton cantato in spagnolo che si intitola "i don't even speak spanish lol" e una collaborazione al limite della gag con il dodicenne Matt Ox, noto più per i suoi fidget spinner che per le sue abilità al microfono. Sa che per restare "il suono alternativo" non deve adottare un singolo registro e spremerlo fino a togliergli ogni goccia di succo vitale, X, ma continuare a saltare di linguaggio in linguaggio, di riferimento in riferimento, esprimendo la sua pazzia attraverso grida e sussurri, pugni e carezze, merda e oro.
Per restare sulla cresta dell'onda, inoltre, X ha cominciato a presentarsi come un artista impegnato. A differenza della stragrande maggioranza dei suoi colleghi SoundCloud rapper ex-alternativi e ora parte del macchinario dell'industria discografica, impegnati ad enumerare i loro capi di Gucci nella speranza che la loro ondata duri il più a lungo possibile, X ha cominciato ad appiccicare ai suoi pezzi messaggi sociopolitici completamente condivisibili da qualsiasi persona minimamente progressista.
X ha detto di essere lui ad aver influenzato Drake a fare beneficienza nel video di "God's Plan", ha inserito nell'oggi scomparso video di "Look At Me!" due lunghe sezioni narrative contro le prevaricazioni delle autorità statunitensi nei confronti delle minoranze e della comunità afroamericana, ha dedicato "HOPE" alle vittime della recente sparatoria della Parkland High School. Questo nonostante i suoi brani tocchino solo tangenzialmente queste tematiche, e lo ha detto lui stesso riferendosi proprio a quest'ultima: "Anche se non tutte le parole del brano c'entrano con la situazione, ho scelto di dire cose incoraggianti e appropriate, e non esplicite e reali". Ma così facendo ha comunque preso una posizione, ha ulteriormente accantonato nell'immaginario collettivo le accuse di violenza che hanno segnato la prima parte della sua carriera e si è posizionato come modello per una gioventù statunitense arrabbiata e disillusa.
La cosa assurda e interessante è che X è stato eletto a modello anche dalla gioventù di mezzo mondo, che questa sappia o meno l'inglese e che possa o meno comprendere il suo messaggio. Questo perché il suo potenziale estetico ed evocativo è così forte da trascendere le parole che dice - o forse è così semplice e intonato con la sensibilità della sua generazione che non viene percepito come di difficile lettura, indipendentemente dalla lingua con cui è espresso. Non ha senso, credo, parlare di questo album in termini di post-rap, perché non è un album rap e XXXTentacion non è un rapper. È un pazzo la cui pazzia ha affascinato milioni di persone in giro per il mondo, dal ragazzino infoiato a Kendrick Lamar, e ci tiene tutti in scacco facendoci parlare di lui, nel bene o nel male, nel suo continuo tentativo di stupirci e farci prendere posizione.
Sono giorni duri, di confusione, di continui attacchi alla nostra dignità di esseri umani. Ma non disperiamo: anzi, diamoci forza con quello che da sempre il potere teme più di tutto il resto, cioè la musica. La resistenza oggi viene da Slavia Divinorum di Yva and the Toy George, una giovanotta Serba di cui abbiamo già parlato a proposito del duo Opa Opa.
Dopo tanti anni di militanza sotterranea finalmente gode i frutti della gavetta finendo nel catalogo di una major, Mascom, parte della Warner in Serbia. Il risultato, paradossalmente, è un disco senza compromessi. C’è talmente tanta roba che difficilmente ci si può fermare a un unico ascolto: arrangiamenti stratificati che in un sol colpo attraversano decenni di dance music, hip hop e world music, ovviamente tutto tenuto insieme dall’“intelligent turbofolk” che caratterizza la nostra eroina, teso al recupero della tradizione musicale serba attualizzandola senza paura.
Gioca sul gender in “Malaria Mosquito” pitchandosi la voce fino a rendersi irriconoscibile e infilando l’elettronica anni Ottanta nella pancia di Cupcakke, usa il polilinguismo skippando attraverso differenti idiomi tra i quali quello del Gabon, dove Yva ha vissuto per anni, in “Heretical Habibi” e in “Rat” si apre a melodie arabeggianti come una sorta di Omar Souleyman al femminile che copula con una MIA al maschile, con testi che mescolano il politico al “party time” senza entrare in contraddizione poiché, alla fine, la liberazione dei corpi e delle menti dalle morse dei padroni della Terra passa attraverso la festa.
Per questo, il lavoro di produzione di Manuel Cascone (già in Cascao & Lady Maru) tende ad enfatizzare le ritmiche che a volte sono afro, a volte techno, a volte house, a volte fanno venire alla mente una sorta di 2Unlimited sparati nel futuro, con sintetizzatori serpeggianti e tellurici, ma che sanno anche non prendersi sul serio a differenza di tanta elettronica secchiona, ma di base sterile, che gira oggi.
Con “Urok”, Yva ci regala il momento occulto che non ti aspetti, quasi IDM nelle intenzioni, rimescolando le carte in una zona più dilatata e onirica, sfidando i puristi dei generi. Che la rivoluzione venga da Est? Probabile. D’altronde l’Occidente ci ha rotto il cazzo da un bel pezzo.
Slavia Divinorum è uscito il 16 marzo per Mascom.
Ascolta Slavia Divinorum su YouTube:
TRACKLIST: 1. Rat 2. Empaillée 3. Heretical Habibi 4. Aфricka 5. Malaria Mosquito 6. Imala sam 7. Playboy 8. Chicks in the Mix 9. Cica 10. Urok
Forse è stato sul palco di Sanremo che gli è venuta in mente, "Questa nostra stupida canzone d'amore". "Posso salutare Tommaso? Bentornato! Anzi, benvenuto. È la prima volta", gli aveva detto Claudio appena dopo che aveva finito di cantare con Gianni. "È un bel debutto, sto in mezzo a voi!", aveva risposto lui. E poi aveva fatto il tenerone:
"Mamma, sto in mezzo a Gianni Morandi, Michelle Hunziker e Claudio Baglioni. Grazie".
È da tanto tempo che Tommaso Paradiso ha cominciato un processo di metamorfosi. Ai tempi di Completamente Sold Out scatenava, in egual misura, amore e odio. Poi è diventato un meme, così marcato nella comunicazione social e così onnipresente nella conversazione musicale italiana da diventare familiare, un riferimento condiviso su cui far due risate. E poi "Riccione", e il successo vero, e il singolo con Elisa, e Sanremo. E ora è effettivamente diventato così famoso da risultare—e lo dico in senso positivo—innocuo.
Così come il modo in cui comunica sé stesso, anche i testi di Tommaso sono leggibili secondo una poetica e un'estetica ben definite. Tendenzialmente canta d'amore e di cose universali, e anche quando sta male in realtà sta bene. "Paradiso è autosufficiente: la sua emotività gli basta per definirsi tramite la negazione", avevamo scritto. Ma il successo doveva fargli qualcosa: la tua vita cambia, i tuoi obiettivi cambiano, il tuo pubblico è molto più ampio e difficile da leggere. E quindi devi pensare a uno stratagemma per far impazzire tutti, sia quelli che ti seguono dall'inizio o per passione o per scherzo, sia quelli che ti hanno sentito su Radio 105 e ti hanno trovato con Shazam.
Non è difficile leggere le parole "Questa nostra stupida canzone d'amore" e far volare il pensiero al classicone, a quella che dai la sappiamo tutti, all'inno al bel canto melodioso e strappalacrime: "Questo piccolo grande amore" di Claudio Baglioni. E non è un salto poi così assurdo da immaginare, quello tra Claudio e Tommaso. La paura e la voglia di essere nudi, un bacio a labbra salate, il fuoco, quattro risate... la classica situazione che, crescendo, potrebbe portare a gambe abbronzate, tette sudate e mani sul culo, in fondo. E lunghe corse affannate incontro a stelle cadute... magari con un brivido nella schiena, tra la vita e la morte.
Però quello di Baglioni era un amore finito. E dato che in questo momento della sua carriera Paradiso è felicemente accasato, la sua "Questo piccolo grande amore" 2.0 è venuta fuori con un messaggio diverso. Non più "Ah che bello era quell'amore e chissà come sarebbe potuta andare", ma "Ah che bello che è il nostro amore e non finirà mai". Non un'espressione che si rincagna nei ricordi e nelle insicurezze, ma la massima espressione della caciara amorosa da prima serata per le nuove generazioni.
Screenshot da RaiPlay.
"Questa nostra stupida canzone d'amore" è, appunto, stupida. E felice. E un po' nostalgica. Andiamo ad analizzarne il testo e a capire perché.
Se domani tu per caso sparissi E io non sapessi più con chi parlare Dopo tre gin, cosa dovrei fare? Non mi va di ricominciare Non mi va di sentirmi male
Eccoci qua. Due parole e due note al pianoforte. Se tu sparissi, come farei? Non ci voglio neanche pensare. Perché tutto va a puttane, ma che problema c'è? Ci siamo noi. Ci sono i gin tonic. Ci siamo io e te. E ci sono i bei ricordi del passato, soprattutto.
Sai che ho vinto il mondiale da quando ci sei Sei la Nazionale Del 2006 Ma dentro casa col vestito da sposa Sei il finale migliore di tutti i film che possiamo guardare Prima di andare a dormire
E chissenefrega se quest'anno ai mondiali non ci andiamo. E vaffanculo alle nottate fuori, alla strada e alle stelle. Stiamo a casa a guardare un film. È il suono dell'accasamento pacifico, questo pezzo. Quello della quieta resa, del vediamo-un-po'-come-va.
E chiudendo gli occhi immagino Immagino Fiumicino Tu che parti per un viaggio Io che annaffio le piante Aspettando il tuo ritorno Con lo sguardo perso tra le nuvole Ed il telefono che suona Non rispondo, è ancora presto
Il quadretto di idillio domestico continua: lei va a divertirsi, e lui non è geloso e non è in paranoia. Sta bene: ha il suo grembiule da giardino, le sue cesoie appena scartate e quei semi di tulipani che lei gli ha portato da Amsterdam da piantare. Neanche risponde al telefono, facendo bestemmiare gli altri due Thegiornalisti che lo stanno chiamando per andare a fare le prove, perché tanto sa che è ancora presto, e lei non è. Che cosa può andare storto?
La Corea del Nord Non potrà fermare tutto questo
BAM. Non ve lo aspettavate, eh, bastardi? Credevate che sarebbe andato sempre tutto bene? Vi stavate già rompendo le palle di 'sta stucchevolezza da coppietta da pubblicità delle merendine che scalda le Treccine al forno e le addenta con molari perfetti? Col cazzo. Che c'è Kim Jong-Un pronto col pulsantone rosso a far scoppiare la merda. E voi dovete ricordarvelo, ma anche stare tranquilli. Che tanto non succederà. E avrete comunque l'uno l'altra. Certo, dovesse effettivamente partire il bombardamento nucleare l'idillio sarebbe, al contrario di quello che sostiene Tommaso, brutalmente fermato perché il suo corpo e la sua mente verrebbero polverizzati. Ma non c'è da aver paura, perché—come dicevamo—tanto non succederà.
E se per caso mi dovessi svegliare Colpito da un proiettile al cuore Inseguito da strane cose Mi basterebbe abbracciarti Sotto le coperte O sul divano a toccarti la mano E a sentirti il respiro Per ristare bene Tornare a dormire E ritornare a sognare
Dopo la tempesta, la quiete. L'incubo è finito, ora si può solo stare bene. E quindi possiamo fare quello che si fa quando si canta d'amore e si sta bene. Cioè far finire le parole e buttarla sul corale con un po' di vocali: UUH OOH! E poi un altro ritornello, un po' diverso. E poi, il bridge: è una canzone d'amore, questo ci vuole. Il ritornello, il bridge tutto quieto, e l'altro ritornello che pompa di più per finire.
Ed è bello così, anche se poi ti fa piangere Questa nostra stupida canzone d'amore Ed è bello così, anche se poi ti fa ridere Questa nostra stupida canzone d'amore
All'improvviso, tutto si ferma. Si sente solo una chitarra elettrica, e un suo tellurico CHUG CHUG da far invidia ai Pantera. Ricorda quasi, per la potenza che esprime, l'armonico di chitarra elettrica di quella hit che fu "Sono già solo" dei Modà, quella volta che si immaginarono eredi momentanei dei Three Doors Down. E scatta il rock, scatta il metal, partono i fuochi d'artificio. È il gran finale. Canzone d'amore, canzone d'amore. Le parole perfette per finire una canzone d'amore.
All’interno di Macao, che per chi non lo conoscesse è un centro indipendente per le arti, la cultura e la ricerca che sta negli spazi dell'ex Macello a Milano Est, è attivo da poco un nuovo laboratorio che si definisce etero-dissidente e transfemminista e ha l’obiettivo di organizzare serate che mescolino discussione e clubbing, ma anche letture o proiezioni di documentari, il tutto ovviamente improntato a tematiche ben precise. La prima serata, con grande partecipazione di pubblico, è partita con la proiezione del documentario Queercore: How to Punk a Revolution di Yony Leyser, seguita da un momento di discussione e dai potentissimi live e dj set di Violence e Kilbourne.
La prossima serata è in programma per il 30 marzo e sarà uno showcase di Discwoman, collettivo con base a New York “che fa della lotta al razzismo e alla normatività di genere il motivo fondante del proprio attivismo artistico/politico”. Alle 22:00 ci sarà una discussione con le artiste e gli artisti del collettivo intitolata Difference as a culturally-propelling force, moderata da Sonia Garcia e Virginia Ricci e in seguito, in consolle, Juliana Huxtable, Shyboi e Kamixlo. Lungo il corso dell'intervista potete ascoltare alcune delle loro cose. Abbiamo approfittato di questa occasione per parlare con il nuovo laboratorio/collettivo di Macao e farci raccontare per bene quello che stanno portando avanti.
Noisey: Come la definiamo questa cosa che state facendo? È un collettivo, un laboratorio? Diciamo entrambi, è un laboratorio che non potrebbe esserci senza una collettività che lo frequenta e gli dà forma. Sono due aspetti complementari di un unico progetto. L'idea del laboratorio, durante il quale ci è capitato di leggere e discutere testi come il piano anti-violenza redatto da Non Una Di Meno e Gli usi della rabbia di Audre Lorde, è nata dall'esigenza di condividere dei contenuti che ci stanno a cuore, un modo per ascoltare e restituire idee che partono da esperienze individuali, per stimolare l'arricchimento, la crescita collettiva, un lavoro continuo che ricorda un po' la pratica di autocoscienza del femminismo degli anni '70. Il laboratorio è aperto a tuttx, basta venire a MACAO il martedì alle 19.
Chi ne fa parte e come nasce? Mi sembra di capire in maniera abbastanza spontanea, per definire meglio alcuni discorsi che già erano in corso all'interno di Macao in senso più ampio. Da tempo sentivamo la necessità di trovare soluzioni concrete e propositive ad atteggiamenti diffusi che percepiamo come machisti e molesti. MACAO si situa nel mondo, non in un'isola ideale, e con questo bisogna fare i conti quotidianamente, soprattutto quando lo spazio accoglie un numero elevato di persone.
Negli anni, alcuni laboratori temporanei sono nati con diversi obiettivi, alcuni più teorici, come "Occupare il conflitto" che abbiamo tenuto a maggio 2013, altri focalizzati sulla produzione di linguaggi capaci di nominare il sessismo ("Eventual Scoliosis", luglio 2017). Dalla fine dell'anno scorso, abbiamo deciso di creare un appuntamento fisso in modo da dare una continuità a un percorso che in moltx sentiamo necessario, e che sta anche diventando una porta di accesso per nuove soggettività a MACAO. Far sì che uno spazio sia accogliente per tuttx richiede un lavoro di cura immenso e bellissimo: è il tentativo collettivo di smascherare, a partire da noi stessi, linguaggi e pratiche che adottiamo in modo spontaneo ma che si rifanno a una normatività che ripudiamo. Un continuo rendersi conto di quanto abbiamo incarnato dalla cultura capitalista e patriarcale in cui siamo immersx e, anche, di quanto—solo insieme—possiamo lentamente smantellarla per dare spazio a nuove forme.
Possiamo farti l'esempio di due pratiche che abbiamo sviluppato: l'affissione di messaggi e il take care. Attraverso queste, vogliamo invitare coloro che attraversano lo spazio a prendersi cura di tuttx, delle cose che ci piace fare insieme. Se ti piace venire a MACAO deve esserti chiaro che comportamenti omofobi o sessisti non sono accettati, ma anche che, entrando, farai parte di una comunità impegnata a far sì che nessunx si comporti così. Durante le serate più frequentate, per esempio, indossiamo un nastro glitterato che è un segno di riconoscimento per coloro che partecipano a quello che ci piace chiamare take care: se sei in una situazione di difficoltà o vedi qualcunx che lo è, queste persone saranno d'aiuto. Non è il classico repertorio di disciplina, controllo e punizione in cui spesso ci si imbatte nei club, italiani e non solo. Noi non siamo un club, e poi, a noi, gli sbirri non piacciono. Non ci siamo solo noi di MACAO a prenderci cura durante le serate, ma anche amicx che frequentano abitualmente lo spazio partecipano a questa iniziativa.
La musica disco e in generale il clubbing nascono e si sviluppano storicamente all'interno di comunità LGBTQ, ma direi che nella stragrande maggioranza dei casi è un elemento che si è andato a perdere (soprattutto fuori dall'underground). Voi volete anche rispondere un po' a questa cosa? Siamo convintx che la liberazione dei corpi dai vincoli del patriarcato e dell'eteronormatività debba passare dalla condivisione di diversi tipi di linguaggi. L'inclusività deve passare necessariamente dalla messa in comune degli spazi e dalla riappropriazione di tutti quei mezzi di espressione che sono stati cooptati dalla solita egemonia del maschio bianco eterosessuale. Come hai giustamente notato, il club è un luogo in cui questi corpi dissidenti hanno manifestato la loro esigenza. Non abbiamo la presunzione di volere restituire definitivamente il dancefloor alla comunità LGBTQ ma vogliamo, da un lato, poterci divertire senza dover sottostare a quel sistema del clubbing che a Milano ha ingessato anche le soggettività LGBTQ, dall'altro vogliamo curare una programmazione musicale e artistica in generale che dia nuovamente spazio a forme di musica realmente alternative—che è quello che ha fatto MACAO da quando esiste. A Milano si è diffusa l'equazione gay = pop e moda, e non tuttx si riconoscono in questo.
Cosa ne pensate invece delle serate "a tema" che pure ci sono, nella maggior parte delle città europee? Forse il problema è che ne resta l'aspetto più superficiale ma si perde il discorso politico? Voi volete far rientrare il discorso politico all'interno del contesto delle serate LGBTQ? Fare musica, ascoltarla, ballarla è già parte del discorso politico. Noi vogliamo solamente ricordarlo. Talvolta si pensa che andare a ballare sia puramente un momento di svago, una parentesi all'interno di una settimana di produttività ed efficienza. No, quando frequentiamo un luogo in cui possiamo arricchire la nostra esperienza musicale e in cui possiamo liberamente esprimerci, entriamo in relazione con le persone, creiamo un contatto, comunichiamo. Il fatto che spesso questa pratica sia regolata dalle tendenze, dalle norme di mercato e dal sistema capitalistico che costruisce e standardizza comportamenti, relazioni e gusti musicali, fa dimenticare che questo è uno strumento di lotta politica fortissimo. Condividere, costruire progetti assieme, collaborare al benessere e anche al divertimento collettivo sono pratiche che si apprendono divertendosi e che possono poi essere applicate alla vita di tutti i giorni. Banalmente: rispettare chi è diversx da noi, quellx stranx, quellx che non si adattano, chi è queer insomma, costruendo rapporti. Da una sterile distanza teorica non si può capire ed accogliere la diversità.
E negli spazi occupati, quelli che fanno politica ogni giorno, soprattutto in Italia, come vi sembra la situazione riguardo l'inclusività, o semplicemente la presenza di determinate riflessioni? C'è una mancanza che vorreste andare a colmare? Tanti spazi occupati fanno le stesse riflessioni, non c'è nessuna mancanza che abbiamo la presunzione di voler colmare. È necessario comunque allargare il più possibile il discorso e la consapevolezza intorno ai temi del sessismo, del razzismo, del fascismo e della violenza di genere, e trattarli insieme, in una prospettiva il più possibile intersezionale. Si tende sempre a pensare che queste discriminazioni si esprimano solo in grandi manifestazioni di intolleranza, laddove in verità i comportamenti quotidiani, il linguaggio e le piccole azioni sono inconsapevolmente imbevuti e istruiti da un sistema discriminante e violento. Ci inseriamo dunque all'interno di una lunga storia di pratiche e riflessioni fatte da diverse realtà in giro per il mondo. Le pratiche che abbiamo elaborato non le abbiamo inventate noi, le abbiamo mutuate adattandole alle nostre esigenze e ai nostri desideri. Il dialogo con chi si sbatte da molto prima di noi su queste questioni è necessario, anche per sottolineare il fatto che siamo in tantx a volere che le cose cambino.
La formula è quella di abbinare festa e dibattiti, che magari a qualcuno potrebbe fare storcere il naso. Pensate che sia la strada giusta? Effettivamente la prima serata ha avuto un successo di pubblico inaspettato. Ce lo aspettavamo perché la serata era una bomba! Per quanto possa sembrare che il momento del dibattito e quello del concerto siano separati e inconciliabili, di fatto sono complementari. Il successo di partecipazione alla prima serata dimostra proprio questo: le persone vogliono nutrirsi a livello culturale e al contempo divertirsi. Noi sentivamo un bisogno e ci siamo accorti che questo era condiviso.
Quali sono le realtà che sentite più vicine, anche all'estero? La prossima serata per esempio sarà uno showcase con il collettivo Discwoman. Sin dall’ingresso, abbiamo cominciato ad apporre una serie di timbri che vanno ad identificare il nostro pensiero nei confronti delle tematiche che trattiamo come laboratorio: "siamo frocissime", "macho free zone", "no means no" sono solo alcuni degli slogan che abbiamo adottato da alcuni collettivi transfemministi di Bologna. Siamo vicinx a tutte quelle che pensano che la produzione culturale sia un campo di lotta, come Guerrilla Girls, Lesbians and Gays Support the Migrants, SomMovimentonazioAnale e molte altre... ma mai a sufficienza! Discwoman è sicuramente un esempio per quanto riguarda le pratiche di confronto con il razzismo, l'omofobia e l'attivismo in campo musicale.
Ci date qualche anticipazione su cosa aspettarci per il futuro? L'8 aprile facciamo un evento dal titolo "Tattoo Rise The Difference”: è un benefit creato per supportare persone transessuali, travestite, transgender e genderqueer. Nello specifico finanzieremo il progetto Rise The Difference, che prevede l’apertura di una casa per rifugiati e richiedenti asilo LGBTI a cura del MIT - Movimento Identità Transessuale di Bologna. Per il resto, basta venire il martedì alle 19 in assemblea, è aperta a tuttx. Nasce tutto lì.
Per sapere di più sul laboratorio etero-dissidente e transfemminista di Macao visita il sito.
Circa cinque anni fa, il DJ londinese Oneman aveva un problema ricorrente. Dopo aver provato lo Xanax per la prima volta, "mi sono trovato a chiedere a tutti dove lo potessi trovare a Londra – era un incubo a quei tempi in questo paese", racconta oggi, al telefono. "Alla fine ho trovato qualcuno che ce l'aveva, e continuavo a tornarci. Prendevo circa due barre al giorno a quel punto" – dove una "barra" sarebbe una pasticca da 2mg – "una al pomeriggio e una alla sera. Ho cominciato a vivere di notte; non volevo mai che fosse giorno, perché così la gente non mi dava fastidio e potevo continuare a prendere droghe e mixare in camera mia".
Da quel punto la sua dipendenza da Xanax è durata quattro anni ed è culminata in un soggiorno in rehab l'anno scorso. Di recente, ha condiviso le sue esperienze con questa droga in alcuni tweet, ora eliminati. Dopo la morte di Lil Peep per overdose accidentale di Xanax e fentanyl e dopo che il rapper Lil Xan ha smesso con le pillole da cui ha preso il nome, Oneman spera di ispirare un dibattito sull'impatto negativo di questa droga. Oltre che con lui, ho parlato anche a una nuova generazione di musicisti inglesi che si collocano nell'intersezione tra l'utilizzo di questa droga, il suo rapporto con un certo tipo di rap e la sua popolarità estetica online. E queste conversazioni hanno messo in chiaro che questo dibattito non è soltanto attuale ma è anche necessario.
Siamo chiari, lo Xanax – che sarebbe il nome commerciale della medicina ansiolitica Alprazolam – si può prendere con moderazione dietro ricetta. Per quanto Oneman non abbia dubbi che alcune persone lo prendano alla luce del sole, non si trattava del suo caso. "Non ho mai sofferto di ansia o ansia sociale", mi dice. “Non ero il tipo di persona che aveva bisogno di una droga come questa, ma era una bella sensazione. Era come una coperta morbida e calda e mi piaceva molto – non posso spiegarlo meglio di così, ma ci sono rimasto sotto subito. Penso che uno dei motivi per cui lo presi fosse che molta juke music e Chicago rap dei tempi facevano riferimento allo Xanax – Lil Durk, Chief Keef, Rashad. Non avevo alcun motivo per prenderlo a parte la musica che ascoltavo; volevo capire com'era, e penso che lo stesso valga per molte altre persone".
La sua premessa è di quelle complicate. Chiunque abbia dei genitori che hanno analizzato con aria preoccupata i titoli dei giornali sulle morti ai festival e nei locali conosce i collegamenti che tanta gente fa tra musica e droga. Abbiamo chiesto a scienziati e ricercatori perché alcuni generi musicali sembrano andare così d'accordo con pasticche, MDMA o erba. Oneman cita il rap, che da tempo ispira terrori sensazionalistici riguardo ai luoghi in cui la festa, lo spaccio, la pelle nera e la criminalità si incrociano. Fin dalla paranoia di Tipper Gore sull'erba nei testi a molly e Percocet di Future e al ‘Soundcloud rap’, le droghe hanno (come è successo per il rock e, prima di allora, per il blues) accompagnato l'opinione pubblica di questo genere in tutto il suo percorso.
Parlando con Billboard magazine l'anno scorso, Vic Mensa rifletteva su come quel trend si sia recentemente manifestato in un legame tra farmaci e hip-hop. “A questo punto, mi sembra che la relazione tra hip-hop e salute mentale sia diventato molto evidente quando si parla di depressione e automedicazione, ma è anche stranamente glorificato visto che molti artisti prendono pillole di Xanax su Instagram. Tipo, nelle foto. E hanno creato un'intera scena attorno ai farmaci. Non è soltanto un pezzo della musica, ne è la spina dorsale, la forza che spinge l'immagine della musica".
E così lo ‘Xanax rap’ si è trasformato in un sottogenere a sé stante, con annessa estetica che ha trovato terreno fertile in UK tra collettivi come 616/ DVL GNG, Reservoir e 237. Come racconta il 22enne Sha Rez, membro di Reservoir e 237: “Se vado in studio non lo troverò per forza lì, ma se vai a un concerto o roba del genere, probabilmente ci sarà qualcuno con un po' di Xan addosso. Per alcune persone è ricreativo, ma per altre no. Lo usano per sfuggire o per affrontare i propri problemi”. Pensa che ci sia una componente estetica in ciò? "Ho visto gente prenderlo ogni giorno in un modo che è sicuramente non sano; ci sono persone che si mostrano mentre se lo calano sulle storie di Insta, roba del genere. Li prendono come se non facessero niente, ma sappiamo tutti che se lo prendi tutti i giorni non lo fai proprio per divertimento, o no?"
Kish, 21 anni, altro membro di Reservoir e 237, concorda. "Penso che sia naturalmente una questione estetica a un certo livello per via di come è diventata famosa: attraverso la musica. Ma siccome è una droga ha degli effetti sulle persone. Per quanto sia una scelta estetica, allo stesso tempo, una volta che sai che effetto ha questa droga e che cosa può farti diventa un rapporto più personale. Non penso che si possa stabilire se la scelta è estetica o no una volta che uno c'è dentro, ma penso che l'estetica giochi un ruolo importante in come la si assume".
Il mese scorso, il Guardian ha rivelato che il Regno Unito ora rappresenta il 22 percento del mercato di Xanax mondiale sul dark web, scatenando una serie di allarmi da parte di dottori, consulenti giovanili e deputati. Come l'alcol, lo Xanax è un depressore del sistema nervoso centrale. È stato scritto abbastanza recentemente sui sui effetti, ma la cosa principale da considerare è come si sia visto una enorme crescita nelle vendite di sottomarche e imitazioni online – alcune vendute a cifre tra l'una e le due sterline per barretta.
Questo fa emergere due principali aree di preoccupazione. Una è che le pillole contraffatte, che potrebbero contenere dosaggi maggiori di alprazolam o altre sostanze chimiche sconosciute come il fentanyl, spesso letale, saturano il mercato. L'altra deriva dal mescolare questa droga con altre droghe e alcol, un comportamento che spesso comporta blackout molto pericolosi che possono comportare perdite di memoria e durare per giorni. Sha Rez mi dice di aver smesso di assumere le pastiglie a causa di esperienze di questo tipo, mentre Oneman racconta di come un giorno si è svegliato dopo un blackout causato da pillole e alcol e ha scoperto di aver assunto nove pastiglie di cui non aveva assolutamente alcun ricordo. Il pericolo di questi blackout non è soltanto quello di farsi del male o di fare qualcosa di stupido e non ricordarselo, ma il fatto che queste amnesie portano all'assunzione di doppie dosi di pillole senza nemmeno accorgersene – una pratica che può risultare letale.
Per Oneman, la sensazione appiccicosa e rallentata che dava questa droga si traduceva in una maggiore fluidità come DJ. "Mi manteneva isolato in studio e non facevo altro che suonare. Ho cominciato a usare Serato, che mi ha aperto la mente a nuove tecniche per mixare – arrivavo ovunque con la musica, e lo Xanax mi ha dato tantissima sicurezza in me stesso per continuare a fare quella roba. Specialmente se lo mescoli con l'alcol, non hai paura di niente". Se sembra che stia parlando bene dell'effetto della droga sulla sua musica, è importante evidenziare la distinzione tra quello che vogliamo dagli artisti come persone e come musicisti: le droghe sono sempre accettate fintanto che la musica continua ad arrivare. Pensa che l'abuso di sostanze sia una pratica accettata nell'industria musicale? "Certo, senza dubbio. Non mi viene in mente un altro lavoro in cui bere e drogarsi sia totalmente accettabile mentre sei letteralmente al lavoro".
L'industria musicale è stata criticata negli ultimi anni per aver fallito nel proteggere la salute mentale degli artisti che ne rappresentano il nucleo – con la pressione di tour estenuanti, impegno costante sui social media e costanti uscite discografiche un alto livello di abuso di sostanze è dato per scontato. In questo ambiente, il tipo di droga potrebbe cambiare ma la causa principale non cambia da decenni. Il professor Malcolm Lader, professore emerito di psicofarmacologia clinica al King’s College di Londra, parla chiaramente dei pericoli di questa droga: "nonostante si possa utilizzare in maniera intermittente, c'è il rischio che si diventi utilizzatori abituali perché è una droga che dà dipendenza oltre a prestarsi all'abuso. Alcune persone possono smettere quando vogliono, nel senso che possono permettersi di prenderla in maniera occasionale. Altre diventano rapidamente dipendenti e incorrono in orribili sindromi da astinenza se provano a smettere – in particolare se lo fanno di colpo".
“Usando dosi elevate con regolarità", continua Lader, "si incorre in confusione, smemoratezza, tutt'un altro tipo di sintomi dovuto alla tossicità e all'effetto velenoso dell'accumulazione di Xanax, e si tratta di un effetto molto marcato, ed è molto probabile che lo Xanax causi questo tipo di problema".
Cosa fare quindi? Come possiamo affrontare al meglio questa crisi latente senza abbandonarci all'isteria? Lader confida che l'istruzione – ufficiale e non – sia la cosa più importante. La cosa più importante è far capire alle persone quali sono i pericoli delle barrette contraffatte e di quelle legali assunte all'eccesso. "La credenza diffusa è che queste droghe possano avere sì un effetto, ma non pericoloso. La gente deve sapere che c'è un rischio nel prenderle. Questa è la cosa più importante. Non si possono vietare, perché non è una sostanza illegale. Sui social media si parla tantissimo dei pro e contro di queste medicine, e speriamo che gradualmente si diffonda la nozione che il pericolo c'è – come dire, nessuno ti dà niente per niente".
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.
Sfondo scuro, un ritratto del rapper in bianco e nero, alcuni simboli circolari sulle tonalità del viola e la sagoma di un dinosauro. Questo è tutto quello che si vede nei post Instagram condivisi da Gué Pequeno, Fabri Fibra, Marracash, Ensi, Salmo e Clementino alcune ore fa. In sottofondo, un frammento di beat dalle basse assassine. Tutto fa pensare a una posse track all-star che potrebbe spaccare il mondo del rap in Italia.
Il riferimento al T-Rex (probabile titolo della canzone?) è semplice da collocare: i sei appartengono a una generazione di rapper precedente alla Nuova Scuola, e probabilmente vorranno dimostrare che anche se qualcuno li chiama già dinosauri hanno ancora denti affilati. Quindi niente, per ora restiamo in attesa di notizie e teniamo le antenne ben alzate.
Ho ascoltato per la prima volta L'Amore e la Violenza vol. II in un bar di Piazza della Repubblica, assieme alla mia ragazza che vive a Londra (io vivo a Roma). " Sei pronta?" "Sì, dammi solo cinque minuti, il tempo di tornare a casa", "Va bene, io intanto cerco un locale con il wi-fi per scaricare le canzoni": ho trovato il bar, ho preso un caffè (buonissimo) e dei biscotti ai cereali (pessimi). "Ci sei?" "Sì, ci sono, iniziamo pure, sono molto emozionato": è la prima volta che i Baustelle fanno uscire un disco a così breve distanza da un altro (il precedente volume de L'amore e la Violenza è uscito a gennaio 2017), le aspettative sono altissime come sempre, perché senza di loro adesso io non starei materialmente facendo quello che sto facendo.
La prima canzone è una strumentale, la seconda un pezzo già edito: "Veronica n.2", il primo singolo del disco, è una canzone madida e urgente come una dedica, e i Baustelle l'hanno suonata a più riprese anche durante lo scorso tour; unica ma significativa modifica al testo, rispetto alla versione che veniva eseguita dal vivo, è che "non ne so nulla degli affari tuoi... di cosa insegna tua madre" diventa, più blandamente, "che cosa pensa tua madre".
La terza canzone è "Lei malgrado te", subito destinata ad imporsi come una delle mie preferite: "tutto mi parla di te, perfino la tua assenza mi fa compagnia". Anche questo disco è pieno di fantasmi di carne: "i nostri corpi fuorilegge e il dolore saranno seppelliti qui", canta Francesco in "Jesse James e Billy Kid", e se cito a più riprese dai testi è perché mai come in questo disco i Baustelle sono da leggere, da apprezzare per una scrittura venata di un intimismo raccolto e confortevole, da cameretta, o perlomeno da camera d'albergo - tutte le canzoni del disco sono state concepite durante le pause tra un concerto e l'altro: e anche questa è una novità nel metodo compositivo dei nostri, da sempre abituati al cesello dei tempi lunghi.
"Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla": se L'amore e la Violenza vol. II fosse un romanzo, in esergo presenterebbe questa notazione di Cesare Pavese tratta da Il mestiere di vivere. Il nono pezzo, "L'amore è negativo", è una vera e propria summa di tantissime cose (c'è dentro Gaber: "La parola io è uno strano grido che nasconde invano la paura di non essere nessuno", a cui fa eco la notazione di Carlo Emilio Gadda secondo il quale l'io è il pidocchio del pensiero) e il manifesto del disco: l'amore, l'amore nella sua forma più alta del Cristo umiliato sulla croce per ascendere in cielo, non è esaltazione dell'io, ma sua soppressione e negazione (appunto: è negativo, di segno meno); è gioire perché il proprio sé confluisce in quello dell'amato, spalancandosi totalmente alla sua presenza ("senza altre strane deviazioni, che se anche il fiume le potesse avere andrebbe sempre al mare": di nuovo Gaber).
Mai come in questo disco il canto di Francesco è espressivo, modulato, a un tempo sicuro e tremulo: è in "Baby" che ci viene consegnato il ritratto più bello e straziante di una solitudine che possiamo solo supporre autobiografica, narrataci da una voce nuda, adamitica, sussurrata: "Vedi? Non sono triste come ti aspettavi, non sono gli altri uomini che amavi, e dammi tempo e non mi abbandonare perché senza di te non so che fare".
Appunto, senza di te non so che fare: è questo, il tema portante del disco. Che cosa si fa quando una storia d'amore finisce? Niente, si muore. "Perdere Giovanna" ci parla di una libertà ritrovata dopo la fine di una relazione ("fumare, drogarsi, uscire a bere con un'altra donna, cominciare da capo, immaginare come sarà coniugato al presente il verbo amare"): ma cosa se ne fa una persona della libertà di fare tutto, quando non le interessa più di niente? "Le facevo da mangiare e quando era lontana restavo ad aspettare, e il gelsomino mi chiedeva l'acqua ma io non l'ascoltavo, cantavo a bocca chiusa". Degno di nota il finale della canzone, suggellata da una specie di slam poetry un po' sghembo: "cancellare in un colpo solo tutti i suoi messaggi per un errore madornale".
"Caraibi" risale a vent'anni fa, narra la fine della prima storia d'amore di Francesco e degli attacchi di panico che la seguirono come neri corollari: "Help that boy! Boy, Poor boy, save the boy...", "Tazebao" è una sorta di prosecuzione di "Eurofestival" del disco precedente, così come la strumentale "La musica elettronica" fa da contraltare a "La musica sinfonica" del primo volume.
Se dovessi racchiudere questo disco in un'immagine, mi limiterei a suggerire che in queste canzoni ci sono ben tre riferimenti al liquido seminale, disseminati in tre momenti diversi: e questo perché l'ingoio è un atto di violenza controllata, geometrica, precisa, che parte dal corpo di chi lo subisce per affondare in quello di chi lo pratica, chiropratica sentimentale, transustanziazione proibita, lo sperma che si fa sangue da accogliere e mescolare nel proprio. Chi scrive ne è ancora traumatizzato, per certi versi. L'amore e la violenza.
"Io gli darei un sei e mezzo, che dici?"
L'Amore e la Violenza vol. II è uscito oggi, venerdì 23 marzo, per Atlantic/Warner.
Ascolta L'Amore e la Violenza vol. II su Spotify:
TRACKLIST: 1. Violenza 2. Veronica, n.2 3. Lei malgrado te 4. Jesse James e Billy Kid 5. A proposito di lei 6. La musica elettronica 7. Baby 8. Tazebao 9. L’amore è negativo 10. Perdere Giovanna 11. Caraibi 12. Il minotauro di Borges
Esistono generi musicali brutti senza possibilità di redenzione?
Non lo so, ci pensavo recentemente e mi è venuto in mente l’electroswing, ma forse sono io che non lo conosco abbastanza bene, o forse non sono ancora uscite le cose giuste. È una banalità dire che esistono solo la musica buona e quella cattiva, e che c’è del buono in tutti i generi, ma io l’ho sempre pensata più o meno così.
Di sicuro uno dei generi peggio considerati nella storia recente è la gabber. Per via della sua natura estrema e dell’immaginario a essa correlato, è sempre stata guardata con superiorità da intenditori, raffinati e puristi del clubbing. Tuttora, quando si parla proprio di Gabber Eleganza, c’è chi mi dice “no no per carità, a quella serata non ci vengo neanche morto”.
A me la gabber diverte, piace, trovo abbia molto senso in particolari momenti della serata (magari non è la musica ideale da ascoltare a orario aperitivo) e soprattutto che abbia una natura genuina, strettamente collegata all’elemento primordiale insito in tutte le musiche da ballo - oltre a stimolare la mia fascinazione per quelle che sono tutte le musiche estreme. O forse sono solo un tamarro. Detto questo, credo si debba essere in grado di sfidare i propri limiti e non avere paura di niente, per quanto riguarda la musica. Trovo sempre entusiasmante, per esempio, quando un DJ a un certo punto del set aumenta i bpm superando quello che è canonicamente considerato il limite del buon gusto.
Di sicuro della gabber non ha paura Alberto Guerrini, che dal 2011 porta avanti il sopracitato progetto Gabber Eleganza, che nasce innanzitutto come un blog volto a indagare gli aspetti soprattutto estetici della cultura gabber e post-rave, un archivio, una testimonianza.
A un certo punto ha cominciato a portare tutto questo anche offline, principalmente attraverso DJ set con un forte impatto anche visuale (The Hakke Show, con ballerini sul palco e bandiere sventolate fieramente), che sono riusciti nell’intento non facile di creare un ponte tra il mondo gabber e quello del clubbing contemporaneo, con esibizioni in festival come Club To Club o al Berghain.
Il dubbio che sollevava recentemente un mio amico però era: “ok la gabber, ma dove sta l’eleganza?” Intendeva che si sarebbero potute chiamare serate Gabber Revival, visto che fondamentalmente si trattava di set composti da pezzi classici, senza una reale differenza o passi avanti rispetto a quelli che sono i capisaldi del genere.
Ora Guerrini, con questo primo lavoro su Presto!? intitolato Never Sleep #1, risolve anche questo dubbio: i tre pezzi che compongono l’EP infatti usano la gabber soltanto come punto di partenza; ne prendono alcuni elementi, la destrutturano e vanno altrove, la reimmaginano in altri modi. Temo che questo paragone sarà presto abusato in tutte le recensioni e i discorsi sul disco, ma quello che fa Guerrini con la gabber ricorda da vicino quello che Lorenzo Senni ha fatto con la trance, e credo che il paragone mi verrebbe in mente anche se l’EP non fosse pubblicato proprio dall’etichetta di Lorenzo.
Il risultato finale è molto riuscito e affascinante, sicuramente si presta meno a fare impazzire un dancefloor alle sei del mattino, ma probabilmente sarebbe stato poco interessante e poco originale limitarsi a riproporre un banale aggiornamento del verbo, svolto seguendo il manuale di istruzioni del genere. Qualche purista della gabber magari storcerà il naso, e dirà - probabilmente a ragione - che “questa non è gabber”: effettivamente le cose prendono una strada diversa, ma è una strada più interessante, forse più raffinata ma non meno stimolante. E se fino a ieri il progetto avrebbe anche potuto chiamarsi Gabber Revival, ora la seconda parte del nome acquista un senso nuovo. Benvenuta eleganza.
Never Sleep #1 esce oggi, venerdì 23 marzo, per Presto!?.
Ascolta Never Sleep #1 su Spotify:
TRACKLIST: 1. Junonica 2. Never Sleep 3. Total Football
"Io sono zarro, zarro, zarro Con tutto questo oro giallo, giallo, giallo" — Club Dogo, "Zarro!", 2014.
Ci hanno messo un sacco di tempo, Guè e Jake, a intitolare un pezzo a quell'aggettivo che generazioni di ragazzi, più o meno di periferia e più o meno in mezzo a intrallazzi vari, hanno usato per definirsi. Lo hanno fatto quattro anni fa, un momento prima che il rap italiano cominciasse quel processo di metamorfosi che lo avrebbe reso, sulla scia di ciò che accadeva nel resto del mondo, la cultura musicale che sta definendo questo decennio. Lo zarro che quattro anni fa veniva rimbalzato alle porte dei club oggi appoggia le suole delle sue scarpe su tappeti rossi. Entra in uffici di vetro e metallo e appone firme su contratti che lo rendono ricco. Ha addosso gli occhi della gente, affascinati dal luccichio del ghiaccio che ha addosso.
"Per l 'ultimo ballo tra tutti tu hai scelto lo zarro", diceva l'anno scorso Vegas Jones in "Pelle toscana". "Lei sa che sono uno zarro", dice oggi in "Mamacita", su cui rappa proprio assieme a Guè Pequeno. Tra i rapper della sua generazione, Vegas è forse quello che più incarna quel sistema di valori in cui si fondono realness, tecnica, audacia e ostentazione. Il suo nuovo album Bellaria è una celebrazione contemporanea di questo approccio alla vita, tanto genuina e spontanea quanto cerebrale e ragionata.
La storia della sua vita è stata già ampiamente raccontata: lavori umili, poi un lavoro della madonna, poi la chiamata di Honiro, poi l'esplosione culminata in Chic Nisello. Questo nuovo capitolo della sua carriera è come teso tra due forze: da un lato l'orgoglio nei confronti del proprio passato, dall'altro l'assalto a un futuro tanto eccitante quanto incerto. E il fulcro su cui si appoggia questa immaginaria tavola del tempo è proprio la sua zarraggine accorata, che si esprime tanto a schiaffi quanto a carezze. I primi, in forma testuale, a chi "non sa nemmeno che cosa sia il micro", a chi parla di trap a sproposito, agli infami; le seconde alle cose che ama, e quindi il linguaggio, la tecnica e una ragazza. Quella che lo ha scelto proprio perché zarro.
Abbiamo parlato con Vegas in un barbiere in zona Garibaldi a Milano dei testi delle canzoni del suo nuovo album, di soldi e integrità, di melodia e di pop italiano. Qua sotto trovate la nostra intervista, mentre potete ascoltare Bellaria per intero su tutti i servizi di streaming già da subito. Qua sotto lo trovate su Spotify.
Noisey: Come ti sei rapportato, crescendo, col concetto di melodia? Lungo il corso della tua carriera si è visto pian piano evolversi in te una sensibilità di questo tipo, ma è interessante secondo me capire come ti ci si approcciato partendo da un contesto molto tradizionale. Vegas Jones: Da come è sottinteso nella tua domanda, non ho mai abbandonato il lato rap. Non è scontato, tantissima gente non rappa più al giorno d'oggi. Non che sia un male, ma io preferisco rappare. Sto ancora coltivando delle tecniche, sto ancora studiando e voglio migliorarmi ancora. La melodia è arrivata nel momento in cui ho smesso di ascoltare solo roba da Golden Age, qualche anno fa. Era tutta roba dritta, cassa e rullante, e anche i vecchi ritornelli delle mie ispirazioni americane erano tutti rappati alla fine. Però ho sempre fatto ritornelli in cui prendevo il rap e lo mettevo in una melodia. Sempre. Per quanto all'inizio fosse roba più vicina al pop italiano, diciamolo.
"Tantissima gente non rappa più al giorno d'oggi", mi stai dicendo. Perché è più difficile. Il mio disco c'ha mille parole, ci sono dischi che ne hanno duecento.
E infatti credo che la tua figura possa essere letta proprio come una coniugazione di questi due elementi. Rap, per come lo si è sempre inteso tradizionalmente, e sensibilità melodica. Infatti è proprio quello che mi contraddistingue. Avrei potuto fare un disco tutto melodia, sai? Tipo, "Bubble Bobble" è del 2015. Solo che era un pezzo troppo fresco. Non l'ho messo in Chic Nisello perché era troppo avanti ed era fuori da quel trip, secondo me. Poi naturalmente l'abbiamo rivisto e rilavorato ma sono tre anni che gira, quel ritornello. Due estati ci ho fatto, ad ascoltarlo. E ho provini che non ho messo su questo disco perché reputo siano di un livello superiore rispetto al lavoro che è stato fatto. Mi piace dare il giusto tempo a tutto quello che faccio.
In "Malibu" parli di te stesso come di "Quello che ha baciato il fondo e dopo l'ha tradito". Ed è un concetto interessante da spiegre, credo. Mi sono fatto affascinare, assuefare dal fondo. Quando ho fatto uscire Oro nero ero davvero carico, avevo aspettative che si sono rivelate più alte rispetto a ciò che è successo effettivamente. Avevo fatto tanta roba melodica già allora. Io stesso non me lo ricordavo, sono andato a riascoltarmelo un paio di settimane fa. Se fossi stato un altro magari la cosa sarebbe andata, probabilmente non era il mio destino. Lì ho capito tante cose. Ho deciso di ripartire dalle due tracce che erano piaciute di più alla gente, le due in cui ero andato rappando. "Onesto" e "Motorello". Ho sfiorato il fondo, ho capito quello di cui dovevo parlare. E poi l'ho tradito.
Mi ero fatto un mini-viaggione sul fatto che con quel "tradito" stessi parlando di integrità, in relazione allo status che hai raggiunto. Perché i soldi e la major cambiano tutto, no? Se pensi alla mia vita privata puoi anche pensarla in questo modo. Ho fatto tanti lavori di merda mentre facevo musica e qualsiasi lavoro, per quanto possa essere di merda, è sempre dignitoso. Quindi lo sfiori, lo baci, il fondo. Non lo tocchi. Mentre ero all'autolavaggio che lavavo le macchine, dieci ore sotto al sole a quaranta euro al giorno in nero, mi dicevo "Vabbè, ok. Mi sto mettendo via i soldi, ma è per fare musica. Sto proprio raschiando per arrivare da qualche parte".
"La tua offerta la declino, preferirei essere ricco", dici in "Ice". Stiamo parlando della stessa cosa? Certo. Preferisco fare come dico io. Tanto quello che mi dici tu non mi fa diventare come voglio diventare io. È tutto collegato.
Mi sembra che tu sia uno dei pochi, in Italia a usare "trap" nel suo senso proprio, di "trappola". E lo stesso vale per "bando". Qual è per te il valore di questi termini? Non è scontato. Magari senti i Migos che dicono "Bando, bando, bando". E dici "Boh, lo dico pure io". Ci sta, succede sia in America che in Italia. Poi in realtà non combini niente, nella vita. Conta che tutto quello che dico io è molto naturale e spontaneo: io e Boston George abbiamo vissuto in una casa che era un bando a tutti gli effetti, è stata la nostra prima abitazione. Ed è di questo che parlo in "Cristo". Lì dentro abbiamo vissuto tutto quello che è trap, e ci ha segnati. Lo avevo detto in "Burberry Freestyle": "Il bando non ci lascerà mai in pace, ho fatto un patto come con il diablo". Ogni volta ritorna. Ci guardiamo, come se fossimo in una spirale, e ci diciamo "Minchia, ma ancora 'sto cazzo di bando? Dobbiamo scrollarcelo di dosso". La prima era una crack house. Poi siamo passati al bando. E la casa nuova in cui stiamo è la trap house. Stiamo scalando, capito? Devo dirti che sono contento che si parli della parola "trappola" perché sappiamo tutti e due che non tutti sanno bene dove andare a parare. C'è chi dice che la trap non sia rap, ma insomma: la trap è il rap. Quello stai facendo. I Club Dogo facevano già trap, anche solo come argomentazioni. Ma ora sono cambiate le sonorità ed è giusto che si usi un termine per definire questa wave.
Nelle tue parole torna spesso il concetto di zarraggine. E mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi della strada che ha fatto lo zarro, da quando era considerato uno sfigato di periferia fino ad ora, che affascina anche chi con quel mondo non ha mai avuto niente a che fare. Penso che sia moda, una conseguenza di tutto il movimento. Dieci anni fa i rapper si vestivano con i carcani. Non erano schicchettoni come possiamo essere noi adesso. Siamo sempre quelli con le scarpe più belle, con i vestiti più belli, i gioielli, le macchine. Ma ti dirò, io ho tirato fuori dall'armadio robe che mi ero preso con le paghette quando avevo quattordici anni. Avevo già il borsello e il cappello di Gucci, la sciarpa di Burberry. Da noi c'è sempre stata questa cosa. Quando avevi due soldi da spendere ti prendevi la tua cintura di Gucci, tipo a Natale, eri preso bene e ti gasavi con i tuoi amici. Oggi mi gaso alla stessa maniera, non è cambiato niente. Il contesto si è adattato a quello che già vivevo. Adesso se hai i pantaloni larghi sei automaticamente underground, non funzioni, per alcuni manco esisti. Il rapper deve essere in tiro, deve essere quasi più vestito bene che fare buona musica.
Chiudere l'album con un pezzo d'amore, "Lisha", invece che con una dichiarazione d'intenti su ciò che fai è una scelta molto forte. Voglio che passi questa cosa: parlo anche di donne di facili costumi, di quelle che si aggrappano, perché ci sono. Sei un artista, hai le tue groupie e le tue fan. Ma è giusto dare spazio all'amore e farsi un viaggio anche se fai trap. "Lisha" In Oro nero c'era "Sogni d'oro", e nel ritornello dicevo "Pelle toscana e Cartier, come sei liscia". E in queste tre canzoni ho raccontato la stessa musa.
Dire in un pezzo "Questa messa scena trap mi fa schifo / Non sanno nemmeno che cosa sia il micro" significa voler lanciare un messaggio molto chiaro. Non ho neanche detto "scena". Ho detto "messa in scena". Tanta gente parla di cose che non vive. Io, sinceramente, sono uno di quelli che dice sempre il vero. Mi sarebbe piaciuto vivere una situazione di degrado in cui sparavo e roba simile ma no, non è successo. Quindi fantastico, non lo dico. La parte fondamentale di quella barra, però, è "Non per altro". Io non ce l'ho con chi fa trap: però almeno fai il tuo mestiere, impara a rappare. Lo sai benissimo, in America tutti san rappare. C'è chi è più tecnico o meno tecnico ma comunque, p**** diaz, quando senti uno che trappa ti accorgi che ha tecnica. Impara cos'è il microfono e poi dì tutto quello che vuoi. Sennò stai sprecando un beat che potrebbe usare un altro.
Abbiamo chiesto ai nostri follower su Instagram di farti un paio di domande. Ale_whiteoff_se ti chiede: "Perché hai lasciato un lavoro con un buono stipendio e hai deciso di fare il rapper per tutta la vita? Nessuno ti assicura che potrai farlo per sempre". Perché mi piace rischiare. Mi piaceva molto la cosa che facevo, quando l'ho mollata. Sarebbe stata il mio destino. Non ho piani B, ma vorrei che quella roba fosse un piano A+. Mi piacerebbe, un giorno, poter lavorare con le macchine mentre faccio musica. Quel mondo mi piace molto, è la mia passione. Quando mi ha chiamato Honiro e mi hanno detto "Ok, ti prendiamo e puoi fare carriera" io ci ho pensato bene. Lavoravo su auto di lusso, andavo al mattino al lavoro e dicevo "Minchia, che figata". Non era una presa male, era un bella roba particolare. Sono i lavori belli! E Honiro mi ha detto di andare a Roma. E ho deciso di seguire la musica. Non avrò mai niente da perdere.
Valvonautag ti chiede: "In una tua intervista ho sentito props agli Oro Grezzo, dicendo come per te è importante che un artista sia real. Credi che sia più importante per un artista essere real o essere artisticamente valido?" È quello che ti dicevo prima: viene prima l'artisticamente valido, e poi se sei real va bene. Puoi anche essere uno fortissimo a rappare che dice un sacco di minchiate, io non lo saprò mai perché non sono te. Però non posso dirti niente perché sai fare il tuo mestiere. Ma solitamente chi è real sa anche rappare bene, le due cose vanno insieme di solito. Loro sono un esempio, secondo me verranno capiti tra un anno o due perché sono troppo oltre. Guarda i Migos, ci hanno messo quattro o cinque anni prima di fare Culture.
E poi continua: "Credi che le etichette facciano bene al rap? Credi che siano necessarie per mantenere la scena pulita o piuttosto che siano un ostacolo alla creatività e alla libertà degli artisti?" No. Una volta c'era questa idea cui le etichette ti portavano a essere considerato come venduto e commerciale. Le etichette sono fatte per valorizzare gli artisti, non è che prendi un artista e lo snaturi. Universal mi prende perché faccio la mia roba e perché ho i miei fan. Il mercato oggi è molto più di cultura rispetto a una volta, ci si appassiona al trip di un artista. L'obiettivo è fare arrivare il tuo punto di vista a tutti quanti.
Che poi puoi essere accessibile anche senza snaturarti. Per me si sente benissimo in pezzi come "Malibu", "Mamacita" e "Drive By". Quello che secondo me manca ancora all'Italia, nonostante abbiamo fatto passi da gigante a livello di cultura rap e hip-hop negli ultimi anni, è una percezione diversa del rapper. Passano pezzi in radio, ma non ancora a stecca come in America. E non esistono ancora programmi TV che invitino i rapper e li trattino come un artista italiano va trattato. Guarda la Pausini, esce il disco e ne parlano tutti per tre settimane.
Vero. Ci sarebbe bisogno di programmi TV in cui il rapper non è la macchietta, il rapper personaggio, ma è solo se stesso. Sì, infatti. "Guarda, è arrivato il rapper". Un rapper deve essere iimportante quanto un attore o un cantante. Noi siamo cantautori. Il 90% del cantautorato italiano oggi è rap. Parliamo delle cose che viviamo, alla maniera nostra. Ogni anno facciamo passi da gigante a livello di pubblico, e anche noi riusciremo a far capire il nostro messaggio in maniera tranquilla. Bella chiara, ma con le nostre parole e il nostro sound, cambiando idea e mentalità alla gente. È quello il vero obiettivo.
Il mondo del metallo è in subbuglio (?) per l’annuncio, poche settimane fa, del Rock The Castle, festival che vorrebbe riprendere la tradizione dell’ormai disperso Gods Of Metal, ma in una cornice nettamente migliore e più curata, quella del castello scaligero di Villafranca (VR). Negli anni nel parco del castello si sono già avvicendati nomi di rilievo con le chitarrone, dai Rammstein nell’ormai lontano 2010 a Mariolino Manson giusto la scorsa stagione, e la nascita di un nuovo festival estivo in tutto e per tutto, seppur di dimensioni contenute, speriamo possa almeno parzialmente sopperire alle lacune estive italiane in ambito estremo e non rimanga l’ennesimo progetto abbandonato dopo poche edizioni. Di fatto, ciò che sicuramente di buono ha portato il Rock The Castle è una scusa per fare due chiacchiere con Dave Mustaine, visto che i suoi Megadeth saranno headliner della seconda giornata dell’evento - oltre che del Rock In Roma qualche settimana prima.
Le premesse erano stringenti: solo quattro testate ammesse alla sessione telefonica, dieci minuti per ciascuna telefonata, perché Mustaine è Mustaine e fare interviste insomma un po’ gli pesa. Da cui, ok la domanda di rito sui prossimi concerti, ma poi, per non avere la solita intervista-pezza con la rockstar sessantenne di turno (non me ne voglia il buon Dave se mai leggerà questa intervista), mi preparo una lista di nomi da leggere, cui chiederò al frontman dei Megadeth di rispondere con le prime parole che gli verranno in mente. Un giochino vecchio come il mondo, che magari gli strappa pure un sorriso.
Arrivo tutto pronto e sicuro di me davanti a un personaggio del calibro di Megadave e ovviamente nulla va secondo i piani.
Noisey: Ciao Dave, so che abbiamo solo pochi minuti, per cui andrò dritto al dunque: prima di tutto volevo chiederti come ti senti a festeggiare i trentacinque anni dei Megadeth venendo a suonare da noi nel parco di un castello medievale. Dave Mustaine: Mi sento benissimo! Sarà un concerto con un umore ancora più “back to the roots”.
Conosci il posto? Avete già suonato allo scaligero? È possibile. Abbiamo avuto la fortuna di suonare in tantissimi posti in Italia durante la nostra carriera, quindi è possibile che siamo già passati di lì, ma dovremmo chiedere a David [Ellefson, storico bassista dei thrasher californiani], è lui che si ricorda meglio tutte queste cose.
Va bene, allora andiamo avanti. Visto che abbiamo poco tempo, ho preparato una sorta di gioco, ho qui una lista di nomi che ti vorrei leggere e cui ti chiederei di rispondere con la prima cosa che ti viene in mente. Se la cosa non ti mette a tuo agio dimmelo. Uhm… Sei riuscito ad avere dieci minuti per farmi un’intervista, e tu vuoi fare un gioco? Per me non c’è problema, eh, però sai, ho una band planetaria, uno spettacolo radiofonico di grande successo, un’ottima produzione di birre, stiamo lavorando a un nuovo disco, e tu vuoi fare un gioco?
Il fatto è che io non scrivo per una rivista metal, ma per un sito che parla di musica in generale. È possibile che molti dei nostri lettori non conoscano i Megadeth, o almeno non li conoscano approfonditamente, per cui mi sarebbe piaciuto evitare la solita chiacchierata standard e provare ad offrire anche a un pubblico che non vi segue qualcosa di diverso e più dinamico. Ah, ok, dai allora, partiamo.
Jeff Hanneman. Geniale.
Max Cavalera. Un innovatore.
Hillary Clinton. [un lungo silenzio dall’altra parte erode sensibilmente i miei dieci minuti…] Uh. Preferirei non parlare di politica, appena parli di politica perdi la metà del tuo pubblico. Il mondo è cambiato, una volta sarei stato ben contento di parlare di queste cose, ma oggi non più. Risponderò solo ai nomi dei musicisti, voglio parlare solo di musica. Sorry buddy.
[Dall’autore di Killing Is My Business... And Business Is Good!, Peace Sells… But Who’s Buying? e United Abominations, titoli dalla vena polemica giusto appena accennata, speravo di ottenere qualcosa di più, ma Dave a quanto pare non vuole rischiare di perdere consensi e ho quindi virato su argomenti più neutri.]
D’accordo, rimaniamo pure in ambito musicale allora. Stai parlando ad un pubblico non avvezzo al thrash: quali sono le tue band preferite, ma che di solito non nomini per non fare brutta figura coi metallari? Quando non ascolto heavy mi dedico al jazz e alla classica, e a volte addirittura al pop. Ti direi i Crowded House e gli Aztec Camera. Ma è roba davvero… pop, inaspettata, non posso credere che all’epoca ti piacesse davvero quella merda Dave! Ci sono un sacco di canzoni così che mi piacciono in realtà, tipo “The Wild Boys” dei Duran Duran, o “Stand & Deliver” di Adam & The Ants, quella sì che è badass, ma anche “Bust A Move” di Young MC.
E in che rapporti sei col rap e con l’hip-hop? Ho visto che su Twitter hai fatto gli auguri ad Ice-T dicendo che gli devi una torta… Sì, sono molto schizzinoso sull’hip-hop, ma Ice-T è mio amico da una vita, ci siamo conosciuti davvero tanti, tanti, tanti anni fa. Saranno almeno venticinque anni. Mi ricordo quando ascoltai il suo primo disco, con un’intro cantata addirittura da Jello Biafra dei Dead Kennedys [in realtà “Shut Up, Be Happy” era sul terzo disco di Ice-T, ma poco importa]. Ricordo che pensai fosse un pezzo talmente bello, giusto, adatto come intro che lo usammo per aprire i concerti dei Megadeth per anni e anni. Recentemente ho avuto occasione di collaborare con lui su un brano dei Body Count, “Civil War”, che abbiamo anche suonato insieme ai Loudwire Music Awards.
Lontano dalle torte di compleanno, ma non troppo: visto che hai nominato la tua Megadethbeer, come mai una produzione di birra? È una cosa sempre più comune tra gli artisti metal, darsi agli alcolici, vi siete messi d’accordo? Amico, io sono legato alla birra perché ne bevo veramente tanta [ride]. No, seriamente, il fatto che un sacco di gente faccia della birra non significa affatto che quella birra poi sia buona. Gente che fa una birra, ci mette il proprio nome sopra e si aspetta che i fan la comprino così. Non va bene. C’è una band heavy in particolare - non faccio il nome, sai di chi sto parlando - che solo perché famosa ha fatto un vino, e quel vino faceva schifo [di preciso non so di chi stiamo parlando, visto che le band metal che producono vino ormai sono parecchie e io non mi sono mai fidato di nessuna di queste]. Non l’hanno fatto perché fosse un buon vino, l’hanno fatto solo per farci dei soldi, e non è così che funziona. I fan lo scoprono, lo capiscono. La nostra birra invece, devo dire, l’abbiamo trovata in fretta, ci abbiamo messo solo cinque settimane per realizzare la À Tout Le Monde, ma riceve ottimi consensi, abbiamo vinto pochi giorni fa la seconda medaglia d’oro in due anni [immagino che Dave si riferisca a questo, ma non trovo indicazioni relativamente ad una premiazione nel 2018] e tra poco più di un mese inizierà ad essere distribuita anche da voi in Italia. Sono molto emozionato, perché ogni volta che iniziamo ad essere distribuiti in un nuovo Paese per noi significa viaggiare, essere presenti. Indipendentemente dai concerti, intendo: andiamo nei beer shop, partecipiamo a eventi e cose del genere. A volte mi capita anche di fare il bartender per una serata, e i fan non sanno cosa pensare. Vedo gente perplessa che dice “oh, ma Dave Mustaine mi sta spillando una birra?”. Mi diverto un sacco.
Un’ultima domanda: negli ultimi anni un sacco di musicisti hanno pubblicato la propria biografia, e secondo me è solo questione di tempo prima che da questi libri inizino ad essere tratti dei film. Penso a cose come Control . Ci hai mai pensato? E, se sì, chi vorresti vedere come protagonista in una biopic su Dave Mustaine? Mmh. Beh, il mio libro è già pubblicato ed è un best-seller del New York Times, quindi per me non ci sarebbero problemi a discutere di un potenziale nuovo passo nella Dave Mustaine Saga. Però non saprei dirti, se facessimo un film, se vorrei che fosse un documentario o un film con attori veri e propri. In quel caso mi piacerebbe molto che fosse qualcuno cool come Gary Oldman, ma ha la mia età e sarebbe problematico, come farebbe a interpretarmi da ragazzo? Sicuramente una cosa che non vorrei è un film dove gli attori non ci assomigliassero o dove ci fossero delle incongruenze. Mi urta tantissimo quando in un film vedi un personaggio adulto con gli occhi azzurri e il bambino che interpreta lo stesso personaggio nello stesso film aveva gli occhi marroni. Dai cazzo, se hai gli occhi di un colore da bambino li avrai anche da adulto. Successe una cosa del genere per uno dei nostri video, non mi ricordo quale, mi pare “Supercollider”, con i due bambini a scuola, io facevo il padre ed Ellefson il professore, e alla fine del video il colore degli occhi della ragazzina era diverso. Una roba veramente stupida. Insomma, indipendentemente dall’attore, la cosa importante sarebbe che fosse coerente.
Se anche tu hai gli occhi gonfi e stamattina hai fatto più fatica del solito ad alzarti, e se anche tu guardi fuori e vedi che c'è il sole e ti prende bene ma in un modo un po' storto, torbido, come se stessi annegando in una vasca di sciroppo e il mondo stesse glitchando attorno a te, benvenuto o benvenuta nella primavera del 2018. Mettiti comodo e mettiti comoda, durerà ancora un po', tanto vale godersela.
Per questo oggi, che è venerdì, abbiamo un nuovo magico appuntamento con la playlist settimanale di Noisey, che comprende un mix di hit imprescindibili e roba un po' meno scontata che poi sarebbe il motivo per cui esistiamo noi che facciamo questo lavoro, scovare per voi una bomba che magari vi sarebbe sfuggita.
Ascolta qua sotto su Spotify, schiaccia il follow così dalla prossima ti arriva l'aggiornamento in anteprima e buon primo weekend di primavera.
"Sono meglio di Tupac, Biggie, Eminem, Kendrick, J. Cole, e persino Lil Pump," rappa Face. Viene da Ufa, la capitale della repubblica della Baschiria, in Russia. Ha un look androgino, tatuaggi in faccia, porta occhiali troppo grandi per il suo viso e ha in testa lunghi capelli lisci che gli si appoggiano, setosi, sulle spalle. In una delle sue hit, "БУРГЕР" ("Burger"), un pezzo minimale tenuto assieme da una linea di basso esageratamente violenta, ripete e ripete di voler derubare un negozio di Gucci. Face ha 21 anni ed è già uno dei rapper più controversi di Russia. I giovani lo adorano, ma tutti gli altri—le generazioni più vecchie, in particolare—lo trovano scioccante. Il video di "БУРГЕР" ha 24 milioni di visualizzazioni, ma anche 288,000 dislike.
Face è uno dei molti giovani artisti che stanno trasformando la scena hip-hop russa. In passato, i rapper russi avevano tratto ispirazione dalle stelle americane adattando le loro tecniche alla lingua russa, ma negli ultimi anni alcuni artisti, come Pharaoh e Oxxxymiron, hanno cominciato a sperimentare un sound che tenesse conto delle loro origini. Il rap è al suo apice di importanza storico in Russia e per i giovani, come in molte altre parti del mondo, è il genere più importante della nazione. Anche se MTV Russia aveva già cominciato a promuovere rapper locali dieci anni fa, aiutandoli a vendere copie e vincere premi, questa nuova generazione di rapper russi opera in maniera indipendente dalle vecchie strutture musicali. Usano i social media per promuoversi e si gestiscono da soli le vendite del merchandising e i concerti. Inoltre, non dipendono da canali mediatici che trattano la cultura hip-hop, dato che ci sono solo due testate rilevanti nell'intera nazione, rap.ru e the-flow.ru. Il loro è un approccio fai-da-te che sembra stare funzionando. Ma come suona il rap russo? Contiene un elemento politico? È possibile lavorare liberamente in un paese che ha mandato una delle Pussy Riot in Siberia?
Il problema principale che si incontra approcciandosi al rap russo è la lingua. Abbiamo contattato 11 artisti per questo articolo. Da molti non abbiamo ricevuto risposta. Due si sono rifiutati di parlarci dicendo di non saper parlare inglese. I russi parlano russo, e l'inglese non può essere data per scontata, in particolare al di fuori di Mosca e San Pietroburgo, i due luoghi dove prosperano le sottoculture in Russia.
Fortunatamente siamo riusciti a parlare su Skype con Nikolai, che ha chiesto che il suo nome fosse cambiato per questo articolo. È un ragazzo che ha studiato giornalismo, lavora nell'industria musicale e organizza eventi. Ma, soprattutto, è un membro attivo e appassionato della comunità hip-hop russa.
Com'è nato il rap in Russia?
"In Russia siamo alla nostra terza generazione di rapper", spiega Nikolai. "La scena è enorme, anche solo per motivi anagrafici. Negli anni Novanta sono nati un sacco di bambini". È stato proprio all'inizio di quel decennio che i giovani russi hanno cominciato ad appassionarsi al rap e ad esprimersi tramite i graffiti. L'Unione Sovietica era caduta, e le possibilità a livello creativo sembravano infinite. Ovviamente, prima del 1991 l'hip-hop era una cultura completamente impossibile da conoscere e sviluppare: in una nazione in cui era vietato indossare i jeans, la musica occidentale non era certa la benvenuta. Ma c'erano eccezioni, ovviamente. La prima traccia rap russa uscì nel 1984 e si intitolava, con poca immaginazione, "Rap"—era un rifacimento in russo di "Rapper's Delight" della Sugar Hill Gang, un classico dell'hip-hop americano, prodotta da una band, i Час пик. Il rap, ai tempi, era solo una modalità musicale che veniva utilizzata per farsi due risate, e non un legittimo punto d'inizio di una scena hip-hop nazionale.
Negli anni seguenti, il rap russo cominciò lentamente a trasformarsi in un genere a tutti gli effetti. I testi parlavano di divisioni post-Unione Sovietica, sentimenti smielati e provocazioni varie. Non c'erano vere novità a livello di suono rispetto a quello che succedeva negli Stati Uniti, se non per la lingua. Nikolai descrive il rap di quegli anni come una parodia non intenzionale della sua controparte americana. Non era un granché, ma bastava a divertire la gente e funzionava come colonna sonora delle feste. I Мальчишник o i tentativi di crossover dei Децл, per esempio, erano entrambi considerati volgari per gli standard dell'epoca. Mosca e San Pietroburgo diventarono, a ogni modo, gli epicentri della scena. Lo sono tuttora, a tal punto che molti artisti ci si trasferiscono anche se potrebbero vivere meglio in altre aree della nazione. Pharaoh, che abbiamo intervistato via mail, ci ha inoltre detto che "forse tutto succede lì perché è più facile trovare più droghe".
Per un sacco di anni il rap russo è stato un enorme cliché. Uomini muscolosi che cazzeggiavano con altri uomini muscolosi; donne come ballerine mezze nude nei video, o al massimo rappresentate nel ruolo di angelo in mezzo a mille troie, un popolare topos sessista del rap. Il machismo era una componente portante del rap russo delle origini come lo è di quello attuale, essendo ampiamente presente nella conversazione, nella politica e nella società russa. Il rapper di maggior successo di Russia a livello commerciale, Timati, ovviamente supporta Vladimir Putin. Sembra un oligarca che nuota nei soldi, può fare quello che gli pare dato che suo padre è amico di un importante politico ed è stato recentemente fotografato mentre guidava la sua Rolls Royce. "È un fenomeno all'interno dei media mainstream", dice Nikolai di Timati, "ma nelle scene locali tutti lo odiano".
Le nuove generazioni russe, come le loro controparti nel resto del mondo, hanno però cominciato a concepire il rap come qualcosa di diverso. Cantano e imparano a memoria testi che parlano di depressione, sono interessati a sonorità sperimentali e preferiscono l'androginia al machismo. Timati compare in televisione, mentre i nuovi artisti vivono e operano su VK, il Facebook russo. "Succede tutto su internet", dice Nikolai: è lì che le etichette indipendenti operano ed è lì che la gente scopre nuovi artisti, all'interno di gruppi dedicati come Рифмы и Панчи ("Ritmo e pugni"). Avere SoundCloud non è poi così importante, e quasi nessuno stampa CD dato che ormai non se ne vendono praticamente più. I soldi arrivano dal merchandising e dai concerti, e all'interno della scena aleggia una certa tranquillità per quanto riguarda il suo seguito: "Il rap russo va forte perché qua la gente non parla inglese, e quindi non ascolta tanto rap statunitense", spiega Nikolai.
Pharaoh, re dell'emo rap russo
Pharaoh, invece, aspira a diventare qualcosa di più di una stella dei social con qualche milione di follower su Instagram, come dice nella sua "ФОСФОР" ("Fosforo"). Sul pezzo canta, grida come se cantasse in una band screamo e rappa con un flow che può uscire solo da un ragazzo che ha ascoltato un sacco di Eminem crescendo, unendo beat oscuri ed esplosioni emotive. È roba da brividi nella schiena. Anche lui, come Face, porta i capelli lunghi, veste roba stravagante e si distacca pesantemente dal mainstream russo adottando estetica e sonorità emo.
Il suo collettivo, Dead Dynasty, ha sempre operato seguendo un'etica indipendente. "Preferisco registrare da solo le mie robe. Così posso spingere la mia visione musicale", spiega, aggiungendo che è lui a curare i suoi video e citando Tarantino come grande influenza. Sebbene il suo commento possa sembrare un cliché, la realtà russa è invece oggettivamente complessa da gestire per un artista. L'industria è decisamente refrattaria al cambiamento, e chiunque voglia fare musica in maniera indipendente deve davvero fare tutto da solo.
A soli 22 anni, Pharaoh è uno dei talenti più promettenti della scena russa assieme a Face. Ma gli ci sono voluti anni per cominciare a sentirsi definire tale: cinque anni fa, all'inizio della sua carriera, era poco più che una sorta di Yung Lean russo. Solo nel suo ultimo progetto, "Pink Phloyd," ha cominciato a sviluppare un suono veramente suo. Ma questo cambiamento musicale è coinciso con uno sociale: "La gente ha cominciato ad accettare l'hip-hop solo quando i giovani hanno cominciato ad appassionarcisi, ma soprattutto quando si sono resi conto che potevano farci dei soldi. Ed è davvero ipocrita", sostiene. Ovviamente gli fa piacere suonare davanti a migliaia di persone, ma è ancora preoccupato: "La sottocultura sta crescendo, ma con l'aumentare della popolarità diminuisce la creatività".
Oxxxymiron, il battle rapper più forte del mondo
Pharaoh ha ragione quando parla di commercializzazione della sottocultura hip-hop, ma il caso di Oxxxymiron prova che è ancora possibile mantenere un approccio fortemente creativo all'interno dei confini del mainstream. Oxxxy viene da San Pietroburgo, dove si tiene la più grande battle di Russia, "Versus". "Le battle stanno andando veramente forte in questo periodo", spiega Nikolai, e Oxxxy si è affermato come il miglior battle rapper di Russia - e forse del mondo, dato che è così che il magazine Source lo ha definito in un articolo pubblicato recentemente. A riprova delle sue abilità c'è la sua battle con il rapper americano Dizaster, che al momento ha circa 10 milioni di views. Ad aiutare Oxxxy c'è il fatto che parla due lingue, dato che è cresciuto nel Regno Unito.
La famiglia di Oxxxymiron è di Leningrado (la città che oggi è San Pietroburgo), ma i suoi genitori si trasferirono a Londra poco dopo la sua nascita. La sua infanzia e la sua adolescenza furono piuttosto difficili: andava a scuola in un grigio sobborgo della metropoli e aveva una situazione finanziaria precaria a dir poco, ma riuscì a smarcarsi dal suo passato facendosi prendere a Oxford. Il suo bagaglio culturale unisce quindi alto e basso, le parole degli MC grime che ha conosciuto in strada e quelle degli scrittori che ha studiato lungo il corso degli anni. I suoi testi in russo hanno una qualità letteraria: i suoi attacchi verbali sono al limite della poesia e scrive spesso tracce con concept ben definiti. A 33 anni, dopo anni di sbattimenti e sulla forza dei suoi risultati nelle battle, Oxxxy è diventato uno dei rapper russi più importanti.
Nonostante abbia circa dieci anni in più dei nuovi talenti che animano la scena russa, Oxxxymoron è completamente dalla loro parte. Con loro condivide l'etica DIY, sebbene si concerti molto di più sui testi. Il suo suono è decisamente brutale se paragonato a quello di Pharaoh, a dimostrazione di quanto anche in Russia la scena rap si sia fatta variegata. "La nuova generazione ha un'idea più definita di quello che succede a livello globale, e quindi incorpora nuove influenze nel suo sound", spiega Nikolai. Ci è voluto un po' ma anche in Russia, come in molte altre nazioni, il rap ha smesso definitivamente di essere la brutta copia di quello che succedeva negli Stati Uniti.
Ok, ma Putin?
Per quanto possa sembrare strano, in Russia è esistito un passato in cui Vladimir Putin ha tentato di sembrare giovane assistendo a una battle in televisione. Il video qua sopra risale al 2009 ed è tratto da un varietà russo. Putin, vestito con un dolcevita bianco, siede nel pubblico in mezzo a un sacco di ragazzi con cappellini New Era che masticano gomme. Lui fissa il palcoscenico, ridendo beffardo, e tiene il ritmo con la mano, leggermente imbarazzato. A battle finita, Putin sale sul palco, si rimette un minimo in sesto e comincia a parlare: "Questi ragazzi trasmettono un fascino russo unico, grezzo ma importante dato che affronta problemi sociali sempre più prominenti".
Contando che solitamente Putin passa il tempo a farsi fotografare mentre doma orsi, un'apertura simile all'arte non è proprio comune per il suo personaggio. Soprattutto dato che governa un paese la cui libertà di stampa è alla posizione 148 a livello mondiale. Nonostante questo, ci sono rapper che sfidano i preconcetti della società in cui vivono: non parlando esplicitamente di politica, ma presentandosi come portatori di uno stile di vita spensierato e cazzone.
Face, il Lil Pump russo
Face è un artista che conosce bene la polizia, dato che se la trova spesso a fare controlli ai suoi concerti. Ha 20 anni ed è praticamente il Lil Pump russo, come tra l'altro cerca di identificarsi lui a forza di "ESKERE". Come Pharaoh, porta capelli lunghi in opposizione all'immagine tipica dell'uomo russo, macho e muscoloso. E rappa inserendo parolacce inglesi varie nei suoi testi in russo, scandalizzando buona parte della società russa: sebbene per noi "FUCK" sia ormai una parola come un'altra, in Russia non è necessariamente così. Face ci marcia sopra, parlando di droga, di quanto sia figo e di quanto gli piaccia mandare tutto e tutti affanculo, dito medio all'obiettivo. Musicalmente parlando, i suoi pezzi hanno una certa influenza alternative rock. Bassi e chitarre compaiono sporadicamente nelle sue produzioni, e a momenti la fiera della provocazione si interrompe per lasciare spazio a pensieri sulla depressione delle grandi città.
"In Russia i rapper non sono solo considerati rivoluzionari per quello che dicono, a volte avere un sound dall'appeal globale e un'immagine figa vale più di qualsiasi parola", spiega Nikolai. Fare rap "contro" qualcosa, in Russia, significa anche solo adottare uno stile di vita antitetico rispetto a quello che viene considerato "normale" dalle istituzioni e dalla società. Resta che Face ha comunque espresso opinioni politiche, come per esempio in questa intervista con DAZED: "La polizia dovrebbe proteggerci, ma da queste parti non puoi non spaventarti quando te li trovi di fronte. Non c'è libertà di espressione, la gente non osa dire nulla e non sembra cambiato niente dai tempi dell'Unione, dai tempi di Stalin. La povertà è il nostro più grande problema". Face, come tanti altri russi, è triste e insoddisfatto. Con la sua musica, offre un modo per fuggire temporaneamente da tutto ciò che non funziona nel suo paese.
Husky, l'eremita siberiano
Husky, o Хаски, vede ancora molti dei suoi colleghi sotto una luce negativa. "Il rap russo è spesso, ancora oggi, un'adattamento letterale del rap americano. Gli artisti si limitano a trattare gli stessi argomenti che sentono nelle canzoni che ascoltano", dice. Dire che parlare di moda, soldi e droga sia scontato non è certo nulla di nuovo, ma è assolutamente legittimo - soprattutto se fai rap come lui. Anche la sua musica trova forza in sonorità assurdiste assimilabili al SoundCloud Rap e alle produzioni più strambe uscite negli ultimi anni, ma i suoi testi sono fortemente astratti e letterari. In "Пуля-дура" ("Trappola di Proiettili"), per esempio, racconta la sua trasformazione in un macchinario che si suicida sparandosi in testa.
Husky ha 24 anni e viene da Ulan-Ude, una città in Siberia in cui le sottoculture erano completamente assenti. "Sono cresciuto in un sobborgo industriale e impoverito di una città siberiana mezza distrutta", dice. "Non mi sono mai sentito parte della cultura hip-hop e non ho amici che ascoltano rap, quindi per me tutto questo è solo una modalità di espressione". Husky si è poi trasferito a Mosca, dove ha studiato giornalismo.
Di Husky si cominciò a parlare a livello nazionale nel 2011 per una forte controversia: la sua prima hit si intitolava "Седьмое октября", "Sette ottobre", il compleanno di Putin. Parlava di uno zar che arraffava soldi mentre lasciava morire la sua popolazione. Il suo rap è la dimostrazione che anche in Russia è possibile affrontare tematiche sociopolitiche a viso aperto. La sua musica, dice, dovrebbe raccontare "quello che succede oggi nel mondo e quello che potrebbe succedere nel futuro". Sebbene non voglia avere niente a che fare con la scena rap, Husky è però contento di affiliarsi a determinati movimenti politici e ideologici: ha partecipato a manifestazioni contro Putin, ha viaggiato assieme ad altri reporter nella regione del Donbass per documentare la sua recente guerra e ha contatti con Sachar Prilepin, scrittore e oppositore di Putin. "Non esiste alcuna censura, mi sento libero ovunque", dice.
Il rap è ormai il linguaggio dei giovani russi, dice Husky. E nell'ultimo paio d'anni se ne sono accorti anche i media nazionali. Nonostante questo, ai suoi occhi il rap è ancora sottostimato. "Nella coscienza collettiva russa, il rap è ancora uno scherzo, una gag da ragazzini". Ma i ragazzini sono tanti, e caricano canzoni su VK al ritmo di centinaia al giorno, e sanno tutti che prendere in mano un microfono e girarsi un video può aprirgli sia le porte della libertà d'espressione che, magari, quella del successo. E non ci vorrà molto prima che Face, Pharaoh, Husky o Oxxxymiron debbano cominciare a combattere per mantenere lo status di stelle del rap russo.
“Sono io il vincitore. Anzi, io sono il reality.” Cristiano Malgioglio a Chi, 2017
La vita di noi di Italian Folgorati a volte è dura. Perché sì, certo, nel momento in cui si raccolgono informazioni bisogna selezionare, leggere fra le righe, accumulare dati e capita, com’è umanamente naturale, avere delle sviste. Capita però di trovarsi di fronte a personalità talmente intricate e cariche di storia che risulta veramente difficile capire da dove iniziare e dove finire e la cosa può mettere in crisi.
È il caso di un personaggio che non ha bisogno di presentazioni poiché più noto della notorietà stessa: stiamo parlando di Cristiano Malgioglio. Ecco, Malgioglio in Italia lo conoscono pure i sassi: ma di base per i motivi sbagliati. È, infatti, considerato un simbolo del trash E BASTA, cosa che passa completamente sopra al fatto che potrebbe essere l’icona gay definitiva (dico potrebbe perché alcune sue affermazioni sui comportamenti in pubblico degli omosessuali a volte lasciano perplessi, così come certe sue frequentazioni di destra). Ci si ferma al personaggio, eccentrico e sopra le righe, per il quale il buon gusto è qualcosa che va lasciato a casa (anche se, diciamolo, il suo abbigliamento recente è post nucleare quanto basta per farcelo apprezzare): insomma, una specie di Platinette dopo la dieta.
Ebbene: no, Cristiano non è solo questo. È uno dei più prolifici autori di canzoni della penisola, principalmente di testi. Ha scritto per chiunque possiate pensare, tanto che se mi metto a elencarli tutti non ci sarebbero abbastanza pagine digitali. Ad ogni modo, per citarne qualcuno, nel suo curriculum troviamo Mina, Giuni Russo, Franco Califano, Adriano Celentano, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Raffaella Carrà, Amanda Lear… addirittura Pippo Franco ("Il ballo marocchino" rimane un must) e poi per una miriade di altri act minori (ad esempio la mitica Gena Gas di “Famme ballà nun me scuccià”, o Maeva) e, paradosso dei paradossi, anche per Alessandra Mussolini quando aveva ambizioni canterine.
E poi le produzioni: a differenza di molti suoi colleghi quali (per citarne uno analizzato di recente) Red Canzian, che si è sempre tenuto nel rock a parte sparuti tentativi di infilarsi nell’italo disco come autore e produttore (come nel caso del brano per i Colorado “Space Lady Love” o nella produzione di Ago, che citiamo per accontentare i completisti), invece il nostro Malgioglio indugia nel danzereccio da sempre. Lo dimostrano un bel po’ di singoli confezionati per progetti italo disco (Oona, Hildegard, The Gigolò, Marie Laure Sachs, ecc.) e new beat quali, sotto falso nome, le Off Models con una cover della celeberrima "Electrica Salsa" degli Off di Sven Vath (oltretutto Malgioglio nei primi anni Novanta era un noto frequentatore di Disco Magic).
Insomma, quante ne ha fatte Cristiano non lo sa neanche lui. Tra l’altro inizia come autore “normale”, inserito nell’ambiente che conta da Fabrizio De André, che a metà anni Sessanta ne riconosce subito il talento innato (Fabrizio gli presenterà i discografici, Cristiano invece a De André presenterà Dori Ghezzi, facendo in sostanza da cupido). I suoi testi sono sempre ficcanti dal punto di vista della scrittura, tanto che potremmo definirlo l'Aldo Busi del pop italiano (e Busi cercherà, ahimè, di imitarlo nella canzonetta con risultati che è meglio non commentare).
A dimostrazione di tanta perizia arriva la vittoria a Sanremo nel 1974, dopo neanche tre anni dal suo esordio come autore, con “Ciao cara come stai”, scritta per Iva Zanicchi. Da lì in poi i successi per Giuni Russo, collaboratrice fissa in quel periodo con la quale firma l’esplicita “Ho fatto l’amore con me” per Amanda Lear, ma è soprattutto Mina a consacrarlo (le immortali "L’importante è finire” e “Ancora ancora ancora”) sempre sull’orlo dell’ambiguità allucinata, dei doppi sensi, della trasgressione vista come la potrebbe vedere Araki il quale esclamava “senza oscenità le nostre città sarebbero luoghi tristi e la vita cupa”.
Per cui, sì, Malgioglio è principalmente un autore per altri, ma poi decide di interpretare se stesso, spinto da… Roberto Carlos, che sceglie Cristiano per vestire in italiano i suoi brani. La fascinazione per il Brasile, d’altronde, è innata in Malgioglio, poiché come confesserà candidamente a DiPiù, fu proprio un disco di Carmen Miranda a fargli capire di essere gay. Le movenze della cantante, quel suo vestire in maniera eccentrica, con un copricapo di frutta tropicale in testa, furono la proverbiale folgorazione sulla via di Damasco. E a proposito di folgorazione: Italian Folgorati di quale disco si occuperà setacciando nella sterminata discografia del nostro a metà fra camp, kitsch e canzone d’autore? Beh, facile: si soffermerà sul suo disco più equilibrato nella somma delle parti tra new wave, elettronica, pop e disco. Il suo nome è Artigli, anno 1981.
Ora, Artigli già dal nome implica una maggiore incisività rispetto alle precedenti prove. Se infatti prima il nostro spingeva l’acceleratore dei doppi sensi e dell’oscenità subliminale (vedi Sbucciami, disco che non lascia tanto spazio all’immaginazione) rifacendosi anche musicalmente al modello Renato Zero di "Mi Vendo" amplificandolo a dismisura ai limiti dell’assurdo, in Artigli si crea un ibrido strano. In questo lavoro Zero incontra lo spirito maledetto di un Alfredo Cohen, pescando nel torbido del mondo gay con un modus letterario audacissimo e melodrammatico, incrociando a sua volta i Visage sulla sua strada, non solo musicalmente ma anche nell’idea di look della copertina. Insomma, un disco che sembra nato per dimostrare che il pop italiano può osare molto se si scardinano i tabù, anche a costo di apparire ridicoli: perché, come diceva Adam Ant, “ridicule is nothing to be scared of“. Un’occhiata alla copertina è infatti doverosa: un’iconografia disco rock, in cui vanno a braccetto l’oscurità wave e il rosa shocking della dance, il che di base è la sintesi del contenuto.
Contenuto che parte subito a manetta con il pezzo da novanta dell’album: quella “Caro direttore“ che diventerà poi “Caro Berlusconi“ nel 1992, un pezzo colmo d’ironia al vetriolo contro il futuro premier, prevedendo il disastro culturale degli anni a venire. Un brano farcito di umori arabi, da hammam, di effetti speciali (dalla macchina da scrivere all’aereo), di sbuffi minimal synth quasi industriali, a sottolineare le parti salienti della narrazione. Una lettera a un direttore potente (probabilmente allusione proprio al Berlusconi del 1981) da un altrettanto personaggio famoso (che ha l’aereo personale… e per giunta ha un amichetto) il quale confessa una cotta omosessuale per lui. Non lasciatevi infatti abbindolare da quel “io bilancia lei scorpione, un segno che non va con l’amore”: non si tratta di uno sfogo per un amore etero non corrisposto, ma semplicemente il nostro Cristiano, a dispetto delle apparenze, conosce il galateo e dà del lei. E non è neanche negativo che lo scorpione sia un segno che non va con l’amore, poiché va bene col sesso e tanto basta. Nel brano è evidente l’influenza new romantic nella progressione armonica melodica (che deve molto al Bowie di Yassassin), con un ritornello/non ritornello che ricorda momenti punk rock elettrici. La versione del '92 sarà ancora più cyberpunk, spingendo l’acceleratore su suoni quasi Carter USM o EMF periodo “They’re Here”, in un riadattamento testuale sicuramente più politico con quel “lei è potente / io niente / eroe di mamma mia solamente”. Un brano micidiale che vale sicuramente l’acquisto.
“Il volto della vita”: si torna a un tipo di new wave che ricorda nell’andazzo i Marc and the Mambas (solo che questi ultimi si formeranno solo un anno dopo), tra la disco, il flamenco rock e il synth pop con tanto di batterie triggerate. Cover della celeberrima “The Days of Pearly Spencer” di David McWilliams nella versione della Caselli, ma qui ribaltata completamente nell’interpretazione: il testo come sapete è “sei vestito un poco strano / ma d’altronde come sempre il mio cuore ti fa festa [...] ma qualcuno ha bussato / il mio viaggio è terminato” qui cantato con un'inflessione da festino decadente, con chitarre liquide e flanger sparsi, violini alla "My own way" dei Duran Duran (che non a caso all’epoca fecero uscire in singolo con una caterva di archi old style). Ottima prova di potenza, tanto che (tornando ai Mambas) Marc Almond coverizzerà la versione in inglese solo nel ’92. Bravo Cristiano, ci hai visto lungo.
E si passa alla ballad, inevitabile. “Amore mio, amica mia”, suadente brano che, ohibò, narra dell’amore per una donna? A giudicare dal testo no, in quanto Cristiano si descrive “persa nei giri miei”. Questa ambiguità di fondo crea un pezzo quasi onirico, un lento drogato e decadente, quasi stremato dal desiderio “mi sento male / ma è una cosa normale con te”. Malinconici giri di sax che ricordano gli Spandau Ballett più piacioni (quelli di "I’ll fly for you" per intenderci, ma a questi livelli i nostri arriveranno solo tre anni dopo). La canzone è però una reinterpretazione, poiché regalata da Cristiano alla Vanoni un anno prima. Lei ne fa una versione più Bee Gees oriented, lievemente jazzata: qui invece ci si scioglie lentamente.
“A stretto giro di posta” è un altro gioiellino di suadente e irresistibile white funk “per il momento va tutto bene / tranne che ho ricominciato a bere”. Fosse stato più pompato sarebbe stato bene nel repertorio degli LCD Soundsystem. Atmosfera chill, “e un cardiogramma il cuore mi traccia”. Sembra proprio uno spaccato di uno che si trova “a letto malvolentieri” e sta mandando email a cannone al suo innamorato. “Cerchi un altro supporto / il mio domani è già ieri”: infatti non c’è ancora internet, siamo nel 1981. Momenti di trasformismo, decadenza, e ancora ambiguità: in questo caso pare che l’oggetto dell’amore sia veramente una lei, confondendo per un attimo le acque e fiondando il nostro nei deliqui bisex e poliamorosi del 3000. Grande solo di chitarra infilata nel talk box, graffiante ma nello stesso tempo morbido, caratteristica questa di tutto il suono del disco che riesce a mettere insieme due concetti apparentemente inconciliabili ma che fanno parte proprio dell’essenza del mondo di Malgioglio: odi et amo? Pare strano eppure è così, e anche Cristiano si strazia.
“Giornalista” è l’altra bomba del disco, con il suo andazzo cold new wave che ricorda i migliori momenti di Yoko Ono (come ad esempio "Walking on Thin Ice") con chitarre ancora una volta ammazzate di flanger, ma anche percussioni ossessive stile Kate Bush. Una stoccata contro il giornalismo musicale, verso il quale Malgioglio si pone come una diva braccata dai capricci della stampa che sembra scrivere bene dell’artista di turno solo se quest’ultimo, scusate il francesismo, le dà letteralmente il culo. “Se ti chiamo non è per lavoro, ma per dirti ti adoro, uomo d’oro”. In tempi come questi, in cui l’hype regna sovrano, il pezzo sembra scritto oggi, il do ut des una situazione terrificante che pare non sia possibile scollarci di dosso. In alcuni passaggi il pezzo ci ricorda "Diva" della Rettore, che infatti uscirà nello stesso anno. Corrispondenza di amorosi sensi o, meglio, di scandali?
“Marlon” è evidentemente una dichiarazione d’amore all’attore Brando, un tango sintetico che riporta subito alla mente le future scorribande dei Matia Bazar, solo in salsa più felliniana. Forse nato da un wet dream di Cristiano, il pezzo è letteralmente “pieno di vuoto”, come in una camera hypnagogica, e si rifà a echi di Klaus Nomi, forse addirittura ai Krisma per l’atmosfera da cabaret new wave. La cosa interessante è che fu scritta per essere la sigla del ciclo televisivo “I film di Marlon Brando” per Canale 5 e ovviamente Malgioglio trasforma questa innocente commissione in un brano pieno di pruriti omoerotici, lanciandosi in una guerra subliminale contro il senso comune.
“All’hotel della fretta” un disco rock pestone avvolto da phaser di matrice glam, parla di un mondo che sembra quello di “Via della povertà” di De André (appunto) catapultato negli anni Ottanta delle checche, dei papponi, delle prostitute, dei maniaci, e insomma di tutto quel mondo notturno di pensioni a ore che Malgioglio dipinge a colori allegri, quasi come un affresco, un’ode. Si cura però di lasciargli addosso quella prevedibile ma mai scontata aura di perversione che non guasta e che fa ovviamente ancheggiare. Un brano deciso e perfettamente in linea col Malgioglio pensiero, fatto di lustrini ma anche di fruste. L’arrangiamento sembra avere anche dei punti in comune con le produzioni di Greg Walsh per Battisti, in un ideale collegamento fra il cantautore di Poggio Bustone e i Roxy Music.
E poi “Quale appuntamento”, suadente disco stile Alan Sorrenti di "Figli delle stelle", tutte chitarre funkettine ma con ariosi spazi fra le ritmiche e le tastiere, roba fra lo struscio innocente e scenari sexy apocalittici. Brano che Malgioglio dona a Eleonora Giorgi per un singolo pubblicato nello stesso anno di Artigli (la versione della Giorgi è più soft core), con la grande differenza che il nostro Cristiano tiene le distanze dal fatto di dare sempre lo stesso appuntamento con la stessa bocca e via discorrendo. Quello lo facesse la Giorgi, che la canta in prima persona con piglio da gatta morta: Malgioglio è superiore a queste facezie da sfigati monogami e si gode la vita.
Esatto, Malgioglio è sicuro di sé, distaccato, preferisce parlare in terza persona, anche di sé. Ecco la risposta di Malgioglio a Renato Zero: “Voglio mama”. Se Renato è un rinomato egocentrico nelle sue canzoni, Malgioglio lo supera a destra diventando quasi titanico, mettendo tutta una serie di puntini sulle i e togliendosi dei sassolini delle scarpe contro le malelingue. “Gli artigli suoi non usa mai, ma non lo sai che affonda poi il suo pugnale come virus micidiale”: una “personcina posata” il buon Cristiano, ma almeno è un libro aperto, mentre chi lo critica... chi è? Sicuramente un mostro d’ipocrisia: aiuto, vogliamo la mamma! Il brano è un missile disco scippato a Zero, quasi come se volesse batterlo sul suo stesso terreno. In effetti decretiamo Malgioglio vincitore, almeno in questo caso.
“Luna nuova” è un ballatone che cade a pezzi: inizia con un arpeggio di tastiera che riporta vagamente alla mente i Kraftwerk. Un momento esistenziale di un Malgioglio depresso per amore e pronto sessualmente a tutto “questa porta la lascio aperta / non si sa mai…” e giù sassofoni Papetti-oriented. Storie di plagi, violenze psicologiche bisex, ricatti erotici. Altro che le sue perfomance al Grande Fratello VIP, qui Cristiano si situa oltre la decadenza.
Arrangiato da un Vince Tempera ispiratissimo, suonato magistralmente da uno stuolo di session man di pregio quali l’onnipresente Donnarumma e musicato dallo stesso team di sempre (Baracuda e Bibap in primis), Artigli vede come ingegnere del suono Gianni Prudente, già responsabile del suono di Claudio Rocchi, Aktuala, Opus Avantra e il Battisti di La batteria, il contrabbasso, eccetera. E la scelta di qualità si sente, essendo il disco una dei pochi anelli mancanti fra il camp, il pop italiano e la new wave che non perdono peso sulla bilancia.
Un perfetto equilibrio, insomma, che porterà al successivo Bellissime del 1983, un must per chi cerca un bignami del Malgioglio autore per altri: contiene infatti le reinterpretazioni di alcuni fra i suoi brani migliori scritti per Mina, la Zanicchi, Califano, ecc. in versione tecnopop con l’apporto di Alberto Radius ed Enzo Titti Denna, ovvero gente del giro Battiato.
Dopodiché il nostro, dopo album come Café Chantant o Casanova in cui ancora l’elettronica ha un peso specifico importante, si è lentamente e inesorabilmente gettato nelle braccia della televisione. Probabilmente perché come solista il nostro eroe non ha mai avuto grandi riscontri commerciali (tranne la parentesi “Toglimi il respiro” in cui coverizza il Moroder di “Take My Breath Away”): ma questa mossa ne ha snaturata la potenza eversiva. Poteva essere il nostro Jimmy Somerville o il nostro Steve Strange, e invece eccolo ospite fisso a Indovina l’Età e menate simili. Che possiamo farci? D’altronde, come dice la canzone, ”Malgioglio sta / a casa tua / un prezzo ha / di lui si sa / che la sua vita costa cara”.