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Chi va davvero a una serata di Gigi D'Agostino?

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Nel 1999 esce L'Amour Toujours, doppio album del producer e dj torinese Gigi D'Agostino. La prima parte del disco s'intitola Chansons for the Heart e contiene i singoli "The Riddle", "Bla Bla Bla", "La Passion" e ovviamente "L'amour toujours (I'll Fly with You)". La seconda parte è Beats for the Feet, una decina di tracce dance vicine alla techno e alcuni edit dei singoli della prima parte. In una riunione editoriale organizzata per stabilire la lista dei 10 album italiani migliori degli anni '90, la mia argomentazione sull'importanza culturale di questo album non solo per l'Italia, ma per l'Europa (e sull'essere l'ultimo momento di un'occupazione ventennale della musica italiana sui dancefloor del continente) è stata liquidata con un sorrisetto. Se avessi avuto abbastanza braccia per trascinare per le orecchie tutti i miei ex colleghi al Fabrique sabato 18 febbraio 2017, davanti a migliaia di persone pronte a spendere dai 20 ai 30 euro per assistere a un dj set di Gigi D'Agostino, lo avrei fatto. 

Claudia, a destra, e le sue amiche. Tutte le foto di Guido Borso

Io non l'avevo mai visto dal vivo. Quando nel 1999 è uscito L'Amour Toujours avevo 13 anni, le discoteche le avrei viste almeno tre anni dopo (e ci avrei ballato principalmente dance francese), ma mio fratello di cinque anni più grande aveva quel disco e lo ascoltava continuamente, e per quanto potessi dargli dello zarro, quei pezzi iniziarono a piacere pure a me, in quel modo zero ironico possibile solo durante la pubertà. In coda al Fabrique scopro che questa storia, che pensavo fosse un piccolo fiocco di neve, è la storia di tutte le ragazze nate tra l'85 e il '90 con un fratello maggiore—tipo quella di Claudia, nata nel 1989, che è in coda per entrare al suo primo live di Gigi D'Agostino insieme alle sue amiche: «Lo ascoltava mio fratello, lo ballava in discoteca, ma anche mio padre lo ascoltava in macchina». Canzoni preferite: "L'amour toujours" e "Super", il brano cantato da Albertino. 

Il banchetto delle magliette di Gigi D'Agostino (che non tirano come quelle di Carl Cox)

Sarebbe facile dire che il pubblico è formato da soli nostalgici, ma la gente in coda sembra messa insieme per randomizzazione – avrebbe avuto senso intervistare tutti i presenti sulle prossime elezioni per avere il polso del Paese invece che interrogarli su quello che stavano per vedere, ma non sono Nando Pagnoncelli. L'unico elemento comune dei presenti me lo dice il venditore di magliette fuori dal concerto: i fan di Gigi comprano poco, «non come fuori dai set di Carl Cox, lì vendo intorno alle 130 magliette. Da Gigi ne venderò una quarantina».  

Alessandro, Nicolò e Alessandro.

Mentre capisco la presenza di chiunque avesse già le sinapsi attive quando L'amour Toujours è uscito, non ho idea di cosa ci facciano qui persone come Alessandro, Nicolò e Alessandro, con cui ho condiviso il viaggio sul tram 27 fino a qui. Hanno uno 16, uno 17 e uno 18 anni—il più giovane mi sbatte in faccia un "quando è uscito il disco, io dovevo ancora nascere". Mi dicono che conoscono Gigi D'Ag da un paio d'anni, è la prima volta che lo vedono e pensano che la sua musica abbia "un fascino tutto suo" che "ti prende". Non posso pretendere più di queste sei parole. Canzoni preferite: "La Passion", "L'Amour Toujours" e "The Riddle".

Marco, Fabio e Valentin, i marinai di Gigi.

Altrettanto strana mi sembra la presenza di persone che avevano 4 o 5 anni all'uscita di quel famigerato disco, tipo l'altro trio con cui parlo formato da Marco, Fabio e Valentin, nati tra il 1994 e il 1995. Si sono portati da casa il cappello della marina, "Perché Gigi ogni tanto mette il cappello da capitano, e noi siamo venuti a fare i suoi marinai". È la prima volta che lo vedono al Fabrique, ma lo hanno visto spesso alle Rotonde di Garlasco, una discoteca che potrebbe diventare una micronazione governata da Gigi D'Ag. Sono anche stati al Capodanno 2017 alle Rotonde: "È stato bellissimo, un'esperienza da rifare. Ha fatto tre ore di set, dalle 23 alle 2." Marco mi spiega che Gigi gli piace perché non è la solita EDM, e i bassi fanno la differenza. Sono i primi a citare il lento violento, uno stile della dance di cui Gigi D'Ag è il massimo esponente. I pezzi lenti violenti hanno la cassa dell'hardcore ma non superano mai i 120 bpm, e sopra ci stanno loop e sample ipnotici—il primo brano lento violento di Gigi è la b-side di Bla Bla Bla, "Voyage (Africanismo Mix)". 

Poi ci sono i fan della prima ora. Fermo Annabella su indicazione dei ragazzi dello stand delle magliette. Annabella ha 51 anni, lo ascoltava in radio ma è diventata una vera fan da una decina di anni. Il suo pezzo preferito è "Bla Bla Bla", e si è tatuata sul polso il personaggio ispirato a La Linea di Cavandoli del videoclip. Dice che Gigi D'Agostino le dà la carica, ma le piace anche come persona, "Nelle interviste sembra una persona timida, che si esprime con la sua musica. È anche migliorato col tempo, è diventato un bell'uomo". L'unico apprezzamento estetico a Gigi di tutta la serata. 

I miei preferiti in coda sono Sofia e Giuliano. Giuliano ha 47 anni e ha trascinato i suoi amici a sentirlo live per la prima volta. "Sono 25 anni che lo ascolto, appena è capitato per Milano sono venuto, va sempre a Como o Pavia e con i bambini non potevo andare a sentirlo". La sua figlia più grande ha 17 anni, potrebbe venire anche lei qua, ma non voleva venire perché "ascolta Justin Bieber, Sean…" Paul? "Ma magari, ascolta Sean Mendez o Ed Sheeran." Quando le fa sentire Gigi si schifa, "dice che è roba da vecchi, ma metà della sua scuola è qui." L'altro figlio di 10 anni voleva venire, ma non è ancora in età. Giuliano dice che è bellissimo che ci siano ragazzi di 19 anni nel pubblico: "Lui unisce le generazioni, magari tra qualche anno mio figlio vorrà venire a sentirlo e io verrò con lui – così mi riporta a casa e posso bere." Pezzo preferito: L'Amour Toujours

La gente è in coda da prima delle 22.30, e quando io e il fotografo entriamo intorno alle 23 Gigi D'Agostino sta già mettendo dei pezzi violentissimi davanti a una sala mezza vuota che nel giro di un'ora esplode di persone. Ci sono le luci sul palco che formano il suo nome, i visual con il suo nome, gente dell'organizzazione che distribuisce cilindri luminosi con sopra il suo nome. Me ne ritrovo uno tra le mani dopo 10 minuti, e mentre tutti chiedono al fotografo una foto, a me tutti chiedono dove ho preso la Gigi D'Agostino Light—l'efficenza dell'animazione ne fa uscire a nastro, come panzerotti da Luini all'ora di pranzo. Poi arrivano migliaia di palloncini bianchi, anche quelli distribuiti uno a uno. È la serata in discoteca più strana in cui mi sia capitato di essere: un dj associato alla dance anni '90, uno dei generi più massificati che ci siano, sta mettendo a neanche mezzanotte solo pezzi simil hardcore davanti a un pubblico di età ed estrazioni miste. Ci sono gli hipster dei Navigli come le ragazze di provincia, i ragazzi con i maglioncini girocollo insieme a quelli con i capelli rasati con pattern misteriosi, e in un angolino la troupe del Milanese Imbruttito.

Mentre mi chiedo che cavolo stia succedendo, perché Gigi non ha iniziato dopo la mezzanotte come ogni main act che si rispetti e perché sta mettendo solo cassa dritta acidissima davanti a un pubblico che immagino sia qui per le hit, mi rendo conto che sono problemi solo nella mia testa. Tutti, dalle diciottenni con le maglie di H&M ai quarantenni con le maglie del merchandise ufficiale, sono presi benissimo. Tutti ti sorridono quando ti urtano per sbaglio, dicono "scusa" e "grazie" prima e dopo qualsiasi domanda, nessuno è molesto. Preso nella sua interezza, il pubblico sembra uscito da una campagna ministeriale per il divertimento consapevole. Saranno i cilindri colorati, la musica fuori da qualsiasi spazio-tempo, qualche teoria basilare della psicologia delle masse che non conosco, sta di fatto che per la prima volta sono in una discoteca in cui sembra che niente di male possa accadere. 

Essendo il mio primo dj set di Gigi D'Agostino, sento il bisogno di una guida spirituale che mi spieghi quello che sta succedendo. La trovo in Gabriele, un ragazzo di 30 anni che il fotografo ferma per immortalare le sue meravigliose scarpe argento con suola luminosa. Come me aveva 13 anni quando è uscito L'Amour Toujours, e l'ha visto live la prima volta proprio alla presentazione di quel disco, allo Studio Zeta. Gabriele è un fan del lento violento: "Il lento violento è un movimento, un modo di pensare fuori dai canoni." Quando gli chiedo se ci sono altri dj che hanno la stessa forza di Gigi, mi cita i nomi della dance italiana "della vecchia Disco Radio" (Molella, Fargetta, gli Eiffel 65, Prezioso e Marvin) lamentando il loro passaggio all'EDM, mentre Gigi D'Agostino "non ha seguito la scia dell'EDM, ha inventato un suo movimento, che piace a tutti, pure ai metallari."

Gli chiedo di spiegarmi come sta andando la serata: "Ha iniziato con tribalismi, per poi arrivare al lento violento, con bassi fortissimi, e adesso (è passata da poco la mezzanotte, nda) sta mettendo una delle sue hit, "Lo Sbaglio" (dall'album del 2007 Lento Violento… e altre storie, nda), più melodica. Fa sempre così: parte con dei loop in cui ti ci perdi, per poi arrivare ai pezzi melodici". Gabriele ha conosciuto personalmente Gigi D'Agostino e mi dice che è un po' lunatico: "Se arriva sul palco ed è scazzato, legna di brutto. Se arriva più rilassato, mette suoni più giocosi." Stasera secondo lui, Gigi è salito carico sul palco: "Non lo sento così da tre anni." Il suo parere generale su di lui è molto semplice: "È il dj più figo d'Italia." 

Sta per scattare la terza ora di dj set quando Gigi D'Ag si decide a mettere le sue hit. Sa che il momento in cui mette "L'Amour Toujours" è un tale avvenimento che il pezzo parte lentissimo e finisce nel nulla, dando a tutti il tempo di mettere via i cellulari e riprendere in mano i props dell'animazione. C'è un'attenzione su questo pezzo che neanche l'inno d'Italia prima della finale ai Mondiali nel 2006. Quando inizia a incatenare tutti i principali singoli, io e il fotografo decidiamo di mollare il colpo, mentre una coppia di signori verso la sessantina accanto a noi sta molleggiando sulle ginocchia per la terza ora di fila. Guardiamo dai baracchini la gente che fa ancora la fila per entrare alle due di notte. 


Qualcuno dentro diceva che Gigi si è preso 20 mila euro per questa serata, che pensata al netto di tasse e gadget vari mi sembra più che ragionevole per quello che sembra uno dei pochi fenomeni musicali italiani transgenerazionali, che invece di Campovolo ha le Rotonde di Garlasco e che ha come parte integrante di un testo d'amore anche i versi PO / PO PO RO RO / PO PO RO RO / PO PO RO RO POPO RORO RORO.

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Sono arrivati i Sect Mark a rovinarti il lunedì

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Scusate se interrompo la vostra consultazione della hashtag #mondaymotivation su Twitter e se invado lo spazio abitualmente riservato a gatti che si nascondono in scatole e cani parlanti (a proposito: no, quell'husky non sta dicendo "I love you"), ma ho un messaggio importante da parte dei Sect Mark da Roma: l'umanità fa schifo, la classe politica esiste soltanto per strangolarci e, se guardi bene, anche nel tuo giro di amici è pieno di pezzi di merda, per non parlare di quel bastardo che abita nel tuo specchio.

Ma forse letto così non è abbastanza chiaro, quindi lascerò che siano loro a comunicarvelo nel modo che preferiscono—con sei pezzi di hardcore diretto, rumoroso e lo-fi che fa pensare che i quattro romani (tra cui troviamo tre ex-Lexicon Devils e un Metro Crowd) abbiano consumato i dischi dei Void, ma anche dei nostri contemporanei The Lowest Form, S.H.I.T. e Deformity. Un sound catacombale che non fa prigionieri, né quando rallenta e si incupisce, né quando esplode in riff a rotta di collo e si frantuma in schegge di feedback.

Mi verrebbe anche da fare un discorso sulla scena hardcore italiana che, band dopo band, concerto dopo concerto, sta cominciando a respirare sempre di più aria internazionale, ma ne parlerò in un'altra occasione. Vi basti sapere che, per come la vedo io, questo demo è soltanto l'inizio. La cassetta esce in coproduzione per Murung di Trento e HHR di Roma.

Ascolta il demo dei Sect Mark qua sotto e contatta le etichette per avere una copia. Ci saranno due release party: il 24 febbraio al Fanfulla di Roma con i Random Axes, e il 18 marzo all'Arsenale di Trento con Shitty Life, Grid e Impulso. 

Oltre che ai concerti hardcore nelle cantine buie, puoi trovare Giacomo su Twitter: @generic_giacomo.

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Hakuna Matlanta: Donald Glover interpreterà Simba nel remake de Il Re Leone

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Donald Glover—sommo compositore, sceneggiatore, attore e amante—ha firmato un contratto che lo porterà a interpretare Simba nel remake di prossima uscita del classico Disney Il Re Leone, secondo l'Hollywood Reporter. La notizia è stata diffusa l'altro ieri su Twitter dal regista Jon Favreau.

Favreau ha anche twittato che James Earl Jones manterrà il suo ruolo come Mufasa, il padre di Simba, personaggio a cui non succede nulla di male e arriva incolume alla fine del film.

L'annuncio porta il 33enne Glover di un altro passo più vicino al riconoscimento mainstream. La sua serie su FX Atlanta, di cui è autore, regista e protagonista, ha recentemente ricevuto il via libera per la seconda stagione dopo la pioggia di consensi da parte della critica. Il suo ultimo album con lo pseudonimo di Childish Gambino, Awaken, My Love!, ha segnato un cambiamento radicale e incredibilmente efficace nel suo stile dal rap al funk. Ah, e vi ricordate Community? Anche Community era una bomba.

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Italian Folgorati: Amanda Lear

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Nel primo episodio di Italian Folgorati Demented Burrocacao incontra la musa di Salvador Dalí e David Bowie: Amanda Lear.

Smettila di crescere e leggi questa intervista con i Beach Slang

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Cerchiamo di mettere subito in chiaro una cosa: l'adolescenza è una cosa terribilmente seria. Mi preme specificarlo dopo aver letto la recensione al disco di una delle band italiane più in voga del momento, i Thegiornalisti, pubblicata da una delle poche riviste di settore sopravvissute a queste latitudini—il Mucchio Selvaggio—che si apriva con la seguente frase: "una delle piaghe dilaganti di questo secondo decennio di anni 2000 è la tendenza di dimenticarsi che prima o poi bisognerebbe abbandonare l'adolescenza".

Ecco, la prima cosa che ho provato ad immaginarmi, subito dopo aver esclamato dentro di me "che razza di cazzata è questa!", è stata come sarebbe stata la musica di una delle band indie rock più fighe del momento, i Beach Slang, se questa avesse rinunciato ad attingere a piene mani all'immaginario adolescenziale.

Formatosi nel 2013 per volontà di James Alex Snyder—quarantaduenne affetto da sindrome di Peter Pan in precedenza leader di gruppi gravitanti attorno alla scena punk-rock di Philadelphia (Weston, Bethlehem,  Cordova Academy Glee Club)—i Beach Slang hanno incarnato fin dal loro debutto lo spirito selvaggio che contraddistingue i turbolenti anni della pubertà. Per darvi un'idea della sua trasparenza emotiva: quando eravamo andati a vedere i Beach Slang al Primavera, Snyder aveva dato il suo numero di cellulare dal palco offrendo il suo aiuto a chiunque si sentisse triste.

Facendo leva sul motto Do It For the Kids e saccheggiando dall'eredità artistica lasciata ai posteri da band come Replacements, Goo Goo Dolls e Jawbreaker, la band di Philadelphia ha fatto del college rock dinamitardo un habitat per testi imbevuti in un'iconografia underground—romantica per quanto ribelle—capace di proiettare l'ascoltatore nella scena di un qualsiasi film di Larry Clark, o in certi scatti in bianco e nero di Ed Templeton.

Ecco quindi che, per tornare al discorso iniziale, se un bel giorno James Alex avesse deciso di "abbandonare l'adolescenza"  la scorsa settimana la sua band non sarebbe passata in Italia per presentare il suo ultimo album in studio, A Loud Bash of Teenage Feelings e, di conseguenza, questa intervista non sarebbe mai stata realizzata.

Invece fortuna vuole che James di crescere e di rinunciare all'immaginario adolescenziale che permea tutta l'opera targata Beach Slang, dai testi agli artwork passando per i video, sembra non voglia proprio saperne. Così, cogliendo l'occasione dei due concerti italiani, siamo stati in grado di raggiungerlo per farci raccontare un attimo la sua esperienza finora, e come si fa a essere così dannatamente senza filtri nel tirar fuori le proprie fragilità.

James, iniziamo dalla frase che apre l'ultimo album: "Play it tough, play it quiet, play me something that might save my life". Si riferisce a una canzone o a una band in particolare che ha veramente "salvato" o cambiato la tua vita?
Non saprei, direi che è semplicemente un messaggio d'amore nei confronti del rock'n'roll e della scena a cui ha dato forma. Per molto tempo ho fatto fatica ad adattarmi e ad accettare la realtà che mi circondava. Tutto a un tratto però, quando ho scoperto il rock'n'roll, tutto si è fatto più chiaro e ho capito a cosa appartenevo veramente.

I testi hanno un ruolo fondamentale nella musica dei Beach Slang. Quando hai capito che la scrittura sarebbe stato lo strumento con il quale comunicare i tuoi pensieri?
La mia gioventù è stata caratterizzata da alti e bassi. Penso che la cosa che mi abbia aiutato a venirne fuori sia stata la scrittura. Sin da ragazzino scrivevo di tutto e di niente, ma nei miei scritti c'era sempre comunque qualcosa. Qualcosa da strappare da me stesso per poi ri-attaccare di nuovo insieme. Band come i Jawbreaker mi hanno fatto capire che la poesia poteva avere un senso anche se accompagnata da chitarre assordanti e violente. L'idea che ciò potesse essere al tempo stesso morbido e duro ha cambiato tutto.

Per il tuo modo di scrivere, squisitamente iconografico, ti paragonerei a Larry Clark. Ti ritrovi in questa comparazione?
Cazzo amico, è un paragone che mi lusinga. Direi che narriamo lo stesso soggetto, e attingiamo alle stesse influenze, tra cui l'alienazione, la lussuria e la salvezza, questo sì. Quando scrivo, però, ad influenzarmi sono soprattutto certe fotografie di Joseph Szabo o i film di John Hughes. Da qualche parte, nel mezzo di tutto questo, trovo ciò che riesce davvero ad ispirarmi.

Passiamo al tema principale delle vostre canzoni: l'adolescenza. Di recente ho letto una recensione che si apriva dicendo: "una delle piaghe dilaganti di questo secondo decennio degli anni 2000 è la tendenza a dimenticarsi che prima o poi bisognerebbe abbandonare l'adolescenza". Ho subito pensato a come sarebbe potuta essere la musica dei Beach Slang senza di essa. Che ci dici a riguardo?
Uno dei doni più belli che riceviamo come esseri umani è quello di essere capaci di modellare le proprie opinioni e prospettive. C'è libertà, nell'adolescenza. C'è meraviglia. C'è emozione. Non devi avere 17 anni per provare quel fervore. Hai presente quella frase di Bukowski sul vivere le nostre vite così bene al punto che la morte esiterà a prenderci? Beh, è proprio questo il punto. Vedi, la piaga più grande di questo secolo non è dimenticare come si esce dall'adolescenza, è essere convinti che si debba farlo. È dimenticare quanto sia importante rimanere attaccati alle cose che per la prima volta ti hanno fatto sentire vivo, che ti hanno agitato, che sembravano pericolose, che ti hanno scosso dall'emozione, che ti sfidavano ad andare avanti. La grande piaga di questo secolo è ascoltare coloro che sono giunti a compromessi con il proprio cuore e che ti hanno detto che avresti sbagliato seguendo il tuo.

Fotografia di Jessica Flynn.

A questo punto, ci dici come è stata la tua adolescenza?
Ero insopportabilmente introverso. Ho passato un sacco di tempo a cercare di trovare la mia strada, qualcosa a cui appartenere. Poi ho scoperto il punk rock e boom! Voglio dire, quando ho iniziato a fare i primi concerti, quella è diventata la mia vita. Tutto ciò che ho fatto dopo aveva a che fare con la musica. Se non erano concerti, era suonare la chitarra, fotocopiare zines o andare sullo skateboard. Sapevo di essere diventato un militare al servizio del punk.

Penso che la forza dei Beach Slang sia quella di essere potenzialmente in grado di arrivare a tutti, dall'adolescente al quarantenne nostalgico.
Ti dirò, come prefazione a tutte le canzoni io scrivo: "For us, all of us". E lo intendo ogni volta. L'ego, la personalità, è una cosa strana. Personalmente non riesco mai ad essere in sintonia con loro. Posso però dire che tutto quello che il rock'n'roll mi ha regalato, tutte le stranezze, e le meravigliose persone che ho incontrato grazie ad esso lungo la strada hanno letteralmente salvato la mia vita. Spero possa essere così anche per chi ci ascolta.

Mi parli degli artwork che accompagnano le vostre uscite, dato che te ne occupi personalmente? Quanto è importante la componente visuale per la vostra musica?
Prima di mettere su i Beach Slang volevo fare il graphic designer, e ad oggi continuo ad avere la passione per la grafica. Mi permette di staccare la spina dalla musica senza allontanarmi dalla creatività e, insieme al progetto Beach Slang, mi consente di completare la mia narrazione. La mia opera non si limita alle sole canzoni—comprende artwork, fotografie e poesie. Credo che tutto questo sia necessario, che tutto possa essere fonte di ispirazione., da Mary Ellen Mark a Craig Stecyk, passando per la California degli anni settanta agli Smiths.

Non pensi mai che i Beach Slang siano arrivati nel momento sbagliato? La vostra musica sembra strettamente legata agli anni 80-90, a band come Jawbreakers, Replacements, i primi Green Day, Weezer.
Se solo sapessi quante volte ho provato questa sensazione. Ma si deve andare avanti, d'altronde mi sono sempre sentito un outsider. Vivere e sentirmi fuori luogo per me è un bene. Che dire, a band come Replacements e ai Jawbreaker devo tutto. Paul Westerberg mi ha insegnato a comporre canzoni, Blake Schwarzenbach a scrivere i testi. Ed entrambe le loro band mi hanno fatto capire il motivo per cui questi due elementi sono così importanti. Come puoi immaginare il rock'n'roll mi ha aiutato a tornare a galla un sacco di volte.

Ora che l'incubo è diventato realtà ci puoi dire, da americano, come ci si sente a vivere all'interno di questo mondo Trumpiano?
È terrificante. Non riuscirò mai a scusarmi abbastanza con il resto del mondo. Vi prego di capire che lui e tutto il suo pensiero assurdo e odioso non rappresentano gli Stati Uniti e le brave persone che ci vivono. Sappiate che noi continueremo a lottare finché la sua arroganza non sarà sconfitta. Non lasceremo che ci rovini.

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Cosa fare con il catalogo di un artista dopo la sua morte?

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A nessuno piace pensare alla propria morte. Al massimo gli artisti lo fanno in modo poetico e astratto, non nel senso di compilare i moduli per l'amministrazione dei propri lasciti e della proprietà intellettuale delle loro opere. Il che è forse il motivo per cui, quando Prince è morto improvvisamente l'anno scorso a 57 anni, non aveva nemmeno uno straccio di testamento. 

Con la sua morte sono iniziati mesi di complicazioni legali e udienze per stabilire chi si dovrà occupare del suo patrimonio. E, trattandosi di un personaggio di così alto profilo, il mondo ha seguito la vicenda con inusuale curiosità. La domanda che tutti si facevano era: la morte prematura di Prince avrebbe dato la possibilità di pubblicare i contenuti del suo famigerato caveau privato? La risposta, abbiamo scoperto la settimana scorsa, è sì. 

Dopo che il suo patrimonio è stato posto nelle mani della banca Bremer Trust e una intensa ricerca del testamento è risultata infruttuosa, è arrivato l'annuncio che tutti stavano aspettando—con trepidazione o con paura: il caveau di Prince sarebbe stato aperto, e almeno alcuni dei suoi contenuti, tra cui si trovano outtake, demo e registrazioni live, sarebbero stati pubblicati.

In caso non aveste ben presente la complessità degli archivi di Prince, ecco un elenco di alcune delle cose che si dice contengano: un side project chiamato The Rebels, finito nel dimenticatoio perché The Purple One pensava fosse troppo generico e insipido; un album con le voci velocizzate da pubblicare con lo pseudonimo Camille, annullato poche settimane prima dell'uscita e infine incluso in Sign O' The Times del 1987; un documentario diretto da Kevin Smith; un album di musica per bambini ispirato dalla gravidanza della allora moglie di Prince Mayte Garcia, abbandonato dopo la morte del loro bambino a soltanto una settimana di età. I migliori frammenti di questi progetti abbandonati, quelli che gli sembravano degni di essere diffusi, furono inseriti in altri progetti. Quelli che sono rimasti nascosti, sono rimasti nascosti per un motivo. 

Quindi perché siamo così ansiosi di forzare, in questo caso letteralmente, l'opera privata degli artisti e divorare i loro scarti? Perché non si tratta solo di Prince; Michael Jackson, Kurt Cobain, Tupac ed Amy Winehouse sono tutti stati sottoposti allo stesso trattamento morboso. Chiunque sia in carico delle loro eredità, per soldi o per sincera volontà di far felici i fan, li ha strizzati fino all'ultima goccia di musica, spesso ottenendo l'unico risultato di annacquare la qualità del loro catalogo. Ma la nostra insaziabile curiosità nasce da un genuino desiderio di godere di più arte possibile, o soltanto da un fascino morboso e una compulsione a mettere le mani su ciò che possiamo avere? Importa che la volontà dell'artista fosse che queste canzoni rimanessero a suo esclusivo appannaggio?

A quanto pare, la legge è costruita in modo da rendere possibili cose del genere. "Il diritto alla privacy delle celebrità è estremamente limitato", dice James Sammataro, un avvocato dello spettacolo e tra i dirigenti di Stroock & Stroock & Lavan. "Questo è il 'prezzo' da pagare per la fama. Con l'eccezione di un diario—o di oggetti di questo tipo universalmente riconosciuti come privati—i diritti alle creazioni degli artisti sono alienabili, e la natura umana porta a cercare di monetizzare queste creazioni". Lo scopo primario della legge sul copyright, spiega Sammataro, non è di proteggere il musicista, bensì di "stimolare il progresso delle arti per l'arricchimento intellettuale del pubblico".

"Per quanto sembri severo", continua Sammataro, "se Prince o altri artisti davvero non vogliono che le proprie opere vengano diffuse, devono registrare questa intenzione in un documento vincolante, oppure non registrare i lavori su alcun formato, o distruggerli". In altre parole, se sei un musicista e hai un nastro con sopra la canzone che hai scritto quando sei stato lasciato dalla tua prima fidanzatina o fidanzatino a 15 anni, dovresti correre a dargli fuoco. È l'unico modo per stare sicuri.

Sono casi come quello di Kurt Cobain dei Nirvana (nel periodo precedente all'uscita di Montage Of Heck, ogni mezza scoreggia che Cobain avesse mai inciso su cassetta è stata resa disponibile, e dieci anni prima sono stati pubblicati i suoi diari privati) che rendono ansiosa una musicista come Mitski. "Sinceramente, il pensiero di morire prima di finire un disco e sapere che verrà distribuito senza di me è quello che mi spinge a guardare due volte prima di attraversare la strada", mi confessa. "Se non pubblico qualcosa per scelta mentre sono in vita, significa che non voglio pubblicarla, e mi sento umiliata al pensiero che qualcuno possa esaminare i miei quaderni e i miei promemoria audio e li possa rendere pubblici contro il mio parere. Sono terrificata da quello che la gente si sente giustificata a fare quando si trova in gregge o in gruppo e vuole saziare la propria curiosità". 

Laura Marling concorda: "Mi fa pensare all'album che ho scartato, a quanto schifo mi fa, e al periodo di merda della mia vita che lo ha prodotto. Non vorrei infliggerlo a nessuno. Quindi spero che nessuno lo pubblichi. Una mia amica sta facendo un dottorato in archivistica digitale e mi ha detto: 'Dovresti farmi vedere che cos'hai sul computer e farmi organizzare un archivio' e io le ho risposto 'col cazzo!'"

Eppure, tra tutte le registrazioni inedite che non avrebbero mai dovuto vedere la luce, c'è la musica di Arthur Russell. Arthur Russell, talmente insicuro riguardo alla propria musica che nel corso della propria vita ha a malapena rilasciato qualche brano, dopo la sua morte nel 1992 ha lasciato dietro di sé migliaia di bobine che lo hanno consacrato come uno degli artisti più importanti di tutti i tempi. È improbabile che sarebbe stato citato come influenza da gente come Dev Hynes e James Murphy degli LCD Soundsystem, campionato da Kanye West o coverizzato da Roby e Sufjan Stevens se la sua produzione musicale si fosse interrotta con la sua morte. Another Thought, il bellissimo e innovativo album uscito due anni dopo la morte di Russell, conteneva semplicemente la sua voce, un violoncello e alcuni beat sintetici ariosi. È possibile che nella sua mente, queste registrazioni fossero soltanto bozze, contorni da riempire in futuro. Quindi è stato giusto pubblicarli? 

Lyndsey Gunnulfsen dei Pvris non ha alcun problema con questa idea. "Ci ho pensato poco tempo fa", dice. "Se morissi in un incidente automobilistico durante la lavorazione di un disco, vorrei senza dubbio che uscisse, altrimenti si tratterebbe solo di una perdita di tempo e nessuno potrebbe mai ascoltarlo". Quando i quattro membri della band indie rock Viola Beach morirono in un incidente d'auto all'inizio dell'anno scorso, non avevano nemmeno ancora pubblicato un album. Nei mesi seguenti, con l'aiuto delle famiglie dei quattro, il poco materiale che avevano già registrato fu messo insieme ad alcune registrazioni live e pubblicato come album postumo. Raggiunse il numero uno nelle classifiche UK. È difficile dire se avrebbe ottenuto lo stesso risultato se la sua pubblicazione non fosse stata avvolta da un velo di tragedia, ma è difficile immaginare che i quattro giovani non sarebbero stati orgogliosi.

Shura si è sentita nello stesso modo prima della pubblicazione del suo album di debutto Nothing's Real. "Se mi succede qualcosa", ha detto al suo fratello gemello Nick, "ti prego, fa' in modo che facciano comunque uscire il mio album. Voglio aver dato il mio contributo al mondo". Ma lei sa anche che c'è una differenza tra un musicista emergente che vuole lasciare il segno e musica che un musicista dalla carriera già ben definita ha scelto di non rendere pubblica. 

Grazie alla tecnologia e ai social media, viviamo in un mondo in cui è più che mai facile entrare in contatto con i nostri artisti preferiti, più di quanto avremmo potuto sognare dieci anni fa. Di conseguenza, è facile sentirsi autorizzati ad accedere al prodotto della loro creatività, che lo vogliano o meno—e la legge ci viene in aiuto. A volte, però, invece di affannarci a raschiare il fondo del barile, forse dovremmo cercare di accontentarci di ciò che abbiamo. "Quando si tratta degli archivi di Prince, di Kurt Cobain o di Amy Winehouse, parliamo di cose che non sono state concepite per entrare nella discografia ufficiale, e dovremmo rispettare questa scelta. Chiediamo troppo alle persone creative. Per quanto sarei estasiata di ascoltare tutto ciò che Prince ha registrato, non è giusto. E non lo pretenderei mai." 

(Foto per concessione dell'ufficio stampa)

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Ieri mattina sulla homepage di Repubblica.it c'erano gli articoli hashtag temacaldo "È Occidentali's Karma mania - 500 in piazza per ballare" e "Quiz - chi ha ispirato i versi?". L'altra sera su Sky1 c'era Gabbani vestito da scimmia che lanciava torte in faccia a Cattelan. L'altro ieri pomeriggio su SkySport c'era Gabbani ma non so come fosse vestito o perché fosse su un canale di sport perché non guardo SkySport. Sono passati dieci giorni da quando Francesco Gabbani ha vinto Sanremo e se posso dirlo queste che ho citato finora sono solo le cose normali che sono successe a contorno del successo del pezzo. La gente balla i tormentoni nelle piazze; i cantanti vanno in televisione; soprattutto quando i loro pezzi battono i record di streaming su Spotify, prendono i dischi d'oro e frantumano i primati italiani di VEVO. 

Perché ne sono successe anche di molto meno normali, di cose, riassumibili nelle frasi: ""La canzone, ve ne sarete accorti, è una critica alla mercificazione dell'Oriente che abbiamo iniziato tanto tempo fa (ve la ricordate la new age?)" e "Rovazzi o Gabbani non usano citazioni vere e proprie, o almeno non le usano in quanto citazioni, ma in quanto citazioni divenute proverbiali, vox populi di origine irrintracciabile: oppio dei popoli, panta rei, due gocce di Chanel N.5, cantando sotto la pioggia, per uno come me, per la mia generazione, sono un misto di reminiscenze scolastiche (l'istruzione di massa alla fine è sempre cultura pop) e citazioni pop, mi richiamano cioè una specie di 'cultura generale', fenomeni di costume condivisi su larga scala, popolari tra i miei coetanei e tra quelli più grandi me. Ma non tra i miei studenti tredicenni, non più."

Ovvero: con una serie di pezzi usciti su [elenco non esaustivo] IL, GQ, Panorama, Noisey, Repubblica.it  x10 e Corriere.it x12, nonché iniziative personali—i membri dell'élite intellettuale italiana hanno deciso che quel pezzo manzonianamente parlava anche a loro. Soprattutto a loro. Che potevano capirne le citazioni e il velato intento pedagogico di reimpastamento della cultura pop in un mondo dove, lamentano su IL, i preadolescenti non sanno che quando urlano "Prendo la vecchia!" stanno citando il primo Fantozzi.

A un certo punto l'altro ieri Gabbani è uscito e ha dato un po' ragione a Selvaggia Lucarelli dichiarando a Robinson di Repubblica, "Non vorrei deludere nessuno ma la genesi di 'Occidentali's Karma' (che inizialmente doveva essere 'Occidentalis Karma', poi è diventata all'inglese) in realtà è molto semplice". A me Gabbani sta simpatico perché ha detto questa cosa, e poi sembra avere dei denti molto solidi.

Ecco, abbiamo contattato il suo A&R, Riccardo Loda della BMG, per capire cosa sta succedendo.

Noisey: Ok, quindi a un certo punto Gabbani è venuto da te e i tuoi colleghi dicendo "ecco il mio nuovo pezzo"?
Riccardo: Be', lui ha scritto il pezzo con suo fratello, con Luca Chiaravalli e Fabio Ilacqua. Quando poi ce l'ha portato è cominciato un processo lunghissimo, ci abbiamo messo quasi sei mesi di cambiamenti, modifiche al testo, riscritture della musica.

La canzone è nata per andare al festival?
No! L'ha scritta mentre stava finendo le registrazioni del disco precedente, "Eternamente Ora", dal quale è tratta "Amen". Hai poi finito di lavorarci seriamente in tarda estate in modo da essere pronta per fare un ascolto con Conti in quel periodo.

Ma lui è arrivato dicendo, "Ho fatto un pezzo filosofico"—cioè qual era l'intenzione iniziale?
No, lui è arrivato dicendo di avere un'idea forte per un nuovo singolo. E' nato tutto dalla voglia di fare un pezzo forte che fosse capace anche di far divertire e ballare la gente.

Ok, e qual è il messaggio del testo?
Mah… Quello che posso dire, e che dice anche Francesco, è che è un'accozzaglia di citazioni, che rappresentano in maniera anche divertente i costumi delle persone dell'emisfero occidentale, persone che vorrebbero dedicarsi anche alle filosofie e culture orientali ma sono troppo pigre per fare qualunque cosa.

Però hai visto che il testo ha generato ben altro...
Non era sua intenzione creare la caccia alla citazione, voleva scrivere qualcosa di divertente e con un senso. Era davvero un insieme di citazioni. Il pezzo poi è diventato un tormentone, e contemporaneamente si è scatenata la caccia alle citazioni. Forse perché—e forse è la ragione per cui ha vinto—c'era bisogno in Italia di qualcosa di divertente ma che comunque avesse un significato un po' come è stato Battiato all'inizio.

E tu come suo editore e discografico non hai mai dubitato?
Oh, sì che ho dubitato. Io non ero sicurissimo del pezzo. Purtroppo quando cerchi di fare qualcosa di più ricercato e meno banale non sai mai se ti andrà bene.

Su Robinson Francesco ha detto appunto che lui non voleva causare tutte queste letture. Però le letture ci sono state, e ora ti tocca commentarle.

"Sabato sera, a Sanremo, ha vinto una canzone con tante citazioni, io ho trovato queste: Immanuel Kant, William Shakespeare, Eraclito di Efeso, Karl Marx, Desmond Morris, Marilyn Monroe, Gene Kelly, Stanley Kubrick, forse anche Charles Darwin, e nel balletto ci poteva essere qualche mossa alla Cochi e Renato, di tutto." —IL
No. No, guarda, sono d'accordo su tutto tranne sul balletto alla Cochi e Renato. Sono d'accordo perché queste citazioni arrivano davvero da questi personaggi, anche se appunto non sono volute e provengono più che altro dal bagaglio culturale di Fabio, il suo co-autore che vive in campagna completamente avulso dal mondo e non fa che leggere da mattina a sera [ e che pare aver regalato conserve ai giornalisti che sono andati ad assediarlo].

"Forse allora le citazioni pop sono di fronte a un ultimatum, per sopravvivere devono ridiventare sceme, si devono dissolvere nell'uso comune, diluirsi nell'indistinto, scegliete: preferite morire o convertirvi in frasi irriconoscibili messe là a farcire una canzone? Ecco brave, allora forza, circolare: panta rei, sciogliersi." —IL
A me viene in mente che alcuni dei più grossi successi dell'anno scorso sono legati a una presa in giro dei costumi di tutti quanti noi, tipo Vorrei ma non posto o Rovazzi. Sicuramente Francesco l'ha fatto in modo diverso e comunque scherzoso. Tanto è vero che la musica è una da tormentone, molto diversa alle melodie più classiche che ci sono di solito a Sanremo.

"Piovono gocce di Chanel. Su corpi asettici. Mettiti in salvo dall'odore dei tuoi simili" —Panorama, Cinque citazioni memorabili di Occidentali's Karma
Riprende Marilyn per fare la metafora del fatto che ci profumiamo e ci prendiamo cura di noi stessi per nascondere il naturale aspetto fisico e magari anche interiore di una persona—siamo tutti animali, in fondo.

"Un testo colto, difficile eppure divertentissimo, che laurea Francesco Gabbani tra gli autori italiani più raffinati del momento." —HuffPost
Chi l'ha detto? L'Huffington Post? Ha fatto bene a dirlo, bravi. A parte gli scherzi, ripeto, l'intellettualizzazione è venuta dopo, non voleva essere colto o raffinato più di quanto sia il gusto di una persona normale.

"Giornalisti, filosofi, docenti universitari, religiosi, attori, musicisti, presentatori, bassisti folk, meccanici, odontotecnici, lanciatori del disco, giocatori di bocce, fornai, estetiste, incursori di Marina, restauratori di biliardi vintage: tutti che volevano dire la propria su Occidentali's Karma. Ed era bellissimo!"—Gabbani su Robinson di Repubblica
Evidentemente perché è un pezzo popolare, quindi tocca tutti quanti. Ma noi come discografici ed editori a un certo punto ci siamo guardati e ci siamo detti "Ma che cazzo sta succedendo?"

E tu, come stai in questi giorni?
Sono molto, molto felice e un pochino stanco. Ma allo stesso tempo davvero eccitato anche per le cose che Francesco sta terminando in studio e che vedranno luce presto.

Elena scrive di altre cose colte per VICE. Seguila su Twitter: @ev_entually.

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Dovreste provare a vincere questi biglietti per il concerto di Sampha

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Qua a Noisey ci piace molto Sampha Sisay. Non lo avevamo beccato subito ai suoi esordi, quando se la faceva con i suoi compagni di etichetta SBTRKT e Jessie Ware iniettando una bella dose d'anima e sangue nella loro elettronica impassibile, ma ci siamo innamorati del suo vocione tutto intimo e vibrante quando Drake ha deciso di affiancarsi a lui per la sua "Too Much".

Da allora, tenendosi dentro gli enormi cazzi familiari e di salute che il destino gli stava mettendo davanti, ha tenuto la testa bassa ed è andato avanti a scrivere, per sé stesso e—soprattutto—per gli altri: Beyoncé, Frank Ocean, Kanye West, Solange. Poi un paio di settimane fa, il suo sguardo si è alzato, e tutta la tensione che aveva dentro è sgorgata liberamente da Process, il suo album di debutto. E siamo ancora qua a sorridere da quanto è bello.

Nella nostra recensione, abbiamo scritto che Process "dimostra quanto l'R&B possa raggiungere vette espressive lasciando cadere ogni filtro emotivo." Sampha ha perso la madre per un cancro che, per un momento, era quasi sembrato sconfitto; e ha iniziato ad avere problemi di salute, con un nodulo alla gola che rischiava di essere qualcosa di brutto. E i suoi pezzi hanno dentro tutta la violenza e il senso di liberazione che un'esperienza del genere può lasciarti dentro.

Quindi vi consigliamo caldamente di andare a vederlo al Fabrique di Milano, martedì 21 marzo. Sarà la sua prima volta in Italia, e potete farvi un'idea di quello che vi aspetta guardando il video qua sopra e quello in fondo al pezzo—hanno dentro rispettivamente il Sampha più viscerale e quello più trascendentale, quello terreno e impaurito e quello paradisiaco e sollevato da ogni paranoia.

E, per darvi un'incentivo, vi diamo anche l'opportunità di vincere tre coppie di biglietti per il concerto. Così potete andare con un amico e non da soli, anche se ci ricordiamo che è totalmente ok andare da soli ai concerti. Ma almeno così avrete una spalla su cui piangere quando vi renderete conto che l'emozione vi sta togliendo la capacità di respirare regolarmente.

(Disclaimer: Noisey non si prende la responsabilità per cedimenti del vostro sistema respiratorio.)

Comunque: l'unica cosa che dovete fare per vincere due biglietti a testa è mandare una mail a festa@vice.com con l'oggetto CONCERTO SAMPHA. Dentro dovete scriverci il vostro nome. Potete anche scriverci altro, se vi va. Magari il vostro pezzo di Sampha preferito. Leggeremo tutto e contatteremo personalmente i vincitori. 

Avete tempo fino alle 14 di venerdì 3 marzo, quindi più o meno dieci giorni da ora. Buona fortuna!

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L'amicizia tra Gucci Mane e Marilyn Manson è una cosa bellissima

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Forse ve lo siete perso, ma Gucci Mane e Marilyn Manson sono amici di lunga data. Non che non abbiano punti in comune. Innanzitutto, entrambi sono stati ugualmente celebrati e presi per il culo dai media, dai loro colleghi e dal pubblico per il modo in cui hanno scelto di presentarsi: totalmente fuori di testa. Nel 2013 avevano anche pubblicato un pezzo assieme, "Fancy Bitch (Pussy Wet)", che uscì su Diary of a Trap God di Gucci. E ora si sono ritrovati: CR Fashion Book li ha messi di fronte e ha fatto intervistare Gucci a Manon. 

L'intervista inizia con Manson che cita il testo della loro collaborazione e dice, "Ho suonato in diversi strip club e lo garantisco, è uno spettacolo." Gucci e Marilyn parlano del tempo passato dal rapper in prigione, dell'autobiografia che sta scrivendo, del clima politico in America e molto altro. Parlando delle elezioni dell'anno scorso, Gucci se ne è uscito con un, "Se avesse vinto Hillary, se avesse vinto Jeb Bush, se avesse vinto Ben Carson, il mio piano sarebbe stato lo stesso: guadagnarmi due soldi, continuare a buttare fuori musica, continuare a essere una persona migliore di quella che ero." Parlando della sua autobiografia, che uscirà per l'editore Simon & Schuster ma è ancora senza una data di pubblicazione, Gucci ha parlato del perché ha voluto discutere le accuse di omicidio che gli sono state mosse nel 2005: "MI sentivo come se la gente avesse sempre voluto sapere non necessariamente quello che era successo, dato che le notizie erano ovunque, ma come mi sentivo—quello che mi passava in testa in quei momenti."

La parte più bella, però, è quella in cui si parla delle difficoltà dell'andare in tour e dei sogni da rockstar di Gucci—che ha ammesso di voler prendere in prestito alcune cose che ha visto fare ai Flaming Lips nei loro concerti.

È da un po' che guardo concerti dei Flaming Lips, e non voglio dire che voglio copiarli, ma vorrei che chi viene a vedermi dal vivo si senta un po' come chi va a vedere loro. Vorrei solo che fosse una grande festa. Voglio che la gente sudi. Non voglio un pubblico fatto di gente in tiro. No, voglio che ve ne andiate bagnati fradici, come se vi foste allenati per un'ora e mezza."

Sarebbe una figata vedere un concerto di Gucci accompagnato da immagini sobrie—chessò, degli igloo che si aprono per rivelare foreste incantate, diamanti che ballano sul palco, coni gelato che prendono vita e diventano cannibali. Gucci, se stai leggendo, facci sapere se ti piacciono le nostre idee.

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Cold Cave e College saranno gli headliner dell'Electro Weekend

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Nelle notti di luna nuova del 31 marzo e del primo aprile Padova sarà più buia che mai. Quale occasione migliore per tirare fuori i tuoi abiti di latex nero e andare al Mame Club per ballare tutta la notte al suono di glaciale new wave? 

Per agevolare questo processo è nato Electro Weekend, un festival di musica elettronica che per la sua prima edizione sceglie le sonorità new wave e dark di Cold Cave e College come headliner, preceduti rispettivamente dalla sacerdotessa goth californiana Drab Majesty e dal duo sado-post-punk berlin-londinese Lebanon Hanover. A rappresentare l'Italia ci saranno l'elettronica intimista di Fade e il duo veneziano Wora Wora Washington, che arriva ai suoni sintetici dall'angolo del noise rock.

Allacciati gli anfibi, acquista i biglietti e partecipa all'evento su Facebook

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Abbiamo davvero bisogno di un fulmine alto tre piani per ricordare David Bowie?

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Ieri è stata lanciata una campagna di crowdfunding con l'obiettivo di finanziare un nuovo memoriale per David Bowie nel mezzo di Brixton, il suo quartiere natale a Londra sud. Sarebbe una scultura a forma di fulmine (quello della copertina di Aladdin Sane), "fatta d'acciaio, dipinta di rosso e blu, una vera sfida per la gravità." A quanto leggiamo nella descrizione della campagna, la struttura viene definita "un'opera monumentale di valore pubblico." L'altezza proposta è di tre piani, e il tutto sarebbe posizionato a cinque vie di distanza dal luogo di nascita del cantante. 

E che dire, siamo tutti d'accordo nel dire che è un'idea adorabile. È importante rendere omaggio a chiunque abbia avuto un'influenza così grande, a chiunque ci abbia ispirato e se ne sia ormai andato da questo mondo. Ma questa campagna, in particolare, non ricorda in alcun modo che il nuovo monumento a Bowie sarebbe letteralmente a qualche metro di distanza da un enorme murales in onore del cantante, dipinto dall'artista Jimmy C, che dopo la sua scomparsa è diventato una sorta di santuario dove fan da tutto il mondo lasciano candele, fiori e oggetti vari. Quindi: abbiamo davvero bisogno di un altro memoriale per Bowie? Nello specifico, abbiamo davvero bisogno di un altro memoriale per Bowie che costerà 990,000 sterline? Andando ancora più nel dettaglio: abbiamo davvero bisogno di un fulmine ciccione che probabilmente eclisserà il sole al tramonto lasciando tutta Brixton a tremare alla sua ombra? È quello che Bowie avrebbe voluto?

Secondo molte persone, la risposta è "sì." La campagna ha già raccolto più di 30,000 sterline nel suo primo giorno, e stanno arrivando altre donazioni. Ma fino a dove ci spingeremo? Quanti memoriali a Bowie può contenere Brixton? Il quartiere diventerà un enorme memoriale a cielo aperto, un po' come Camden è ormai un omaggio vivente a Amy Winehouse?

C'è qualcosa che mi fa pensare che, arrivati a un certo punto, non possiamo fare poi più molto per i nostri eroi. Credo che ci siamo arrivati, per quanto riguarda Bowie. Spesso il modo migliore per rendere onore a un'icona è godersi l'eredità che ci ha lasciato tramite la sua arte—che parla da sola—permettendogli di riposare in pace. Un fulmine gigante può sembrare qualcosa di epico e insolito, ma è sicuramente più semplice, economico e intimo mettere su il vostro pezzo di Bowie preferito nel comfort della vostra casa mentre vi fate un bicchierino di whisky. O almeno, così a me piace ricordare leggende come lui.

Immagine via Crowdfunder
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Allora, com'è il nuovo album dei Dirty Projectors?

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Dave Longstreth, in arte Dirty Projectors, ha vissuto in prima persona il processo di normalizzazione dell'indie rock e la sua conseguente adozione da parte delle masse. Le sue prime cose, uscite nel 2003, erano rimaste nel circolo di una critica ai tempi ancora strettamente alternativa: storte, sguaiate, e sconnesse, lo identificavano come una sorta di versione contemporanea e culturalmente onnivora di Captain Beefheart. Pitchfork, per dire, adorò il suo album d'esordio The Glad Fact. Leggendo quella recensione si ha già un'idea dell'aura attorno a Longstreth, che ai tempi aveva già abbandonato Yale per darsi alla musica: i suoi riferimenti erano cervellotici e transgenerazionali, dai Microphones di Phil Elvrum a Morrissey, da Wagner a Justin Timberlake, con uno spirito iperproduttivo alla Robert Pollard. 

Longstreth si è auto-caratterizzato come un artista poliedrico fin dall'inizio, fregandosene altamente dell'accessibilità dei suoi prodotti creativi. Insomma, dopo un esordio ben ricevuto dalla critica non tutti ce ne usciremmo con una mini-rock opera sulla guerra civile americana suonata con un'orchestra di dieci elementi. Lui, invece, esattamente questo faceva; e non era un problema, dato che un solista non deve certo porre filtri tra la sua mente e il risultato pratico dei suoi sforzi. Ma chiaramente, non potendo esibirsi con un tamburo sulle spalle e cinque chitarre a tracolla, con il tempo Dave scese a compromessi iniziando a fare orbitare altri musicisti attorno al suo personale pianeta creativo—senza però lasciargli, almeno all'inizio, grande libertà di azione.

I Dirty Projectors nel 2007.

Fu a partire dal 2007 che i satelliti caddero sul pianeta-Longstreth creando un corpo unico. Presumibilmente, il suo intento non era quello di mettersi attorno delle figure che quietassero i suoi slanci creativi sconnessi; semmai poteva essere quello di riprodurre più fedelmente, dal vivo, di quello che usciva su disco. Ma il risultato fu, invece, una relativa normalizzazione della sua musica, che per caso o per fortuna si accompagnò all'inizio della fine dell'opposizione tra mainstream e mondo alternativo. 

Gli effetti non furono immediati: il primo progetto dei Dirty Projectors-come-gruppo, Rise Above, era (pronti?) una re-immaginazione di Damaged dei Black Flag, grande classico punk, scritta da Longstreth senza che avesse ascoltato il disco nei quindici anni precedenti. Ma non si configurava come una semplice versione indie del capolavoro della band di Greg Ginn, come potreste immaginare: era un'opera ai limiti del math rock, ossessionata dalle sue stesse poliritmie. Una sorta di ristrutturazione compositiva di quello che immaginiamo essere la forma-canzone, come dimostra il rifacimento di "Gimme Gimme Gimme": chitarre in conversazione, voci scoppiettanti che si alternano in vocalizzi su diversi canali, improvvisi rumori fuori tempo.

Tra le figure che hanno accompagnato questa fase di scoppio della carriera di Longstreth c'erano due ragazze: Amber Coffman ed Angel Deradoorian, la seconda entrata nel collettivo dopo la pubblicazione di Rise Above. La Coffman, nata a Los Angeles, aveva una storia da math rocker. Suonava negli Sleeping People, trio strumentale che spuntava tutte le caselle del genere—tempi strani, gusto per la melodia come per il rumore, saliscendi continui, strutture asimmetriche. Gli stessi elementi che, nei Dirty Projectors, avrebbero trovato una loro forma pop. La Deradoorian, invece, non aveva un passato da musicista professionista quando si unì a Longstreth—ma avrebbe avuto poi un ottimo futuro in tal senso, collaborando ampiamente con Avey Tare degli Animal Collective e cominciando una fruttuosa carriera solista

Resta che, una volta diventati gruppo, i Dirty Projectors sono finiti a scrivere due album che credo essere fondamentali nel processo di storicizzazione dell'indie rock americano. Il primo è Bitte Orca, uscito nel 2009, e qua sotto potete ascoltarne un estratto—"Temecula Sunrise".

 In una vecchia intervista, Longstreth dichiarò che il suo strumento musicale preferito era la voce. Ecco, Bitte Orca lo dimostra incontrovertibilmente. Oltre alla sua c'erano quelle della Deradoorian e della Coffman, oltre che quella della terza cantante Haley Dekle—e assieme andavano a creare una polifonia avvolgente che partiva dagli intricatissimi giri di acustica di Longstreth e ci appoggiava sopra elementi di per sé fragili come le carte di un castello, tenuti assieme dalle acrobazie di quattro voci intrecciate. "Temecula Sunrise" è esemplificativa: chitarre impazzite, voci accatastate, una batteria che a tratti sembra ribellarsi al suo ruolo—tenere il ritmo—lanciandosi in accelerazioni inaspettate, rallentando quasi con arroganza. 

Bitte Orca fu una sorta di classico art-pop istantaneo, e uno dei primi casi in cui un prodotto nato da e scritto per una nicchia risultava invece spalancato al mondo, con una complessità perfettamente calibrata. Il suo successore, Swing Lo Magellan, non fece altro che confermare quanto Longstreth e i suoi avessero accettato di buon cuore il loro ruolo di innovatori inclusivi, senza però perdere il gusto per la ricerca e l'imprevedibilità. Citerei, per un esempio, "Gun Has No Trigger", una delle canzoni più semplici e "dritte" mai scritte da Longstreth. Aveva pochissimi elementi, a livello sonoro: un ritmo di batteria tagliente, qualche nota di basso, e ancora le voci che avevano dato un'identità a Bitte Orca. La sua in primo piano, quelle femminili a riempire lo spazio lasciato vuoto da chitarre e tastiere con montagne russe melodiche. Le parole del testo, però, erano completamente impressionistiche: lo ammise Longstreth stesso, che volle inoltre un karaoke cuneiforme come video ufficiale del pezzo.

Nel 2013 la carriera e la vita personale del nostro Dave presero una piega inaspettata. Innanzitutto, quell'anno marcò la fine della sua relazione con la Coffman (che i due avevano deciso di tenere il più privata possibile), che uscì anche dal gruppo. Fu l'inizio di un esodo che, con gli anni, ha reso di nuovo Dave l'unica forza creativa dietro al progetto Dirty Projectors. D'altro canto un approccio simile ha totalmente senso se lo pensiamo mutuato da una fondamentale esperienza nella sua carriera, vissuta proprio quell'anno: la conoscenza del super-produttore Rick Rubin e quindi quella del suo protetto Kanye West—che, esattamente in quegli anni, si stava smarcando dalla sua figura di rapper-produttore per adottare quella di mente creativa a tutto tondo. 

In quel periodo, Yeezy si era ritirato in una villa in Messico assieme ad alcuni collaboratori fidati per buttare giù idee per The Life of Pablo, album caotico e futurista, un pastiche creativo in costante evoluzione. Tra i presenti, oltre a nomi fondamentali del think thank di Kanye come il produttore Mike Dean, c'erano The Weeknd, French Montana, il rapper Rhymefest; e Dave, appunto, assieme ad Ezra Koenig dei Vampire Weekend. Ed è così che Longstreth è comunque finito a scrivere il bridge di FourFiveSeconds di Kanye, Rihanna e Paul McCartney—l'inizio di una parabola simile a quella del suo collega Bon Iver, altro ragazzo bianco, barbuto e creativo adottato dalla nobiltà hip-hop americana. 

Da quell'esperienza, Dave ha portato a casa—oltre a degli ottimi agganci—un nuovo set di strumenti con cui comporre, su tutto. Certo, non aveva mai evitato di dichiarare il suo amore per l'hip-hop: già in un'intervista al New York Times del 2012 citava i beat di Lil Wayne come forte ispirazione. Ma in questo suo nuovo LP l'influenza del Kanye post-Yeezus, frammentario e visionario, è il filo rosso che tiene assieme l'opera. Una versione 2.0, sintetica e ibrida, del modus operandi poliedrico che ha sempre dimostrato di tenere.

Fotografia di Jason Frank Rothenberg.

Dirty Projectors è un album che parla di perdita. La sua lettura più semplice identifica Amber Coffman nell'interlocutore a cui la voce narrante si rivolge, ma Longstreth stesso ha dichiarato di essere in buoni rapporti con lei nonostante non si sentano più molto. Ha inoltre aggiunto che il rapporto rotto che racconta nel disco potrebbe essere qualsiasi relazione—quella tra il Regno Unito e l'Europa, quella tra il pensiero positivo degli anni di Obama e l'elettorato americano, quella tra il concetto di indie rock e l'effettiva indipendenza del prodotto musicale.

La Coffman resta comunque una presenza fissa nell'album, fin dal primo pezzo. "Keep Your Name" è una sorta di ballata per pianoforte glitchata, un microcosmo introduttivo decisamente adatto a contenere il senso dell'album. La voce di Longstreth è pesantemente modificata, le sue acrobazie nasali rese più suadenti e stranianti dall'autotune e dagli effetti. "Non so perché mi hai abbandonato / Eri la mia anima, la mia partner / Terremo separati / Ciò che eravamo e ciò che siamo diventati / E ti terrai il tuo nome," esordisce Dave, ambivalente nella sua espressione—a tratti rassegnato, ad altri inorgoglito dalle differenze che hanno portato alla fine la relazione. Paragona sé stesso a Naomi Klein, attivista no-global e autrice del celeberrimo No Logo, e la Coffman a una catena di vestiti. Prosegue poi mettendola sul professionale, parlando delle loro rispettive visioni artistiche: "Come dice quel testa di merda di Gene Simmons dei Kiss, 'una band è un brand', peccato che le nostre visioni siano stonate." E conclude il tutto con un seppuku emotivo da lacrime: "Dici che quello che vuoi dall'arte è la verità, e quello che voglio io è la fama / E allora le terremo separate, e ti terrai il tuo nome."

La relazione tra Longstreth e la Coffman straripa da ogni parola dell'album, dalle sue frasi dense di richiami alla cultura pop e alla New York che è servita da sfondo al loro amore. "Death Spiral", costruzione elettronica in cui le chitarre sono relegate a qualche misera melodia in un turbinio alla Yeezus, trova il suo punto più alto in un bridge autotunato in cui Dave ricorda un litigio con la Coffman, con lei che lo inseguiva per la strada e lui che provava a chiamare un taxi—preludio a un definitivo "Finalmente il nostro amore sta cadendo, come in una spirale." Ma la città appare con maggiore intensità in "Up in Hudson", operetta da otto minuti che racconta il primo incontro tra Dave e Amber, il loro primo incontro sul palco della Bowery Ballroom di New York City, l'entrata nel gruppo di lei, il loro innamoramento, la scrittura di "Stillness Is the Move". Una gioia repressa però dal ritornello—"L'amore smetterà di bruciare / L'amore scomparirà, e basta". Il tutto su ritmiche tropicali che ricordano una versione acida e massimalista dei Vampire Weekend. E Dave che si racconta, in macchina sulla Taconic Parkway "ad ascoltare Kanye", con la Coffman a Echo Park "a sparare Tupac dalle casse". Lui, affrettato; lei, placida. Lui, futurista; lei, tradizionalista.

"Work Together" è un incubo lucido, un pezzo schizofrenico sorretto da bassi pulsanti e linee vocali affastellate in un'amara fantasia utopistica in cui tutto sarebbe potuto andare bene, e arriva alla conclusione che "Forse l'amore è una competizione / Che ci fa alzare l'asticella / E migliorare noi stessi". È qua che ci si rende conto, ascoltandolo, che l'album ha una struttura a parabola. Comincia inacidito e infastidito, spiraleggia verso il basso cercando di trovare un senso nei ricordi. Non ce la fa, e per un momento impazzisce toccando in "Work Together" il suo punto, emotivamente parlando, più basso. Da "Little Bubble" in poi, la parabola non fa altro che risalire: è un pezzo confortevole come il suo titolo, tutto melodioso e ordinato. "Per un po' abbiamo avuto la nostra bollicina", canta Longstreth, con un quartetto d'archi ad aprire il pezzo e un'atmosfera che ricorda gli Antlers più quieti. Inoltre, in tempi di filter bubble, il titolo e il testo richiamano l'universalità delle tematiche del disco citate da Longstreth nell'intervista con il Guardian di cui sopra. 

"Winner Take Nothing", "Ascent Through Clouds", "Cool Your Heart" e "I See You", i quattro pezzi con cui si chiude il disco, calano Longstreth nei panni del Kanye di 808s & Heartbreak (tra l'altro citato letteralmente in un testo): quello che si chiede se amerà mai più, ma intanto si è reso conto di aver imparato qualcosa su sé stesso e sulla vita. Il modo in cui la musica rispecchia la complessità di un simile processo emotivo è notevole. "Winner Take Nothing" è la realizzazione della futilità del pensare una relazione come sfida: "Tutto questo mi ha messo contro me stesso / Perdendoti, ho perso me stesso". "Ascent Through Clouds"—pezzo dal titolo abbastanza didascalico—è quanto di più relativamente tradizionale ci sia sull'album, con un arpeggio di acustica come protagonista per buona parte della canzone, interrotto da un doppio coro impegnato in un botta-e-risposta piacevolmente disorientante che si conclude in positivo: "Forse, potrà essere un'altra opportunità per vedere il sole sorgere."

"Cool Your Heart" e "I See You" sono gli ultimi canti di un paradiso riguadagnato. La prima, l'unico duetto sull'album—una riaccettazione delle complessità della vita di coppia, la ricomparsa di un'altra voce—con D∆WN a intonare un "Voglio essere dove sei tu" pieno di speranze su una mini-chitarra in levare, interrotta da fiati e rumorini elettronici che stimolano i sensi come bollicine di una cedrata gelida ad agosto. La seconda è una sorta di gospel liberatorio composto su una melodia d'organo, una presa di posizione definitiva: "Perdono, riconciliazione / Gratitudine per averti conosciuto, e tu per aver conosciuto me". E ancora: "Non avremo paura di crescere / Quello che ci siamo dati resterà sempre in noi / Mi ricorderò, resterò orgoglioso di te / Felice che tu sia stata nella mia vita."

Dirty Projectors si configura, credo, come l'opera più completa e vibrante mai composta da Longstreth. Dieci anni fa era impensabile una simile evoluzione per l'indie rock americano, ai tempi ancora legato a una tradizione chitarristica oggi completamente superata. Credo fortemente che l'innovazione e l'ibridazione siano le due strade maestre da percorrere per portare la musica a diventare qualcosa di nuovo, per cambiare il significato di ciò che consideriamo essere "cantautorato", "rock", "indie", "hip-hop". Adoro considerare la musica come un enorme calderone in eterno rimescolamento, penso che la sua forza più grande sia la sua qualità terapeutica, mi piace rivedere le quarte pareti tra autori e il loro pubblico infrangersi anche in forma sonora e lirica. In questo senso, Dirty Projectors è un album ricchissimo di significato, fondamentale per ridefinire gli assiomi di ciò che crediamo essere "rock". 

Elia ha anche Twitter: @elia_alovisi
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Era da un pochetto che non avevamo traccia di Aleaka, che fa il produttore e l'ultima volta che l'aveva fatto su un progetto grosso—La malattia, assieme a Cali—aveva fatto un lavoro di cristo. Siamo quindi ben felici di ritrovarlo in duo; stavolta assieme a un MC di Padova, Giovane Feddini, con il quale ha preparato un disco che si intitola Lince. Prima del disco, però, è uscito un loro EP di debutto: La Caccia. E siamo ancor più felici di farvi vedere il loro primo video ufficiale assieme, "Drive SLW", che trovate qua sotto. 

"Abbiamo iniziato a lavorare al disco nel dicembre del 2015. Un po' di provini, per vedere come suonava questa collaborazione," ci ha raccontato Feddini via mail. "Dopo una ventina di brani scritti e registrati, ne abbiamo salvati sei. Erano quelli più d'impatto e di cuore. Sapevamo che non potevamo dare spazio a tracce riempitive, l'obiettivo era colpire l'ascoltatore dritto in faccia. Abbiamo chiamato amici di vecchia data di Ale come Sebastian, o nuovi amici talentuosi come Dani. Questo EP ci ha fatto capire come deve essere il disco che uscirà, stiamo continuando a produrre perchè il progetto ufficiale suoni esattamente al meglio che possiamo offrire. Lince."

La Caccia EP è in free download a questo link.

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The People Versus Jamil

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Abbiamo chiesto a Jamil di rispondere ai commenti più cattivi sotto ai suoi video su YouTube.

We All Wanna Be Amanda Lear

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Italian Folgorati è la serie di Noisey ideata da Demented Burrocacao che indaga negli angoli più nascosti della discografia nazionalpopolare italiana—gli album più strani, i personaggi più enigmatici e gli eventi più bizzarri della storia musicale del nostro Paese. 

Questa settimana Italian Folgorati è approdato in video, e il primo episodio contiene un incontro con Amanda Lear, cantante, attrice, modella, pittrice, musa e icona vivente. Qua sotto potete leggere la trascrizione integrale dell'intervista che ci ha rilasciato.

Noisey: Allora Amanda…
Amanda Lear: Bonjour!

Bonjour a te! È un piacere vederti, io sono un tuo grande fan. Perché sei una persona speciale, un'icona...
Ma l'icona sta al cimitero!

Ma no! Intendo che sei un simbolo dell'eclettismo in tutte le sue forme.
A me sembra una qualità, ma la gente fa fatica a inquadrarti, a darti un'etichetta… Cosa sei: cantante, attrice, pittrice? Sono eclettica, faccio di tutto. E lo faceva pure Jean Cocteau, però di lui dicono che era un genio. [Ride] Non abbiamo, quindi, pare, il diritto di fare diverse cose: dobbiamo essere o questo o quello. Anche nella musica: se fai disco allora non fai R&B. Ma perché dobbiamo assolutamente essere rinchiusi in una scatola?

Forse è perché essere spiazzanti come te dà fastidio all'industria.
Ah sì,  per loro è più difficile. Però io mi annoio. Una delle cose più importanti della mia personalità è che io mi annoio subito. Cioè se faccio la stessa cosa per più di una settimana o due mi viene da dire "Ancora? Uh! Che palle!" [ride] E siccome mi annoio velocemente, penso sempre di annoiare la gente. Dunque dico: se loro mi rivedono ancora a fare la stessa cosa, lo stesso tipo di musica, lo stesso atteggiamento e pettinatura, diranno: "Uffa, ancora lei, mamma che palle!" E quindi, per non stancare il mio pubblico, penso di dovermi rinnovare ogni tanto, cambiare strada, sorprendere.

E per te il fatto di sorprendere è passato anche per la frequentazione di personaggi che sotto sotto erano sulla tua stessa lunghezza d'onda, ma che a una prima impressione sembravano venire da mondi inconciliabili col tuo, no?
Sì, ma un po' come un camaleonte bisogna adattarsi ai cambiamenti del tempo, se no diventa tutto sclerotico, sempre lo stesso.

E questo ha a che fare anche con la tua genialità, mentre tu vieni sempre associata alle tue storie con Bowie, con Dalí...
Eh sì! L'amica di Bowie, la musa di Salvador Dalí, lanciata da Berlusconi, la regina della disco e Tomorrow... Tomorrow... [canta]. La gente mi vede per strada e fa "Amanda Lear! TOMORROW!" Ma è possibile che dopo trent'anni...? Questo vuol dire che quel lato del mio personaggio ha avuto un impatto tale da rimanere fissato nella gente. È strano—Salvador Dalí mi diceva sempre: quando incontri qualcuno gli devi dare un gran calcio nello stinco. Fa un male della madonna e questo si ricorderà per tutta la vita di te. Se invece sei carina e fai un bel sorriso, la gente se lo scorda. Questo è un modo per dire che bisogna fare un colpo grosso, una specie di provocazione, uno scandalo, così la gente poi sicuramente se lo ricorda. 

Infatti tu sei stata fondamentale per far passare un nuovo modello di donna in Italia, più scioccante. 
All'inizio vivevo in Inghilterra, e là a quei tempi la moda per le cantanti era tipo Olivia Newton John: carina, biondina… Quindi mi sono detta: non voglio assolutamente essere quel tipo di cantante lì. Io volevo cantare tutta coperta di pelle nera, cattiva, con le catene… e ho fatto la copertina dei Roxy Music con questa immagine, tutta vestita di pelle nera, tacchi a spillo lunghi così, una pantera nera al guinzaglio... Era un'immagine di donna nuova.

La copertina l'hai pensata tu?
Era un'idea di Brian Ferry, con cui all'epoca stavo, mia e del fotografo Karl Stoecker. Quest'immagine di donna più cattiva e aggressiva è piaciuta tantissimo e ho cominciato a lanciare delle ragazze rock tipo Chrissie Hynde, Siouxie and the Banshees, Suzi Quatro… prima nessuna lo faceva. 

Quando sono arrivata in Italia mi sono accorta che in televisione il mattatore era l'uomo, che ne so, tipo Baudo. E gli affiancavano una o due belle ragazze che sculettavano, carine, un po' ochette... Il tipo di donna che rappresentavo io invece faceva un po' paura. Pensa che tutte le case discografiche a cui mandavo i demo dicevano: "Ma no, così aggressiva lei fa paura!" Non erano convinte. E soltanto i tedeschi si sono svegliati, perché al tedesco è sempre piaciuto quel tipo di donna stile Marlene Dietrich, cioè la biondona che fuma in un cabaret di Berlino, la voce ruvida, un po' femme fatale. E loro dissero: a noi piace questa immagine, ma visto che siamo nel '78 e va forte La Febbre del Sabato Sera, signorina, lei deve fare disco.

E poi c'era un collegamento fra disco ed erotismo... e la tua presunta ambiguità sessuale che tanto ha fatto chiacchierare.
Sì, e lì è incominciata la mia tragedia [ride]. L'idea di non dare coordinate precise sulla mia sessualità era stata di Dalí, una cosa surrealista. Ma tornando alla disco, io pur di avere una casa discografica accettai. Firmai un contratto di sette anni, dicendo "guardate che io voglio fare il rock'n'roll!" E loro: "No, no, per ora no, ne parleremo dopo".

Volevi fare il RUOCK insomma!
Eh sì! Mi piaceva Elvis Presley, mi piaceva il ta-rara-ta-rà di Bo Diddley... e invece no, dovevo fare disco, sculettare, essere sexy... volevano trasformarmi nella Grace Jones bianca.

Eravate contemporanee.
Sì, ma più che altro rivali. C'erano Thelma Houston, Abba, Boney M... e io ho trovato la disco, che tipo boh, [ride] non era tutta 'sta gran musica. Però sai, ai tedeschi piace quella roba. Infatti tutto il movimento disco era nato a Monaco di Baviera con Moroder.

E Geoff Bastow che poi ha lavorato con te...
Sì. Io lo trovavo pesante, però visto che avevo firmato il contratto, dovevo farlo. L'unico vero problema della musica disco, comunque, era che le parole facevano schifo. Prendono una parola e la ripetono per dieci minuti, tipo "I love to love you baby", Donna Summer che urla per venti minuti la solita parola… o "Voulez-vous coucher avec moi". Insomma, i testi non mi piacevano. Dunque, visto che io sono autrice, ho detto: cercherò di scrivere delle parole interessanti. Però è stato un errore perché era un tipo di musica in cui la gente non ascoltava proprio le parole! Niente da fare!

A proposito del tuo ruolo di autrice: quali sono le tematiche dei tuoi pezzi? A me sembrano eccezionali.
Il titolo del primo LP viene dal fatto che David Bowie si era innamorato della mia fotografia… non era innamorato di me. 

Ma come?!
Siamo ben chiari: lui ha visto la mia foto sulla copertina dei Roxy Music e ha detto "questa ragazza mi piace, la devo conoscere assolutamente". Era innamorato di una foto! Non di me. Per questo quando ho fatto il primo LP l'ho intitolato I Am a Photograph: sono solo una foto su carta, patinata, bella pulita, ritoccata.

Insomma, tutto sommato una critica.
Era un riflessione sul mio passato e sulla frustrazione di essere una fotomodella. Essere una fotomodella è una cosa terribile. Non puoi aprire la bocca, devi star zitta, sorridere, far vedere 'sti denti, perfetta, il mento bello alto... e appena apri la bocca NO! Shh! Zitta! E dunque a un certo punto ti chiedi: ma chi sono? Sono solo un'immagine, un'apparenza? Ma io ho anche delle cose da dire. E questo mi faceva veramente soffrire tantissimo. 

Quando ho incominciato a cantare finalmente potevo esprimermi. Lasciamo perdere tutto il resto, il pop, la disco, tutta quella roba: va bene tutto, devo esprimermi. Però ho messo delle parole su un tipo di musica che era solo per ballare. Nessuno ascoltava quello che dicevo. È un tipo di musica che ascolti in ascensore, ma nessuno si siede con un whisky e dice "sentiamo un po' che cos'ha da dire questa".

Ma sai che invece adesso è cambiata la cosa? Penso che oggi ci sia più voglia di ascoltare anche i testi di quelle cose là.
Perché son vecchi! [ride] Non mi far dire queste cose, che poi non posso più mettere piede in discoteca.

In effetti la disco degli anni Settanta è diventata una cosa da intenditori, decontestualizzata. Ormai si colgono anche gli spunti di ricerca.
All'epoca io cercavo sicuramente di raccontare qualcosa. Il primo disco raccontava la dura vita di una fotomodella con le sue illusioni, per il secondo invece quando ho visto il successo che avevo con questa etichetta tedesca, mi sono ricordata della famosa storia tutta tedesca di Faust. Lui vende l'anima al diavolo per avere gloria successo e immortalità, e ho pensato che fosse un po' il mio caso—quindi ho raccontato la storia di una ragazza che vende l'anima al diavolo per diventare famosa. Sweet Revenge, la dolce vendetta, mi vendicherò di tutti perché sarò ricca famosa. 

Il titolo di punta era "Follow Me" sulla quale il mio produttore Anthony Monn mi fece cantare il più basso possibile. Ricordo che David Bowie mi aveva pagato delle lezioni di canto da una tipa a Londra che si chiamava Florence Norberg e lei mi tirava fuori proprio la voce giusta: gorgheggi, scale, la-la-la, più alto! Più alto! E quando sono arrivata in sala d'incisione a Monaco di Baviera, Anthony mi ha detto: "Ma cos'è 'sta roba?" E io ho risposto che mi avevano insegnato così. E lui mi fa: "Ma non la voglio io 'sta voce, abbassa la tonalità... ancora più bassa!" E fu così che alle quattro di mattina, dopo fumato dieci sigarette e trenta whisky, mi sono ritrovata con questa voce d'oltretomba, ed è questo che i tedeschi volevano.

Quindi è stata un'idea di Anthony Moon?
Sì, è lui che ha fatto "Follow Me" e i primi cinque dischi.

Tutti dischi che suonano benissimo.
Guarda, ti dirò: io non mi aspettavo per niente di avere successo, ma è arrivato. E così la casa discografica ha voluto continuare; squadra che vince non si cambia, no? Visto che abbiamo avuto successo, dobbiamo fare un altro disco uguale. E io mi chiedevo fino a quando avrei dovuto continuare a fare questi dischi disco music tutti uguali.

Poi è arrivata la rottura definitiva, giusto?
Un bel giorno ho incontrato i Kraftwerk, e con loro tutta altra gente che faceva un tipo di musica elettronica, ma diversa da questa disco tradizionale. Così ho detto alla casa discografica che io volevo lavorare con questa gente, perché se mi propongono di lavorare con loro, per me è un'opportunità di progredire e voglio sfruttarla.

I Kraftwerk ti avevano proposto di collaborare?
Sì, hanno scritto una canzone su di me, si chiamava "The Model" [la canta].

Ah, accidenti! Non sapevo parlasse di te!
Yes! [Ride] Ma la casa discografica mi ha detto "No, tu non devi cambiare assolutamente!" Allora io mi sono rotta di fare la regina della disco music e ho stracciato il contratto. Mi rimanevano altri due anni da fare, quindi c'è stata una causa che è durata parecchio, e mentre ero in causa ero senza casa discografica. Insomma, è stato un passaggio difficile, ma dovevo liberarmi di quell'immagine. 

Però i due dischi più wave/rock sono sempre collegati a questo periodo, o no?
Poi abbiamo cambiato e sono venuta in Italia.

Incognito, ad esempio, non è stato mai ristampato. È questo il motivo?
Certi pezzi non sono addirittura mai usciti. Per esempio, avevo fatto una cosa con il produttore dei Frankie Goes To Hollywood, Trevor Horn, avevamo inciso un disco.

Eccezionale! E dov'è finito?
Sono andata a Londra in studio da lui, mi fa ridere ripensarci perché io sono entrata e ho detto: "Ma dove sono gli strumenti?" E lui fa: "Ma quali strumenti, io non lavoro con gli strumenti!" Aveva solo sintetizzatori, Fairlight, macchine elettroniche. Mi ha fatto cantare e mi ha detto di andare a casa, e io dicevo: "Ma veramente..." e lui: "No, no, la tua voce ce l'ho!" Ce l'aveva nella voice box, poteva cambiarla come voleva, trafficare con ogni cosa... insomma, era tutto elettronico. 

A me piaceva e non piaceva [ride], però alla fine abbiamo inciso un pezzo insieme che poi la casa discografica naturalmente ha rifiutato. E io dicevo: ma è Trevor Horn! Ma loro non volevano cambiare. E questo mi faceva soffrire, perché non riuscivo a fare veramente quello che volevo.

E chi ce li ha i demo di questa roba?
Beh, penso ce li abbia Trevor Horn. Poi c'è anche la demo con David Bowie che si chiamava "Star", anche quella mai uscita.

Quella canzone ce l'hai tu?
Io non ho niente, non ho neanche un disco mio! [Ride]

Torniamo alla rottura.
Sono arrivata in Italia e ho cambiato casa discografica, ho fatto altre cose, un album con degli americani che si chiamava Secret Passion.

Mi piace molto quell'album.
E poi mi hanno proposto quest'album che si chiamava Tam Tam. A quel punto era arrivato Berlusconi e io ero la grande star del sabato sera, ed era un periodo molto nuovo per la TV italiana, pimpante, tutto lustrini e paillettes, c'era il primo seno nudo in TV... Molte novità. E quindi ho avuto l'opportunità di avere questi bei video, e abbiamo fatto Tam Tam in Italia. Non è piaciuto a nessuno.

Ma il La per Tam Tam l'hai dato tu? Hai cercato tu Cacciapaglia per produrlo?
Yes, assolutamente! Sai, per me l'Italia per me è sempre il paese della musica, senza dubbio. Ho incontrato della gente, tipo Toto Cutugno, che mi diceva: "Amanda, ti scrivo una canzone che farà emozionare tutti, ma lascia perdere i ballerini, stai tu da sola con un jeans a cantare veramente con la tua voce". C'è voluto un po' di tempo per farlo, tipo trent'anni [ride]

Un paio di anni fa ho trovato questo produttore a Parigi che mi ha detto chiesto che cosa volessi davvero fare. Io voglio cantare: ho una voce che forse è migliorata con il teatro, perché sono in teatro da sette anni, la voce è un muscolo. Tutte le sere faccio lavorare questa voce senza microfono, mi devono ascoltare fino al terzo balcone, hanno pagato 12 euro, ma hanno il diritto di ascoltarmi! LA VOCE SI E' RINFORZATA [grida]. E quindi forse posso cantare un po' meglio. 

Abbiamo preso quest'orchestra di venti musicisti e per la prima volta sono entrata in una sala d'incisione e ho visto dei tipi col papillon, avevano violini, violoncelli, arpa, pianoforte e io: "Eh la madonna!" [ride] Io non avevo mai visto un'orchestra classica così, che aspettava me. Poi lì non puoi scherzare e dire vabbè, ragazzi, ricominciamo; mi sono sbagliata—no, tu la canzone la fai dall'inizio alla fine, la devi cantare tutta. Quindi per me è stata un'esperienza nuova e mi è talmente piaciuta che mi sono innamorata del violino. Voglio passare tutta la vita con dei violini che m'inseguono per la strada [ride]. È stata una svolta, devo dire, e finalmente ho scoperto di poter cantare altra roba invece del tunz tunz.

Infatti nel tuo ultimo disco si sente che canti su tonalità più alte…
Sì, nella mia ultima fatica, Let Me Entertain You, l'idea era di fare uno spettacolo. Siccome tutti i miei fan mi chiedevano quando sarei tornata sul palcoscenico, e io rispondevo sempre: "Ma come, sono in teatro!"? Mi sono detta: vabbè, faccio un concerto in teatro musicale. Ci sarà un tipo all'inizio che dirà "signori e signore, ecco a voi Amanda Lear". Forse canterò un paio di vecchi brani perché i fan li devono riconoscere, presenterò anche un periodo disco che ha fatto parte della mia vita, poi presenterò dei brani nuovi…

A questo proposito: qual è il tuo rapporto con Gianluca De Robertis de Il Genio?
Un paio di anni fa mi chiama sto ragazzo che mi propone un duetto con lui. Io non lo conoscevo.

Ah, ti ha chiamato lui?
Sì, mi ha cercato lui. Io gli dissi che ero a Parigi da sette anni e non conoscevo i nomi emergenti in Italia, poi ho sentito "Pop Porno" e ho detto ok. Dunque ho sentito la sua voce, mi è piaciuta tantissimo e abbiamo fatto questo primo duetto che si chiamava "Mai più".

Che si trova nel suo disco.
Esatto. Per il mio nuovo LP lui ha scritto questo nuovo duetto che si chiama "Prima del tuo cuore". Mi piace molto, la sua voce è molto sexy. Poi mi ha fatto sapere che la nuova generazione di cantanti, di ragazzi italiani, s'interessava a me. Non mi vedono come roba vecchia, anzi, s'interessano.

Beh, si può dire che alcune cose de Il Genio siano molto influenzate da te.
Sì, ho tanti eredi. L'altro giorno mi guardavo Rihanna, Beyoncé, Miley Cyrus; sono le mie eredi! Sono le mie figlie! Cioè, il mio atteggiamento di trent'anni fa era così. Di fare scalpore, di mostrare le gambe, solo che adesso le cantanti, se non sculettano mezze nude con dei ballerini intorno, non fanno spettacolo.

Poi mi hai detto che, infatti, Madonna ti copia gli zigomi, giusto?
[Ride] Sì! Se li è proprio comprati! Sai, Madonna è brava perché riesce ad acchiappare a destra e a sinistra idee, cose, spunti, e il risultato finale è un bello spettacolo. Solo che non è una cantante, fa spettacolo.

Secondo questa distinzione, tu ti ritieni soprattutto una cantante?
No, il discorso è che una vera cantante è una tipa davanti a un microfono, con un bel vestito, che canta. Ecco. Mina, Ornella Vanoni. Anche Lady Gaga sarebbe una brava cantante, ma una che arriva con un ventilatore e i capelli che volano non sta cantando una canzone. T'immagini Mina con un ventilatore dietro? Non è possibile. Dunque è tutto un altro tipo di spettacolo, che a me non interessa più fare.

Per esempio, allacciandomi a questo e alle tue colleghe: io ricordo che nel '79 Patty Pravo fece il Munich Album, in cui sembra ci sia una leggera imitazione delle tue gesta.
Sì, ma devi sapere che c'era una paranoia generalizzata di essere copiate. Patty Pravo diceva che la Rettore la copiava, la Rettore diceva che Amanda Lear la copiava, la Bertè diceva che tutte copiavano lei. C'era questa mentalità terrificante, anche perché il look era diventato improvvisamente importante per una cantante, mentre prima non era così. All'improvviso sono arrivati gli stilisti, e allora "il mio stilista ha deciso che il mio look per Sanremo è un segreto", oppure "lo stilista ha svelato tutto e allora come sarà la nuova pettinatura di Patty Pravo?" Per dire. E allora era diventato più importante il look della canzone. Ed è sbagliato!

Ma a parte il look, parlavate anche di musica fra voi, di suoni?
Ma certo! Ci incontravamo spesso perché era il grande boom delle tournée, ora non si fanno più così. Allora l'unico modo di farsi vedere era quello di fare le tournée in discoteca—i vari Picchio Rosso, Picchio Verde, Macumba, La Tana del Lupo, Rimini, Riccione. Stavamo in giro tutta l'estate per cui ci incrociavamo dappertutto, c'erano anche Renato Zero, Ivan Cattaneo... Era divertente perché a volte andavamo tutti a mangiare una pizza dopo lo show. Mi ricordo di aver giocato a carte con Mina, è bravissima.

Ma anche con i soldi?
Certo!

È grazie a queste  frequentazioni che si è affinato il tuo talento per intervistare i tuoi colleghi? Ora io sono qui che intervisto te, però per molto tempo tu sei stata dall'altra parte della barricata.
Sì, piacevo alla TV per la mia ironia. Io adoro ridere, non posso concepire la vita senza una bella risata, è il minimo per la salute. Dunque, dato che avevano visto questa mia qualità ed ero capace di parlare molte lingue (tedesco, inglese, francese, italiano, spagnolo), mi hanno chiesto di intervistare, che ne so, Tina Turner, Aznavour… sono passata alla Rai e abbiamo trovato questa idea che era "Cocktail d'Amore". Il concept era ritrovare delle vecchie star e vedere che fine avevano fatto. Era gente che non si vedeva in TV da un po', mi ricordo quando ho intervistato Loredana Bertè ed è arrivata con i capelli azzurri.

Ah, e che le hai detto?
Le ho detto: "Ma sei fusa!" E lei "Fusa a me? Ma che c'hai, gli specchi de legno a casa?" [ride] Però era divertente intervistare le mie colleghe.

Ma anche i colleghi! Come ad esempio la bellissima intervista con Battiato.
Sì, andai a casa sua in Sicilia.

E lì parlate di droga, dite che all'epoca ci si drogava per ampliare la coscienza, a differenza di oggi.
Noi ci drogavamo per fare arte. Si diceva che il fatto di prendere acidi, LSD eccetera stimolava la creatività, perché avevi le visioni.

Tu l'hai preso, giusto?
Ma sì, come tutti! Cioè, io sono di una generazione che a Londra uno che non fumava almeno una canna lo guardavano male. E allora tu devi assolutamente provare questo e quello, ero appena arrivata dall'America—"prova questa pillola, vedrai che meraviglia". Si pensava che facesse diventare dei gran creativi. 

Poi Salvador Dalí mi ha detto che queste cose non esistono. Cioè lui non si drogava per niente, lui beveva l'acqua minerale e mi diceva: "Guarda, io bevo quest'acqua e ho le stesse visioni. Vuoi vedere gli arcobaleni? Bevi l'acqua minerale, arcobaleni dappertutto. Vuoi vedere gli elefanti che volano? Un sorso di acqua minerale e ne vedi quanti ne vuoi" [ride]. Insomma, mi ha insegnato che non c'è bisogno di una cosa chimica per stimolare la creatività.

Infatti questa maglietta che indosso ora è proprio una citazione di Dalí: "I don't do drugs, I am drugs".
Sì, è sua. E dunque ha fatto di tutto per farmi smettere di prendere droghe. Siccome avevo dei problemi con gli occhi, mi ha portata a Barcellona da un grande specialista che mi ha detto: "Se lei continua a drogarsi diventerà cieca". Sì perché vedevo dei flicker, degli sfarfallii negli occhi, e così ho smesso di drogarmi. Non è stato un problema, basta volerlo.

E quindi invece che ne pensi dell'uso delle droghe che fanno oggi i giovani?
Mah, secondo me i giovani di adesso la vivono al contrario. Siccome sono infelici, disoccupati o che ne so... brutti, si drogano e pensano che questo migliorerà la situazione. La droga non ha mai migliorato nessuna situazione. Alla fine quando esci dal famoso trip della droga ti ritrovi sempre come prima, disoccupato e infelice. 

Ma Dalí mi diceva una cosa divertente: quando si festeggia, champagne per tutti! Non è che tutte le mattine bevi champagne perché sei depresso. Festeggi perché tutto va bene, allora bevi champagne. La droga dovrebbe essere così: lui diceva che quando tutto va bene ha senso drogarsi per festeggiare.

E tu sei stata una droga per Dalí?
Mah, questa storia della musa è una cosa molto strana. Il fatto di stare vicino all'artista e stimolare la sua inventiva potrebbe essere come una droga. Certi artisti dicono di non essere in grado di dipingere o di creare se non hanno vicino una determinata persona. Dunque è vero che alla fine ti succhiano un po' l'energia, un po' come dei vampiri. Ho fatto un sacco di cose per Dalí, ho disegnato un intero set per un film una volta. È arrivato il produttore di James Bond e voleva che Dalí gli facesse un set di tarocchi. Dalí non aveva la minima idea di cosa fossero i tarocchi, dunque ha dato a me il compito di farli. Quindi mi sono messa in un angolo e ho disegnato tutte le carte, con l'imperatore, la ruota della fortuna… Dalí è arrivato, ci ha incollato sopra tre farfalle, ha firmato Dalí e io gli ho detto: "Guarda che è un po' una truffa, 'sta cosa", e lui: "Ma no!" [ride]

Ma tu dipingi ancora?
Sì! Io facevo Belle Arti. Sai, quando ho incontrato Dalí volevo diventare pittrice. Lui non mi piaceva per niente, a me piaceva Picasso [ride], dunque non conoscevo la pittura di Dalí, non m'interessava. Però una sera me l'hanno presentato, facevo ancora la modella, ero tutta truccata un po' da vamp, le ciglia finte, alta e magra. Per fargli capire subito che non ero soltanto una modella dico: "Guarda che io faccio Belle Arti, sono anch'io una pittrice. Praticamente siamo colleghi!" Capito, colleghi! E questo mi ha guardato male e mi ha risposto: "Guardi signorina, le donne non sanno dipingere. Non mi parli della sua pittura, non esiste; lei non è mia collega!"

Lui era un po' maschilista su queste cose...
Un po'? [ride] Macho spagnolo totale! E io gli ho detto che le donne pittrici erano sempre esistite, e lui diceva di no, e io citavo Frida Khalo, Dora Maar... Dice: "No, no, no, la donna pittrice fa dei fiori e dei bambini che piangono. Non c'è mai stata una donna pittrice a dipingere la cappella Sistina". E io: "Certo, la lasciavano in cucina!"

E come hai fatto a farlo rinsavire?
Ci sono voluti almeno dieci anni. Finché un bel giorno ero con lui, come tutte le estati, a Cadaqués, a leggere Proust mentre lui dipingeva; pioveva, ero agitata, avevo appuntamento col fidanzato che non era venuto, ero incazzata nera, nervosa. A un certo punto Dalí mi dice: "Guardi, lei oggi è insopportabile (mi dava del lei); deve fare qualcosa per tranquillizzarsi. Lei dipinge, giusto?" E io rispondo di sì, si ricorda, ho fatto Belle Arti. Così mi ha dato una tela bianca, i suoi colori, i suoi pennelli e mi ha detto: "Dipinga". Allora io mi sono messa in un angolino, zitta zitta, e ho cominciato a dipingere. Non si sentiva più volare una mosca. Dopo un'oretta è venuto a guardare, si sporgeva da dietro le mie spalle, e ha urlato: "Fermati!" E io ho protestato perché non era finito. E lui mi ha detto che non si deve mai finire un quadro. Se lo finisci vuol dire che è fatto male. Se invece lo lasci a metà, si può sempre pensare che avrebbe potuto diventare un capolavoro. Poi l'ha guardato meglio e mi ha detto: "Sai che non è male, per una donna?"  È stata la prima volta che ha voluto vedere un mio quadro. E poi ho continuato a dipingere, ho fatto delle mostre anche recentemente. Dipingevo un sacco di nudi, nudi maschili. Senza modelli, eh, tutto a memoria. [Ride]

Hai mai suonato uno strumento?
No, io scrivo le parole delle mie canzoni. Ho provato a comporre due o tre pezzi di musica che ho anche inciso, tipo "Miroir". Ma non sono una musicista, sono una cantante e soprattutto un'attrice. Sai, in Germania si chiama "Sprechgesang", vorrebbe dire parlato/cantato. Come un'attrice quando canta in modo articolato, vive la tua canzone, fa passare l'emozione; per farlo ci vogliono bei testi che puoi interpretare, come quelli di Brel, Gainsbourg. È questa la direzione in cui mi piace andare: il cabaret.

E, infatti, quando hai collaborato con i CCCP Fedeli Alla Linea anche Ferretti aveva questo stile di recitar cantando, diciamo. C'era affinità.
Ah, sì! Io non li conoscevo questi CCCP Fedeli Alla Linea, mi sono arrivati addosso e mi hanno detto che volevano rifare "Tomorrow". E io dico: "No no, di 'Tomorrow' non ne posso più. Ci ho pagato l'affitto, ora basta". E loro mi dicono di non preoccuparmi, che ci pensano loro, così siamo finiti a fare questa specie di parodia di "Tomorrow". Poi con "Inch'Allah-ça va" sono stata a cantarla con loro dal vivo e tutti i loro fan sono rimasti a bocca aperta vedendo arrivare l'Amanda Lear.

Anche perché loro avevano un pubblico punk.
Sì, erano completamente punk. Mi fa sempre piacere che dei ragazzi così pensino a una collaborazione con me. Ogni volta che incontro Jimmy Somerville, Boy George e tutti questi gruppi inglesi, mi fanno: "Amanda, ma quando lavoriamo insieme?"

Eh non puoi dar retta a tutti, ci vorrebbe tutto il tempo del mondo!
Ma guarda che io sono disponibile. Siccome, come ti ho detto prima, mi annoio, sono pronta a prendermi dei rischi. Un domani, un duetto con uno che proprio nessuno si aspetta.

Però vedi, anche nel caso dei CCCP, col famoso recitar cantando, hai in qualche modo anticipato un certo modo di porsi vocalmente.
Trent'anni fa ho fatto una canzone che si chiamava "Alphabet". Mi era venuta l'idea di scrivere un verso per ogni lettera dell'alfabeto. "A perché sei un amico, B perché sei…" Ed è così che mi sono inventata il rap, o lo slam, insomma, questo modo di parlare in musica. Ed è quello che fanno oggi i ragazzi. "Alphabet" è piaciuta molto, non ho mai capito il perché, secondo me non era tutto 'sto granché.

Perché il testo era ammiccante, pruriginoso. A proposito, parlami del film che hai fatto con Joe D'Amato, "Follie di notte".
Bell'imbroglione, quello! Siccome ero appena arrivata in Italia, mi ha convinta che Cinecittà mi avrebbe aperto le porte e sarei diventata una star del cinema. Abbiamo girato al Piper, a Roma, io che cantavo "Follow Me", lo vedevo un po' come un film sulla mia musica. Poi mi dice: "A un certo punto tu esci dalla macchina con un vestito stupendo e dici agli spettatori: 'Adesso vi faccio visitare la più bella parte di Roma, ecco qua il Colosseo'". Solo che mi hanno doppiata! Io non avevo letto il contratto, c'era scritto: "Avremo la possibilità di inserire quello che vogliamo". Questa cosa dell'insert (come si dice in gergo) va sempre controllata, perché questi hanno inserito quello che volevano. Così quando io dicevo "Vi faccio vedere..." l'hanno cambiato in "Adesso vi porto a vedere un posto dove s'inculano tutti"! [ride] E io sono rimasta di sasso. Un porno! Ma ti rendi conto? Dunque gli ho fatto causa e naturalmente ho perso, avrei dovuto leggere il contratto.

Bisogna ammettere che, a vederlo oggi, è sicuramente un film curioso.
Un'esperienza bruttissima. Poi ho fatto un altro film con Adriano Celentano, anche lì come cantante. Zio Adolfo in arte Führer, facevo una specie di Marlene Dietrich. Il film non ha avuto nessun successo, Celentano diceva che era colpa mia.

Addirittura!
È perché lui era molto superstizioso e io nel film cantavo "Lilì Marlene", che secondo Celentano porta sfiga. E la cantavo tutta vestita di viola. [Ride] Più sfiga di così!

Comunque è diventato un film di culto. E invece quest'ultimo film che stai girando, com'è?
Sto facendo un film di Cosimo Messeri con Cristiana Capotondi. È divertente, una commedia, un film d'autore. Lui faceva l'assistente di Nanni Moretti, è un bravo regista. Quello che mi piace è che mi ha affidato questo ruolo da signora... non svampita, però che si diverte sempre, ecco. Mi piace il personaggio positivo, per lei va sempre tutto bene. Una di quelle che ha avuto cinque mariti, ma chi se ne frega. Infatti nell'ultimo disco ho voluto tenere un approccio un po' più positivo. Siccome ho scritto un sacco di canzoni sulle bugie, i tradimenti, gli amori che finiscono, le illusioni, ho pensato: "Facciamo un disco positivo, domani andrà tutto meglio". Ho voluto vedere il bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto.

E infatti si sente, è molto leggero, arioso, diverso dalle cose che hai fatto prima.
L'ultima canzone è "Smile", una canzone di Charlie Chaplin che dice: "Se il tuo cuore sta piangendo, se tutto va male, se il cielo è pieno di nuvole, sorridi che domani tutto tornerà chiaro, tutto andrà meglio". Quindi il messaggio è di speranza.

Ultima domanda… o hai ancora tempo?
Dai, parliamo ancora di cinema. In teatro ho fatto quattro o cinque commedie una dietro l'altra, l'ultima su una donna politica. Penso di avere più futuro sul palcoscenico, mi piace tantissimo recitare perché il contatto è immediato, in TV non ho avuto mai questa sensazione perché è tutto finto: "applausi", e via.

Del resto hai sempre sperimentato con ogni tipo di linguaggio.
Sì, ad esempio c'è un autore spagnolo che si chiama Fernando Arrabal, è un tipo po' particolare, come il vostro Carmelo Bene. Mi ha proposto un'opera teatrale che si chiama Dalí vs Picasso. È un incontro fra Dalí e Picasso, che si odiano, che si criticano… E uno non sa dipingere i volti, e l'altro fa gli orologi molli senza senso... [ride] È divertente come l'ha scritto, e quando l'ha messo in scena a Madrid ha avuto grande successo. Mi propone di recitarci a Parigi e io gli chiedo: "Chi devo fare, la moglie di Dalí?" E lui: "No no! Tu fai proprio Dalí! Con i baffi!" È matto! Mi propongono cose talmente strane… Però mi fa piacere che pensino di potermele proporre.

Secondo me è un'idea perfetta.
Comunque Picasso e Dalí si conoscevano bene davvero, eh. Erano molto amici quando erano giovani, a Barcellona uscivano tutta la notte a ubriacarsi andavano nei bordelli insieme. Poi si sono separati per via delle cose politiche, però ogni anni si mandavano una cartolina, sempre a luglio. 

E un giorno io e Dalí dovevamo andare a New York, ma lui aveva paura dell'aereo, così prendemmo la nave. La nave partiva da Cannes, così andammo lì tre giorni prima dell'imbarco. Quindi siamo lì, è febbraio, e io mi annoio. Così dico a Dalí: "Che facciamo?" E lui: "Chiamiamo Picasso". 

Ma dai.
Sì, perché lui viveva a Cannes. Allora lo chiama al telefono davanti a me, e io mi metto ad ascoltare la conversazione di questi due geni della pittura universale. Parlano del più e del meno, e Picasso fa: "Sei con tua moglie?" E Dalì: "No, sono con Amanda." "Amanda? E chi è quest'Amanda? Hai mollato tua moglie?" "No, ti spiegherò... Sono con questa ragazza che mi fa compagnia..." "Ma va'? Ti tira ancora?"

E allora questi grandi geni universali cominciano a parlare solo di sesso per dieci minuti! Impotenza, prostata... nient'altro! Non hanno parlato di Andy Warhol o di Jeff Koons... solo di cazzo! [Ride]

A proposito di sesso: è grazie a ciò che sei riuscita a superare la cortina di ferro. Come hai fatto?
All'inizio in Russia proibivano tutto e i miei dischi arrivavano nel mercato nero dall'India. Di conseguenza per i russi Amanda Lear era Marilyn Monroe, un sogno erotico, perché non l'avevano mai vista. Mi chiamavano in continuazione per farmi andare in Russia, ma volevano pagarmi in rubli e io volevo i dollari. E poi mi proponevano delle pellicce antiche, orrende, e io dicevo: "No, verrò quando avrete dei dollari". 

E quindi non sei mai andata in Russia?
Poi sì, hanno tirato fuori i dollari! Sono andata tre o quattro volte a Mosca, San Pietroburgo. Lì è sempre un grandissimo successo perché mettono in piedi degli show grandiosi. Ricordo che l'ultima volta a Mosca avevo chiesto dei ballerini, perché la prima volta mi ero portata i miei e ce n'erano due di colore, e i russi sono spesso razzisti, e i miei ballerini non hanno più voluto tornarci. Allora mi hanno fatto trovare dei ballerini classici del Bolshoi, proprio bravissimi. E ho fatto questo spettacolo con cinque o sei ballerini che è venuto fuori… Tra l'altro lì erano venuti a vedermi un sacco di italiani: Riccardo Fogli, Toto Cutugno… erano tutti lì.

E non hai mai avuto problemi di censura?
Beh, all'inizio era un po' scioccante, poi si sono aperti. Ma questa cosa dello shock è una mia costante, mi ricordo ad esempio quando ho fatto Stryx...

...Del grande maestro Enzo Trapani!
Eh sì! Dicevano che era una provocazione terrificante. Con me c'erano Patty Pravo e Grace Jones. E mi ricordo che a un certo punto, mentre cantavo, dietro di me c'erano delle comparse a seno nudo; una volta questa cosa era molto audace per la Rai.E una delle comparse era Barbara D'Urso!

Barbara D'Urso?! SCOOP!!!
Eh sì! [Ride] A me certe cose sembrano normali, non provocazioni, però capisco che per certa gente tutto quello che è un po' nuovo è problematico. Ma una volta la trasgressione era questa, ora lo fanno tutti e dunque la trasgressione oggi è una che va in chiesa, si sposa, è fedele... Che trasgressione!

A proposito di cercare cose nuove: tu sei una grande talent scout.
Una scopritrice di talenti! Non scopatrice… scopritrice! [Ride]

Beh, l'importante è il talento. Ad esempio, tu hai spinto molto Giuni Russo.
Giuni mi ha scritto una canzone che all'inizio non capivo, visto che non parlavo molto bene l'italiano: "Ho fatto l'amore con me". Mi piaceva molto, ma mi hanno spiegato dopo che parlava di masturbazione! 

Chi è quello che sei riuscito a spingere di più fra nuove leve?
In questo momento Gianluca De Robertis. L'Italia è piena di talenti, ma andare in televisione è difficile. E poi non penso che questi talent show servano a qualcosa. Vincere una gara non vuol dire avere successo, penso che a decidere alla fine sia il pubblico. Per esempio, Miguel Bosè era divertente, l'ho conosciuto a diciassette anni. Suo padre me l'ha mandato a Londra dicendomi: "Ti mando mio figlio perché bisogna sverginarlo". [Ride]

Ma come? In che senso?
Il padre temeva che diventasse... gay? Un giorno, insomma, mi chiama Miguel e mi dice che è arrivato a Londra. Io temevo di doverlo mantenere ma per fortuna aveva dei soldi. L'ho sistemato in un albergo a South Kensington e gli ho chiesto cosa volesse fare, e lui mi ha detto che sognava di fare il ballerino. Sono stata io a insegnargli a muoversi, prima che venisse in Italia nel '79 e facesse il botto.

Ma, il successo, tu, l'hai cercato?
No, mai. Io ho sempre saputo che avrei avuto un destino diverso da mia madre e degli altri, ma non sapevo cosa significasse. Avrei potuto diventare una grande ladra, una criminale, una ballerina; sapevo solo che avrei avuto un grande destino. Io credo molto nel fato, altro che scuole, progetti... Magari esco da qui e incontro Woody Allen: "Amanda, finalmente! Ti cerco da una vita!" Io credo che le cose vadano cosi, è successo così con Berlusconi, che mi ha chiamato una notte e non sapevo neanche chi era; con David Bowie, la stessa cosa. È tutto successo per caso, e io credo molto nel tenere la mente aperta per accettare quello che arriva.

È tutto un gioco, è divertente, non sai mai cosa può succedere. Magari sbaglio, ho sbagliato tante volte, però è talmente divertente lasciar fare le cose della vita… Io dico sempre che mi sono rotta, che voglio andare in pensione, ma i miei amici dicono che mi annoierei. Quindi continuo a trovarmi cose da fare. E il bello di invecchiare è ci sono dei ruoli nuovi per te, delle cose molto interessanti. Si pensa sempre che si perda un po' la bellezza, ma è il contrario! I ruoli di Tennessee Williams, ma anche nella musica si trovano dei testi meravigliosi, come l'ultimo periodo di Nico ad esempio…

E tu la conoscevi?
Si, Nico era una grande amica.

Anche lei ha preso da Amanda?
Con lei c'era una certa somiglianza: gli zigomi, i capelli... poi s'è fatta rossa, me l'ha presentata John Cage, stavamo nello stesso albergo a Londra. Però c'è da dire che Warhol li ha sfruttati tutti, quelle presunte grandi star sono davvero durate i fatidici quindici minuti di Andy Warhol.

Ma visto che tu sei una superstar, spero che un giorno farai una copertina per qualche disco mio!
Yes! Ho visto quel video in cui ripeti per dieci minuti "l'Italia è musica" a Rai International, come Donna Summer quando dice "Love to love you baby"! Ma hai notato che, tornando alla disco, ho messo una cover di "Macho Man" nel nuovo disco? Perché ero fidanzata con Randy Jones, il cowboy dei Village People.

Nooo ma davvero? Ma non era gay?
Ma piantala! Diciamo che era un ragazzo moderno… 

Dopo questa rivelazione eccezionale possiamo chiudere. Grazie mille, Amanda.
Mi dispiace che avervi fatti venire in un posto così, molto rumoroso. Ma a me piace il rumore!

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Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

GROUP DOUEH & CHEVEU
Dakhla Sahara Session
(Born Bad)

Si può dire "disco dell'anno" a febbraio? Ma sì, ormai siamo quasi a marzo, è andata. Mi dà anche fastidio parlarne, dovreste stare già cliccando febbrilmente sul link là sopra per acquistare questa bomba totale. Quando i tre parigini Cheveu, uno dei gruppi più unici e stravaganti di questo secolo, prende un Royal Air Maroc e si catapulta a Dakhla (che, in caso come me foste un po' ignoranti sulla geografia del Sahara, si trova qua) per una sessione con il maestro Doueh e il suo gruppo, è d'obbligo aspettarsi una figata ed è facile essere comunque stupiti. "Moto Deux Places" è praticamente una perfetta sintesi delle due band, con la plasticosità elettronica dei francesi che si intreccia con i ritmi sincopati e striscianti dei touareg, mentre la voce roca di David Lemoine viene bilanciata dalla sinuosità del coro Doueh, ma è soltanto l'inizio. Ogni volta che parte "Bord De Mer" con il suo ritmo post-punk funkeggiante mi scoppia la testa, mentre "Azaouane" riesce a mettere insieme garage rock, assolazzi hard rock e gnawa. Non ho spazio per parlare di ogni canzone, anche se vorrei. Nel corso dell'album le due anime si intrecciano alla perfezione, dandosi il cambio nel dominare l'andamento del pezzo, e si respira un'aria di libertà e creatività assolute. L'ho già detto "disco dell'anno"? Disco dell'anno.
TUAREG EIFFEL

PISSED JEANS
Why love now?
(Sub Pop)

Strombazzato a destra e a manca come un grande ritorno con grandi ospiti (vedi Lydia Lunch), con grande cattiveria nella musica, con grandi tematiche nei testi, con grandi qua e grandi là, il nuovo disco dei Pissed Jeans mi sembra suonato da un gruppo parodia. Tanto cattivi ed esasperati da sembrare finti, tanto anni Novanta che rimpiangiamo gli Unsane. Ma nello stesso tempo alla ricerca di un consenso giovanile che oramai all'hardcore preferisce lo "stile", la posa. Ma dove sono i Pissed Jeans sfasciati, quelli veraci che tanto amavamo? Boh. Probabilmente in lavanderia a farsi lavare i pantaloni dalla mamma.
MARCO PISELLONIO

KING GIZZARD & THE LIZARD WIZARD
Flying Microtonal Banana
(Heavenly)

Ho visto i King Gizzard dal vivo solo una volta. Era luglio 2015, stavo a Londra e loro suonavano allo Scala di King's Cross. Io stavo a Stepney Green, che teoricamente non è troppo lontano se non fosse che quel giorno c'era uno sciopero dei trasporti clamoroso che interruppe il mio bus dopo due fermate, lasciandomi tipo tre simpatici chilometri da percorrere a piedi per arrivare al concerto. Tra l'altro, ero da solo. Ci sono andato lo stesso, e sono arrivato sudato come lo schifo, ignaro che dentro il locale avrei sorpassato qualsiasi concetto di perspiratio sensibilis perdendo più liquidi di quelli che credevo di poter contenere. Ragazzi, che vi devo dire, i King Gizzard sono la reincarnazione di una jam band dei Settanta fatta costantemente di speed, un branco di animali rabbiosi posseduti da Satana che vi prendono a schiaffi con due batterie, tre chitarre, un basso e qualsiasi cosa emetta un suono su cui riescono a mettere le mani. E a questo giro lo fanno suonando musica microtonale, cioè usando gli intervalli minori di un semitono—un po' come costruire una nuova materia usando le zone interstiziali a metà tra gli atomi e le particelle atomiche. Ciao. Scusate, mi è appena venuto in mente un pitch per Motherboard.
GINO ESPIRITO SANTO

THE NECKS
Unfold

(Ideologic Organ)

Questa è una campagna ministeriale per la diffusione della buona musica. Ascoltate i Necks. Non necessariamente questo disco: uno qualsiasi, dove beccate beccate bene. Sono un trio australiano di impro-postjazz e a parte la colonna sonora di The Boys che mi piace di meno, tutto quello che hanno fatto è incredibile. I loro album sono quasi sempre composti da un unico pezzo di circa un'ora, ascoltate qualsiasi disco contenuto nel Necks Box (soprattutto Drive By, Aether e Silverwater), Vertigo dell'anno scorso, o questo. Si tratta anche di lavori molto vari e estremamente diversi tra loro, non sono uno di quei gruppi che ha trovato una formula e resta legato a quella. Hanno fatto dischi quasi kraut, dischi rumorosi e dischi iper-minimali; sono uno dei migliori gruppi sulla piazza eppure se li cagano giusto quelli che seguono un certo ambiente. Non fate lo stesso errore: entrateci, ascoltateli, amateli. Fate pressione perché qualche santo li porti a suonare in Italia. Fatelo. Ascoltate i Necks.
RZA

LUPE FIASCO
DROGAS Light
(1st and 15th)

L'unico modo di ascoltare DROGAS Light è fare il mashup con un album qualsiasi di Justin Bieber e sperare che ad un certo punto il cervello riesca a circoscrivere la musica di Lupe Fiasco ed escluderla dal processo cognitivo. Partiamo dal presupposto che se non avesse fatto uscire un disco probabilmente. DROGAS Light è il primo disco di Lupe senza Atlantic Records, dal cui contratto si è recentemente liberato, ed è la prova che spesso dietro uno stagno creativo non c'è solo la major cattiva e asfissiante. Il disco esce su etichetta indipendente di cui lo stesso Lupe è proprietario ed è il primo episodio di una trilogia che alla fine sarà composta da DROGAS Light, DROGAS e Skulls. Boh. L'esperienza di ascolto (senza Justin Bieber) è scadente e divisa in due blocchi: la prima metà è composta da trap generica e potremmo chiamarla CINISELLO Balsamo, la seconda parte è composta dalle canzoni da usare come sottofondo per i video delle vacanze a Gallipoli fatti con la GoPro e potremmo chiamarla GALLI Poli.
CATTEO MONTIGLIOZZI

SHIZUNE
Cheat Death, Live Dead!
(Autoprodotto)

Che la scena screamo nostrana (non me ne vogliano i puristi per l'uso del termine "scena") stia perlopiù diventando un guardarsi il buco del culo scrivendo dischi praticamente già scritti almeno altre 4/5 volte da altrettante band è evidente. Non a caso, anche mia nonna, se fosse viva e stranamente appassionata di screamo, vorrebbe essere i Raein. Anche io, in fondo, vorrei essere i Raein. Anche i Raein, probabilmente, scrivono roba pensando che vorrebbero essere i Raein. Gli Shizune invece sembrano avere in testa più gli Orchid (Dead all day, rodeo tonight! titola un pezzo di questo secondo album), ma alla fine non sono gli Orchid e nemmeno i Raein. Non sono neanche i Pg.99 o i Daitro, se è per questo. Sono semplicemente gli Shizune e sono qui per vomitare le tonsille in quattro lingue diverse con dieci pezzi dalla durata di 13 minuti totali. Cheat Death, Live Dead! finisce in fretta, ma rimane un'esperienza di un'intensità difficile da trovare nello screamo dei nostri giorni, forse proprio perché tutti vorrebbero scrivere Venus and Bacchus dei Saetia e invece loro vogliono solo essere gli Shizune—e ad ogni disco, lo fanno meglio. Non è che non ci siano rimandi ai gruppi citati, eh, ché alla fine le tradizioni sono importanti. Quello che riescono a fare è però interiorizzarle e ributtarle fuori in modo tremendamente personale e viscerale, come dovrebbe fare un buon disco del genere. E quindi, gioite, amici dell'estremismo emotivo: lo screamo italiano è salvo anche quest'anno.
LEONARDO BENZODIAZEPINE

THUNDERCAT
Drunk

(Brainfeeder)

Thundercat mi piace tantissimo e avevo grandi aspettative per questo album: ospiti di prestigio, ispirazione a mille, singoli promettenti, suoni di Cr… Insomma tutto lasciava presagire un grandiss. E lo è, è un bell. Consigliatiss. L'unica cosa che non capisco è perché per recensirlo debbano mandare uno streaming su un sistema criptato e esoterico e non su una piattaforma delle solite, circondato da minacce di morte - e fino a qui tutto bene - ma soprattutto con i pezzi che a una certa si interrompono, non complet. Capisco il terrore della pirateria, ma così mi sembra un po' eccess. Quindi per il momento vi possiamo dire senza timore di smentita che è un ottimo album, che non deluderà gli amanti di certi suoni (funk soul) e di un certo mondo (insomma siamo in piena Brainfeeder celebration), ma aspettiamo di poterlo sentire come si deve (per intero, senza interruzioni e in ottima qualità) per sbilanciarci del tutt. E speriamo anche di vedere presto un live da queste parti, possibilmente senza interruzz.
FEDER SAR

EX DEO
The Immortal Wars
(Napalm)

È molto bello che Maurizio Iacono senta un così profondo attaccamento alla sua cultura d'origine; figlio d'immigrati che riscopre le origini, molto romantico. Pensate se una volta si decidesse anche a fare un buon disco. Una ficata. Invece per la terza volta su tre siamo davanti al solito p(i)attume iperprodotto e iperretorico, che più che la aurea mediocritas oraziana sposa la poetica dell'eccesso e della pacchianaggine da pettorale anabolizzato di Spartacus. Potrà pure piacere ai bodybuilder d'oltreoceano, ma noi che questa storia la studiamo un po' più da vicino conosciamo la differenza tra le guerre puniche che vorrebbero essere ritratte in   The Immortal Wars e la battaglia delle Termopili. Forse qualcuno dovrebbe spiegare agli Ex Deo che Roma non era Sparta. O forse dovrebbe solo spiegare agli Ex Deo come scrivere buona musica. Ennesimo segnale di come la vena creativa dei Canadesi si sia spenta con l'ultimo buon disco dei Kataklysm, anno domini 2006. Daje Maurì, accanna.
LEGIONARIO COATTO

CALEB R.K. WILLIAMS
Ballads For The Immortal Watcher
(Eagle Stone Collective)

Caleb R. K. Williams è un nome (pseudonimo?) comparso poco più di un anno fa all'interno di un collettivo francese, The Eagle Stone Collective, di cui non si sa nulla, men che meno se sia davvero francese. Si sa invece che in circa quindici mesi Williams ha rilasciato qualcosa come dieci ep a suo nome, tutti rigorosamente in digitale tramite Bandcamp, di cui  Ballads... è il più recente. Lui non dice nulla, lascia parlare una chitarra pizzicata, degli archi sgangherati e qualche effetto tra ambient e drone, ed è subito la frontiera: con Williams basta chiudere gli occhi per ritrovarsi davanti al fuoco in una notte nei pascoli infiniti o nel Mojave. C'è più America in uno di questi frammenti che in un Big Mac; però qui c'è l'America quella buona, da John Wayne a Chris McCandless, l'America dei grandi spazi e delle grandi avventure, l'America del Sogno. È bello che qualcuno ogni tanto se la ricordi ancora. Oggi fatichiamo addirittura a credere che sia mai esistita, ma Caleb R. K. Williams non solo ci crede, pare proprio l'abbia vissuta.
TEX WILLER

LOS CAMPESINOS!
Sick Scenes
(Wichita)

Gareth, il cantante dei Los Campesinos!, è diventato la mia persona preferita nell'esatto momento in cui ho finito di ascoltare Romance Is Boring, il terzo LP del suo gruppo. All'epoca ero ancora un post-adolescente profondamente convinto che amore = sofferenza, e allora sentirlo sciorinare monologhi dissennati su quanto tutto facesse schifo e la vita gli facesse male mi faceva venire i brividini lungo la schiena—cazzo, quell'album finiva con un'immagine di lui che piangeva sotto la doccia vestito, con i jeans sporchi di piscio e diceva "Non riesco a credere di aver scelto la montagna ogni volta che tu sceglievi il mare." Ecco: il fatto che ho i brividini anche adesso che sto scrivendo questa frase è testimone di quanto, con il passare degli anni i contadini(!) sono riusciti a non cominciare a fare schifo, dato che Sick Scenes è potenzialmente il nuovo disco preferito di chiunque si senta un po' una merda nei confronti del mondo e degli altri ma non per questo disdegna la musica in maggiore. E tra l'altro ha dentro tante cose interessanti, tipo lo schifo per il neofascismo delle provincie britanniche e l'amore per il calcio amatoriale portoghese—entrambi campi d'interesse piuttosto affascinanti, se volete sapere la mia.
BELLA GUTTMANN

A BLUE SNAIL
Box N.5
(Autoprodotto)

Fra i gruppi noise degli anni Novanta i That Noise From The Cellar erano fra i più attivi, più coraggiosi e più non-ce-ne-frega-un-cazzo di tutti. Dopo lo scioglimento ognuno ha preso la sua strada, tutte ovviamente uneasy. Alcuni nomi? The Real Miracolo, Random Axes, Grip Casino. Del batterista Mauro Sardi si erano perse le tracce, ma eccolo spuntare fuori con questi A Blue Snail, ai quali il nostro presta il suo drumming preciso e spezzato incastonandolo in brani che sono gioiellini di rock psichedelico in bilico fra Settanta e Novanta, con una patina space non facile preda di effettazzi a caso, ma chirurgica e fredda, come se si sezionasse un marziano alle prime luci dell'alba. Se amate sviaggiare tutto ciò fa per voi, altrimenti vi meritate i Pink Floyd di  Endless River.
CAPPELLAIO GATTO

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"Synthesize the Soul" è un omaggio ai musicisti migranti di Capo Verde

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Nella fotografia: Tchiss Lopes.

Sperduta nelle profondità dell'oceano Atlantico, a più di 500 chilometri dalla costa ovest dell'Africa, c'è un'isoletta a cui probabilmente il vostro pensiero non corre molto spesso. Si chiama Capo Verde. Nel sedicesimo secolo era un prestigioso scalo di mercanti; ebbe un forte influsso di denaro durante gli anni dello schiavismo e si liberò dei coloni portoghesi che la dominavano solo nel 1975. Una volta, una nave piena di sintetizzatori è naufragata sulle sue coste. A meno che abbiate studiato storia, o che giocare a Trivial Pursuit sia uno dei vostri passatemi preferiti, probabilmente Capo Verde non è venuta fuori nelle vostre ultime conversazioni. Ma c'è un uomo che vuole far sì che questo cambi, e si chiama Vik Sohonie. 

Sohonie è un ragazzo di New York. Tra le sue passioni ci sono acquistare dischi polverosi e semi-dimenticati, catalogare i suddetti e l'etnografia musicale. Ha passato la maggior parte della sua vita lavorativa a creare compilation di brani provenienti dagli avamposti più remoti del mondo, e il risultato sono album che si qualificano sia come sintesi di periodi storici estremamente variegati che come materiale per DJ annoiati della rigidità tipica della musica che passa nei club dell'Occidente. 

Si descrive come "una persona che ha studiato nei centri di potere, globalizzata ai margini del mondo," Sohonie, che ha passato anni a lavorare per Analog Africa—un'etichetta tedesca specializzata nell'archiviare materiale africano. Il suo ruolo era quello di capo della ricerca, ma scriveva ed editava anche le note inserite nelle compilation che venivano stampate, il cui obiettivo era di raccontare nel modo più fedele possibile storie di culture. 

L'anno scorso Sohonie ha lanciato Ostinato Records, un'etichetta con cui vuole continuare il lavoro iniziato con Analog Africa. Per preparare la sua prima uscita ha viaggiato ad Haiti, dove ha raccolto materiale per un album— Tanbou Toujou Lou: Meringue, Kompa Kreyol, Vodou Jazz & Electric Folklore from Haiti 1960 - 1981—che suona come un viaggio verso l'ignoto. 

Jovino Dos Santos, musicista di Capo Verde.

La nuova uscita di Sohonie ci porta invece, come avrete previsto, a Capo Verde. Il disco si intitola  Synthesize the Soul: Astro-Atlantic Hypnotica from the Cape Verde Islands 1973 - 1988 ed è un'esplorazione di una miriade di stili e suoni lunga 18 tracce. Tutte si concentrano attorno a un tema piuttosto caldo: la migrazione. 

Synthesize the Soul racconta cosa succede quando le isole vengono abbandonate e scambiate per nuovi mondi da visite, quando le tradizioni si scontrano con lo shock del cambiamento, quando le culture iniziano a mescolarsi invece che scontrarsi. È una celebrazione di musicisti che hanno cercato nuove vite in terre lontane senza però mai scordarsi le loro origini—e, il che è la cosa più importante, quello che ascoltavano quando erano lì. Musicisti scappati in Europa e negli Stati Uniti, artisti che si sono forse lasciati dietro senza rendersene conto gli indizi per ricreare una storia alternativa dell'elettronica.

Ho parlato recentemente con Sohonie al telefono per parlare del suo metodo, della sua nuova uscita e del suo amore per la musica che pubblica. 

Quando vai nei luoghi che vuoi raccontare, come sono le tue giornate—come e dove trovi le storie che vuoi raccontare?
Sono laureato in storia, e mi sono specializzato in storia africana. Quindi, ovunque vada, ho un'idea del passato dei luoghi in cui mi sposto. Quando ero ad Haiti, per esempio, si è trattato di trovare i pezzi fisici che volevo. Magari avevo in testa canzoni che avevo sentito alla radio, o che avevo sentito qualche musicista locale suonare, ma non sapevo dove trovarle stampate su disco, o su nastro. A parte casi com questo, ci sono tantissime informazioni sugli album pubblicati nel mondo, e puoi usare i dischi che trovi per unire i puntini e stabilire una storia. Poi parli alla gente, la gente che incontri per strada, e assembli tutto in qualcosa di coerente. Infine si tratta di trovare i musicisti, i proprietari delle stazioni radio, anche gente che lavora per i ministeri della cultura dei paesi che visito. Unisco i puntini grazie alla musica.

Hai bisogno di qualcuno del luogo che ti aiuti, e sono stato così fortunato da averne di molto bravi ad Haiti, in Somalia e in Sudan. Persone che si sono veramente sbattute per aiutarmi. Non puoi pensare di intraprendere un progetto simile senza di loro. 

Queste compilation sono racconti orali in forma sonora, in un certo senso?
Certo. Molte delle narrazioni tradizionali africane sono orali. Queste musiche non hanno delle "storie" ufficiali, stampate e ufficiali, ma hanno un enorme storia orale. Essenzialmente sto producendo un documentario da ascoltare, invece che da guardare.

Non credi che sia più importante che mai sentirsi vicini a culture diversa dalla nostra?
Sai, io sono a tutti gli effetti cresciuto in mezzo a culture diverse, e mi sono sempre reso conto che i due migliori punti d'ingresso per "accedere" a un patrimonio diverso dal tuo sono il cibo e la musica. Sono cose che contengono storia di per sé. Ma una ricetta può essere ricreata; la musica, una volta registrata, resta quella—potrebbe non essercene mai un'altra versione. La musica permette alla gente di accedere a un nuovo paradigma del pensiero. Con questa compilation voglio considerare la musica di Capo Verde un'avanguardia dell'elettronica degli anni Ottanta, il che dovrebbe demolire le aspettative di molti, ma se lo faccio è perché credo che la narrazione Afro-Atlantica sia importante come quella Americana-Atlantica, o quella Euro-Atlantica. Dobbiamo ripensare il modo in cui vediamo la storia.

Synthesise the Soul esce oggi su Ostinato.
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Prova ad ascoltare il nuovo album di Blanck Mass senza andare in estasi

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Non so voi, ma la prima volta che ho sentito Tarot Sport dei Fuck Buttons mi sono sentito più o meno come se i miei timpani fossero stati asportati dalle mie orecchie e inseriti in un hyperloop che li avrebbe portati all'apocalisse. Che voi direte, "Ellamadonna!" E invece credo sinceramente che la post-dance a mille all'ora sia una cosa davvero bella e particolare. Uno di loro due, Benjamin John Power, ha anche un altro progetto che si chiama Blanck Mass, con cui fa sempre elettronica, e ha pubblicato negli ultimi anni una doppietta di album un po' meno trascendentali ma non per questo meno intensi: un autointitolato ai limiti dell'ambient e Dumb Flesh, un disco ossessionato dal corpo e dalla voce come strumento. 

Oggi vi presentiamo in anteprima, geobloccata per l'Italia, il suo nuovo album: si intitola World Eater e uscirà il 3 marzo per Sacred Bones Records. Come potete vedere, in copertina ha le mascelle di un animale—un lupo, un cane—pronte a spalancarsi. "In quanto esseri umani, siamo consci dell'animale che vive in noi e dovremmo essere capaci di controllarlo," dice la descrizione dell'album sul sito dell'etichetta; "Essendo evoluti e intelligenti, dovremmo essere capaci di riconoscere le nostre sbronze genetiche e controllarle per agire positivamente e portare avanti la specie in modo compassionevole."

Bé, sfortunatamente non è così. "La razza umana si sta consumando da sola," si conclude il testo. E World Eater è la colonna sonora di questa autodistruzione a cui, sinceramente, speriamo tutti di sopravvivere. Lo potete ascoltare per intero qua sotto. Ci sono musiche marziali ("The Rat"), visioni distorte e buie degli stilemi dubstep ("Hive Mind"), momenti di pace apparente ("Please")—e un fortissimo senso di tensione latente.

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"Nove Maggio" di Liberato deve essere il futuro del pop italiano

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Quando ci troviamo di fronte a un pezzo pop italiano, ci si stagliano di fronte due principali scenari possibili. Il primo è quello per cui, periodicamente, qualche produttore e/o autore si è reso conto che all'estero qualcuno ha fatto una figata, l'ha importata in un pezzo di successo e poi tutti l'hanno copiata fino a toglierle qualsiasi linfa vitale. Questo processo è detto "copia-incolla EDM a casaccio" e ha mietuto la sua vittima più importante del drop di "Lean On" dei Major Lazer.

Il secondo scenario, invece, si chiama "il rispetto della tradizione". L'Italia è un paese orgoglioso del proprio passato, cribbio, e se la musica leggera si è fatta in un certo modo per cinquant'anni non c'è proprio motivo di cambiare le cose. No? No. Ad aver subito questo pensiero in maniera molto pesante, a mio giudizio, è stato Tiziano Ferro, che se solo avesse continuato con l'R&B sudaticcio del suo primo album Rosso Relativo e a usare la parola "cazzo" sarebbe diventato il Justin Timberlake italiano. Invece, per entrare nel club privato dei Grandi Cantanti Italiani™, è dovuto finire a cantare cose normali, pulite, affettuose—ad esempio, di quanto abbracciare Carmen Consoli lo faccia sentire a suo agio nonostante fuori piova. 

In due parole: chi produce musica potenzialmente popolare, in Italia, segue sempre la via più semplice e meno rischiosa per sfornare nuovi prodotti. O si fa in ritardo rispetto al resto del mondo qualcosa che altri hanno già fatto in versione casereccia, o si fanno i pezzoni concentrati su quanto è bella la voce di chi li canta, e per il resto è la fiera della genericità. Poi ci sono le eccezioni, ci mancherebbe—e qualche giorno fa me ne sono trovato di fronte una clamorosa. Si chiama "Nove Maggio" e la canta un ragazzo di Napoli che si chiama Liberato.

Questo è tutto quello che sappiamo di Liberato. È di Napoli, e canta. Non ci sono in giro sue foto, non è nel video del suo pezzo, quando gli scrivi su Facebook—mi dicono—risponde in napoletano senza rispondere veramente. Ma è uscito su Rolling Stone all'esordio, quindi probabilmente si sa vendere molto bene—e meno male, se stiamo parlando del pezzo R&B più credibile mai uscito dal nostro paese. Ora argomento. 

Innanzitutto: il modo in cui Liberato si è presenta è abilmente curato. Anonimato totale (come il The Weeknd degli inizi, se ricordate), video in super-HD e una saggia rilettura contemporanea dei luoghi comuni che accompagnano la sua città. La Napoli di Liberato, come testimonia il suo Tumblr, è perfettamente conscia delle regole che governano il concetto di aesthetic proprio delle culture di internet; sta esattamente al centro di un triangolo i cui vertici sono decadenza, futuro e ironia. Ci sono fotografie di Maradona e Nino D'Angelo accanto a incisioni francesi del Vesuvio, intervallati da meme sull'erba e la presa male, dipinti d'altri tempi e foto della Madonna. Praticamente una versione partenopea del mio feed di Facebook. 

Fonte: http://liberato1926.tumblr.com...

Tutto questo, chiaramente, cadrebbe se il pezzo non fosse davvero convincente—fortuna vuole che non sia questo il caso. La musica di "Nove Maggio" non è innovativa, certo, ma coglie i fiori migliori del prato dell'R&B internazionale e li pianta nel bosco di Capodimonte. È una base che fa perfettamente quello che deve fare: sorreggere la voce del suo interprete senza invadere i timpani nei momenti o nei modi sbagliati. E quando invece deve prendersi le luci dei riflettori (dal minuto 1:50 del pezzo in poi, nello specifico), non cerca di fare goffamente il botto: ripropone il semplice e ottimo tema con cui aveva cominciato, caricandolo quel poco che basta da non risultare invadente. Insomma, quello che fanno i produttori stellari di scuola canadese, vedi i Majid Jordan (nel loro curriculum: "Hold On We're Going Home" di Drake). 

C'è poi la scelta di cantare in napoletano—tra l'altro nell'esatto momento in cui il rapper partenopeo di maggior successo, Clementino, ha scelto di presentare a Sanremo un pezzo pesantemente "italiano" nel suo essere comprensibile, introspettivo, forzatamente emotivo. "Nove Maggio" racconta, mi sembra, una storia d'amore finita più o meno male. "Mi sembra". Credo che l'enorme forza del dialetto in musica stia in questa zona liminare tra comprensione e immaginazione in cui cala chi lo ascolta e non è nato a sud di Gaeta. È quello stesso brivido che può provare un anglofono quando si mette a decifrare i flow dadaisti di Young Thug. 

Fonte: http://liberato1926.tumblr.com...

"Nove Maggio" è un pezzo invitante. Attrae grazie al mistero che si sa creare attorno: a livello semantico e tematico tramite l'uso della lingua, a livello autoriale nella scelta di celarsi nell'anonimato di un'estetica curata e non di una semplice maschera. Parla di sentimenti, proprio come fa il pop italiano, ma non aderisce al suo vocabolario. Prende invece quello del Drake più emotivo, quello di So Far Gone e Take Care, e lo traduce in napoletano coprendo il suo orgoglio latente con un velo di gelosia. Insomma, si passa dal "Pussy's only pussy and I get it when I need it" di "November 18th" a una frasi come "Ho un cuore che non sa avere pazienza".

Liberato può piacere, potenzialmente, a chiunque. Non è così insulare da sembrare solo un neomelodico particolarmente curato, ed è abbastanza ben prodotto e confezionato da poter risultare immediatamente interessante. "Nove maggio" potrebbe venire tranquillamente passata da Albertino su Radio Deejay, ma se fosse cantata in inglese potrebbe benissimo finire nella playlist di Zane Lowe su Beats 1. È un esempio di come a volte anche noi italiani possiamo riuscire a salire sul treno della contemporaneità arrivando in orario in stazione e sedendoci al nostro posto prenotato, invece di arrivare bestemmiando perché c'era traffico e non abbiamo ancora fatto il biglietto e le macchinette sono rotte e il capostazione non ne sa niente e qualcuno sta cercando di venderci una scatola di un iPhone con dentro un mattone. 

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Breve storia della chitarra distorta

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La scoperta della distorsione per chitarra si può considerare uno degli incidenti più fortunati della storia della musica moderna. Nata da un amplificatore malfunzionante, è finita per dare vita a numerose carriere e interi generi musicali con il suo ruggito. Dalle frequenze scuotibudella del doom all'aggressività del punk rock alla claustrofobia del noise, la chitarra distorta e l'amplificazione sono stati il soffio della vita per parte della musica più importante della nostra storia.

Ma partiamo dall'inizio: l'amplificatore per chitarra ha cominciato a venire prodotto in larga scala nel 1931. L'apparentemente innocuo amplificatore da dieci watt della Electro Spring era una piccola scatoletta di legno contenente un altoparlante che veniva distribuito come accessorio insieme alla Frying Pan, la prima chitarra elettrica messa sul mercato. Nei 16 anni che seguirono, gli amplificatori non andarono mai oltre quei modesti dieci watt. Era la fondazione di ciò che sarebbe successo dopo: la rivoluzione dell'amplificazione per chitarra. 

Poi arrivò Leo Fender con La Cazzo di Bomba: il Super Amp.

Messo sul mercato nel 1947, l'amplificatore Fender arrivava a 18 watt, con un incremento nel volume immediatamente percepibile. I chitarristi di tutto il Paese facevano a gara per accaparrarsi un Super, scoprendo immediatamente che questo dispositivo aveva una qualità inavvertitamente bellissima. Alzando il volume al massimo, andava in sovraccarico (overdrive), restituendo le note suonate con la chitarra coperte da un velo di calda distorsione. Come molti degli avanzamenti tecnologici che hanno cambiato il mondo, la distorsione per chitarra è stata un incidente.

Circa due anni prima, il re del Western swing Junior Barnard aveva progettato un rudimentale pickup humbucker per la sua chitarra, mettendo insieme due pickup per contrastare il fastidioso ronzio della bobina singola (single coil) e produrre un tono più pieno. Barnard suonava con uno stile percussivo e furioso e rompeva spesso le corde. La maggiore potenza in uscita di questo proto-humbucker associata al suo stile violento spingeva l'amplificatore in overdrive. Schiere di musicisti country, Western swing e blues cercavano da anni un suono più sporco, un suono che riflettesse la crudezza della loro musica. Il tono di Barnard divenne vangelo. 

Quando iniziò a girare la voce, nel 1947, che si riuscisse a ottenere un tono simile a quello di Barnard semplicemente mettendo al massimo il Fender Super, ogni chitarrista che non fosse un noiosone totale se ne comprò uno, o cominciò a mettere da parte i soldi. L'overdrive si diffuse in tutto il Paese come un'epidemia particolarmente virale. La Fender si dedicò immediatamente a migliorare ulteriormente il Super, accrescendo la potenza in uscita fino a 50 watt. Le altre aziende che producevano amplificatori la seguirono. L'amplificatore da 50 watt era una mitragliatrice e ha cambiato la musica nello stesso modo in cui quell'arma ha cambiato la guerra. I concorrenti meno tecnologicamente avanzati furono i suoi bersagli. La tecnologia, però, funziona bene quando la usa qualcuno di capace, e l'ampli da 50 watt aveva bisogno di pionieri, musicisti meritevoli che lo facessero splendere.

Sarà il chitarrista Goree Carter a sparare il primo colpo, che verrà sentito in tutto il mondo. Carter aveva la musica nel sangue. Era nato nel quartiere più povero e violento di Houston, il Fifth Ward—anche conosciuto come Bloody Fifth—e aveva iniziato a suonare blues a 12 anni. La sua idea era di mettere in musica la cruda realtà della vita in una città, uno stato, una nazione estremamente razzista. Con un amplificatore da 50 watt, sarebbe stato in grado di proiettare la propria frustrazione, la propria sofferenza e la propria gioia in un modo più puro che mai. Il suo lato preferito dell'amplificatore era il volume: e poi, se lo mandava al massimo, la sua chitarra cominciava a sfrigolare.

Quando formò gli Hepcats, Carter si spaccava la schiena ogni giorno in un mulino da riso, ma divenne immediatamente una delle punte di diamante della ultra-competitiva scena di Houston. L'interpretazione del blues offerta dagli Hepcats era pesantemente influenzato da T-Bone Walker, veloce e aggressiva come la cultura dell'automobile che ossessionava l'America in quel periodo. Nel 1949, Carter e la sua band incisero "Rock Awhile", la prima registrazione conosciuta di una chitarra distorta. La canzone era una mattonata che frantumò le finestre d'America. Con il primo pirulo di chitarra della canzone, Carter spacca il mondo a metà. Il suo stile ritmico ha la precisione di un chirurgo e la furia di un assassino, ogni nota ricoperta da un spesso velo di distorsione. Tutta la band suona benissimo, ma la chitarra di Carter taglia come un raggio di luce in una stanza senza finestre. Fanculo Elvis. Goree Carter sarebbe dovuto essere incoronato vero Re del Rock'n'Roll. 

La distorsione di Carter fu una rivoluzione, ma il fuzz che oggi riconosciamo come distorsione e overdrive comparve più avanti, nel 1951, quando Jackie Brenston and His Delta Cats—pseudonimo dei Kings of Rhythm di Ike Turner—sganciarono sul mondo "Rocket 88". La testata nucleare dei Kings era il chitarrista Willie Kizart. Per quanto la reputazione di Ike Turner abbia messo in ombra quella degli altri membri del gruppo, è il nome di Kizart che dovrebbe essere impresso su un monumento millenario.

Nessuno sa esattamente che cosa sia successo all'ampli di Kizart prima delle registrazioni di "Rocket 88". Può darsi che sia caduto della macchina mentre raggiungevano lo studio, schiantandosi sull'asfalto. Ike Turner racconta che la pioggia sarebbe penetrata nel bagagliaio della macchina, compromettendo i contatti elettrici dell'ampli. Alla fine il come non importa, la cosa fondamentale è il suono prodotto dall'amplificatore danneggiato. Kizart non si rese conto del problema finché non lo accese in studio, e si innamorò immediatamente di quel suono paludoso. "Rocket 88" è un boogie standard suonato più veloce. Il suono di chitarra di Kizart, invece, è una rivoluzione. 

Prima di ascoltare "Rocket 88", prova a immaginarti di non aver mai ascoltato una distorsione o un fuzz. Sei in un bar, è il 1951 nel Sud degli Stati Uniti—Nashville, Kansas City, Houston. Le radio trasmettono solo la musica vocale di Nat King Cole e Tony Bennett. Nelle hit come "Too Young" e "Because of You", la base strumentale è in secondo piano, serve solo da supporto per la voce. Senza rendertene conto, sei stanco di questa roba. Vuoi qualcosa di nuovo. Improvvisamente qualcuno ti infila dei fiocchi di velluto nelle orecchie. Ti avvicini al jukebox, pensando che devono essersi sfondate le casse. Le note di Kizart ti divorano il cervello.

Dieci anni dopo, Grady Martin usò un preamplificatore scadente per creare una forma di distorsione ancora più estrema per la canzone di Marty Robbins "Don't Worry". Se non fosse per questo, sarebbe una canzone country piuttosto inoffensiva, ma la distorsione di Martin apre la Terra come un melone al minuto 1:26, fornendo il primo esempio di distorsione cicciona e scoreggiante che molte band doom e sludge utilizzano ancora oggi.

Cercando di ricreare il suono fangoso di Martin, il mago dell'elettronica Orville Rhodes costruì un rudimentale pedale fuzz per i suoi amici dei Ventures. La ditta di chitarre Gibson fece fruttare l'idea, diffondendo il pedale Fuzz-Tone nel 1962—a cui sono molto debitori i Rolling Stones per il successo di "(I Can't Get No) Satisfaction". Nel 1964, un anno prima che la chitarra di Keith Richards mandasse tutto il Paese in visibilio, Dave Davies dei Kinks praticò dei tagli nel cono del suo amplificatore con una lametta da barba per ottenere un suono più aggressivo. Il risultato si può sentire nella distorsione da KO di "You Really Got Me". Ascoltarla al momento della sua uscita dev'essere stata un'esperienza simile a sentire i Black Sabbath inventare l'heavy metal sei anni più tardi. 

Gli anni Sessanta e Settanta divennero una corsa agli armamenti tra produttori di amplificatori e di pedali, aprendo nuovi mondi ai musicisti. Il geniale Jimi Hendrix rese fuzz e riverbero parti integranti dei suoi caotici concerti dal vivo, usando queste tecnologie come veri e propri strumenti. I Deep Purple poi trascinarono il suono nel regno delle vere e proprie armi nel 1972, mandando al tappeto tre persone con 117 decibel di furia classic rock al Rainbow Theatre di Londra. Tre anni dopo, la Guinness inventò la categoria del "gruppo rock più potente del mondo", incoronando i Deep Purple come primi re del rumore. 

I Motörhead si lanciarono immediatamente sull'idea di attaccare il proprio pubblico con il suono (Lemmy stesso si è sempre considerato il generale dell'heavy metal). I Motörhead sono state una delle prime band a usare una distorsione pesante per il basso, raggiungendo i 130 decibel con il loro arsenale di amplificatori e casse nel 1984 a Cleveland. Una sirena da attacco aereo, il cui suono sta appena sopra la soglia del dolore per la potenza del suono, supera appena i 120.

Il volume punitivo dei Motörhead fece venire giù pezzi d'intonaco dal soffitto del Variety Theatre di Cleveland. Provate a immaginare che cosa abbia fatto ai timpani dei fan. Questa volgare dimostrazione di amplificazione, in ogni caso, ebbe l'unico effetto di far amare ancora di più questa band. I fan andavano ai concerti dei Motörhead aspettandosi di venire asfaltati dal suono. 

Ai concerti dei My Bloody Valentine tra gli anni Ottanta e Novanta, Belinda Butcher, Kevin Shields e Debbie Googe trasformavano regolarmente il feedback che conclude "You Made Me Realize" in 15 minuti di tortura noise. Come scrisse Tom Ewing: "Quasi tutti [ai concerti dei My Bloody Valentine] sperano e si aspettano di uscirne doloranti". I My Bloody Valentine fanno contemporaneamente male e bene al loro pubblico, usando l'amplificazione per fotografare il violento dualismo che sta alla base dell'amore. 

I padrini dell'elettronica Leftfield raggiunsero i 137 db alla Brixton Academy nel 1996, conquistando il nuovo record mondiale di volume—l'unico gruppo house/dance nella categoria. Il duo inglese investì il pubblico con ritmi pulsanti e un'atmosfera di suoni acuti e stratificati. Come il famoso concerto di Cleveland dei Motörhead, l'intensità del suono dei Leftfield alla Brixton fece cadere polvere e detriti dal soffitto. Con i Leftfield non c'era bisogno dell'ecstasy—la botta del volume era più che sufficiente.

Da allora, i musicisti hanno continuato a spingere distorsione e amplificazione fino ai limiti più estremi—per orchestrazione e per intensità. Tanto per i consumatori quanto per i produttori di musica estremamente potente, non basta più ascoltare la musica. Dobbiamo sentirla nelle ossa. Il compositore di musica elettronica contemporaneo Tim Hecker, prendendo le mosse dal lavoro di distruttori noise come Whitehouse, SPK e Merzbow, descrive il suo processo di scrittura in un'intervista con Resident Advisor come "esperienze molto brutali, sanguinolente, spaccaossa". 

Con una stanza delle torture fatta di amplificatori e casse, il suo obiettivo è che l'esperienza sia altrettanto sofferente per l'ascoltatore. Portando un'amplificazione da far vibrare gli organi interni nel mondo dell'hip-hop, Dälek annega il pubblico in beat vorticosi, barre socialmente impegnate e ondate oppressive di suoni sintetici. Il trio del New Jersey ha suonato a fianco di pesi massimi come Godflesh e Isis; hanno appena pubblicato un album su Profund Lore con cui hanno messo in chiaro ai metallari che l'hip-hop può essere altrettanto devastante di ogni altro genere. 

Le leggende del drone Sunn O))) hanno portato l'amplificazione e la distorsione alla sua logica conclusione, polverizzando il pubblico (oltre che loro stessi) con coperte di piombo di distorsione per gli ultimi 19 anni. Attraverso un drone ininterrotto di frequenze ultrabasse, il chitarrista Stephen O'Malley e il bassista Greg Anderson mandano i cervelli degli ascoltatori in una trance rettiliana. Ogni disco della band è fantastico, ma ascoltare i Sunn O))) a casa è molto diverso che vederli dal vivo. Dopo un concerto dei Sunn O))) nel 2010, ho visto con i miei occhi una fan vomitare a fontana sul marciapiede davanti al Blue Bird Theatre di Denver. La pressione costante data dalla potenza del suono l'aveva fatta stare male. 

Gazelle Amber Valentine, chitarrista e cantante dei Jucifer, usa 30 casse per formare quello che lei chiama "Thee White Wall Ov Death" ed è così da quando la band si è formata 24 anni fa. Lei e suo marito, il batterista Edgar Livengood, sono la trasposizione fisica dell'energia cinetica prodotta dal misto di dolore e piacere che spinge musicisti e ascoltatori a cercare un volume sempre più alto. I gestori dei locali si lamentano regolarmente della potenza dei Jucifer (raggiungono regolarmente i 140 db) ma i fan certamente no. Rispondendo a queste lamentele in un'intervista con WV Rockscene, Valentine dice: "Siamo i Jucifer. Non possiamo fisicamente suonare piano... dobbiamo percepirla, non solo sentirla, questa massa di suono. E io voglio darle forma, cavalcare il feedback".

Nei primi anni del duo di sludge misantropico The Body, il chitarrista e cantante Chip King spesso cantava senza microfono, pur usando un muro di casse che raggiunge un volume paragonabile a quello dei Jucifer. Da sotto questa cortina di distorsione, le sue urla quasi letteralmente a squarciagola davano la sensazione che stesse venendo soffocato dalla sua stessa strumentazione. Mentre una tecnologia che molti di noi non capiscono entra nella nostra esistenza in modo sempre più invasivo, artisti come i The Body continueranno a esplorare l'amplificazione e la distorsione come mezzo per rappresentare quel rapporto. 

L'amplificazione estrema rappresenta l'impotenza umana di fronte alla tecnologia, ma dipinge anche un modo per reagire. Per l'infelicità dei nostri timpani, amplificatori, casse e tecniche di distorsione non faranno che progredire mentre i musicisti cercheranno nuovi modi per raggiungere un volume estremo. In un momento di tale incertezza sociale e politica, una cosa è certa: il futuro della musica sarà devastante. 

J. J. Anselmi is riding the feedback on Twitter.
Cover photo credit: Total Guitar Magazine / Getty Images

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