Enrico Ruggeri ha finalmente resuscitato la sua prima band, i pionieri punk Decibel. Il nuovo singolo "My My Generation" è uscito venerdì scorso, perché praticamente non so se lo sapete ma è il 2017 e sono passati quarant'anni dal 1977, e il 1977 è stato "l'anno del punk" no? Anche se ci tengo a precisare, solo con lo scopo di irritare Enrico "Punk Prima Di Te" Ruggeri, che secondo Discogs il primo singolo dei Decibel è uscito nel '78.
Ma come suona questo ritorno? In poche parole: incredibilmente simile alla sigla di "Robin Hood" cantata da Cristina d'Avena. BOOM! Vi scoppia la testa? Sentite con le vostre orecchie.
Rap. Una storia italiana è il nuovo libro di Paola Zukar, che ha trasformato la sua passione per il rap in un lavoro, da principio come redattrice di Aelle, poi come a&r per Universal e infine, attraverso la sua Big Picture Management, come manager di Fabri Fibra, Marracash, Clementino e altre pietre angolari nella storia del rap italiano. In questo estratto l'autrice offre una riflessione sul rapporto complicato tra il rap e la cultura pop in Italia.
Le strade di Genova, nel 1984, erano molto lontane dalle strade di Los Angeles o di New York, ieri come oggi, ieri più di oggi. Non esisteva quell'immaginario, non esistevano quei colori, quella musica, quegli atteggiamenti, quelle mosse, quelle novità, tutte assieme. Non esisteva niente di tutto ciò, ma io volevo a tutti i costi farne parte, razionalmente non saprei perché, ma avendo sedici anni, quell'avverbio non significava davvero niente per me, mentre tutto quel mondo sì. E non solo avrei voluto farne parte, ma avrei anche voluto farlo conoscere a più gente possibile, per far diventare anche Priaruggia, il mio quartiere, come il film Breakin', anche Genova, anche l'Italia.
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Oggi, qui in Italia, il paradosso del fenomeno rap è che siamo in un Paese che ha accettato il rap suo malgrado, forse per noia o per mancanza di altre novità, ma che in fondo non lo vuole per come è o per come dovrebbe essere, proprio per una ragione di natura strutturale, storica, genetica. Non lo voleva per com'era e ancora non lo vuole per come dovrebbe essere. Ribelle e «fastidioso», controverso e parallelo ai canoni della cultura dominante, su una strada tutta sua. Il peggiore difetto dell'Italia, per me, è essere un Paese fortemente ipocrita e falso, dove l'apparenza è tutto e la verità è un'altra. E a nessuno conviene veramente dirla, spiegarla o raccontarla, perché non ci guadagni niente, anzi... L'algoritmo è tutto qui. Ecco perché il rap è arrivato nei Novanta tutto baldanzoso e «contro» per poi venire brutalmente rigettato dalla cultura dominante e anche, paradossalmente, dall'underground. Anche per questo motivo, da noi, il percorso della localizzazione del rap, la sua italianizzazione, è stato molto più lento e tortuoso rispetto ad altri Paesi europei, direi quasi sofferto, al di là di alcune oggettive difficoltà di «traduzione» e di suono delle parole.
L'Italia, quella vera, vuole il rap ma solo nelle sue forme più digeribili, più assimilabili e presentabili, più innocenti e amichevoli, quando invece la sua natura è quella di essere scomodo, discusso e sempre nuovo, originale, tecnicamente irreprensibile. L'Italia «vera», quella che esiste nei bar, nella provincia, nelle parrocchie, fa davvero molta fatica a decodificare, a interpretare, a tradurre, ad andare oltre la prima impressione delle cose, della storia, dell'arte, della realtà. È un Paese di pance, più che di teste. Quindi come ha potuto crescere ed espandersi il rap pur mantenendo in qualche modo una propria identità, al di là degli scivoloni verso le lusinghe della cultura musicale italiana? Lentamente e con grandi difficoltà nonché attraverso mutazioni genetiche, non sempre piacevoli.
Esistono delle ragioni per questa storica e innata diffidenza: l'Italia, oggettivamente, è un Paese tradizionalista, non moderno, basta guardare cosa la differenzia oggi da altri Paesi europei e mondiali. L'hip hop di per sé è nuovo, mai uguale a se stesso anno dopo anno, difficile da catalogare o assimilare, sempre pronto a rimettersi in discussione e reinventarsi. Esattamente il contrario dell'Italia e degli italiani veraci, quelli che sembrano nascosti ma sono invece una maggioranza ben determinata a lasciare le cose come stanno, come stavano.
Sono quei milioni di persone che guardano il Festival di Sanremo ogni anno. Vecchi anche quando sono giovani, provinciali anche quando stanno in città. Anche in Italia però è filtrata lenta ma inesorabile la contemporaneità, che lo si volesse o meno: arriva Internet, arrivano i voli low-cost, arrivano pesantemente le multinazionali, l'IKEA, i brand stranieri, i social network, arrivano le droghe sintetiche e tutti quegli elementi che cambiano una realtà sociale, mentre nel frattempo in questa stessa realtà c'è la decadenza dei Novanta che degrada nella crisi economica degli anni Zero, c'è la noia, c'è una musica pop italiana piuttosto inerte e stantia, c'è un'identità culturale tutta frastagliata e sospesa nel vuoto di questi vent'anni che passano da un Drive In a una Domenica In. Con questi fattori in gioco, alla fi ne qualcosa nella barriera deve cedere. Se non ci fosse stato Internet, questa nuova ondata del rap italiano nel mainstream non ci sarebbe stata. Ieri come oggi, stesso discorso con la trap. Un album come «Mr. Simpatia»(2004) di Fabri Fibra ha spinto sull'acceleratore e ha funzionato da catalizzatore per quello, perché a quell'epoca Internet era un contenitore in cui si potevano davvero trovare proposte alternative a quelle del circuito musicale standard. E infatti «Mr. Simpatia» era ed è tuttora un'anomalia nella macchina della musica italiana. Un nuovo canale di distribuzione, per un progetto così, era indispensabile.
Ma in dieci anni sono già cambiate molte cose: ormai anche la musica in Rete strizza pesantemente l'occhio alla musica del circuito tradizionale, la imita, sia nel rap che in altri generi... Non è più così coraggiosa perché su Internet ci sono arrivati praticamente tutti quelli che una volta ne erano fuori. Ed è questa maggioranza lenta e grassa come un blob che decide ancora una volta con il telecomando in mano, come se anche Internet fosse schiava dell'Auditel, dei grandi numeri. Anche in Rete sono arrivati i soldi e quindi le leggi del marketing si applicano anche qui, come in altri circuiti mediatici tradizionali italiani. La differenza di Internet sta però nel fatto che lì non ci sono i vecchi editori italiani a scegliere cosa dobbiamo fruire. Semmai questi selezionano ancora a monte, nei media tradizionali, e poi a valle, su Internet, la gente ricade sulle scelte di cui sopra. Ma non sempre la direzione è in questo senso: alle volte il senso si inverte e qualcosa parte dal basso. Tutti i media outlet sul web sono di multinazionali estere localizzate sul nostro territorio: Twitter, YouTube, Apple Music, Spotify ecc. La rappresentanza italiana non decide, non sceglie: segue.
Oggi è difficile inventare qualcosa di veramente nuovo perché siamo saturi e perché l'Italia tenta sempre di inglobarti con le sue regole e i suoi meccanismi. La frase cardine di 1992, la serie di Sky, era: «Illusione, delusione, collusione». Una dinamica che si applica ovunque qui da noi. Dopo aver creduto di poter cambiare il mondo, ti rendi conto che stai combattendo una guerra troppo grande e finisci per cedere, unendoti al nemico. L'Italia, con la sua mentalità tradizionalista, è decisamente un osso duro. Si capisce presto quello che rende e quello che non rende: rende essere addomesticati, non rende essere coraggiosi e solitari perché magari, se conviene, ti la- sciano entrare anche a te nel pollaio e ci puoi stare comodo anche tu. Difficile lasciare crescere qualcosa per quello che è, accettarlo, lasciarlo esprimere. La cultura dominante italiana mangia la sotto- cultura e non lascia niente, se ne appropria come se fosse sempre stata sua, se le interessa. E la nostra cultura dominante ha anche un forte lato oscuro, mai davvero risolto: quello che rispetta e teme di più «i veri cattivi» (i villains) mentre punisce gli «anti-eroi» (gli underdog), quando nella cultura anglosassone accade l'esatto opposto: la cultura dominante inglese e americana prende in prestito dei pezzi di sottocultura e ne rende merito, lasciando crescere quelle nicchie come bacini dai quali attingere nei momenti di bisogno. E l'anti-eroe è amatissimo perché incarna, talvolta meglio dell'eroe, il sogno americano. In Italia non esistono delle nicchie in grado di autoalimentarsi e di sopravvivere, le sottoculture spariscono perché il raggio d'azione è troppo piccolo e finiscono per farsi comprare dalla cultura dominante o per soffocare per asfissia.
Il mercato è uno solo, piccolo, asfittico, il resto è mancia.
Rap. Una storia italiana è edito da Baldini&Castoldi ed è disponibile in tutte le librerie, online e offline.
Nel 2015, Dave Grohl si ruppe una gamba cadendo da un palco in Svezia. In caso non ve lo ricordaste, ecco qua una testimonianza video:
Dopo essersi fatto bendare la gamba, Grohl mantenne la promessa di ritornare sul palco e finire il concerto, anche se da seduto. Il suo infortunio, però, fu molto importante per i Foo: appena due settimane dopo avrebbero dovuto salire sul palco di Glastonbury da headliner, ma furono costretti ad annullare, perché la capacità di Grohl di fare quella cosa che fanno tutti gli headliner di Glastonbury di scendere dal palco e andare a stringere le mani al pubblico per poi essere prelevati con la forza dalla security era stata sfortunatamente compromessa.
Ma questo già lo sapete. "Ti sembra una notizia?" mi sembra di sentirvi sbraitare. Ve la do io una notizia: questo weekend, i Foo Fighters sono stati annunciati come headliner del sabato di Glastonbury 2017, presumibilmente per recuperare il concerto mancato del 2015. Ma nel 2017, questa scelta non ha alcun senso. Non pubblicano niente di nuovo dal 2014. Le uniche persone che apprezzano i Foo Fighters sono quelle che li apprezzavano dieci anni fa e, per quanto stiano ancora indossando le stesse felpe dei Foo Fighters puzzolenti che indossavano allora, questa gente non potrà venire tutta a Glastonbury. Quindi l'unico motivo sensato per questo avvenimento è il seguente:
La rottura della gamba di Dave Grohl nel 2015 non sarebbe mai dovuta avvenire e ha creato uno strappo nel continuum spazio-temporale scatenando una catena di eventi che hanno portato il mondo a diventare il gigantesco mucchio di mondezza in fiamme che è adesso.
Pensateci bene. L'estate del 2015 era un periodo abbastanza sereno. Ma poi, il 12 giugno 2015, Dave Grohl si è rotto una gamba. Quattro giorni dopo, il 16 giugno 2015, Donald Trump ha annunciato la sua nomination come possibile candidato del partito repubblicano alla Presidenza degli Stati Uniti. La mia teoria, di conseguenza, è la seguente: se Dave Grohl fosse rimasto in piedi su quel palco svedese, Bernie Sanders ora sarebbe il Presidente. La Brexit non sarebbe mai avvenuta. Moonlight avrebbe comunque vinto gli Oscar perché certe cose sono bellissime in ogni dimensione parallela. [E noi forse ci saremmo risparmiati la piaga dei Rockin' 1000, n.d. Redazione Noisey Italia.] Ergo, la gamba di Grohl custodisce il segreto del tempo.
Quindi, quando i Foo Fighters saliranno sul Pyramid Stage il 24 giugno 2017, finalmente chiudendo il cerchio del destino, si ripristinerà l'ordine? O lo strappo nel continuum spazio-temporale continuerà ad allargarsi? Ci ritroveremo con Piers Morgan al posto di Primo Ministro UK? A essere sinceri, forse no. Forse rimarrà tutto uguale, forse lo strappo ha strappato tutto lo strappabile. Vin Diesel è una pop star adesso, per dire, quindi non saprei proprio cos'altro potrebbe succedere.
"Abandon è un esperimento che ha come obiettivo la ricerca di nuovi modi per pubblicare musica, video e raccontare storie. Parla del modo in cui passiamo il nostro tempo sulla Terra, e come possiamo cercare di sentirci liberi partendo da quattro diverse professioni: il minatore di carbone, l'uomo delle pulizie, il lavoratore di call center e il raccoglitore di ferraglia". Filastine, producer e artista losangelino di stanza a Barcellona dal passato di attivista no global, mi spiega così il senso del suo nuovo progetto—quattro video e quattro pezzi, che vanno a ridare onore a versanti reietti del mondo lavorativo rappresentandoli in forma musicale.
Oggi vi presentiamo in anteprima il suo quarto e ultimo episodio, Los Chatarreros, che racconta le vicende dei ragazzi migranti che vagano per le strade di Barcellona in cerca di ferraglia da poter rivendere per guadagnarsi da vivere. È un pezzo mondialista, difficilmente riconducibile a una tradizione musicale definita e delineata—un'elettronica ibrida e aperta al mondo, se vogliamo.
Filastine vuole essere chiaro nei suoi intenti, e ci tiene a spiegare come il progetto sia profondamente personale per lui, passato in prima persona per una trafila di lavori annullanti e alienanti: "Abandon non è stato concepito come un progetto scolastico che vuole denunciare la precarietà del tardo capitalismo o cose simili. Il mio primo lavoro è stato a un fast-food cristiano fondamentalista in un centro commerciale dell'Oklahoma, dove servivo carne dalla provenienza dubbia che voleva essere pollo ai redneck del luogo. Ho lavorato in fabbrica fino ad annebbiarmi la mente, ho fatto il camionista, e ho passato dieci anni al volante di un taxi di Seattle. Ho anche lavorato a un peep show che si chiamava Lusty Lady, pulendo sborra in un labirinto senza finestre di cabine appiccicose in turni di dieci ore. Mi sono sentito infuriato e impotente, in tutto questo, mentre guardavo i minuti, le ore e i giorni della mia vita gocciolare via mentre a malapena facevo abbastanza soldi da poter sopravvivere."
Foto di Severine Sajous.
"In parte, Los Chatarreros parla del lavoro in sé: invisibile, compensato poveramente e considerato ancora peggio," spiega Filastine. Ma parla anche del contesto globale che crea questa forza lavoro: un mondo che sta implodendo per colpa di ingiustizie economiche ed ecologiche. I chatarreros di Spagna sono tutti migranti senza documenti, fantasmi legali sopravvissuti a forche sotto forma di deserti, mari, guerre e trafficanti di essere umani arrivati a rovistare tra i nostri rifiuti in cerca di metallo."
Trovate il video di Los Chatarreros qua sotto. Filastine è inoltre al lavoro su un album, Drapetomania, fuori il 28 aprile.
"All'inizio non ero così convinto del nome Skate Muzik, ma poi ho anche pensato che alla fine è solo un dettaglio... Certo, se questa cosa l'avessi chiamata Acciughe, forse la storia sarebbe andata diversamente", mi spiega Gianluca Quagliano, persona dell'internet dietro il podcast e dentro le magliette di Skate Muzik.
Forse la maggior parte degli esseri umani su questo pianeta non ha mai provato a mettere insieme un podcast sulla musica con cui è cresciuto, ma a tutti è successo di dover fare un regalo a qualcuno o di voler scrivere un biglietto di auguri per una persona a si tiene particolarmente. Se vi è capitata una situazione del genere, è a quella sensazione di affetto mista a paura di fare un passo falso che dovete pensare quando immaginate il modo in cui Gianluca pensa alla sua creatura: "Non mi è mai capitato di dover spiegare a qualcuno che cos'è Skate Muzik o almeno, non in modo così diretto". Quindi proviamo a farla facile: Skate Muzik è un podcast radiofonico che esce su FrittoFM (che a sua volta è una webradio) ed è nato dall'esigenza di voler rievocare quella sensazione di presa bene che Gianluca ha provato quando ha iniziato ad andare sullo skateboard. "Se volevo ascoltare la musica che c'era nei video con i miei skater preferiti, l'unico modo che avevo era collegare il mangianastri al videoregistratore e registrarmi le cassettine da portare in giro".
La puntata zero di Skate Muzik è uscita nel 2015 ed era basata sulla musica di Blind Skateboard Video Days, un video del 1991 diretto da Spike Jonze e in cui compaiono Guy Mariano, Mark Gonzales, Jason Lee, Jordan Richter e Rudy Johnson. "In quella versione primordiale del podcast c'era solo la musica, gli ospiti sono arrivati solamente a partire dal secondo. Fondamentalmente SkateMuzik è questo podcast radiofonico che esce quando riesco a farlo uscire."
Tutte le foto di Denny Mawella per Skate Muzik
"Dallo skate e dalla musica ho appreso il concetto di stile, ed é per questo motivo che Skate Muzik, pur essendo, nella sua forma originale, un format radiofonico parecchio nerdy, è accompagnato da una linea di merchadising fatta di t-shirt e felpe che potresti voler mettere davvero. Non ha a che fare coi soldi, le strategie di marketing, la voglia di spaccare, o il desiderio di arrivare da qualche parte a tutti i costi", mi spiega Gianluca. Le prime 50 magliette di Skate Muzik sono state stampate in collaborazione coi ragazzi di Chef Family per essere regalate agli amici, ma oggi vanno sold out in quella culla dello streetwear che è Tokyo: "Quando sono andato in Giappone per una vacanza me ne sono portate dietro una decina per indossarle io mentre andavo in giro, ma alla fine mi sono ritrovato a stirarle nella mia camera d'albergo per poterle consegnare a un negozio".
Allo stesso modo il podcast è nato con l'idea di farlo ascoltare almeno a 100 persone, "ma oggi lo ascoltano e apprezzano a New York, in Nuova Zelanda o in Russia. È figo che questa idea viaggi più velocemente e più lontano di quanto immaginassi, sempre partendo dalla città in cui è nata: Milano. Nell'approccio a questa cosa ho il dito medio abbastanza facile e mi permetto di essere selettivo circa le persone con le quali avere a che fare, perché non voglio che in quest'epoca di entusiasmi verso la cultura che Skate Muzik rappresenta e che vuole tramandare, qualcuno la confonda con l'ennesimo brand che cerca di trasformarsi in un prodotto hype per farsi apprezzare in maniera insensata".
Gianluca non è un designer e non aspira a diventarlo, ma ha avuto la fortuna di conoscere persone di talento che, sempre in modo spontaneo, hanno deciso di dargli una mano, come amici con un'idea in testa prima ancora che come collaboratori. Presto saranno pronte anche delle tavole da skate marchiate Skate Muzik: "Vorrei creare uno skate team di gente a cui importa solo di skateare per strada e divertirsi, con uno stile personale e al tempo stesso continuare a collaborare con artisti, creativi e gente di cui apprezzo la personalità e il lavoro. A Colmar e Ivan, che vedete in queste foto (insieme a Pigro on Sofa), e che gravitano intorno a Skate Muzik dal Giorno Uno, così come Denny che le foto le ha fatte. Sicuramente le tavole le regalerò, ma al tempo stesso mi piace l'idea che la cosa arrivi anche a tutti quelli che hanno un sincero interesse nei confronti di questa cultura e del suo suono".
Sì, ma dov'è la musica? Il primo episodio di Skate Muzik nella sua versione completa (e cioè accompagnato da un'intervista, senza host) è andato in onda con la presenza di Roxanne Oldham, musical supervisor di Cherry di Supreme. L'intervista è nata, un po' come tutte le cose belle, per caso e senza troppe aspettative: "L'ho raggiunta tramite internet e lei, da New York, si è messa a disposizione per rispondere alle mie domande, tramite messaggi vocali su Whatsapp, senza avere nessuna idea di cosa volessi davvero fare... Mi piaceva molto l'idea di cominciare avendo come guest una ragazza che parla di skate, perchè non è per niente usuale. Poi c'è stato l'immenso Chicoria in qualità di unico ospite italiano, che mi ha parlato del suo video di skate preferito, 20 Shot Sequence, e del ruolo fondamentale che ha avuto nell'avvicinare skateboarding e cultura hip hop".
"Poi Brendon Babenzien di Noah NY, la cui scelta di far ruotare la sua intervista intorno al Bones Brigade Video Show, uscito nel 1984, è stata dettata dalla sua intenzione di riportare gli ascoltatori a una dimensione totalmente radicale dello skate, fuori dalle mode e dai trend del momento. Nell'episodio #4 c'è Gino Iannucci, riconosciuto a livello mondiale come icona dello stile e dello street skating che in una chiacchierata di oltre un'ora mi ha parlato di Trilogy, uno dei video che ha settato lo standard per lo skateboaring a metà anni Novanta, in cui lui stesso è presente con una video part che è passata alla storia. Gino ha raccontato di come spesso lo skate sembrava in procinto di rovinargli la vita e di quanto gli stia sul cazzo essere considerato una leggenda... Ho già pronte 3 nuove puntate, di cui preferisco però non anticipare niente, e altri progetti in cantiere.
Se e quando smetterà di divertimi e appassionarmi, Skate Muzik finirà. Per il momento cerco di fare del mio meglio per non rovinare niente. Ci sono uno store online, una pagina di Facebook e a volte penso che dovrei fare un account di Instagram, ma per ora non credo di averne molta voglia.
Questa è la storia di Cosmo, autore di uno dei pezzi di più grande successo radiofonico dell'estate 2016. Questa è la storia del frontman dei Drink To Me, gruppo post-punk degli anni 2000, fatta di centinaia di concerti in tutta Italia. Questa è la storia di Marco Bianchi, insegnante di storia, padre di due figli. È una storia sola che comprende tante vite, tanti avvenimenti, molta gavetta, molta sfiducia e un successo che arriva quando nessuno ci credeva più davvero, o perlomeno non il suo protagonista. Lo abbiamo incontrato prima del penultimo concerto del tour (chiusura il giorno dopo nella sua Ivrea), una data ai Magazzini Generali sold out da tempo, che arriva dopo una doppia, anche quella sold out, a Roma.
Marco e i due musicisti che girano con lui (Roberto, già nei Drink To Me, e Mattia), per festeggiare tutto questo, hanno deciso di farsi un tatuaggio celebrativo. Intanto io e lui parliamo di tutto: di figli, di provincia, di musica, di mostri, di droga, di soldi, di identità, di tutto.
Arrivi da due date a Roma, come va? Bene, bene. È un periodo che devo lottare con qualcosa alla gola che non so cosa sia, per cui mi sto trattenendo dal fare festa. Sto facendo proprio il professionista: non bevo perché l'alcol brucia, vado a dormire prima degli altri, 'sto giro ho preso il treno invece del furgone per poter dormire di più. Ma a parte questa roba va tutto davvero bene. Io non riesco a capire, a parte con la droga, come facciate a fare due date di fila come quelle di Roma e senza neanche un giorno di pausa arrivare e fare Milano. Sotto fine anno ho fatto sei date in sette giorni, al sud Italia. Le fai, dopo un po' prendi il giro. Poi magari ti aiuti con altre robe, tipo il classico bastardissimo cortisone. Purtroppo devono ancora inventare la medicina definitiva per la gola.
È la fine del tour e oggi tu e i due batteristi vi fate un tatuaggio celebrativo davanti al nostro fotografo: una porta Midi. Questa cosa non la sa nessuno, ma ormai la possiamo dire. C'è questa cretinata che abbiamo inventato a inizio tour, una specie di canto prima di salire sul palco: ci mettiamo in cerchio saltando e uno di noi dice "chi siamo noi?" risposta: "I Cosmo!" E poi, "E cosa facciamo noi? Il musicone! E come lo facciamo? Col Midi!" Quindi una piccola porta Midi in mezzo alle spalle. È il mio primo tatuaggio.
Volevo ricapitolare un po' da dove arrivi. Partire dai Drink To Me e quello che è stato il tuo percorso sin dall'inizio. Tu sei di Ivrea, ma la tua carriera musicale in qualche modo è cominciata a Torino? Sì, diciamo che la prima piazza che mi interessava era quella, per noi da Ivrea se andavamo a suonare a Torino era già una cosa gigante. All'inizio abbiamo fatto tutte quelle solite robe tipo concorsi, inizio anni 2000, robe proprio inutili. Però ci servivano per muoverci, e abbiamo subito visto che avevamo qualcosa di diverso da tutte le band che facevano 'ste robe. Ci sentivamo veramente pesci fuor d'acqua: noi facevamo roba più post-punk, nevrotica, rumorosa. Ascoltavamo i Liars, gli Oneida, robe contaminate... Abbiamo anche ascoltato molto i Wire. Secondo me eravamo già un po' strambi, però abbiamo sempre mantenuto questa cosa di fare il cazzo che volevamo, e questo non ci ha fatto inserire subito nei giri, ci abbiamo messo un po'. Ha iniziato a muoversi qualcosa nel 2008 quando abbiamo fatto uscire il primo disco, e lì hanno iniziato a cagarci. Poi con Brazil il primo vero tour un po' intenso, settanta, ottanta date in giro per l'Italia. E Torino è stata la prima piazza.
Ma tu sei sempre stato a Ivrea? No, ho vissuto anche a Torino per l'università. Stavo un po' accollato dalla mia ragazza, e un po' in collegio anche. Non avevo i soldi per pagarmi l'affitto: avevo la borsa di studio e il collegio, nella mia famiglia non abbiamo mai avuto grosse disponibilità economiche, anzi. Periodi del cazzo: quegli anni lì i miei si erano separati, mia mamma era rimasta con dei debiti. Eravamo proprio a terra, completamente a terra. L'università l'ho affrontata anche lavoricchiando, per tirare su due soldi.
In cosa ti sei laureato? Filosofia. Ho fatto il 3+2, tutt'e due. Perché avevo iniziato: per come son fatto io non potevo smettere, dovevo arrivare fino alla fine. Ci ho messo otto anni invece che cinque però l'ho fatto. Anche benino: 109. Che sembra uno scherzo!
E poi sei andato a fare l'insegnante. Ho lavorato subito, perché la preside di questa scuola di Ivrea mi conosceva, e voleva provare un ragazzo giovane, col mio carattere, per vedere di domare questi ragazzi del professionale, che erano classi belle toste. L'esperimento ha funzionato: io mi sono trovato subito bene, è stata una cosa forte. In quel periodo lì c'era il tour di Brazil e poi di S, in parallelo.
I Drink To Me quindi li hai vissuti in parallelo all'università e all'inizio del lavoro come insegnante. Esatto. Poi è successo che nel 2012, durante il tour di S, ci siam guardati in faccia e ci siamo detti"cazzo, certo che se fosse stato in italiano, forse..." C'è stato un hype intorno a quel disco molto forte, ma c'era qualcosa che mancava. E ho iniziato per scherzare, per esigenze mie, a scrivere robe in italiano (i primi due pezzi sono stati "Le cose più rare" e "Ho visto un dio"), e le facevo sentire agli altri. Un paio di loro erano restii "no, no, falle tu da solo, fatti le tue robe".
In contemporanea c'era la scuola, e la società che la gestiva: una partecipata parastatale che piglia appalti regionali per fare poi i corsi, sono aziende private che vivono di appalti. Alle spalle avevano una società che aveva fatto 18 milioni di euro di buco, quindi siamo rimasti senza stipendio tre mesi. Io ho lavorato tre mesi e poi ho detto stop perché non ero neanche coperto dal fondo di garanzia dell'INPS: abbiamo fatto le nostre lotte, proteste che non sono servite a un cazzo, e però intanto in quel periodo stavano venendo fuori i pezzi di Cosmo. Li ho fatti sentire alle etichette, tutti interessati, anche l'editore, mi son state fatte delle offerte economiche, e ho fatto il colpo di testa: "va bene, apro la partita IVA!". Dovevo comunque preventivare di avere certe entrate e di doverle gestire, quindi faccio la partita IVA col regime dei minimi, l'ho aperta, è uscito il primo disco di Cosmo, e... una bella attenzione, però non è stato quello che ci aspettavamo.
Ci arriviamo. Tra i Drink To me e Cosmo un punto cruciale è stato il passaggio all'italiano. E un'altra cosa: la produzione completamente in mano a me. Essendo una band, prima, magari ero io che tiravo le fila, però comunque ognuno dava il suo contributo. Io dovevo mediare, mi trovavo a mediare tra il batterista che storceva il naso quando proponevo un pattern... Spesso mi rendo conto che ho imposto delle cose, eh. Veramente il gruppo ha anche un po' risentito di questo. Era la prima volta che facevo tutto da solo: facevo una roba pop quanto volevo farla io, senza nessun tipo di remora, anche se quel disco veramente poi rispetto all'Ultima Festa sembra ancora sperimentale. Perché poi il pop lo sto sviluppando adesso, mi sto scrollando di dosso un sacco di pregiudizi.
Il passaggio all'italiano all'inizio è stato un gioco per provare, perché ovviamente con l'inglese mi trovavo bene per le metriche facilissime da incastrare, monosillabi, superfacile. E, cazzo, poi mi son reso conto che in realtà riuscivo a esprimere delle robe diverse: c'era un modo di usare l'italiano che mi piaceva, mi intrippava. A qualcuno è piaciuto, insomma, però poi è con il disco nuovo che mi sono sbloccato. E adesso ancora di più, sto facendo un percorso cercando un linguaggio che sia il più possibile il mio, che sia esattamente come io mi esprimo nella realtà.
Disordine esce nel 2013. E come va? Disordine parte con grandi attese intorno, soprattutto tra gli addetti ai lavori. Mi avevano fatto offerte sia La Tempesta che 42 Records. La Sony si è subito fatta sotto per le edizioni. Come booking potevo scegliere tra Locusta e DNA, che anche lì erano il top. Quindi avevo detto "cazzo," mai trovato in 'sta situazione di essere non dico conteso, però di dover fare delle scelte. I media specializzati l'hanno subito amato. Quello che è mancato è il pubblico, me ne sono reso conto. Io poi ho investito anche sullo spettacolo: fare una roba particolare, che non aveva fatto mai nessuno, i coriandoli, le ballerine... Ci ho lavorato tanto. Poi parti e vedi che il tour va sì e no, e dici "cazzo qua siamo veramente soltanto una spanna sopra i Drink To Me", cioè... siamo lì. Quindi durante quel tour mi sono abbastanza non dico depresso, però ridimensionato. Ho detto "ma vaffanculo, non dovevo dar retta a chi mi diceva ah che figata, andrà bene, non è vero niente, alla fine lo decide il destino, le persone quando gli dai in pasto la musica ne fanno quello che vogliono loro". Quindi Disordine è andato sostanzialmente bene per essere un esordio, bene per aver dato un'identità al progetto, male secondo me dal punto di vista numerico.
Poi, prima del secondo di Cosmo, è il momento dell'ultimo disco dei Drink To Me. Per quel disco per la prima volta mi son sentito che non ce la facevo da solo, allora ho coinvolto Alessio Natalizia. E lui non vedeva l'ora di lavorare con noi. Ci siamo messi in mano a lui, e per me è stato importantissimo, perché mi ha anche dato l'input per L'Ultima festa. Mi ha veramente sdoganato la cassa dritta. Molto contaminata, molte sfaccettature, ma ce n'è molta in quel disco. Secondo me come produzione e come concept è il nostro miglior disco, il più maturo. Però non è andato bene come S.
Forse era meno accattivante, meno immediato. Sì. C'era comunque una nebbia strana intorno alle canzoni, lui ha questo modo di produrre molto minimale—cosa che volevamo, e mi piaceva: ha fatto cantare le voci tutte pianissimo, tutto un lavoro molto soft, mentre noi siamo sempre stati molto muscolari. Poi dal vivo li facevamo pestoni i pezzi. Però non ha funzionato granché, come riscontri, e a quel punto io figurati come ho affrontato L'Ultima Festa. Dopo due dischi che per la prima volta... da tutta la vita per me era sempre andata in crescendo, pian piano ma crescendo. Poi qui si stabilizza e addirittura scende... Quando vedi la curva che scende dici "porca troia, non ne posso più".
Dicevamo che arrivi all' Ultima Festa con uno spirito non esattamente positivo. Demoralizzato, completamente demoralizzato.
E non è un caso che il disco si chiami l'ultima festa. Eh sì. In realtà poi mi sono accorto solo dopo un po' di tempo che io questa frase l'avevo sentita dire a Davide Panizza, Pop X, in un'intervista che gli abbiamo fatto io e Niccolò Contessa. Gli avevo chiesto come si viveva i concerti, se si sbronzava, e lui mi aveva risposto "io vivo i concerti sempre come se fossero l'ultima festa della mia vita". E 'sta frase mi aveva colpitissimo. Poi quando ho scelto il titolo neanche me lo ricordavo, mi è tornato in mente dopo. Per me era questa cosa della sfiducia totale.
L'ultima cosa che ti sentivi di fare e poi potevi anche lasciar perdere con la musica. Esatto. Ho detto "io mi sbatto adesso"—sbattimenti vuol dire anche tour de force sui tempi, non fare altri lavori perché dovevo chiudere il disco. Io non ho avuto entrate economiche da dicembre 2015 ad aprile 2016, inizio tour. Mi ha mantenuto mia moglie. Te lo giuro, son partito con l'intenzione di spaccare tutto ma sapendo già che non ce l'avrei fatta. Anche 'sta cosa delle radio, io non ci credevo. Mi dicevano "guarda che Deejay ti trasmetterà il pezzo", pare che la promozione radio stesse dando risultati... Quando poi è partito tutto ho iniziato a capire "ok, magari va un po' meglio dai". Però ero sempre tipo "la prossima settimana secondo me non lo trasmettono più". Cioè ero sempre così, non ci credevo a un cazzo di niente che andasse bene.
Però ho lavorato al disco con molta voglia, scoprendo che mi piace davvero farlo, che lo faccio perché mi piace. Poi che io non credessi di andare da nessuna parte è un altro discorso, ma l'ho fatto concentrandomi su quello che volevo fare. E ho usato molte tecniche che mi aveva insegnato Alessio: gli arpeggiatori, un certo modo di usare i synth, la cassa...
È un disco composto tutto nello studio di casa. Sì, sì, tutto in casa. L'esperienza con Alessio mi è servita tanto. Mi sono messo a produrre e ho cominciato a pensare "faccio la cazzo di cassa dritta". Nell'altro disco non c'è cassa dritta, è tutto molto spezzato, ritmiche più black miste a bordoni di synth che non sopportavo più. Avevo visto un sacco di difetti nell'altro disco, quindi ho detto: "adesso prima cosa basta con 'sti testi eterei filosofici che non si capisce un cazzo di cosa parlo, due basta con i synth fissi voooom, i bordoni che ti stordiscono e non muovono per niente il groove, e tre fare una cosa più danzereccia". Perché avevo voglia di quello—ho iniziato ad ascoltare produzioni techno, volevo fare quella roba lì. Quindi ho affrontato tutto giocando in studio, divertendomi parecchio. Anche sentendo un pezzo come "Le Voci" te ne accorgi, il gusto di fare una canzone con dentro un viaggione pazzo dentro, ci tornavo e ci aggiungevo roba, il divertimento dell'artigianato.
E poi improvvisamente è arrivato il successo, per certi versi. Non del tutto improvvisamente, è stato abbastanza graduale, un percorso: prima son partite le radio, in concomitanza al tour, e poi mi rendevo conto che tanta gente nuova mi stava scoprendo. Le radio hanno cominciato a smuovere, poi "L'Ultima Festa" è arrivata—minchia—in classifica. Già solo nella classifica di Deejay è stata al terzo posto per un bel po'. E loro mi han proprio spinto tanto, questa cosa qua ha smosso un pubblico che non era il mio pubblico e neanche il pubblico indie, per dire. Dai quarantenni nostalgici delle discoteche anni '90 ai bambini. Bambini, proprio, tanti bambini. Sta cosa mi fa volare: i bambini non hanno filtri, sentono se una roba li smuove e li piglia bene. Mi piace questa cosa: quello che volevo dalla musica era proprio comunicare a più gente possibile.
Chi c'è in copertina del disco? Mia madre. Quando aveva diciassette anni.
Questo richiama anche il fatto che in questo disco c'è un autobiografismo totale. C'era un po' anche nell'altro, ma era molto più astratto.
Secondo me entrambi i dischi hanno testi molto riflessivi, però forse in Disordine erano testi un po' più freak, un po' più Mogol di un certo Battisti... Quasi Panella, qualcuno dice.
Mentre già "Esistere", che chiudeva il disco, anticipava un po' la scrittura dell'Ultima Festa . Bravo! È ottima questa osservazione. Io "Esistere" la faccio ancora dal vivo, ed è piena di punchline, frasi forti, cose molto concrete del mio vissuto, e per me è quella invecchiata meglio.
Quella è stata magari un po' una chiave per il disco successivo. C'è anche il registro più basso della voce, non ho spinto, in qualche modo sì. Chiude il disco prima e apre per quello dopo. Un caso eh, non potevo saperlo! Però è esattamente successo quello, sono andato più nel biografico, nella sincerità. Un pezzo come "Le Voci" è assolutamente uno che si siede lì e ti dice tutto quel cazzo che gli viene in mente a caso in quel momento.
In un pezzo fai anche due nomi, che sono i nomi dei tuoi figli? Carlo e Pietro, sì. In "L'altro mondo": "Le commesse dietro a un vetro / L'aria calda/ Carlo e Pietro". Sto cercando sempre di più quel linguaggio lì: un misto, poetico anche, se vuoi, però il più possibile terra terra.
In questo autobiografismo rientra la tua vita privata che è fatta di una dimensione di provincia, che ti tiene un po' lontano dalle grandi città—il che, immagino, abbia i suoi pro e i suoi contro. Il contro è che sei un po' fuori dai giri, ma quello è anche il pro. Mi perderei... Abitassi a Bologna non so come andrei a finire. Adesso sono in studio: sto bene a casa mia, sto bene a Ivrea, fuori dai giri.
E preserva anche un po' il tuo stato psicofisico, in qualche modo. Sì, alla fine ho capito dopo tempo che è un vantaggio. Una volta coi Drink To Me dicevamo che eravamo di Torino, per farti capire! "Che cazzo ne sanno di cos'è Ivrea?" Invece adesso lo ribadisco. Voglio fare la cosa assolutamente demenziale di fare il represent di Ivrea, che è una città che non si incula nessuno se non per la battaglia delle arance o per la Olivetti, quindi è un gioco. Però ci sono un sacco di cose preziose, come dappertutto, a volerlo vedere. Io ho un sacco di amici musicisti fighissimi a Ivrea che sono depressi dal contesto in cui si trovano. Mentre io ci ho lavorato tanto e ho sempre suonato ovunque anche coi Drink To Me. Invece ho tanti amici anche talentuosissimi, assolutamente geniali, che però non hanno voglia di sbattersi o non sanno neanche come muoversi. Bisogna fare The Sound of Ivrea, tipo The Sound of Rome di Lory D!
Un'altra dimensione importante per te è stata quella dell'insegnamento. Quest'anno ho detto di no. Sta andando troppo bene. Sapevo che mi arrivava un tour intenso, non avevo voglia di dividermi a metà il cervello come ho sempre fatto. Voglio focalizzarmi solo sulla musica, sta andando bene—non ti nascondo—anche economicamente, quindi. L'insegnante l'ho fatto per tre anni. Poi con il fallimento dell'azienda sono stato fermo e ho fatto solo il musicista per un paio di anni: produzioni varie, cose... Vissuto di merda, pochi soldi, però ci stavo dentro. Poi ho ripreso l'anno scorso e invece prima di 'sto tour zero, perché mi sono fermato e non ho avuto introiti: niente, disperazione proprio. Debiti, i nonni che mi prestavano i soldi... Io ho voluto restituirglieli poi ovviamente. Ho rimesso tutto a posto quest'anno. Mi sono anche comprato la camicia.
E le collane d'oro non ancora? I denti d'oro! Farebbe veramente ridere, eh.
Nel rap appena uno fa quattro soldi deve ostentarlo in tutti i modi, nel mondo diciamo indie invece 'sta cosa proprio zero. Io ho comprato strumenti! Ti posso dire quello che ho speso di strumenti. Poi a me non dà fastidio, e ognuno è libero di fare quel cazzo che vuole. È proprio un'impostazione molto diversa di comunicazione, rispetto a musicisti come me o Calcutta.
Che poi se in un mondo fanno tutti così e in un altro fanno tutti cosà , non è neanche un discorso di singole personalità ma proprio di ambiente di riferimento. Esatto! Ogni cazzo di ambiente ha i suoi codici: io infatti li rispetto, la multiculturalità ti insegna 'ste cose. Poi fanno una vita esattamente come me, non credo che facciano davvero la vita degli sceicchi, è immagine.
Un altro elemento importante che ti riguarda è che esiste questa cosa di un tuo lato oscuro, che viene fuori un po' dai testi, dalla tua personalità , e un po' anche perché ti conosco. Ho sempre visto questa tua trasformazione post-concerto che nel giro di dieci minuti e due cocktail viene fuori...
La bestia!
C'è un po' questa dicotomia tra lavoro di studio e live, vita in famiglia e in tour, il padre-insegnante e il mostro post-concerto... Sì. In realtà quello che sto facendo come percorso mio di vita è cercare di far combaciare sempre più le cose. Sto cercando di avvicinare il più possibile l'artista e la persona. Tipo, a mia moglie non ho mai nascosto il mio lato da bestia. Con i miei suoceri, per dire, che magari potevano avere certi pregiudizi, negli anni ho deciso di gettare la maschera: "sono uno sballone, son così". Poi tanto nelle cose che devo fare sono serio. E man mano ho scoperto anche che questa cosa mi mette con gli altri in un rapporto di sincerità. I miei suoceri per dire alla fine mi han preso in simpatia, mi hanno accettato. Alla fine con i bambini sei un papà che ci tiene, lavorare lavori, guadagni. Penso di non essere l'unica persona così fra sette miliardi, anzi, penso che siano tutti come me. Tutti abbiamo dentro delle spinte assolutamente incoerenti tra loro, contraddittorie. L'essere umano non è una cosa sola. L'identità è un'invenzione: la persona che sei è soltanto un costrutto tuo, della tua testa, dell'immagine che gli altri hanno di te. Quindi alla fine la mia tecnica è sgomitare a caso per creare un'identità che sia il più possibile confusa, che però corrisponda sempre di più al vero. Alla fine a me piace che le persone abbiano di fronte una persona che pensano stia dicendo la verità.
Parliamo un po' di musica. So che ultimamente ti sei fissato con Laraaji. Sì, di brutto. L'ho anche campionato.
Però ascolti anche cose meno raffinate. Indubbiamente. Ascolto un po' a periodi, mi fisso con alcune cose. Sono impazzito al Club to Club per Motor City Drum Ensemble, non lo conoscevo, quindi poi ho ascoltato tanto le sue produzioni, soprattutto Raw Cuts . Anche il Dj-Kicks è fighissimo, ma le sue produzioni mi piacciono un casino. Adesso sto facendo un po' di ricerca su quel filone lì, sto cercando robe, consigli di amici: ho riscoperto Kassem Mosse, soprattutto Workshop 19, poi ho ascoltato tanto The Best di Omar S. Sto scoprendo un gusto per l'house un pochino più intelligente, questo è il trip che c'ho adesso. Infatti sul disco prossimo non so che direzione prenderò, se più techno o più house.
Non una direzione più radiofonica? Vorrei fare un disco che abbia quella forza. Due o tre punti per andare in radio, certo, e tutto il resto più libero. Ho capito che posso permettermi delle libertà, le persone ormai mi stanno identificando come uno che sta in un ambito suo: l'elettronica in cassa dritta cantata in italiano, mi son preso uno spazio che in realtà banalmente era vuoto. E mi rendo conto che all'interno di quella cornice io posso fare il cazzo che voglio: secondo me posso prendere tanta gente e farle fare il viaggetto con me. Mi sento che se mi limitassi a canzoni strofa e ritornello e basta, se facessi una cosa del genere, piatta, starei perdendo un'occasione. Finalmente ho l'occasione di fare quello che voglio, anche a livello di strutture, di invenzioni, trick, e lo devo fare. Non so se riuscirà l'esperimento. Io voglio fare pop, assolutamente, però voglio sempre più virarlo verso la cosa club... non so se riuscirò, appunto. Ma ci provo. Stavolta ci provo.
Domenica notte, la compositrice, produttrice e cantautrice britannica Mica Levi ha perso l'Oscar per la miglior colonna sonora, superata da Justin Hurwitz con la colonna sonora di La La Land. Pochi allibratori avrebbero scommesso che la musica della prima, decisamente più sperimentale, che accompagna il film biografico su Jacqueline Kennedy Onassis Jackie. Ma soltanto la nomination è un evento, data la storia di questa categoria.
Negli 81 anni di storia della Academy, i compositori di genere femminile hanno ricevuto otto nomination per la miglior colonna sonora. Tre di queste sono andate a Rachel Portman per Emma (1997), The Cider House Rules (2000) e Chocolat (2001). L'ultima donna a vincere è stata Anne Dudley nel 1998 con The Full Monty. Degli ultimi 250 film americani del 2016 che hanno avuto più successo, soltanto il tre percento è stato musicato da donne, secondo uno studio condotto dal Centro di Studio sulle Donne nella Televisione e nel Cinema. I risultati del rapporto dello scorso anno—che esamina la presenza delle donne sullo schermo e dietro le quinte nell'industria cinematografica, comprese registe, autrici, produttrici, direttrici della fotografia e del montaggio—forniscono una fotografia piuttosto deprimente di una Hollywood dominata dagli uomini.
Se questi numeri sembrano suggerire che le donne non abbiano mai musicato un blockbuster, la storia prova il contrario. La compositrice americana e ideatrice di Switched on BachWendy Carlos è stata responsabile delle musiche di classici come Arancia Meccanica e Shining di Stanley Kubrick, oltre che del film Disney Tron. Tutti e tre hanno sbancato i botteghini al tempo dell'uscita. Più recentemente, la compositrice, arrangiatrice di archi e produttrice Deborah Lurie, le cui opere comprendono Footloose del 2011 e Dear John del 2010. Quest'ultimo è noto per aver scalzatoAvatar al box office nel suo primo weekend totalizzando 114 milioni di dollari di biglietti in tutto il mondo. Nonostante la colonna sonora composta dalla canadese Lesley Barber per Manchester By The Sea sia stata snobbata dalla commissione degli Oscar, il film ha venduto biglietti per 60 milioni di dollari. Considerati questi risultati, è chiaro che il problema non sia la mancanza di interesse o di attività nel settore.
Abbiamo parlato con alcune delle compositrici, supervisore e componenti esecutive della Academy of Motion Picture Arts and Sciences che stanno cercando di ripristinare la uguaglianza di genere nell'industria cinematografica, per scoprire a che cosa dobbiamo questo muro di celluloide e cosa possiamo fare per abbatterlo.
"Siamo ancora l'eccezione e non la regola."
Dieci anni fa, la compositrice americana Suzanne Ciani ha avuto un incontro con un agente di Hollywood per parlare di possibilità lavorative, ma fu accolta con avance sessiste. A quel punto della sua carriera, la pianista si era già fatta un nome come pioniera del sintetizzatore modulare. Non era nemmeno estranea all'industria cinematografica, avendo già composto il jingle per la Columbia Records nel 1976 e la colonna sonora del film di fantascienza The Incredible Shrinking Woman nel 1981, tra le altre cose.
"Mi ha proprio detto che se fossi andata a letto con lui avrei avuto la possibilità di lavorare con lui a delle colonne sonore. Io ho riso e ho pensato 'Succedono ancora queste cose?'", ricorda. "I sottintesi sessuali mettono le donne in forte difficoltà, perché le delegittimizzano. Ti trasforma in una non-entità".
La mancanza di donne in posizioni di potere a Hollywood è un altro importante ostacolo per le opportunità delle donne, non importa a quale stadio della carriera si trovino.
"Quando lavori in uno studio, la persona che gestisce il dipartimento di musica per film non può darti una risposta definitiva. Come sappiamo, ci sono film ad alto rischio finanziario", dice Tracy McKnight, una supervisora musicale indipendente e ex direttrice del dipartimento colonne sonore della Lionsgate. "Quando lavori con produzioni grosse, ci sono molte persone che si occupano di queste decisioni; ci vorrebbero più donne in questi incarichi, di modo che possano dare ad altre donne le giuste opportunità".
Laura Karpman, compositrice ed ex-presidentessa della Alliance for Women Film Composers, ha lasciato la posizione per quella di governatrice del ramo musica della Academy. È la prima donna a ottenere questo titolo. Pur considerandolo un passo nella giusta direzione, fa presente che i film che vengono musicati da compositrici donne sono "probabilmente in categorie di budget dai 15 milioni in giù".
"Le possibilità per le donne sono così preziose e limitate che non possono essere individuate come tendenza", aggiunge Ciani. "Siamo ancora l'eccezione e non la regola".
"Se facessi un sondaggio, scopriresti che la maggior parte della gente associa le colonne sonore con gli uomini."
Quando si parla di compositori, gli uomini lavorano con budget di fascia alta più spesso delle donne. Dato che queste ultime non sono tradizionalmente associate a generi dai risultati economici straordinari come l'azione o l'horror, non vengono considerate nemmeno, e vengono trattate come un rischio invece che come una risorsa.
Deborah Lurie crede che la sfida più grande che devono affrontare oggi le compositrici è quella di entrare nell'arena dei film mainstream di fascia alta. "Per quanto le donne potrebbero essere nel grande gruppo di candidati per le colonne sonore di questi film nelle prime fasi del progetto, quando si arriva alla scelta della musica lo studio avrà già affrontato costi e problemi di tempi tali da scoraggiare ulteriori rischi", dice. "La scelta finale risulta sempre la più prudente".
Se vogliamo entrare nel mondo degli stereotipi, è interessante vedere che le donne—spesso associate con l'emotività—vengono escluse da un ruolo che otterrebbe effettivamente un beneficio da quel tipo di intuito.
"Se facessi un sondaggio, scopriresti che la maggior parte della gente associa le colonne sonore agli uomini. Gli uomini sono gli eroi, tendiamo a concepirli in termini mascolini, mentre associamo più spesso le donne a commedie, commedie romantiche, film drammatici, cose del genere", osserva McKnight. "Nessuno pensa alle donne nel campo dell'horror o dell'azione".
Ma Karpman ci ricorda come le donne possono offrire una prospettiva unica distinta da quella dei loro colleghi uomini. "È giusto assumere qualcuno che abbia un'apertura e un punto di vista diversi. Una delle cose che impariamo è come essere buone compositrici per una varietà di generi cinematografici".
Ciani fa notare che le donne spesso non ricevono attenzione per i loro risultati. "È sempre una sorpresa", dice. "C'è una lunga lista di conquiste fatte da donne, ma è un'anomalia, e non si è mai raggiunta una massa critica di coscienza in questo campo".
"Abbiamo fatto quadrato in un certo senso, perché quando si è unite si è più forti."
Nonostante la sconfitta di Levi lo scorso weekend e le cifre deprimenti riportate dagli studi, Hollywood sta lentamente facendo qualche passo avanti verso la varietà di genere. Nella lista dei 638 nuovi membri dell'Academy per il 2016, le femmine hanno raggiunto il record del 46 percento.
Oltre a questo, lo scorso anno—per la prima volta—c'è stata parità di genere nel Sundance Composers Lab, una associazione per giovani compositori che li associa a registi emergenti. Il programma comprende concerti, panel e altri eventi e offre un servizio di mentore da parte di consulenti creativi del calibro di McKnight, del veterano dei blockbuster George S. Clinton e designer provenienti dalla Skywalker Sound di George Lucas.
Tra i partecipanti nel 2016 troviamo la collaboratrice dei M83 Morgan Kirby (che usa il moniker White Sea), la direttrice delle musiche per la serie TV di FX Legion Amie Doherty, la polistrumentista canadese-indiana Amritha Vaz (che ha lavorato alle musiche di 500 Days Of Summer, Pomegranates and Myrrh e Cooking With Stella, tra le altre cose), e altre.
Altrove, organizzazioni internazionali non-profit come la Alliance for Woman Female Composers e Women in Film & TV stanno facendo campagne per le donne di talento attive nell'industria alla ricerca di visibilità. In fondo, dice Ciani, conviene che le donne prendano in mano il proprio destino invece di cercare di entrare nel gruppo dei maschietti.
"Dobbiamo soltanto mettere in piedi i nostri gruppi, dove abbiamo il potere e l'influenza per portare avanti i nostri progetti", dice. "Poi gli uomini ci guarderanno e si rapporteranno a noi con rispetto, ne sono sicura, perché saremo una forza all'altezza".
"Abbiamo fatto quadrato in un certo senso, perché quando si è unite si è più forti", aggiunge McKnight. "Collettivamente, più voci si uniscono al coro maggiore sarà la differenza che faremo".
La macchina che guido è una Suzuki Swift del 2008. La condivido con i miei genitori. Ci abbiamo fatto più di centomila chilometri e, per ora, non abbiamo visto pesanti segni di cedimento. Ogni tanto, giustamente, mamma e papà droppano l'argomento "Quando ti prenderai la tua macchina"—e restano leggermente increduli quando gli comunico che non ho alcuna intenzione di comprarne una nuova, e se proprio di darmi al fantastico mondo dell'usato. Il che ci sta, dato che loro provengono da un mondo in cui comprarsi una casa e un automobile erano passi necessari verso l'età adulta. Ma quello in cui vivo io è un ambiente che non mi fa venire voglia di mutilare il mio conto in banca in cambio di una simpatica utilitaria con climatizzatore, cruise control, anticipo zero, prima rata nel 2018, TAN 5,95% e TAEG 7,59%.
Detto questo, se mi si presentasse di fronte un'opportunità irrinunciabile, magari con tante piccole e comode rate, non mi tirerei certo indietro. E ragazzi, non sapete quanto male provo a dirvi che l'occasione della vita è di fronte ai miei occhi, ma proprio non ce la faccio a tirare su il milione e mezzo di dollari necessari a farla mia. Eccola qua sotto, in tutto il suo splendore.
Per farla breve: come riporta AP, in California c'è un rivenditore di oggetti appartenuti a persone famose, Moments in Time, che ha messo in vendita la BMW 750iL di proprietà di Suge Knight in cui è stato ucciso Tupac Shakur. Ha 92,000 chilometri sul tachimetro e un certificato di autenticità. Vi immaginate le possibilità di un investimento simile? In cambio di tutti i soldi che guadagnerete in questa vita e nella prossima potreste sedervi lì dove la storia dell'hip-hop è stata cambiata per sempre. Certo, dovete provare a non pensare a quanto macabra sia la cosa, ma è un piccolo prezzo da pagare per poggiare il sedere sullo stesso sedile che ha supportato quello di una leggenda.
Trovate una galleria di fotografie della macchina e un comodo link per comprarla proprio qua. Se fate la pazzia fatemelo sapere e portatemi a fare un giro.
Da circa tre anni Maxime, tuttofare della scena punk parigina (che conosciamo per il gruppo hardcore Youth Avoiders, il trio garage Skategang e come batterista del miglior gruppo oi! del momento Rixe) si dedica a una passione poco diffusa nel microcosmo a volte piuttosto chiuso della musica underground: versioni dance lo-fi di classiche canzoni punk e hardcore. Inaspettatamente, la popolarità di questo progetto ha superato ampiamente quella delle sue band, e dopo i primi video su YouTube Digital Octopus era già stato invitato a suonare ovunque, dalla Svezia agli Stati Uniti e, come potete vedere da questo video, con lui l'atmosfera di festa da fine concerto è garantita al 100%.
Dopo aver ricreato con synth e drum machine vintage pezzi di Negative Approach, Blitz e Cock Sparrer, ora è il turno dei Cro-Mags che possono anche vantare un videoclip girato quasi professionalmente. Con questo remix che si spinge sempre di più verso la space-disco, la missione di Maxime per il 2017 è molto chiara: riconciliare il cantante John Joseph e il bassista Harley Flanagan, che non si parlano da 25 anni (qui si spiega tutta la storia, se sapete l'inglese). Dal canto suo Harley Flanagan, che sta per partire per un tour europeo che passerà anche per Parigi in maggio, ha condiviso il video su Instagram commentandolo con un "LMFAO". Ora tocca a te rispondere, Johnny.
La canzone è tratta dal maxi-singolo The Dance of Quarrel di prossima uscita.
Penny Rimbaud lives in a farmhouse in the middle of the English countryside where he ponders life, death, love and Zen. The 73-year-old artist, poet, and activist founded the most influential anarcho-punk group of the 20th century in Crass, along with Steve Ignorant. Penny lives with fellow Crass member, artist Gee Vaucher, and together the two continue dedicate their lives to art and literature; still promoting the values of anarchy, peace, vegetarianism, and anti-authoritarianism—all of which Crass preached.
Per quanto possa sembrare strano, Tom DeLonge è integralmente serio in quello che fa. Sì, Tom è stato il chitarrista di una boy band pop-punk e ora cerca gli alieni nello spazio... E a quanto pare è anche piuttosto bravo in quello che fa, dato che ha appena vinto un premio come UFO Researcher of the Year per il suo "contributo rivoluzionario alla ricerca".
Nel video qui sotto potete ascoltare il discorso con cui Tom ha accettato il sudatissimo premio. Non è nemmeno così fuori di testa come si potrebbe pensare, a parte il pezzo in cui sostiene che l'ultima ondata di Wikileaks ha dimostrato che le sue ricerche procedevano nella giusta direzione. But in case you doubted said seriousness, here are his credentials.
Sono uno come tanti, proprio come voi. Ho passato gli ultimi vent'anni a informarmi e fare ricerche online tutta la notte, a leggere di Roswell, Serpo, Churchill... Degli schianti al suolo negli Stati Uniti, delle navi costruite dai nazisti, di Antartica e di cosa c'è davvero su Marte e dietro la faccia visibile della Luna. Mi sono informato su tutte le strutture anomale presente sul piantea. So tutto.
Anomalous Structures, tra l'altro, sarebbe stato un ottimo titolo alternativo a Neighborhoods dei blink-182, uscito nel 2011. DeLonge nel video ripete più volte che le sue ricerche sono soltanto all'inizio e che il suo obiettivo è portare tutta la verità a galla. A quanto pare Tom è proprio stufo di perdere tempo con noi stupidi bufus terrestri, ma forse dovevamo accorgerci prima delle voci nella sua testa...
Il 21 febbraio è successo quello che non doveva succedere: Enzo Carella ci ha lasciati. Qualcuno potrebbe dire: e chi cazzo è? E io risponderei: brutto stronzo, la morte di Carella è una sconfitta per tutti. In primis per me, perché per circa tre anni ho cercato di spingere un'intervista esclusiva con lui, che aveva dato l'assenso, ma pare che questa cosa non avesse, secondo i piani alti delle linee editoriali, lo stesso appeal dell'intervistare, che so, la Bertè. Rimandata all'infinito, come se Enzo si desse per scontato, come se fosse eterno, in panchina ad attendere una chiamata.
Sarebbe stata l'occasione per far parlare un pezzo importantissimo della storia della musica italiana, che purtroppo non è mai riuscito a fare del tutto breccia, nonostante sia stato uno di quelli che hanno traghettato il Bel Paese fuori dall'età della pietra musicale. Ma lui, romano de Roma, aveva un seguito cospicuo d'irriducibili appassionati in ogni parte d'Italia: io e tanti miei amici e non amici musicisti gli siamo stati dietro per anni, proponendoci di incidere come session man a titolo gratuito i brani inediti che voleva realizzare e di cui dava spesso notizia su Facebook. Ma lui no, pensava ancora ai suoi vecchi compagni d'avventura, i Goblin. Sperava di potergli pagare l'onorario, sperava di realizzare un disco in tutta tranquillità con loro, con la gente con cui era abituato a lavorare e di cui si fidava ciecamente.
Gente come Pasquale Panella, che non l'ha mai abbandonato: il paroliere perfetto per lui, di rottura, assolutamente lontano dalla retorica cantautorale, un poeta assurdista che accettava la sfida di sovvertire definitivamente i canoni fra testo e musica. Grazie a Carella ebbe la possibilità di lavorare anche con Battisti, uno dei tanti che ha scippato qualcosa a Enzo, chiaramente illuminati dalla sua rivoluzionaria visione della musica italiana. Perché Panella viveva con Carella una simbiosi unica: nascono insieme, pensano come una sola entità. Battisti fa fatica a cantare i testi di Pasquale, diventa a volte meccanico ed è costretto spesso a imitare le piroette melodiche di Enzo, proprio perché la sinergia Carella/Panella va liscia come l'olio, anche nelle metriche più ardite.
Fra gli altri "scippatori" pensiamo a Venditti, che si accaparrò subito i Goblin a suonare nei suoi dischi, inaugurando questa relazione con l'LP Buona Domenica, che sarà l'inizio di un ammodernamento generale della sua musica nel tiro armonico melodico e negli arrangiamenti (vedi coretti, gestione delle risorse sui brani di due accordi tipo "Modena" e gli inserimenti jazzati/wave), mentre Enzo nel 1977 già se ne serviva bellamente. Pensiamo a Minghi, la cui "Vattene amore", risuona in un certo senso demodé già ai tempi della sua uscita se paragonata ai doppi sensi surreali di "Barbara": stesso autore dei testi, Panella, ma la suddetta "Barbara" nel 79 arrivò seconda al festival di Sanremo, non certo terza. Pensiamo a Daniele Silvestri, che con "L'uomo col megafono" senza dubbio cita più Carella che Dylan nella perfomance con i cartelli.
Ma Carella era l'allucinazione del pop italiano, era una svolta brusca e innovativa in territori fatti di precisione certosina negli arrangiamenti, nella produzione, in tutto. Spendendo fino all'ultima lira e fino all'ultima goccia di sudore, senza timore di suicidi commerciali, pur di ottenere il prodotto perfetto: anche a costo di stordire l'ascoltatore, portandolo in zone di luce e ombra inedite. Zone fra il romantico, il sensuale, l'estremo, fra il sacro e il profano, fra il nulla e il tutto, in un crossover di stili musicali che elencarli è troppo arduo. È stato il coraggio a mancare.
Vero è che il nostro fosse un personaggio particolare, uno che quando incontrò Dalla nel backstage durante il programma di Carlo Conti "I migliori anni", nel quale fu invitato a esibirsi con l'onnipresente "Barbara", non gli strinse la mano per motivi "di coerenza". Vero è che fosse un completo dropout per molti versi, uno che finì arrestato per aver dimenticato aperta l'acqua d'irrigazione delle sue numerose piantine di marijuana, con conseguente arrivo dei pompieri e quello che poi potete immaginare. Insomma, un eroe. I Masoko raccontano di averlo invitato per un featuring e che lui, a studio pronto e microfono acceso, all'ultimo momento si sia rifiutato di cantare.
Questo era Carella, ineffabile inventore del "post-pop" italiano: dove psichedelia e realtà s'incontrano, dove la finzione è già canzone stessa ed è fondamentalmente la vita, un cilindro con più doppifondi. Perché siamo tutti attori impazziti in un teatro le cui travi sono sempre sul punto di spezzarsi. A questo punto, dunque, lascio parlare la musica, gli album di Enzo. Perché il lamento è inutile e, quando la storia parla da sé, non c'è piagnisteo postumo che tenga.
Vocazione, 1977
Un esordio folgorante dentro il quale il magico duo mette tutta la sua sapienza poetico-musicale. Quadretti psichedelici surreali, controcorrente, sensuali, a doppio senso, assolutamente atipici. C'è di tutto: dal Brasile alla musica popolare a 360 gradi, al funk, al jazz, alla disco, al prog rock e finanche alla new wave prima che questa avesse un nome. Ma tutte queste influenze e intuizioni non si avvertono se non in superficie: si avverte invece in modo fortissimo che questa è la musica di Carella e nulla più, non c'è genere che tenga.
Tutto viene filtrato dalla voce maliziosa di Enzo, quasi un Raul Seixas del pop italiano, completamente inaudita anche oggi. Ispirazione per alcuni act indie come Colapesce, ma se questi avessero davvero ascoltato la lezione di Enzo oggi forse non staremmo qui a rimpiangerlo. Vocazione, infatti, è il miglior disco indie del 2017. Agli strumenti, fra gli altri, Pignatelli dei Goblin, alle tastiere Paolo Rustichelli, per una qualità estrema ancora oggi imbattibile. Basti ascoltare "Malamore" per capire che non è stata e non sarà più la stessa cosa.
Barbara e altri, 1979
Enzo si accaparra buona parte dei Goblin (Pignatelli, Marangolo, Guarini) mettendosi egregiamente alla chitarra. Lima il tiro sintetizzando le intuizioni più scoppiate del disco precedente in perfetti gioiellini pop: uno dei dischi che hanno influenzato molto il songwriting di Calcutta (suo grande fan) in maniera in parte inconscia (come non pensare a "Foto" quando si ascolta "Natalios"?). Inaugura l'entrata di Carella nel mondo della "musica italiana che conta". In maniera repentina si ritrova al secondo posto del festival di Sanremo, con quella "Barbara" che diventa immediatamente sua croce e delizia.
Nonostante il successo, Carella rimane infatti completamente distaccato dai facili entusiasmi del mondo dorato della canzonetta. Il mondo dorato di cui sopra invece è sconvolto dalla sua penna, tanto che le spruzzate di pop jazz con finale a schitarrate acide verranno più tardi risucchiate dai Pooh del 1984, così come le intrusioni hard blues/psichedeliche poi saranno saccheggiate da Zucchero, o il funk tiratissimo di "Oh Rai!", nato prima del celeberrimo "Viva la Rai" di Zero. "Nel cielo mucche/nelle stalle tutte stelle": un manifesto surrealista ma anche molto concreto attacco allo star system, come fu la "Scuola romana di musicalità" del disco precedente, in cui si rivelava che Roma aveva finalmente il suo nuovo paladino a trascinare tutta una scena che, del vecchio cantautorato, faceva poltiglia.
Sfinge, 1981
I tempi cambiano e anche Carella muta entourage: via i Goblin, dentro turnisti di grandissimo spessore (alcuni presi dalle schiere di Pino Daniele, come il batterista Fabrizio Milano) e soprattutto Elio D'Anna degli Osanna che presta il suo sax e la produzione. Panella si firma Vanera, pseudonimo con cui l'anno dopo presterà la sua inventiva per Oh era ora! di Pappalardo, il primo passo verso la comunione d'intenti con Battisti e verso un modo di scrivere i testi più "diretto" e "mainstream" secondo la tradizione di Roberto Roversi quando si firmava come Norisso nelle sue collaborazione con gli Stadio e Dalla.
In pieno periodo post-Una giornata uggiosa, Enzo riesce dove Battisti aveva parzialmente fallito. Confeziona un pop senza fronzoli ma di una finezza assoluta, quando invece la produzione di Lucio era appesantita dagli arrangiamenti. Il tocco di Elio D'Anna ai comandi è invece diafano ma nello stesso tempo incisivo, a volte anticipando il new romantic o il cool jazz, come nei grandissimi brani "Mare sopra e sotto" e "Riflessione finale", ancora oggi senza età pur essendo uscite nel lontano 81. I testi oscillano fra momenti esistenziali in cui si ama e momenti in cui si vacilla, ma resta costante una paranoia densa. Un continuo bipolarismo stupefatto in cui anche la follia è tollerata come un diversivo dalla routine della vita, vista dall'esterno di un occhio curioso.
Carella De Carellis, 1992
Dopo un'assenza dalle scene che si percepisce quasi eterna, Carella torna con una semi- raccolta, fra inediti e vecchi successi. I nuovi brani sono come al solito assurdi, ad esempio "Bubbà" che alla fine è solo una serie di bestemmie mascherate, d'imprecazioni libere a una vita che spesso toglie altri modi di esprimere il disagio. Musica delicata, minimale, una specie di risposta al Luca Carboni dei Novanta, anche lui uno dei discepoli di Carella nel gestire musicalmente amore e disagio: come in "Aspetta e Spa", leggera come una piuma ma senza una sbavatura, con intrusioni di reggae bianco ma non per questo "non-nero". Perché il cuore di cui dicevamo, come ne "La pappa del cuore", è blues nel suo serpeggiare sudamericano, un assolato arcipelago di tormento.
Oramai Panella è il braccio destro di Battisti e di Minghi, ma non dimentica le radici; e anzi, in vece della sua neo acquisita popolarità, traghetta Carella verso il ritorno vero, che avverrà solo tre anni più tardi. Probabile che questa neo leggerezza minimale sia mutuata anche dall'esperienza del Battisti dei dischi bianchi, ma sempre in un'ottica Carelliana che non ha interesse a scimmiottare ma anzi a confermarsi ancora una volta caposcuola assoluto.
Se non cantassi non sarei nessuno (l'Odissea di Panella e Carella), 1995
E, infatti, nel 1995, con Se non cantassi non sarei nessuno, Enzo torna con dei brani magnifici. Quello che da molti è visto come una sfida a Battisti è semplicemente una ricerca parallela nel campo dell'artificio. Dove Battisti interpreta il sintetico in maniera quasi aliena, Panella lo fa in maniera completamente popular, tanto che l'alieno è invece trasportato nella quotidianità di canzoni orecchiabili ma nello stesso tempo articolatissime, intrise di funk e di elettronica midi. Il collante per ottenere tutto questo è Sergio Caputo, anche lui romanissimo, cantautore confidenziale ma surreale in bilico fra jazz da club e fumosi arrangiamenti di plastica (non a caso scoperto proprio da Vincenzo Micocci, stesso produttore di Carella). Da Caputo, Carella estrapola il gusto ironico e dolceamaro, scolpendolo nei testi visionari di Panella. E soprattutto trasfigura il (mal?) costume diffuso della nostalgia anni Sessanta, fatta di star che ritornano sulle scene con arrangiamenti al limite del karaoke.
Carella sembra prendere tutto questo materiale e mescolarlo fino a dargli una dignità che buca il muro della "Fininvest muzak", prendendosi gioco di modi e generi e soprattutto della musica pop di maniera. Si riprende insomma quello che l'industria ha tolto alle orecchie della gente: da qui l'odissea del titolo, i proci vanno fatti tutti fuori.
Ahoh yè Nanà, 2007
"La superficie sarà / domani profondità". Il singolo "Oggi non è domani" è un manifesto assoluto di genialità che rasenta il classico. Carella e Panella, insieme dopo quelli che sembrano milioni di anni, costruiscono un disco che seppellisce quasi tutto quel "pop cantautorale" che oggi spopola in Italia, non si sa bene per quale ragione.
Senza più un Battisti da superare, senza più niente da dimostrare a nessuno, quest'ultimo lavoro è forse il capolavoro di Carella nel non dare punti di riferimento se non quelli contenuti in questi versi, versi di un Panella passato nel frattempo indenne anche attraverso esperienze come l'adattare il libretto del Notre dame de Paris di Cocciante, esperienza che lo avvicinerà ancora di più al suo vecchio compare. Come a dire: attenti, che un giorno capirete cosa vi siete persi; sbrigatevi, svegliatevi, prendete quello che ancora c'è di Carella prima che si dissolva.
"La mia incredulità, un pentimento sarà / Il mio continuo fottio, domani la castità / Il mio silenzio sarà, domani loquacità / La mia spietata idiozia, intelligenza sarà". Queste parole bastano a descrivere i nostri rimpianti più del nodo in gola. Ciao Enzo, e perdonaci, se puoi, da lassù.
Il primo pezzo di Bresh che ho sentito è stato "Gaston". La base, quella di "I Won" di Future e Kanye West, è una delle migliori produzioni di Metro Boomin—un pianoforte ridotto all'osso e qualche ondata di synthoni, nulla di più. Nell'originale, i due rapper si vantano delle loro tipe-trofeo in un video luccicante, in bianco e nero, su una spiaggia al tramonto. Nella sua versione, Bresh ha come unico trofeo il rispetto per sé stesso e per gli altri.
"Non sono mai stato lontano da te / Vivo come tutti pensando un po' a me / Ripenso ai percorsi che ho preso da prima / Salgo su una scala e guardo la mia vita," comincia. Parla della tipa che non ha—il contrario di un vanto—e dice di aver mandato consciamente via molte di quelle che ha avuto. La testa è bassa, ma gli occhi hanno uno sguardo vitreo e concentrato: "Cosa credi che ne sappiano / Di quanto mi sbatto io / Lascio che 'sti cani abbaino / Il padrone sono io."
Il video è candido, genuino: comincia nell'appartamento che Bresh condivide con Rkomi, Tedua e Sonny Willa, luogo di incontro e ritrovo anche per gli altri ragazzi di Wild Bandana e Zona 4 Gang. Insieme ridacchiano e mangiano una pasta non proprio invitante, versandoci sopra dei piselli da una scatoletta. Il clip raggiunge il suo culmine di fronte all'aeroporto di Linate, coperto da un cielo nero attraversato dalla luce di un aereo. Un gesto di affetto nei confronti di Milano, dove ha cominciato a vivere partendo dalla sua Bogliasco, primo paese a levante accanto a Genova.
Ed è a Genova che arrivo nel primo pomeriggio di un venerdì di febbraio, uscendo al casello di Nervi. Mi trovo di fronte le case di Colle degli Ometti, rivolte al mare, e un vento gelido entra dal mio finestrino. Le mie uniche esperienze genovesi fino a quel punto avevano compreso una gita all'Acquario da piccolo, un paio di traghetti presi al porto e un concerto di Morrissey. Non avevo mai davvero esplorato quelle strade: non potevo immaginare quanto contorte e affascinanti potessero rivelarsi. Passo a prendere Bresh, e insieme ci dirigiamo verso casa di suoi amici nel quartiere di Lagaccio. Lì avremmo messo su una chiavetta le basi dei suoi pezzi per poi andare verso il locale dove, la sera, si sarebbe esibito con Tedua, Vaz Tè, Disme e Young Slash.
Avevo incontrato Bresh per la prima volta a novembre 2016, a Calvairate, nel bar dove Rkomi ha girato il video di "Oh Mama." Ci stavamo trovando lì per una sorta di pre-intervista: non voleva farne immediatamente una, mi diceva, "per evitare di fare il passo più lungo della gamba." Abbiamo bevuto un paio di birre e poi siamo saliti a casa sua, lì a due passi, per ascoltare un po' di musica. L'impressione che ho avuto, e che ho tuttora, è che sia una persona genuina ma al contempo molto cauta nel presentarsi al mondo—la stessa che ricavavo dai suoi pezzi prima di parlarci di persona.
A Lagaccio restiamo a chiacchierare per un po' in casa di suoi amici, anche loro rapper e musicisti, Inzy, Samuel e Dennis. Mi presentano la loro nonna, una vecchietta dominicana adorabile che non parla una parola d'italiano, e mi offrono focaccia e birra. Continuiamo la conversazione a un parchetto di quartiere, e ci arriviamo scavalcando un paio di ringhiere. Tra l'ingorgo di case e gli alberi secchi di Lagaccio, il mare fa capolino sullo sfondo.
Bresh, dicevamo, ha molta cura della sua immagine. Durante i due giorni che abbiamo passato assieme, mi dirà spesso quale, secondo lui, dovrebbe essere il punto della sua persona—anche a intervista finita, più volte. Lo potremmo riassumere in una semplice frase che usa in "Prestigio": "Non giudicare un libro dalla copertina."
"Bogliasco è un paese di cinquemila anime, dove la gente non sta male. La mia famiglia è una famiglia standard, siamo gente che ha usato le mani per costruirsi le cose. Mio padre è di Dinegro, un quartiere di lavoratori, ha fatto il portuale per trent'anni e mi ha insegnato il senso del valore e del denaro," mi spiega; "Crescendo, dal momento in cui ti rendi conto che c'è una certa discriminazione nei confronti di chi viene da fuori, ti scatta qualcosa dentro." Come esempio di momento-illuminazione mi porta le partite di calcio: i ragazzi del centro venivano a giocare, e i suoi amici più grandi iniziavano a sfotterli. "Ma cosa? Anch'io sono uno di loro quando vado in centro a far casino, anche se abito a Bogliasco. Il mondo è terra di tutti, il suolo è pubblico."
E ancora: "Io sono un ragazzo che ha vissuto la strada come tutti. Ho tutti amici dei quartieri, delle zone più periferiche di Genova, di ponente: mi rendo conto dove sono nato io, dei miei privilegi e delle mie fortune, e da dove sono partiti loro. Quello che voglio fare è creare una giuntura tra queste due voci, essere obiettivo, elevarmi un attimo, che è quello che voglio esprimere dicendo 'Salgo su una scala e guardo la mia vita'. Vengo da qua ma non ci sono più perché ho trovato dell'altro. Ho trovato anime laddove le anime non me le volevano far vedere. Sono un ragazzo di provincia che non vede la periferia come una persona di provincia. Ho voglia di far emergere tutti. Dire alla gente di dove sono nato che non è così, la vita non è in quella bolla di cinquemila anime e di benestare."
A quest'idea, Bresh ci arriva intorno ai quattordici anni; la stessa età in cui si rende conto dell'esistenza del rap. Ci arriva scrivendo "hip hop" su YouTube ed eMule e guardando e scaricando quello che veniva fuori, fino all'arrivo di Fabri Fibra. "L'ho conosciuto con Tradimento, avevo dieci anni quando è uscito, e per me è stato subito il top, il capostipite." E nelle sue primissime cose al microfono, contenute in un tape registrato assieme all'amico Gughi P, oggi trasferito a Torino, lo dice chiaramente: "Son solo turbe giovanili, mi direbbe Fibra", rappa in "Sarà l'età", per giustificare le sue introspezioni adolescenziali: "Trovo persino che il dolore sia una buona arma / Per riuscire a isolarmi, e a zittire chi parla."
Quel mixtape, Cambiamenti, Bresh e Gughi lo registrano allo Studio Ostile—"il polmone della scena", lo chiama Bresh. "Tutti i ragazzi dalle varie parti della città si riuniscono lì a fare rap, "mi dice, spiegandomi come ha iniziato a conoscere i ragazzi con cui oggi condivide la carriera; "Durante le sessioni di studio pomeridiane ci si conosce, ci si capisce, e data l'unione che c'è tra tutti noi in questo momento sono convinto che il lato personale e umano sia stato fondamentale nell'averci resi quelli che siamo. Io da Bogliasco, Vaz Tè da Palmaro, Tedua e Izi da Cogoleto, Disme da La Spezia, Nader da Molassana, lì ci siamo conosciuti e siamo subito diventati quasi una compagnia."
Quando gli chiedo se nei suoi anni formativi ha avuto un mentore, inizialmente Bresh trova un'origine geografica alla sua educazione creativa: "Se parlo di natura nei miei testi, se ho questo fascino per le Ande e per l'Himalaya, è perché sono nato qua. A Lagaccio cresci mangiandoti il cemento, ma alzi lo sguardo e vedi l'acqua. La percepisci, la puoi toccare." Ma è anche veloce a identificare il capostipite del rap genovese contemporaneo, un ragazzo che non tutta Italia conosce ma tra le sue strade è leggenda: Nader Shah, solista dopo l'esperienza degli Ultimi AED. "Ci ha insegnato a rappare," dice Bresh, spiegandomi il suo ruolo primordiale nel portare la trap a Genova e creare una logica di collaborazione e supporto reciproci; "Nader ci ha raccolti, è un punto cardine."
Allo Studio Ostile nasce anche il primo tape solista di Bresh, Cosa vogliamo fare. È curioso sentirlo oggi e cercare al suo interno il filo rosso che lo connette ai suoi pezzi recenti. Secondo Bresh il pezzo che ci porta qua, a parlare su questa panchina, è "Viaggi": "Voglio andare in Norvegia sui Fiordi / A Yellowstone con gli orsi / In Africa sul letto del fiume con gli elefanti morti", cantava allora. "Quello che ha accomunato noi ragazzi è stato proprio questo, il viaggio", mi spiega. "Ognuno poi lo ha declinato nel suo stile, ma ognuno di noi—io, Tedua, Mirko, Nader, Vaz Tè—parla di un suo personale viaggio." Com'è naturale che sia, Bresh guarda ai suoi primi lavori con il sorriso, ma senza idealizzarli: "Avere fatto uscire due mixtape a diciassette anni resta una soddisfazione. Non è tutta roba bruttissima, ma c'era una certa timidezza artistica e interiore."
Finito l'istituto professionale, a diciannove anni, Bresh lascia casa dei suoi e si trasferisce a Milano. "Ho sempre detto ai miei che volevo vivere da solo fin da quando ne avevo quattordici," mi spiega. "Ho sempre avuto voglia di indipendenza. Sono un vecchio giovane, non un giovane vecchio." Prima di partire, però, pubblica un ultimo pezzo per cementare le sue origini, la sua identità: "Genovesi", assieme proprio a Nader. "Uomini complessi come i limiti / Mollaci su questo divano a parlare / Che posso scoprire tante cose di me / Quante ne vedo di te," rappava Bresh, anticipando la struttura dialogica alla base di "Gaston".
Arrivato a Milano, Bresh si mette subito a lavorare. "Ho fatto il commesso in un negozio di scarpe in centro, ho venduto sconti per palestre in giro per la strada, sono andato a fare l'aiutante in cucina e al Market Sound a vendere panini," spiega. È in questo periodo che esce "Gaston", seguita a breve giro da "Baghera" e "Prestigio".
"Baghera" è un pezzo che definire inusuale è poco, principalmente a livello sonoro: la sua base è "Sky and Sand" di Paul Kalkbrenner. Sugli strati di synth del produttore tedesco, Bresh intavola un discorso contenente i punti cardinali del suo rappare e della sua identità. L'apertura al mondo, innanzitutto: "Non è il genere che mi ascolto che mi fa sentire figo è ciò che percepisco," dice, affermando l'inutilità dei purismi già contenuta nella scelta della strumentale. Poi, la tolleranza e l'unione: "Siamo i ragazzi che non sanno che l'Italia per unirsi ha usato la lupara / Che il nord è il nord e che poi tu voglia o no si chiama sempre Italia."
Quando gli chiedo di parlarmi di quest'ultima frase, riferimento sociale/politico decisamente inusuale se consideriamo i testi della nuova scuola italiana, Bresh mi risponde con orgoglio: "Sono cose imprescindibili da dire. Se ci credi, ovviamente. La denuncia sociale fa parte di me, già dai tempi in cui ascoltavo Fibra. L'Italia è in un periodo di confusione, e nessuno sa da che parte buttarsi. Vedo neofascisti tali solo perché sono stati pescati nell'età della ribellione violenta. Io ho avuto fortuna di avere un nonno partigiano, e quindi non potevo che crescere con certe idee. Io sono per Genova come città medaglia d'oro alla resistenza. Vaffanculo all'estrema destra."
Baghera sarà anche il titolo del primo tape di Bresh, al momento in lavorazione. "Baghera rappresenta un animale forte, deciso, convinto, grintoso, carnivoro," mi spiega. "O attacca o attacca, però allo stesso tempo non ha la potenza di un branco di leoni, non ha la forza della tigre. È un animale saggio, che sta per le sue. È un animale più riflessivo." Nei dubbi e nelle constatazioni dolceamare che animano il testo di "Baghera", Bresh trova conforto nella figura dell'animale, come una nuova forza che lo ricongiunge al senso del tutto, alle radici dell'essere umano: "Non ci rimane che sperare di incarnarci dentro un animale totem come la pantera / O di volare sopra l'Himalaya al freddo come l'oca indiana / Com'è fresca l'aria, si è già fatta sera / Ci rimane solo cielo e ghiaia, cielo e ghiaia."
"Prestigio" ruota attorno a due concetti fondamentali: il futuro fantasticato, la coscienza del presente. "La vita da padre non è poca cosa," immagina Bresh, parlando di una sua futura figlia che immagina bellissima e già portatagli via dal ragazzetto stronzo di turno—in cui, in un gioco temporale, si immedesima. Ma il presente è fatto di indipendenza e pochi soldi, di una strada da percorrere tra "furti all'Esselunga con la fissa del mangiare", applicando grandi valori al proprio operato sapendo però quanto possano risultare effimeri, sempre orgogliosi delle proprie origini ma nel rispetto dell'umiltà di quelle altrui: "Ma non so bene se ci vado in pari / A destra campo rom, sinistra popolari / Come fai a vivere se non ci nasci / Siamo Robin Hood ma con i cellulari".
Dopo un'oretta, dobbiamo lasciare Lagaccio e dirigerci verso il locale dove, la sera, Bresh si sarebbe esibito. Lì lo lascio, accanto alla roulotte adibita a backstage a fianco dell'uscita dal palco. Lo avrei rivisto qualche ora più tardi, di fronte a un mare di cellulari accesi, mentre cantava "Gaston". Aver visto i rapper liguri in mezzo alla loro gente, devo dire, è stata un'esperienza illuminante. Credo che la qualità principale della loro scrittura sia la capacità di creare immaginari vividi tramite l'utilizzo di un vocabolario profondamente intimo, centellinato e selezionato—e mi sono trovato in mezzo a una folla che quel vocabolario lo condivide, lo usa come filtro per comunicare la propria realtà. Sul palco ho visto una festa. Ho visto microfoni passare di mano in mano, ho visto commozione, ho visto gratitudine, ho visto Tedua aizzare le folle con parole che trasudavano rispetto, umiltà e orgoglio. Ho visto la Drilliguria in azione.
Il giorno dopo il concerto, nel primo pomeriggio, incontro di nuovo Bresh nella sua Bogliasco. Sale in macchina con me e mi porta al quartiere di Quinto, dove—mi dice—passava i suoi pomeriggi da ragazzino. Ci fermiamo a un piccolo bar lungo la strada, il Due Passi. Lì si fa scattare qualche foto, spiegandomi come, crescendo, quel posto fosse il nocciolo della sua esperienza sociale. Ci sediamo poi sugli scogli della spiaggia, dove continuiamo a parlare. Bresh saluta un ragazzo che ha appena fatto il bagno e ha in mano uno spruzzino con il quale pulisce la spiaggia: è un senzatetto suo amico che, mi dice, si è guadagnato il rispetto della gente del paese sbattendosi nel suo ruolo auto-imposto di mantenitore del decoro. Tra di loro percepisco una sorta di comunanza, la stessa apertura nei confronti dell'altro che Bresh cerca di mettere nei suoi testi.
"Sicuramente io da solo non riuscirei a portare tutte quelle persone in un luogo, ma quando ci sono e riconoscono la cosa è assurdo", mi dice quando gli chiedo di commentarmi la serata appena passata. "Quando ho chiesto di mettere su le luci le hanno messe tutti, strepitoso. L'ennesima riconferma che gli step stanno andando a scalarsi. Quando la gente ti dà calore ti fa volare, ma devi sempre essere realista e concentrato. È stato grandioso. Genova si riconosce in Genova." Poi, accendendosi, torna col pensiero ai suoi inizi: "Abbiamo fatto la gavetta—i nostri primi live sono stati al Bar Lucrezia, un bar storico che faceva serate rap. In quindici sul palco e quindici sotto, a sedici anni, e dovevamo arrangiarci a far divertire la gente, la dovevamo tirare su di forza. Quando arrivi a questi palchi hai ancora tensione, certo, ma sei più tranquillo. Il sostegno della gente ti scioglie."
Il sole sta quasi tramontando, e l'atmosfera in cui parliamo assomiglia a quella del video di "Ande"—il suo penultimo pezzo, ora che è in arrivo la nuova "Gazza ladra". È una collaborazione con Tedua, a cui Bresh lascia le luci dei riflettori sotto forma della prima strofa e del ritornello. Ancora, i punti cardine che Tedua tocca sono umiltà, ("Poi un'insalata di farro / Falco è un facocero, quanto mangiamo / Come quando ci tolsero il piatto") e senso d'unione ("Non vuoi farmi piangere, poi scorgere negli occhi miei i tuoi / Finché a fine lite finiremo a fottere, non fotterci l'un l'altro / In campo non c'è scampo, il gioco è nostro).
La strofa di Bresh è un microcosmo complementare alle parole di Tedua, che parte da una dichiarazione d'intenti ("Spigoli sulle tibie di chi non tiene il viso chino / Basso profilo"), si evolve in una fantasia itinerante ("Fino alla fine delle lande, dei fiordi, l'Himalaya K2, le Ande"), stringe lo sguardo su una piccola scena intima e diaristica ("Se appoggi su di me quel drappo di seta / I tuoi capelli sembrano neve") e si conclude con autocritica e lucidità, una consapevolezza della propria fallibilità di fronte al destino: "Come cavalli conteggio il grado di tutti i miei danni / Che ho fatto da quando sono cromosoma / Tipo nascere ora e non restare in volo."
"Io sono una persona che sta sempre sulle nuvole," mi dice Bresh, spiegandomi il senso di "Ande". "Nascere, in un certo senso, è il primo danno che ho fatto." Ma cercare di elevarsi non è un tentativo di sovrastare gli altri, quanto di comprendere sé stessi e presentarsi al mondo nel modo più onesto possibile: parlando dei capelli della propria ragazza, immaginandosi padre, pagando omaggio alla natura del luogo che ci ha generati. Il tutto, con un grande senso di libertà artistica: quando gli faccio notare come la base di "Ande" sia ai limiti dell'ambient e quella di "Baghera" sia lontana dai canoni hip-hop, Bresh se ne esce con un onestissimo "Se ti piace bene, sennò non chiamarmi rapper. Non mi interessa."
Ci sono altri due fattori fondamentali che hanno reso Bresh quello che è oggi. Il primo, mi spiega, è il calcio: "Dallo stadio con le spranghe e le sciarpe / Alle sette e mezza torno a casa con mio padre che parte", diceva già in "Gaston". "Sono nato in una famiglia genoana, mio padre mi ha portato allo stadio a otto anni e le mie prime partite sono state Empoli e Piacenza in trasferta per la promozione in A, che poi si è conclusa con la partita del Venezia per cui poi ci hanno rimandato in C1. L'anno dopo ho fatto l'abbonamento." Se non avesse avuto la musica, dice, Bresh avrebbe preso la strada del tifo organizzato: "Durante la settimana non sarei potuto andare a sbattermi per la gradinata. Non ho mai fatto il pivellino che andava al club tanto per esserci, ho rispetto per gli ultras."
"Ho vissuto Genoa-Siena, l'anno in cui ci hanno diffidato 250 persone," continua. "Io ero lì, ho avuto la fortuna di non essere diffidato, forse perché ero minorenne. Ora stanno tornando tutti, la gradinata vive ancora. Voglio fare una voce di conforto agli ultras, è gente che si sbatte e ha trovato il suo luogo. Vai a tifare una cosa che non ti darà niente nella vita se non quella bella agglomerazione sociale che funziona come una droga. E la mia libertà finisce quando interrompo la tua, quindi sono libero di avere la mia droga."
L'ultimo tassello del puzzle è la figura-cardine della musica genovese—Fabrizio De André, che già citava in "Baghera": "Sono venuto su cibandomi a pane e De André / È come se c'hai 5 anni e apprezzi già il caffé." "È come essere portoghese e vedere Cristiano Ronaldo che vince cinque palloni d'oro," mi dice, quando gli chiedo che cosa significa De André per un genovese. "Chiaramente è impossibile trovare un mio pezzo o album preferito, ma devo dire che 'Il Testamento di Tito' e 'Il Testamento' mi hanno cambiato. La prima dal punto di vista religioso, la seconda mi ha insegnato che cosa significa andare controcorrente: quest'uomo che muore e lascia tutti i suoi beni non a chi gli leccava il culo ma al becchino, alle battone è qualcosa di potentissimo."
Ci alziamo dagli scogli mentre il sole è ormai quasi tramontato. Risaliamo in macchina e ci dirigiamo verso il centro città, districandoci nel traffico del sabato pomeriggio. Bresh mi porta in uno studio di alcuni suoi amici, letteralmente a due passi dai lussuosi portici di Via XX Settembre. Ci sediamo su alcuni divani e lì, con i proprietari dello studio, chiacchieriamo di tutt'altro tranne che di musica—cinema, canapa, breakdance. Ed è quasi liberatorio rendersi conto di come ragazzi di quartiere siano riusciti a ritagliarsi uno spazio nel tessuto sociale di una città labirintica e densissima come Genova, di come possano comporre i loro versi e le loro strumentali con un occhio allo schermo e uno alle folle che percuotono i sampietrini del centro. I confini che li dividono—fisici e mentali—annullati, grazie alla musica. Ed è in questo punto di connessione che Bresh si piazza, con i piedi per terra e il pensiero che vola verso i monti più alti.
Il Baghera Mixtape di Bresh è in arrivo. Segui Noisey su Twitter e Facebook.
Nella primissima metà degli anni Zero, ero nella succursale newyorkese di un'etichetta discografica house italiana a fare il primo mestiere della mia vita, uno stage. Utilizzavo le lunghe pause pranzo tra un invio di promo a nomi che avevo letto sulla stampa musicale e imballaggi. Bighellonavo per le zone di Manhattan, soprattutto nella chiassosa Chinatown con le sue bellissime coreografie di vecchietti, o in un'altra che—prima che si facessero posto altri acronimi—si chiamava NOLITA, nord di Little Italy. Entrai in un bugigattolo in cui suonavano un CD degli Streets, c'erano Harrington di diversi colori in vendita, gli avventori indossavano Casio ottonati e camice che rimandavano in modi molto letterali alle Hawaii. Anche gli accenti non sembravano familiari.
Era il VICE store, la prima incarnazione della media company che ha generato il magazine che state leggendo. Era una parentesi di lad culture: un giochino subculturale ispirato all'estetica delle generazioni precedenti, frequentato brevissimamente e con un certo imbarazzo anche da esegeti aristocratici del pop britannico come i Saint Etienne, band di musicisti-giornalisti. Consisteva nell'estremizzazione ironica e paternalistica, di alcuni tratti attribuiti alla classe operaia: esuberanza vitalistica, pacchianeria e propensione agli eccessi tossici. Una semplificazione, per capirsi, vicina più a Liam Gallagher che a Mark E. Smith, che ebbe la sua bibbia transitoria nel mensile Loaded.
A quell'epoca uno dei soci di VICE era Gavin McInnes, uber-hipster che iniziò a flirtare con idee repubblicane per rompere le palle all'imperante cultura del politicamente corretto: "Sono lieto che la maggior parte degli hipster di Williamsburg sia bianca", dichiarò notoriamente al New York Post, prima di fondare la sua gang di maschi bianchi Proud Boys e diventare un maître à penser della alt-right. Nello stesso periodo, Terry Richardson si produceva in una replica piuttosto credibile del look dello zio porco che abitava da qualche parte sulla bible belt. La buonanima di Dash Snow era l'artista del giorno: sesso, tatuaggi di teschi, saluti per overdose. Tutto una grande, grande risata, zero sottigliezza, introversione o critica sociale. Non mi ricordo se era l'ironia o la post-ironia, fatto sta che è finita per trasformarsi in serissimo terrore.
Allora facciamo così: ripartiamo dalla cultura dei vecchi, sì, ma con il santino di William S. Burroughs, figlio dei re dei contatori di cassa, riservato fino alla paralisi, quieto e sempre incravattato. Ripartiamo anche da questi due: Maurizio Bianchi, vate power-electronics dell'industrial italiano, e Abul Mogard, misteriosissimo pensionato serbo che ha scoperto l'amore per suoni ambient (poi Thom Yorke ha scoperto lui). Il tutto su Ecstatic, etichetta londinese dell'italianissimo Alessio Natalizia aka Not Waving. Ascoltate la traccia di Abul su questo LP split tutte le volte che potete nelle prossime quarantotto ore in cui sarà gratis in streaming su Noisey (per quella di Maurizio dovremo attendere la release ufficiale tra due giorni). Cancelliamo tutto, pensiamo a un rivolo di storia che si stacca di qualche centimetro da quella ufficiale. Chissà che alla Casa Bianca non accada, magicamente, qualcosa.
Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.
Febbraio è il mese più emo dell'anno. È mutilato e quindi perde la sfida a chi ce l'ha più lungo e poi i riferimenti fra Mineral e Appleseed Cast si sprecano. La vita sociale a Febbraio è ai minimi storici perché fa freddo e il localino in cui vai tu e altri 20 sfigati a bere roba a poco non fa nemmeno un live—probabilmente a causa di qualche vicino a letto con la sciatica e poco amante della musica e della gente giovane. Per fortuna, questo Febbraio si è salvato in corner con i Fine Before You Came (da ora in poi FBYC) che dal nulla se ne sono usciti con un nuovo disco. E le sorprese, nonostante i tentativi di dimostrare il contrario, ci piacciono. Dentro ci trovi sia i FBYC dilatati con voce tendenzialmente new wave delle ultime uscite, ma anche qualche bel bercione à la Sfortuna, quel disco che ha dato il via a tutti i vostri dischi emo italiani preferiti. I testi sono così quotidiani da essere applicabili anche alla vita del suddetto vicino rompicoglioni dei locali: c'è passione e tanta necessità espressiva-fattore importante di questi tempi. Ma poi quanto è ironico un nuovo album dei FBYC per il martedì grasso? Magari volevano ricordarci che c'è poco da scherzare. GIANFRANCO CARNEMALE
Di solito quando qualcuno del giro grime fa un disco "pop", e non esclusivamente fatto di schiaffoni in faccia, fa una cagata. Invece mi sembra che siano tutti piuttosto gasati per sto disco. Del resto sono circa tre anni che Stormzy è considerato una delle migliori novità nel giro (e appoggiato da veterani come Skepta), quindi questo album di debutto (che contiene anche la sua vecchia hit "Shut Up") era molto atteso. C'è grandissima tecnica, gran flow, ottimi testi, begli schiaffoni ("Return of the rucksack"), singoloni come "Big for your boots" o "Mr Skeng", ma anche momenti assolutamente delicati come "Blinded by Your Grace", brani cantati come "Velvet" o "Cigarettes & Cush" e momenti gospel ("Blinded" pt2), epici ("Don't cry for me") o introspettivi ("100 Bags", la conclusiva "Lay me bare"). Un disco forse un po' troppo delicato, forse eccessivamente lungo (un paio di cose si potevano tranquillamente tagliare), che attesta come il buon Michael Omari non abbia voluto stare sul sicuro, ma abbia anche voluto dimostrare di essere un artista più completo di quello che si credesse ("pensavate che non sapessi cantare" ride a un certo punto). Vedremo se reggerà con il tempo, ma per ora è un sì. SKAG-O STRONZY
Innanzitutto vorrei dire che un album del nuovo Kozelek, quello che fa spoken word e nei suoi pezzi ti racconta cosa ha mangiato per pranzo, per cena e i telefilm che guarda, non ha davvero bisogno di durare più di due ore. E lo sa anche lui, dato che in "Seventies TV Show Theme Song" lo dice esplicitamente: "Sto solo mettendo un'altra canzone sul disco, per riempirlo." Quindi o siamo di fronte a un caso di musica esistenzialista post-ironica che mette consciamente a disagio l'ascoltatore e lo spettatore come Eric Andre fa con gli ospiti del suo show, o Kozelek sta venendo consumato dal suo personaggio di vecchio lamentone a cui fa schifo Twitter e il capitalismo. Il problema è che da un lato mi viene da dire "Bravo Mark! Il mondo è una merda, stiamo facendo vincere i fascisti, le università non dovrebbero costare così tanto e la discriminazione sul lavoro non ha senso". Dall'altro io, avendo 25 anni ed essendo una delle persone che hanno adottato il modo di vivere che Mark odia, non posso accedere alla sua visione del mondo per motivi anagrafici—quindi non la capisco veramente, per quanto possa trovarla in buona parte giusta e/o interessante. Ci vorrebbe una faccina a metà tra sbocco e sorriso, qua. Una faccina ubriaca che ascolta le divagazioni di un vecchio senzatetto ubriaco e sente i succhi gastrici salirgli in gola al profumo del suo alito marcio, ma riesce a fermarsi prima di espellerli sul marciapiede e magari nel frattempo fa anche qualche pensiero interessante sulla vita. L'IMBIANCHINO
Il saggio dice che non c'è due senza tre, quindi Blanck Mass torna sulla scena con un disco politico, ma non come quelle zozzate tipo Fatima al-Qadiri: la politica è nel suono, non è una mera fregnaccia a parole. Cut and paste di qualsiasi cosa risulti schiacciante, con sbuffi hi-tech di macchine perfette che ruggiscono dalla discarica. Perché i lupi mozzicano più della tecnologia, e questa è la prova. MENMA SCIN
Di futuro qua dentro non c'è un cazzo, così come non c'è quasi nulla dei Blood Feast, a voler essere precisi. Tra cambi di lineup, abbandoni e posticipazioni, questo disco esce a dieci anni esatti di distanza dalla reunion della formazione del New Jersey, e dei due membri fondatori ritrovatisi a bordo nel 2007 oggi ne è rimasto solo uno, il chitarrista Adam Tranquilli. Lo stesso Tranquilli che, nel primo periodo di vita della band (1985-1989), abbandonò la nave addirittura prima del secondo album, nel 1988, e che oggi si ritrova attorniato di gente reclutata negli ultimi tre, quattro anni e cerca di rivivere i suoi cinque minuti di gloria. Però cerca di farlo con un cantante dal timbro completamente diverso, ad una velocità risibilmente ridotta, senza un minimo di trasporto, e il risultato è caricaturale. Un disco scritto a tavolino per fantomatici nostalgici ottantiani, ammesso che davvero esistano, che finisce per essere oltre il grottesco e strappare al massimo qualche sorriso compassionevole. Che tristezza. LO SFIGATO DEL JERSEY
Io con Edda sono di parte, gli perdono anche cose che non apprezzerei se fatte da altri. Mi sta troppo simpatico e gli voglio bene - pur non conoscendolo di persona, parlo solo a partire da dischi e interviste. Gli perdono anche cose che non apprezzerei se fatte da altri. Com'è questo disco? Probabilmente non è il suo migliore. Semper Biot era un capolavoro di asciuttezza, e Odio i vivi un capolavoro barocco, di arrangiamenti sfarzosi. Per quanto mi riguarda il precedente ha lasciato poco il segno, e questo è probabilmente il suo disco più pop. Una costante è che le canzoni le sa scrivere, e mi fa sempre piacere a ascoltarlo. Si ripete un po', certo: il suo metodo di scrittura è sempre quello, anche per quanto riguarda i temi non ci distanziamo mai troppo dal passato, in questo caso la novità semmai sono gli arrangiamenti danzerecci di un paio di episodi. Se non vi è piaciuto fino a oggi, difficilmente vi convincerà con questo album, tutti gli altri non resteranno delusi: non un disco memorabile come i primi due, ma comunque pieno di belle canzoni. Potrebbe anche crescere con il tempo. LA MIA PORTINAIA FILIPPINA (CHE SI CHIAMA EDDA)
Uno dei motivi per cui non prendiamo sul serio le recensioni, qua a Noisey, è che i fattori che ti fanno giudicare un album sono troppi e troppo personali. Ad esempio, se oggi non fosse stata una bellissima giornata di sole, non mi fossi svegliato presto, riposato e relativamente carico per la giornata, probabilmente stroncherei questo album in quanto "puzza di vecchio" o qualcosa del genere. Invece la mia predisposizione verso questo disco di ottimo art-pop è la migliore possibile—anzi, ascoltandolo mi viene voglia di abbracciare i Feelies, questi veterani di uno dei periodi e delle scene più stimolanti nella storia della musica. Questi echi di Velvet Underground e Modern Lovers sono come miele versato nei padiglioni auricolari, e quando in "Pass The Time" sento pulsare il cuore dei Television (seppur quelli di Adventure) non posso che sorridere soddisfatto. In Between è un disco delicato, pulito, composto e suonato da artisti maturi, senza pretese ma con onestà. E diverte e piglia bene. A tratti entra anche in territori psych, allargando il raggio di azione di queste belle canzoni pop a stati di coscienza superiori. Forse domani la penserò all'opposto, ma per ora sono pronto a portarmi questo album a ogni picnic della primavera imminente. GIONA CERTETÀ
Pochi gruppi riescono ad avere l'indiscusso e totale rispetto dei propri fan come gli Immolation. Ross Dolan e Robert Vigna in ventisei anni di carriera, nonostante abbiano alternato qualche compagno di scorribande, su una cosa non hanno mai voluto scendere a compromessi: la qualità del proprio lavoro. Allo stesso tempo, i newyorkesi sono uno dei pochissimi nomi di un certo rilievo ad essere stati in grado di reggere a tutte le intemperie di quasi tre decenni di carriera non solo continuando a produrre materiale di livello, ma riuscendo anche nella difficilissima impresa di aggiornare via via il proprio sound senza mai snaturarlo, in un delicato equilibrio tra attualizzazione e tradizionalismo. Il risultato è che ogni tre o quattro anni esce un nuovo disco degli Immolation; non lo stesso disco degli Immolation riregistrato, tantomeno il disco di una nuova band che continua a chiamarsi Immolation. Delle sonorità riconoscibilissime e allo stesso tempo mai anacronistiche unite a un songwriting di prima fascia e tamarro il giusto fanno di Atonement l'ennesimo disco di questi veterani che farà gioire ogni deathster. ERETICO INTEGRALISTA
Quando uscì Dripping, il primo singolo di Barragàn dei Blonde Redhead, era tipo luglio del 2010. L'aria era appiccicosa e io stavo lavorando a qualcosa di noioso al computer in terrazzo e quando ho visto la notizia del nuovo pezzo, sono corso a prendere le cuffie per ascoltarmelo. Mezz'ora dopo stavo al bar sotto casa a ingollarmi una peroni per quanto il pezzo mi fosse piaciuto. Detto questo, l'altro giorno un mio collega mi ha passato 3 O'clock, il loro nuovo Ep., mentre stavo lavorando al pc a una cosa noiosa e ho buttato su i 4 pezzi caricati su Soundcloud e l'unica cosa che sono riuscito a pensare aveva a che fare con Trump, i panni da stendere e mia madre. Kazu Makino, ha dichiarato che il titolo del disco fa riferimento alle tre del pomeriggio e di come quell'ora sia il momento più caotico del giorno, pieno di appuntamenti e di come in Giappone, invece, sia un'ora sacra: quella del tè. Ecco Kazu, vi amerò per tante cose che avete fatto in più di vent'anni ma bersi il tè è noioso come 'sto EP. LANOIA TREVOLTE
Il mio rapporto con i Subsonica e i progetti che gli hanno girato attorno negli anni si riduce alla seguente proposizione: "Ho comprato Microchip emozionale da piccolo, mi ci sono esaltato un botto e lo ascolto tuttora con gioia." Serio, eh. L'unico problema è che mi sono perso completamente il processo di normalizzazione che ha portato Samuel e soci ad essere un grande gruppo italiano. In altre parole: ci sta che, invecchiando, non vuoi più fare canzoni che parlino di "carne sintetica" e "cibernetica neurale" (la gag è che il pezzo con Jova, il più interessante a livello musicale, tutto cassa dritta e hi-hat, è quello che più si avvicina all'identità di quell'album nel suo parlare di una tizia che "vuole un'anima"). Come, ugualmente, una volta che ti sei reso conto di quanto la gente gridi a qualsiasi cosa tu faccia, fare il disco pop è una mossa sensata. Ma non è che, come al solito, dobbiamo far finta che questo sia un grande album solo perché lo canta un tizio mega famoso e che ha significato un sacco per il rock italiano. Il codice della bellezza è un album fastidiosamente innocuo, come deve esserlo ogni prodotto pop italiano che esce oggi per una major. Perché ok che parliamo d'amore, ma l'amore non è il vento di Libeccio che ti soffia la sabbia in faccia. È sofferenza, sudore, paranoia, gioia improvvisa, capezzoli. Soprattutto capezzoli. SAMUEL BERSAN
Volevate del thrash metal? Beccatevelo. I Power Trip sparano una mitragliata di proiettili mutuati dall'album d'esordio e potenziati, tanto che alla fine sono plutonio per l'orecchie. Incazzati a mille, esasperati finanche da loro stessi. Nulla di nuovo? E sticazzi. A noi piace il volume, non le chitarrine dei Blink-182 o delle stronzate indie che vi ascoltate voi. ZOZZO BRUTONE
La prima volta che ho visto i Gazebo Penguins è stato il 3 luglio 2011 a Bussero, un paese a nord di Milano esattamente a metà tra Gorgonzola e Cernusco sul Naviglio. Il posto in cui suonavano si chiamava ReggheRocche Festival, e aprivano ai Fine Before You Came. Era il classico ambiente da festivalino di provincia nel campo sportivo, con le panche e i tavoli da festa della birra e il palchetto su un prato mezzo verde mezzo sterrato. Non ricordo quanto avessi già ascoltato Legna, il loro album del botto, prima di allora—era uscito solo un paio di mesi prima, a maggio. Non fu un concerto di quelli clamorosamente pesanti, c'erano poche persone, ma devo dire che quando Jacopo Lietti salì sul palco per fare "Senza di te" e si buttò dal palco mi sentii sinceramente conquistato.
La seconda volta che ho visto i Gazebo Penguins è stato all'ultimo AntiMTVDay, all'XM24 di Bologna, sabato 17 settembre 2011. In una delle sale più sudate in cui mi sia mai trovato, nel tardo pomeriggio, i Gazebo suonarono di fronte a una stanza foderata di gente. Erano passati solo una sessantina di giorni, ma già la percentuale di gente che sapeva i loro testi era aumentata enormemente. A un certo punto mi trovai sul palco, a cantare, ancora, "Senza di te" e a passare il microfono al pubblico—vedi la foto qua sotto, sono quello felicissimo con gli occhiali e meno barba di oggi. Quella sera avrei visto anche i Raein e La Quiete back to back, e un pezzo dell'ultimo concerto dei Laghetto (che suonarono tipo alle quattro del mattino dopo che, a quanto ricordo, un tizio era stato accoltellato sul marciapiede appena fuori).
L'autore sul palco con i Gazebo Penguins. Fotografia di Achille Filipponi.
Insomma, mi ero preso bene con l'emo e il post-HC e il punx e il DIY e quelle cose lì. E sono cose che mi prendono bene tuttora, pesantemente. I Gazebo Penguins li ho poi visti un sacco di altre volte, e da allora quasi sempre c'era qualcuno che davvero era venuto lì per loro, e sapeva le loro canzoni, e le cantava tutto felice. Erano gli anni dell'esplosione della scena, con i FBYC che avevano alzato l'asticella del genere con Sfortuna, l'anno successivo avrebbero bissato con Ormai e, in tutto questo, si erano ritrovati senza volerlo nell'occhio del ciclone di una relativa fama nazionale. Nel 2011 non scrivevo ancora di musica; quindi non so bene approcciarmi criticamente a Legna, e credo non abbia senso farlo col senno di poi dato che è stato parte di me e della mia crescita personale. Sono sempre stato una persona molto attenta ai testi delle canzoni, dato che ci ho imparato l'inglese traducendoli e mi è sempre piaciuto memorizzarli. E la scrittura di Capra, così come quelle di molti altri liricisti della scena, mi arrivava dritta allo stomaco.
In generale, i miei amici mi considerano quello tranquillo, lucido e in pace col mondo che riesce a gestire bene le cose ed è bravo a non incazzarsi e non buttarsi mai giù. Ma non è chiaramente sempre stato così, e ci è voluto un pochetto prima che il mio cervello mi risparmiasse anni di dolore e paranoia convincendosi che, per dire, anche se la ragazza che amavo non mi amava e amava un altro era davvero tutto ok e potevamo addirittura non mandarci affanculo. In tutto questo, fino a oggi, trovo un potere empatico in un certo modo di scrittura emotivo e confessionale.
Al contempo, però, non mi viene più da utilizzarlo in prima persona: cosa che, invece, mi aveva avvicinato tantissimo alle modalità di espressione tipiche dell'emo anni prima. Certo, i Gazebo avevano dalla loro anche quel-qualcosa-in-più: c'erano sì i momenti in cui Capra si lasciava andare all'emozione ("È facile, è troppo facile sorridere d'estate / È facile, è troppo facile non scegliere per niente"), ma anche i momenti strambo-creativi. Vedi "Dettato", due parole in croce che però saltano efficacemente da una tematica anti-lirica come l'editing a una considerazione personale di quelle che ti fan pensare. Parole che, tra l'altro, contengono un dissing a una delle questioni che più mi stanno a cuore nella vita: quella piaga dell'editing contemporaneo italiano che sono le "e" maiuscole accentate con l'apostrofo.
"Odio i refusi nei libri nuovi, e quando abusi di esclamativi. Gli accenti storti sui perché, gli apostrofi sul verbo È. Mi fermo sempre sui dettagli. Ti sbagli, ma lo sai: mi fermo sempre sui dettagli. Un punto che non c'è è un vuoto a perdere."
Poi è successo che l'emo italiano è diventato sempre più grosso e famoso, i Gazebo hanno fatto un secondo album che è andato molto bene, hanno collaborato con I Cani, si sono presi i complimenti da chiunque, l'Igloo di Sollo è diventato uno degli studi in cui andare se volevi registrare un disco e Capra ha fatto un album solista a cui ha contribuito anche una realtà teoricamente molto lontana dalle loro origini come Garrincha. Insomma, sono esplosi, e facendolo hanno—come capita a tutti—perso qualcuno lungo la strada, ma guadagnato molte, molte altre orecchie pronte a sentire quello che hanno da dire.
E qua arrivo a un punto: se scrivi di musica in Italia, bene o male, conosci le persone di cui stai scrivendo. E anche se non le conosci, comunque magari ce le hai amiche su Facebook. E anche se non ce le hai amiche su Facebook, qualcuno che conosci sicuramente le conosce. Il che rende—almeno per me—molto difficile parlare dei Gazebo Penguins oggi. Non conosco bene Capra, Sollo e Piter, ma li ho visti dal vivo dieci volte, ci ho chiacchierato un sacco, una volta sono venuti a casa dei miei a Cremona per un'intervista e grazie ai social più o meno so che cosa fanno nelle loro vite e come stanno. Quindi, per parlare del loro nuovo album, che si chiama Nebbia ed esce domani per To Lose La Track, l'unica cosa che posso fare è abbandonare le regole della critica per vedere che cosa esce.
Inizierei col dire che la cosa che mi è piaciuta di più di Nebbia sono le sue parti più quiete. Non sono particolarmente complesse o innovative, ma non c'è n'è bisogno dato che creano una sorta di tensione davvero godibile e liberatoria—vedi l'inizio di "Febbre", qua sopra, che mette due accordini di acustica su un drone e un po' di feedback con le voci tutte prese. O quando "Bismantova" smette di schiaffeggiare e inizia a saltellare, con delle percussioni incalzanti e il resto della strumentazione che scende e ricresce pian pianino fino a riesplodere, giocando con maestria di saliscendi. O ancora "Pioggia", che resta un po' a metà tra dirompenza e riservatezza: intensa come i migliori FBYC nella sua prima parte distorta, tutta distesa di chitarrini rifratti nel finale.
Le parti più classicamente chitarrose, invece, sono in classico stile Gazebo: non mi hanno fatto gridare al miracolo, ma mi sembra funzionino bene in un contesto di continuum musicale con Raudo. Ci sono quelle tipo bordate in faccia ("Fuoriporta"), quelle a mezza velocità che fanno i muri di suono ("Atlantide"), quelle stridenti ("Scomparire"). Insomma, tornano tutte le modalità delle sei corde che i Gazebo hanno adottato per creare il loro suono. Potete giudicare in base al vostro gusto se è un bene o un male.
La cosa che più mi ha fatto pensare è la seguente: le parole dei Gazebo Penguins non mi fanno più tremare come in passato. Ora come ora non mi viene voglia di impararle a memoria, anche se un po' da sole nei pensieri ci entrano. Resta che non mi viene affatto voglia di ironizzarci sopra, o di tacciarle di qualche difetto, perché i Gazebo non parlano di società, di etica, di massimi sistemi; non si inventano mondi per costruirci dentro narrazioni. Non giocano su un terreno di discussione ma di confessione. Parlano dei cazzi loro cercando di trovargli un senso, credo. E i cazzi di qualcun altro non si possono davvero discutere.
Posso però dire che cosa mi fanno passare dentro. Come dicevo: con l'emo italiano sono cresciuto, e ho spesso usato le parole dei Gazebo come ricettacoli delle mie sfighe e felicità personali. Ma con il passare del tempo la mia vita mi ha portato in un luogo della mente più pacifico, positivamente fatalista. Ascoltando Nebbia mi rendo conto, per la prima volta, che non cerco di cucirmi le sue parole addosso. Le vedo però riflettersi sulle persone che amo e ancora affrontano ansie, depressioni e sbattimenti immeritati.
"Non c'è notifica che ti salvi / Quando niente ti fa stare bene" è una frase che mi fa sorridere e, al contempo, mi lascia l'amaro in bocca—perché non so se vi è capitato di provare quell'impotenza terribile che ti pervade quando cerchi di far stare meglio una persona a cui vuoi bene, e dall'altra parte ti arrivano solo singhiozzi o silenzio. "A volte consola sentirsi scemi a piangere", canta Capra in "Soffrire non è utile," e io mi sento al contempo fortunato per non aver mai provato nulla di simile e spezzato in due a pensare a come, invece, ci si possa sentire a concepire un pensiero come quello.
Un'altra fonte di brividi, per me, è stata "Bismantova", con il suo parlare di scomparse internettiane: "È ancora attivo / Il tuo profilo / Un vuoto aperto sul vuoto." Non so se Capra si riferisca alla morte o a qualcosa di meno definitivo, ma è quello a cui mi fa pensare. "Resta ancora," dice, e tutti ci siamo visti portar via dal tempo o dal caso una persona di cui ormai ci resta poco di tangibile: qualche fotografia, qualche messaggio, un profilo Facebook inutilizzato.
Il caso, ecco: quelli che mi sembrano essere i temi portanti dell'album sono la casualità e la permanenza. La prima la concepisco come regola fondamentale dell'esistenza e quindi innocua per il mio benessere, tendo a guardare al passato col sorriso e non col magone. La seconda mi sembra invece abbastanza evidente: se una persona se ne va, o se resta, ha sicuramente i suoi motivi—per quanto possano sembrare assurdi se visti da una prospettiva diversa. In entrambi i casi si tratta, in fondo, di accettazione.
È per questo che mi viene difficile fare mie molte delle parole di Nebbia—un album che non accetta gli avvenimenti che contiene ma se li passa tra le mani, li osserva, cerca di arrivarne all'origine. E intanto fantastica scenari paralleli in cui i suddetti non si sono manifestati. "Scomparire" contiene frasi come "Ti chiederei di ripartir da capo" e "Cambiare idea non cambierà quello che è già successo"; "Febbre" si immagina che cosa potrebbe accadere se, chiudendo gli occhi e riaprendoli, potessimo cambiare la realtà. Il comunicato stampa del disco si chiede, "Quanto dipende il nostro star bene dalle altre persone?" Boh, non lo so. Tanto, credo. Non è una domanda che mi pongo, ma non c'è niente di male a farsela. L'unico problema, penso, è che la risposta potrebbe non esistere, o non essere particolarmente piacevole.
Che poi anch'io vorrei cambiarla, la realtà. Certe cose del mondo (principalmente sociali e politiche) mi impediscono di vivere sempre col sorriso, e farei qualsiasi cosa per far sì che le persone che amo smettessero di star male, trovassero il lavoro dei loro sogni, facessero pace coi loro parenti stronzi. Ma la mia mente ha sviluppato una sorta di meccanismo di autodifesa che la accetta, questa realtà, e cerca di depotenziarla ridimensionando il mio ruolo all'interno dei processi che la governano. E allora ho meno bisogno di buttar fuori emozioni traslandole nella musica che ascolto; ma non per questo credo si possa attaccare o criticare chi continua a farlo, tra l'altro dando una mano a chi condivide la stessa visione del mondo a sentirsi meno solo. È solo questione di soggettività espressiva, e quella dei Gazebo resterà sempre valida tanto quanto la mia.
Il terzo album di Kendrick Lamar To Pimp a Butterfly è diventato un classico immediatamente dopo la sua uscita a marzo 2015. Da allora, i fan cercano febbrilmente indizi del suo seguito. Ma come ben sappiamo, visto il modo di operare di TDE, non si sono fatti grandi progressi in quel campo. Per nostra fortuna, Kendrick è finito sulla copertina dell'ultimo numero di T Magazine insieme a Beck e Tom Waits. Nell'intervista contenuta all'interno, ha fornito un po' di informazioni sulle possibili tematiche del suo prossimo album.
In questa conversazione, alla domanda su che cosa gli stesse passando per la testa, Kendrick risponde: "Sto pensando ai miei fratelli minori. Uno è più grosso di me, ha 22 anni. Un altro ne ha appena compiuti 11. La mia famiglia". Prosegue: "Penso che oggi, per dove siamo arrivati negli ultimi mesi, mi concentrerò esclusivamente sul tornare alla mia comunità e alle altre comunità in tutto il mondo dove si sta lavorando alla base. To Pimp a Butterfly dava un nome al problema. Ora mi trovo a non voler più indicare il problema", ha detto. "In questo momento stiamo escludendo un elemento molto importante dalle nostre vite: Dio. Nessuno ne parla perché è quasi in contrasto con quello che sta succedendo nel mondo quando si tratta di politica, di governo e di sistema".
Kendrick ha anche detto che questo album sarà "molto urgente" e ha chiesto all'intervistatore se avesse dei bambini, al che lui ha risposto che ha una figlia. A quel punto Kendrick ha detto: "È questo che mi passa per la testa come autore. Un giorno, potrei avere una bambina. Ed è a una bambina che penso in particolare, che coincidenza che tu abbia una figlia. Diventerà grande. Sarà una bambina che adoro, l'amerò per sempre, ma arriverà a quel punto in cui incomincerà ad avere delle esperienze. E dirà o farà cose che tu potresti non approvare, ma è la realtà e tu sai che lei è destinata a spingerti fino a quel punto. E fa paura. Ma devi accettarlo. Devi accettarlo e devi avere le tue soluzioni per capire come gestire queste cose e come agire".
Poi ha proseguito: "Quando dico 'la bambina', l'analogia è quella di accettare il momento in cui lei diventa grande. Amiamo le donne, amiamo stare con loro. A un certo punto potrei avere una bambina che cresce e mi parla del suo rapporto con una figura maschile—cose che la maggior parte degli uomini non vogliono sentire. Imparare ad accettarlo e a non scappare da ciò, è così questa sensazione che voglio da questo album".
Sfortunatamente, al giornalista non è stata concessa l'opportunità di ascoltare neanche un frammento del materiale. Leggi l'intervista completa in inglese qui.
Foto: Screengrab di un'altra intervista da YouTube.
Qualche giorno fa io e il mio ragazzo ci siamo ritrovati a giocare a un gioco molto divertente chiamato "Trova la peggior canzone che puoi trovare su YouTube." A un certo punto, appena dopo questa terribile cover di "Electric Feel" degli MGMT, lui ha deciso di alzare l'asticella facendomi sentire una canzone che non mi era mai passata davanti: "My Pal Foot Foot" delle Shaggs.
Le mie orecchie sono state riempite da un'assurda cacofonia di percussioni confuse, nervose melodie di chitarra da due soldi, e una linea vocale che definire "innaturale" è poco. Non c'era traccia di un basso, ma forse era meglio così! Solo accordi graffianti e scordati, con sopra una voce con un forte accento del New England che si lamentava di aver perso il suo caro gattino Foot Foot.
Lo sfondo del video era un'immagine in bianco e nero che ritraeva tra ragazzine boccolute che mi guardavano con dei sorrisi strani e disorientanti. Era qualcosa di inquietante, come se fosse il prodotto del talent show di un culto perverso degli anni Settanta. I loro ghigni mi facevano venire voglia di allontanarmi il più possibile dallo schermo e pensare seriamente alle mie scelte di vita.
Dot, Betty ed Helen Wiggin erano tre sorelle di Freemont, un piccolo paesino del New Hampshire. Hanno suonato assieme tra gli anni Sessanta e i Settanta dietro ordine di loro padre, Austin Wiggin. Raggiunsero una relativa fama nel decennio successivo, ma il fatto che ne abbiano ottenuta anche solo un minimo mi lascia senza parole. Non erano musiciste con una grande visione sul futuro della musica; solo ragazzine che non sapevano suonare i loro strumenti. Quello che mi confonde di più, però, è che anche l'adolescente senza talento medio riesce ad avere una sorta di senso del ritmo: in "My Pal Foot Foot" non ce n'è alcuna traccia.
Insomma, "My Pal Foot Foot" era la canzone peggiore di sempre, suonata dalla peggior band di sempre. Le Shaggs erano disorganizzate, avevano testi assurdi permeati da una sorta di carineria ostentata e malata; sembravano sbagliate sotto ogni aspetto. E le altre canzoni del loro album di debutto, Philosophy of the World, non erano affatto meglio. Morale: ho chiesto al mio ragazzo di togliere quel video e di lasciare che le mie orecchie si cicatrizzassero.
Poi, però, ho scoperto che le Shaggs si stavano per riunire e avrebbero suonato dal vivo al Solid Sound Festival, organizzato dai Wilco, più di 50 anni dopo la loro formazione. Allora ho deciso di ascoltare davvero Philosophy of the World, dall'inizio alla fine. E poi è successo qualcosa di strano. Mi sono resa conto che più ascoltavo le loro dissonanze, più mi sembravano coese e coerenti. Il mio cervello, a tratti, riordinava le loro chitarre maldestre e le loro percussioni impacciate in qualcosa di sensato. Le Shaggs stavano iniziando a piacermi.
E non sono l'unica persona che ormai pensa che siano la MIGLIOR peggior band della storia. Si dice che Frank Zappa le considerasse migliori dei Beatles, Kurt Cobain mise il loro album al quinto posto della sua personale classifica di album preferiti di sempre, e Lester Bangs lo chiamò "uno dei capolavori della storia del rock 'n' roll."
Immagine: Dot Wiggin
Ma la loro incomprensibilità e la loro irrazionale e assurda scalata verso la fama mi fa pensare: le Shaggs ci piacciono solo perché ci spingiamo a farci piacere le cose strambe? Se l'è chiesto anche Dot Wiggin, la cantante e principale autrice delle canzoni delle Shaggs, arrivando alla conclusione che probabilmente la gente si prende bene con la sua band per la storia che ha dietro più che per le sue canzoni.
Ed effettivamente quella delle Shaggs è una grande storia. Ci sono dentro superstizione e veggenza, un padre severo immedesimatosi nel loro manager, e il rapporto tra tre sorelle di paese capitate alla fama dodici anni dopo averci provato seriamente.
Austin Wiggins aveva visto avverarsi due delle previsioni che una chiaroveggente aveva fatto a sua madre leggendole la mano: avrebbe sposato una donna dai capelli biondi e avrebbe avuto due figli dopo la sua morte. La terza diceva che le sue figlie, un giorno, avrebbero fondato una band di successo—e quindi Wiggins fece un tentativo. Le ritirò da scuola e le fece provare dall'alba al tramonto, facendole esibire ogni sabato sera al municipio del loro paese.
Dopo la morte di Wiggins, le Shaggs si sciolsero immediatamente. Ma nel 1980, all'improvviso, due DJ americani trovarono una copia di Philosophy of the World e ne furono affascinati. Si chiamavano Terry Adams e Tom Ardolino, lavoravano per la stazione radio NRBQ e decisero di ristamparlo con la loro etichetta. L'industria musicale si innamorò subito delle Shaggs: la loro storia è una di quelle perfette per essere trasformate in materiale da Oscar (e infatti qualche anno fa a Hollywood si parlava di un film su di loro).
C'è chi ha detto che la mano di Austin si sente, nelle loro canzoni, e la sua influenza sulle figlie è indubbia: in fondo era una figura costante nella loro vita, le teneva sempre sott'occhio e non si faceva scrupoli. Molti hanno notato che la loro musica sembra quasi dolorosa, come intrappolata, come se tra le pieghe di quella voce starnazzante ci fosse una storia terrificante da raccontare. Il principale colpevole di questa teoria è un pezzo come "Who Are Parents?", che sembra un severo dito medio ai bambini che non obbediscono ai loro genitori. "Dobbiamo ricordarci / Che i genitori sono gli unici che ci capiranno sempre / Sono gli unici a cui davvero importa qualcosa di noi," canta una voce tesa e angosciata.
Ma Dot stessa ha detto che i suoi testi maldestramente ingenui non sono proprio richieste d'aiuto. In un'intervista a Rolling Stone, ha dichiarato che lei e le sue sorelle "hanno sempre rispettato i loro genitori", e che "c'erano molti ragazzi che non rispettavano i loro genitori e li facevano stare male, quindi avevo pensato di mandargli un messaggio." Quindi, se le loro canzoni non nascondevano tragici messaggi segreti pensati per fuggire dalle grinfie di un padre autoritario, che cosa resta alle Shaggs?
La loro musica, credo. Ma siamo seri? Toglietegli la loro storia ed è difficile pensare alle loro canzoni come qualcosa di innatamente "valido". Dico questo conscia del fatto che al mondo esistono persone a cui piace sinceramente ascoltare Metal Machine Music, e Philosophy of the World è molto più facile da capire che quella mostruosità. Le Shaggs hanno senza dubbio una qualità sperimentale non intenzionale, a tal punto che sono state paragonate al free jazz di Ornette Coleman, e nonostante quello che si può credere avevano qualche idea su quello che stavano facendo.
Insomma, si chiama "essere dei geni accidentali." Ovviamente le Shaggs non stavano provando a scrivere pezzi proto-punk—stavano provando a scrivere pop tradizionale, ma senza le conoscenze o le competenze per emulare le formule dominanti tutto quello che potevano fare era assicurarsi che stessero seguendo un arrangiamento attento ed elaborato. Brittany Anjou, pianista, vibrafonista e membro della Dot Wiggins Band, ha detto che le melodie delle Shaggs "sono basate su scale pentatoniche, ma poi escono di testa e passano alla nona o alla quarta. Quando gli stessi cinque ingredienti e note chiave, ma mandando completamente a puttane il loro ordine naturale." Ancora, genio accidentale: a questo punto, qualcosa che possiamo considerare parte del fascino delle Shaggs.
Però devo dire che quello che mi ha convinto del valore delle Shaggs è stato qualcosa d'altro: la loro abilità di mantenere l'innocenza propria della loro età nonostante tutto. Le sorelle Wiggin erano ancora molto piccole quando loro padre le tolse da scuola e le obbligò a suonare in un gruppo, e le loro canzoni rivelano quanto sane continuavano a essere, quanto poco pronte erano al mondo della musica nel quale erano state gettate. "Non si può far felice nessuno in questo mondo," cantano in "Philosophy of the World": un sentimento piuttosto cinico, a prima vitsa, ma coperto da una strumentazione disorganizzata che sa, in fondo, di... caldo.
Nei commenti allegati all'album, Austin Wiggin parla dell'unicità dell'approccio delle Shaggs e dei ragionamenti poetici dietro alla loro confusione stonata. Per Austin, le parti di batteria irrazionali e le linee vocali bizzarre e apatiche delle sue figlie non erano irritanti quanto romantiche: "La loro musica è qualcosa di diverso, qualcosa di profondamente 'loro.' Ci credono, la vivono. È parte di loro, e loro sono parte di essa. Forse solo le Shaggs, tra tutti gli artisti contemporanei, fanno quello che gli altri vorrebbero: esibire quello in cui credono, quello che provano." E mi dispiace dirlo, ma ha quasi ragione.
Le Shaggs sono senz'altro inquietanti—sono troppo poco naturali per non esserlo—ma perlopiù sono incredibilmente innocenti, e lo sappiamo sia grazie alla loro storia che alle loro canzoni. Certo, Helen probabilmente stava prendendo a cazzotti quella batteria senza alcun motivo, e Betty e Dot sapevano a malapena suonare le loro chitarre, ma sotto sotto erano spinte da era un desiderio di migliorarsi, di essere effettivamente apprezzate dai ragazzi del loro liceo che gli tiravano lattine vuote quando le guardavano suonare dal vivo. Volevano essere gli Herman's Hermits, ma non sapevano come fare. Allora scrissero delle sorte di filastrocche pericolanti, fiabe sorrette da grandi messaggi e strani inni critiani—perché era tutto quello che conoscevano.
Le Shaggs non sono la miglior band della storia. I gruppi migliori sono determinati e ragionano su quello che fanno. Ma si meritano un ascolto per la loro dualità involontaria: caos e calma, disordine e bellezza. È strano—l'unica persona che ho mai sentito descrivere accuratamente quello che penso di loro è loro padre: "Dovrebbero piacervi perché sapete che sono pure. Che cos'altro volete?"
Immagini: Geoffrey Weiss/Light in the Attic Segui Noisey su Twitter e Facebook.
In una delle mosse commerciali più vicine a Berlusconi mai viste nel mondo del rock'n'roll, Trent Reznor e compagni hanno inviato ai fan che l'anno scorso hanno acquistato l'EP digitale Not The Actual Events delle buste nere con sopra un inquietante messaggio:
"Leggere FINO IN FONDO prima di aprire. Le azioni hanno conseguenze! N.T.A.W. potrebbe contenere elementi sovversivi che producono sensazioni di euforia e potrebbero ferire o sconvolgere il consumatore. Allo stesso modo, il pacchetto fisico potrebbe portare ad aspettative non realizzate o risultati inaspettati al momento dell'apertura. Si consiglia di operare con cautela in entrambi i casi. E QUESTO È IMPORTANTE... Questa roba sporca, farà un casino. Aprendo questa busta ti assumi tutte le responsabilità verso la tua persona e/o le tue proprietà e liberi di ogni responsabilità la Null Corporation, le sue aziende sussidiarie o entità affiliate per qualunque danno o dolore in cui potresti incorrere."
In questi post sui social media caricati da vari fan e raccolti da Pitchfork possiamo vedere che il contenuto è una serie di foto e stampe enigmatiche, corredate da una polvere nera che macchia le dita di chi le maneggia. Nessuno sembra lamentarsi, rimaniamo in attesa della comparsa delle prime bolle.
C'è un pezzo nel primo disco degli Sleaford Mods, quello omonimo del 2007, prima che Andrew Fearn entrasse nel gruppo, che si intitola "Teacher Faces Porn Charges"—un sample da due barre di "Let's Get It On" di Roni Size & Reprazent e Jason Williamson che inizia ogni strofa con questo grottesco titolo di giornale e poi procede a far diluviare sull'ascoltatore una serie di immagini di vita finita, da fallito. "Ho trentacinque anni e mia madre mi mette ancora i soldi nel conto corrente, così posso andare al negozio in infradito e pigiama a comprare una borsa di birre". È il ritratto di un uomo sconfitto, lo sfogo di un disperato, ma il tono è calmo, misurato e contrasta in maniera stupefacente con la scoppiettante base drum&bass.
A dieci anni e nove album di distanza, arriva English Tapas, il debutto degli Sleaford Mods per Rough Trade, che tra le altre canzoni ne contiene una intitolata "Just Like We Do", in cui Williamson rivendica il successo della band e si leva la soddisfazione di scandire con tono di scherno: "Proprio come noi, proprio come noi, alla prima occasione andresti in giro con una gran faccia di cazzo proprio come noi". Se tutte le persone arroganti avessero i buoni motivi per esserlo che ha lui, questo mondo sarebbe un paradiso.
Quello che abbiamo tutti scoperto nel 2013 con Austerity Dogs, ma che Williamson ha sempre saputo, è che non c'è via d'uscita per lui. Che cosa volete che faccia, che torni al centro di collocamento? Che formi un altro gruppo rock? Che torni in ufficio? "No, finirei semplicemente per derubare il cazzo di posto. Stai lì tutto il giorno con una cassa piena di banconote da 20, è difficile che le porti in banca. Ho delle droghe da prendere e una mente da spaccare" ("Jobseeker").
Per lui non esiste l'opzione di sbattere il muso contro il muro della mediocrità giorno dopo giorno fino a farci il callo. Non è solo che ha toccato la fredda superficie del proverbiale fondo anni prima, orfano malvoluto del britpop nella zona più merdosa dell'isola, con un problema di cocaina, di soldi e di famiglia, e una serie di manie di grandezza che aveva scambiato per progetti. Non ha più voglia di mentire a sé stesso né ai suoi ascoltatori che, grazie alla sua attitudine umile e diretta e all'energia dei suoi concerti tra non-musica, hip-hop e post punk, sono diventati un pubblico numeroso e fedele.
Austerity Dogs, in caso non ve lo ricordaste, è tra i dischi più impressionanti degli ultimi dieci anni. Immaginatevi di ascoltarlo per la prima volta dopo la sua uscita per Harbinger Sound, un'etichetta che fino a quel momento era specializzata in noise ed elettronica sperimentale: la prima reazione è quella di rimanere spiaccicati dall'aggressività di Williamson.Il minimalismo delle basi di Andrew Fearn oscilla tra l'attacco frontale di stampo anarcopunk e i pattern hip-hop da freestyle, ma è la voce che impressiona: il sottile velo di ironia che ricopre le invettive a tratti si squarcia quando Williamson sembra perdere la pazienza e il filo del discorso sforando la metrica e abbandonandosi a serie di improperi proferiti sputacchiando.
"È una cosa seria. Certo che lo è, cazzo. Pensi che io stia ignorando soldi e fama per divertimento?" ("Fizzy")
Divide and Exit ha il grande vantaggio di uscire nel momento in cui si inizia seriamente a parlare della band, ma allo stesso tempo di essere stato registrato quando ancora non se la cagava nessuno. Ad aprile 2014 il nome degli Sleaford Mods ha già cominciato a girare nei circuiti legati all'underground punk e garage, ma anche nelle riviste più grosse grazie alle controversie sollevate dai testi di Williamson.
Fortunatamente è anche forse il disco più riuscito del duo, capace di conquistare i fanatici delle cacofonie post-punk con pezzi come "Air Conditioning", "Livable Shit", "Under the Plastic and NCT" e "Middle Men", ma azzeccando anche singoli dall'incredibile potenziale radiofonico (non fosse per il linguaggio irripetibile) come "Tied Up In Nottz", "Tiswas" e "Tweet Tweet Tweet". Mettici un pezzo esclusivamente dedicato a prendere in giro il cane della regina ("The Corgi"), uno il cui ritornello è rivolto esplicitamente a Sir Paul McCartney (non in termini esattamente lusinghieri) e un paio di versi assolutamente memorabili come "Non riesco a credere che i conservatori esistano ancora, figurati che siano ancora alla guida del cazzo di Paese" e l'indimenticabile (e intraducibile) "Weetabix, England, fucking shredded wheat Kellog's cunts" che in sette parole (tre tipi di cereali da colazione, due insulti e un nome di luogo) dipinge un esilarante quanto tetro ritratto della provincia inglese, e hai il materiale perfetto per mille articoli.
Nel frattempo, i due cominciano a esibirsi all'estero. L'intellighenzia musicale mondiale per tutta risposta alza il sopracciglio con sospetto. "È la solita storia che si ripete", si mormora su internet. "Arriva una band che sembra debba fare la rivoluzione e poi si fa comprare, vedrai, sarà come 15 Million Merits di Black Mirror". Williamson non sembra per nulla preoccupato. Concede interviste su interviste, dedicandosi anche a scrivere articoli di suo pugno in veste di commentatore politico ma anche solo di personaggio interessante, ingaggia esilarante battaglie su Twitter con gente del calibro di Arctic Monkeys, Kasabian, The Kills, Blossoms.
Nel 2015 arriva l'attesissimo Key Markets. È il disco che esce nell'anno di Glastonbury (dove Williamson non riuscirà a trattenere il proprio disprezzo per il pubblico del megafestival, come racconta nella nostra intervista), in un momento di grande attenzione nei loro confronti. Certo, sarebbe una bugia dire che non risenta del solito problema dell'album che segue un capolavoro, ma il mordente è ancora tutto lì. Anche perché la formula non vuole cambiare.
Gli Sleaford Mods non hanno paura di niente. "Sei in trappola? Anch'io. Alienazione, non frega niente a nessuno" sputa Williamson in "No One's Bothered", mandando un messaggio molto preciso al suo pubblico: il tuo status di freak non riguarda altri che te—abbraccia la tua vera natura e, se devi, esprimila. Lui ha cominciato a sputacchiare in un microfono, perché altrimenti sarebbe probabilmente morto. Ma siamo chiari su questo punto: non basta che sia voglia, deve essere bisogno.
È ottobre 2016 e arriva il debutto su Rough Trade, l'EP T.C.R.: 18 minuti di vetriolo, disarmante onestà e sarcasmo. T.C.R., la pista di macchinine telecomandate, è la trappola dei meccanismi sociali, "spero che tutto si apra e si spinga al limite, che si apra fino a rompersi" ("I Can Tell"), come dire che nell'epoca della filter bubble la battaglia più dura è quella dell'autodeterminazione. Ma gli Sleaford Mods non dimenticano che il metodo più efficace per far passare un messaggio è: a) sbattersene del messaggio; b) prendere in giro il messaggero. E allora ci sono i grandi momenti di humour auto- ed etero-riferito di "Dad's Corner" e "You're a Nottzhead" (quest'ultima con una irresistibile base minimale dai suoni quasi jungle).
Arriviamo a oggi, esce English Tapas, quarto LP per la coppia Williamson/Fearn. Il titolo è un'idea di Andrew, ispirato dal menù di un pub in cui si pubblicizzavano queste tapas all'inglese: mezzo scotch egg, una coppetta di patatine, un cetriolino sottaceto e un mini-tortino di maiale. In un Regno Unito post-Brexit, la giustapposizione tra l'esuberanza del nome e lo squallore del piatto si può senza dubbio rappresentare con un diagramma a forma di Sleaford Mods.
Allora, com'è? È esattamente il disco di cui avevamo bisogno. Tanto per cominciare togliamo subito di torno una domanda scema: no, non è un disco sulla Brexit. Il futuro del Paese viene descritto come "una bandiera pisciata e un pacchetto gigante di patatine al formaggio", ma ci sono anche dei momenti di pessimismo.
Appena premo play "Army Nights" mi fa saltare sulla sedia con la sua batteria tu-pa-tu-pa che sembra uscita da un disco Crass Records. "Mop Top" prende in giro il loro bersaglio preferito, Boris Johnson, e le band afflitte dalla sindrome della reunion. Nel lento incedere di "Time Sands" la vita è sabbia nella clessidra, ogni volta che si raggiunge il fondo qualcuno la rigira e ricomincia la caduta; in "Drayton Manor" gli esseri umani sono descritti come "linee adiacenti, come la mappa della metropolitana o qualcosa del genere, ogni tanto si incrociano ma non si dicono mai niente, mai".
In generale, la maggior differenza rispetto agli altri album è una maggiore concentrazione sulle canzoni, meno sbavature, meno "fuck off" fuori campo. Ciò è probabilmente da imputare alla presenza, per la prima volta, di un vero produttore (Steve Mackey dei Pulp) che, con la sua mera presenza, deve aver mitigato lo spirito clownesco di Williamson che in passato si esprimeva con pernacchie, rutti e una generale attitudine irrispettosa verso il suo ennesimo datore di lavoro, il signor Microfono. A parte per questo e, forse, per qualche voce doppiata in più, il produttore è praticamente inesistente—Williamson e Fearn sono difficili da infiocchettare.
Ci sono vari motivi per cui questo disco è uno dei migliori che sentiremo quest'anno: è esaltante da ascoltare, i suoi ritornelli ti rimangono in testa e le basi ti fanno ballare o pogare o scapocciare con la birra in una mano e la svapa nell'altra; i testi sono acuti come la miglior stand up comedy e disordinatamente poetici come i flussi di coscienza di Mark E. Smith; ma, soprattutto, è un disco solido, concepito da una band che prende davvero sul serio quello che sta facendo.
Jason Williamson, per tornare al paragone con la stand up comedy, ricorda personaggi come Dave Attell o Doug Stanhope: la sua arte e la sua vita sono perfettamente sovrapposte, e per questo la sua forza è assolutamente unica. Il che non significa che gli viene tutto naturale, deve lavorarci: ma lavorare per diventare se stessi dà risultati molto diversi da lavorare per diventare qualcun altro. Pensateci, la prossima volta che decidete di buttarvi nella musica.
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Gli Sleaford Mods saranno in Italia in maggio per quattro date: sab 27 maggio @ Santeria Social Club, Milano dom 28 maggio @ Spazio 2011, Torino mar 30 maggio @ Locomotiv Club, Bologna mer 31 maggio @ Monk Club, Roma