Era una giornata come un'altra, nella redazione di Noisey, quando abbiamo sentito uscire dalle casse di uno dei nostri computer una voce inconfondibile. Era quella di Fabrizio De André, icona del cantautorato italiano e simbolo eterno di anticonformismo e rivalsa. Sul momento, abbiamo pensato che qualcuno si fosse messo a vedere il nuovo film della RAI su Faber, attratto dal suo trailer molto simile a quello del film sull'EDM di Zac Efron. E invece, dal nulla, ci siamo messi davvero ad ascoltare le parole che stava cantando. E non siamo ancora riusciti a concepire la bellezza di quello che abbiamo scoperto.
Come potete vedere dal video qua sopra, che si intitola "Fabri commuove i giudici con una cover di Ebbasta", Fabrizio De André è palesemente ancora vivo e fa le cover rap con l'acustica. La sua rendizione di "Rockstar" è così perfetta e ben arrangiata che fa lacrimare i giudici di X Factor, incapaci di comprendere la bellezza di quello che gli sta entrando nelle orecchie. Ma non è tutto, perché l'eroe che ha creato tutto questo ha rifatto anche "Habibi" di Ghali:
E "Cono Gelato" della Dark Polo Gang:
E "Tran Tran", sempre di Sfera:
Fate come noi e buttate nel cestino le vostre copie di Crêuza de mä e Anime salve. Poi scaricate questi quattro pezzi in loop e ascoltateli finché il vino non si farà lean, i solchi lungo il viso diventeranno tatuaggi in faccia e in via del campo non ci saran più le graziose ma le bitches.
La gioventù è come un abbraccio con uno sconosciuto: più ti ci stringi, più è strano e imbarazzante. Quando ti rendi conto che i tuoi giorni di gloria se ne stanno andando, ahimé, la cosa migliore da fare è accettarlo e salutarli con un bel cinque alto. Ai nostri tempi™, noi ragazzi dei Novanta ascoltavamo un sacco Marilyn Manson. Canzoni come "The Dope Show" e "The Beautiful People" accendevano le parti asociali dei nostri cervelli adolescenti, ed era come se il nostro sdegno nei confronti dell'ordine costituito avesse finalmente una colonna sonora. Manson, demone pallido, compariva sugli schermi delle nostre televisioni e spaventava i nostri genitori strappando bibbie e agitando dildi. La maggior parte della gente lo odiava, sospinta dagli attacchi del mainstream conservatore, mentre noi adoravamo il suo spirito ribelle.
Man mano che invecchio, però, ho cominciato a chiedermi se il messaggio di Manson fosse ancora adatto alle mie orecchie e al mondo in cui vivo. Il Reverendo è ancora l'Anticristo che era negli anni Novanta o è solo una rockstar finita che si ostina a fare il pazzo risultando, in realtà, solo problematico? Recentemente, Manson è stato accusato di molestie sessuali e razzismo: potrebbe essere un punto di svolta nel modo in cui lo percepiamo. Brian Hugh Warner era capace di stupirci e farci pensare, come quella volta nel 1995 in cui spiegò benissimo perché i ragazzi trovano un significato nell'atto del pogo. Ma oggi più che esaltarmi a prendere gomitate da gente sudata trovo gioia nel fare punti al supermercato e nell'essere un membro funzionante della società. Quando, nel 1997, Manson parlò in televisione del "fascismo del cristianesimo" e di "bellezza" lo trovai davvero profondo; oggi probabilmente cambierei canale e mi metterei a guardare un reality di cucina.
Per capire se la mia generazione può ancora ascoltare Marilyn Manson ho deciso di compilare una lista dei suoi testi migliori. Usando i metodi più all'avanguardia offertimi dalle scienze musicali, ho poi provato a paragonare l'effetto che facevano un tempo con quello che fanno oggi. Nel 1994, durante un'intervista, Manson dichiarò che fumava polvere di ossa umane. La domanda è: quanto ci manca per diventare anche noi materiale da pipa per il nostro Dio dello shock rock? Leggi anche tu la lista qua sotto e scopri assieme a me se anche tu, come me, sei troppo noioso per ascoltare Marilyn Manson.
“The Dope Show”
“Ci sono un sacco di persone carine, carine Che vogliono farti drogare Ma tutte le persone carine, carine Ti butteranno giù, ti faranno scoppiare la testa Ormai siamo tutte stelle nello show della droga"
Nel 1998 Manson ebbe dei problemi di distribuzione: le più grandi catene americane si rifiutarono di vendere il suo album Mechanical Animals perché in copertina c'era lui con un body mezzo androgino con tanto di seni finti. Bomba! Questo casino, assieme al testo di "The Dope Show", fu un fantastico meta-commento: la canzone parlava di quanto fosse falso il mondo delle celebrità, così desiderose di attenzioni da diventarne dipendenti. Per molti di noi sfigati, le "persone carine" che volevano "farci drogare" erano i fighi del liceo, ed eravamo molto felici di sfogare la nostra frustrazione ascoltando Marilyn.
Le più grandi stelle dello "show della droga", oggi, sono sui social media. E il testo non è invecchiato male, se lo consideriamo sotto questa luce. Niente ti "butterà giù e farà scoppiare la testa" come i fighi del tuo liceo che ti riaggiungono su Facebook dopo averti trovato nel mezzo di una serie di commenti polemici.
Quanto mi fa sentire vecchio: Ai miei tempi litigavamo aggiornando il nostro stato su MSN. Direi 45 anni.
“The Beautiful People”
Questa roba è al livello di Shakespeare:
"I vermi vivranno in ogni ospite, È difficile capire chi mangiano di più. L'orribile gente, l'orribile gente, È tanto anatomica quanto la dimensione della tua cappella. È merito del capitalismo se siamo finiti qua, Il caro vecchio fascismo ce lo porterà via."
Capito? Perché la bellezza è una materia prima che viene prodotta facendo sentire una merda le persone da una gerarchia capitalista. Credo. Quando avevo 14 anni pensavo a roba del genere. In realtà ho sempre sperato di poter diventare il Brad Pitt del mio quartiere e di sputare in testa a tutti i maschi che incontravo. Sto ancora aspettando che succeda.
Ad ogni modo, almeno sono abbastanza adulto da riconoscere il significato dell'"anatomico quanto la dimensione della mia cappella", i miei futili bisogni e giudizi. Per esempio, mi rendo conto che posso odiare quanto voglio il capitalismo e gli standard di bellezza, ma questo non implica che non mi metta ad aspettare i like quando metto una mia foto su Instagram accanto a quella di un caffè biologico sovrapprezzato. Cazzo, "il caro vecchio fascismo" potrebbe essere quello delle grandi società come Google e Facebook. Manson forse aveva ragione.
Quanto mi fa sentire vecchio: Ho cancellato Instagram. 56 anni.
“This is the New Shit”
"Babble babble bitch bitch Rebel rebel party party Sex sex sex e non scordare la violenza Blah blah blah ho il tuo piccioncino-triste-e-solo Mettici il tuo STUPIDO SLOGAN: Cantiamo tutti assieme."
Ecco che cosa pensavo di questa canzone quando ero giovane e stupido: "Sono molto arrabbiato, e farò esattamente quello che questa canzone mi dice". Sapete, non riuscivo a guardare oltre la mia furia adolescenziale. Non esisteva il concetto di "woke". L'unica fonte da cui mi informavo erano le mie stesse illusioni puberali. Mi sembrava di avere fatto qualcosa di profondo quando cercavo di mandare in sincrono album dei Tool ed episodi di Hey, Arnold!
In fondo, “This is the New Shit” è probabilmente un brano che fa ironia sul modo in cui funzionano i trend musicali. "Cantiamo tutti assieme", sfotte Manson. "Rebel rebel party party" potrebbe anche essere il titolo del nuovo album di Lil Uzi Vert. E non sarebbe neanche troppo assurdo come concetto, dato che Uzi ama Manson a tal punto che ha speso 220.000 dollari per una catena con la sua faccia. Le idee di Manson, ad ogni modo, sono applicabili a qualsiasi genere e non solo all'hip-hop. La storia si ripete, e gli artisti continueranno sempre a raccontare in musica le nostre disgustose abitudini.
Quanto mi fa sentire vecchio: Sono troppi soldi per una catena. 72.
“The Nobodies”
"L'altro giorno sono morti dei bambini Abbiamo dato da mangiare alle macchine e poi abbiamo pregato"
Tecnicamente, avevo undici anni quando questa canzone uscì. Era il 2000 ed era passato un anno dal massacro di Columbine. Manson scriveva testi come questo e non si faceva problemi a parlarne ampiamente, come nel documentario Bowling for Columbine. Parlò di quanto fosse assurdo credere che fosse la musica a istigare ragazzi a commettere simili tragedie. Chiese di prestare più attenzione alle vittime, e di ascoltare maggiormente i ragazzi per scoprire le vere cause di quel massacro, invece di fare inutili preghiere. Tutti ragionamenti più che sensati per l'epoca.
Sfortunatamente, sono sensati anche per i nostri tempi. "L'altro giorno sono morti dei bambini Abbiamo dato da mangiare alle macchine e poi abbiamo pregato". Leggere parole come queste nei giorni successivi alla sparatoria della scuola di Parkland, in Florida, ti fa rendere conto di quanto siano ancora forti. I titoli sono ancora gli stessi—politici e figure mediatiche danno la colpa alla cultura pop e pregano per le vittime—e noi siamo ancora più esausti e arrabbiati. Artisti come Manson dicono verità, e la verità non ha età.
Quanto mi fa sentire vecchio: Sono esausto.
“mOBSCENE”
"Bang, lo vogliamo, Bang, lo vogliamo, Bang bang bang bang bang"
Ecco quello che sentivo in testa quando ero giovane e ascoltavo “mOBSCENE”: “Il sesso è una figata. Probabilmente lo farò sempre, no?" Ecco, questa canzone non parla minimamente di sesso.
Innanzitutto, ora ho capito che i pisolini sono molto meglio del sesso, ed effettivamente li faccio sempre. Inoltre, questa canzone è un commento sfacciato al modo in cui gli uomini rendono le donne oggetti da guardare rifiutandosi di ascoltarle. "Sii oscena, baby, e non farti ascoltare", dice Manson nel ritornello, trollando i fanatici e i sessisti. In fondo ha passato tutta una carriera a prendersi gioco degli standard di bellezza, del genere e del sesso tout court, rendendolo uno spettacolo esilarante. Questi pezzo è ancora ok, e anche tu che leggi sei ancora ok.
Totale degli anni che mi sento dopo aver ascoltare Marilyn Manson: Troppi. Sono praticamente un albero morente che sta per venire deforestato.
Petit Singe è una nostra vecchia conoscenza. Avevamo parlato con lei, assieme ad altre tre ragazze, in quanto brillante esponente dell'elettronica sperimentale italiana. Poi ci eravamo presi bene per il suo EP Akash Ganga, e poi l'avevamo re-intervistataper capire che cosa potesse essere, per lei, il pop.
Ora siamo molto felici di farvi ascoltare un suo nuovo mix, tre anni dopo il primo che ci aveva regalato. L'occasione è l'annuncio di un suo nuovo tour Europeo che la porterà ad Amsterdam a marzo, a Zurigo e Berlino in aprile, a Londra a maggio e a Milano a giugno. I giorni e le venue verranno definite meglio nelle prossime settimane, seguitela su Facebook per avere tutte le info del caso. Ma una certezza c'è: una data allo Spazio Materia di Prato questo sabato 24 febbraio assieme a Bill Kouligas, visionario dell'elettronica contemporanea e boss di PAN Records. Qua l'evento su Facebook.
Per il suo Mix, Hazina ha unito colonne sonore di videogiochi, dance obliqua, gqom e rilavorazioni trap. Qua sotto trovate mix e tracklist. Buon ascolto, e ci vediamo in giro per l'Europa con lei.
Tracklist:
1. World of Warcraft - OST 2. Bonaventure - Complexion (Y1640 Remix) 3. M.E.S.H. - Search Reveal 4. Toxe - Offence 5. ??????? - ??????? 6. Machine Women - digital delay 7. Nan Kolè - Bayefal 8. Nidia Minaj - Limite 9. Ssaliva X SKY H1 Feat Migos - Bosses Dont Speak 10. L-Vis 1990 - Yeah Yeah ft Flohio Cassive 11. Only Now - Dirt 12. KABLAM - Flabbergasted Stainful (ft ZULI) نوم الغرباء
Ora che sono al sicuro in ufficio, con nelle cuffie un sano LP di ingarbugliato noise-psychojazz contemporaneo, la mia mente è affollata dai ricordi di sabato notte, evocati da un certo dolorino alla schiena e da una propensione allo sbadiglio anche se ieri verso le 11 mi sono addormentato sbavando sul divano e mi sono risvegliato stamattina alle 8 nel letto.
La notte di sabato, infatti, l’ho passata quasi tutta in piedi e senza dormire, perché avevo una missione chiamata United Hardcore Forces, la più grande festa gabber indoor d’Italia, organizzata da Sonic Solution Entertainment. [pausa ad effetto] Io non sono un gabber. Quasi si può dire che non mi piaccia la musica elettronica in generale, anche se naturalmente nel 2018 è una frase senza senso, ma per dire che sono uno che alle tute e i sequencer che fanno pom pom pom preferisce di gran lunga i giubbotti di pelle e le corde metalliche che fanno plonk o sdeng, come saprete se avete mai letto alcuni dei miei eccellenti lavori per questo sito come Il programma elettorale di Berlusconi è “sufficientemente rock” e Charles Manson ha fatto almeno una cosa buona: il suo primo album.
Ma non ho più 15 anni. Quando avevo 15 anni la parola “gabber” era un anatema per me. Erano i primi anni Zero in una piccola provincia lombarda e la sagoma minacciosa del Number One si stagliava all’orizzonte come un’oscura cattedrale nel deserto della Pianura Padana. Il piazzale della stazione dei pullman dopo la scuola era diviso in due colori come un campo a maggese: da un lato il popolo hardcore, Nike Air Max, bomber Rotterdam Terror Corps, cappellino Traxtorm caratteristicamente appoggiato sulla testa con la visiera ad angolo quasi retto; dall’altro il popolo alterna-compagno, Converse All Star, jeans strappati, felpa dei NOFX o qualcosa del genere, giaccone verde militare preso in Montagnola a Bologna. Ora, non è che io sia mai stato il tipo da divisa, ma di sicuro sapevo che cosa non ero: un bullo, un fascista, un violento, uno scimmione il cui cervello si può stimolare soltanto con un beat talmente ripetitivo e basilare che si potrebbe riprodurre con accuratezza prendendo a martellate un muro di gomma o qualcosa del genere. Inutile specificare che queste caratteristiche, a me e agli altri della mia fazione, sembravano applicarsi tutte al gabber.
Uso “il gabber” singolare perché, per definizione della parola “stereotipo”, quando una persona vuole esprimere un giudizio il più velocemente possibile su un ampio gruppo di persone che non conosce, prende le sue caratteristiche più estreme, che si notano dalla prima occhiata, e le usa per identificare ogni componente di questo gruppo, facendogli effettivamente perdere le caratteristiche di pluralità e collettività. Insomma, il preambolo serve a dire: sono stato alla serata gabber più grande d’Italia e l’unico rapporto che avevo avuto prima di questo momento con i gabber è stato di diffidenza, senso di superiorità, ostilità.
Dopo aver accettato la missione di fare da gonzo reporter per Noisey a questo United Hardcore Forces e dopo aver convinto la mia amica Agnese ad accompagnarmi, ho cominciato a salutare tutti i miei vecchi amici come se stessi partendo per il fronte. Come faccio a presentarmi là col mio giubbotto punk e lo sguardo di chi ha subito vari furti di merendine? Per uno come me, andare alla discoteca Florida di Ghedi il sabato sera, con una line up che va dai veterani del genere Stunned Guys e The Darkraver alle nuove star Destructive Tendencies e Digital Punk, assomiglia più a un metodo per farmi confessare un crimine che a un sabato notte di festa.
È con una certa rassegnazione e un paio di tappi per le orecchie che ci avviamo all’ingresso sul retro del Florida attorno a mezzanotte e mezza, quando la coda alla porta principale è consistente ma non infinita come mi aspettavo: infatti la gente è già tutta dentro. La serata è iniziata alle 22 e i gabber ci tengono a esserci dal primo all’ultimo colpo di cassa.
Immediatamente cerchiamo di capire come funziona questa discoteca, che è già in sé un ambiente nuovo per me. Pensavo si fossero tutte arenate fra le sabbie del tempo. Ma a Ghedi il mito del Florida continua, e a ragione: il locale è fantastico. Quattro sale, di cui una su una specie di soppalco dotato di gigantesche vetrate dalle quali si può ammirare tutta la sala principale ma perfettamente isolata dal punto di vista audio. Questo significa che vari sottogeneri dell’hardcore, che io naturalmente non sapevo nemmeno esistessero, sono rappresentati: old school, mainstyle, frenchcore & uptempo e raw hardstyle. Il posto è essenziale: luci basse dalla tonalità tendente al viola, divanetti dall’aria vissuta, strobo e, per la sala principale, un megaschermo con proiezioni personalizzate per ogni artista.
Art of Fighters sul main stage (foto Hardcore Italia).
Incominciamo il giro delle sale, riuscendo a vedere un po’ dei set. La old school di Stunned Guys era quella da cui volevo iniziare, un po’ per procedere in una specie di ordine cronologico, un po’ perché la hit “Io Sono Vivo” era una delle due canzoni hardcore che mi ricordavo dalla mia giovinezza. Ma dopo pochi minuti ci prende la curiosità e ci spostiamo verso la sala frenchcore dove incontriamo The Sickest Squad vs. Sefa, e cominciamo a farci un’idea dei sottogeneri. La loro frenchcore mena fortissimo, ora ci rendiamo conto di cosa significa sfondare il muro dei 200 bpm. Arriviamo al piano di sopra, da Digital Punk che ci stupisce con quella che, in mancanza di una vera conoscenza del genere, possiamo soltanto definire come una tamarrata da autoscontro insopportabile. Preferivamo decisamente l'uptempo di F. Noize o la mainstyle carichissima dei Destructive Tendencies.
Foto Hardcore Italia.
Tanto per cominciare sono un po’ stranito dalla struttura musicale: non sono abituato al meccanismo del drop, che nell’hardcore è fondamentale. Mi aspettavo una specie di ricerca della trance tramite il beat, come succede ai free party con generi come (appunto) trance, goa o tekno, ovvero spingiamo più forte possibile più a lungo possibile di modo che il pubblico perda completamente la coscienza di sé martellato dalle basse. Quello dell’hardcore invece è un pattern molto diverso, più vicino all’EDM: tensione-rilascio, tensione-rilascio, con calcolatissima precisione. Un beat non va mai avanti più di un paio di minuti, per lasciare spazio a sample o intermezzi melodici (che, come mi dice un ragazzo di 19 anni totalmente ubriaco ma molto entusiasta e grande fan di VICE, “mi emozionano fino a farmi venire i brividi”), e crescendo di precisione matematica prima dei drop.
Foto Hardcore Italia.
Mentre cerco di gestire gli sbalzi di endorfine dati da tutto questo tira-e-molla, mi metto alla ricerca del gabber che soddisfi la mia visione stereotipica, quello minaccioso, incazzato, con l’aria da psicopatico. Non lo trovo. Non lo troverò per tutta la notte. Trovo invece una ragazza ligure di 22 anni che mi dice che viene a queste feste perché si è stufata delle discoteche commerciali dove tutti gli uomini sono viscidi marpioni, mentre i gabber la lasciano ballare in santa pace. Anche a voi cominciano a stare molto più simpatici questi pelatoni con la tuta?
Noize Suppressor (foto Hardcore Italia).
Sia chiaro, la gente è carica: i ragazzi sono a torso nudo, le ragazze indossano top da ginnastica, le tipiche mosse della hakken s’interrompono solo per ovazioni da stadio tributate ai DJ, che fuori da qui sono probabilmente gente normalissima, ma dentro sono semidei della cassa dritta. Infatti mentre sono nel backstage a chiacchierare con Simone Paradiso del duo The Melodyst veniamo in continuazione interrotti dai gabber che reclamano una foto con il loro idolo.
Foto Hardcore Italia.
Simone ci spiega che quella gabber è veramente una delle ultime sottoculture rimaste. Le feste gabber sono tuttora l’unico posto in cui si può suonare hardcore, perlomeno al di fuori di posti come Olanda e Belgio dove è il pane quotidiano. C’è una certa soddisfazione e un certo orgoglio in questa specie di isolamento: i gabber sono (o forse dovrei dire erano) odiati dai normie per la loro estetica aggressiva, odiati dai raver per le loro tendenze più “ordinate” (poi vi spiego che cosa intendo), snobbati dal mondo dei club per la loro tamarraggine, e non c’è niente che unisca di più dell’essere messi da parte. Non esiste il “clubbing” per chi ama l’hardcore, esistono solo lunghi viaggi, spesso all’estero, per raggiungere veri e propri raduni come quelli di sabato sera, e farlo a tutti i costi.
Wicked Minds (foto Hardcore Italia).
A proposito, i costi. Quando prima parlavo di tendenze “ordinate” intendevo che, rispetto ad altre scene musicali, quella hardcore è molto rigida: le organizzazioni che gestiscono uscite discografiche ed eventi live sono pochissime, e manovrano la scena con capillarità, dalla tenda hardcore del Tomorrowland (il Thunderdome) alle magliette che tutti, e dico tutti, i partecipanti ai raduni gabber indossano. È una strana situazione che crea un po’ di immobilismo, per quanto il genere abbia avuto le sue evoluzioni e il pubblico continui a rinnovarsi (vedo una bambina che avrà al massimo 13 anni, super entusiasta, accompagnata dai genitori altrettanto gabber). Lo stesso Simone, durante la nostra conversazione, fa spesso riferimento al suo “capo”, che intuisco essere il manager e discografico dei The Melodyst, il fondatore di Traxtorm, Sonic Solution, Hardcore Italia e degli Stunned Guys Maxx Monopoli, vero “padrino” della scena hardcore italiana. Da dove vengo io, suona strano che un musicista abbia un “capo”.
The Melodyst vs. Andy The Core (foto Hardcore Italia).
Guardando e parlando con i ragazzi e le ragazze del pubblico, non riesco a smettere a pensare a un paragone, quello con i juggalo. I fan americani degli Insane Clown Posse sono una sottocultura appariscente, dall’immaginario violento, predominantemente composta da persone provenienti da contesti proletari di provincia, famosi per le loro feste che nell’immaginario comune sono specie di baccanali a base di droghe, sesso e violenza. L’ostracismo della società americana nei loro confronti si è spinto fino all’iscrizione nel registro delle gang criminali da parte dell’FBI. Come abbiamo scoperto recentemente grazie ad alcuni reportage, il mondo dei juggalo è in realtà un semplice mondo subculturale, individuato come una seconda famiglia in cui è possibile essere strani, mettersi una maschera e le lenti bianche negli occhi, colorarsi i capelli e fare casino con i propri fratelli e sorelle. La sensazione muovendosi tra le sale è che tutti e tutte si sentano al sicuro, ed è gioia pura quella che muove braccia e gambe di questi strani tizi che ballano questo strano ballo.
Foto Hardcore Italia.
Verso le cinque di mattina The Melodyst e Andy The Core salgono sul main stage per chiudere la nottata con un’ora di hardcore mainstyle furioso. A questo punto Agnese e io ce la stiamo spassando, e rispondiamo ai drop agitando i pugni per aria. Io accenno qualche passo di hakken, che probabilmente è il motivo per cui ho ancora il mal di schiena tre giorni dopo. Usciti dal Florida alle sei, prendiamo una navetta affollatissima che ci riporterà alla stazione di Brescia. Sul treno per Milano, osserviamo un gruppo di ragazzi e ragazze con piercing fluo e capelli verdi addormentarsi di fianco a noi, in mezzo ai pendolari che devono andare al lavoro anche la domenica mattina. Sembrano sereni e sembrano anche non aver nessuna voglia di tornare alla vita di tutti i giorni, un po’ come noi.
Internet Italia è un posto piuttosto piccolo e vorace, quindi è normale che nel giro di poche ore De André canta la Trap sia entrato di diritto nelle prime posizioni della classifica Tendenze di YouTube (mentre scrivo, solo Emis Killa e Capo Plaza riescono a tenergli testa). Ma chi è De André canta la Trap?
Dopo la nostra segnalazione tutti i siti del panorama musicale italiano, da Panorama a Radio Deejay, hanno riportato con entusiasmo la notizia e, nonostante una certa parte dei commentatori abbia criticato fortemente l'operazione, imputandole una "mancanza di rispetto" più o meno tutto il resto dell'umanità che abita questo Paese è riuscita a divertirsi: sia per il contrasto paradossale che genera il miscuglio di Fabrizio De André e Sfera Ebbasta (o Ghali, o la Dark Polo Gang) sia perché l'autore di queste cover è davvero molto bravo a cantare, tanto che qualcuno ha persino pensato a una mossa in stile Dolcenera del Criber.
Ad ogni modo, dell'autore in realtà non sappiamo molto se non che: è un grande appassionato di Fabrizio De André (non l'avreste mai detto, vero?), che ha tra i venti e i trent'anni e che non vuole dirvi il suo vero nome, quindi qui sotto trovate la nostra intervista a De André canta la Trap, in persona (si fa per dire).
Noisey: Internet è impazzito per le tue canzoni e la somiglianza è quasi disturbante, dimmi: come ti è venuta l'idea? De André canta la Trap: Sono un grande estimatore di De André. Anzi, oserei dire che ho un vero e proprio feticismo nei suoi confronti. Mi capita di avere dei periodi piuttosto lunghi in cui ascolto solo De André e ho un amico che si trova nella stessa situazione, che se viene tirata per le lunghe diventa anche un po' pesante psicologicamente. Per quanto mi riguarda la maggior parte delle canzoni di De André non hanno un messaggio facilmente gestibile a livello umano, per me è un ascolto sempre molto impegnativo. Quindi l'unico modo per uscire da questi periodi di stallo è ridimensionare l'artista, in un certo senso. All'inizio volevamo "allontanare" De André dalla sua poetica e abbiamo cominciato con Fabri Fibra, poi io ho proseguito con la vena trap.
Quindi era un gioco che non avevi pensato di postare su internet. Era un modo simpatico per uscire da una fase che era particolarmente intensa, e poi sì, per scherzare fra di noi.
Ma tu quanti anni hai? Posso dirti che ho tra i 20 e i 30 anni.
Allora siamo più o meno coetanei. Lo sai che in questo momento hai superato Emis Killa nelle Tendenze di YouTube? Com'è stato il momento in cui ti sei reso conto che questa roba stava esplodendo? In realtà è stato tutto molto inaspettato. Io, come si può notare dalla qualità dei miei video, non miravo certo a una cosa di questo genere: ho solo pensato che fosse qualcosa di simpatico da condividere e quindi l'ho condiviso, tutto qui.
Sei tu a cantare? Nel senso, c'è qualche filtro o quella è effettivamente la tua voce? Sono io. Ho cominciato ad ascoltare De André da adolescente e direi che ho imparato a usare la voce cantando sulle sue canzoni. Conosco abbastanza bene il suo modo di cantare e poi è anche una cosa che gioca sulla sospensione dell'incredulità. Se vedi una foto di De André, senti una chitarra nel suo stile e una voce che canta con due o tre delle caratteristiche che lui usa molto, ti convinci della somiglianza.
Questo è super vero. Quando ieri abbiamo intercettato le tue cover su YouTube, quando avevano ancora meno di 100 visualizzazioni, l'ho fatta sentire a tutti i miei colleghi e dicevo: "È incredibile non perché sua è identica, ma perché imita perfettamente la pronuncia di alcune parole e il modo di incastrarle nella melodia." Sì, credo che questa sensazione derivi anche dal fatto che il tipo di De André che io imito è molto circoscritto: è il De André degli ultimi quattro dischi, quando aveva quel birignao (leggi la definizione di birignao, NdE) molto pesante. Faber faceva "cadere" la voce in un modo molto riconoscibile. Anche in questo senso si tratta di un altro modo per riuscire a ridimensionare l'artista e a superare quelle fasi di grande voracità della sua musica che ho vissuto.
Hai pensato a cosa farai della tua creatura adesso? Penso che qualche altra cover potrei farla, ma in realtà non ho dei piani per il futuro.
Secondo me non ti sei ancora accorto del clamore che ha suscitato la tua operazione, te la sentiresti mai di cantarla dal vivo? No, non credo proprio.
Eppure ci sono diverse trasmissioni che sarebbero disposte a farti cantare, in questo senso l'operazione è andata oltre le aspettative? In quel senso penso proprio di sì. Diciamo che la mia discrezione sta anche nel fatto che De André è, secondo me, la cima della nostra canzone. Ed effettivamente questa cosa è un po' mancargli di rispetto. Però dall'altro lato penso che considerarlo intoccabile, nella sua altitudine, non sia altro che un modo per allontanarlo da chi non lo ha mai ascoltato e lo vede là: immobile nella sua perfezione. Io riesco a sopportare questa cosa raccontandomela così. Se dovessi rifarla probabilmente non riuscirei più a giustificarmi con me stesso.
Diventerebbe una parodia, più che un omaggio. Ti è capitato di leggere i commenti che hanno fatto le persone su internet? Quelle in cui si complimentano di sicuro mi fanno piacere. Quelli che pensano che sia un po' mancare di rispetto a De André hanno in parte ragione, è una cosa che in parte penso anch'io. Io non penso che la musica sia morta nel Novecento, penso che qualsiasi genere musicale possa potenzialmente portare delle cose nuove nel panorama musicale. Però solo il fatto di accostare quei testi lì al modo e alla maniera di interpretare di De André mostra chiaramente che c'è una discrasia enorme tra un qualunque pezzo di Faber e il testo medio di una canzone trap.
Tu sei un ascoltatore della trap? Un fan, addirittura? O è solo una cosa che hai intercettato perché sei nel suo momento storico? Ne sono venuto a conoscenza piuttosto per caso attraverso dei conoscenti più giovani di me, soprattutto per via di una persona che continuava a far girare "Habibi" a ripetizione, finché non l'ho imparata a memoria, mio malgrado. Più che un fan sono uno spettatore della trap, anche se per fare questi video un po' ho dovuto studiarla, ma poi mi sono fermato lì.
Questo disco ha una cosa che lo rende molto contemporaneo: è praticamente una playlist dalla quale ognuno potrebbe scegliere i suoi pezzi preferiti. Venti pezzi infatti sono decisamente troppi e in questo caso troppo vari per considerarlo davvero un album compiuto e da ascoltare dall’inizio alla fine, ma del resto avevamo già scritto di questa tendenza e delle sue motivazioni.
Intendiamoci, il disco è a tratti davvero molto bello, un compendio di un sacco di black music contemporanea e non, e in alcune cose ricorda da vicino Frank Ocean, che per quanto mi riguarda è assolutamente un gran complimento.
Il problema è che forse sarebbe servito qualcuno che aiutasse a fare una scrematura (per quanto mi riguarda due brani che avrei sicuramente escluso sono “LMFAO” e “Charlie Brown”), e facesse tagliare al buon Rejjie almeno cinque pezzi dal risultato finale. Così invece ci sono alcuni singoli momenti davvero memorabili ma davvero troppa roba per non sembrare un po’ un pasticcio tenuto insieme con lo spago, più che quella grande retrospettiva di cui parlano alcune recensioni.
È vero però che in questo modo ciascuno potrà crearsi l’album come gli pare, e in questo - come dicevamo - il disco è molto contemporaneo e adatto alle modalità di fruizione della musica che sempre più stanno prendendo piede con il digitale, lo streaming e tutti questi amici di noi ggiovani.
Un’altra cosa sicura è che questo esordio sulla lunga distanza conferma un vero talento, magari da alcuni punti di vista ancora un po’ acerbo e non perfettamente indirizzato, ma che lascia per il futuro la speranza di poter regalare grandi cose, forse anche grandissime.
Dear Annie è uscito il 12 febbraio per BMG.
Ascolta Dear Annie su Spotify:
TRACKLIST: 1. "Hello" 2. "Rainbows" 3. "The Wonderful World of Annie" 4. "23" Feat. Caroline Smith 5. "Pink Lemonade" Feat. Cam O'bi 6. "Skinny Jasmine Intermission" 7. "Mon Amour" 8. "Oh No!" Feat. Dana Williams 9. "Spaceships" Feat. Ebenezer 10. "Egyptian Luvr" Feat. Aminé and Dana Williams 11. "The Ends" Feat. Jesse James Solomon 12. "Room 27" Feat. Dana Williams 13. "Désolé" 14. "The Rain" Feat. Cam O'bi and Krondon 15. "Skateboard P Intermission" 16. "Lmfao" 17. "Bye Polar" 18. "Charlie Brown" Feat. Anna of the North 19. "Annie" Feat. Jesse Boykins III 20. "Greatness" Feat. Micah Freeman
È da un po' che Drake sta conducendo la sua carriera praticamente a ruota libera, senza seguire il classico ciclo annuncio-promozione-uscita-tour. Potremmo dire che tutto è cominciato quando pubblicò If You're Reading This It's Too Late completamente a sorpresa. Poi scoprì il suo potenziale come meme grazie a quei balletti nel video di "Hotline Bling" che ci hanno fatto chiedere se gli fosse venuto il colpo di frusta. Poi arrivò quel monolite di album di VIEWS, e infine More Life, il non-album (o "post-album", come ne parleremo dopo in questa analisi) in cui si è dilettato a inserire nel suo rap elementi salsa, house, lo-fi, bossanova e approssimazioni giamaicane.
In tutto questo, però, non c'è ancora stato un momento preciso in cui a tutti è sembrato di aver perso definitivamente Drake—fino ad ora. Finalmente ci siamo: Drake è passato dall'altro lato della barricata ed è entrato nel regno dell'assurdo. Un luogo da cui è difficile tornare sani e salvi, e lo sappiamo noi come lo sa lui.
Credo che il video di "God's Plan" marchi un punto di svolta nella carriera di Drake, e non particolarmente positivo. È come se avesse perso contatto con la realtà. Il tono della narrazione dietro al video viene messo in chiaro nei suoi primi secondi: Drake, che si sta lentamente trasformando in un filantropo, ha deciso di donare l'intero budget affidatogli dalla sua casa discografica agli abitanti di un quartiere svantaggiato di Miami. Per essere chiari, se non avete visto il video, stiamo parlando di una cifra vicina al milione di dollari. Questo tipo di beneficienza basata non sul gesto in sé ma sulla figura che la compie non è niente di nuovo nell'ambiente mediatico americano: esempi celebri sono Oprah Winfrey, che è solita regalare qualsiasi cosa al pubblico del suo show, e il programma televisivo Extreme Home Makeover, nient'altro che una grande pubblicità per Sears, una celebre catena di grandi magazzini che viene costantemente visitata durante le varie puntate. "God's Plan" è un caso particolare di questa, potremmo dire, "carità flagrante": è rappresentata con indulgenza e scioltezza, come se per Drake fosse la normalità.
Ed è qua che le cose si fanno interessanti. Non prendete il video per quello che, a un primo sguardo, sembra voler fare (cioè essere un banale tentativo di diventare virale grazie a una narrazione trita e ritrita, oltre che piuttosto triste, che relega delle persone reali con problemi reali nel ruolo di comparse in maniera potenzialmente problematica nonostante parta da buone, ottime intenzioni). Prestate attenzione ai suoi dettagli, che si fanno sempre più assurdi—e convincenti—con il proseguire dei minuti. A un certo punto Drake osserva la folla che si è radunata per venire a vederlo e, credendosi il papa, strizza gli occhi come se fosse abbagliato dal sole. Tiene in mano, nascoste dietro la schiena, delle mazzette. Si guarda attorno, come ad aspettare il segnale del producer del video. Sembra dire "Ok, posso cominciare a dare questi soldi a una persona svantaggiata?" Poi viene inquadrato un neonato con un ciuccio in bocca e una mazzetta in mano.
Il tema che sembra attraversare i sei minuti del video è l'ambivalenza del rapporto tra Drake e il denaro. In un articolo pubblicato poco dopo l'uscita di Nothing Was the Same, nel 2013, il critico, accademico e teorico musicale Mark Fisher, autore del noto blog k-punk e del libro Realismo Capitalista, recentemente tradotto e pubblicato in Italia da NOT, parla proprio di questo nel contesto dell'opera del rapper canadese, e lo considera il sintomo di un nuovo colore nel rap e nell'R&B contemporanei. Fisher parla di come la cultura hip-hop non abbia disposto per intero dei suoi codici machisti, ma abbia invece integrato in sé una propria critica nei loro confronti. Nelle persone che ne fanno parte si è sviluppata la capacità di giocare con i propri archetipi, abusandone però quando necessario. Drake rappresenta questo nuovo stato di cose: è sincero, tenero, sensibile, sa come cantare. Ma è un personaggio duplice: vive un edonismo esagerato in cui si crogiola e, simultaneamente, gli causa angoscia. Fisher si interroga sull'integrità di questo approccio secondo il tema della "redenzione attraverso l'amore":
"Sicuramente non può essere così semplice e sentimentale come l'annoso, vecchio modo dire "il denaro può comprarti tutto, ma non l'amore?" Insomma, è questo il punto a cui il rap era destinato ad arrivare: il rapper come personaggio di una telenovela, tutto spaccone, furioso, consumatore super-vistoso così da nascondere la sua natura di ragazzo-a-cui-manca-qualcosa che verrà salvato dalla donna-redentrice alla fine della puntata? Ancora quella roba? 'La prossima volta che scopiamo non voglio scopare, voglio fare l'amore... voglio fidarmi'. Nemmeno Drake sembra credere al suo stesso numero, perché dovremmo crederci noi? Sa benissimo che questo modo di esprimere sensibilità potrebbe benissimo essere parte dello stratagemma di un pick up artist... ha passato così tanto tempo a mentire e poi rivelare le sue menzogne che non sa più se sta provando a fregarci o a parlare apertamente, o a quale sia la differenza tra le due cose. Piange lacrime vere con un occhio, mentre con l'altro fa l'occhiolino alla telecamera che lo sta inquadrando guardando l'obiettivo col mento appoggiato sulla spalla della sua ultima conquista."
Sebbene qua Fisher parli di seduzione, potremmo applicare il suo ragionamento all'intera traiettoria artistica di Drake e sostituire le donne che dice di conquistare con il suo intero pubblico. Dopotutto, come Fisher sostiene nel testo, Drake ha molte cose per soddisfare la sua fame: cibo, alcol, sesso, droghe; qualsiasi cosa possa essere consumata. Nel frattempo, il suo pubblico resta e resterà sempre un orizzonte immateriale. E il video di "God's Plan" rappresenta il momento in cui le relazioni di Drake con il mondo—seccate, ambivalenti, leggermente subdole—sembrano aver raggiunto uno stato avanzato di deteriorazione, se non di delirio e pazzia. In "Started From The Bottom", indubbiamente uno dei suoi pezzi migliori, Drake si confida con noi ascoltatori usando il "noi" plurale" invece dell'"io" singolare, creando un momento di inclusione. È una bella pirouette che sostiene le sue origini relativamente benestanti sottolineando la generosità del suo approccio e la sua elevata consapevolezza di quanto la sua educazione borghese impatti sulla sua credibilità. In "God's Plan", che è qualcosa di completamente diverso, Drake dimostra una tracotanza contemporaneamente confusa e malata.
In "God's Plan," Drake si tiene sempre a debita distanza dal suo pubblico. Usa il "loro" come un prudente osservatore ben intenzionato invece di adottare l'"io" e il "noi" che lo avrebbero incluso più candidamente nel mondo che sta descrivendo. Questo gli permette di evitare un eccessivo coinvolgimento, di mantenersi al sicuro nella sua gabbia dorata. La pesantezza dei soldi, però, permane. Non fanno altro che cambiare mano, e vengono pietosamente saccheggiati (nonostante le apparenze) più che realmente resi oggetto di disillusione.
Nonostante non sia mai stato completamente un avanguardista, Drake si è sempre posizionato come cantore di un post-modernismo accomodante. Ha sostenuto di aver inserito per primo il cantato nel rap, posizionandosi come post-rapper. Poi ha provato a introdurre il concetto di post-album nella forma di More Life, proclamandolo una "playlist" così da considerare che cosa significhi il formato di un album nell'era della smaterializzazione della musica. Oggi, però, Drake sembra essere entrato in una nuova fase della sua carriera. Potremmo chiamarla "post-malessere", in assenza di termini migliori. È un approccio che imbarazza l'ascoltatore, spingendolo al riso e all'incredulità, per poi affascinarlo e fargli porre una domanda: e se fosse Drake, in fondo, il primo spettatore—e quindi la prima vittima—delle sue stesse mielose illusioni di grandezza? Qualsiasi sia la risposta, sarà difficile scacciarsi di testa questo dubbio.
Questo articolo è apparso originariamente su Noisey Francia.
Quando En?gma entra nella nostra redazione si percepisce subito una certa aura di intensità. È un rapper serio, e con il suo ultimo disco Shardana mostra anche un lato di sé piuttosto incazzato. Il titolo è preso da una leggendaria stirpe di guerrieri, ed è facile immaginare il perché quando si sentono pezzi come "Krav Maga", "Father & Son" (feat. Bassi Maestro), "Sobborghi".
Rispetto al precedente Indaco infatti il rapper di Olbia ha affilato le armi, mettendosi comodo nello spazio ritagliatosi dopo l'uscita da Machete e gridando al mondo la propria indipendenza. Shardana è un disco orgoglioso, che viaggia sicuro e a testa alta senza cedere alla moda ma allo stesso tempo senza risultare reazionario. Se da un lato En?gma non ha abbandonato la sua verve poetica e ricercata (vedi "Malasuerte", con la partecipazione di un altro poeta della scena, Gemello), dall'altro il focus di questo album sembra proprio quello di sfogare un po' di scazzi, contro chi pensa solo ai soldi, contro chi non vuole aprire gli occhi, contro i suoi stessi brutti pensieri.
Dall'aura d'intensità di En?gma esce una mano, la stringo, ci accomodiamo nella sala predisposta per l'intervista e passiamo una piacevole mezz'oretta a chiacchierare di rabbia, leggende e Sardegna. Ecco cosa ci siamo detti.
Noisey: Shardana è il secondo disco dopo la separazione da Machete e il ritorno in Sardegna, che cosa ti sembra di aver imparato in questo periodo di autogestione che ha seguito l’uscita di Indaco? Una cosa che pochi sanno è che anche quando facevo ancora parte di Machete io ero già tornato a vivere in Sardegna. Fin dal Machete Mixtape 2, che è uscito nel 2012, ho sempre scritto tutto in Sardegna. Quindi in effetti Indaco ha rappresentato più l’emancipazione che il ritorno a casa. Sicuramente in questo periodo di indipendenza totale ho guadagnato consapevolezza e ulteriore grinta. Indaco era più introspettivo, mentre Shardana è più diretto e aggressivo per i miei standard, pieno di rabbia e senza paura di esternarla. È concepito anche molto per i live.
Questa rabbia è nuova o vecchia? Viene dal tuo presente o dal tuo passato? È anche rabbia latente. Prima restavo un po’ più chiuso in una dimensione introspettiva e cupa, ma un po’ troppo “poetica”; questa volta ho scelto una poesia d’impatto, per liberare un po’ di rabbia. Nel disco ci sono riferimenti a frustrazioni recenti, sia per quanto riguarda la mia vita che il mondo circostante, ma c’è anche rabbia accumulata dalle mie esperienze personali passate. È un disco che parla di rapporti, di quello che vedo attorno a me.
Alcuni testi sembrano molto incentrati su una critica all’ingiustizia, che poi rigiri e associ anche al mondo del rap, criticando il culto dei soldi e la superficialità di molta della scena attuale. Da dove viene questa spinta? Io ho rispetto per tutti e per ogni visione. Non voglio fare quello che rompe le palle con i contenuti, anch’io ascolto musica più “leggera”, diciamo, anche trap. Però credo che ci sia lo spazio anche per cose più profonde, io mi rifiuto di smussare i miei angoli per questioni di moda. Chiaramente mi piacerebbe che si creasse lo stesso spazio per chi antepone ancora la musica all’estetica, invece di dare più spazio a chi fa dell’estetica il proprio cavallo di battaglia. Credo che il fatto che certi fenomeni e certi personaggi abbiano successo fa gioco a tutti, quindi non voglio criticare. Il mio è un grido di giustizia, perché mi sembra che a volte le cose si affrontino con due pesi e due misure. Adesso va questa roba, ma negli anni Novanta, per farti un esempio, si esagerava dall’altra parte: i Sottotono sono stati martoriati perché non erano abbastanza impegnati. Non si riesce a trovare un equilibrio. Magari grazie a questa nuova onda che porta avanti un certo tipo di estetica e di suono si apriranno nuovi spazi, spero che chi fa rap in un certo modo possa continuare a vivere e a crescere. Sarebbe bello avere equità.
I featuring sul disco sono tre: Bassi Maestro, Madman e Gemello. Qual è il senso di queste tre collaborazioni? Io mi ritengo uno abbastanza vario. Ho fatto canzoni molto introspettive, canzoni aggressive, un po’ di autocelebrazione a modo mio, e cerco sempre di metterci un pizzico di tematiche importanti. I tre feat. rappresentano i miei vari approcci: c’è l’autocelebrazione un po’ freestyle con Madman, c’è il rap classico con una leggenda del rap classico come Bassi, e poi ci sono e atmosfere un po’ più oniriche nel pezzo con Gemello. Volevo affrontare tutti i campi e farlo con degli artisti che fossero adatti alle varie cose. Con Bassi è stato tutto molto naturale, ci conosciamo da tanto tempo (ho registrato con lui il mio primo EP, Rebus) e ci siamo sempre stimati. Nel corso della mia carriera ho sempre collaborato con tanti artisti, ma nei miei dischi da solista ho sempre cercato di privilegiare la mia figura. Adesso voglio prendermi il mio spazio e queste collaborazioni aiutano a individuarlo: è un onore avere uno come Bassi, un esempio sotto tanti punti di vista, anche di vita. Mi sono anche tolto lo sfizio di fare qualcosa con Madman che mi aveva voluto in un suo mixtape anni fa e poi ho voluto avere un artista più simile a me come Gemello. È stata una scelta ponderata anche sotto il punto di vista delle atmosfere, oltre ad avere tre ospiti super validi volevo anche che fossero molto diversi tra loro per rappresentare varie anime.
Nelle mie ricerche ho letto che alcuni studiosi attribuiscono alla stirpe di guerrieri Shardana il ruolo di antenati del popolo sardo. Quindi il disco parla anche di radici? Sì, sono contento che tu faccia questo riferimento. Non è una cosa che dico in giro semplicemente perché non è una teoria scientifica comprovata, ma soltanto un’ipotesi, però ovviamente per me è affascinante. La “leggenda” narra appunto che questi guerrieri del mare chiamati Shardana, le cui tracce riportano all’antico Egitto, siano stati la comunità da cui ha avuto inizio la popolazione sarda. E io tengo molto alle mie radici, quando scrivo in Sardegna sono molto più ispirato, credo molto nella magia della terra, della terra nostra. Credo abbia un impatto particolare su chi ci vive a lungo o chi ci è nato – ti porti sempre appresso un certo tipo di nostalgia.
Pensi che la scena sarda stia vivendo un buon momento? Quanto è importante per te la scena locale? Sicuramente la Machete ha messo la Sardegna per bene sulla cartina geografica del rap recente. Io porto avanti un mio discorso, vivendoci e cercando di sfoggiare, con tanti riferimenti, questa mia identità. Sono però dell’opinione che se si vuole che la Sardegna sia effettivamente presente sulla scena rap nazionale non ci si possa fossilizzare. È importante essere spendibili per l’Italia e, perché no, per il mondo. Non si deve imporre troppo al propria territorialità, bisogna rispettare l’ascoltatore della Val D’Aosta o del Trentino. Questo è un limite che ho riscontrato nel movimento rap sardo. Ma capita in tutta Italia che ci siano artisti molto validi che però sono poco attenti alla questione dell’universalità. Mi interessa che la mia componente regionale colpisca l’ascoltatore e che lo affascini, ma non voglio che diventi un’imposizione pesante.
La persona più importante della scena di Olbia per me è naturalmente Kaizen, che ha curato con me la produzione e la direzione artistica dell’album. Quando si fanno le cose in modo totalmente indipendente bisogna circondarsi di persone fidate. Noi facciamo tutto in due, l’abbiamo fatto per Indaco e ora anche per Shardana, in un certo senso è un inno all’indipendenza. Spero che sia anche un esempio per chi vuole fare l’artista e dettarsi le proprie regole nel 2018: si può fare, ma bisogna sporcarsi le mani. Io e Kaizen l’abbiamo fatto.
Ritornano i Decibel dopo appena un anno dal buon successo di Noblesse Oblige, disco che in qualche modo li ha fatti tornare alla ribalta, e già siamo stupiti del fatto che “gli zii del punk italiano” siano così frizzanti da rimettersi subito in gioco senza alcun timore del pubblico. La loro apparizione a Sanremo però mi ha fatto leggermente storcere il naso, perché “Lettera dal Duca“ sembra un po’ la versione italiana di “No Plans”, giocoforza meno ispirata soprattutto per il testo, non all’altezza del lirismo di Ruggeri.
Ma con un disco che si intitola L’Anticristo ci saranno certamente brani molto più interessanti, giusto? E infatti, dopo un inaspettato corale di stampo sabbatico in apertura, la title track è un pezzone mezzo space rock sulla manipolazione degli individui che subito mette i puntini sulle i regalandoci dei Decibel forse ancora più polemici rispetto agli esordi, capaci di fotografare il presente anche e soprattutto usando il passato. “La belle époque“ sarebbe stato il pezzo giusto da presentare a Sanremo, un brano stupendo che in un sol colpo ammette crudamente il fallimento di un’era, che poi è la nostra.
Tornano nichilisti quando si tratta di media in “Il sacro fuoco degli dei”, descrivono i nuovi “pretty vacant” tutti Photoshop e faccine su WhatsApp in “Baby Jane”, oppure tessono le lodi degli psicopatici nella psichedelica “Sally, go round”. Ma le pillole di decadenza non finiscono qui: “la Banca” in un certo senso è una nuova versione di “A mano armata” in salsa nu disco, magari un po’ scontata in quanto a tematiche ma è giusto ribadire chi è il vero sfruttato e chi lo sfruttatore.
I punti deboli sono principalmente nelle ballate: mentre in Noblesse Oblige calzavano perfettamente nell’insieme, qui forse si sentiva la necessità di un disco tirato come un missile e nulla più. Ma se è vero come è vero che i Decibel stanno inseguendo un nuovo genere che è quello dell’Adult-Oriented Punk, ne vedremo delle belle in futuro, saranno la muffa nell’agio dei nostri frigoriferi.
Per ora godiamoceli nella foto di copertina, ironicamente vestiti da “lupi di wall street”, una foto che puzza di zolfo come probabilmente i suoi protagonisti, da sempre coi piedi in due scarpe e da sempre a correre scalzi in mezzo ai cocci di vetro della modernità.
L'Anticristo è uscito oggi 23 febbraio per Sony.
Ascolta L'Anticristo su Spotify:
TRACKLIST: 01. Choral in E min 02. L’anticristo 03. Lettera dal Duca 04. Baby Jane 05. My Acid Queen 06. La banca 07. La città fantasma 08. Sally, Go Round! 09. 15 minuti 10. Lo sconosciuto 11. La Belle Époque 12. Il sacro fuoco degli dei 13. Buonanotte
Ma chi vogliamo prendere in giro, sappiamo benissimo che cosa ascolteremo tutti per tutto il fine settimana: De André canta la trap. E nelle pause? Ma naturalmente un po' di sana hardcore. Ma la vostra adorata redazione di Noisey non si arrende e anche questa settimana vi porta una selezione di una dozzina di brani appena usciti per restare sempre aggiornati sulle novità del momento.
Questa volta partiamo con un po' di dancehall per darci la carica, e poi passiamo per rap, r&b, indie rock, scintillante dream pop anni '80, un po' di elettronica intelligente, industrial, hardcore decostruita e psichedelia cosmica.
Per quanto questi siano i giorni in cui la gente si sta uccidendo per avere la ristampa in vinile di SxM (Tannen Records, se ci leggi e ci tieni a farmi un regalino in fondo trovi i miei social e lì l’indirizzo per inviarmi il tutto), se penso al rap italiano, non posso che pensare — tra gli altri — a Gué Pequeno.
Complice probabilmente l’età che ho e il fatto che per forza di cose un sacco di dischi e tracce io le abbia dovute recuperare come fossero dei compiti a casa, sono molto affezionato a tutti quei rapper che in qualche modo ho visto “crescere” nella loro carriera artistica. Gué è uno di questi. L’ho sentito ringraziare D’Argento per avergli insegnato a tenere un microfono, l’ho visto rispondere male alla gente su Twitter, ho fatto mille vasche in via Mora sperando di incrociarlo al Berlin, l’ho visto in live da solo e con i Dogo.
E se si pensa a Gué Pequeno, almeno fino a un lustro fa, anno più anno meno, non si può non pensare a “Rimo da quando”, che era un po’ la tag del nostro, una di quelle frasi che ti facevano sentire a casa non appena sputate nelle orecchie.
Visto che Facebook ha deciso di ripropormi un imbarazzante post del 2012 in cui cercavo di fare un recap di tutti i migliori “Rimo da Quando”, ho pensato che riproporre questa lista a un pubblico più ampio fosse un ottimo modo per combattere l’imbarazzo e rendere il giusto omaggio a Gué.
"Rimo da quando le zarre mettevano le prime Buffalo da quando hanno sgamato il primo prete pedofilo" ("Hardboiled" - Club Dogo, Mi Fist - 2003)
Il primo elemento di una lunga serie è probabilmente il più interessante da analizzare. Sarebbe fico cercare di capire come a Gué sia venuta un’idea così semplice, così rap — sembra sostanzialmente mutuata da un freestyle, una di quelle entrate fisse che ti permette di prendere tempo e pensare alla prossima punchline — e al contempo così efficace. Analizzare i “Rimo da quando” permette in qualche modo anche di analizzare i Dogo e Guè e la loro evoluzione. Qua Gué non parla di amici, dei suoi. Parla delle zarre e “critica la società”, in modo netto, chiaro, quasi bambinesco, nella traccia forse più bella di Mi Fist. Ancora ho i brividi quando sento quel fischio.
"Rimo da quando per dire figo dicevan tosto Milano è nel posto per farti stare a posto" ("Rompiossa" - Guè Pequeno & DJ Harsh, Fastlife Vol. 1 - 2006)
Questo è anche il primo esempio di Gué che decide di camminare sulle sue gambe. Sembra un caso, ma anche "Rompiossa" è a mio modo di vedere la traccia che meglio rappresenta il progetto che la contiene, un po’ per le sonorità che anticipano quello che accadrà, soprattutto per alcune immagini che fanno perfettamente parte di un filone che ora pare attualissimo (penso al Motorola e a questo thread). Il binomio Gué - Milano inizia a delinearsi.
"Rimo da quando i fra' ti rubavano i Woolrich mi trovi in strada come finte Gucci" ("Puro Bogotà" - Club Dogo ft. Vincenzo & Marracash, Vile Denaro - 2007)
"Schiaccio polvere di stelle zio non leggo XL rimo dai furti degli scudi specchietti e forcelle" [...] "Rimo dai cellulari grossi come Walkie Talkie sono in assetto, ti resetto, sangue dagli occhi" ("Chi ci ferma" - Montenero ft. Guè P, Jake & Marracash, Milano Spara - 2007)
Più si va avanti, più si capisce quale sia la funzione del “rimo da quando”. Una della critiche più frequenti a Gué Pequeno è il fatto di non essere davvero di strada, vista la sua famiglia. A queste cazzate, Gué, risponde facendo una vera e propria cronaca dei fatti che gli succedono intorno, senza mai dire “faccio”, “sono”, ma semplicemente “vedo”. Gué racconta e questo rende tutto incredibilmente efficace, anche per l’immedesimazione.
"Rimo da quando andava il bomber dentro arancione vedo che sul sito fai il bomber ma sei un bambascione" ("Benvenuti nella giungla" - Dogo Gang - Benvenuti nella Giungla - 2008)
Una delle rime che più mi gasa degli ultimi Dogo è in “Sayonara”, con Gué che si dispiace di non poter aiutare l’ascoltatore per il banale fatto di avere 900k follower in più di lui. E per quanto possa sembrare del bragging da ragazzino, quella rima mi gasa perché fa parte di una sorta di trasformazione raccontata dai Dogo — e quindi da Gué — nel corso degli anni. Se all’inizio per qualcuno di strada era strano che i leoni da tastiera esistessero, qualche anno più tardi Gué ti dimostra come anche cambiando lingua, riesce a spaccare più di te.
"Rimo da quando il cell è grosso come un citofono tu non sei un g (ma va!) e la tua tipa è un cofano" ("Tutta roba mia" - Sgarra ft. Guè P & Don Joe, Disco Imperiale - 2008)
Questa cosa dei telefoni grossi deve aver colpito molto Gué, visto che in due anni riesce a ripeterla due volte. Questo è il “rimo da quando” base, potrebbe essere un perfetto paradigma della formula: fatto del passato + bragging + dissing all’ascoltatore/nemico immaginario. Tanto lineare quanto efficace.
"Rimo da quando le tipe non la rasavano Levi's, motorini elaborati che sgasavano" ("Fattore Wow" - Marracash ft. Guè P & J Ax, Marracash - 2008)
Per quanto faccia strano ammetterlo oggi, questo pezzo è una mina. E il motivo per cui questo brano è nel mio cuore è anche questo "rimo da quando". Mi piace come Gué pronuncia “non la rasavano, Levi’s”, che sentita a un primo ascolto potrebbe sembrare una correlazione, mi gasa il motorino elaborato (specie da quando sono entrato in questo trip qui) e mi gasa l’album nel quale si trova. Anche questo probabilmente è uno dei più iconici, perché qui, molto più che in altri, riesce a descrivere tre immaginari ben precisi in meno di dieci parole.
"Rimo da quando i fra' non c'hanno una lira Ora c'è l'euro che gira" ("Criminal Minded" - Siamesi Brothers ft. Guè P, Siamesi Brothers - 2008)
Che il benessere economico dei Dogo dipenda anche dal cambio di valuta è ovviamente una fake news, visto che l’euro c’è dall’inizio del millennio. Però anche qui è potentissimo come — a pochi anni dall’estate del 2006 cantata in "Nouveau Riche" — con una semplice contrapposizione Gué riesca a costruire il suo personalissimo “started from the bottom”.
"Rimo da quando il pallone era il Supertele o il Tango il periodo di moda per i Durango" ("Boing" - Club Dogo, Dogocrazia - 2009)
Per questo ho solo da dire che ho sempre sperato con tutto il cuore che Gué non abbia mai davvero messo un Durango (o parallelamente ho ringraziato il Signore per avermi fatto nascere dopo questo periodo di moda che avrei certamente seguito).
"Rimo da quando c'era la para siringa infetta ed eri solo una goccia nell'uretra" ("Gunz from Italy" - Club Dogo ft. Kool G Rap, Dogocrazia - 2009)
Questa è probabilmente la strofa migliore di Gué di sempre, per il semplice fatto che sembra un estratto di flow, mega milanesizzato grazie alla continua pronuncia di questa “e” aperta. Sembra che Guè abbia deciso di mostrare le proprie skills a un mostro come Kool G, pensando che se il rapper non avesse capito l’italiano, almeno avrebbe capito il flow, per l’appunto.
"Per la figlia e per la mamma meglio Guè di Vaporidis rimo da quando i frà dicevano 'zzo guardi? 'zzo ridi?" ("Sgrilla" - Club Dogo, Dogocrazia - 2009)
Questo è il periodo in cui i Dogo iniziano ad affermarsi come simbolo mainstream. Dogocrazia è probabilmente l’ultimo disco in cui c’è ancora il dubbio sul fatto che i Dogo siano più o meno un prodotto per il grande pubblico. Per togliere ogni dubbio, Gué sottolinea come non solo la figlia abbia il poster in cameretta.
“Rimo da quando Ryu faceva Shoryuken in Street Fighter due” ("Trema il Palazzo" — Gué Pequeno, Fastlife Mixtape Vol. 2 - 2009)
I Fastlife sono sempre stati la palestra personale di Gué, grazie alla quale è arrivato a essere il Gué che conosciamo ora, da Ragazzo d’Oro che potrebbe essere benissimo un Fastlife vol. 4, a dischi come Vero e Gentleman. Questo Rimo da Quando è abbastanza didascalico, anche se mi ha sempre affascinato il binomio rap — Street Fighter.
“Rimo da quando i frà ti staccavano lo stemma alla Mercedes Il Dogo è la mia fede” ("Spaccotutto" – Club Dogo, Che Bello Essere Noi - 2010)
Personalmente — e non solo personalmente — Che Bello Essere Noiè il disco che più di ogni altro disco dei Club Dogo rappresenta lo spirito dei Club Dogo, con quell’unione tra il bragging e l’ostentazione sfrenata, la tecnica di Jake e le rime di Gué. Non è un caso quindi che “Spaccotutto”, primo singolo dell’album, contenga un “Rimo da Quando” che rispecchia tutti i crismi del passato (Gué che fa la cronaca di un fatto molto comune per chi, almeno una volta, ha avuto anche solo un amico zarro), ma si conclude probabilmente nel modo più auto-celebrativo possibile, ovvero con un paragone tra il Dogo e una fede vera e propria.
“Rimo da quando i frà non digitavano ma litigavano (ooh) Gremo e spiro nebbie di Avalon” ("Grezzo" — Gue Pequeno ft. Vincenzo da Via Anfossi e Montenero, Il Ragazzo d'Oro - 2011)
Come detto prima, Il Ragazzo d’Oro nella sua struttura (molti featuring, posse track, molto Dogo) potrebbe quasi essere un "Fastlife Vol. 4". Per cui è quasi normale che anche qui si recuperino dei temi già affrontati: per quanto — come già detto — Gué ha 900k follower in più di te, lui conosce anche la “vita prima”, sottolineando il tutto con una sporca da occhi a cuore.
“Rimo da quando Fritz ha comprato il suo primo Akai” ("Never" — Fritz da Cat ft. Gue Pequeno, Nitro e Madman, Fritz - 2013)
C’è stato un periodo in cui Gué — nei suoi featuring — omaggiava attraverso una o due barre colui che l’aveva ospitato. E omaggiare Fritz da Cat con un “rimo da quando” vuol dire riconoscere al producer un ruolo di rilievo nella scena. D’altronde il Gatto era tornato dopo tanto tempo a produrre proprio per Gué, con “Dichiarazione”.
Bonus:
Che il “Rimo da Quando” sia un marchio di fabbrica lo dimostra anche il fatto che con il tempo un sacco di rapper hanno deciso di riprendere questa formula — basti pensare a Turi in Fritz del 2013 o a Clementino in “Quei Bravi Ragazzi”, proprio con Gué. Ce ne sono due, però, che più di altri, spiccano e che quindi mi sembrava doveroso inserire come sorta di bonus track.
“Rimo da quando Gué non diceva rimo da quando” ("Dogodrama" — Dogo Gang, Benvenuti nella Giungla - 2008)
Che Marracash sia uno dei migliori rapper italiani è dimostrato anche dall’eleganza e la maestria con cui al contempo riesce a omaggiare l’amico e collega Gué e rimanere nello stupido gioco del rap. Il suo “rimo da quando” di "Dogodrama" è proprio pura essenza di rap, quasi una strofa di Kendrick in “Control” ante-litteram.
“La prima differenza che c’è tra me e te è che io rimo da quando nessuno copiava Gué, zio” ("Capo Status" — Emis Killa ft. Gué Pequeno, Champagne e Spine - 2010)
Per molti Emis sarebbe stato alla lunga l’evoluzione naturale dello stile Dogo: più giovane, più zarro, più milanese. Questo featuring a un certo punto sembrava quasi un passaggio di consegne, dato anche dal fatto che appunto, Emis faceva sua una formula tipica di Gué. Le cose sono andate un po’ diversamente, ma questo omaggio resta uno dei migliori.
Tommaso è talmente giovane che rima da quando Instagram era già roba da vecchi. Seguilo comunque.
Mi è arrivato tardi alle orecchie, il primo mixtape dei Crookers. Avevo smesso di essere metallaro più o meno a 17 anni, e il mio percorso di esplorazione musicale mi portò pian piano a concepire l'idea che sarei anche potuto andare alle feste d'istituto del mio liceo invece di restare a bere le birre al pub con la mia compagnia come avevo fatto per molti fine settimana della mia adolescenza. Era più o meno il 2009 quando ci andai per la prima volta, e in una delle due sale del club di provincia in cui mi trovavo metteva i pezzi un ragazzo della mia età in fissa con la blog house. Tra un Steve Aoki e un Bloody Beetroots, una hit di Mr. Oizo e una dei Justice, il nostro amico sparava delle bordate di distorsione che mi facevano impazzire. Erano i pezzi dell'E.P.istola dei Crookers, il cui remix di "Day N Nite" di Kid Cudi, nel frattempo, faceva fare le danze a quelli che stavano nell'altra stanza a cercare di limonarsi con "Infinity 2008" in sottofondo.
Oltre ai rumori e alle slogature ritmiche, la blog house mi conquistò anche perché si sovrapponeva in parte al nu rave e alle declinazioni più sintetiche e pop della materia indie britannica. Mi sembrava qualcosa di trasversale, capace di unire gli zarretti di provincia ai pionieri dei Cheap Monday col risvoltino. Quando un amico mi fece ascoltare il Crookers Mixtape, ne ebbi la conferma. "Questa è la merda party del 2100", cominciava la intro, che dichiarava orgogliosa la concezione cazzona e diagonale del progetto: "Cantiamo rap con i suoni da deep house", diceva quel pezzo, ed essendo una persona che aveva cominciato ad ascoltare rap proprio grazie al primo Kid Cudi mi sembrava la cosa più ok che potessi concepire. A confermare il mio discorso sull'indie c'erano gli Amari, che avevano ribaltato la mia sentimentalità adolescenziale con Scimmie d'amore, e assieme ai Crookers cantavano di una "vita sotto la tastiera" tra MSN tutto il giorno e le pose sparate per trovare fidanzate. Insomma, quel Mixtape era un mischione di tre cose molto ok che mi accompagnò per un bel tratto della mia crescita musicale.
Quando ho sentito che Crookers ne avrebbe buttato fuori un altro, di mixtape, il primo pensiero è andato ai bambini. Perché con i trent'anni che si avvicinano posso ragionevolmente smettere di considerarmi un giovane giovane, e pensare che una nuova generazione di ragazzini e ragazzine avrebbe sentito il nome "Crookers" affiancato al rap italiano mi ha fatto impazzire. Questo Crookers Mixtape: Quello dopo, quello prima sarebbe stato lanciato addosso a un pubblico rap dai riferimenti culturali e sociali completamente diversi da quello che sperimentò l'originale. Perché ok che ci sono Ernia, Laioung e Rocco Hunt, su questo nuovo tape - ma le loro barre stanno in mezzo a intermezzi gloriosamente cazzoni (i migliori, "Short Pfff Man" e "Creppers"), MC un tempo pischelli e ora diventati grandi, e una generale assenza di serietà che tanto manca alla scena italiana contemporanea. Quando Phra è venuto in redazione a parlarmi del tape, dopo avermi offerto un'ottima cena dal cinese, ho quindi voluto parlargli un pochetto di quello che è cambiato in tutto questo tempo dentro alla sua testa, in quella di chi lo ascolta e nel rap italiano tutto.
Noisey: Facciamo un minimo di storiografia del primo tape? Crookers: La carriera di Crookers è iniziata da lì. Era tutto nuovo per me, o per noi, ai tempi. Vedevamo che c’erano tutte queste persone che ne parlavano, e con l’internet che c’era nel 2005 era una gran cosa…
Ecco, hai toccato subito un punto fondamentale, internet. Quel tape uscì in CD, allegato a una rivista, quando ancora YouTube praticamente non esisteva. Com'è che se ne cominciò a parlare a livello di scena? La gente se lo doppiava! Erano altri tempi. Ai tempi noi Crookers YouTube non lo usavamo. Poi conta che io non sono mai stato un grande campione dei social, la pagina Facebook è rimasta ferma un anno e mezzo con scritto “ciao”, ha! Comunque, già ai tempi c’era stato un po’ di hating da parte di chi faceva rap rap, perché quello non era rap rap.
Era rap con i suoni da deep house, appunto. Ma com'è che avevi conosciuto i ragazzi che comparivano sul primo tape? La Cricca dei Balordi, Dargen D'Amico, Ghemon... Quando avevo tredici anni andavo da Omegna, che è un posticino vicino a Verbania, a Laveno. Mi facevo tipo 35 minuti di pullman e poi un traghetto da 25 minuti per passare il Lago Maggiore. Lì stava un produttore rap, FT3, e mi trovavo da lui con altra gente a rappare. Ci chiamavamo Lacustre Clan. Eravamo dei babbioni vestiti di giallo con i pantaloni militari e ci siamo fatti voler bene da tutti, ed è lì che ho conosciuto praticamente chiunque. Rido e Supa erano di Stresa, un paese vicino al mio, e li avevo beccati a una radio locale da cui parlava un DJ pazzoide che chiamava tutti quello che facevano rap della zona. Io ero un ragazzino, e per me all'epoca loro erano già quelli arrivati. Io stavo solo imparando a fare i beat e cercavo di scrivere qualche cosa.
Poi però ti sei spostato a Milano, giusto? Certo, i featuring erano tutti di gente che conoscevo da anni. Mi ero trasferito a Milano e stavo in via Vigevano. Ero vicino allo studio dove registrava Dargen, dove mi avevano lasciato appoggiare la mia roba. E il tape per metà l’ho fatto lì, per metà in una casa isolato in montagna a San Domenico di Varzo, vicino alla Svizzera, dove i miei hanno una camera.
Ma qual era il clima culturale che si respirava a Milano in quegli anni? Tanto divertimento. Dove andavo andavo beccavo gente che ascoltava diversa musica, ci beccavamo più o meno tutti negli stessi posti, ascoltavamo cose diverse ma avevamo tutti voglia di fare cazzate. La più grossa differenza tra il primo e il secondo tape è che stavolta ci sono stati in mezzo alle palle i manager della gente.
Non era una trafila che avevi già fatto per Tons of Friends? Eri ancora nella fase di sbronza post-"Day N Nite" e ti eri trovato a far pezzi con Pitbull, Cudi, i Major Lazer, i Soulwax... Ti dico la verità, adesso questa roba qua rimarrà nella storia: mi sa che c’è stato meno sbattimento di management su Tons of Friends che su questo tape! La figata è che a un certo punto diventa una commedia, una pantomima. Devi far vedere che ce l’hai questo manager. Lo paghi! Come la commercialista, che quando ti chiama deve comunque rincoglionirti.
Invece per il primo tape venne fuori in modo molto naturale, immagino. Senza manager o scazzi organizzativi particolari. Parlare del primo tape mi fa stranissimo perché non mi ricordo tutto nei particolari. Mi ricordo com’è successo ma in mezzo ci sono stati dieci anni di serate, produzioni, robe. L'atteggiamento del primo era, “Sai cosa? Vaffanculo. Stiamo facendo l’house in una certa maniera, a ogni porta a cui bussiamo a Milano ci dicono no. Vediamo se facendo questa cosa qua matta, che è quello che poi in realtà abbiamo voglia di fare, succede qualcosa. Se ci arrivava una scarpata in faccia va bene uguale, ma almeno succede qualcosa”. Questo fece venire fuori tanti hater, che erano i talebani del rap italiano. Che poi non c’è nulla di male nell’essere talebano di un genere, perché vuol dire che ti piace tanto e hai tanta passione. In quegli anni là, però, il pensiero era “Guarda questi, fanno fare il rap sopra a una base che sembra una canzone da discoteca, degli zarri, ma sei fuori?”
E quand’è che tu hai smesso di essere un talebano del rap italiano? Tu non lo puoi sapere perché sei giovane, ma se fossi stato uno che veniva alle jam dal 94 al 98 ti assicuro che ero un bel talebano del rap. Nello specifico, ero talebano del rullante: i pezzi dovevano avere determinati rullanti sennò io non li ascoltavo e dicevo che mi facevano schifo. Poi è tutto cambiato quando ho comprato una Golf GL color verde bottiglia di quarta mano, quella da spacciatore, col vetro grosso dietro. Aveva un pianale con le [casse] JBL, e quella è stata la prima volta nella mia vita che ho ascoltato la musica un pochettino meglio. Così ho cominciato a caso ad appassionarmi alla bossa nova. Poi sono passato a Nicola Conte, che in quegli anni stava facendo quasi un salto verso il mainstream, e all'elettronica stramba e alla house più nera che c'era. E ho detto "Cavolo, perché riesco a sentire un filo comune tra il rap e questa cosa?"
Perché c'era davvero, quel collegamento, tra house music e hip-hop. Certo! Ma sai, vivendo a Rovigna, non leggendo riviste, senza internet, me lo sono capito da solo. E ho voluto mettere insieme due cose che mi piacevano per capire cosa sarebbe successo. Poi lì avevo capito la differenza tra il suonare bene il suonare male. Tra la musica che suona bene e quella che suona male. O meno bene.
Che cosa intendi per "musica che suona male"? Tanta musica che ascoltavo in quegli anni era prodotta in malo modo, o comunque rudimentale. Erano bei pezzi, ma suonavano male. Quando ho iniziato ascoltare la musica elettronica, che ha sempre avuto una cura pazzesca del sound design, del mix, ho detto “Cazzarola ‘sta roba suona bene”. Da allora il mio problema è diventato far suonare bene la roba con quello che avevo io, cioè niente.
C'entra qualcosa, con questa paranoia del "suonare bene", la tua passione per la distorsione e le sporche? Sono comunque elementi che hanno accompagnato almeno una buona parte dell'inizio della tua carriera. Certo, perché mi ascoltavo tanti vinili quando ero ragazzino, e i vinili sono sporchi. Le sporche fanno da collante, sono un layer che ti tiene tutto assieme, e secondo me danno più palle a quello che fai.
Tornando al discorso ragazzini, trovo figo e interessante il fatto che così tanti si siano appassionati alle sonorità delle produzioni distorte da SoundCloud. Cioè, "Look At Me!" di XXXTentacion ha, a livello di suono, una sensibilità che posso rivedere in quello che facevi tu un tempo. Quella roba lì è interessante per dieci minuti. Alla settima che ascolti dici “che palle, tutte uguali”. Funziona, quel marciume, unito all'attitudine del tipo che la canta. Bisogna farci l’amore per poco, con quelle robe, perché poi è come il cane di Aldo, Giovani e Giacomo: lo vedi, passa, muore, ti ci eri affezionato. Invece è molto importante, come diceva Dargen, mantenere un buon rapporto con i peli del proprio corpo. Te li tieni tutta la vita, e a loro ti puoi affezionare. Comunque sono ancora tanto legato al fatto di far suonare le robe in maniera stramba. Però bene.
Un elemento fondamentale del rap con cui sei cresciuto e di quello che fai e facevi è la cazzonaggine, il gusto per la battuta e per lo skit. Questo, oggi, è invece sempre più raro. Come mai, secondo te? Penso che nell’ambito rap ci si prenda molto sul serio perché fa super macho. Il rapper è un personaggio che deve far la foto con la Bentley e i denti d’oro, far vedere che si fa tanti soldi, si scopa tutte le fighe e si fa tutta la roba del mondo. Così diventa un idolo. Tipo, Fabrizio Corona poteva essere un mega rapper. Avrebbe spaccato tutto, se solo avesse continuato a farlo. E poi è stato in galera. Credibility tipo a cannone! Invece, se cerchi di far ridere il rapper standard quello pensa che sia una presa per il culo. È un problema che ha anche il mondo del pop, quando sfoci nella risata rischi di essere preso per un coglione. Guarda Elio e le Storie Tese: c'è chi li ascolta e ride, e chi non li capisce. Già ti stai esprimendo in musica, ed è un problema, se poi cerchi di arrivare in maniera un po’ cinica, intelligente e non vieni capito sei fottuto.
Una delle persone che più riescono a far convivere queste due anime, in Italia, è Guè Pequeno. Infatti Cosimo è uno di quelli che si presta a fare queste robe. È megaserio, sa turare fuori anche l’altro elemento. Per me Cosimo è una persona super intelligente, e secondo me uno dei rapper migliori in Italia. Ci sono sempre rapper nuovi che piacciono alla gente, e però lui è sempre lì. Spaccava prima, spacca adesso e spaccherà sempre.
Un rapper che mi ha sorpreso, sul tape, è Ernia. Sentirlo su un beat così frenetico è stato stranissimo, ma davvero figo. Lui l'elemeno cazzone ce l'aveva nei Troupe d'Elite, anche se era involontario. La cosa assurda era che era veramente difficile fare una roba lì sopra. Ho passato un po’ di tempo in studio con lui e mi sono reso conto che ha una bella ottica, ascolta e conosce tanta roba e si è messo tanto in gioco facendo il pezzo su un beat del genere. Sarebbe stato molto più semplice dirmi “Non ce la faccio”, o “Non è la mia roba, mandamene un altro”. Io di beat ne ho due milioni. Gli ho mandato solo quello, dicendogli che mancava una roba totalmente matta, rave, stramba. Pensa che quel beat l’avevo mandato a CASisDEAD. Un tipo che fa grime, abbastanza figo.
È che sentire oggi il rap con i suoni da deep house fa super strano. Perché dopo una serie di hit che univano rap e zarrate varie - in cui metto, tipo, "La cassa spinge" e "Festa Festa" - semplicemente non ce ne sono state altre. E non saprei bene come definire quel tipo di pezzi... Nel Novanta si chiamava hip-house, quella roba. “La cassa spinge” per me è un’altra roba, secondo me. Una canzone bmore, però minimal. Ma mega grossa! Con delle voci belle ghetto.
Precisa, come descrizione! L’ho fatta! Se non lo so io! Ha!
La mia impressione, comunque, è che quel modo di fare rap e metterlo assieme all'elettronica non abbia lasciato davvero il segno, almeno in Italia. Dargen e i Two Fingerz hanno continuato a fare quelle robe, ma pochi o nessuno hanno continuato quello che avevate cominciato. Bisogna sempre aspettare che qualcun altro le consolidi, queste cose. Vince Staples è uno che fa pezzi che potrebbero essere “La cassa spinge”. Ecco, bastano quattro Staples e la cosa viene fuori! Ma ci sono problemi di natura diversa che impediscono che questo succeda. Pensa che nel 2008 ho parlato con uno dei talent scout di Interscope, uno di quelli alti alti, e gli avevo fatto sentire delle cose che suonavano all’incirca come “La cassa spinge”. Lui mi disse, “Vedi, questa roba qua potrebbe essere molto pop ma c’è un problema. Essendo fatta per il club, ha la batteria che non si sente dalle casse del portatile” Pensa a certi punti della musica che cosa ti dicono, e con che cosa fai la guerra.
Assurdo. Secondo me quella roba potrebbe diventare pop, ma ci sono svariate sfaccettature. Se la vuoi fare credibile devi farla super ghetto. Ma se la fai super ghetto non può diventare pop. Si autodistruggerebbe, diventando pop pop pop. Quando la pulisci tanto, mantenendola sempre ghetto, la faresti più nera. Inizi a metterci l’accordino jazz e sei fregato! Hai detto jazz e la figa scappa. È problematica, la roba. Ma io rimango convinto del concetto che sia possibile farlo. E allora cosa fai? Fai la stupidera. Fai “La cassa spinge”, che è un po’ stupidera, un po’ intelligente, e suona molto molto molto grossa e molto bene, e un sacco di gente ti dice “Vabbè, ma sono capace anch’io di farla una cosa così”. Perché alla fine è una cassa e un suonino. E resta la solida sfida del rap: “Tu falla, uguale però”.
E perché nessuno ha rifatto un'altra "Festa festa"? Neanche voi stessi? Perché giravamo come delle trottole e abbiamo scelto di fare un album completamente senza voci. E quindi cosa lo facevamo a fare? Ogni anno volevamo fare robe diverse, rincorrere progetti. Che è una cosa da cazzoni, perché il personaggio noto che fa la trap, per esempio, fa solo quello. Sarebbe una sfida troppo grossa per lui cambiare e fare un pezzo completamente diverso. Andrebbe contro i suoi follower. E succede veramente un disastro quando uno dei tuoi duecento, trecentomila fan comincia a dire "Che schifo". Se parte il domino è finita.
Forse dovevo chiedertelo prima, ma c'è un collegamento tra il nuovo mixtape e "No Tony", il pezzo di Mr. Oizo su cui rappi? Assolutamente. Mr. Oizo l'ho conosciuto bene a Los Angeles. Avevo fatto un progetto con lui in cui prendevo i suoi pezzi e li trasformavo in robe che funzionassero meglio nel club, e quando lui decise di fare l'album mi disse che mi voleva come collaborazione. Quando mi ha mandato il pezzo, si aspettava che facessi la produzione. E invece no. Ho detto "Come la vedrebbe se gli faccio sopra il rap? Secondo me è talmente sbagliato che diventa una figata". E infatti è diventato uno dei pezzi che ha fatto più parlare di quel cappero di album, nonostante ci fosse dentro Skrillex. Il più grosso ghignone, quelli dell'industria musicale, se lo sono fatti con il rap in italiano di quello là che fa il produttore. A quel punto la gente che ho attorno ha iniziato a dirmi, "Ah, ci stai facendo lo spoiler del fatto che stai lavorando al mixtape nuovo, la tua voce non la sentivamo da mò. Non puoi fare così! Dai fallo, dai fallo". Io dicevo che non avevo voglia, che mi faceva venire l'ansia, che scrivere mi faceva stare male. Poi a furia di batti, batti, batti anche Naomi Campbell ti dà la bernarda.
Dai, ti ho chiesto tutto. Ora son curioso di vedere come la gente prenderà il tape, ma soprattutto come lo prenderanno i ragazzini. Speriamo che la prendano! C'è un discorso da fare: il ragazzino, se non sei sui social e lui ti segue, non ti vede. A differenza di tanti anni fa in cui la gente faceva una ricerca, di quello che gli piaceva, adesso tu il cazzo glielo devi fare annusare per farglielo vedere. Devi buttarglielo proprio in faccia. Devi essere uno che gli fa vedere un sacco di roba sui social, e io non sono uno di quelli. Non ho tanti ragazzini che mi seguono, ma stanno aumentando. Prima ero in Centrale ed è arrivato un ragazzo di 21 anni...
Ok, ma pensa a quelli ancora più piccoli. Pensa ai sedicenni, ai quindicenni, ai quattordicenni. E ce ne sono tanti che potenzialmente potrebbero ascoltare il tape. Dici che ci arriveremo lì?
Eh, è questo che ti voglio chiedere! Secondo me sì. È logico che non sappiano chi sono, sarebbe impossibile. Però se gli fai sentire "Day N Night" potrebbero arrivarci. L'hanno sentita sicuramente a Foot Locker, almeno una volta.
Ok, prima di tutto fermiamoci. Provate a guardare la cronologia della musica che avete ascoltato recentemente sul telefono o sul computer o su qualunque cosa usiate. Ecco cosa dice il mio iPhone: Be Your Own Pet. Bloc Party. My Chemical Romance. CKY (lol, ve li ricordate?). Klaxons. Weezer. We Are Scientists. E potrei continuare. Allora, che cos'hanno in comune questi artisti a parte farmi sembrare una normie alle prime armi senza personalità? Sono tutti usciti negli anni Duemila, cioè quando io ero una giovane teenager. E che cos'ha questo a che vedere con i miei gusti musicali? Lasciate che vi spieghi.
La settimana scorsa, il New York Times ha pubblicato un pezzo intitolato The Songs That Bind, in cui il giornalista Seth Stephens-Davidowitz ha raccolto dati per spiegare ciò che lui vedeva come un salto generazionale nel gusto musicale (ispirato dal fatto che non riuscisse a trovare un accordo con suo fratello sullo status di capolavoro di "Born to Run" di Bruce Springsteen). Analizzando le tendenze di Spotify, ha notato che la popolarità certe canzoni era collegata a certi gruppi demografici che le avevano sentite da teenager. “Creep” dei Radiohead, per esempio, è più ascoltata da uomini che oggi hanno circa 38 anni.
“Il periodo più importante per la formazione del gusto degli uomini è tra i 13 e i 16 anni", ha scritto, aggiungendo che "per le donne è tra gli 11 e i 14". In altre parole, gli adulti non si appassionano davvero alla nuova musica, il che probabilmente spiega perché tutti i miei amici sono emo anziani che sbavano ancora dietro a Gerard Way. Tuttavia, c'è una piccola deviazione nel corso del decennio successivo. "Per uomini e donne, gli anni tra i 20 e i 24 influiscono la metà dei primi teen nella determinazione del gusto musicale da adulti", spiega Stephens-Davidowitz. Fino a qui tutto bene.
Ciò che questi dati non spiegano, però, è il perché. Va bene la conferma che i nostri sospetti sono fondati, cioè che il tuo migliore amico non si è ancora ripreso da quando Pete Doherty ha derubato l'appartamento di Carl Barât e la loro amicizia non è più stata la stessa, ma abbiamo bisogno di risposte. A 25 anni mi sento abbastanza aperta alle esperienze che mi circondano, forse anche più di quando avevo 15 anni, allora perché il mio cervello appare ermeticamente chiuso quando si parla di musica? Ho telefonato alla dottoressa Stephanie Burnett Heyes – lettrice di psicologia e ricercatrice post-dottorato della British Academy all'Università di Birmingham – per saperne di più.
Noisey: Ciao Stephanie! Allora, perché gli adulti sono così ossessionati dalla musica di quando erano adolescenti? Dr Stephanie Burnett Heyes: L'adolescenza è un periodo "socialmente sensibile", il che significa che è un periodo della vita in cui si è molto ricettivi verso le altre persone e idee – più che da adulti – quindi queste interazioni e idee tendono a restare. È molto difficile raccogliere prove scientifiche di ciò, ma è un'idea che è stata proposta negli ultimi due o tre anni nel campo della psicologia. È una cosa che stiamo ancora cercando di capire.
Un altro motivo ha a che fare con la cosiddetta "attività funzionale del cervello" – e queste teorie non si escludono a vicenda con quelle sociali. Quando gli adolescenti processano la stimolazione di attività di ricompensa – soldi, zucchero, qualcuno che rispetti che mostra rispetto verso di te – sembrano rispondere meglio di persone più vecchie e più giovani, e questo influenza le loro attività.
Quindi questo significa che più profondamente amiamo qualcosa più probabilità abbiamo di portarcelo dietro? Non è matematico, ma potrebbe essere una combinazione di queste forze.
Perché pensi che i gusti di chi alla nascita si vede assegnato il genere maschile si formino più tardi di chi si vede assegnato il genere femminile? Ogni cosa che arriva in ritardo di un anno per i ragazzi rispetto alle ragazze ha sempre a che fare con la pubertà. Sappiamo che gli ormoni della pubertà non influenzano soltanto i nostri corpi e organi riproduttivi – hanno un effetto anche sul nostro cervello. Influenzano la percezione e l'interazione con le persone. E questa è la prima ipotesi, quella più ovvia. Sarebbe interessante vedere se chi attraversa la pubertà più tardi rimane legato alla musica di quando avevano 16 anni invece che 14.
E perché pensi ci sia quell'ulteriore picco poco dopo i vent'anni quando si parla di gusto musicale? Mi piacerebbe vedere se questo picco varia a seconda delle esperienze: chi va all'università, chi lascia casa più tardi, a seconda dello status socio-economico, ecc. Perché potrebbe avere a che fare con l'andare in un luogo nuovo e incontrare nuove persone e rimanere circondati da nuove idee. Ma potrebbe anche essere un nuovo meccanismo cerebrale. Ci servirebbero più dati.
Pensi che i nostri gusti siano formati in altri modi durante l'adolescenza? Tipo non soltanto la musica, ma anche i film, il gusto nel vestirsi... La musica sembra un paradigma, non è vero? Le altre cose non sono così nettamente definite. Gli abiti, per esempio, sono molto costosi per un teenager, quindi ci sono altri fattori in gioco. Un'altra cosa ovvia da esplorare, però, sarebbero le credenze e le tendenze spirituali. Alcune preferenze ideologiche potrebbero formarsi nell'adolescenza perché è un momento in cui si è più aperti a idee spirituali e ideologiche, quel tipo di cose.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.
A Thom Yorke dava fastidio l'idea di essere una rock star ancora prima di diventare una rock star. “Mi faccio crescere i capelli / Voglio essere, voglio essere, voglio essere Jim Morrison" sputa con derisione in “Anyone Can Play Guitar”, un pezzo grunge-pop sprezzante e spinoso sul primo album dei Radiohead Pablo Honey. 25 anni dopo, quella posa combattiva e distaccata, come se la band avesse paura di farsi coinvolgere completamente dalle emozioni delle sue canzoni, è la prima caratteristica degna di nota dell'album. L'altra sono le sue dinamiche maliziose e nervose; canzoni come "Ripcord" e "Prove Yourself" esplodono improvvisamente con chitarre ululanti e iperdistorte perché, ehi, erano gli anni Novanta e lo facevano tutti. Pablo Honey conquista perché ora sappiamo che la band che l'ha creato sarebbe diventata qualcosa di straordinario meno di cinque anni dopo. C'era un indizio che faceva presagire quella trasformazione e, ironia della sorte, lo si trovava subito dopo aver premuto play sul disco.
“You” è quel tipo di canzone con cui dovrebbe iniziare ogni primo album di ogni gruppo rock, un intro drammatico alla pari di “Good Times Bad Times” dei Led Zeppelin, “Jenny Was a Friend of Mine” dei Killers o Lil Wayne che entra volando in Tha Carter II (sì, Lil Wayne è un gruppo rock). Rockeggia con più sicurezza rispetto al resto di Pablo Honey e il testo di Yorke, per quanto se lo si legge sembri una poesia scritta alle superiori, colpisce più forte delle sue critiche alle radio rock. Per questo bisogna ringraziare il tempo in 6/8, con quell'andamento ondeggiante che si sente nel valzer e nel folk quando si conta “1-2-3 1-2-3” invece di “1-2-3-4”. Questo ritmo è piuttosto comune ma acquista una certa fluida aggressività quando sposato alle chitarre distorte (vedi anche “Hexagram" dei Deftones). Anche la struttura di “You” è inusuale, e lascia esplodere i suoi versi tersi e brevi in jam strumentali sempre diverse. Poi c'è quel momento di climax quando Yorke improvvisamente si lascia andare a un lungo grido, molto efficace perché appare dal nulla. È evidente fin da un ascolto superficiale di “You” che anche da giovani i Radiohead erano in grado di riarrangiare una semplice canzone rock e renderla qualcosa di più avvincente di quanto potesse fare una band media. Ma è la composizione più profonda di "You" che indica la direzione che avrebbero preso i Radiohead, dato che qui per la prima volta usano i trucchi che avrebbero fatto propri negli anni successivi.
Il tentacolare riff centrale di Ed O’Brien suona strano, come un sorriso troppo largo. Si avviluppa attorno a una settima in Mi dominante, un accordo dissonante grazie all'inclusione di un tritono ma anche allegro perché è comunque un accordo maggiore. Inoltre, la progressione principale va da Mi maggiore a Mi minore in successione, il che significa che in termini musicologici oggettivi "You" fa ping-pong tra felicità e tristezza nel giro di pochi secondi. Questo mitiga il vago melodramma del testo di Yorke grazie a quel particolare inquietante giubilo associato all'interscambio modale e, se c'è una cosa che i Radiohead sanno fare, è comunicare una profonda malinconia tramite il modo mixolidio. Questa angustia viene frullata completamente grazie a una di quelle acrobazie ritmiche che sarebbero presto diventate il segno distintivo dei Radiohead. Ogni misura di "You" si conclude con una battuta che è di un beat più corta delle altre, finendo leggermente prima di quando il nostro orecchio se l'aspettasse. Più avanti canzoni come “Morning Bell” e “2+2=5” giocano con altri tempi leggermente fuori-schema senza renderli troppo espliciti.
Questi trucchetti di composizione, proprio come il resto di Pablo Honey, sono applicati più per vantarsi di saperli fare che per un vero motivo artistico, ma i Radiohead avrebbero poi imparato a gestirli al meglio nel resto della loro carriera. Per esempio, "Airbag" da OK Computer cattura l'esperienza di quasi-morte del suo protagonista con una melodia dall'andamento imprevedibile, mentre “15 Step” da In Rainbows trasforma il suo groove sobbalzante in 5/4 in un'espressione di ansia romantica. “Everything in Its Right Place” fa uso sia di interscambio modale che di tempi dispari, ed è forse una delle canzoni più particolari dei Radiohead. Questo tipo di direzioni artistoidi si sono viste per la prima volta in "You", e il fatto che la band abbai continuato a fare queste scelte oltre due decenni dopo dimostra che la canzone è stata una gran bella mossa d'apertura. "You" è un po' prog ma anche sentita, enorme ma ferita, e queste qualità sono diventate parte integrante del catalogo dei Radiohead da qui in poi. A volte è davvero buona la prima.
È anche interessante notare che l'unica canzone di Pablo Honey in grado di gareggiare con "You" in quanto a sofisticazione sia quella che chiude l'album. Con i suoi versi bossa-krautrock dall'andazzo cool e una melodia forte e malinconica, "Blow Out" è così tanto più stratificata delle canzoni che la precedono da sembrare fuori luogo. I Radiohead hanno continuato a scavare in quei solchi jazz-rock fino ad Amnesiac nel 2001. Anche allora, "Blow Out" è sabotata da queste chitarre impazienti, che dimostrano che la band non aveva ancora capito bene come mantenere un mood unico. Ma lei, insieme a "You", rappresenta una cornice di preveggenza in un album in cui la band sguinzaglia la propria grandezza soltanto in brevi sprazzi. Non può essere una coincidenza che queste due canzoni, insieme a "Creep", siano rimaste le uniche tracce di Pablo Honey sopravvissute in rare apparizioni nella setlist live dei Radiohead anche nel nuovo millennio. Forse "You” è speciale anche per loro.
La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey Canada.
C'è un po' di confusione su quello che Bad Gyal fa e rappresenta. Fondamentalmente, è una ragazza catalana che canta con l'autotune su basi che devono in egual misura al reggaeton e alle tradizioni dancehall e dembow, così come all'elettronica luminosa ridotta all'osso che alla Giamaica deve tanto di scuola Mixpak. Unisce quindi lingue e stili, Bad Gyal, felice di ballare e far ballare affermandosi ambasciatrice del perreo portoricano e del wine giamaicano. Questo frullone di stili e riferimenti ha fatto sì che si parlasse, noi compresi, di lei come regina di un po' di tutti gli stili e i generi qua sopra, con l'aggiunta della trap (colpa dell'autotune). Lei, in tutto questo, ha rilasciato interviste in cui ha dichiarato di non voler astrarre la musica dal contesto socio-culturale in cui nasce: "Ciò che faccio musicalmente non ha nulla a che vedere con la politica", ha detto quando l'abbiamo intervistata qualche mese fa rispondendo a una domanda sull'indipendenza catalana.
Quello che Bad Gyal sembra voler fare, invece, è fare musica che spacca e fa ballare. I suoi inizi erano marcati da una vocalità spudoratamente melodica che Pitchfork ha brillantemente paragonato ai gorgoglii di Young Thug. Parla come tanti altri di culi scossi, seduzioni da dancefloor, vestiti e soldi, Bad Gyal, ma lo fa con una fragile vibrazione acquosa nella voce che rende le sue parole, soprattutto all'orecchio di chi non parla spagnolo, un richiamo all'affascinante promessa di ignoto del fare serata. E questo fa ancora oggi, come faceva un tempo nel suo paesino sulla costa del Mediterraneo; solo, su scala molto più grande, sia a livello geografico che sonoro.
"Jacaranda", il suo ultimo singolo prima di questo Worldwide Angel, era forse il suo pezzo più riuscito: una dichiarazione d'intenti che affermava la sua volontà di fare le cose in grande. Il 2017 era el año del dancehall, le ragazze muovevano las nalgas, le chiappe, e Bad Gyal sarebbe andata fuera de España. Così è stato, con la stampa internazionale che le ha dedicato interviste e profili, e queste nuove canzoni celebrano il suo nuovo status di stellina extra-europea. Gli unici (minori) cambiamenti sono nei beat dei suoi producer, che hanno osato nascondere tra i loro pezzi parti di chitarra latineggiante (Dubbel Dutch su "Candela"), sporcizia iper-prodotta (DJ Florentino su "Blink") e brevi pause dall'incalzare del ritmo (Fakeguido e Paul Marmota su "Realize").
Per il resto Bad Gyal continua a fare quello che ha sempre fatto, cioè a cantare di quanto sia ok lasciarsi andare ai bisogni e ai capricci del proprio corpo e della propria mente. Siamo come a metà della metaforica serata che la sua carriera può rappresentare. Sono le due e la pista è piena di gente persa in un filastroccare di niñas che quieren tra e in gorgheggi di vita tutta alcohol, buena vida e mucho work. L'alba sembra lontana, ed è bello credere nella promessa di un after leggendario.
Worldwide Angel è uscito venerdì 23 febbraio per Puro Records e CANADA.
Ascolta Worldwide Angel su Spotify:
Tracklist:
1. Intro 2. Internationally 3. Tra 4. Yo Siguo Igual 5. Candela 6. Trust 7. Blink 8. Tu Moto 9. Realize
Quando ascoltai per la prima volta "Nove maggio" di Liberato mi convinsi immediatamente che quel pezzo sarebbe dovuto essere il futuro del pop italiano. "È la prima volta che sento un pezzo R&B così internazionale uscire dal Bel Paese", avevo scritto, auspicando un futuro in cui Liberato sarebbe potuto essere passato in radio sia da Zane Lowe su Beats 1 che da Albertino su Radio Deejay. A Zane non ci siamo ancora arrivati, ma intanto un primo passo fuori confine lo abbiamo fatto: il Sónar di Barcellona, uno dei più importanti festival di musica elettronica d'Europa e del mondo, ha appena annunciato che su uno dei suoi palchi salirà anche il misterioso artista/collettivo napoletano.
Il festival si terrà tra il 14 e il 16 giugno 2018. Forse allora su Liberato sapremo qualcosa di più, o forse anche quel concerto sarà l'occasione per rivelare qualcosa di più sul progetto, come è stato all'ultimo Club to Club con la prima performance di "Me Staje Appennenn' Amò".
Nel frattempo, gasatevi con gli altri annunci che il festival ha condiviso stamattina: Alva Noto e Ryuichi Sakamoto (che abbiamo appena intervistato) con un nuovo live set che eseguiranno solo tre volte nel mondo, il celebre sound system DESPACIO di James Murphy e dei 2manydjs, le sperimentazioni agghiaccianti dei Demdike Stare, la house music innestata sull'R&B della coreano-americana Yaeji, la gelida techno di Objekt, le felici declamazioni deliranti di Jenny Hval, l'elettronica fluida e iperrealista di SOPHIE e altri ancora.
I nuovi annunci si vanno ad aggiungere a una line-up già più che ricca: tra i nomi coinvolti ci sono i Gorillaz, Yung Lean, Wiley, Richie Hawtin, LCD Soundsystem, Thom Yorke, DJ Harvey, Bonobo, Laurent Garnier, Chino Amobi, Laurel Halo, Fatima Al Qadiri, Kode9, Little Simz, Ólafur Arnalds, Diplo, Helena Hauff, Lorenzo Senni e molti altri.
Tutti i dettagli della line-up sono sul sito del festival, e a questo link potete acquistare i vostri biglietti. Consigliamo agli organizzatori di stringere una partnership con l'aeroporto di Capodichino, così da rendere la Barceloneta un po' più simile a Mergellina almeno per qualche giorno.
Flea ha pubblicato su TIME una lettera aperta in cui racconta la sua dipendenza dagli oppiacei. Il bassista dei Red Hot Chili Peppers parla delle droghe come di una costante nella sua vita, analizzando la sua esperienza in maniera schietta e sincera. Flea dice di aver cominciato a drogarsi da ragazzino: "Ho cominciato a fumare erba quando avevo undici anni, e poi ho continuato a sniffare, bucarmi, fumare, calarmi cose e gestire la scimmia che avevo sulla schiena per tutta la mia adolescenza e i miei vent'anni".
Flea spiega anche come l'unica cosa che sia riuscita a fargli controllare la sua dipendenza sia stato diventare padre.
Ho visto tre dei miei più cari amici morire per cause legate alla droga prima che compissero 26 anni, e anch'io ci sono andato vicino qualche volta. Diventare padre mi ha fatto provare un fortissimo desiderio che, alla fine, ha creato in me un senso di autoconservazione. Nel 1993, a trent'anni, ho finalmente capito che le droghe mi stavano distruggendo e si stavano portando via la mia forza vitale. Le ho eliminate, per sempre.
Il bassista ha inoltre spiegato che non si procurava gli oppiacei da spacciatori di strada. Ricordando una delle prime volte che prese ossicodone dopo essersi rotto un braccio facendo snowboard, ha scritto: "Quando ero un ragazzino, dopo ogni visita il mio medico mi dava una caramella. Poi i medici hanno cominciato a darmi ricette".
La lettera si conclude con qualche parola diretta all'industria farmaceutica, a cui Flea chiede di fare qualcosa per controllare gli abusi dei prodotti da loro messi sul mercato. "È ovvio che a qualsiasi prescrizione di oppiacei dovrebbe seguire una visita ulteriore, un controllo e, dovesse sorgere una dipendenza, una soluzione chiara e un sentiero verso la riabilitazione". Leggi la lettera per intero, in lingua originale, a questo link.
Fortunatamente l'Austria non produce solo grandissime teste di cazzo razziste, ma anche dei capoccioni multiformi che con la loro concezione di musica elettronica astratta e nello stesso tempo “molecolare” (cioè proprio collegata a discorsi fisico-matematici e per questo naturali, perché la natura è chimica) sono in grado di aprire la mente e abbattere ogni frontiera.
È il caso del nostro Stefan Juster a.k.a. Jung An Tagen, militante nel collettivo audiovisivo Virtual Institute Vienna: lo avevamo lasciato con lo scoppiettante Das Fest der Reichen (che tra l’altro per quanto ve ne possa fregare possiedo in vinile) e ora ritorna con questo disco a perfezionare la formula del precedente. Sempre supportato da Editions Mego, che da sempre ci propone dischi che pendono più dalla parte della qualità che delle mode (a parte qualche eccezione che conferma la regola), stavolta Stefan si dà a un certo tipo di “accelerazionismo cinetico”. Possiamo usare quella parola senza bestemmiare perché qui, finalmente, non si scimmiotta nessuno, ma si cerca un angolo di paradiso elettronico dove invece di solito regna la posa.
In punta di piedi Stefan ci fa entrare dentro le forme invisibili di un DNA artificiale che però, guarda caso, è il nostro. Siamo tutte macchine quindi? Siamo tutti oggetti? Come recita la seconda traccia, “How is that possible” che ancora campiamo? Misteri irrisolti che nella loro aleatorietà ci riportano alla sensazione iniziale di un big bang tutto da esplorare.
Il disco, insomma, è una piacevole conferma e potrebbe portare il nostro Stefan verso un pubblico molto meno di nicchia, oserei dire anche più pop nell’accezione nobile del termine. Se tutto il pop si convertisse a roba come questa forse finalmente ci libereremmo dell’indie. Ma non divaghiamo. Abbiamo detto che è una conferma, ma nessuno è perfetto. Quella di questo disco è che a volte il nostro si sofferma ancora sulla tecnica dello Shepard tone, che a nostro parere il suo collega d’etichetta Marcus Schmickler aveva già sviscerato in passato con eccellenti risultati, mentre qui nulla si aggiunge e nulla si toglie. Ma è un peccato veniale, considerato che nell’elettronica moderna la vanagloria è ancora di casa, qui invece c’è solo ciccia; e la ciccia, a volte, se è buona si può pure bruciare.
Agent Im Objekt è uscito il 23 febbraio per Editions Mego.
Ascolta Agent Im Objekt su Spotify:
TRACKLIST: 1. 20:02 [3] starts logging #public 2. 20:03 HOW IS THAT POSSIBLE? 3. 20:03 IT WAS TOTALLY INVISIBLE 4. 20:32 8°13'03.6"N 16°21'35.1"E 5. 20:36 [3] is now known as 0 6. 20:37 ... (idle for 38mn) 7. 21:14 IT’S BURIED OUT THERE 8. 22:53 [0] sets mode 9. 22:54 ... (layer two) 10. 23:02 NINE SECONDS LOST 11. 23:08 THIS WAS THE LAST MESSAGE 12. 23:59 [0] off (Ping timeout: 2sec)
Nel 1978, il punk stava attraversando una crisi d'identità. A gennaio i Sex Pistols erano implosi durante un tour americano, lasciando il punk orfano della sua band più popolare. Il mainstream americano non aveva abbracciato il punk dopo l'eruzione del 1977, nonostante la spinta di marketing delle etichette discografiche che si erano aggiudicate Pistols, Clash, Ramones e tanti altri gruppi punk dalle voci nasali e chitarre distorte. Il punk era fiorito anche fuori dall'underground nel Regno Unito, ma nel '78 la scena si stava già frammentando grazie a un flusso di nuove band – alcune delle quali con ambizioni commerciali, altre semplicemente stimolate dalla teoria del DIY – e a una rapida mutazione del suono punk stesso.
John Lydon dei Pistols ha formato un nuovo gruppo, i Public Image Ltd., e, contemporaneamente ad altri pionieri del post-punk come Joy Division e Wire, si è messo a sperimentare con il DNA del punk, tagliandolo con qualunque cosa gli venisse in mente dall'art-rock ai sintetizzatori al noise al dub. Dalla parte opposta, grevi formazioni Oi! come gli Sham 69 e collettivi anarcho-punk senza compromessi come i Crass hanno pubblicato i loro album di debutto nel '78, proponendosi di ridefinire il punk a modo loro. Così il punk si contraeva, si espandeva e si auto-decostruiva in quell'anno glorioso, mentre un sottogenere più discreto si introduceva umilmente nella mischia. Nonostante non si sia distinto come entità separata fino a qualche tempo dopo, il pop-punk si è senza dubbio formato nel 1978.
“Il punk è in declino, è morto!" ha dichiarato il frontman dei Buzzcocks Pete Shelley nel maggio del '78, come riporta il libro di Tony McGartland Buzzcocks: The Complete History. La frase si trova in un'intervista sul suo gruppo, il che la rende un po' poco credibile visto che i Buzzcocks erano un gruppo punk e se la stavano cavando piuttosto bene. Un anno prima avevano pubblicato il primo disco DIY della storia del Regno Unito, un EP intitolato Spiral Scratch, e da quel momento erano finiti su tutte le classifiche e su tutti gli schermi TV. Non è difficile capire il perché. Mentre i Sex Pistols ringhiavano e i Clash recitavano i loro sermoni, i Buzzcocks cantavano d'amore. I loro primi due album, Another Music in a Different Kitchen e Love Bites—entrambi usciti nel ’78—erano veloci e potenti come quelli dei loro contemporanei. Tuttavia, invece di trattare i temi preferiti dai punk, quelli della violenza e della politica, brani come “Fiction Romance”, “I Don’t Mind”, “Ever Fallen in Love with Someone (You Shouldn’t’ve)” e “Just Lust” si ispiravano alla confusione ormonale e all'angoscia dei giovani adulti.
La voce acuta e melodica di Shelley distava anni luce dall'acidità di Lydon o da quella roca di Joe Strummer dei Clash. I punk ai tempi usavano condannare l'aristocrazia rock degli anni passati, ma quando Shelley prese per la prima volta in mano una chitarra a quindici anni il suo istinto lo portò a imparare il canzoniere dei Beatles – e questa ispirazione spiccava negli inni all'angoscia adolescenziale dei Buzzcocks. Non si distanziava molto dai Ramones, il cui primo album del 1976 è stato un esempio per tutto il pop-punk. Ma anche quando scrivevano canzoni d'amore, i Ramones amavano arricchirle di riferimenti sanguinolenti da film horror e attitudine da teppista di strada. Il dolore è una componente fondamentale del punk – ma invece di cantare di come procurarlo, Shelley si dipingeva vulnerabile, dalla parte di chi lo subiva.
I Buzzcocks non erano gli unici punk nel 1978 a non provare vergogna per il proprio amore per i Beatles – né per esprimerlo in musica. In un'intervista con il New York Rocker quell'anno, Billy Idol dei Generation X confessava: "Quando avevo sette anni ritagliavo tutte le foto dei Beatles dai giornaletti. Penso che sia un modo per raggiungere il pubblico". Con questa frase voleva difendere il suo diritto di apparire in svariati giornaletti britannici dopo l'uscita dell'album omonimo dei Generation X, pubblicato in marzo '78. Da "Ready Steady Go" a "Youth Youth Youth", l'album sprizzava arroganza postpuberale e ritornelli irresistibili – una celebrazione dell'essere giovani, arrapati, arrabbiati, affamati e pieni di meraviglia. Non includeva una fedele e reverenziale cover dei Beatles, che i punk avrebbero snobbato; andava addirittura oltre, includendo una fedele e reverenziale cover di una canzone solista di John Lennon, “Gimme Some Truth".
Evidentemente, i Generation X non stavano cercando di distruggere lo status quo del rock come il punk sosteneva di voler fare. “No Elvis, Beatles, or the Rolling Stones / in 1977”, cantavano i Clash in “1977”. Ma in “Ready Steady Go”, Idol cantava: “I was in love with the Beatles / I was in love with the Stones / I was in love with Bobby Dylan / Because I’m in love with rock ’n’ roll”. E con questo, un altro pezzo del puzzle pop-punk si collocava al proprio posto: un aperto rispetto per la tradizione e l'arte della scrittura pop invece di un rifiuto un tanto al chilo, spesso ipocrita, di tutto ciò che era venuto prima. "Penso che dobbiamo formare una nostra cultura, la cultura di oggi, e penso che cose come il punk rock stiano aiutando in tal senso", dichiarava Idol al New York Rocker. “Ma lo colleghiamo pur sempre a qualcosa del passato".
Lo spirito ribelle del punk negli anni Settanta, per quanto ce ne fosse bisogno, aveva un lato negativo. Anche quando usciva dalle bocche di giovani pelle e ossa come Lydon o Strummer, il punk era comunque pieno della stessa arroganza macho del rock. Il punk era musica mascolina, fatta quasi interamente da uomini, e sfogava rabbia maschia con violenza e indignazione. In quel senso, non era troppo diversa da molta della cultura rock che sosteneva di voler rovesciare. Il pop-punk mostrava una nuova strada, e nella classe del '78 i più sovversivi erano gli Undertones. Formatosi a Derry, Irlanda del Nord, il gruppo era cresciuto durante l'epoca del conflitto civile irlandese conosciuto col nome di Troubles. A Dublino, gli Stiff Little Fingers cantavano molto della violenza e della tragedia dei Troubles, ma gli Undertones presero un'approccio opposto. Il loro primo singolo del 1978, “Teenages Kicks”, non era soltanto uno dei più letali pezzi bubblegum punk mai scritti, ma sfoggiava anche un netto rifiuto di abbandonarsi a battimenti di petto o sermoni che ci si aspettava da una band punk Nord Irlandese a quei tempi.
“Le canzoni sono molto più personali rispetto a commentare una situazione generale come i Troubles", dichiarava il chitarrista e songwriter principale degli Undertones John O'Neill in un'intervista con il Melody Maker nel 1978. E infatti “Teenage Kicks” era un'opera di puro cuore, scaldata dalla tremolante voce tenorile del cantante Feargal Sharkey. Le chitarre erano ruvide quanto quelle degli Sham 69, ma il contrasto tra la crudezza del punk e la sensibilità del pop rendeva "Teenage Kicks" un classico pop-punk tra i più forti e d'impatto. Gli Undertones, dall'apparenza goffa, con i maglioni di lana e i capelli da scolaretti, non aderivano allo stile punk da stereotipo. "Non è tanto stare via da casa il problema", O'Neill rispondeva al Melody Maker che chiedeva come mai al gruppo non piacesse andare in tour. "È stare lontani dalle nostre fidanzate".
I gruppi pop-punk del 1978 non erano necessariamente apolitici, né avevano paura di offendere potenziali fan prendendo posizioni particolari. Quell'anno, sia i Buzzcocks che i Generation X hanno suonato al Rock Against Racism, una serie di concerti di alto profilo organizzati per contrastare l'ascesa del nazionalismo bianco all'interno della scena punk e in tutto il Regno Unito in generale. La polemica non veniva particolarmente naturale alla maggior parte dei pop-punk, perlomeno non quando si trattava di fare musica. Come spiegava Idol al New York Rocker, “Non penso che tu possa essere come un partito politico e allo stesso tempo essere un gruppo rock and roll". È una dichiarazione discutibile, ma dà un'idea di quanto i gruppi pop-punk non volessero lanciare slogan.
Buzzcocks, Generation X, e Undertones erano senza dubbio pop-punk secondo la definizione odierna del termine, ma nel 1978 la distinzione non era così netta. Molti gruppi punk dell'epoca non disdegnavano una o due canzoni pop – a volte ironicamente, altre sul serio. I Damned hanno coverizzato "Help!" dei Beatles, mentre l'apologista pop dei Clash, Mick Jones, ha scritto la solare canzone d'amore “1-2 Crush on You”. Allo stesso modo, i Vibrators avevano “Sweet Sweet Heart” e i Jam svoltavano verso il romanticismo con “I Need You (For Someone)”. Gruppi come i Rezillos e i Lurkers si avvicinavano addirittura di più all'area pop punk pur rimanendo molto punk. Due delle loro canzoni uscite nel 1978—“(My Baby Does) Good Sculptures” da Can’t Stand the Rezillos e “Jenny” da Fulham Fallout dei Lurkers—cullavano melodie amorose mentre scalciavano con piglio punk.
Molti dei fiorenti gruppi pop-punk nel 1978 sconfinavano nel power-pop, un genere parallelamente in crescita al tempo. Ma il power-pop era iniziato prima ed era un fenomeno più americano, con band di metà anni Settanta come i Nerves di Los Angeles o i Milk 'n' Cookies di New York, che scrivevano tormentoni minimalisti che si rifacevano all'età dell'oro del rock'n'roll anni Cinquanta e Sessanta. Gli Stati Uniti avevano ancora i Ramones, fondatori del pop-punk, e il loro album del 1978 Road To Ruin continuava a dimostrarlo allontanandosi dal suono più ruvido dei loro primi tre full-length. “Questioningly” era una ballata disperata e scintillante, e "Don't Come Close" rimpiazzava l'assalto degli ampli a 11 con trilli di chitarra.
Ma un'altra band americana nel frattempo ha dato l'assalto al trono del pop-punk. I Dickies, provenienti dalla San Fernando Valley, hanno pubblicato il loro primo album The Incredible Shrinking Dickies quello stesso anno. Come i Rezillos dall'altra parte del mondo, i Dickies erano ossessionati dalla cultura pop e dall'assurdismo più che dall'amore e dal romanticismo. The Incredible Shrinking Dickies contiene canzoni buffe e bizzarre come “Walk Like an Egg” e “You Drive Me Ape (You Big Gorilla)”, dotate di ritornelli al fulmicotone e una voce provocatoria ma leggera. I Dickies chiamano il proprio stile, scherzando, “easy listening punk” in un'intervista su Sounds nel 1978. Ma, col senno di poi, era puro pop-punk e gettava luce su un altro lato di questo sottogenere: un lato spastico, non-romantico, totalmente nerd. Si stagliavano nettamente e coraggiosamente tra i loro contemporanei della scena punk di LA come Black Flag, Circle Jerks e Germs, che sono andati invece a ingrossare la marea crescente dell'hardcore.
Non molto distante da casa dei Dickies, a Manhattan Beach una band punk sconosciuta stava provando il materiale che sarebbe andato a comporre il suo primo disco nel 1979. Si trattava di un singolo autoprodotto contenente “Ride the Wild”, una canzone irresistibile che faceva già intuire la grandezza che le sarebbe seguita. Si chiamavano Descendents e sono diventati i fari del pop-punk nel corso degli anni Ottanta, quando la scena punk era dominata dall'hardcore, riuscendo a costruire un ponte tra le due cose. Il pop-punk è stato finalmente in grado di rompere le maglie del mainstream in maniera significativa grazie perlopiù ai Green Day e al loro album del 1994 Dookie—e il suono dei Buzzcocks e degli Undertones è tornato a galla, specialmente tra i compagni di etichetta dei Green Day su Lookout! Records: Queers, Screeching Weasel e Mr. T Experience. Verso la fine del millennio, una pletora di gruppi che va dai Teenage Bottlerocket agli Ergs! aveva assorbito e riflesso questa amalgama di pop-punk vintage tra USA e UK, aggiornandola alle turbe sessuali e sociali—e nel caso dei Green Day, anche politiche—degli adolescenti del nuovo millennio.
Anche durante la sua fase formativa del 1978, il pop-punk non era semplicemente una versione più leggera e digeribile del punk. Era altrettanto ribelle, solo che si ribellava contro il punk stesso: il suo nichilismo, la sua posa da cattivi ragazzi, il suo disdegno per la melodia, lo sminuimento dei sentimenti e, soprattutto, il suo prendersi troppo sul serio. In un certo senso, il pop-punk è stato una forma di post-punk—non sperimentale né avanguardista, ma abbastanza coraggioso da esprimere innocenza, frivolezza, romanticismo e divertimento. Alcuni pop-punk erano studenti d'arte; altri erano ragazzi di strada. Alcuni volevano diventare rock star mentre altri volevano andare a casa presto. Ciò che univa questi involontari pionieri era il desiderio di vedere il punk crescere e superare la sua ristrettezza e auto-negazione per raggiungere uno stato più universale. E, naturalmente, di cantare qualche bella canzone d'amore nel frattempo. "L'unica cosa che ho contro il punk è questa idea della mancanza di emozioni", ha detto Billy Idol nel 1978, secondo il libro di George Gimarc Punk Diary: 1970-1979. “La musica dovrebbe essere piena di emozioni". Nel '78, il pop-punk è riuscito a trionfare proprio in questo.
A vederlo, non diresti mai che Jamal Moss per campare faceva il gigolò. Con quel faccione dall’espressione gentile, quei dread enormi e un po’ di panzetta, ha più del gigante buono, magari del santone, certo non di quello che a vent’anni rimorchiava facoltose donne bianche ballando nei locali di Chicago perché non aveva un tetto sopra la testa. Oggi, più o meno quarantacinquenne, Moss pare essersi lasciato alle spalle la vita di stenti, ma continua a credere nella sua missione musicale di creare un mondo migliore attraverso la house chicagoana, nonostante il suo stile di vita tendenzialmente eremitico di persona che esce di casa tre volte l’anno.
The Red Notes non è altro che l’ennesimo passo in avanti del suo percorso votato all’amore inclusivo, che come tutti i precedenti si compie di notte, sui dancefloor, attraverso un ammasso di corpi sudati che si muovono a ritmo dei suoi beat. Pezzi sbilenchi e tutti tondeggianti che hanno titoli come “Youth Brainwashing And The Extremist Cults” o “Awake And Energize” non fanno mistero del pensiero alle spalle di Hieroglyphic Being e delle sue infinite produzioni, definite a seconda dei casi (e delle droghe assunte dal giornalista di turno) outsider house, cubismo ritmico, be-bop cosmico o afrofuturismo. Che poi, quando il Guardian glielo ha chiesto, ha risposto che quelle sono definizioni da intellettuali e a lui non gliene frega una mazza di finire ai panel di discussione degli studiati, nonostante con i soldi delle ricche signore bianche si sia pagato l’università.
E quindi avanti a beat storti e accoglienti, a glitch lo-fi di periferia e pattern ipnotici e seducenti. Il mix concettuale tra lo spiritualismo della civiltà delle piramidi e la contemporaneità urbana continua un colpo di cassa dietro l’altro, questa volta spogliato di quelle ruvidità che tradiscono la passione di Moss per i suoni industriali degli anni Ottanta, ma fatto di sole pareti lisce. Non c’è violenza, non c’è rabbia, non c’è foga, nella musica di Hieroglyphic Being manca qualsiasi sentimento negativo, c’è solo la catarsi di un beat che vuole andare in profondità, farti abbandonare qualsiasi limite corporeo. Nessuna etichetta, nessuna origine, nessun reddito annuo lordo, non può esistere una barriera all’ingresso diversa dal buttafuori del locale, perché dentro, sulla pista, qualsiasi confine scompare, e il mondo per un attimo è un posto migliore.
The Red Notes è uscito il 23 febbraio per Soul Jazz.
Ascolta The Red Notes su Spotify:
TRACKLIST: 01. Youth Brainwashing And The Extremist Cults 02. The Melody Lingers 03. The Seduction Syndrome 04. Awake And Energize 05. Video Jazz 06. The Red Notes 07. The Emotional Listener 08. The Red Notebook 09. The Tone Bather