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Recensione: GusGus - Lies Are More Flexible

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Che cosa è successo ai GusGus di Arabian Horse? Perché io mi ricordavo un disco bellissimo e un progetto rispettabilissimo e ora esce questo disco così… brutto? Così triste?

Innanzitutto va detto che la prima metà del disco è cantata e la seconda no, seguendo quella classica divisione in songs e tracks che, alla fine, spesso funziona.

Il problema però qui è che la prima metà è davvero terribile, sembra un disco di electropop svedese anni Ottanta di serie C invecchiato male. L’apice della bruttezza forse sta in “Lifetime”; quando non cantano le cose vanno un po’ meglio, ma comunque siamo dalle parti dell’inutile (“No Manual") o del cattivo gusto (la title track “Lies Are More Flexible”).

Allora mi sono chiesto se sono io che sono cambiato, e quindi sono andato a riascoltarmi quell’ Arabian Horse del 2011 che dicevamo prima e invece no: è ancora un disco bello, profondo, originale, raffinato, molto house e un po’ melodrammatico, tra le cose migliori del genere uscite in quegli anni.

La cosa mi conforta perché per una volta, come dire, “non sono io ma sei tu”: non so bene cosa sia passato per la testa di Daniel Ágúst Haraldsson e Birgir Þórarinsson, ora rimasti soli a gestire il progetto, e cosa li abbia fatti pensare che potesse essere una buona idea mettersi a fare questa roba così vecchia e moscia, ma sicuramente potevano pensarci altre trenta volte, o trovare qualche amico che li consigliasse meglio.

Il difetto principale del disco è una grande mancanza di ispirazione: alla fine puoi anche fare il genere più brutto del mondo ma tutto sommato se hai dei buoni pezzi, curiosità, cura, attenzione, voglia di fare e un po’ di originalità, qualcosa di buono verrà fuori. Qui c’è un pilota automatico appiattito su suoni brutti e pezzi banali, e nessuna traccia dell’originalità e della profondità di cui pure sappiamo che erano capaci.

In definitiva quindi il consiglio è, per chiunque non lo conoscesse, quello di correre a comprare Arabian Horse (dai, compratelo un disco per una volta, giuro che ne vale la pena; se non vi fidate di me garantisce il marchio Kompakt sul retrocopertina), mentre chi già lo conosce e probabilmente non lo ascolta da un bel po’, visto che non è un disco uscito esattamente l’altro ieri, potrebbe rimetterlo su e trascorrere un’ora sicuramente più piacevole e stimolante di quella che dedicherebbe all’ascolto di questo deciso passo falso.

Lies Are More Flexible è uscito il 23 febbraio per No Paper.

Ascolta Lies Are More Flexible su Spotify:

TRACKLIST:
1. Featherlight
2. Towards Storm
3. Fuel
4. Don’t Know How To Love
5. Fireworks
6. Lifetime
7. No Manual
8. Lies Are More Flexible

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Di cosa parliamo quando parliamo di appropriazione culturale?

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Tra gli undici e i quindici anni circa, a metà anni 2000, ho fatto parte della squadra di pallavolo di un paesino della provincia di Arezzo, dove mi ero trasferita con la mia famiglia di origine peruviana. È stato tutto fuorché un’esperienza felice: odiavo le mie compagne e loro odiavano me. I motivi erano più o meno associabili al fatto che ero nuova, meno brava di loro, e per la maggior parte del tempo sola. Non conoscevo nessuno, mentre loro sembravano essere tutte amiche da una vita. A fine allenamento rientravamo nello spogliatoio e spesso le sentivo ridacchiare alle mie spalle, commentando quanto non fossi stata in grado di fare quella o l’altra cosa, sfottendomi di conseguenza. Non ho mai protestato, né sono mai corsa a piangere dall’allenatrice o dalla mamma; tacevo e disprezzavo in silenzio, contenta che la mia vita sociale non ruotasse attorno a quelle che mi bastava definire “sfigate”, ma alle mie vere amiche che vedevo in città.

Un giorno, a fine di un allenamento, sento le solite lagne da parte delle cape della squadra, un po’ più sfacciate del solito. Una di loro si avvicina, e fa: “Dai Sonia, non ti hanno insegnato a giocare nel posto da dove sei venuta? Senti ma… perché non ci torni? Ce li avete i palloni?” Ridacchiano un po’ tutte, non ricordo neanche cosa le abbia risposto. Probabilmente nulla. Non ero più incazzata di altre volte, non ho interpretato la cosa in modo melodrammatico, mi sembrava coerente con la bassezza dei personaggi in questione. Solo mi sono giurata che non avrei mai smesso di odiarle per tutto questo, e così è stato. Mi sono rapidamente lavata di dosso l’esperienza dimenticandomi di loro, o meglio, tornando ogni tot a guardare come se la passavano su Facebook, per farmi due risate.

Qualche tempo fa è capitato che, annoiata, abbia ritrovato il profilo di Giulia, la stronzetta che ridacchiando mi aveva consigliato di “tornare da dove ero venuta”. Ho appreso così la sua attuale professione: insegnante di reggaeton.

È stato catartico. La tipa che mi aveva sfottuto perché “diversa”, di fatto latina, adesso non solo è fan numero uno dei balli latinoamericani (zumba, salsa, bachata), ma ne ha fatto la sua ragione di vita, nonché la sua professione. Su Instagram scrive e parla in spagnolo (se lo sarà dovuto imparare, dopotutto) e non esita a ballare tutte le migliori hit di J Balvin, Daddy Yankee, etc, con tanto di hashtag #latina #reggaetonera #saborlatino #muchoflow. Insomma, la responsabile di quell’unico episodio di razzismo rimasto scolpito nella mia memoria da quasi quindici anni, indisturbata, oggi fa il possibile per sembrare quello che non è, abbracciando una cultura non sua (e a me recriminata) nell’ammirazione generale delle persone che la circondano, catturate dal lato “esotico” della faccenda. Nessun testo accademico di critica all’appropriazione culturale raccolto negli ultimi anni è stato così efficace come l’epilogo di questa breve storia triste.

Giulia non si può dire certo in cattiva compagnia, in questo avvincente percorso: un po’ tutte le reginette bianche del pop statunitense, da Miley Cyrus, a Katy Perry, a Gwen Stefani, hanno dedicato alcuni anni della loro vita a sposare usi, costumi e immaginari di altre culture per rendere più appetibile la loro musica, e quindi loro personaggio pubblico. Chissà se farà la fine di Miley, ad esempio, che dopo 4 anni di totale immedesimazione nella cultura nera (ricordiamo il twerking, le treccine e i rasta, durante la sua parentesi hip-hop) l’anno scorso “è maturata” ed è passata al country. Se da una parte c’è chi si permette il lusso di provare (o sperimentare?) elementi di culture non proprie come fossero abiti, per poi all’occorrenza sfilarseli e dedicarsi ad altro, dall’altra ci sarà sempre chi a quel mondo apparterrà per sempre, per il semplice fatto di non essere occidentale, che quindi avrà tutto il diritto di sentirsi beffato di fronte alla Miley di turno.

Miley Cyrus con i rasta.

Parlando di vestiti e di moda, altrettanto di cattivo gusto è stata la sfilata di Gucci della scorsa settimana, alla Fashion Week di Milano. Ad essere criticate sono state le scelte artistiche di Alessandro Michele, direttore creativo del brand di alta moda, che, tra le tante cose, ha fatto indossare a una maggioranza di modelli bianchi turbanti Sikh, hijab, bindi, ornamenti dalla forma di architetture orientali, etc. Il brand è stato accusato di appropriazione culturale, cioè di aver decontestualizzato e oggettificato elementi sacri di culture minori (in questo caso arabe/orientali) trasformandoli in accessori di alta moda. La quasi totale assenza di modelli di colore, in una circostanza già particolarmente controversa, non ha contribuito a rendere la sfilata più facile da digerire. Comunità sikh, arabe, e in generale di minoranze etniche e di colore di tutto il mondo, si sono scagliate contro l’iniziativa di Gucci, con un unico messaggio di rabbia: mentre sfilate con i nostri oggetti sacri, fate parlare di voi grazie a elementi di culture che non vi appartengono. Nel frattempo i membri effettivi della nostra comunità (che indossano gli stessi oggetti) vengono aggrediti, discriminati ed emarginati, solo per il fatto di non essere vostri modelli.

Non mi ha stupito nessuno di questi fenomeni: né la trovata di Gucci, né le lecite critiche delle comunità di colore, né le critiche alle critiche ad opera della popolazione più ottusa, prevalentemente bianca, che casca dal pero e non capisce dove sia il problema. La loro retorica, di fatto va a difendere l’appropriazione culturale, riparandosi dietro al pretesto dell’apprezzamento-non-appropriazione, in nome di un multiculturalismo performativo, fondato sulla contemplazione estetica della diversità e non sul suo reale rispetto.

Sarebbe utile dibattere sul significato di multiculturalismo nel 2018, ed è un peccato che sia diventato lo slogan del liberale medio, a cui basta sostenere il proprio “amore incondizionato verso le altre culture”, per silenziare il tessuto di ingiustizie e disuguaglianze sociali che sta letteralmente soffocando le minoranze da cui la società dominante attinge ogni giorno. Non a caso decolonizzazione, smantellamento della white supremacy e maggior rappresentazione mediatica delle diversità vanno di pari passo con il dibattito sui fenomeni appropriativi. È essenziale cogliere la trasversalità di queste lotte, e per un dialogo realmente costruttivo e lontano da ulteriori banalità, è bene delineare alcuni punti che chi vuole farsi un’opinione sull’appropriazione culturale, dovrebbe interiorizzare.

Nessun ambito è immune dai processi appropriativi, ma questo non li rende meno ingiusti.

La premessa necessaria è che viviamo in una società fondata sull’appropriazione e l’assimilazione di culture minori; non avremmo di che vivere se tale processo dovesse cessare, e ciò si manifesta sotto più forme. Sul piano pratico, la tipa che tredici anni fa mi sfotteva per essere sudamericana e adesso lavora come insegnante di reggaeton e Gucci agiscono secondo lo stesso meccanismo oppressivo, ma applicato su scale diverse. Non è certo l’unico esempio di dinamica appropriativa che ha luogo in Italia: musica, arte, cinema, spettacolo, editoria, clubbing, underground e pure una bella fetta di attivismo politico, campano di processi assimilativi, restii a creditare/rendere le loro iniziative realmente accessibili alle diversità che dovrebbero tutelare. Non mi scorderò mai una serata di un festival a Milano relativamente grosso, il cui act principale era un divo del baile funk carioca, genere urbano paragonabile al reggaeton, estremamente popolare in Brasile. Penso: chissà quanti brasiliani ci saranno, essendo un nome così grosso. Manco a dirlo c’erano solo italiani, e il biglietto costava 30 euro. Per non parlare degli eventi “black” organizzati da e per un pubblico bianco, o il giornalismo musicale che tratta realtà non occidentali come fosse un atto di “scoperta” o validazione, oppure lei.

Non si tratta solo di appropriazione, ma di sistema “multiculturale” ipocrita e fallace.

Il mito del melting pot, della celebrazione e/o omaggio al “diverso” negli ultimi anni ha toccato vette di ipocrisia memorabili. Non c’è neanche bisogno di scomodare l’appropriazione culturale in senso canonico. Personalmente mi basta sapere che esistono reality in prima serata in cui i protagonisti, esponenti di un occidente “sviluppato”, spettacolarizzano la loro interazione con membri di un terzo mondo povero e narrativamente stereotipato, per darmi conferma di qual è la reale percezione del diverso della maggior parte degli italiani, in questo particolare momento storico.

L’appropriazione culturale, in questo quadro, non è che la punta dell’iceberg di un sistema fallace e disonesto, in cui basta dichiararsi “antirazzisti”, pro ibridazione di culture, vivere in quartieri multietnici, avere fidanzati/amici stranieri per giustificare qualunquismi in stile: “Non esistono culture, siamo tutti uguali, abbiamo diritto di comportarci come vogliamo, ovunque vogliamo.” Globalizzazione non significa automaticamente annullamento della diversità culturali: la buona (per alcuni cattiva?) notizia è che tutti i membri di qualsiasi società hanno, loro malgrado, una cultura di riferimento. Andate a chiederlo ai sikh di Londra menati in metro mentre Gucci portava in passerella i loro turbanti, a ogni singolo kebabbaro, o ristoratore dei vostri ristoranti “etnici” preferiti, se anche per loro non esistono culture. Può sembrare sconvolgente, ma le culture esistono eccome, e non serve neanche così tanta umiltà per rendersene conto. Facile essere così spensierati quando si è da sempre membri del contesto socio-culturale più influente e ricco, che quindi garantisce maggiore libertà di espressione, azione, pensiero, movimento.

Il dibattito non è un "trend da social", ma nel caso siamo grati alla diffusione/visibilità che grazie alle piattaforme di condivisione il dibattito ha guadagnato.

Trovo adorabile la gente che vede la questione come “nuova” solo perché gran parte delle minoranze interessate trovano sempre più il coraggio di condividere esperienze di ogni tipo sui social. Altra amara verità: è una discussione che va avanti da quando le civiltà del pianeta hanno iniziato a collidere e conquistarsi a vicenda, quindi è letteralmente un dialogo aperto da sempre. Fa comunque tenerezza chi pensa che sia tutta una trovata mediatica volta a giovare sul capitale sociale del/la woke di turno su Instagram—se poi succede, che dire, buon per lui/lei. Non è neanche una locuzione “bigotta” (lol) volta a ghettizzare le culture o a sterilizzarle, e non ha nulla di fraintendibile.

Non è vero, poi, che ci sia una gerarchia di “battaglie”: da una parte i reali problemi dell’Italia, Salvini, i fascisti, la disoccupazione, dall’altra il dibattito “social” sull’appropriazione culturale, la scarsa rappresentazione/inclusione di minoranze, la decolonizzazione delle menti, e via dicendo. Come se non avessero un denominatore comune. Come se anzi non fossero lati della stessa medaglia.

Se il vostro unico contributo al dibattito è “allora dovremmo bruciare tutti i Domino’s Pizza” siete fuori strada: si parla di appropriazione non solo quando la direzionalità del processo appropriativo avviene da una cultura dominante a una minore, ma quando entra anche in gioco il fattore coloniale e il conseguente sbilanciamento di potere tra le due culture. Da primo mondo a primo mondo questo sbilanciamento non è possibile, perciò no: le multinazionali di pizza statunitensi non si stanno appropriando culturalmente di nulla.

Fate un rapido check dei vostri privilegi, ed educatevi un minimo prima di sproloquiare su quanto il mondo sia rose e fiori, la cultura una sola, la vostra maglia “We are all immigrants” vessillo di autentico antirazzismo. Non umiliate l'intelligenza collettiva con altri paragoni inconsistenti tra i modelli di Gucci con il turbante sikh, ristoranti fusion e le donne nere con i capelli ossigenati: non è, né sarà mai la stessa cosa, per le diseguaglianze di potere spiegate sopra. Gucci è un brand di alta moda che come qualsiasi altra azienda è interessato a fatturare, le donne nere la categoria a cui per secoli è stato lavato il cervello su quanto non rispondessero esteticamente ai veri ideali di bellezza europei. Così come non esiste “il razzismo verso i bianchi” non esiste neanche l'appropriazione culturale “al rovescio”, ovvero da cultura minore a dominante. Quel processo inverso esiste già, riguarda il sud globale, è già stato definito e ha un altro nome: neocolonialismo.

Personalmente non sono in guerra contro i naturali e necessari processi di contaminazione tra culture: trovo solo importante che, quando ciò avviene tra culture sbilanciate economicamente, venga garantita una sopravvivenza degna e non oggettificata a quella situata più in basso.

Lo sappiamo l'Europa non sono gli USA, ma sorpresa: siamo sempre nel nord globale.

Essere nati, cresciuti e di fatto appartenere a una società collocata nel lato privilegiato del mondo ci rende beneficiari di un sistema economico, politico e culturale di gran lunga più avvantaggiato di quello di un qualsiasi altro paese nel sud, dalla cui diaspora provengono gran parte dei dibattiti sull’appropriazione. I discorsi sull’inesistenza di proprietà intellettuali quando si parla di culture altre da quella di appartenenza alimentano la narrativa tossica e imperialista descritta prima. In pratica autorizzano e giustificano il nord globale a non riconoscere i propri privilegi, al momento di interagire e convivere con il sud.

Sembra che ci sia un oblio generale sulla posizione geopolitica dell’Italia: si tende a non considerare che ci troviamo in pieno primo mondo, viviamo di riflesso (come tutta l’Europa) la realtà statunitense e ne siamo influenzati in ambito economico e/o socio-politico dal 1947, quando venne indetto il Piano Marshall. Sono molto critica verso i tentativi di universalizzazione dei modelli statunitensi di attivismo e progressismo. Sono tutto fuorché filoamericana e più in generale detesto riferirmi agli Stati Uniti come all’“America”. Tuttavia, Europa e USA sono l’occidente per eccellenza, e in quanto tali godono di una continuità culturale ed economica riflessa nelle rispettive società.

Dico questo perché la prima cosa che amano ribattere i millennial woke italiani quando si cerca di illustrare i motivi per cui dovremmo darci tempo e spazio anche per parlare di appropriazione: “Sì, ma non siamo negli USA, il tessuto sociale è diverso, le identity politics qua non funzionano, di conseguenza l’appropriazione culturale non esiste in quei termini, né se ne può discutere.”

Già, allora tanto meglio appiattire ogni esperienza di diversità culturale fiorita sul territorio italiano perché “troppo identity politics americana”. Meglio far finta che gli italiani di colore abbiano le stesse identiche esperienze degli italiani bianchi, che il razzismo sia quello dei fascisti e della Lega e che uno straniero valga qualcosa solo quando pienamente integrato/assimilato al prezioso “tessuto sociale” italiano. In quanto membro di una minoranza etnica che in Italia non trova alcun tipo di rappresentazione trovo stimolante seguire e solidarizzare con i movimenti di altri Paesi volti alla tutela e preservazione delle stesse, sul loro territorio. E sarà così fino a quando non cambierà qualcosa anche in Italia. Fateci l’abitudine, perché una persona di colore avrà sempre molte più probabilità e motivi di una caucasica, per denunciare fenomeni come l’appropriazione culturale.

Sono tentata di mandare questo articolo a quella mia ex compagna di pallavolo...

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Perché i rapper italiani si stanno tatuando la faccia?

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Forse è cominciato tutto da quelli di Er Gitano. Quando MTV andò a raccontare la sua storia passando una giornata con lui a Tor Bella Monaca non li aveva ancora, ma aveva già calcificato in sé il sistema di valori che lo avrebbe portato a tatuarsi il viso: "Quando combatti, o vinci o muori". La telecamera lo riprende mentre guida, e in sottofondo si sente la sua voce su "Sangue e Piombo" di Saga Er Secco: "Come armi sempre e solo mani toste e tatuate". Er Gitano si sentiva un guerriero, ed era quindi più che felice felice di marchiarsi il corpo prima di entrare in battaglia.

Quando ammise a se stesso di non aver più voglia di combattere, a febbraio 2012, si sparò in testa. In faccia aveva il muso di un pitbull e delle lacrime, ma anche le scritte "mea culpa" e "addio", simboli in cui si confondono aggressività e responsabilità, furia e riflessione. Nel momento della sua morte, c'è chi li sfruttò per puntare il dito contro di lui e di Pepy, suo compagno di crew morto qualche anno prima: "Sti quattro zozzi pieni di tatuaggi, pregiudicati, palestrati e dall'atteggiamento di chi ti deve massacrare. Due coglioni di meno su questa Terra", diceva un commento dell'epoca.

Nessuno, o quasi, ha invece osato fare un commento su quello che aveva in faccia Lil Peep, morto a soli 21 anni lo scorso febbraio. Si è polemizzato sul suo rapporto con le droghe e i medicinali, certo, ma l'equazione "tatuaggio sul viso = criminale" era completamente assente, resa irrisolvibile da un fulmineo cambiamento nella psiche e nell'estetica di chi fa e ascolta rap. Aveva persino cominciato a lavorare come modello, Peep, con il suo motto Crybaby sulla fronte, una rozza "A" di Anarchia sulla guancia, una rosa nera sull'altra.

Fotografia di Chris Bethell, tratta dalla nostra intervista a Lil Peep.

Nei sei anni che sono passati dalla morte di Er Gitano i tatuaggi sul viso sembrano essersi normalizzati, in Italia come nel resto del mondo. È stato un processo lento e costante che entrò per la prima volta nella conversazione mediatica americana nel 2011, quando Gucci Mane decise di mettersi sulla guancia il suo iconico, oggi scomparso, cono gelato. Ma Lil Wayne, già da prima, aveva deciso di usare l'interezza del suo corpo come tela per puro piacere estetico. Young Thug, che idolatrava Wayne fino quasi all'ossessione e allo scherno, cominciò presto a imitarlo anche nell'inchiostro che si metteva sulla pelle.

Qualcosa è però cambiato con la nascita e l'affermazione di quella corrente disordinata a cui ci si riferisce come SoundCloud Rap, in cui si mischiano trap, emo e lo-fi. È impossibile stabilire esattamente quale sia la ragione dell'empatia che si è creata tra artisti come Lil Uzi Vert, Lil Pump, Lil Peep, XXXTentacion e Lil Xan e il loro enorme pubblico: credo c'entri l'immediatezza comunicativa evocata dal grezzume emotivo e a tratti violento dei loro pezzi, confermata nella creazione di un discorso social costantemente aperto che si svolge attraverso foto, storie e dirette. Ma c'entra anche la loro estetica, e nello specifico un'intuizione: in una scena hip-hop più ampia in cui l'attenzione alla moda è ai suoi massimi storici, il modo migliore per farsi notare è osare, esagerare. E quindi tatuarsi, per esempio, un sacco di "69" sul viso, o un albero rinsecchito sulla fronte.

Come ha raccontato The Outline in questi due pezzi sul tema, i tatuaggi sul viso rischiano di diventare così normali che immaginare un futuro in cui i nostri nipoti avranno le guance pittate non sembra poi così assurdo. Hanson O'Haver, autore del secondo articolo, fa notare come questo fenomeno potrebbe essere paradossalmente un ritorno alle origini della pratica del tatuaggio. Nonostante nel corso dei secoli sia stato associato al mondo del crimine, nella cultura Maori il tatuaggio sul viso - il tā moko - era un simbolo di status sociale e aveva una valenza religiosa. Come anticamente avere un pattern sul viso simboleggiava il proprio ruolo all'interno di una comunità, così oggi per un rapper mettersi in faccia una scritta o un disegno sta diventando affermazione del proprio status: "Ora faccio il rapper, e non posso né voglio fare altro".

"Mi sono fatto il mio primo tatuaggio sul viso tra il 2012 e il 2013", mi dice Mike Highsnob, parlandomi della scritta 24/24 che ha sotto all'occhio sinistro. "È il simbolo dell'oro, a indicare la purezza. Poi ho fatto la scritta kalderash, un gruppo di sinti rumeno di cui alcuni miei amici fanno parte". E poi arriva alla sua fronte, e all'enorme scritta HIGHSNOB che campeggia sopra il suo sopracciglio. "L'ho fatta praticamente un mese dopo lo scioglimento dei Bushwaka. Prima di cominciare a fare singoli, però".

Il caso di Highsnob si inserisce perfettamente nella narrazione di dedizione che sembra aver sdoganato i tatuaggi all'interno della scena rap italiana: "Il mio progetto era fallito, ero in un momento di zero hype e ho voluto fare una scelta coraggiosa. Volevo far vedere che stavo facendo sul serio, prima a me stesso e poi agli altri. Nel mio cervello il fallimento non esisteva." Al contempo, però, Mike è perfettamente conscio di come il discorso sia molto più complesso e tocchi anche l'estetica e la psicologia: "Non mi piace nascondermi dietro a un dito: il tatuaggio ha un fattore estetico. È un modo per dire 'hey, guardami'. Io non sono escluso. Si parla sempre di business, di cose in cui un rapper deve stare dentro con i piedi."

Viviamo in un'era in cui fare rap è più semplice che mai, ma al contempo così semplice da creare una saturazione del mercato. Il tatuaggio sul viso è quindi diventato uno dei modi che chi fa rap ha per identificarsi nel personaggio che interpreta e cercare di affascinare chi presta i suoi occhi e le sue orecchie a un suo video, accettando al contempo le conseguenze psicologiche del gesto. "Quando non arrivi al successo, anche chi non ti dice nulla ti guarda sempre con quel fare, come a dire 'povero cretino'", spiega Mike. "Anche chi ti vuole bene ma non capisce la determinazione che c'è dietro. Ti chiedono che lavoro fai veramente, dove sono i soldi. E tu sei lì che ingoi, ingoi, ma sai dove vuoi arrivare. Quando ti chiedono quale sia il tuo vero lavoro non stanno capendo la sofferenza che c'è dietro al tuo fare rap. Torni a casa arrabbiato, impensierito. Ma è una cosa normale per chi non ha nulla e parte da zero".

Dopo essersi tatuato in faccia senza avere alcuna certezza di quello che sarebbe stato Mike ce l'ha fatta davvero a fare il rapper, e può quindi parlare delle sue scelte alla luce di un percorso più o meno compiuto. Non si può dire lo stesso di due ragazzi esordienti che ho contattato per questo articolo. Quello nella fotografia qua sopra, Young Signorino, ha da poco cominciato a pubblicare pezzi ufficiali dopo una serie di quelle che chiama "trappate" dadaiste e gracidanti, estremizzazione dell'idiozia testuale che compone parte del vocabolario dei rapper odierni. Il suo risultato migliore, a oggi, sono le 117k views del suo nuovo video - non ancora un risultato che gli garantisce un futuro da rapper.

Signorino ha un paio di lacrime sul viso, un coltello sulla guancia sinistra e il suo nome d'arte, imponente, sulla fronte. Mi racconta: "Ero lì un po' in sbatta, come tutte le sere, alle cinque di mattina. Il coltello l'ho fatto per poi dire in una canzone 'lei vuole leccare il coltello'". Poi ride. "E volevo personalizzarmi la faccia col mio nome. Non ragionavo tanto, però sono fighi [come tatuaggi]". La sua è stata una scelta impulsiva, esagerata e a casaccio: le stesse qualità che contraddistinguono lui, la sua musica e le reazioni che causa. "Ancora in Italia non sono pronti per 'sta cosa. Ci sono ancora troppe critiche. Ovunque, tutti mi danno del modaiolo o del pazzo. Ma c'è anche chi mi dà del grande". Sembra che nella sua testa la priorità sia scatenare una reazione, qualsiasi essa sia. Prima di mettere giù il telefono, me lo dice chiaramente:

"L'ho fatto apposta per essere provocatorio. Non ho tatuaggi addosso, li ho solo in faccia."

Per la comunità dei tatuatori parole come queste sono un terreno di battaglia, una terra di nessuno trincerata da una parte dalla tradizione, dall'altra dall'innovazione. Riccardo Berlanda, in arte Berly Boy, fa parte del primo schieramento. "Le zone esposte ce le si guadagna. Mani, collo e faccia come ultima cosa", dice. Sostiene che chiunque possa fare quello che vuole con il proprio corpo, ovviamente, ma "a patto che abbia coscienza di cos'è portarsi dietro un tatuaggio". Crede che il tatuaggio in faccia sia oggi, nella scena rap, "una moda che ti fa scopare tutte le fighette stupide, ma domani sarà come il sacro cuore sul petto, o i tagli sulla braccia dell'emo che ora tutti vogliono coprirsi".

L'eccezione, nella sua concezione, è chi si tatua il viso sulla forza di un background artistico. Mi cita come esempio Gucci Mane: "Come i punk provocavano nel '77, questo provoca in questa maniera negli anni Duemila, e ha abbastanza miliardi e faccia di cazzo da poterselo permettere". Dall'altro lato dello spettro, sta chi "inizia a cantare e un anno dopo si tatua il simbolo dei soldi in faccia". E questi sono sempre di più: Riccardo sostiene che negli ultimi tempi la quantità di persone che gli chiede tatuaggi in zone visibili sia aumentata fortemente, ma se questi non hanno una superficie elevata del corpo, o una conoscenza della pratica tatuaggio, cerca di dissuaderli.

Quando chiedo a Riccardo un esempio di tatuaggi in zone visibili che apprezza particolarmente lui mi cita The Great Omi, un ufficiale della marina inglese che, a inizio Novecento, andò dalla leggenda del tatuaggio George Burchett e gli disse di voler diventare una zebra. "E allora il maestro fa questa bodysuit completa che entra nella storia, un progetto stupendo. Omi diventa un freak, si lima i denti, si dilata i lobi, si mette un septum in osso. Lui è uno coi coglioni, un altare al tatuaggio".

Antonio Peluso, in arte TrashFlash666, si pone in maniera diversa. Nel suo curriculum ci sono tatuaggi a Ghemon, Gemitaiz, Madman, Sfera Ebbasta, Lazza, Wayne e Highsnob. "Il panorama del tatuaggio si sta liberalizzando molto. Non si parla più di studi old school creati e gestiti dagli Hell's Angels e tutta quella roba lì. Se un tempo non ci si poteva tatuare sulle mani o sulla faccia prima di avere il 90% del corpo tatuato, adesso le cose stanno cambiando. A livello estetico è subentrata questa scena un po' ignorant, in cui mi rivedo, per cui il tatuaggio è più leggero, meno invasivo e pesante, magari fatto di sole linee molto sottili. Questo ha contribuito a sdoganare i tatuaggi in posti un po' sbatti, per intenderci".

L'entusiasmo di Antonio per lo sdoganamento del tatuaggio come forma d'arte pura è genuino: "Se uno vuole tatuare, comincia domani e non sa nulla ma tira fuori delle bombe che non hai mai visto, perché penalizzarlo perché non ha la concezione dell'old school?", si chiede. Ma è abbastanza lucido da considerare l'impatto che un marchio sul viso ha sulla salute mentale del tatuato. "Il tatuaggio sulla faccia è un impegno. Ti penalizza nel mondo del lavoro e a livello sociale. Puoi essere la persona più brava del mondo, ma siamo ancora in uno stato di bigottismo per cui la gente ti guarderà male", dice. Per questo, quando un ragazzino gli chiede di lavorare sul suo viso, lui e i suoi colleghi cercano sempre di farlo ragionare: "Se viene un ragazzo con quattro tatuaggi in croce e vuole farsi la faccia sta a noi la responsabilità di fargliela o meno".

Sfera Ebbasta, fotografia di Antonio Peluso aka TrashFlash666.

Simone Basta aka Freddy Boy Bastard, che ha tatuato Side, Wayne e Tony Effe, affronta la questione da un punto di vista di fama e personalità. Secondo lui, il tatuaggio sul viso "è una cosa che non tutti possono permettersi". Mi racconta di aver mandato a cagare tutti i ragazzini che sono venuti a chiedergli di lavorare sul loro viso senza avere magari niente sul corpo: "Io faccio robe sulla faccia e sulle mani non a comuni mortali ma a personaggi pubblici, che possono anche scriversi 'Fanculo' in faccia e a me va benissimo. Se mi arriva un pischello che vuole farsi un tatuaggio perché ha visto Lil Xan che si mangia quattro barre al giorno, gli dico 'Zio, smettila, fatti due canne e capisci che non è il tuo mestiere. Vai a fare l'operaio come ho fatto io così ti passa la voglia di fare il pirla'".

Stefano, in arte Black Bear, lavora in provincia di Cagliari e ha tatuato a Sfera Ebbasta il Kalashnikov che ha sul lato del viso. Anche lui mi sembra della stessa opinione di Freddy Boy Bastard: "Chi si tatua in punti così ha una personalità abbastanza estrema, le idee molto chiare e una direzione in testa", mi dice raccontandomi del lavoro che ha fatto a Sfera. "Quando se l'è fatto, mentre promuoveva il suo primo album, non aveva ancora una fama internazionale ma aveva già mani e collo tatuate. Per me [il tatuaggio in zone visibili] rientra un pochino nella normalità, quindi non vado a sindacare sulle motivazioni. Oggi, con la fama che ha, potrebbe tatuarsi in qualsiasi zona e sarebbe ok".

Secondo Freddy Boy l'elemento emulativo è fondamentale per spiegare l'improvviso aumento di richieste di tatuaggi in zone visibili. Fa notare, però, che è un fenomeno che potrebbe ribaltarsi diventando la norma e perdendo quindi l'elemento di rottura che lo ha reso così affascinante in primo luogo. "La cosa fondamentale è farsi riconoscere dalla massa, copiare le altre persone per me è sbagliatissimo. Non basta voler essere come Sfera per essere lui", dice. Questo, però non impedisce a chi raggiunge la maggiore età e sogna di diventare un rapper di crederci davvero, che un tatuaggio sulla fronte gli svolterà la carriera. Anche se vive in un paesino in Basilicata.

Screenshot dal video di "BLACKDRAGON" di Taxmania.

Taxmania ha 19 anni e vive a Rapolla, in provincia di Potenza. Ha in faccia una scritta, xSPETTROx, un diamante e un fantasma. Sono capitato sul video della sua "BLACKDRAGON" per caso, un brano esageratamente gridato, greve e violento che mi sembra dover molto al gusto per la provocazione di 6IX9INE. Ma mente Take$hi sta a New York e ha un pubblico potenzialmente enorme, essendo americano, Tax è calato in un contesto completamente avulso dalla realtà della scena hip-hop internazionale. Questo, però, non lo ha minimamente fermato quando ha deciso di tatuarsi la faccia. "È un paesino di 4000 abitanti dove non c'è niente. Noi abbiamo portato qualcosa", mi dice.

Gli chiedo da quanto rappa, e lui mi risponde "Da parecchio, saranno sette anni, da quando eravamo ragazzini". Questo dimostra una certa convinzione nei propri mezzi e la rischiosa idea che fare musica a 12 anni possa già essere considerabile parte della propria carriera e gavetta. Non riesco a farmi spiegare bene da Tax il momento in cui ha scelto di marchiarsi la faccia a soli 18 anni, ma mi colpisce molto la terminologia che utilizza. Definisce i suoi tatuaggi "una pazzia", come se fosse consapevole dell'assurdità del suo gesto. Ma poi ritratta: "Già da piccolo avevo dread e tatuaggi sulle mani. La cosa "non gli pesa" a livello mentale. In lui ritrovo l'idea della scelta di vita, della dedizione alla causa: "Il rap era la mia unica scelta, dovevo fare qualcosa che lo rendeva un lavoro".

Cercando di delineare i motivi della sua scelta, Tax mi sembra poi tornare leggermente sui suoi passi: "Per me non è normale che i ragazzi si tatuino in faccia. Io forse ho sbagliato, potrò pentirmene e non convincerei mai nessuno a farsi un tatuaggio sul volto. Potresti anche essere senza, ma è come se guadagnassi punti nello stile. Non è come avere un paio di scarpe che non hanno tutti, è qualcosa di più pesante". È proprio il processo mentale che mi sembra stia cominciando a palesarsi con frequenza sempre maggiore nelle menti di chi decide di voler fare il rapper, talentuoso o meno che sia: un pastrocchio di volontà di apparire e scelta di vita, passione e pazzia, distorsione (o evoluzione?) di una pratica dalle origini ancestrali in nome di una fama proiettata che potrebbe non arrivare mai.

"Ci sta il tatuaggio, ci sta l'estetica, ognuno fa quello che vuole. Però siamo entrati in un'altra fase in cui io lo faccio prima di diventare chi voglio diventare perché quella cosa là mi dà l'illusione di esserlo", mi dice Luche.

Il rapper di Marianella mi sta parlando da Londra, via Whatsapp. L'ho chiamato per chiedergli della scritta che ha deciso di mettersi sulla fronte: Young, giovane. Lui me lo spiega volentieri: "Nel nostro campo si parla tanto delle nuove generazioni e del fatto che solamente i ragazzini ora siano rilevanti. Io non la penso così, ma parlandone spesso questo timore e complesso un po' ti inizia a entrare nel cervello. Quindi era un po' un reminder per ricordare a me e agli altri che finché sei giovane tu, allora è tutto ok". Ma il discorso si sposta presto su che cosa un tatuaggio sul viso significa per la carriera di un artista, piuttosto che sull'opera in sé.

Secondo Luche non c'è una grande differenza tra un ragazzino americano e uno italiano che sceglie di tatuarsi sul viso: "In entrambe le nazioni c'è chi ce la fa a diventare qualcuno e chi no. Siamo in una fase di uniformità, di mancanza di personalità. Le nuove generazioni cercano di essere uguali a tutti allo stesso tempo, di essere il personaggio del momento a tutti i costi. Lo trovo molto triste, oltre che rischioso. Il 90% dei ragazzi che fanno una cosa del genere non ce la farà nella musica, e nella vita si troverà questo guaio sul viso solo perché si voleva dare un tono."

Luche è uno di quelli che ce l'ha fatta. Ha deciso di tatuarsi il viso per dare ulteriore spinta alla sua creatività, forte dello status che ha raggiunto dopo anni e anni passati a scrivere, esibirsi e curare la sua immagine e la sua carriera. "Magari questi ragazzi possono indovinare una hit, ma durare dieci, quindici anni non è facile", conclude. Ed è vero. I grandi modelli statunitensi che i ragazzi di mezzo mondo idolatrano, indipendentemente dal contesto sociale da cui provengono, hanno avuto il beneficio di essere stati tra i primi promotori di un'estetica e una concezione musicale che ha attecchito benissimo nel terreno culturale della scena hip-hop nel suo momento di maggiore espansione. Man mano che continua a mettere le sue radici, però, sempre più persone ne resteranno affascinate e vorranno farne parte. E quindi con il tempo il potenziale artistico ed evocativo, come accade a ogni scena e movimento, si spegnerà.

Arriverà un giorno in cui, probabilmente, i tatuaggi in zone visibili saranno così normali da non causare più sdegno e prese per il culo. Il viso resta l'ultima frontiera dell'accettabilità, e i rapper che la stanno varcando hanno deciso di giocare d'azzardo, di affermare il loro coraggio e la loro voglia di dettare una linea estetica mettendo sul piatto il loro futuro all'interno del corpo sociale. Chi è già in una posizione di dominio la sta consolidando, mentre chi la vuole raggiungere si trova invece al centro di un fenomeno artistico ed estetico fino ad oggi inedito. Comunque andrà, tutti saranno stati protagonisti di un momento storico fondamentale nell'evoluzione del rap e del tatuaggio. Chi ricade nella seconda categoria, però, farebbe meglio a tenersi comunque da parte qualche migliaio di euro. Si sa mai che un giorno senta il bisogno di farsi puntare un laser in faccia.

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Entra nelle acque immobili di Maurizio Abate

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Maurizio Abate è uno dei miei musicisti italiani preferiti. Nel bellissimo catalogo di Holidays Records ho una passione particolare per il suo Live From The Border del 2012, e nel 2014, un po’ scocciato per l’assenza di dischi "importanti" che mi fossero davvero piaciuti da pazzi (a parte quello di D’Angelo) e in polemica con l’idea che i dischi importanti possano essere solo quelli di grandi nomi stranieri, decisi addirittura di eleggere il suo A Way To Nowhere (lavoro psichedelico e suggestivo, molto ricco e allo stesso tempo pieno di forza e istintività) a mio disco dell’anno, essendo stato un fedele compagno di tante nottate.

Maurizio, attivo ormai da quasi vent’anni, fa indubbiamente parte di un certo circuito di ottimi musicisti sperimentali italiani: ha collaborato negli anni con Alberto Boccardi, Matteo Uggeri, i Jooklo Duo, ha un progetto in coppia con Canedicoda a nome Arbre Du Ténéré, ha diviso molti palchi con gli Al Doum & The Faryds (splendida band di psichedelia contaminata, della quale vi daremo presto notizie) e ha fatto parte insieme a Rella/Everest Magma e a Roberto Maggioni degli Eternal Zio, autori di un bellissimo album per Boring Machines.

Il suo ultimo album solista fino a oggi era Loneliness, Desire And Revenge, uscito nel 2015 per Black Sweat Records, in cui a farla da padrone era soltanto una chitarra acustica legatissima alla lezione di John Fahey. Siamo molto felici di presentarvi oggi in anteprima assoluta e nella sua interezza il nuovo Standing Waters, che esce in CD per Boring Machines e in LP per Black Sweat. È forse il disco più solare che Maurizio abbia mai realizzato e, sebbene sia sempre la chitarra a essere regina, si ritorna un po’ alla ricchezza dei lavori precedenti dopo le sonorità primitiviste del lavoro del 2015.

Standing Waters è un disco che siamo sicuri saprà rapirvi e affascinarvi, e magari farvi scoprire un talento che non conoscevate e che tutto il mondo potrebbe invidiarci. Ascoltatelo qua sotto, mentre dopo trovate le parole che Maurizio ha condiviso con noi per raccontarci il suo disco.

Noisey: Come è nato Standing Waters?
Maurizio Abate:
Questo album si sviluppa attorno al concetto di staticità, una condizione che a mio avviso ha una duplice chiave di lettura: se da un lato evoca immaginari percepiti come negativi, il non movimento, la non evoluzione, lo stallo, il blocco, dall'altro è proprio nell'apparente immobilità che credo si possa approfondire, osservare con maggior cura e magari scoprire risorse ed energie inaspettate. La metafora acquatica mi pareva idonea per la resa di questa riflessione.

Le prime registrazioni risalgono all'estate 2016 quando mi sono preso una settimana di tempo per registrare le basi di chitarra acustica, ho fatto tutto da solo anche questa volta perché ho sempre più bisogno di crearmi una bolla spazio temporale per potermi concentrare, mettermi in contatto con me stesso, la mia musica e cercare di mettere a fuoco al meglio le idee. Come luogo ho scelto Rosazza, un piccolo paese nelle valli biellesi con una interessante storia esoterico-massonica, perché lì vivono e portano avanti un interessante progetto culturale (l'Autobahn William Willhelm Cafee Dallas) due amici che mi hanno ospitato una settimana nella loro casa.

Nei mesi successivi con il contributo di altri musicisti (Lucia Gasti al violino e Matteo Bennici al violoncello) ho completato le sovraincisioni e il mixaggio, giocando con strumenti per me nuovi come il pianoforte.

Forse è il tuo disco più solare, almeno nella mia percezione. È un’impressione giusta? È una cosa legata anche alla tua vita personale?
Sì, trovo che sia un’impressione giusta ed è stata in gran parte una scelta voluta. A differenza del disco precedente, che fotografava un momento di profonda catarsi, con Standing Waters volevo un disco meno malinconico, e probabilmente questo ha a che fare con una maggiore serenità che caratterizza il mio stato attuale.

Mi sembra quasi un altro lato di A Way To Nowhere, come se fosse un disco simile a livello compositivo e produttivo ma fatto con un mood diverso.
Per quanto mi riguarda trovo invece una continuità con Loneliness, Desire And Revenge, principalmente per il fatto che anche per questo disco ho composto tutti i pezzi prima di registrarli (a differenza di A Way To Nowhere in cui il processo di registrazione e di composizione si sono praticamente sovrapposti) e in seconda battuta per aver scelto la chitarra acustica come strumento cardine. Già da subito mi piaceva l'idea di aggiungere altri contributi strumentali, ma forse mi son fatto prendere la mano se noti similitudini con A Way To Nowhere, nel quale invece ho utilizzato molti più strumenti, elettrici, elettronici e pure un sacco di voci!

Forse allora si tratta di una via di mezzo! Se le tue radici sono abbastanza chiare nella psichedelia, nel minimalismo e nel primitivismo (l’amore per John Fahey esplicitato nell’album precedente e anche in passato) che cosa ascolti adesso? Che cosa ti piace del presente?
Non sono un gran ricercatore di musiche contemporanee e non sono aggiornatissimo su quello che succede oggigiorno, diciamo che la mia fonte principale sono amici che mi passano questa o quella uscita. Di mio preferisco guardare indietro e riscoprire esperienze, dischi e musicisti del passato. Trovo che ci sia un bacino immenso di perle che è tutto da scoprire. Conta che poi in generale non ascolto più così tanta musica come in passato, sono meno affamato di una volta e negli anni mi sono affezionato a musicisti o dischi che ancora mi fanno compagnia e ascolto con piacere.

Essere un musicista “sperimentale” in Italia a volte è frustrante? Io ho l’idea che se tu fossi nato in un altro paese probabilmente saresti già stato sulla copertina di The Wire e magari avresti una maggiore tranquillità professionale, tour internazionali… È un pensiero che fai anche tu qualche volta? Come ti sembra la situazione in Italia?
Non ci penso spesso, forse perché non ho grandi ambizioni o forse perché mi ritengo appagato nel momento in cui riesco a fare ciò che mi piace nei tempi e nei modi che sento miei. Non ti nascondo però che un po’ di frustrazione sale quando per l'appunto non riesco a suonare dal vivo quanto vorrei o faccio fatica a trovare etichette che pubblichino i miei dischi.

Sai, mi sono sempre mosso in ambienti DIY perché mi piace sentirmi parte di una rete di appassionati, e ho scelto di non guadagnarmi da vivere con la musica anche per mantenere uno spazio di totale libertà creativa. Mi fa molto piacere avere un riscontro positivo da addetti ai lavori o da supporter in generale, ma mi rendo conto che con la mia musica fatico ad arrivare a un pubblico vasto: non mi crogiolo in questo ma finora è stato così, ne prendo atto e vado avanti per la mia strada.

Per la mia esperienza trovo che in Italia non ce la passiamo poi così male, ma non mi riferisco di certo alla cultura di massa, o all'assenza di supporti o agevolazioni istituzionali/statali che invece si trovano in altri paesi. Ci sono comunque molte realtà di gruppi, musicisti, etichette, spazi occupati, collettivi, piccoli promoter, che lavorano con passione e dedizione. Certo ci sono periodi più o meno floridi, ma tutto sommato non c'è di che lamentarsi.

Quella di fare musica per te è anche una sorta di esigenza fisica? Mi dai l’idea di essere uno che suonerebbe comunque tantissimo anche in casa per conto suo, anche se non pubblicasse nulla.
Se parliamo del rapporto con la chitarra sì, è una pratica che mi dà gran piacere, continuo a suonarla quasi quotidianamente seppur molto meno che in passato. Negli ultimi anni ho sviluppato però un approccio più "progettuale", invece di abbandonarmi al flusso creativo preferisco condensare le energie piuttosto che disperderle.

Guarda il teaser di Standing Waters , a cura di Elisetta, con un brano inedito come sottofondo:

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Recensione: 6IX9INE - DAY69

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Se seguite minimamente 6IX9INE, sapete benissimo che è una persona particolarmente problematica sotto molti punti di vista; se non lo conoscete, allora leggete questo articolo. Breve riassunto se non avete tempo di farlo: il nostro provoca consciamente il suo pubblico usando il maggior numero possibile di argomenti orripilanti, machisti e sessisti nei testi che grida e nel merchandising che produce, e ha caricato volontariamente su internet un video in cui compariva mentre un suo amico abusava sessualmente di una ragazzina minorenne. Se l'è poi cavata con un patteggiamento.

Come ha già dimostrato il complesso caso di XXXTentacion, fare rap violento e finire nel mezzo di un processo non fa che spingere alle stelle la tua popolarità. Ma se X, potenzialmente una persona orribile, ha dimostrato comunque di poter fare qualcosa di interessante a livello sonoro e contenutistico, 6IX9INE non ha alcuna qualità che possa giustificare il piattume della sua musica.

I testi di Day69 sono una ributtante serie di luoghi comuni che avete sicuramente già sentito fino alla nausea. È tutto un cazzi, culi, tette, cocaina, erba, gang, fratelli, niggas e pistole e ti sparo stronzo e leccami la cappella puttana. Non c'è letteralmente altro argomento che 6IX9INE tocchi all'interno delle sue canzoni, nonostante abbia convinto i babbi che lo idolatrano di avere qualcosa da dire dichiarando che il suo brand SCUM significhi "Society Can't Understand Me". È invece perfettamente leggibile, 6IX9INE: è un moderno freak che cerca di guadagnare attenzioni facendo schifo, e ci riesce benissimo.

Come se questo non bastasse, 6IX9INE nemmeno parla di cose scontate in un modo non scontato: non c'è una minima parvenza di gusto per il gioco di parole, la sorpresa, la gioia della scrittura in ciò che pensa e dice. Young Thug, che compare in "RONDO", è allo stesso modo una persona incapace di rappare di argomenti che non rientrano negli standard del rap più greve (e nel suo featuring butta dentro una barra iper-offensiva e disgustosa come "My diamonds 12 different colors like a sissy"), ma almeno lo fa con un approccio così apparentemente naïf e dada da risultare, almeno per ora, innovativo e rivoluzionario all'interno di un contesto hip-hop. 6IX9INE, invece, non fa altro che gridare banalità cercando di farlo più forte di tutti gli altri, come un bambino che piange sempre più rumorosamente per farsi comprare dai suoi genitori il giochino che tanto vuole.

L'unica differenza tra le vecchie cose di 6IX9INE e questo Day69 è il fatto che una major ha speso dei soldi per farci rappare sopra delle persone famose e ha spinto per usare dei beat meno violenti rispetto a quelli a cui il nostro era abituato. 6IX9INE e questo suo tape sono per la musica quello che The Human Centipede è stato per il cinema: un prodotto così ributtante che non poteva non diventare un caso mediatico, e che quindi genererà un sacco di sequel tutti uguali e pian piano si spegnerà fino ad annullarsi e svanire, tornando al terrificante vuoto contenutistico e culturale che lo ha generato.

DAY69 è uscito venerdì 23 febbraio per Interscope/Universal.

Ascolta DAY69 su Spotify (se proprio devi):

Tracklist:

1. BILLY
2. GUMMO
3. RONDO
4. KEKE
5. 93
6. DOOWEE
7. KOODA
8. BUBA
9. MOOKY
10. GUMMO (REMIX)
11. CHOCOLATÉ

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Tutte le recensioni di febbraio

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Le recensioni sono una cosa strana, una specie di forma d'arte molto difficile da trattare. Guidare l'ascolto di un album è una grossa responsabilità. Noi cerchiamo di pubblicarne una ogni giorno, e ogni volta lo facciamo con un misto di orgoglio e titubanza. Ora abbiamo pensato che, per rendere il tutto un po' più interessante, fosse il caso di stilare una classifica a fine mese di tutti gli album che abbiamo recensito. Così, visto che oggi nevica un po' dappertutto e di sicuro passerete la serata in casa, magari potete riascoltarvi una nuova uscita che vi eravate persi.

Eccola la classifica delle recensioni del mese, che poi sarebbe in un certo senso la classifica dei dischi del mese.

16. GusGus - Lies Are More Flexible

Che cosa è successo ai GusGus di Arabian Horse? Perché io mi ricordavo un disco bellissimo e un progetto rispettabilissimo e ora esce questo disco così… brutto? Così triste?

15. Justin Timberlake - Man Of The Woods

Giustino, ci stai trollando o una strega ti ha trasformato nella versione country di Robin Thicke?

14. Superchunk - What A Time To Be Alive

I Superchunk sono potenti come sempre, ma non riescono a salvare l'indie rock dalla pensione.

13. Fluxus - Non Si Sa Dove Mettersi

Il ritorno delle leggende post hardcore anni Novanta è amaro, paranoico, suggestivo ma a tratti troppo conservatore.

12. Decibel - L'Anticristo

Ritornano i Decibel dopo appena un anno dal buon successo di Noblesse Oblige, disco che in qualche modo li ha fatti tornare alla ribalta, e già siamo stupiti del fatto che “gli zii del punk italiano” siano così frizzanti da rimettersi subito in gioco senza alcun timore del pubblico.

11. Rejjie Snow - Dear Annie

Questo disco ha una cosa che lo rende molto contemporaneo: è praticamente una playlist dalla quale ognuno potrebbe scegliere i suoi pezzi preferiti. Venti pezzi infatti sono decisamente troppi e in questo caso troppo vari.

10. The Soft Moon - Criminal

Come forse saprete, io sono molto critico quando si tratta di musica di revival o in linea generale derivativa. Il più delle volte è una merda, davvero. Nel senso che ok, magari all'epoca dei Joy Division voi non eravate ancora nati, quindi i loro cloni non vi infastidiscono, oppure proprio non sapete che cosa state ascoltando perché magari vi siete formati musicalmente scaricando roba a caso. Non è neanche colpa vostra, tutto sommato.

9. Portal - ION

È successo l'impensabile: i Portal hanno pubblicato un album in cui il loro caos cacofonico diventa quasi intelligibile. Quasi.

8. Fu Manchu - Clone Of The Universe

Siamo nel 2018 e davvero serve scrivere di un disco dei Fu Manchu? Dove avete vissuto fino ad oggi, sulla Terra? Magari sobri, e pure in città? Scelte di merda, quando esistono il deserto e il THC. È venticinque anni che i Fu Manchu lo predicano: un paio di bombe, gli Orange aperti al massimo, il Mojave a perdita d’occhio.

7. ['selvə] - D O M A

La band screamo/black di Lodi abbandona per un attimo l'assalto frontale per un EP più meditativo e dilatato, e le riesce benissimo.

6. Nils Frahm - All Melody

Basta feltro sui martelletti del pianoforte per non fare casino, Nils Frahm ora ha uno studio tutto suo e si diverte come un bambino.

5. Hieroglyphic Being - The Red Notes

Nella musica di Hieroglyphic Being non c'è spazio per la negatività, ma soltanto per beat accoglienti che puntano all'abbandono e alla presa bene.

4. Zs - Noth

Oh, meno male, va'. Meno male che esistono dischi come questo, che non hanno bisogno di recensioni e recensori, dovrebbero essere tutti così. Perché dico così? Perché Noth dei famigerati Zs di Patrick Higgins, Sam Hillmer e Greg Fox, ora un quartetto con l'aggiunta di Michael Beharie alle manipolazioni elettroniche, si recensisce da solo. Cosa vuoi dire su questa compilation di schiaffazzi registrata live all’altrettanto famigerato Café Oto, in quel di Londra? Nulla.

3. Jung An Tagen - Agent Im Objekt

Fortunatamente l'Austria non produce solo grandissime teste di cazzo razziste, ma anche dei capoccioni multiformi che con la loro concezione di musica elettronica astratta e nello stesso tempo “molecolare” (cioè proprio collegata a discorsi fisico-matematici e per questo naturali, perché la natura è chimica) sono in grado di aprire la mente e abbattere ogni frontiera.

2. Bad Gyal - Worldwide Angel

C'è un po' di confusione su quello che Bad Gyal fa e rappresenta. Fondamentalmente, è una ragazza catalana che canta con l'autotune su basi che devono in egual misura al reggaeton e alle tradizioni dancehall e dembow, così come all'elettronica luminosa ridotta all'osso che alla Giamaica deve tanto di scuola Mixpak. Unisce quindi lingue e stili, Bad Gyal, felice di ballare e far ballare affermandosi ambasciatrice del perreo portoricano e del wine giamaicano.

1. U.S. Girls - In A Poem Unlimited

Prendete alcuni dei pezzi più riconoscibili dei gruppi vocali femminili americani degli anni Sessanta, pescando a mani piene dal vaschettone dei grandi successi. "Leader of the Pack" delle Shangri-Las. "Be My Baby" delle Ronettes. "Then He Kissed Me" delle Crystals. Ora prendete i loro testi e rimuovete chirurgicamente qualsiasi retaggio di sottomissione post-bellica potessero contenere. Sostituiteli con la narrazione biografica di una ragazza che riesce, impassibile, a parlare del modo in cui le donne e gli uomini si relazionano all'interno del precario contesto socio-politico americano come se fosse la cosa più naturale del mondo. Metteteci sotto musica che parte da quel rock and roll e quel pop dei tempi andati, li fa passare per il colino della disco anni Settanta e dell'R&B anni Novanta, e avrete qualcosa che assomiglia a In a Poem Unlimited.

Scopri la Milano granulosa di Eshla

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Il modo in cui una città cambia è lento e costante. Si esplicita nelle buche e nei cantieri, nei nuovi palazzi e in quelli che, abbandonati, si disfano e diventano scheletri. Guardare foto e filmati della vecchia Milano mostra una città in espansione, piena di contraddizioni come di opportunità. E quindi è strano guardare il video di "Diomeda" di Eshla, la nuova uscita di Avantguardia aka il collettivo di producer italiani capitanato da Shablo, a cura del videomaker Andrea Venturelli. Filmato in Super 8, è formato da inquadrature degli scintillanti e moderni palazzoni di Porta Garibaldi, a Milano - coperti però dalla grana dell'analogico, ricordi sfocati da un passato che in realtà è presente.

Il video è qua sopra. Qua sotto trovate quello che Eshla (nel suo curriculum il beat di "Instagram" di Ernia e un EP su Appareltronic, Self) e Andrea (che si occupa di piccoli live, eventi di brand content e showcase e collabora con vari artisti della scena pop e hip-hop italiana) ci hanno detto sul loro lavoro. Restate connessi su queste pagine per nuovi aggiornamenti su quello che Avantguardia sta preparando: le loro nuove compilation Takeoff e Landing sono in arrivo.

Eshla: "Il brano nasce attorno al suono di violino che lo attraversa e che ho modificato e glitchato. Penso si possa dividere in due momenti: la prima parte, un po' più elettronica e cruda, e la seconda che comincia con un beat più hip-hop swingato, con un suono di piano elettronico, e ha un'atmosfera più calda e romantica. Sono entrato in contatto con Shablo e Mace tramite un nostro amico in comune, un visual designer che gli ha passato un po' di mia roba. Tra le cose che ho fatto c'è un beat per Ernia per il suo primo EP, nel pezzo "Instagram", e l'anno scorso ho pubblicato un EP, Self, con Appareltronic, che fa parte del mondo Apparel, un'etichetta di musica elettronica italiana che ha sede a Londra".

Andrea Venturelli: "Sono un nativo digitale e ho sempre lavorato con mezzi digitali, ma lo scorso anno ho comprato una telecamera Super 8 e mi sono messo a fare degli esperimenti. Andavo sul balcone dell'ufficio dove lavoravo e riprendevo i palazzi di Garibaldi, a Milano. Era come un gioco. Sviluppato il rullo, mi sono accorto di avere del materiale che spesso non si vede in rete. Il paradosso vero di questo video è che in un'epoca in cui il digitale ha uno spazio sempre maggiore, l'avanguardia si fa con la pellicola. Come ispirazione avevo pensato a Manhattan di Woody Allen, che inizia con queste schermate bellissime di New York... La cosa ridicola è che quando abbiamo provato a mettere la canzone assieme al montaggio fatto in macchina andava perfettamente a tempo. È stato un caso, ma anche forse la sorte che ha scelto la canzone per questo video".

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Primitive Music di Machweo è un'improvvisazione irripetibile

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Machweo non si è mai ripetuto, di album in album. Nel 2013, quando fece uscire il suo esordio Leaving Home, sembrava in fotta con i ritmini clicchettanti e gli strati di suono luminosi mezzi ambient. Poi scrisse un pezzo tutto pulsante e umido col basso suonato dal vivo, "Tramonto", che sembrava portarlo verso una concezione organica della materia elettronica. E invece all'inizio del 2016, in Musica da festa, prese la grande dance italiana degli anni Novanta e la sottopose a un processo di de-zarrificazione, distillandola in tracce adatte idealmente sia per smuovere un dancefloor che per riempire l'aria di una sera troppo silenziosa.

Il Machweo di Primitive Music, il suo nuovo album, è ancora una volta qualcosa di diverso. Gli chiedo se la sua iscrizione al conservatorio di Bologna è da considerarsi il principale motivo di questo suo nuovo corso organico, spirituale e basato su pratiche radicali; lui mi racconta che lo è solo in parte. Quello che ci siamo detti lo potete leggere qua sotto, dopo lo streaming esclusivo dell'album, che uscirà per l'etichetta americana Lefse.

Primitive Music è un'opera viscerale e pulsante, pensata come singola composizione e suddivisa poi in tracce per il consiglio di un grande dell'elettronica internazionale che, il caso ha voluto, Machweo ha conosciuto grazie a uno scambio su Messenger. È stata scritta con una partitura intuitiva, cioè uno spartito non convenzionale il cui autore può creare simboli dai nuovi significati da far leggere ai musicisti che lo eseguiranno. È bello ascoltare l'album sapendo di questa sua forma primordiale, e immaginare come le dita e le menti dei ragazzi che lo hanno suonato (in una sola, irripetibile performance che è diventata l'album stesso) hanno reagito alle istruzioni di Machweo.

Noisey: Ripercorriamo il percorso musicale che ti ha portato a Primitive Music? Può essere utile anche a chi non ha mai sentito niente di tuo per farsi un'idea di quello che sei stato e sei.
Machweo:
Ho cominciato ad ascoltare musica in modo consapevole alle medie legandomi al punk. Poi rimasi folgorato al liceo per il grunge e lo shoegaze, colpa di In Utero dei Nirvana e di Loveless dei My Bloody Valentine. Essendo del '92 quindi ho visto internet nascere e prendere la sua forma da consumer, e come è cambiata la fruizione musicale in tutto questo. Ho iniziato a mettere dischi a 17 anni al Mattatoio di Carpi, il locale che mi ha formato umanamente e musicalmente. Ero molto legato all'ambiente musicale che ci gravitava attorno. Era il grande mare dell'indie rock... uno dei miei dischi preferiti di sempre è Is This It degli Strokes, per dirti. Ero tanto legato alle chitarre.

E l'elettronica?
Quella da club mi accompagnava dai ricordi di ragazzino, quando si facevano le feste. Mi piaceva molto per la fisicità e la melodia. Roba tipo Gigi D'Agostino. Vengo dalla provincia del sud Italia ed è difficile trovare altro! Poi Musica da festa è stato influenzato da quella roba, me la porto come parte formante della vita. E poi ci fu un live al Mattatoio, organizzato al ragazzo che faceva i festival Ctrl + C e Node a Modena, di Shlohmo, Soosh e Salva. Quella data mi ha cambiato la vita, musicalmente parlando. Ho scoperto che c'era qualcosa che volevo fare ed era quello. Aveva nevicato un botto, l'Emilia-Romagna era bloccata e quindi non c'era nessuno. Eravamo in dieci a vedere 'sto live incredibile. Poi da lì è nato il viaggio che mi ha portato a Primitive Music.

Che cosa avevi in testa mentre registravi il tuo primo album, Leaving Home?
Shlohmo, Baths, Groundislava, quella gente lì. C'era 'sta famosa scena di beatmaker di Los Angeles... cazzata mediatica allucinante, perché poi ognuno ha preso le sue strade. Ma era quello che ascoltavo, nonostante fosse una definizione data a casissimo. Riconosco che quell'album era una serie di piccole cover di altri, ma penso sia normale.

Poi in Musica da festa hai integrato nel tuo discorso la dance anni Novanta. C'è stato un punto esatto in cui l'hai rivalutata?
È che ti dicono che quella roba lì fa cagare. Ma poi ti rendi conto che in realtà non te ne frega un cazzo di quello che pensano le persone. Io non è che rivaluto culturalmente Gigi e il mondo che lo circonda. Vai a vedere chi frequenta quel tipo di serate al Sud e chi le frequentava in quegli anni: sono persone con cui non ho niente da spartire, culturalmente. Ma sticazzi, è una roba che mi piaceva, che tuttora ascolto e mi diverte ascoltare. Non vedevo un motivo vero per cui vergognarmene, anzi ero estremamente affascinato dai DJ set che vedevo su YouTube di quella gente lì. Con molta onestà intellettuale, mi sarei divertito tantissimo a ballare la roba di Franchino e Ricky Le Roy. Non ho mai capito perché esistano culture di Serie A e culture di Serie B. Ho letto pareri a riguardo, su come [la dance anni Novanta] appartenga a una sfera politicamente schierata in quanto musica da maschio alfa, ma non vedo questo nesso in maniera così netta. Era un periodo in cui ascoltavo un sacco di quei DJ set e mi sono fatto un trip pensando che sarebbe potuto essere bello farne parte. Anche se Musica da Festa non c'entra un cazzo: prendevo quelle atmosfere e le rendevo un pochino più rarefatte, sollevate e affini al resto della musica che mi piace.

Fotografia di Nicola Galli.

Il grosso cambiamento, a livello sonoro e di influenze, è avvenuto quando ti sei iscritto al conservatorio?
Io faccio musica elettronica, che sarebbe meno fuorviante chiamare musica elettroacustica. Il conservatorio è un ambiente in cui ho capito che non sei proprio un freak se ascolti altro e se hai le orecchie pronte a sentire e suonare robe a cui prima non sognavi neanche di approcciarti. È stato più un mezzo grazie al quale ho capito che si può essere radicali, ed è una scelta politica e personale esserlo. Prima avevo più paura di sembrare un radical chic del cazzo perché ascoltavo quello che in quel momento della mia vita mi stava piacendo ascoltare.

Per "radicale" cosa intendi, esattamente?
Per esempio alle forme di jazz radicale, che sono bellissime ma difficili da ascoltare perché fatte di dissonanze, pezzi astruttrati. O alle forme di improvvisazione alla Terry Riley, nate come forma di rottura con l'Occidente. Entrambe scelte politiche.

Erano forme musicali a cui ti eri interessato anche prima di studiarle?
È stata una coincidenza. Erano cose che mi erano sovvenute in quei periodi, poi ho scoperto che in conservatorio le affrontavi in modo critico, e questo mi ha portato a stargli addosso, approfondirla sempre di più. Poi ho capito che cose come il free jazz o Terry Riley sono tra le meno radicali che puoi ascoltare. Faccio fatica ad ascoltarne alcune, soprattutto se si parla di elettroacustica. Un esempio potrebbe essere De Natura Sonorum di Parmegiani, che indaga la natura dei suoni. È un bell'esempio di musica elettroacustica, un ascolto difficile ma per me bellissimo.

E come definiresti l'ambiente in cui ti sei trovato, a livello umano? Si percepiva una voglia di collaborare, tra voi studenti?
Sì, è una bella fucina. È un ambiente tanto conservatore, e anche le forme più progressiste della musica degli anni Settanta e Ottanta come il jazz e l'elettronica vengono conservate. La contaminazione non è vista particolarmente di buon occhio dai professori. Chi lavora in quell'ambiente è comunque un accademico. Alcuni studenti invece se ne fregano e apprezzano la collaborazione. Come tutti i musicisti hanno un grandissimo senso dell'ego, ma è ovvio che sia così. I ragazzi che suonano nel disco e suoneranno con me dal vivo, a parte il chitarrista che è un mio caro amico, li ho beccati lì e siamo diventati amici solo in seguito. E non hanno titubato un minuto a dire "Ok, facciamo 'sta roba", anche se era molto lontana da quello che ascoltavano.

È una forzatura dire che Primitive Music sia figlio della tua esperienza in conservatorio?
Un pochino sì. Lo spiritual jazz e le robe africane meno storicizzate in conservatorio non si studiano. Sun Ra non si studia, anzi! I nostri professori sono tutti allievi di Luciano Berio, in un modo o nell'altro, e quindi sono legati a un certo tipo di musica elettronica. Il minimalismo, dagli accademici, è visto come il pop della musica radicale, e i compositori come popstar. Philip Glass è l'esempio maggiore, ma anche Steve Reich. Quello che sta al confine, che ho studiato e abbiamo suonato, e non sarebbe d'accordo su come si studia la musica in conservatorio adesso, è John Cage. Lui si studia come si studia Stockhausen. Però non faremo mai un pezzo di Reich. Però si fa ogni tanto "In C" di Riley perché fa suonare assieme quelli che suonano elettronica con quelli che suonano strumenti.

Cosa significa, per te, "primitivismo" in musica?
Per me la musica primitiva, da cui il nome dell'album, è legata a un concetto di fisicità e ritualità. È un disco molto istintivo, improvvisato, suonato di pancia e con una fortissima dose di ritualità. Questo è primitivismo in musica, per me. Come se uno disegnasse un quadro con fortissimi colori primari che rappresenta un concetto molto semplice ma è molto complesso dal punto di vista esecutivo. Anche la copertina, che ho disegnato io, rispecchiava l'idea di musica che avevo per il disco, per cercare di rafforzare quest'idea che sarà difficilissimo venga fuori.

Perché dici che sarà difficile?
Ho amici che l'hanno ascoltato, e per loro è un disco post-rock. per me non c'è niente di male, ed è sempre colpa dell'autore se quello che volevi trasmettere con la musica non viene trasmesso. È una cosa che il conservatorio mi ha lasciato: se non capisci una cosa non sei coglione te.

A livello pratico, eri tu a dirigere il flusso sonoro?
Sì, in modo abbastanza dispotico! L'approccio era "Se volete suonare con me, è così". Come è giusto che accada ho accolto idee che sono poi diventate parte del disco. Ma il disco nella mia testa era quello, suonava in quel modo e avremmo suonato fino a farlo diventare proprio così. E poi era una partitura intuitiva, non c'erano note. L'unica cosa fissa era la durata, 45 minuti.

Puoi provare a spiegare a parole che cos'è una partitura intuitiva?
È un disegno che rappresenta l'andamento di un pezzo. Nel caso di Primitve Music, era una linea che rappresentava l'intensità corale e delle linee più fitte che rappresentavano la densità degli strumenti, la stratificazione. In una partitura intuitiva puoi fare quello che vuoi, ti inventi dei simboli e gli dai un significato. Siamo partiti dicendo "Ok, il pezzo suonerà in questa chiave, do diesis maggiore. Questo è l'andamento. Iniziamo, di pancia". A rischio di sembrare antipatico, mi è capitato di fermare le prime due o tre prove nonostante fosse un'improvvisazione perché avevo in testa in modo chiarissimo quello che volevo. La volta che abbiamo deciso di suonarlo tutto dall'inizio alla fine, alla seconda prova con i microfoni, ci è venuto così bene che è diventato il disco. L'abbiamo rir-egistrato mille volte, abbiamo passato un'estate d'inferno nel mio scantinato a Bologna, ma non ci è mai più venuto come quella volta. Abbiamo deciso, su consiglio di tantissime persone di cui mi fido, di dividere il pezzone da 45 minuti invece di tenerlo interno. Ma la divisione è stata fatta con fade in e fade out tra le parti, o distacchi diretti.

Volevo parlarti della suddivisione del pezzo in tracce. L'impressione che mi ero fatto è che a te non sarebbe fregato niente di proporre un unico pezzo da 45 minuti, e quindi quando ho visto la divisione...
Per me è stata una sofferenza atroce!

Quindi chi è che ti ha convinto?
Non so se metterlo nell'intervista, ma è stato James Holden a dirmelo.

E come hai conosciuto James Holden?
Ho sempre un po' di imbarazzo a parlarne perché ho paura che si prenda male! Penso sia la persona più gentile che ho conosciuto in tutta la mia esistenza. Stavo lavorando al disco e usavo il suo strumento MIDI, un Humanizer, una roba che fa suonare gli strumenti elettronici come se fossero suonati da persone vere. Avevo un problema con il suo plugin e non mi spiegavo perché non funzionasse con alcuni parametri. Non esiste un'assistenza della software house che lo produce se non Holden in persona, a cui ho scritto un pippone tecnico su Messenger. Lui mi ha risposto dopo due ore con una gentilezza incredibile con un altro pippone tecnico. E mi ha detto, "Se vuoi dammi la tua mail che ti mando il plugin che non ha ancora rilasciato." La persona più gentile della Terra cazzo! Parte la chiacchiera per email, e il giorno dopo annunciano un suo live in Salento dietro casa mia. Quante probabilità c'erano? Lì ho detto: "È uno dei miei artisti preferiti, ho una stima incredibile, mi piacerebbe conoscerlo, proviamoci. Gli ho chiesto se voleva fare un giro il giorno dopo il concerto restando in Italia, e così ci siamo conosciuti di persona. Da lì è nata una corrispondenza per email e ho tratto un sacco di cose da quello che mi ha detto. Mi fa che era molto difficile da fruire. Preferiva artisticamente la parte intera.

È molto bella come cosa, perché a livello di approccio sonoro si sente un filo rosso che collega l'ultimo Holden, quello di The Animal Spirits, con Primitive Music.
Tra l'altro il disco era finito prima di The Animal Spirits! Era pronto già nell'estate 2016.

Ti dà fastidio il fatto che il pezzo, nella forma in cui è stato registrato, sia praticamente irripetibile dal vivo?
Ho una paranoia enorme. Sono ossessionato dal live perché non riesco più a ritrovare l'energia che avevamo durante le registrazioni. È molto difficile portare quei suoni caoticissimi in un live professionale, perché comunque per fortuna i palchi che sembra potrò calcare mi permetteranno di farlo. Il mio interesse più grande, in questo momento, è riuscire a portare un live che sia degno.

Un paragone un po' scontato che inconsciamente mi è venuto è quello tra primitivismo e natura. Ma mi chiedo se sia una sorta di meccanismo mentale che ti porta ad associare queste sonorità alla purezza...
Io ho fatto scienze naturali per tre anni! A me piace l'idea che la musica sia legata a un'idea di natura, ma non a un'idea di natura ostentata. Non farei mai attivismo contro il surriscaldamento globale, roba alla "andiamo ad ammazzare quelli che fanno i balenieri". Ma quella componente esiste perché me la porto dentro. Sempre per il fatto, e questo termine ricorre spesso in quest'intervista, che fare musica è una scelta politica, etica, intellettuale.

Primitive Music esce venerdì 2 marzo per Lefse Records.

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La guida di Noisey per cominciare ad ascoltare Kate Bush

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In un numero di Q Magazine del 1990, Kate Bush ricorda di quando, da giovanissima, ballava sulla musica che veniva dalla televisione. "Era una cosa fatta senza alcuna vergogna e non mi rendevo conto che la gente mi guardasse", dice. "Un giorno alcune persone sono entrate nella stanza, mi hanno visto e sono scoppiate a ridere, e da quel momento ho smesso di farlo. Da allora cerco sempre di ritornare lì".

Al momento di quell'intervista, Bush aveva pubblicato sei album tanto epocali quanto facilmente ridicolizzabili, e ognuno di questi sembra aver raggiunto quello stato di "svergognatezza". L'ascoltatore può reagire ridendo e uscendo dalla stanza, o rimanere, ipnotizzato dalla danza. Per molti versi, questa divisione identifica la produzione musicale di Kate Bush, sparsa su cinque diversi decenni, e la nostra reazione a essa. Agli occhi di alcuni la sua musica è intuitiva e sognante, per altri è materiale da ripostare su LadBible con la didascalia 'WTF' e varie faccine che piangono dal ridere.

Pur avendo spianato la strada a una generazione successiva di grandi musicisti – compresi, ma non solo, Tori Amos, Big Boi, Tricky, Lorde – è inspiegabilmente omessa da molte storie ufficiali delle donne in musica. È una svista molto grave visto che nella sua produzione troviamo un numero considerevole di singoli best-seller, un uso pionieristico di nuove tecnologie musicali e un album intitolato Never For Ever che l'ha resa la prima donna a raggiungere il numero uno nella classifica degli album in UK. Donne che hanno avuto un impatto minore sono state privilegiate rispetto a Kate e sono entrate nella Rock And Roll Hall Of Fame mentre lei no. Ma queste sono performer che sputano e fottono e bestemmiano e sprizzano intensità anche dopo essere scese dal palco. In breve, sono rock star.

Mite, ossequiosamente inglese e conservatrice (sia in senso personale che politico), Kate si può chiamare tutto meno che rock and roll. Essere una rock star richiede di trionfare su qualche tipo di avversità, che si tratti di dipendenza, povertà o abusi. Ma Kate non ha mai sofferto come una rock star. Ha scelto cioccolata e sigarette invece di eroina e cocaina, e ha sempre avuto un patrimonio personale considerevole. Ereditò una bella somma da sua zia, che la aiutò a uscire di casa a 18 anni e a concentrarsi esclusivamente sulla musica, e crebbe a Kent da genitori benestanti di classe media.

Quando era soltanto una bambina, vide suo padre premere tre dita su tre tasti del pianoforte. Dalla cassa di risonanza uscì un accordo di Do maggiore. Da quel momento, Kate cominciò ad associare le poesie che scriveva agli accordi che imparava. Le parole e il suono del piano divennero piano piano embrioni di canzoni, dimostrando il talento di Kate fin dalla più tenera età. "Trovavo molto frustrante venir trattata come una bambina quando non pensavo come una bambina", ha riflettuto in seguito, “mi sono sentita vecchia fin da quando avevo 10 anni". Nei primi anni Settanta, la sua saggezza e destrezza musicale fecero bussare alla sua porta David Gilmour dei Pink Floyd. Lei suonò per lui le canzoni che aveva passato l'infanzia a scrivere, e poco dopo firmò un contratto con la EMI Records. Da quel momento le sue canzoni hanno fatto salti acrobatici di tonalità in tonalità e ritorno. Il loro effetto è quello delle filastrocche, nel senso che commuovono e spaventano e insegnano. Ma c'è molto di più.

Molte delle canzoni che state per ascoltare vengono dalla libertà d'immaginazione dell'infanzia. Vengono da quel momento prima che ti riconoscessi come un corpo nel mondo guardandoti allo specchio. Quando potevi cacarti e pisciarti addosso e ballare davanti alla televisione senza renderti conto dello sguardo del mondo concentrato su di te. O perlomeno questo vale per i primi tre album, usciti nel corso di soli due anni. Kate ha ottenuto un grande successo di critica fino al quarto disco, The Dreaming, che uscì nel 1982. Avendo passato l'inizio dell'età adulta come ragazza-immagine della EMI, Kate cominciò a prendere controllo della produzione e della sua stessa presentazione. Su disco, il personaggio di Kate si trasformò da bambina ad adolescente, e le pause tra un'uscita e l'altra diventarono più lunghe in modo da permettere a Kate di prendersi meglio cura di se stessa e della propria musica.

Poi divenne provocatoriamente femminile con il suo disco del 1989 The Sensual World, e poi tornò quattro anni dopo reduce da una rottura romantica, la morte di sua madre e la nascita di suo figlio, con il disco realizzato in collaborazione con Prince The Red Shoes. Poi passò 8 anni a concentrarsi completamente su suo figlio prima di Aerial (2005), una finestra sulla vita domestica di Kate Bush. Poi riregistrò le sue hit per Director’s Cut (2011) e attorno a Natale di quell'anno pubblicò il suo ultimo LP 5 0 Words for Snow. Nel 2014 è tornata in tour per la seconda volta nella sua intera carriera, cosa che ha fatto capire molte cose sul suo mondo musicale e sull'impatto che ha avuto sui suoi milioni di ascoltatori. Il pubblico restava in silenzio, gli occhi gonfi di lacrime di gratitudine, e durante il bis ci trasformavamo in estranei danzanti, abbracciandoci, sapendo che avevamo passato una delle più belle serate della nostra vita insieme. Eravamo tutti in quella stanza con lei, e nessuno di noi rideva.

Forse ti interessa: Kate Bush mainstream

Kate Bush è stata immediatamente lanciata nel mainstream all'uscita del suo singolo di debutto nel 1978. Scritta quando aveva soltanto 16 anni, ”Wuthering Heights” divenne la prima numero 1 in UK composta ed eseguita da una donna. Era un prodotto talmente singolare da diventare una curiosità. C'era Kate Bush che girava vorticosamente, vestita di bianco, nel video. Occhi, bocca, gambe - tutto aperto. La canzone era un omaggio al romanzo di metà XIX secolo scritto da Emily Brontë, reso con grande comprensione e chiarezza, anche se probabilmente questo non ha nulla a che vedere con le vendite del disco.

In realtà, Kate Bush ha sempre teso a fare da ponte tra un trend musicale precedente e quello che doveva ancora arrivare. “Wuthering Heights” era piena di stilemi progressive rock – un trend emerso a fine anni Sessanta, incentrato sulla tecnica musicale e strutture complesse. Nonostante i capoccioni della EMI le avessero detto che la più diretta e rock and roll “James And The Cold Gun” sarebbe dovuta essere il suo primo singolo, Kate sosteneva con fervore che nessun'altra canzone di The Kick Inside l'avrebbe presentata al mondo in modo migliore di “Wuthering Heights”. E aveva ragione.

I critici furono costretti a riconoscere il genio di Kate dopo il suo tour del 1979, The Tour Of Life. Con 150mila sterline di budget e balletti severamente coreografati, lo spettacolo offriva una visione più chiara del mondo spettacolare di Kate. È stata una delle prime artiste a indossare un microfono che le lasciava libere le mani, in modo da poter ballare e saltare lungo l'enorme palco mentre cantava. Un paio di anni dopo, diventò una delle prime musiciste a includere il synth Fairlight CMI e i campionamenti nella propria musica. Per quanto lo si dia per scontato oggi, si tratta di uno dei primi sintetizzatori digitali del mondo e, nel bene o nel male, artisti come Aphex Twin e Diplo oggi non esisterebbero se non fosse per il Fairlight. Se “Wuthering Heights” non ti conquista all'istante, comincia da “Running Up That Hill”, uno dei migliori esempi di Fairlight Kate.

Playlist: “Wuthering Heights” / “The Man With The Child In His Eyes” / “Wow” / “Babooshka” / “Army Dreamers” / “Running Up That Hill (A Deal With God)” / “Hounds Of Love” / “Cloudbusting” / “This Woman’s Work” / “King Of The Mountain”

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Forse ti interessa: Kate Bush sexy

“Ok, non voglio menare il can per l'aia” recita l'incipit di uno dei primi articoli mai scritti su Kate, “Kate Bush è… una ragazza”. L'autore prosegue: "Una ragazza con una sessualità perfetta, pre-confezionata, a lunga conservazione. Una ragazza con il seno di una principessa vittoriana, le labbra di un cherubino di Rembrandt, gli occhi di una notte araba, i capelli di..." E questo non è che l'inizio. Ci vogliono ore per leggere ogni sua intervista, una delle quali è esclusivamente incentrata sulle sue "piccole maliziose dita dei piedi", mentre un'altra racconta che "il suo seno stimola l'amore" tra la scrittrice e suo marito, prima che a Kate venga chiesto alcunché sulla sua musica. In un'intervista del 1980 per Sounds magazine le è stato chiesto come mai il suo primo album The Kick Inside cominciasse con un canto di balena. “Le balene dicono tutto del 'movimento'. Sono enormi e bellissime, intelligenti, soffici all'interno di una scorza dura", lei risponde, come se sapesse perfettamente come ci si sente schiacciate sotto il peso del proprio corpo.

E in un certo senso lo era. Era perfettamente post-virginale e mestruale quando la EMI pubblicò il suo LP di debutto, un momento in cui l'unica altra donna pubblicizzata al livello di Kate era Debbie Harry dei Blondie. “Venivamo entrambe pubblicizzate per il fatto di essere corpi femminili oltre che cantanti. Molte persone non sapevano che io mi scrivevo da sola le canzoni o che suonavo il piano fino a circa un anno dopo", Kate confessò al NME nel 1982. Doveva dare prova che c'era qualcosa dentro la sua cornice.

La sua musica sprigiona incredibile tristezza, terrore e piacere, come se fosse fatta di muco e lacrime. Una grande parte del catalogo di Kate consiste di storie che affondano le proprie radici nella perversione e nell'inquietudine. “Instant Kiss”, da Never For Ever, racconta di una donna che prova desiderio per un bambino, mentre "The Kick Inside" narra la storia di una donna che si suicida dopo essere rimasta incinta del proprio stesso fratello. "Potrebbe essere una delle più belle relazioni del mondo", ha poi dichiarato a Smash Hits. Se il suo pubblico non fosse stato troppo occupato a fantasticare sulle sue "piccole maliziose dita dei piedi", forse si sarebbe reso conto di quanto fossero deviate le fonti delle curiosità sessuali di Kate.

Quando non era horror, la sensualità era scatologica. Sulla copertina del suo terzo album Never For Ever, Kate indossa un abito con una stampa di nuvole, mentre dalla sua zona pelvica volano fuori cigni, pipistrelli, gatti. "Ma non ci potevano essere riferimenti al 'vento' perché quello avrebbe reso l'album un'unica grande scoreggia", dichiarò a Sounds Magazine. A parte questa intervista, i giornalisti ai tempi non si impegnarono particolarmente ad analizzare la sessualità delle sue canzoni. Ogni tentativo di osservare più da vicino la perfetta presentazione del suo corpo avrebbe potuto afflosciare molti cazzi, visto che molto spesso dietro alla maschera non c'era molto più che una scoreggia. Torniamo a “The Saxophone Song” dal suo primo disco, in cui Kate siede imbronciata in un bar berlinese prima di sbottare in tono festoso “È in me, è in me” mentre si “sintonizza con il tuo sassofono", prima che un assolo di sax prenda la scena soffiando, stridendo e scoreggiando. Un classico.

Playlist: “Feel It” / “The Saxophone Song” / “The Kick Inside” / “Symphony In Blue” / “The Infant Kiss” / “Houdini” / “The Sensual World” / “The Song Of Solomon”

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Forse ti interessa: Kate Bush, figlia

Superata da tempo l'adolescenza e raggiunta l'autosufficienza, Kate si trovava ancora soprannominata "la figlia del dottore" e, passati i quarant'anni, i critici continuavano a legare la sua musica all'inglesità del padre e all'irlandesità della madre. Era trattata come il prodotto di qualcosa d'altro, invece che come la responsabile del proprio genio. Una mitologia di purezza e stoicismo anglosassone la avviluppava come una tela di ragno, mentre la grande intuizione irlandese spiegava il suo talento musicale. Da quando aveva 12 anni, lei ha scritto canzoni che suonavano antiche come querce. Ma la storia cambiò a 23 anni.

The Dreaming, uscito nel 1982, è diventato il più grande capriccio mai registrato. Tamburi che battono come pugni insanguinati aprono l'album con la prima traccia “Sat In Your Lap”, mentre canta “Voglio diventare un'avvocata, voglio diventare un'accademica, ma non ho voglia di impegnarmi", e si agita impaziente: "Ooh dammi dammi e basta! Dammi dammi dammi!" In “Suspended In Gaffa”, è bloccata nello stesso noioso purgatorio, uno stato di mezzo, mentre chiede con avidità "Posso avere tutto ora?" È una violenta sterzata dalla precedente Kate, tutta buone maniere e posatezza.

Prima di The Dreaming, Kate veniva presentata come l'idilliaca Rosa d'Inghilterra, un'immagine di purezza e mitezza perfetta da protagonista di Jane Austen. presented as the idyllic English rose, an image of purity and meekness fit for one of Jane Austen’s protagonists. Dal 1982 il pubblico ha cominciato a chiamarla eremita, malata di mente, una delle perdigiorno della Brontë. Mentre le critiche si facevano sempre più aspre e Kate si faceva più vecchia, si rivolgeva sempre di più a sua madre. Alcune parti del successivo album di Kate The Hounds Of Love sono biliose quanto The Dreaming, in particolare in “Mother Stands For Comfort”, che vede Kate uscire di nascosto dalla casa della madre, anche se sua madre "non dirò nulla". Anzi, le permette di agitarsi e arrabbiarsi, a fare tutto quello che serve per decidere il valore della propria vita e riprenderla in mano.

Più tardi, Aerial (2005) avrebbe parlato del figlio di Kate e della sua maternità, ma non senza che l'inaspettato spettro della madre di lei ci si aggirasse. In “A Coral Room”, Kate immagina di navigare fra le rovine di una città che è stata ricoperta da tele di ragno come reti di pescatori, risultato del tempo e dell'abbandono. Allunga la mano oltre il bordo della barca e le viene chiesto che cosa sente. Il piano si ferma, ci sono cinque secondi di silenzio. "Mia madre".

Playlist: “Breathing” / “Sat In Your Lap” / “Suspended In Gaffa” / “Get Out Of My House” / “Mother Stands For Comfort” / “Moments Of Pleasure” / “Lily” / “A Coral Room”

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Forse ti interessa: Kate Bush, madre

Quando si diventa madre, si sviluppa una visuale aerea del mondo e, in Aerial, Kate Bush è sia madre che cielo. Vede il processo della luce e della vita, del buio e della morte ogni giorno. "Ogni luce assonnata deve dire addio al giorno prima che muoia", ci ricorda sulla B-side di Aerial “An Endless Sky Of Honey”.

Ma le madri sono anche simbolo di conforto: “Teneteci vicino al cuore, così che se i cieli dovessero oscurarsi potremo continuare a vivere nelle comete e nelle stelle”, canta su “Endless Sky Of Honey”. Kate Bush ci ricorda che da ogni perdita nasce comunque qualcosa di bello, ed è la madre in lei che ci parla. Come ogni buona madre dovrebbe fare, Kate ti incoraggia a essere una persona buona, a trattare il mondo e tutto ciò che contiene come se valesse sempre qualcosa. Fa concentrare le nostre attenzioni sulle minuzie come sull’intero cosmo della bellezza, mentre la figlia in lei preferirebbe ribellarsi. “Vedi come il bambino, d’istinto, allunga la mano verso il fuoco per sentire com’è?“, ci fa notare in “Reaching Out”, da The Sensual World.

Tu, ascoltatore, puoi trovare una madre in Kate Bush. “Il modo in cui si rivolge personalmente ai destinatari dei suoi pezzi ti fa sentire come se stesse cantando a te. Anche quando dice cose senza senso, o si inventa narrazioni, così come quando resta nell’ambito dei sentimenti che chiunque può comprendere, trova un modo per infiltrarsi in te”, mi ha scritto una ragazza, Sybil, dopo che avevo chiesto ai fan di Kate di contattarmi su Twitter. “Sono rimasto affascinato dalla profondità della sua empatia, il suo amore per il rischio (creativo, professionale, sperimentale) e dal suo fascino senza limiti per il mondo e tutte le creature che vi vivono”, mi ha detto un altro fan, Chip. In mezzo ai racconti e alle assurdità, Kate Bush si rivolge singolarmente a ognuno di noi. Ascoltatela con tutta la vostra gentilezza e attenzione. Ponetele domande, permettetele di prendersi cura di voi, ribellatevi contro di lei. Ma fatelo con tutte le vostre forze. Siate sensibili alla sua musica come se foste una piantina. Chiedetevi perché non richiediamo questi standard di bellezza da ogni cosa.

Playlist: "Reaching Out" / "Top Of The City" / "Constellation Of The Heart" / "Bertie" / "An Endless Sky Of Honey" / "Among Angels"

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La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su Noisey UK.

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Ascolta la playlist settimanale con Tedua, Iceage e Coma_Cose

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Questo weekend è una tempesta perfetta di sfiga. Non solo tocca andare a votare, attività già di per sé deprimente quando si ha a che fare con lo spettro del fascismo che si aggira per l'Europa e una sinistra debole e divisa, ma per di più tocca spalare la neve dal vialetto, avere a che fare col traffico, i mezzi pubblici, ombrelli, piedi ghiacciati. Lo sappiamo noi cosa ci può salvare: una sana mezzoretta di nuova musica appena sfornata. Eccoci qua.

Questa settimana nella playlist settimanale di Noisey (che dovete seguire su Spotify se volete vedere gli aggiornamenti in tempo reale) abbiamo messo come al solito un po' di tutto. Ovviamente il disco della settimana è il nuovo album di Tedua Mowgli, da cui abbiamo estratto la nostra traccia preferita, ma questa settimana è uscita un sacco di altra roba interessante. C'è il nuovo album delle Breeders che tornano sulle scene dopo dieci anni, c'è il black metal antifascista degli Ancst, il punk grezzo e storto dei Perverts Again, l'itpop o quel che è dei Coma_Cose e tanta altra musica che tra questi generi e stili fa slalom e corsa ad ostacoli.

Ascoltate la playlist qua sotto e non dimenticatevi di premere "segui" per vedere i prossimi aggiornamenti. E andate a votare.

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Recensione: Tedua - Mowgli

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Chiamo il mio album Mowgli non per Marra o PNL / Ma perché sono cresciuto tra bestie e belve / Senza un parente ed il suo parere.

E qua possiamo terminare il discorso su quello che Tedua racconta in questo suo nuovo album: la sua esperienza di vita attraverso la metafora della giungla urbana nel rispetto, e non nell'idolatria, della tradizione culturale hip-hop. Ne sentirete parlare nelle sue tante interviste che usciranno, e se lo seguite avete già una minima idea di quelli che sono i suoi valori e il suo vissuto: "da Stainer agli infami nelle questure", accrocco poetico di vita di strada, etica del lavoro, rivalsa, piacere per la lingua, la narrazione e l'espressione di affetti complessi.

Tedua è tra i pochi giovani rapper italiani riusciti a creare in tempi brevi un immaginario testuale fortemente evocativo, sfaccettato e perfettamente calibrato tra complessità e accessibilità. Mowgli conferma queste sue capacità, ma oggi vorrei scrivere una quarta di copertina per questo disco della giungla e non un riassunto di quello che contiene. Citare le figure che Ted disegna per mettere in lingua i concetti che definiscono la sua poetica significherebbe spoilerarvi il piacere dell'ascolto di questo disco.

In questa ideale quarta scriverei che Mowgli è, come Album di Ghali o Io in terra di Rkomi, un album potenzialmente apprezzabile anche da chi ha sempre ottusamente ridotto il rap a un gioco per ragazzetti disagiati in cerca di ricchezza. Direi che la scelta di non inserire alcun featuring al suo interno è un'affermazione di autorità lirica: l'obiettivo non sembra essere singoli che facciano views e ottengano certificazioni, né affascinare l'ascoltatore passeggero con nomi e dichiarazioni altisonanti, ma esprimere una visione artistica ben definita.

Affermerei, inoltre, che Chris Nolan è stato fondamentale a darle spessore. I suoi beat sono arazzi di suono più che tessuti monocromo: prediligono l'evanescenza rispetto alla dirompenza e rifuggono l'idea di ascolto superficiale. Come i testi di Tedua, chiedono gentilmente all'ascoltatore un livello di attenzione superiore alla media e non offrono un semplice intrattenimento passeggero. Suggerendo un senso di pace e sospensione, sembrano accompagnare Mowgli mentre corre di ramo in ramo, di liana in liana in una natura rigogliosa - ad eccezione di "Burnout", in egual misura inquietante e affascinante, come il barrito di un elefante infuriato.

Tedua e Chris Nolan sembrano voler sedurre l'ascoltatore con la forza della comunicazione e dell'espressione sentimentale, più che con regali costosi, battute da rimorchio e piaceri fulminanti. Esprimono un'identità in divenire, cresciuta nell'arcadia urbana di un'immaginaria California brilluccicante e oggi trasferita in una macchia fogliosa che sembra poter rappresentare una prima forma di maturità. Come il flow di Tedua, onda che oscilla impazzita attorno a una solida spina dorsale, ha bisogno di un orecchio che lo decodifichi per apprezzarne la vitalità, così Mowgli rivela il suo valore artistico nel momento in cui sceglie consciamente di non appiattirsi in nome di una fruibilità immediata.

Dice quasi tutto, Tedua, in "Natura": "Leggi i miei testi e non riesci a dargli giusta importanza / Mentre prepari la tesi siamo un mese a distanza / Poi ritorni e mi insegni quel che non dicevano in strada / Perché ci mancano i mezzi ma non la forza di volontà". Una parafrasi? "Cerco di migliorarmi e aprirmi la mente con amore e conoscenza, confrontandomi con quello che non capisco e non conosco. Tu, ascoltatore, fai lo stesso."

Mowgli è uscito venerdì 2 marzo per Sony Music.

Ascolta Mowgli su Spotify:

Tracklist:

1. Sangue Misto
2. 3 Chances (Dilla Tutta)
3. La Legge Del Più Forte
4. Rital
5. Dune
6. Vertigini
7. Acqua (Malpensandoti)
8. Fashion Week
9. Jungle
10. Il Fabbricante Di Chiavi
11. Burnout
12. Al Lupo Al Lupo
13. Cucciolo D'Uomo
14. Natura

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Fenotipi di punk trentenni

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Una volta che un punk raggiunge i 30, le sue scelte si restringono. Una nuova generazione arriva dietro di te e cominci a sentirti sempre meno coinvolto e meno invincibile di prima. Non senti più il bisogno di lottare contro il sistema perché ti guardi allo specchio e ti rendi conto che il sistema sei tu. Quindi, per riempire il vuoto nella tua vita e ribellarti allo strisciante senso di irrilevanza che ti attanaglia, cominci a cercarti nuovi hobby e interessi. Ecco un elenco di tutte le tue possibilità quando sei un punk che ha sfondato il muro del Grande Tre.

punk over 30 illustrazione birraio

Birraio Artigianale

Hai trasformato la tua passione per buttare via la tua vita bevendo birra costantemente in una carriera da birraio, dove la tua pancia da birra non è un "problema serio" come lo chiama il tuo medico, ma un curriculum di tutto rispetto. Hai una lunga barba castana che sfoggia sempre un po' di schiuma bianca sui baffi e porti camicie a quadri con le maniche arrotolate dalle quali fa capolino il tatuaggio dei Lucero. Prendi sempre le ferie in ottobre per andare al Fest in Florida. Hai una IPA di stagione da consigliarci, se ci interessa.

Collezionista di Spillette

La moda delle spillette smaltate ti ha preso in pieno. Le compri da ogni gruppo che le vende, anche se non ti piace poi molto. Il tuo giubbotto di jeans ha davvero troppe spillette, ma sono perfette per rompere il ghiaccio alla serata emo a cui vai ogni mese, cosa che non è per niente triste. Hai anche iniziato a produrle e a venderle su Etsy. Hanno tutte quell'estetica ironico-nichilista da millennial che va di moda. Una è una lapide con scritto “RIP emotions” e un'altra è il Tristo Mietitore che dice “don’t @ me” e tipo, ora che ci pensiamo, è piuttosto preoccupante. Stai bene?

Indignato su Facebook

Il resto del mondo è passato a Instagram e Snapchat, ma tu, che dio ti benedica, non molli l'unico social network che ti permette di invitare la gente a giocare a Candy Crush: Facebook. E lo usi esattamente per lo scopo per cui Mark Zuckerberg l'aveva concepito: pipponi di 3000 caratteri che parlano delle cose che ti fanno arrabbiare. Sono pieni di errori di battitura, errori grammaticali e bufale che ti sono state riferite da chissà chi, ma tanto nessuno legge i tuoi status perché 285 dei tuoi 287 amici hanno smesso di seguirti. La tua concezione di rimanere aggiornato sulla scena punk è di condividere ogni articolo di Hard Times taggando i tuoi amici che ti sembrano più adatti. Ogni meme che riposti è o tutto sgranato perché è stato ripostato un milione di volte o una immagine orizzontale che tu hai screenshottato in verticale. Pensi che questo articolo sia "scritto male" ma non sei in grado di spiegare cosa intendi.

Milionario in Criptovalute

Hai comprato 2 mila euro di Bitcoin nel 2014 e ora hai un account che ne vale 361 mila! Certo, avresti potuto fare più soldi trovando un lavoro ma lavorare è per i normali. Ah, che strano, ora sono 212 mila euro. Che figo, tra qualche mese probabilmente potrai smettere del tutto di guadagnare e vivere di rendita. Ops, 186 mila. Il trucco è che non hai usato Coinbase come un normie che si paga tutte le commissioni, quegli id... ah, cazzo, 34.200... 1500... Ora hai 36,54 euro e hai solo perso tempo.

punk over 30 crossfit

CrossFitter

La tua ragazza storica ti ha mollato quindi hai deciso di rimetterti in forma per stare meglio con te stesso. Potevi scegliere tra CrossFit o arrampicata in palestra, ma hai le vertigini quindi ti sei rivolto alla comunità CrossFit. Ora ti senti super disciplinato mentre sollevi manubri nella tua maglietta di Jane Doe e dai il cinque a tutti dopo una buona serie di sollevamenti. Il fatto di farti dei muscoli all'improvviso dopo decenni di birra e serate passate sul divano a guardare il wrestling trasforma il tuo corpo in una strana cosa a forma di patata, ma non c'è problema perché ti senti bene! Hai un quaderno in cui scrivi ogni attività fisica che fai e posti i video dei tuoi record personali su Instagram con l'hashtag #SquatAndDestroy. Fai scoregge puzzolentissime causa proteine.

Attivista Maschilista

La tua band è stata criticata a causa di alcuni testi piuttosto misogini e, invece di cogliere l'occasione per rifletterci su, hai deciso di ascoltare Milo Yiannopulos parlare di come il femminismo sia un cancro al podcast di Joe Rogan. Hai preso la pillola rossa. Porti "quella pettinatura" abbinata al blazer beige e citi dati statistici per cui il 50% delle violenze domestiche siano in realtà ai danni degli uomini ma "nessuno ne parla". Per non perdere il lavoro, posti meme usando un account anonimo. La maggior parte sono battute sulla cultura dello stupro o che prendono in giro la forma fisica di autrici femministe che disprezzi. Arriverà il momento che qualcuno ti sgamerà e sarai terminato, cosa per cui incolperai "la persecuzione di chiunque non voglia entrare nella mente alveare fascista liberal". Al momento stai conducendo una campagna perché Baked Alaska possa tornare su Twitter.

Collezionista di Dischi

Non vai molto spesso ai concerti perché è difficile stare fuori oltre le 22, ma continui a collezionare dischi, attentamente disposti in ordine alfabetico sul tuo scaffale IKEA Kallax. Ordini ogni uscita della Deathwish in ogni sfumatura di colore. Vivi su Discogs e il tuo account contiene tutta la tua collezione, e hai un account Instagram unicamente dedicato alle foto dei tuoi sette pollici più rari. Sei sempre alla ricerca di test pressing Level-Plane e di una copia originale di How Strange, Innocence degli Explosions in the Sky.

Campione di Flipper

Ogni mercoledì sera partecipi al campionato di flipper. Come da tradizione, il nome della tua squadra gioca con la parola "balls". Fine.

punk over 30 capelli tatuaggi

Fanatico dei Capelli

Non c'è niente di meglio che farsi fare barba e capelli per il weekend da un barbiere che sembra anche un tatuatore. Il posto si chiama tipo Handsome Sal’s o Gentleman Pete’s e ha uno di quei pali da barbiere vecchia scuola con le righe bianche, rosse e blu. L'interno è di classe, nero e oro, e ti offrono una lattina di birra gratis con il taglio. C'è un vecchio rockabilly alla cassa. Il tizio che disegnava le magliette del tuo vecchio gruppo hardcore ha fatto il logo sulla vetrina, quindi è tutto ok. Ci vai ogni due settimane quindi il barbiere ti fa "il solito" – sfumatura alta e riga dalla parte. Hai un canale YouTube su cui recensisci varie marche di brillantina.

Viscido da Tinder

Sei quel tizio che salta sempre fuori su Tinder. Nella maggior parte delle tue foto tieni in braccio un cane per far vedere che sei un tipo sensibile e non c'è verso che tu mandi 31 messaggi senza risposta a una donna per poi cominciare a dirle che è brutta quando ti rendi conto che lei ti sta ignorando. Nelle foto, inoltre, si notano sempre i tatuaggi che hai sulle dita e ci sono sempre almeno tre band di Philadelphia nel tuo profilo Spotify.

Podcaster

Come va ragazzi, sei un podcaster! Hai capito che cosa mancava davvero al mondo: uomini bianchi che parlassero delle loro opinioni. Hai un podcast in cui recensisci vari snack e un altro in cui intervisti persone "interessanti". Passare così tanto tempo davanti a GarageBand potrebbe sembrare stancante per alcuni, ma Casper rende molto facile trovare il materasso perfetto per te sul loro sito. Tutto è completamente personalizzabile e consegna e installazione sono incluse nel prezzo. Usate il codice promozionale SNACKSCAST per avere uno sconto. Ripeto, SNACKCAST, tutto maiuscolo.

punk over 30 papà

Papà di Periferia

Tu e il tuo/la tua partner vi siete trasferiti in periferia dopo l'arrivo del bambino perché in tre non sareste riusciti a stare nel tuo appartamento da 200 metri quadri nella parte superfiga della città. Hai chiamato tuo figlio con un nome super punk tipo Milo e hai un intero corredo di tutine dei Misfits. Porti Milo e il cane al parco e chiacchieri con gli altri papà coi tatuaggi sulle mani. Hai un sacco di tempo per te perché hai dovuto lasciare il tuo lavoro nel marketing per stare a casa a fare il papà a tempo pieno mentre il tuo/la tua partner va a lavorare, ma continui ad accettare alcuni lavori di consulenza che richiedono che tu vada in città una volta al mese. I migliori cinque minuti della tua settimana li passi aspettando di prendere il treno per tornare a casa, quando ti compri una ciambella alla cannella e la mangi tutta. È il tuo segreto.

Alleato Woke Sospetto

La tua presenza online è un tributo alla tua wokeness. Ti piace riscrivere i titoli di giornale meno sensibili e commentare dicendo che "potrebbero fare di meglio". Hai inserito molte hashtag legate al movimento per i diritti civili nella tua bio. Le tue frasi preferite da scrivere in risposta allo status di una donna sono "mi dispiace che ti sia successo", "sei molto coraggiosa" e "io ti ascolto". Presto salterà fuori che in realtà sei un misogino e un manipolatore.

Appassionato di Arti Marziali

Ti sei appassionato al punk durante la sua esplosione mainstream nei tardi anni Novanta e ora che ti sei tolto la soddisfazione di vari circle-pit al Warped Tour puoi tornare a essere un normale sportivo con la passione della violenza. Inviti gli amici a guardare i match di UFC sulla Pay-per-View e vai a letto con i pantaloncini Tapout. Fai sempre la mossa di lottare con tutti quelli che vedi e li mette davvero a disagio.

Dipendente VICE

La vita da artista che avevi immaginato non ha funzionato, così hai accettato un lavoro da ufficio. Ma, ehi, almeno è un ufficio "cool". Puoi non raderti e indossare la maglietta dei DROPDEAD sotto il cardigan in ufficio. E, certo, magari avresti potuto ottenere di più dalla vita e fondare una tua rivista se ti fossi impegnato, e non ti toccherebbe sopportare le vecchissime battute della gente sul fatto che VICE parla "solo di sesso e droga", ma vabbè, almeno hai un contratto.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey US.

Sufjan Stevens non ha bisogno del vostro Oscar

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Le luci del cinema si erano accese, "Visions of Gideon" di Sufjan Stevens risuonava nella sala e Timothée Chalamet stava piangendo davanti a un fuoco. "Ti ho amato per l'ultima volta / è un video / è un video?"

Per un qualche tipo di problema burocratico, invece di lasciarci sprofondare in questo momento nel conforto del buio, ad asciugare silenziosamente le lacrime che ci sgorgavano dagli occhi, tutti noi del pubblico ci siamo ritrovati illuminati a giorno. Il film e la musica stavano ancora andando, ma l'incantesimo era stato spezzato. Dopo essere stati risucchiati come ipnotizzati dentro un mondo vivido, noi, il pubblico, eravamo stati sputati fuori – rapiti a un sogno e scaricati di nuovo nella realtà.

La scorsa notte agli Oscar (video qua sotto) Stevens è uscito dal pavimento con St Vincent e Moses Sumney ai suoi fianchi, anche se non si notavano perché la giacca che indossava – una cosa coloratissima e decorata a draghi, oltre ad altro – oscurava la vista di quasi ogni altra cosa. Nominato per la migliore canzone con "Mystery of Love", da Chiamami col tuo nome, la performance di Stevens prometteva, per una certa generazione di fan dell'indie, di riportare alla mente il ricordo di quella del 1998 di Elliott Smith per Will Hunting. Come Smith, Stevens non ha vinto. Ma per un paio di minuti, ha dato a Hollywood un nervoso e forse interrotto assaggio di ciò che è in grado di fare.

Se ascolti Sufjan Stevens troppo a lungo rischi di venire trasportato in un mondo che respira emozioni, in cui i sentimenti sono crudi e i nervi sono esposti e il passato è presente. "Volevo avvolgere il film nella voce di Sufjan Stevens", ha detto l'anno scorso in un'intervista con Deadline il regista di Chiamami col tuo nome Luca Guadagnino. Ed è esattamente ciò che ha fatto. La musica di Stevens è cruciale per il successo del film; è delicata, evocativa, senza fiato e piena di malinconia. Incarna amore e perdita; quella perfetta e classica combinazione di linee di chitarra pizzicate, immaginario religioso e intenso sentimento di nostalgia.

Ubriachi dell'estasi del loro rapporto, l'Elio di Timothée Chalamet e l'Oliver di Armie Hammer corrono sulla collina delle Cascate di Serio, in Lombardia. "Mystery of Love" di Stevens si sovrappone al rombo dell'acqua e ai gemiti dei due amanti. Questo momento di libertà – la collina verde smeraldo, l'acqua tutto attorno e la società con le sue regole lontano laggiù – è il climax di un'estate di esplorazione. Dio, la storia, il fato, il desiderio e la perdita si intrecciano in "Mystery of Love", come in tante altre canzoni di Sufjan Stevens e quindi è la colonna sonora perfetta di questo film e di questo momento, una canzone che celebra la bellezza e prevede la perdita.

Mentre uscivamo dal cinema, ho pensato a un altro film ambientato in Italia, La Grande Bellezza, che viaggia su un tale piano di emozione che ti senti sempre come se fosse sul punto di franare disastrosamente verso il sentimentale, eppure non lo fa mai. La stessa cosa si può dire della musica di Stevens: cammina sul filo dell'emozione con tanto stile e tanta grazia, a volte rischiando di scivolare senza mai volare davvero verso il baratro. Spinge i sentimenti fino a quello che sembra il punto di rottura, oltre il quale diventeranno svenevoli, una specie di inno pacchiano o una ballata mielosa cantata da un uomo che non sa comunicare quello che ha dentro. Ma questo non succede mai e Sufjan resta in controllo della propria arte.

Potresti dire, ovviamente, che quando si tratta di Sufjan Stevens è tutto un po' esagerato. Che eccomi qua a singhiozzare dentro al mio bianco fermo, con il suono di un banjo e una ballata che parla di amare decisamente troppo Gesù che mi riempie le orecchie. Quando cammini sul filo dell'emozione, come fa Sufjan, ci sarà sempre qualcuno che penserà che tu sia caduto a terra molto tempo fa, stringendo la tua Americana, le tue orchestre e i tuoi riferimenti biblici nel tuo outfit fatto su misura apposta per il concerto. Un'altra accusa è che tutto questo sentimento esagerato (Mi ha toccato un braccio... tremo... Angelo di Gesù salvami!) sia troppo pompato per essere vero e che Stevens sia uno spacciatore di emozioni dall'aria seriosa, un artigiano della malinconia, un simulatore di profonde verità che scorrono nelle nostre vita che però non ha senso dell'umorismo né ironia in quello che fa.

Ma le interviste di Stevens e in particolare le sue performance dal vivo fanno capire che ciò non è vero. Eccolo lì che rilascia una intervista relativamente seria in TV mentre indossa due enormi ali colorate. È stato ironicamente ossessionato da Justin Bieber per anni. Sul suo blog, ora chiuso, aveva postato una foto del ragazzo prodigio illuminato da una luce fortissima, con la didascalia: "È così luminoso che non riesco a guardarlo in faccia. Dio?" Ha fatto la cover di "Hotline Bling". Ai suoi concerti, fa sempre in modo di tagliare la pesantezza della sua opera con qualche buffo monologo comico improvvisato. Ha scritto una lettera aperta a Miley Cyrus (“Ragazza, colpisci come Mike Tyson”) e anche all'interno delle sue canzoni più seriose si trovano momenti di commedia e astuti giochi di parole.

“Tonya Harding” è l'esempio più recente di questo. Ha molti dei segni distintivi di Sufjan: arpeggi zoppicanti, voce sussurrata; scintilla ma è anche profondamente malinconica. È una fetta di Americana. La sincerità è attutita dai giochi di parole. “Tonya Harding, my friend / well this world is a bitch, girl, don’t end up in a ditch, girl”, Sufjan canta. Tonya, una outsider – l'archetipo Americano della famiglia disfunzionale – è un perfetto personaggio da Stevens. Lei è, come gran parte del suo lavoro, radicata nel paesaggio americano e nella sua narrazione esce dalle pagine del National Enquirer per entrare in una mitologia moderna.

In parte del suo linguaggio, tanto quanto nella materia trattata, "Tonya Harding" strizza l'occhio alla queerness che s'intravede nella musica di Stevens, una queerness che naturalmente sale più vicina alla superficie in Chiamami col tuo nome. C'è addirittura un famoso gruppo su Facebook dedicato al cantautore e chiamato “Questa canzone di Sufjan Stevens è gay o parla di Dio?”, che produce meme su Sufjan e tende a prendere in giro i ragazzi etero che preferiscono ignorare le canzoni che sembrano parlare di due uomini che si amano. Inoltre, la risposta è semplice: la canzone è gay E parla di Dio.

Le moltitudini contenute nelle canzoni di Sufjan Stevens – di sessualità, di significato, di spiritualità – gli permettono di evocare sentimenti che danno la sensazione di essere universali e senza tempo. Il suo utilizzo dell'immaginario religioso evoca sentimenti antichi e conferisce profondità ai suoi testi. Stevens dedica se stesso a mescolare passato e presente, la Bibbia e la cultura pop. La stranezza, la queerness, l'immaginario biblico e l'esplorazione nuda della famiglia rendono Sufjan diverso dai suoi pari più tradizionalmente mascolini all'interno della comunità dei cantautori. Per quanto a volte possa ricordare Bon Iver, la musica di Stevens è più vicina a quella degli Hidden Cameras o dei Magnetic Fields, maestri queer della canzone pop, geniali narratori dell'amore e della nostalgia.

Le canzoni di Stevens per Chiamami col tuo nome si adattano all'immagine di lui che cammina sul filo dell'emozione, iniettando queerness dentro le sue a volte pensierose, a volte bizzarre esplorazioni di amore e perdita, passato e presente. In una delle scene centrali del film, il padre di Elio, interpretato da Michael Stuhlbarg, dice a suo figlio che per quanto "in questo momento ci sia sofferenza, ci sia dolore" è vitale che lui non attutisca quel dolore, che non lo chiuda fuori per paura di provarlo. Le canzoni di Sufjan Stevens rimangono vive nel dolore. Contengono bellezza e grande tristezza ma rimangono aperte al mondo. Niente viene chiuso fuori. Sufjan non ha vinto un Oscar. Non importa. L'Academy non lo merita.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.

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Alla ricerca del musicista italiano scomparso nel nulla

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Oggi non più, ma una decina di anni fa anni l'indie folk spadroneggiava. Erano gli ultimi anni di Myspace, uscivano dischi come Fleet Foxes o Youth Novels di Lykke Li, nascevano miti come quello dei Bon Iver, i Sigur Rós diventavano un fenomeno pop in mezza Europa. Poi quell’ondata è passata, ce ne siamo fatti una ragione. Ma a me è rimasta una cosa in sospeso.

Anche io in quegli anni sentivo quel folk dall’umore nordico. Sarà stato fra il 2008 e il 2013, e tra i tanti mi ero fissato con uno bravissimo che faceva neofolk. La chitarra, distorta, era suonata su tappeti sonori lentissimi fatti con campionamenti un po' industrial. Spesso si aggiungeva un violino, suonato come te lo immagini in un disco di Antony and the Johnsons. I testi erano in inglese, scritti bene, molto intimisti e alla sua voce, spesso sporcata effetto telefono, se ne aggiungeva un’altra femminile, soprattutto sui ritornelli. Ma su di lui, oltre a nome, cognome, e una probabile origine siciliana, non si trovavano molte informazioni. Probabilmente viveva in un paese freddo, lo si capiva dalla foto di profilo su Myspace dove se ne stava in piedi sopra un fiume ghiacciato. Per un periodo doveva essere vissuto a Kassel, una città tedesca, perché sul primo disco c’era scritto che quei pezzi erano stati scritti lì.

Avevo 18 anni quando l'ho scoperto. Quell’acustica lo-fi con le distorsioni cupe e i campionamenti sfumati mi aveva colpito molto: c’era del folk noir, ma senza la vena pagana, e c’era dell’indie folk, ma non banale. Insomma, mi era piaciuto. Il primo disco, Separations, uscì nel 2008. L'avevo sentito sul player di Discogs e me ne ero innamorato. Finalmente qualcuno che facesse quella roba in Italia con lo stile di Death in June o dei Current 93. Finalmente un folk diverso da quello estroverso da vino rosso e gente scalza alla festa dell’unità. Uno stile introspettivo, senza il campanilismo da dialetto del sud ostentato alla Mannarino. E ovviamente non ero l’unico a cui piaceva: una traccia di quel disco, "Separation IX", era stata scelta da Giacomo Triglia (regista dei video di Colapesce, Cristina Donà, Brunori Sas e così via) per un suo cortometraggio.

A un solo anno di distanza uscì un nuovo disco, Summary of Symbiosis, otto tracce, scritte tra marzo e luglio del 2009, e pubblicate con una dedica: a “tutte le gioie e i dolori avuti con Andrea, a Kassel”. E dopo pochi mesi un DVD, prodotto da una galleria di Palermo. Nemmeno un anno dopo, nel 2010 uscì un altro disco, addirittura un doppio: Watschenbaum / Hold, per un totale di 22 nuove tracce. A quel punto ero diventato un fan.

Nello stesso periodo avevo visto un altro live apparire per intero su YouTube, con video e audio curatissimi, dove oltre alla mia c’erano migliaia di altre visualizzazioni. A quel punto ero sicuro fosse fatta. Quel musicista che mi piaceva si sarebbe fatto strada, altri live, altri dischi: insomma, sarebbe diventato sempre più conosciuto (sperando che non si rovinasse troppo, visto che al tempo c’era ancora la paura di “diventare mainstream”). E invece no, non è andata così e quel musicista è sparito nel nulla. Il primo gennaio del 2013 è scomparsa ogni informazione su di lui online. Sono spariti i video, i dischi, il sito, gli account.

Nemmeno sul sito dell’etichetta che vendeva i suoi dischi è rimasto molto. Tutti i player online sono bloccati e non permettono di sentire nulla. Su YouTube rimangono solo due pezzi, "Liste" e "Moths Invasion", ma sono due remix fatti da altri, non pezzi originali - che invece sono stati tutti rimossi. Ne rimane uno solo, su Vimeo, proprio "Moths Invasion". Persino il cortometraggio di Giacomo Triglia è scomparso, così come tutti i live su YouTube. Certo, potevo continuare ad ascoltarlo visto che nel frattempo avevo comprato i dischi, ma che fine aveva fatto quel musicista che ormai si era guadagnato dei fan? Mistero.

Ogni volta che risento le tracce di quei dischi ripenso a come possa essere possibile che uno bravo (e giovane, visto che ai tempi di Myspace credevo avesse circa la mia stessa età), con tre bei dischi alle spalle, sparisca nel nulla. Il dubbio è più forte se penso che i feedback gli erano arrivati eccome: registi, altri musicisti e recensioni su riviste molto lette. Perché decidere di sparire? Doveva esserci un motivo importante. A volte queste cose si fanno per creare suspense per poi, per esempio, pubblicare un disco nuovo. Ma non mi sembrava quello il caso, e infatti nel 2014 non è uscito nessun disco. E nemmeno negli anni dopo. Uno bravo si era ritirato per davvero.

Certo, lasciar perdere progetti artistici è abbastanza comune. Ma normalmente si smette alla fine di un ciclo, non quando si sta arrivando ad avere degli ottimi riconoscimenti. Nello stesso anno in cui uscì Separations, il 2008, un altro artista italiano, Populous, anche lui bravo e molto attento ai trend europei, usciva con Drawn in Basic per la tedesca Morr Music. Quando ho sentito quel disco ero sicuro che quel producer avrebbe continuato a fare musica, e infatti è andata così: per quanto la musica sia questione di gusti, c’è un grado di oggettività che ti fa capire che alcuni siano troppo promettenti per mollare.

A forza di riflettere su cosa poteva esserci dietro, ho preso una decisione: sarei andato a cercarlo, l’avrei trovato e glielo avrei chiesto di persona. Così prima di tutto lo cerco su internet, e lo trovo. C’è un profilo Facebook. Nome e cognome corrispondono, ma non c’è nessun riferimento alla musica. Vive in Germania. Dovrebbe essere lui, lo contatto. Infatti è lui. Risponde sospettoso, come se pensasse: cosa mai vorrà questo giornalista? E io non so bene cosa controbattere, dico: "Mi interessa la tua storia, com’è che per qualche motivo hai smesso di suonare". Mi risponde stranito, come se lo stessi disturbando (o prendendo per il culo, forse tutte e due). Insisto, dico che lo ascoltavo, che voglio ricostruire la sua storia e lui alla fine si convince, possiamo parlare. È andata, vado in Germania.

Arrivo a Berlino un pomeriggio di metà febbraio. L’idea era quella di preparare un'intervista, ma mi vengono fuori domande tristissime tipo: "Com’è successo che dopo tre dischi non suoni più?” oppure “È stata una scelta economica?”. Quindi mollo la scrittura dell’intervista e decido per una chiacchierata a braccio. Mi dà appuntamento in un bar in centro, il Tier. Arrivo, mi siedo a un tavolino e aspetto. Quando arriva mi guarda per assicurarsi che io sia la persona giusta e dopo un saluto frettoloso mi fa: "Innanzitutto... ma perché?”.

Non mi sembra abbia chissà quale voglia di parlare di sé, quindi parlo io, gli racconto perché mi è rimasta questa fissa. E a ogni traccia che cito, disco di cui conosco l’anno di uscita, lui mi guarda come se fosse assurdo che qualcuno se ne ricordasse ancora. Gli chiedo: “Ma qualcuno è mai venuto a chiederti perché sei sparito di colpo?”. Lui: “No”. Silenzio.

Prendiamo da bere, iniziamo a chiacchierare e mi rendo conto di una cosa: quel folk lento e intimista rispecchia molto la persona che ho davanti, introversa, cerebrale, tendenzialmente timida.

Però poi diventa affabile. Parliamo di chi ha collaborato con lui: Claudio Cataldi, Federico Lupo di Zelle Arte Contemporanea, etichette tipo Centre of Wood, Wool Shop e Seashell Records. Mi racconta che è di Trapani, ma ha studiato a Palermo, ed è lì che c’era una scena artistica che in quegli anni attraeva a sud molti nomi: gente come 108 e Massimo Gurnari, che arrivavano in Sicilia per fare mostre, live painting o performance. A quei tempi il mood nordeuropeo sembrava essersi abbattuto sul capoluogo siciliano creando un certo fermento tra autoproduzioni, musicisti e gallerie.

Nel bar c’è rumore, quindi non posso usare il registratore e non voglio prendere appunti perché rovinerei il clima di fiducia della chiacchierata. Io però in qualche modo ho già vinto: l’ho ascoltato per cinque anni e per altri cinque lui è scomparso, ma l’ho trovato e non mi ha tirato il pacco, si fa intervistare. Ci accordiamo per il pomeriggio del giorno dopo, a casa sua, così si ripercorre cos’è successo e - se tutto va come deve andare - io capisco finalmente com’è che uno così di punto in bianco si ritira, leva tutto da internet e non suona più. Che poi non credo sia interessante solo perché è uno bravo, ma perché chi fa musica di quel tipo, non lo fa mai perché è un lavoro come un altro, non è una cosa che “capita di fare”. Semmai la fai se sei in un certo modo, e com’è che da un momento all’altro uno smette di essere in un certo modo?

Arrivo in un isolato berlinese silenzioso, con le strade pedonali nuovissime e i palazzi che alternano i mattoncini rossi di cotto all’intonaco bianco. Posto residenziale, pulito, con i pochi interni mid century modern che si intravedono dagli infissi spessi. In giro non c’è nessuno, forse perché è così questa zona, oppure è per via del freddo.

Partiamo dall’inizio. Mi racconta come ha cominciato a suonare, le lezioni di piano, la chitarra suonata senza saperne molto. Poi il disco registrato con un microfono e un Mac, Paolo Tedesco che lo convince a suonare live, le distorsioni, l’amore per il neofolk e la fascinazione per l’indie nordico, dai Múm a Emiliana Torrini, Mugison, David Tibet e così via. Fin quando non è arrivato il primo disco, Separations, con l’arrivo del seguito e di qualche live, sia in Sicilia che fuori (come a Roma, al Fanfulla), tutto ottenuto grazie a Myspace (oggi un ricordo lontanissimo, ma in realtà uno dei social che ha segnato di più le sottoculture dal 2000 in poi, soprattutto a livello musicale).

In un secondo momento arrivano le collaborazioni, le attenzioni da altri musicisti, il cortometraggio per Giacomo Triglia, i video che cominciano a circolare, i contatti con un’etichetta romana, Cold Current, da cui poi è nata Centre of Wood, con cui viene pubblicato Separations. Arrivano anche recensioni su Blow Up e Rockit, tutto mentre lui era uno studente di architettura a Palermo. Ma se questo è l’elenco delle cose che sapevo, e di cui volevo chiedere conto nell’intervista, scopro però che la parte più importante era un’altra e io non ne sapevo niente: chi faceva quei campionamenti e quei dischi lo faceva come percorso psicologico per affrontare un’ansia cronica e una depressione.

Non potevo saperlo quando ho deciso di provare a fare quest’intervista, ma ho cominciato a intuire che dietro la scomparsa di Giampiero Riggio ci fosse dell’altro, oltre all’aspetto musicale, quando ho notato la sua poca voglia di parlare del passato.

Se fai musica per sfogare uno stato d’animo negativo (e l’ottanta per cento della storia della musica si basa su questo) quei suoni saranno per sempre legati a quel sentimento. E se di quel sentimento poi succede che te ne liberi (e meno male, visto che è una depressione) allora tornarci è pesante. Ma ormai ci sono, l’intervista è a metà, sto registrando, e mica posso andarmene farfugliando un “Ah no dai allora scusa”. Mentre ne parliamo tutto per me comincia ad avere senso: nella mente di chi vive periodi difficili i ricordi sono un malloppo che comprende tutto, dai suoni ai posti, fino alle facce delle persone. Palermo, la scena artistica, la gente delle etichette, i video su YouTube, i live, i tempi dell’università, è tutto un gomitolo emotivo di cui ti puoi liberare solo accantonandolo tutto insieme. Se invece ti convinci di volerlo sciogliere, potrebbe volerci troppo tempo e troppe energie.

Ecco perché, mi racconta, il primo gennaio 2013 ha eliminato tutto. Per liberarsene, creare uno stacco e ricominciare daccapo.

Oggi quel periodo lo vive come una specie di sogno lontano. Era un altro posto, altri anni, altre persone. Ma c’è un altro motivo. Quando nasce in provincia una scena artistica di quel tipo, manca un tessuto, sia culturale che economico, che possa valorizzarla. Tradotto: non ti si incula nessuno.

I riferimenti estetici nordici sono troppo lontani dal capoluogo siciliano. In un posto così non è facile farne un lavoro, si vive in una nicchia e si ha la sensazione che dalla nicchia non si riuscirà mai a uscire. Certo, ci sono i feedback che arrivano da internet, ma ai tempi di Myspace i social network non erano considerati la cosa seria che sono oggi. Quindi ci si stanca, si lascia stare, ci si lascia convincere che in fondo era tutto un hobby, mica una cosa che si stava facendo come lavoro. È facile pensare che si era degli illusi, degli idealisti: si finisce addirittura per coltivare un proprio intimo backlash, per cui si ha un rifiuto per quelle cose e l’arte è derubricata a vizio d’infanzia. E questo era il motivo che io mi aspettavo prima di arrivare qui a fare l’intervista: fai cose sperimentali a Palermo? Non c’è terreno fertile, ti disilludi e molli tutto. Invece questo era solo un pezzetto della storia. Anche perché alcuni di quei dischi sono scritti tra Stoccarda e Kassel, in Germania, e lì un terreno fertile si sarebbe potuto trovare. E invece proprio a Stoccarda Riggio decide di cancellare tutto.

Passato il periodo psicologicamente più provante mancano i presupposti per sedersi e scrivere quel tipo di pezzi, sembra mancare la capacità di improvvisare e forse è così: se suonavi per esprimere un male interiore, allora inevitabilmente quando quel male l’hai vinto suonare perde di senso e diventa difficile. Anche se un certo tipo di emozioni negative riaffiorano nella vita di tutti i giorni e sono proprio quelle che da sempre fanno da catalizzatore a un certo tipo di produzione artistica.

E infatti dall’intervista viene fuori che un rumore di fondo c’è sempre. Se hai scritto tre dischi e hai passato anni a usare la musica come modo espressivo, allora puoi eliminare il 99% di quel passato, ma non il cento. E infatti qualcosa è rimasto.

Poco prima che me ne andassi da casa sua dopo due ore di intervista, Riggio mi fa vedere un disco, copertina rosa e il titolo mitologico Lorelei, l’album è dei Feminine. Non li conosco. Poi capisco: sono un nuovo suo progetto. Per metà a dire il vero, il disco è una collaborazione a distanza con Francesco Cipriano, un ragazzo che suona in una band chiamata Oldpolaroid. Loro due non si sono mai visti e mai fatto un live. È stato un canale per rimanere in contatto con la musica.

Sento il disco ed effettivamente quello è lui, c’è quel po’ di patina shoegaze, gli stessi suoni fumosi, lo stesso folk lo-fi. “L’abbiamo fatto a distanza”, mi dice. E di pezzi firmati con altri nomi ce ne sono anche altri, altrove, in cose organizzate da altre etichette. Insomma Riggio, dopo aver eliminato tutto della sua produzione passata, ha cambiato nome e speso tre anni su un disco che non ha la sua firma e che non è stato spinto per niente sul mercato: un po’ come smettere di fare musica senza smettere davvero. Sparire, ma non farlo del tutto.

Ero partito con l’idea di capire com’è che ai tempi di internet, dove tutti mettono in mostra se stessi e i propri veri o presunti talenti, uno decide di farne a meno anche se il talento ce l’ha davvero. Torno a casa con una storia in testa molto diversa: le identità ai tempi di internet e dei social sono una roba difficile da tracciare, chi pensavo avesse chiuso con la musica è riuscito a farlo senza mai smettere davvero. Questa è la storia di una sparizione, ma prima ancora è la storia di un cambio di identità: perché c’è gente, come me, che conosce il nome di Riggio legato a quel neofolk e a dei dischi prodotti durante una depressione. Mentre in Germania, nel posto in cui lui vive e tra la gente che frequenta ogni giorno, nessuno sa che sia un musicista.

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Guarda il nuovo corto di Spike Jonze con FKA Twigs e Anderson .Paak

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La Apple ha condiviso Welcome Home, un nuovo corto diretto da Spike Jonze con FKA Twigs come protagonista. Nel video, Twigs balla ascoltando "Til It's Over", un nuovo pezzo di Anderson .Paak, e i suoi movimenti trasformano l'appartamento in cui si trova in un tunnel surreale simile a un caleidoscopio. Lo trovate qua sopra.

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Recensione: Ancst - Ghosts Of The Timeless Void

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Mala tempora currunt. I rigurgiti nazionalisti, i venti nostalgici, gli episodi di neanche troppo velato squadrismo ci colgono così tanto apatici e molli e assuefatti alla merda che ci circonda che nemmeno ci facciamo più troppo caso. Per fortuna, o forse per indecifrabile segno del destino, proprio in questi giorni esce un nuovo disco degli Ancst.

Si possono dire un sacco di cose sugli Ancst, e sono tutte tra il giusto e il bellissimo: un collettivo berlinese che coi generi musicali ci si pulisce il culo e ne suona almeno quattro tutti assieme riuscendo a fare un quantitativo di danni a tratti commovente, partito dalle etichette grind underground più politicamente consapevoli della scena tedesca (per una volta woke non è un aggettivo buttato là, se si parla di Vendetta e soprattutto di WOOAAARGH), con un approccio totalmente incompromissorio eppure allo stesso tempo moderno e attualissimo, eccetera eccetera. Insomma: gente che suona black metal, crust e metalcore, ma che nella sua iperattività non disdegna EP o split che abbraccino dark ambient e noise, e riesce incredibilmente a fare sempre tutto bene, con una compattezza e una coerenza degna dei migliori Bolt Thrower, ma suonando - mi permetto di citare Nocleansinging - molto più Heaven Shall Burn che …When We Are Gathered .

Ghosts Of The Timeless Void è esattamente questo: un album veloce, compatto, affilato, che unisce accordi black metal a melodie metalcore, dall’atteggiamento e con un messaggio turboradicale a sinistra. Nel senso che il collettivo sulla propria pagina Facebook si è dato una vera e propria Missione, e gli Ancst sono uno sfogo “per tutte le frustrazioni che derivano dalla democrazia, dai fascisti, razzisti, sessisti e da tutte le altre agende del cazzo”. Una roba che non fa sconti, ti sbatte in faccia i problemi e ti sprona ad affrontarli a viso aperto, anzi, direttamente a muso duro.

Rispetto a Moloch, di due anni fa, i Tedeschi sono approdati su Lifeforce, hanno cambiato un chitarrista e perso uno dei due cantanti, ma la sostanza è rimasta invariata, anche se il tono di voce è conseguentemente meno vario e ancora più tagliente. Sì, c’è giusto qualche spiraglio in “Dysthymia”, ma il fondamento su cui Ghosts poggia è sempre quello: mettere sul piatto diversi generi e cannibalizzarli con una rabbia che solo le periferie occidentali possono metterti in corpo. Gli Ancst sono un’esperienza devastante, sfibrante, logorante. Eppure assolutamente necessaria. Anzi, se state dalle parti della riviera andate a vederli, che scendono per la prima volta in Italia per due date a casa di Cristo e si prospettano enormi mazzate.

Gli Ancst sono in tour e suoneranno in Italia, al Grotta Rossa di Rimini, venerdì 16 marzo. Segui l'evento su Facebook.

Ghosts of the Timeless Void è uscito il 2 marzo per Lifeforce.

Ascolta Ghosts of the Timeless Void su Bandcamp:

TRACKLIST:
1. Dying Embers
2. Shackles of Decency
3. Concrete Veins
4. Revelation of Deformity
5. Unmasking the Imposters
6. Of Gallows and Pyres
7. Quicksand
8. Republic of Hatred
9. Dysthymia
10. Sanctity
11. Self-Portrait

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Un’intervista con Kim Deal, rockstar di provincia

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Quando le Breeders sono tornate in Europa, con la loro storica formazione che comprende le gemelle Kim e Kelley Deal alle chitarre, Josephine Wiggs al basso e Jim Macpherson alla batteria, a risuonare per intero il loro capolavoro e grande successo del 1993 Last Splash, io me le sono perse. I motivi sono molteplici. Tanto per cominciare, non sono un grande fan delle reunion karaoke, quelle in cui è tutto un "ve la ricordate questa?". E poi, diciamo la verità, l'altro motivo è che non volevo condividere le Breeders con voialtri. Sì, voialtri, il pubblico del festival, la gente che ci va perché ha sentito dire che una di loro era nei Pixies ("quelli di Fight Club!1!!1") o perché ha ricevuto in regalo una smartbox per il Primavera Sound.

Lo so, abbiamo già stabilito che io sono uno snob di proporzioni mastodontiche, ma in questo caso c'entra anche un'altra questione, che è la capacità soprannaturale delle canzoni di Kim Deal di conquistare il cuore di chi le ascolta. "Safari", "Divine Hammer", "No Aloha", persino la hit mondiale "Cannonball" sono in grado di farti sentire come se le avessi scritte tu, ma senza quel senso di vergogna che di solito si associa alla produzione di arte in proprio. Tanto che per passarmela bene a un concertone reunion delle Breeders nel 2013 avrei dovuto seguire un corso da cuckold.

Ora, finalmente, la formazione originale della band delle due gemelle è di nuovo in pista con un nuovo album e un nuovo tour mondiale, che passerà anche dall'Italia in giugno. All Nerve, il disco uscito venerdì scorso per 4AD, è anche meglio di quanto ci si potesse aspettare. Con il ritorno di Josephine e Jim si diradano le nebbie di negatività che avevano reso il precedente Mountain Battles, seppur molto bello, un mattone color canna di fucile che si adagiava senza troppi complimenti sul petto. All Nerve è sfacciato, sbarazzino, rockeggia forte (una cover degli Amon Düül II!) e si concede momenti di eterea euforia (vi sfido a mantenere gli occhi asciutti durante "Dawn: Making An Effort"). La voce di Kim, per quanto finalmente libera dall'influenza di alcol e droghe, mantiene il suo carattere ruvido, diretto, e a 55 anni compiuti sfoggia ancora quel ghigno a metà degno di una teenager dispettosa. Sinceramente, sembra davvero di aver ritrovato le Breeders di Last Splash 25 anni dopo – come se non fosse passato un anno.

Era la sera di San Valentino, verso le otto di sera, quando ho chiamato Kim Deal via Skype, e nella mia testa pensavo ossessivamente a un modo per fare una battuta sull'argomento senza sembrare un fanboy viscido e inquietante. Non ci sono riuscito, quindi sono stato costretto a tagliare gran parte di quello che ho detto dall'intervista che potete leggere qua sotto. Per fortuna Kim è una persona affabile, che ama ridere e conversare, ha senso dell'umorismo e voglia di raccontare quello che pensa senza filtri. Ecco il risultato.

Acquista i biglietti per i due concerti italiani delle Breeders, il 5 giugno a Ferrara e il 6 giugno a Milano, sul sito di DNA Concerti.

Noisey: Ciao Kim, come stai? Pensavo fossi già in tour.
Kim Deal: Ciao, sto bene, grazie. Il tour inizia il primo aprile, quindi ora sono a casa mia a Dayton, in Ohio. La settimana prossima iniziamo le prove, ci troviamo tutte in cantina da me.

Wow, grazie per questa immagine. Parliamo un po’ del disco, mi piacerebbe partire dal titolo. All Nerve sembra un po’ una dichiarazione di forza, di tenacia…
Beh, in realtà è il titolo di una canzone, viene tutto da lì. Sai, quando hai finito di registrare e si entra nella fase di missaggio e mastering, lì viene il bello, la parte divertente, cioè quando ci si mette lì e si dice: “Ok, chi ha un buon titolo per il disco?” All’inizio ne abbiamo proposti un paio, ma non erano un granché. La mia idea era “Howl”, da “Howl At The Summit” che è un’altra canzone del disco, ma poi ho pensato che c’è una famosa poesia di Allen Ginsberg con lo stesso titolo, sarebbe un po’ strano. E a un certo punto, la ex-ragazza di Josephine ha detto: “Che ne pensate di ‘All Nerve’?” Ed è piaciuto a tutte. Anche se l’avevamo già usato per la canzone, mi sembra un buon titolo.

Sì, e poi sembra comunicare questa idea di forte indipendenza, anche il testo della canzone che dice “Non mi fermerò / Ti investirò / Il coraggio non mi manca”, mi ha fatto pensare che è un ottimo titolo per una band che torna sulle scene dopo tanto tempo con la formazione originale.
Non ci avevo pensato, hai ragione! Ma per me quella canzone parla soprattutto di quei momenti… sai quando ti sembra di star perdendo contatto con la realtà? E di essere così assolutamente convinta di una cosa che nessuno potrebbe essere in grado di convincerti del contrario? Ecco, quello.

In un’intervista hai dichiarato che in questo album hai usato per la prima volta tecnologie digitali in studio, una novità assoluta per te. Come ti sei trovata?
È vero, sono un po’ dubbiosa al riguardo. È strano. Sai, abbiamo registrato tutto il disco in analogico, su nastro. Niente computer, niente ProTools. Poi siamo arrivate a una certa parte di una certa canzone, e mi è venuta voglia di registrarci sopra qualcosa d’altro, e lavorando su nastro ti devi limitare a tipo 23 tracce. Io volevo provare alcune cose, ed ero nello studio di Steve Albini a Chicago, Electrical Audio, con un tecnico che lavora lì e che è mio amico da molti anni, Greg Norman. E Albini, naturalmente, lavora esclusivamente in analogico, ProTools non lo guarda nemmeno. Il che di solito è perfetto per me. Ma in questo caso volevo provare alcune cose strane, quindi ho pensato di lavorarci con Greg, e lui ha detto “facciamo che apro ProTools così possiamo provare tutto quello che ci pare”. Solo che una volta che cominci poi è difficile fermarsi. Lui stesso mi ha detto che non saprebbe distinguere una registrazione fatta in analogico da una fatta in digitale ormai. Alla fine comunque abbiamo aggiunto qualche cosa in digitale soltanto su due canzoni, non è che ci siamo date alla pazza gioia. Io ho portato fisicamente i nastri con me a New York e lì abbiamo mixato in digitale, altra prima esperienza per me.

Ora che sei riuscita a rimettere in piedi le Breeders, continuerai anche a registrare la tua musica da solista o le due cose si escludono a vicenda per te?
Beh, a dir la verità ho ancora un 7” già pronto che non è ancora uscito, quindi potrei pubblicare quello. E con questo credo facciano sei singoli, che tra lati A e B fa dodici canzoni, quindi si potrebbe anche pensare a un album! Potrei metterle tutte insieme, così la gente può ascoltarle tutte in fila senza dover cambiare lato a ogni canzone.

Com’è stato tornare in studio con la formazione originale delle Breeders?
Beh, avevamo già fatto il tour nel 2013 in cui suonavamo Last Splash dall’inizio alla fine. Ma il fatto di aggiungere nuove canzoni è davvero super esaltante. Non vediamo l’ora di partire e provare le cose dal vivo. Anche suonare Last Splash è stato molto bello, perché la gente conosce le canzoni e le ama molto.

kim deal breeders new album last splash all nerve 2018

Mi incuriosisce capire che rapporto hai con l’Ohio, perché devi sapere che io sono un appassionato dell’Ohio, uno Stato che ha prodotto il meglio della musica outsider americana. So che tu hai un rapporto di amicizia molto stretto con Robert Pollard dei Guided By Voices, che è uno dei fulgidi esempi di quella singolarità ohioana a cui faccio riferimento. Che idea ti sei fatta della musica del tuo Stato?
Per me si parla prima di tutto di funk. Qua c’erano gli Ohio Players, gli Slave… per me, essendo di Dayton, il funk è stato più importante e significativo del punk, che era più vivo al Nord, ma qua nel Sud dello Stato il funk andava veramente forte. E poi negli anni Novanta era una figata quaggiù: c’erano i Brainiac, le Breeders, i Guided By Voices… era un posto davvero divertente dove stare. Per quanto riguarda le particolarità della musica dell’Ohio rispetto ad altri posti, probabilmente è una cosa che percepisci meglio tu di me, perché io da dentro non la vedo, forse si capisce meglio da fuori.

Un’altra cosa interessante sulla tua carriera è che per quanto tu sia stata parte della generazione che ha fondato il college rock, l’alt-rock, l’indie rock, come lo vogliamo chiamare, le tue influenze sono sempre state mainstream, anche agli inizi non avevi il fascino dell’underground, dell’opposizione al paradigma rock dominante.
Ecco una cosa che ha a che fare con il posto in cui vivevamo. Qui nel Midwest eravamo tutti immersi in cose come Schenker Brothers, Molly Hatchet, UFO, Black Oak Arkansas, Brownsville Station, Rainbow, [Ted] Nugent, Rush… super ruock. Non è che volessi suonare come i Brownsville Station, ma era quello che girava ai tempi.

Per un periodo, in coincidenza con l’esplosione alternativa di inizio anni Novanta (e quindi con il secondo album delle Breeders), sei stata una vera e propria rockstar, eppure sembra che tu non abbia cercato di gettare benzina sul fuoco del successo, continuando a mantenere una vita e un approccio alla musica di basso profilo.
Non so bene che cosa intendi, nel senso che sì, ho presente che ci sono stati due momenti di grande successo: “Cannonball” [il primo singolo tratto da Last Splash] e la reunion dei Pixies a metà anni Duemila. In quei momenti ero spesso in radio e in TV o in giro per il mondo in tour. Però considera che io vivo a Dayton dal 1992, magari sarò stata anche molto famosa, ma quaggiù non è che tu te ne accorga più di tanto. Non ho mai avuto bisogno di trasferirmi perché, fortunatamente, andando in tour non rimanevo quaggiù abbastanza a lungo da annoiarmi. Poi sono stata a New York per qualche mese, California per un anno e mezzo… ho sempre pensato che avrei dovuto trasferirmi a Londra. Però sai come va… Tu hai sempre abitato in Italia?

Sì, sono passato da un paesino a una cittadina a una grande città. A volte voglio tornare in campagna, a volte penso che dovrei trasferirmi in una vera metropoli. Quello che volevo chiederti però, in definitiva, è: rimpiangi mai di non aver sfruttato il tuo successo maggiormente? Ti capita mai di desiderare una vera posizione da stella del music business?
Ah, ora capisco cosa intendi. Ora ti racconto com’è nata “Cannonball”. Avevo il microfono da armonica di mio fratello, e quello che dovrebbe fare chiunque si trovi per le mani il microfono da armonica di suo fratello è attaccarlo a un amplificatore, io avevo un Marshall, e iniziare a urlarci dentro. Perché è l’idea migliore quando hai un fratello che suona l’armonica. Gli rubi il microfono e lo attacchi al Marshall e inizi a urlare. Quindi è come se tu mi dicessi che non ho voluto scrivere canzoni di successo, ma il fatto è che “Cannonball” inizia con un feedback di voce super distorto, che non era proprio una cosa comune ai tempi. C’è solo uuuaaayyy [imita il feedback del microfono] e io che faccio “hello? hello?”, quindi non è che fosse una canzone programmata per andare in radio, però ci è andata lo stesso. Quindi l’idea che io abbia deciso di mantenere un basso profilo e abbia snobbato la mia grande opportunità… per me non funziona così. Per me funziona che se penso che una canzone sia fica, la suono. Non è un mio problema che alla gente piaccia o meno… preferirei che piacesse, ma non è necessario per niente. Ho il mio gusto, non potrei mai scrivere canzoni che piacessero al pubblico, ma non a me. Perché quello è il lavoro di qualcun altro, di sicuro non il mio. È il lavoro degli autori, dei producer, di gente che scrive musica con in testa l’idea di essere commercialmente appetibili. Il mio lavoro è di inventarmi roba che mi piaccia, sperando che piaccia anche a qualcun altro. Fine.

Del resto questo approccio dà vita a canzoni molto più personali, e la conseguenza è che i fan delle Breeders percepiscono una forte connessione con te. È quello che mi ha detto una mia amica: "chiedile se si accorge che i suoi fan empatizzano con lei". Cosa ne pensi?
È davvero fantastico anche solo che lei abbia questa idea. È vero, abbiamo la sensazione che i nostri fan siano particolarmente affezionati a noi. È una bellissima sensazione.

Parliamo di cover. Riesci sempre a trovare delle canzoni particolari e inaspettate da suonare con le Breeders. Che cosa c’è dietro alla scelta di “Archangel Thunderbird” degli Amon Düül II per l’ultimo album e di “Chances Are” di Bob Marley sull’EP Fate to Fatal del 2009?
Hai scelto due ottimi esempi, perché sono semplicemente canzoni per cui ho sviluppato un’ossessione. Entro proprio in un loop da cui non riesco a uscire, ascolto per settimane sempre la stessa canzone senza sosta. Play-Rewind-Play-Rewind-Play-Rewind, come se avessi l’OCD. E questo mi porta a voler far entrare questa canzone nella mia vita, capisci cosa intendo? Però la cosa interessante è che, per esempio, “Chances Are” non potevamo certo cantarla come un gruppo reggae, non è il nostro stile, sarebbe andata malissimo. Ed è una canzone molto semplice, con delle armonie meravigliose, per cui l’abbiamo semplicemente resa meno complicata che potevamo, ma è molto diversa da come la faceva Bob Marley.

Invece “Archangel Thunderbird” è una cosa molto strana! Stavamo registrando le voci con Steve Albini, quindi quando mi sono messa a cantare la canzone per lui, sai [canta] "When the everywhere eye / Asks you who is the emperor of the sky"... lui, che penso non avesse mai sentito l’originale, mi ha detto: “Ma perché canti in questo modo?” Io stavo cercando di farla esattamente come la faceva [Renate Knaup], perché l’avevo memorizzata esattamente così, e non avrebbe avuto senso cantarla in un modo diverso. Il fatto è che la metrica di questa canzone è davvero stranissima, quindi lui non riusciva a capire perché avessi deciso di cantare queste parole con questa metrica così assurda. Insomma, in questo caso la cover doveva suonare quasi esattamente come l’originale, altrimenti sarebbe stata un’altra canzone.

È proprio vero. Probabilmente il modo strano di cantare era dovuto anche al fatto che l’inglese non era la sua prima lingua…
Sì, ma Renate è davvero una voce straordinaria. Alle mie orecchie suona come se fosse in trip totale, ma probabilmente è solo il suo stile. Comunque ho fatto un’intervista con un giornale tedesco, e loro mi hanno detto che il krautrock alle loro orecchie suona un po’ pacchiano. Pacchiano! Ti rendi conto? Qua negli States la gente va pazza per il krautrock.

Dev’essere una cosa degli europei, anche noi qua in Italia ci vergogniamo un po'. Pensa che i Metallica recentemente hanno avuto l’idea di suonare una canzone di Vasco Rossi davanti al pubblico italiano, e nel video si sente la gente che urla “nooo!” Insomma, non abbiamo un buon rapporto con la nostra musica nazionale. Invece voi negli USA ne andate più orgogliosi...
[Ride] Beh, se tu venissi qua e suonassi una cover dei Nelson non ti assicuro che otterresti una reazione positiva… Ma a proposito di musica italiana, conosci gli Uzeda? Mi piacciono tantissimo, la cantante è bravissima, ho sempre pensato che io e lei dovremmo fare una canzone insieme. Li ho conosciuti perché registrano anche loro con Albini. Lei è anche in un altro gruppo che si chiama Bellini, dal vivo sono fortissimi.

Allora lanciamo un'appello a Giovanna Cacciola perché registri una canzone insieme a te! Tornando all'album, mi ha incuriosito la canzone “Spacewoman”, perché sembra molto diversa dal tuo stile, molto più narrativa.
Il ritornello di quella è stato scritto da una ragazza con cui ho scritto “The Root” un po’ di altre cose a Los Angeles, Morgan Nagler. Ho usato dei suoi versi che erano avanzati per il ritornello. Mi piaceva molto perché sembrava una cosa molto sincera, il che a me non viene per niente bene quando scrivo i testi. Quindi ho messo insieme un pezzo mio con un pezzo suo, ed è venuta fuori “Spacewoman”.

“Walking With A Killer” è una canzone che avevi già registrato da sola, e parla di cose terribili che fanno gli uomini…
Ma guarda, è più una canzone su una cittadina. Hai detto che vieni da un posto piccolo, quindi capirai cosa intendo. Immagina: c’è una strada che esce dall’abitato, non molto illuminata, e tu ci cammini. È fiancheggiata da un campo di grano ed è ancora abbastanza parte della città da poterla fare a piedi per andare a fare la spesa, ma allo stesso tempo è buia e deserta. Il grano è più alto di te e arriva fino al ciglio della strada. E passa una macchina a tutta velocità e tu sei l’unica persona sulla strada, ed è una notte d’estate e le notti d’estate sembrano sempre film dell’orrore, no? Mi piace un po’ quella roba.

Che cosa pensi del grande dibattito sul sessismo nell’industria dello spettacolo? Tu sei sempre stata una lavoratrice, testa bassa e chitarra in mano. Credi che sarebbe cambiato qualcosa se invece di iniziare negli anni Ottanta tu stessi venendo fuori oggi?
Lasciami pensare… Hai ragione, probabilmente le dinamiche di genere sarebbero molto diverse oggi, ma, se penso a che cosa troverei di diverso, quello non è il mio primo pensiero. Il mio primo pensiero è che oggi la musica è gratis, non riuscirei ad avere un guadagno, la musica è libera come le farfalle. E poi mi viene in mente la questione tecnica, il fatto di non dover trovare un otto tracce a nastro come ho fatto quando ero adolescente, oggi userei GarageBand. E probabilmente se fossi cresciuta in questi anni sarei una grande fan di GarageBand e ti starei facendo una testa così sul fatto che la prima versione era meglio e bla bla bla. Sicuramente le dinamiche di genere sarebbero molto diverse, ma per qualche motivo viste da qua sembrano l’ultimo dei miei problemi. Dev’essere proprio perché, come dicevi tu, sono sempre stata una lavoratrice, quindi immediatamente il mio pensiero va al lavoro.

Infatti a vederti, e a vedere il tuo lavoro, sembri tanto indipendente e forte da non venire minimamente toccata da problemi di sessismo. Ti è mai capitato di dover lottare contro questo tipo di cose?
Sai qual è il discorso? Che non lo so. A volte capita che, per esempio, mi trovi in uno studio e l’ingegnere del suono sia un po’ uno stronzo. Ma non so se è perché sono una donna o se è uno stronzo con tutte le band. Il mio sospetto è un po’ entrambe le cose. C’è chi mi chiede se il movimento #MeToo incoraggerà più donne a fare musica. E quando ci penso, mi sembra praticamente lo stesso discorso di coso, il capo dei Grammy [Neil Portnow], che ha detto “Le donne dovrebbero farsi avanti se vogliono vincere”. Le donne sono metà della popolazione. Le donne fanno musica. È naturale. Donne e musica, è un’accoppiata naturale. Non c’è bisogno di incoraggiare nessuna. Facciamo già tutto. Quindi l’idea che il movimento #MeToo dovrebbe avere un effetto sulle donne è… sbagliata. Quello che manca è una copertura adeguata sulla stampa. Tipo, metti che apro Rolling Stone, prima di trovare una donna devo scrollare fino alla dodicesima notizia, dopo tipo sei articoli sui videogiochi. La stessa cosa vale per i festival! Sicuramente loro risponderebbero che è perché le donne non fanno abbastanza copertura mediatica, abbastanza pubblicità. Quindi è un circolo vizioso.

Grazie Kim, e buon san Valentino!
Ci vediamo a Milano, vienici a trovare!

Se Giacomo non ti sente è perché sta ascoltando le Breeders. Bussa più forte su Instagram.

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Recensione: Titus Andronicus - A Productive Cough

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Se una band prende il nome da una tragedia di Shakespeare deve per forza avere la capacità di creare un senso drammatico nei suoi pezzi per evitare pernacchioni. Fortunatamente per i Titus Andronicus e per il rock tutto, Patrick Stickles e compagni ce l'hanno sempre avuta. È difficile condensare in poche parole perché, ma credo c'entrino le seguenti cose:

1) Il senso di epicità che i loro album trasmettono alternando lunghi brani mezzi canti folk britannici mezze rockeggiate americane che più americane non si può alla Bruce Springsteen e pillole da pochi minuti tutte gridate e carichissime tutte punk-rock;
2) L'idea di grande narrazione universale senza tempo che traspare dai testi di Stickles, un uomo capace di chiamare un album con una citazione di Seinfeld che però decontestualizzata suona pure iper-confessionale e metterci dentro canzoni su dipinti di Brueghel, Albert Camus e quanto il New Jersey possa essere terreno fertile per slanci religioso-disfattisti-rincuoranti sul mondo e sull'interiorità dei rimasti fuori mischiando confessione, letteratura, ironia, senso di condivisione, cultura pop, racconto urbano e suburbano;
3) Il grande senso di tradizione americana portata nel contemporaneo che ti prende quando Stickles parla della sua nazione, della sua storia (vedi tutto The Monitor) e del suo presente.

A Productive Cough ha dentro ancora parte di questi tre punti. Non ha più il lato letterario/citazionista, che già comunque Stickles sembrava lì lì per abbandonare. Ma arriva dopo l'album che ha forse espresso i Titus Andronicus al massimo della loro qualità teatrale: The Most Lamentable Tragedy, un super concept sulla depressione iper-commovente e foderato di hit (una sola da ascoltare: "Dimed Out"). Come Stickles stesso ha dichiarato, dopo qualcosa di così grosso aveva bisogno di mischiare il mazzo e inventarsi qualcosa di nuovo. Quello con cui i Titus se ne sono usciti è, mi sembra, il loro album più semplice e tradizionalmente RUOCK.

Sebbene Stickles scriva ancora i suoi evocativi mini-poemi in rima ABAB (vedi soprattutto "Number One (In New York)", "Mass Transit Madness (Goin' Loco)" e "Above the Bodega (Local Business)"), e continui a usarli per parlare di come il tessuto urbano del nord-est degli Stati Uniti possa essere palcoscenico di piccoli drammi personali da rendere collettivi, a questi pezzi manca un senso di liberazione. Questo, principalmente a livello compositivo: le sorprese sono poche se non completamente assenti nelle musiche di questo album, grandi monoliti che preferiscono entrare in lunghi groove piuttosto che incuriosire l'ascoltatore.

"Home Alone" prosegue per otto minuti ripetendo due banalità su una generica base rock come mille altre ne esistono; "(I'm) Like a Rolling Stone" è una quasi-cover dell'omonimo di Dylan che dura quasi nove, inutili minuti senza aggiungere nulla all'originale. "Real Talk" è una lunga camminata pub rock dai toni apocalittico-disfattisti che rischia di creare un grande senso di angoscia più che di grande-festa-prima-della-fine.

Consiglierei comunque a chiunque di ascoltare i Titus Andronicus, e se possibile di andare a vederli dal vivo—qua avevo raccontato quello che era successo quando mi trovai di fronte a loro al Primavera Sound di Barcellona. E chi ama i Titus troverà comunque qualche brivido tra le pieghe di A Productive Cough, soprattutto nella sempre gloriosamente rozza interpretazione vocale di Stickles e in qualche momento di brillantezza testuale. Ma consiglierei a tutti gli altri di cominciare da uno qualsiasi degli altri loro album, che è meglio non iniziare da un album che non tira fuori abbastanza le qualità che distaccano e continuano comunque a distaccare i Titus dal marasma delle rock band generiche che popolano il Nord America.

A Productive Cough è uscito il 2 marzo per Merge Records.

Ascolta A Productive Cough su Spotify:

TRACKLIST:
1. Number One (In New York)
2. Real Talk
3. Above the Bodega (Local Business)
4. Crass Tattoo
5. (I'm) Like a Rolling Stone
6. Home Alone
7. Mass Transit Madness (Goin' Loco')

Elia è su Instagram: @lvslei

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Vita e opere di Richard Russell, fondatore di XL Recordings

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Quando ho ascoltato per la prima volta I'm New Here di Gil Scott-Heron, non avevo la minima idea di chi fosse Richard Russell. Sentivo elettronica soffocata, e sopra una voce che cantava di avvoltoi in cerchio; sentivo un'acustica e una voce cercare gioiosamente di andare allo stesso passo senza riuscirci; sentivo blues laceranti e sospesi che dimenticavano l'età di chi li cantava. Qualche tempo dopo sarebbero diventati così famosi che li avrei riascoltati in un pezzo di Drake e Rihanna. Così come gli American Recordings di Johnny Cash, I'm New Here era tanto cullante quanto lacerante: un artista anziano fondamentale per la storia della musica era riuscito a creare qualcosa di brutalmente innovativo e rischioso proprio alla fine della sua carriera, ribaltando il lento declino verso il shut-up-and-play-the-hits che affligge buona parte dei grandi vecchi della musica degli ultimi decenni.

Se però sapevo bene che dietro all'ultima grande serie di album di Cash c'erano la mano e la mente di Rick Rubin, non avevo minimamente capito che a fare il tangram sonoro di elettronica, trip-hop, industrial, blues e R&B alla base del disco di Scott-Heron ci fosse il fondatore dell'etichetta che quel disco lo stampava. Posso forse oggi dirmi giustificato, dato che quello fu il suo primo lavoro di sempre come produttore.

Era il 2007 quando quell'album uscì. Nei vent'anni precedenti Russell si era limitato a fondare assieme ad amici, nell'era d'oro dei rave britannici, un'etichetta per buttare fuori musica dance ed elettronica. come La faceva anche lui, a nome Kicks Like a Mule, e nel frattempo lavorava come talent scout. Nel '92 l'etichetta pubblicò il primo singolo di un duo dell'Essex, i Prodigy. Si intitolava "Charly", campionava un filmato educativo della BBC distorcendolo e diventò una hit nella scena rave. XL Recordings aveva scoperto il suo primo fenomeno.

Lungo il corso degli anni Novanta e sull'onda del folgorante successo dell'ibridazione sintetico-organica proposta dai Prodigy, XL andò ad affermarsi come grande punto d'incontro tra il caos della scena rave, il brulicante sottobosco dell'underground elettronico britannico e l'ordine della tradizionale forma rock di cui il popolo della Regina è tanto innamorato. All'inizio del nuovo millennio il suo catalogo si era fatto internazionale e lasciava convivere l'indie rock di Badly Drawn Boy, il big beat dei Basement Jaxx, il gioco di campionamenti degli Avalanches, il lavoro curatoriale di figure storiche dell'underground come Goldie, il garage rock dei White Stripes.

Si trattava di un'approccio inclusivo che anticipava il disfacimento delle categorie avvenuto nella fruizione e nella conversazione musicale oggi arrivato a una fase piuttosto avanzata. XL lo ha mantenuto negli anni spingendo il pop mondialista di M.I.A. molto prima dei discorsi sul rapporto tra musica e diaspora, costruendo una piattaforma per Wiley e Dizzee Rascal così che potessero dare al grime la sua prima sbandata per il mainstream, lasciando esplorare a Thom Yorke dei Radiohead la sua passione per i suoni digitali e l'elettronica. Dall'indie rarefatto degli xx a quello tropicale e intellettualoide dei Vampire Weekend, dall'R&B sintetico di FKA twigs a quello plurilinguista delle Ibeyi, passando per l'enorme fenomeno pop che è stata Adele, XL Recordings si è affermata come una delle etichette indipendenti più importanti al mondo.

A un certo punto, però, Richard Russell si è trovato nelle mani un suo album. Dico "trovato" perché le canzoni che Russell ha pubblicato a nome Everything Is Recorded non sono state pensate come un corpus unico ma sono il prodotto di una serie di sessioni di registrazione e improvvisazione da lui organizzate negli ultimi anni. Il risultato esprime perfettamente la sovrapposizione di idee, stili e generi che ha dato un'identità a XL nel corso della sua storia: Immaginate come può suonare un progetto a cui hanno lavorato Damon Albarn e Sampha, Giggs e Kamasi Washington, Owen Pallett e Syd dei The Internet; e poi ascoltatelo davvero, perché esiste. Dopo lo streaming dell'album trovate l'intervista che abbiamo fatto con Richard qualche mese fa nella suite di un hotel di Milano, bevendo un tè caldo e lasciandoci entrare nelle narici un bel profumo d'incenso.

Noisey: Everything Is Recorded è un progetto che mi sembra unire molto bene le anime di XL. È a tratti elettronica pura, a tratti R&B, a tratti hip-hop: categorie che hanno subito un processo di sovrapposizione a cui la tua etichetta ha contribuito. Qual è, per te, il filo comune che tiene insieme queste tue canzoni?
Richard Russell: Quando ascolti musica sei tu, ascoltatore, a creare qualcosa che tiene tutto assieme. Ogni ascoltatore crea e cura un mondo musicale, e credo che ogni musicista cominci a diventarlo quando si scopre un ascoltatore, un fan. È l'esperienza più universale che esiste in contesto musicale, se escludiamo il mondo della classica, dove puoi anche essere solo uno studente a cui vengono insegnati concetti e pratiche. Faccio il produttore discografico a tempo pieno dal 2011, quando lavorai con Gil Scott-Heron ad I'm New Here. Prima però, quando lavoravo solo all'etichetta, mi veniva spesso chiesto perché sceglievo di lavorare con determinati artisti. Io rispondevo sempre, "Perché mi sono sentito loro fan". E posso provare a intellettualizzare il motivo di questo mio sentimento, ma credo che non ci riuscirei: sono fan di qualcuno perché sono fan di qualcuno. Si tratta di sentimenti, non c'è nulla di teorico. Tutte le mie scelte musicali si basano su sentimenti.

Ho letto una tua intervista al Guardian, pubblicata nel 2011, in cui spiegavi che una caratteristica fondamentale che un artista doveva avere per lavorare con te era avere una forte personalità. È stato così anche per Everything Is Recorded?
Everything Is Recorded non doveva essere un album, inizialmente. Era un happening, e mi piacerebbe chiudere il cerchio rendendolo tale: fare almeno un concerto con un piccolo pubblico libero di partecipare, senza sapere dove possiamo andare a parare. Quando però mi sono reso conto che stava diventando un progetto musicale, innanzitutto ho capito che ci avrei messo un sacco di tempo a esserne soddisfatto e ho accettato la cosa. Ma la cosa più importante che ho percepito era che le persone coinvolte non potevano solo suonare bene per quello che avevo in testa, dovevo volergli bene.

Mi incuriosiva, però, sapere come le vostre personalità si sono intersecate nell'atto del suonare. Perché mettere musicisti dalle idee molto forti nella stessa stanza significa anche creare una tensione positiva, chiedere a tutti di mettersi in gioco, forse anche di mostrarsi vulnerabili e malleabili.
Credo che la qualità che definisce maggiormente il processo dietro a Everything Is Recorded sia l'assenza dell'ego. Non funzionerebbe, se ci fosse. Abbiamo fatto musica solo ed esclusivamente per fare musica. E ho scelto di rischiare: tipo, quando ho conosciuto Obongjayar ho pensato subito che fosse una persona molto forte e sicura di sé. Lo aveva scoperto Theo, il ragazzo che si prende cura del mio studio, su SoundCloud. Quando ci siamo messi a lavorare a "She Said", il pezzo su cui canta sull'album, ho voluto coinvolgere anche Damon Albarn: due personalità del genere, messe assieme, avrebbero tirato fuori un capolavoro o un disastro. Ed è andata benissimo, si sono trovati molto bene. Mi piace lavorare con persone forti, perché non mi sembra difficile farle contente. C'entra anche lo zodiaco: io sono dei Pesci, e solitamente siamo persone gentili ma decise. Gil Scott-Heron, invece, era un ariete: aveva un carattere molto forte, ma anche una tendenza a preoccuparsi molto di quello che faceva. Insieme ci siamo trovati benissimo. Ci sono un po' rimasto quando ho scoperto che anche Damon è dei Pesci! E Bobby Womack!

E invece a livello di testi come hai fatto a gestire il processo creativo?
Di solito lavoro con vocalist che sono più scrittori che cantanti. Poi il tutto varia di canzone in canzone. Su "Close But Not Quite", per esempio, Sampha ha cominciato a scrivere dal sample di Curtis Mayfield su cui avevo costruito il brano. Mentre per "Everything Is Recorded" avevo già una frase: "Everything is recorded, nothing is distorted". Lascio scrivere i testi alle persone con cui lavoro, e poi mi metto con loro a editarli e a dargli una forma. Anche il miglior scrittore trae beneficio dal processo di editing.

In un'intervista che hai rilasciato a DAZED, citi una frase di Grace Jones: "Se vuoi copiarmi, fai qualcosa che nessuno ha mai fatto". Vivendo in Italia, sono abituato a sentire band che si limitano a riproporre un modello inglese o americano. Tu, essendo un madrelingua, come ti poni riguardo alla questione dell'originalità?
È strano, però! Perché c'è una zona grigia attorno al concetto di originalità. Nulla è completamente originale. Io sono il primo a riconoscere di avere determinate influenze, e non mi faccio problemi a parlarne e identificarle. Credo che sia un modo per procedere con onestà all'interno del processo creativo, partendo sempre dal presupposto che tutto è già stato fatto. È il modo in cui combiniamo ciò che è stato già fatto a creare qualcosa di nuovo. Copiare significa non aggiungere niente di nuovo, e quindi creare qualcosa che non ha senso di esistere. Mi vengono in mente tre pezzi che abbiamo pubblicato su XL che non vennero necessariamente capiti all'epoca: "Out of Space" dei Prodigy, "Paper Planes" di M.I.A. e "I Luv U" di Dizzee Rascal. E devo dire che me lo aspettavo. Viene prodotto un sacco di pop lineare, pensato per le radio e per essere letto facilmente e immediatamente: sono prodotti finiti, creativamente parlando. Per fare qualcosa di originale devi lasciare perplesse le persone. Sentirsi chiedere "Che cos'è questa roba?" è sempre un buon segno.

Con XL hai contributo all'affermazione del grime a livello nazionale con la pubblicazione di Boy in da Corner di Dizzee Rascal. Poi l'hai visto rimpicciolirsi tornando alle proprie origini, e infine esplodere a livello globale. Ora Giggs è su un album di Drake, ed è la cosa più normale del mondo. Come ti fa sentire la cosa?
Quello che sta succedendo ora è incredibile e mi ha reso molto felice. Ci abbiamo messo un sacco ad arrivare fino a questo punto. Io sono cresciuto ascoltando hip-hop in un'era in cui tutto quello che succedeva, sembrava succedere a New York - e non negli Stati Uniti. A New York. Sembrava quasi un fenomeno cittadino, agli inizi. Quindi è assurdo, ma splendido, che ora come ora a Londra venga prodotto rap più vivace ed eccitante che a New York. E sembra un miracolo, ma le cose si evolvono! Credo comunque che la più grande differenza stia nel fatto che il rap americano è riuscito a prosperare prima di internet, mentre invece quello inglese ne ha avuto bisogno. Essendo le comunità nere più segregate, là si era creata un'infrastruttura di etichette indipendenti dedicata esclusivamente alla musica black. Nel Regno Unito, invece, internet ha rimpiazzato qualsiasi infrastruttura pre-esistente.

Che cosa pensi del fatto che la musica non cantata in inglese stia diventando sempre più importante sia a livello culturale che commerciale?
C'è sempre stata molta musica incredibile non cantata in inglese in giro per il mondo, ovviamente. È che la parte del mondo che parla inglese non gli ha mai riservato tante attenzioni. Io non guardo alla musica da una prospettiva intellettuale ma capisco la domanda. Forse la gente è un po' stanca del dominio culturale americano.

Ma è anche una questione di identità, credo. La comunità latina, per esempio, ha trovato nell'affermazione del reggaeton un grande significato.
Assolutamente. Nel Regno Unito, per decenni, le persone hanno preferito ascoltare artisti americani rispetto ad artisti che suonavano come loro. Ora è tutto cambiato, ha senso identificarsi nella propria cultura: ma non è sempre stato così! Ma credo che si tratti solo dell'inevitabile morte dell'impero. Ogni impero finisce, e credo che sia arrivato il momento di quello americano.

Un'artista che ha anticipato di anni questa nuova concezione mondialista è M.I.A, e avendo tu lavorato con lei mi chiedevo se ai tempi avevi già un'idea di quello che la sua musica sarebbe andata a rappresentare.
Non posso dire che me lo sarei aspettato, ma ho creduto un sacco in lei. All'inizio è stato molto difficile convincere la gente ad ascoltarla, non c'era molto interesse attorno a quello che faceva. Per me fu una missione, far sì che la gente la capisse. Penso che ci fosse qualcosa che legava lei e Malcolm McLaren, di cui entrambi eravamo e siamo grandi fan. McLaren non era né un musicista né un produttore, ma aveva un grande spirito artistico alla Warhol che lo spingeva a prendere cose diverse e metterle assieme. E aveva un background artistico più che musicale, proprio come Maya.

Nel catalogo di XL ci sono i White Stripes, gli xx, King Krule, i Vampire Weekend: tutti artisti che usano la chitarra con scopi e modalità diversi. Tu come ti poni riguardo all'uso della chitarra in ciò che fai e ascolti?
Quelli che hai nominato sono tutti artisti che usano la chitarra come parte di una tavolozza di suoni, ed è questo che li rende interessanti. Un conto è usare la chitarra come strumento dominante, e per decenni nel pop è stato così. Non che ora non si possa più fare senza avere successo, guarda per esempio a quello che fa Frank Ocean. Ma ogni strumento, man mano che viene usato, diventa normale e quindi meno stimolante da usare. Al contempo, la musica funziona per cicli: ora si sente in giro un po' di sassofono, ma c'è stato un periodo in cui era inconcepibile utilizzarlo dopo il boom degli anni Ottanta. Oggi la chitarra è solo una delle opzioni possibili, ed è così perché una cultura un tempo marginalizzata come l'hip-hop è diventata dominante.

Ho letto di come tra te e i Prodigy si creò un'intesa basata sull'intransigenza. Loro si rifiutavano categoricamente di apparire in TV e non solo a te la cosa andava bene, ma ti convinse che fare le cose a modo tuo era la scelta migliore.
Ci sono un sacco di cose a cui è meglio dire "no", e credo che un artista guadagni potere ogni volta che si rifiuta di fare qualcosa che non sente adatto a sé e al suo gruppo. In particolare quando ci sono soldi di mezzo. Guadagni fiducia nei tuoi mezzi, e quindi hai più possibilità di creare qualcosa che duri a lungo. Investire nel lungo termine sulla propria integrità artistica spesso implica sacrifici nel breve termine a livello economico.

È una cosa che vedo in Sampha: ci sono voluti un po' di anni prima che esplodesse con Process, ma tu e XL non l'avete mai abbandonato.
Lui era un nostro stagista a XL! Credo che la pazienza sia fondamentale, e che molto dipende dal modo in cui sei strutturato. Per esempio, Everything Is Recorded non sarebbe potuto esistere se non avessi avuto lo studio in cui lo abbiamo registrato, e quindi il tempo e lo spazio per poterci lavorare pazientemente e scoprire che cosa fosse veramente. Non mi sono reso conto di stare facendo un album finché non mi sono messo a farlo, non so se mi spiego.

Quindi non hai avuto, da ascoltatore, degli album collaborativi che hai preso a modello per ciò che stavi facendo?
L'unico che posso citarti è Language Barrier di Sly and Robbie, due turnisti giamaicani che fecero un album a loro nome e ci fecero suonare sopra un sacco di musicisti, gente del calibro di Bob Dylan ed Herbie Hancock. Lo presentarono in un modo molto interessante. Avevano costruito un album partendo dalle fondamenta di cui erano esperti, nel loro caso la sezione ritmica. Mi piaceva un sacco "Boops", un loro singolo.

Sono passati ormai otto anni dalla pubblicazione di I'm New Here di Gil Scott-Heron. Che cosa è diventato, in questo tempo, quell'album per te?
E per te?

Mi sembra uno di quegli album in cui un artista alla fine della sua carriera è riuscito a riaffermarsi e ristabilirsi come figura iconica per una generazione diversa dalla sua. E mi sembra che il tuo ruolo sia stato fondamentale a farlo, come dire, uscire dalla sua zona di comfort.
Sì! È una buona interpretazione. Non so se Gil fosse tanto fuori dalla sua zona di comfort quanto lo ero io! Avevo un sacco di paure, mentre lavoravamo a quell'album. Volevo davvero, davvero non fare stronzate. Non mi tormentava il fatto che non facesse musica da tempo, ma quello che non avesse mai pubblicato un brutto album. E non è normale! La maggior parte della gente continua a scrivere dischi anche se non è sicuro che verranno bene, mentre lui semplicemente si fermava. Continuare a fare musica può farti bene, e lo capisco, ma c'è anche da considerare quello che stai facendo al tuo catalogo. L'esempio definitivo è David Bowie: le sue cose dal 1970 al 1983 erano qualcosa di diverso rispetto a quelle che sono venute dopo, e ci sono stati dei bei passi falsi prima che il cerchio si chiudesse con The Next Day e Blackstar. Questo a Gil non era mai successo, ha sempre scritto dischi in brevi impeti creativi. Dopo essersi fermato nel 1982 ne fece solo uno negli anni Novanta, Spirits, un disco fantastico. E quindi, da suo fan, volevo che qualsiasi cosa uscisse fosse piuttosto bella! E credo che su quell'album si possa sentire il mio sconforto, il mio terrore, e che questo abbia contribuito a rendere quell'album quello che è. Gil era sempre nervoso quando scriveva, e il fatto che lo fossi anch'io ci ha messi sullo stesso livello in un certo senso. Poi ho passato anni a editare quell'album fino a farlo durare i 29 minuti che dura. Sarebbe potuto essere più lungo, e molti rimasero stupiti che fosse così corto quando uscì. Ma volevo che fosse intenso. E ha cambiato tutto per me. C'è la mia vita prima e dopo quell'album, e sono incredibilmente grato a Gil per aver collaborato con me. Credo che sia stato utile per la sua eredità: pensavo che tutti lo conoscessero, ma quando uscì rimasi scioccato da quante persone in realtà lo stavano scoprendo solo in quel momento. Per me era come Bob Dylan! Ma a parte un piccolissimo gruppo di musicisti che tutti conoscono, la storia della musica è piena di figure incredibili sconosciute ai più. Volendo, puoi continuare a scoprire cose per sempre.

Elia è su Instagram: @lvslei

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Il re del metal indiano è uno chef che si chiama "Demonstealer"

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Sahil Makhija è un metallaro con tutti i crismi. Sono vent'anni che si fa chiamare "Demonstealer" ed è la principale forza creativa dei Demonic Resurrection, la black/death metal band più storica di Mumbai. Li fondò nel 2000, quando era ancora solo un ragazzino dal viso pulito in cerca di altri ragazzini come lui per suonare dal vivo le sue canzoni. Diciotto anni e cinque album dopo, Sahil è diventato un imponente statista del metal indiano.

"Tutto quello che ho fatto negli ultimi diciott'anni l'ho fatto per promuovere i Demonic Resurrection", mi racconta Sahil al telefono. "Quando ho fondato la band ho immediatamente capito che l'unico scopo che avevo nella vita era suonare e fare musica per sempre". E pensare che è diventato metallaro era perché i suoi amici lo prendevano per il culo per la musica che ascoltava e gli fecero ascoltare i Metallica e gli Iron Maiden.

"Mi dicevano tipo, 'Che cos'è 'sta merda che ascolti? Prova questa roba'", ricorda. "E successe qualcosa dentro di me. Naturalmente, quando ero adolescente, si trattava di uno sfogo per la mia frustrazione; è un posto sicuro, quella piccola cosa che appartiene solo a te. Era lo stile di vita ad attirarmi, tutti vestiti di nero... il black metal parlava direttamente al mio ateo interiore. Odiavo la religione (ho visto persone che hanno subito un lavaggio del cervello) e il black metal esprimeva questo odio. Da qui partiva il mio interesse, la mia connessione con la musica".

L'urticante aggressività della loro musica lavora in congiunzione con un forte nucleo melodico. Nella loro ultima uscita, hanno aggiunto sitar, tabla e flauto al loro suono, ampliando lo spettro sonoro. Inoltre, Makhija ha sempre apprezzato l'elemento di narrazione fantastica contenuto nel metal, e ha una trilogia di album con il tema ricorrente dell'oscurità che avviluppa la terra narrato dal punto di vista di un protagonista riluttante.

Un'altra cosa ricorrente nella vita dei Demonic Resurrection è il turnover tra i membri della band, con Makhija che rimane l'unica costante; la line-up attuale vede Virendra Kaith alla batteria e Nishith Hegde alle chitarre. La band è stata, in un certo senso, un trampolino di lancio per i suoi musicisti; gli ex-componenti sono finiti a suonare con, tra gli altri, Exhumation, Solar Deity, Scribe, e Minerva Conduct. Fare le prove con una persona nuova e ricreare l'intesa richiede tempo, interrompendo il lavoro della band, ma Makhija ha imparato a gestirlo.

I Demonic Resurrection sono nati in un momento, nel 2000, in cui il metal estremo esisteva soltanto ai margini. Si sono uniti a band come Kryptos, Third Sovereign, Acrid Semblance, Myndsnare e Threinody, suonando raramente a festival universitari o al Razzberry Rhinoceros (universalmente conosciuto con il nomignolo ‘Razz’), l'unico pub per concerti degno di nota a Mumbai. I loro primi concerti, fondamentalmente DIY, erano perlopiù accolti con indifferenza; la maggior parte delle critiche arrivavano online. Ogni tanto invece qualcuno esprimeva la propria contrarietà, e lui ricorda in particolare un concerto a Independence Rock, una battaglia tra band all'aperto conosciuta per il suo pubblico difficile: "Ricordo che ci fischiarono e ci lanciarono roba. Era difficile conquistare un pubblico così violento, e non ci siamo mai riusciti per diversi anni".

Si lanciava in battaglia sui forum di musica indipendente online, mentre allo stesso tempo promuoveva la sua band il più possibile. "Ora sono in grado di vedere un commento negativo e passare oltre, ma a quei tempi rispondevo per le rime a chiunque cercasse di dissarsi", spiega. "Ovviamente dipende da chi l'ha scritto – se si trattava di un poseur che ascoltava soltanto i Metallica o qualche idiota che non ne sa niente. Ma non siamo mai stati un gruppo così brutto. Ogni tanto qualcuno diceva 'vaffanculo, fate schifo'". In realtà, grazie agli sforzi di Makhija, hanno accumulato fan in tutto il mondo.

Oggi è cambiato un bel po'. I Demonic Resurrection sono una vera grande band nell'underground indiano oggi, e Makhija è visto come una specie di eroe del metal locale. Si trova costantemente circondato da giovani fan che lo adorano, o che lo ammirano per il suo contributo al metal Indiano. La band ha fatto brevi tour in Europa e ha fatto parte del circuito dei festival, dal Wacken al Sonisphere negli scorsi anni, e suonerà all'Eradication 2018 di Londra con band come Abbath, Master's Hammer e Rotting Christ. In questo momento stanno conducendo un crowdfunding per finanziare il prossimo tour di otto città in India, per contrastare la mancanza di tour metal nel Paese.

Ormai, la pura determinazione e ostinazione dei Demonic Resurrection hanno guadagnato loro una considerevole influenza e rispetto, per quanto ciò non si sia sempre tradotto in successo. "I Demonic Resurrection sono una band che tutti amano rispettare", mi dice. "Siamo quella band di cui tutti dicono 'Ehi, ti rispetto. Però la musica non mi piace'. Va visto da un punto di vista positivo, che la gente ci rispetta e pensa che siamo bravi. Ma come musicista vorresti semplicemente che la gente ascoltasse la tua musica. Vedi i tuoi pari suonare agli stessi festival, negli stessi spazi, e il pubblico sembra dieci volte più coinvolto. Durante il tuo concerto, scompaiono tutti. Poi ti dicono che ti rispettano".

A volte, non succede neanche quello. Sono stati spesso contestati, in particolare a Mumbai, una città che, secondo Makhija, è più interessata in uno stile di metal più moderno. Ricorda che una volta i fan di un'altra band si sono presentati mentre i Demonic Resurrection erano sul palco: "Hanno cercato di scatenare una rissa, ballavano mentre suonavamo, ci facevano il dito medio". Un'altra volta, il presentatore di Banger TV Sam Dunn contattò Makhija per filmare la sua band e il resto della scena indiana per il suo documentario del 2007 Global Metal. Makhija organizzò un concerto apposta per filmarlo, mettendo i Demonic Resurrection insieme ad altre band che gli sembravano rappresentative della scena metal indiana. Fu una mossa controversa; alcune band che pensavano di meritarsi più di altre di stare su quel palco si presentarono al concerto a protestare contro la presenza dei Demonic Resurrection.

Nonostante i drammi interni alla scena, Makhija è consapevole che la band ha aiutato ad aprire molte porte per i fan e serve come punto d'ingresso per la scena metal qui. "Tutti scoprono il metal indiano tramite i Demonic Resurrection", dice. "Vengono e ci vedono suonare. Poi si rendono conto che preferiscono, per esempio, i Bhayanak Maut o gli Scribe o gli Undying Inc. Fa parte dell'essere la band iniziatoria".

Ha anche dovuto lottare contro il fatto che molte persone trattano il metal come una passione soltanto giovanile. "Penso che sia in gran parte un genere musicale che si trova a funzionare da sfogo per le persone", dice. "È quella cosa a cui ci si attacca mentre si è all'università o a quell'età; poi si cresce e ci si allontana". Sa che il metal esisterà per sempre nella sua nicchia in India, ma crede che molti dei problemi che affliggono la scena hanno a che fare con il fatto che si tratta di un pubblico giovane, che non ha il potere d'acquisto necessario per supportare, né tantomeno per patrocinare la scena. Secondo la sua opinione, "ti serve un pubblico più vecchio con soldi da spendere per sostenere una cosa".

Ha dovuto affrontare rallentamenti e ostacoli, sopravvivere in una scena spopolata, che ha dovuto costruire e ricostruire varie volte, ma Makhija sembra piacevolmente libero dal cinismo. E in qualche modo ha anche trovato il tempo per vari altri progetti musicali. I Demonic Resurrection sono iniziati come una dittatura, con Makhija che componeva ogni elemento di ogni canzone, prima di evolversi in un set up più democratico; dopo di questo ha deciso di prendere le idee avanzate e farci un progetto solista. Al momento è in fase di pre-order il suo terzo album solista come Demonstealer, intitolato The Last Reptilian Warrior. La sua uscita precedente, This Burden Is Mine, risale al 2016 e vedeva George Kollias dei Nile alla batteria.

Makhija ha anche guidato varie band ora sciolte come i Reptilian Death, una band brutal death metal con una presenza scenica molto teatrale (ma anche, brevemente, la band comedy metal Workshop); ha anche fondato la Demonstealer Records vari anni fa ma è poi stato costretto a chiuderla. Al momento si tiene occupato con Headbanger’s Kitchen, un programma di cucina su YouTube incentrato su ricette Keto a basso contenuto di carboidrati. Demonstealer, il ringhiante frontman dei Demonic Resurrection, è anche un bravo chef che ha sempre amato il cibo, e ricorda con affetto di quando cucinava per i suoi genitori e i suoi amici da bambino. Fedele alla sua linea, anche Headbanger's Kitchen è iniziato come mezzo per spingere la sua band verso un pubblico più ampio. "Ho pensato che se avessi avuto un tema heavy metal, la gente che segue altre band l'avrebbe guardato", spiega. "Poi vedranno me e magari ascolteranno anche i Demonic Resurrection!"

In definitiva questa è l'unica cosa importante per lui. Dietro a tutto quello che fa e che è riuscito a ottenere a dispetto di una scena che non perdona, Makhija è semplicemente un tipo determinato anche se un po' goffo, che ama quello che fa e vuole condividerlo con il mondo. Tutto il resto serve soltanto a quello. La musica è ciò che lo spinge, che lo ha reso quello che è, e tutto quello che vuole fare è scrivere di più , suonare e, soprattutto, essere ascoltato.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey USA.

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