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Giusto Pio Attraverso i Cieli

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Ti fa paura la morte?
«No. Mi farebbe paura solo una morte violenta e prego di morire senza dolori. So che dobbiamo passare per la morte e cerco di mettermi in condizione per affrontarla.» 
(Giusto Pio a GDM, 2012)

Arrivarci, a novantun anni, con questa testa: me lo sono detto domenica scorsa, leggendo la notizia che "Sua Eminenza Grigia" Giusto Pio se n'è andato per inseguire quell'"auto-motion" del cosmo che aveva descritto da una vita con le sue opere, spaziando in ogni luogo musicale e da nessuna parte, come solo i veri saggi e i veri sciamani sanno fare. 

Nella remota possibilità che voi non sappiate chi è, Italian Folgorati decide di onorare la memoria del Maestro con uno speciale ricordo: perché nessuno come lui è riuscito a fondere e incarnare perfettamente il trittico (forse non casualmente titolo di un suo lavoro) classico/moderno/contemporaneo senza che l'operazione risultasse forzata o stridente. Semplicemente le sue intuizioni musicali fluivano con la semplicità e nel contempo il rigore dell'acqua che scorre in un fiume, dimostrando che la musica non ha confini e non ci sono conflitti che tengano. 

Giusto Pio è ricordato principalmente per la collaborazione con Battiato, col quale ha coarrangiato e scritto molti degli indiscutibili capolavori pop del cantautore siciliano, in cui il fatato violino di Giusto s'impennava passando da virtuosismi classici stracolmi di melodia ("L'era del cinghiale bianco", "Passaggi a livello") ad anche e soprattutto ostinati momenti punk di archi wave che facevano impallidire gli Ultravox (su tutti, "Le aquile") e guizzi di puro minimalismo alla Philip Glass: ma Pio, ovviamente, non era solo questo.

Soprattutto, la collaborazione con Battiato non era unilaterale, anzi: spesso era Battiato che collaborava con lui, in un continuo scambio di favori tra allievo e maestro. Sì perché Battiato prendeva lezioni di violino da Pio nei Settanta, colpito dalle capacità magiche dell'allora virtuoso nell'orchestra della Rai, quando prestava i suoi servigi nei programmi di varietà e intrattenimento. All'inizio Pio non ne voleva sapere di dare lezioni a chicchessia, ma convinto dal grande pianista Antonio Ballista si decise a prendere sotto le sue ali il pulcino Battiato, il quale a sua volta tenne il maestro sotto la sua protezione spingendolo a calcare i palcoscenici pop, nel tentativo di abbattere le vetuste frontiere fra classico e leggero. 

Le solide basi accademiche di Pio fanno in modo che Battiato passi dalla teoria ai fatti, con la prima collaborazione effettiva fra i due, ovvero il disco Juke Box, proprio di Franco. Inizialmente pensato per la colonna sonora di un film su Brunelleschi di Barbati/Cacciaguerra, fu poi rifiutato in blocco perché giudicato non idoneo alla pellicola. La delusione non porterà i due, oramai inseparabili amici, a perdersi d'animo: ma anzi cementerà l'idea di sperimentare la fusione fra avanguardia e pop, che passerà per il mastodontico disco Motore Immobile del 1978, prodotto e "sussurrato vocalmente" dallo stesso Battiato. È in assoluto la prima opera solista ufficiale del violinista veneto e paradossalmente è la sua parte più dronante e incompromissoria, ma naturalmente imbevuta d'intensa e pacata spiritualità e di esoterismo a tinte sinusoidali (sia Franco che Giusto erano rimasti stregati da Gurdjieff e compagnia bella).

Immediatamente riconosciuto come capolavoro, il disco, uscito per la Cramps, è ancora oggi un punto di riferimento per un certo modo di intendere il minimalismo sperimentale (vedi Tommaso Battistelli e affini), quell'"harsh melodico" che non ci si aspetterebbe da un serio signore vestito con eleganza sobrissima da vero professore d'orchestra vecchio stampo, che da giovane ha vissuto le difficoltà della guerra e, per sfuggire a una sicura impiccagione da parte dei nazisti, fu costretto a nascondersi nelle fronde dei campi suonando il suo fedele violino, unica arma di difesa a sua disposizione. 

La melodia per difendersi dalle insidiose adulazioni della società dei consumi, che spinge all'appiattimento delle emozioni: sempre presente anche nelle espressioni più dissonanti del nostro, sarà la chiave di volta per il Battiato-sound degli Ottanta. Parallelamente alle ricerche d'avanguardia i due sperimenteranno sul pop in vari modi: prima di tutto da soli col progetto Astra, A.D. 1979, in cui appunto c'è il seme acerbo di tutto quello che verrà poi, del pop "dell'inconscio collettivo", quasi mantrico. In copertina il figlio di Giusto Pio, nei credits assoluto riserbo almeno per il nome di Battiato, che qui appare con il nomigolo Kui. Il brano tornerà anni dopo in più vesti, affidato a due delle interpreti femminili più famose in ambito leggero: prima dalla Spaak con "Canterò se canterai" per poi raggiungere la sua veste definitiva con "Una storia inventata", contenuta nello splendido disco di Milva Svegliando l'amante che dorme.

Sì perché, in secondo luogo, la sperimentazione dei due ha come cavie numerosi interpreti, per la maggior parte femminili: oltre a Milva, Alice (di cui si ricordiamo la celeberrima "Per Elisa", nella cui composizione Pio ha un peso specifico non indifferente, ma soprattutto "Il vento caldo dell'estate", autentico gioiello senza tempo il cui arrangiamento col ritornello privo di sezione ritmica fece strabuzzare gli occhi ai producer tedeschi), ricordiamo Giuni Russo periodo "combat", Ombretta Colli periodo "Cocco fresco", passando per gran parte di quelli che si trovavano nella "Battiato factory". Ma prima ancora, fra il '77 e il '78, i due si fanno le ossa arrangiando i brani del Gaber di Polli d'allevamento e soprattutto diventano insostituibili factotum al servizio del cantautore omosessuale militante Alfredo Cohen, per il quale (oltre a occuparsi, ovviamente, degli arrangiamenti di "Come barchette dentro al tram") scriveranno due dei più bei brani italiani di sempre, ovvero "Roma" e "Valery", quella che poi diverrà "Alexander Platz" nelle corde vocali della solita Milva. 

Giusto Pio, una volta esplosa l'inaspettata bomba chiamata "La voce del padrone", nell'82 si preparerà con l'inseparabile socio alla sua seconda prova solista, questa volta abbandonando i droni per un assetto che in qualche modo è proto new age. Legione Straniera infatti, spinge le formule pop in territori molto diversi da quelli di Franco, mantenendo solo quella diafanità di suono già presente in Motore Immobile. Una leggerezza estrema fusa incredibilmente bene alla spinta propulsiva della solita rodata macchina wave della Battiato factory, in cui la maggior parte degli strumentali porta l'ascoltatore dall'Occidente all'Oriente, mischiando Bach con la Thailandia (in "Giardino segreto"), il kitsch con il sublime, anticipando anche le commistioni weird della world music che verranno e gli esotismi plastificati, fra la cartolina e l'idealizzato, di questi ultimi scampoli elettronici di Duemila.

Il disco vende bene, tanto che Giusto Pio bissa l'anno dopo con l'album Restoration, un passo in avanti nel discorso pop che senza dubbio influenzerà il Battiato a pattern de L'Ombrello e la Macchina da Cucire, dove il ritmo acquista giri e i suoni acustici si fanno totalmente artificiali. Come giustamente notato da alcuni, Giusto Pio usa un citazionismo musicale molto simile a quello letterario di Battiato, sostituendo a voce e testi il linguaggio del suo violino. Vero è che anche qui Battiato fa capolino con la sua ugola e co-firma i brani, ma il disco brilla tutto dello spirito eclettico di Pio, il quale si diverte a strapazzare Fairlight e affini per il puro piacere di farlo. Il risultato è il disco pop più duro e più gagliardo del lotto. Forse proprio per l'approccio ludico (basti ascoltare la frenesia di "Gente al lavoro" o la warpizzante "Radio taxi" o i tempi dispari e spiazzanti di "Passato e presente" e la batteria elettronica quasi Alan Vega style di "Rodolfo Valentino"), sicuramente si tratta del suo Orizzonti perduti.

D'altronde nel 1984 il nostro Giusto guarderà anche lui dentro un cannocchiale puntato verso il cosmo, pubblicando un singolo chiamato (come da intro) "Auto–motion", una bestiale e malinconica cavalcata synth pop a orologeria, con stacchi apocalittici e testi ancora più minacciosi di un Battiato che si presta a cantare l'implosione dell'intero pianeta Terra (forse profetico? Ai sopravvissuti l'ardua sentenza).

Dopo questa esperienza Giusto Pio si prende una pausa dal pop, per tornare in carreggiata nel 1987 con Note. Un disco che alleggerisce di molto la precedente esperienza, entrando in campi più marcatamente new age, genere allora definito e in auge, ma con batterie elettroniche che fanno pensare all'album come al suo Canzoni Preghiere Danze. L'opera pop più digitale di Giusto Pio a volte esplode in momenti melodici di pura PC music, assemblata, cotta e mangiata, come se i suoni fossero prodotti dai synth interni alla scheda audio di un computer: a volte invece incontra le arie del pop cinese infarcendole di sequencer sognanti, a volte sembra trasfigurare in zone molto più alte il concetto che fu dei Rondò Veneziano di unire la musica barocca al pop. 

In ogni caso, anche questo esperimento risulta oggi come oggi attualissimo, una new age neoclassico/accelerazionista in cui tutto è artificialissimo, come arredamenti di una casa aristocratica del 3440 o come una sonorizzazione per ristoranti coreani in ambienti asettici di Marte (vedi il clamoroso brano "Porcellana"). In questo disco sparisce la mano di Battiato, lasciando Pio forse al suo primo disco "di massa" in cui deve vedersela con se stesso: e in effetti Note non avrà grande riscontro, dimostrando che anche il pop easy listening può essere un'esperienza stravolgente. Se ascoltiamo "Capitano Nemo", ad esempio, siamo catapultati in un futuro alla Blade Runner che clamorosamente sembra già passato, rivoltando le coordinate spazio temporali in maniera tanto repentina che può essere paragonata alla sensazione di un bad trip da oppio, all'inizio piacevole, ma poi la testa esplode (altro che hauntology).

Battiato ritorna nel disco successivo, Alla Corte di Nefertiti, ma solo perché a pubblicarlo è L'Ottava, l'etichetta discografica personale di Franco. Alla corte... riprende le suggestioni di Motore Immobile attualizzandole: riecco i test-tone impreziositi da sintetizzatori volanti e arpeggiatori spaziali, con una visione d'insieme fra armonia e illusionismo che non ti aspetti da un uomo che già all'epoca de L'Era del Cinghiale Bianco non era più un giovanotto. Qui sembra di sentire un ragazzino che smanetta con le tastiere digitali di ultima generazione, cavandone un universo tale che a un certo punto rischi di sentire Egyptrixx dopo bordate di mallets e programmazioni ritmiche stile marcetta a settantaduesimi o giù di li. 

Nato per commentare la mostra di scultura "Molte bianche ali sospese sì gli aquiloni!", il lavoro rende anche da solo proprio per l'eccezionale capacità di evocare un volo verso azzurrità lontanissime e sconosciute. Sicuramente uno dei migliori lavori di Giusto, ma il meglio deve ancora arrivare. 

Appunto, nel 1990 esce Attraverso i Cieli. Un disco micidiale, in cui Giusto Pio anticipa quasi Fatima al Qaadiri e compagnia bella, ma superando tutti in freschezza. Forse il suo capolavoro dei Novanta, Attraverso i Cieli è un turbinio di armonie veramente celestiali, pozze di macchinari sintetici che avvolgono l'ascoltatore in una spirale di goduria e voci artificiali che materializzano un'atmosfera ronzante di UFO argentati che sfrecciano nell'aere. Un paradiso di purezza digitale portato all'estremo, come se al posto dei synth passasse le dita inumidite su bicchieri di cristallo: anche il caos delle percussioni finali mischiato a cori artefatti è delicatissimo, armonico, necessario, proiettato nel futuro dei nativi digitali.

Alle distopie il nostro eroe preferisce le Utopie, disco uscito nello stesso anno come una versione ampliata di Attraverso i Cieli: ecco spiegato come nella musica di Giusto Pio ci sia spazio anche per una cosa come la "Missa Populi", scritta per Giovanni Paolo II, il cui titolo dice però già tutto sull'effettiva operazione in cui Dio, di base, è la sostanza dell'anima dell'uomo (ovviamente cristallina, sequenziata e digitale). Dirà lo stesso Pio dell'esperienza/concerto in Vaticano con Battiato: "Guarda, non è che qui abbia avuto più soddisfazione di quando andavo a suonare con un'orchestrina in una sorta di balera a Montebelluna. Ricordo che fuori dalla stazione c'era un vecchio magazzino con le porte di ferro punteggiate di buchi fatti dalle schegge delle bombe. Non c'era riscaldamento, ed era la gente che ballando riscaldava il posto".

Insomma, un uomo in cui convivono la concretezza della terra e una tensione spirituale che passa attraverso una sorta di "animismo musicale", dal quale il creatore di tutte le cose, se proprio deve esserci, viene dal suono del vivere ogni giorno come fosse l'ultimo.

Ed è proprio in una delle sue ultime creazioni che l'umanità di Giusto Pio viene alla luce in tutta la sua grandezza. Ci lascia, infatti, tra le tante opere compiute o meno, due brani: "Clandestino" e "Centro d'accoglienza", dove musica il dramma attualissimo di tanti uomini e donne in cerca di libertà, libertà negate da un mondo che non riconosce più il sacro dell'esistenza e tiene troppo il naso a nord, per citare Enzo Avitabile. Scrosci di rumore bianco tra armonie soavi, è l'uomo che combatte la violenza del mare intesa come rifiuto del prossimo e trappola di morte, quella che tutto porta con sé senza ritegno.

A fronte di ciò, Giusto, ormai ottantasettenne, rivela in un'intervista a GDM del 2012: "In una mia composizione, dove la vita finisce, c'è un fascio di suoni che è come una luce, e va lungo lungo, dura più di un minuto, due tre note assieme che si perdono nell'infinito. In fondo non ci ho mai ragionato molto su questi temi. Cerco di vivere e sono in attesa, sapendo che c'è un percorso da fare e adesso che ho 87 anni, so che non andrà più in salita, ma in discesa. Sento che succederà qualcosa, ma non mi struggo a pensare che cosa". 

Maestro, ora sappiamo che attraverso i cieli c'è una luce che brilla e ci guida: quella del suo violino che sempre ci farà vibrare l'anima. Celestial tibet per capitani coraggiosi.

I Gloria Mundi , una delle meno note collaborazioni di Giusto Pio : un supergruppo con Micheal Righeira e Carlo Corradini, autore per Mango e Scialpi: quando il pane era polenta.

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Che cosa vuol dire il testo di "Occidentali's Karma"?

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Da circa due giorni le nostre serate sono incredibilmente vuote, il nostro feed di Twitter decisamente meno monotono e l'hashtag sponsorizzato fino al midollo è quasi, definitivamente, debellato. Il motivo è molto semplice: Sanremo è finito, Francesco Gabbani ha vinto.

Francesco Gabbani è l'eroe che ha creato una di quelle canzoni che mia madre chiamerebbe "hit estive" a febbraio e ci ha vinto un Festival di Sanremo, 365 giorni dopo aver vinto Sanremo Giovani.

Sì, "Occidentali's Karma" ha vinto Sanremo poco più di 48 ore fa, il video macina qualcosa come un milione e mezzo di views al giorno da quando è finito il Festival, ma soprattutto ha vinto il mio cuore, le mie orecchie e la mia voce e da qualcosa come tre giorni non canto altro, la gente intorno a me non canta altro, la radio che non prende non emette altro suono. Gabbani, poi, oltre ad avere un cazzo di 25 centimetri, ha una storia incredibile legata a Sanremo Giovani dello scorso anno, in cui venne eliminato, per poi venire ripescato in seguito a un errore tecnico e, come già detto, vincere con un altro testo profondamente spirituale: "Amen". 

È proprio il testo la chiave del successo di "Occidentali's Karma", il più grande product placement del Crodino mai effettuato. Persino il cardinal Ravasi, sempre attento agli ultimi trend, ha deciso di twittare il primo verso della canzone vincitrice, unendo la spiritualità cristiana con quella del Nirvana. Visto che la mia timeline e il mio cervello sono letteralmente INVASI da citazioni di Gabbani e discussioni e analisi sulla già ampiamente citata canzone, ho pensato di contribuire anche io al mare magnum di intellettualizzazione di una canzone così alta, prendendo qualche passaggio fondamentale del brano e commentandolo, sperando serva come antidoto a ciò che cantava Iyaz ai tempi di "Replay".

Essere o dover essere
Il dubbio amletico
Contemporaneo come l'uomo del neolitico

La canzone inizia subito in medias res, partendo con una citazione molto alta e una sferzante frecciatina all'uomo di oggi. Si parte con Shakespeare, così che il buon Gabbani possa dimostrare subito agli altri concorrenti chi lo ha più lungo (giuro, ultima battuta sulle dimensioni del nostro). Così, mentre Al Bano & co. sono ancora lì a pensare all'amore lui arriva, rivisita Shakespeare e deride chi si affanna ad essere sul pezzo, un'usanza "contemporanea come l'uomo del neolitico". BAM!

Nella tua gabbia 2x3 mettiti comodo

Questa la metto per due motivi:

  •  Caro Frank, mi permetto di chiamarti così, avessi scritto 3x3 avresti aggiunto un ulteriore significato a gabbia, che poteva essere anche il quadrato di Instagram. Sai, l'apparire, il consenso altrui e tutte quelle cose da povero occidentale? Peccato, potevi pensarci!
  • Volevo salutare Tiziano Ferro che cantava "ho passato tanti anni in una gabbia d'oro, sì forse bellissimo, ma sempre in gabbia ero", un'espressione che uccide ogni traccia di machismo dentro me, mi fa piangere. Per questo parlare di gabbie mi fa sempre pensare a lui.

Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi

Vedi? Parli anche di selfie, prima di "internettologi", continuo a pensare che 3x3 fosse più appropriato.

AAA cercasi (cerca sì)
Storie dal gran finale
Sperasi (spera sì)
Comunque vada panta rei
And singing in the rain

Il bridge è probabilmente la mia parte preferita, perché c'è tutto ciò che Gabbani vuole far arrivare al cuore della gente. C'è l'AAA che indica che tutto è in vendita, una critica al capitalismo, vero male dell'occidente. Poi c'è "cercasi" che lui pronuncia tipo "cercashi", che ricorda il "vendesi" dei cartelli, che richiama un po' la provincia. La storia dal gran finale la sappiamo già, è la sua, ma mi ero ripromesso di non parlare più di misure e 25 centimetri, nonostante la storia sia fantastica.

Il vero pezzo clou, però, è il respiro internazionale che la canzone assume in soli due versi: modernità, storia, liceo classico, saggezza, ma anche spensieratezza, noncuranza. Solo uno stronzo in un film di Muccino canterebbe sotto la pioggia, solo uno stronzo che guarda un film di Muccino si tatuerebbe panta rei. Tutto torna. Poi credo sia il primo al mondo a far rimare inglese e greco antico in una canzone italiana, non credo questo abbia bisogno davvero di essere messo in discussione.

Lezioni di Nirvana
C'è il Buddha in fila indiana

Come cazzo fa UN Buddha a fare una fila indiana? Probabilmente in mezzo dovrebbe esserci una virgola, in "fila indiana" potrebbe essere un ordine, del tipo stronzi, mettetevi in fila indiana al cospetto del sommo Buddha, ma onestamente: che cazzo ce ne frega, inizia il balletto

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ヘ(^_^ヘ)

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ƪ(˘⌣˘)┐ ƪ(˘⌣˘)ʃ ┌(˘⌣˘)ʃ

Per tutti un'ora d'aria, di gloria

Dalla prigione della vita, s'intende. (Ehi, un po' di Andy Warhol qui?!)

La scimmia nuda balla

Da "Essere o dover essere" alla citazione di Eraclito passano 14 versi, esattamente il doppio di quanto non ne passino tra "panta rei" e questo inserimento a cazzo di cane di Morris e del titolo della sua opera principale, segno della smania del nostro Gabba di farci vedere quanto cazzo ne sa. Purtroppo manca Charles Bukowski all'appello, ma è bellissimo come per far capire appieno la comprensione del testo di Morris il nostro faccia entrare un Gorilla — (s)fortunatamente non nudo — che balla.

Piovono gocce di Chanel
Su corpi asettici
Mettiti in salvo dall'odore dei tuoi simili

Marylin Monroe, simbolo della donna occidentale, diceva quella cazzata sul dormire con x gocce di Chanel n°5, quindi è incredibile come con quattro parole Frank ci riconduca a quell'immaginario. Bravo Frank. Poi riprendere tutto con la parola "odore", perché non dobbiamo mai dimenticarci che siamo animali, alla fine. Grazie Frank.

Ok, poi da qua in poi è tutta uguale, tutta perfettamente uguale, fino al culmine assoluto.

La scimmia si rialza
Namasté... Alé

Sanremo è il festival della canzone nazionalpopolare. E cosa cazzo c'è di più squisitamente pop che un "Alè"? Un bell'alè urlato, come allo stadio, che ti pervade, alè, è solo un verso puoi infilarlo ovunque, alè, che sta bene, alè, e poi ti rimane, alè, perché lo dice il coro, alé, non Gabbani, quindi ha un'atmosfera diversa, alé, è il momento che attendo con più ansia, per poter liberamente urlare: alè. ALÈ.

Tommaso sta rompendo il cazzo a tutta la redazione con "Occidentali's Karma". Fate qualcosa per fermarlo su Twitter: @TommiNacca.

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I 10 congiuntivi più sbagliati della canzone italiana

La polizia ha sfondato la porta di casa di Stormzy

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Tutti abbiamo avuto, nella nostra carriera di esseri umani, a che fare con le autorità. Personalmente, la cosa che più mi ha fatto cacare in mano nella mia vita è stata quando una mattina, dopo una festa particolarmente carica, ricevetti una chiamata che mi informava che i vicini avevano sporto denuncia per rumori molesti e che una volante sarebbe arrivata presto a casa mia. Ovviamente erano i miei amici che facevano gli stronzi, e io babbo a crederci. Da allora, tutto tranquillo—se non per qualche segnalazione a caso, o quella grandissima sfangata una volta che avevo con me delle sostanze legalissime mentre ero in macchina con un rapper che stavo intervistando e la finanza ci ha quasi fermati (pensate che gag). 

Ma io sono un maschio bianco, e quindi il mio rapporto con la polizia è relativamente semplice. La stessa cosa, nonostante in teoria viviamo in uno stadio avanzato della civiltà, non vale per grandissima parte della popolazione mondiale—il che è una cosa piuttosto brutta. E Stormzy, che ha da poco pubblicato una bombetta di singolo di ritorno e sta per pubblicare il suo album d'esordio, lo ha sfortunatamente dimostrato con il tweet qua sotto. 

In pratica, Stormzy si è svegliato stamattina al suono dei poliziotti che gli sfondavano la porta di casa. Perché? Perché credevano che fosse un ladro che stesse rubando in quella casa. Che è casa sua. Questo non ci insegna molto, se non che i pregiudizi sono una cosa molto brutta e che magari, insomma, informiamoci un attimo prima di sfondare porte di persone a caso solo per il colore della loro pelle. 

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Talking Politics with SLAYER at Comic Con

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Welcome to our new heavy metal series Noisey Shreds, where our resident metal head Kim Kelly will be traveling the globe to interview and hang out with some of our favorite bands. For our first episode we’re heading to San Diego, California to hang out with the almighty gods of Thrash themselves, Slayer. We’re gonna catch up with them at Comic Con, where they’re debuting a new comic book through Dark Horse comics, and also playing a special one off show at the House of Blues, a venue much smaller than they are used to playing these days.

Ho recensito i video rap sponsorizzati che mi sono apparsi su Facebook

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Ogni giorno, l'algoritmo di Facebook ci mette di fronte agli occhi tutto quello che ci piace cercando di vendercelo. Per esempio: in questo momento il mio Facebook vuole proprio che io ordini del cibo a domicilio, vendermi delle Adidas e—soprattutto—farmi ascoltare del rap italiano. Perché ragazzi, non so se ve ne siete accorti, ma nel 2017 il modo migliore per sfondare senza sbattersi troppo è dare dei soldi a Zuckerberg per far apparire i propri video (che sono sempre UFFICIALI, mica farlocchi) sulle timeline di quello che credete sia il vostro pubblico perfetto.

Ma perché dovrei continuare, imperterrito, a ignorare gli sforzi di questi ragazzi eliminando i loro post sponsorizzati dal mio campo visivo con l'AdBlock che ho nel cervello? D'altro canto il mio lavoro, in teoria, è recensire le cose che mi arrivano, in qualsiasi modo mi arrivino. E allora ho deciso di guardarli davvero, questi video, mangiando nel frattempo dei succulenti udon con gamberi e verdure arrivati alla mia porta in trenta minuti e con i piedi fasciati da un paio di nuove, comodissime Adidas Originals. E questo è quello che è successo. 

DISCLAIMER: Gente, non offendetevi, si fa per ridere. E c'è il pippone costruttivo™ in fondo!)

LORTEX - INSIEME (Video Ufficiale)

Non so quanti anni abbia Lortex, ma sicuramente io alla sua età non avevo budget né per fare un video del genere né per sponsorizzare il suddetto su Facebook. Al massimo, mi facevo dei video in cui appoggiavo il cellulare a un libro e mi riprendevo mentre facevo brutte cover di chitarra degli As Blood Runs Black (true story). Detto questo: "Insieme" ha nei commenti della gente che effettivamente supporta il buon Lortex, dicendo a chi rompe i coglioni di non romperli e che "quando questo ragazzo avrà 20 anni, con tutti questi singoli di alta qualità di sicuro il successo arriverà in maniera naturale e non come altri cantanti con pubblicità e visual falsi."

Dato che mi è capitato sott'occhio con un post sponsorizzato il discorso scricchiola un attimo, ma tant'è. Non è la fine del mondo, diciamo che "Insieme" è una sorta di pezzo di Benji & Fede con l'autotune perfetto per far prendere bene le ragazzine dell'età di Lortex. Se fossi un discografico farei firmare ai suoi genitori un documento in cui cedono all'etichetta la loro potestà genitoriale e lo renderei una sorta di Terminator del pop-rap scontato. 

MASA - TELEPASS (PROD. AFTEROUGE) OFFICIAL VIDEO

Oh, Charlie non ne sbaglia una!

ALBE OK - LA TRISTEZZA E LA BELLEZZA - prod. PrezBeat

Sono megadeluso, Albe Ok. Dagli accordi con cui inizia il tuo pezzo mi aspettavo un ennesimo ma comunque onestissimo rifacimento di quel pezzo di cristo che è "Forever Young" degli Alphaville, che nella sua versione a cura di Jay Z è tipo la canzone perfetta per ricordarsi che la vita è una figata clamorosa anche quando il tuo lavoro ti richiede di fare attività simpatiche come tagliare con le forbici quaranta carte idiote e pinzarle e giocarci, per dire, o ascoltare musica un sacco di musica brutta e scriverci un articolo.  E invece no, ci sei solo tu che cerchi di rimorchiare. Non è affatto ok questa cosa, Albe.

PS: Sento certi echi di Dargen D'amico in un paio di frasi di 'sto pezzo, tipo quella del mangiarsi le mani, ma molto probabilmente è solo frutto del caso e della mia tendenza malata a trovare un senso alle cose terribili. 

PS2: Uno shoutout alla pizzera Il Vero OK, l'unica entità degna di avere "OK" alla fine del suo nome. 

ACE & BUBU - VENI VIDI VICI (OFFICIAL VIDEO)

Fortunatamente le somiglianze tra Ghali e Bubu, il tizio che canta per primo, si fermano ai capelli, allo stile, al vocabolario, al flow e alle mossettine. Sennò avrei potuto credere di essere di fronte alla copia incapace di un rapper piuttosto bravo. 

Ah, e poi: non ho certo niente contro il rap con la erre moscia, ma l'asticella ormai è stata alzata così tanto da quel drago sputafuoco di Ted Bee che non sarà certo il primo tizio con un drone, un cappellino e barre del calibro di "sento che parli di droga / e mi chiedo se è vero qualcosa" a cambiare la situazione. 

COLE - BACI AMARI prod.FAZER (OFFICIAL VIDEO)

E qua siamo di fronte a una copia carpiata con avvitamento che parte da "No Champagne" e arriva al furto del nome di Cole, quello un attimo famoso, quello del Truceklan e di In the Panchine. Che, se ci pensate, è una strategia anche sensata: non dicono che il miglior modo per non farsi sgamare è fare tutto alla luce del sole? Che gliene frega a Cole-Copia, se esiste il Cole vero. Lui intanto si fa un po' di visualizzazioni a gratis, e poi si tappa le orecchie e fa LALALALALA quando la gente gli fa notare la cosa. Ho come il presentimento che questo sia l'inizio di una fulgida carriera nel mondo del rap. 

NC247 - La mia testa è un coffee shop (official video)

Questo video dimostra che "Welcome to Baggio" di Entics è la canzone più importante e influente della storia del rap italiano. 

Creep Giuliano - 100 Passi

Creep Giuliano (LOL) comunque guadagna qualche piccolo punticino perché la sua "100 Passi" non è un riferimento a Peppino Impastato, né contiene alcun elemento sonoro/tematico aderente al campo semantico "Modena City Ramblers". Detto questo, un po' mi dispiace per Giuliano nostro, che attualmente, nonostante i soldi investiti, ha fatto 533 visualizzazioni su questo video e 950 fan su Facebook. A quanto pare a nessuno frega niente del fatto che lui fuma erba, mangia al McDonald's, vive in periferia e ora è triste perché ha cazzi con le tipe. È un peccato, perché questa cosa mega nuova e interessante chiamata "conscious rap" potrebbe anche diventare qualcosa di grosso, un giorno. 

Noone - True thru life feat. Ri₵h Meyer (Prod. tha Supreme)

Ragazzi, qua mi incazzo. Ma seriamente. Innanzitutto: questa base è una bomba clamorosa e suona da Dio, e pure le linee vocali dei nostri amici hanno un loro perché. La chitarra acustica forse l'hanno presa da Post Malone, ma chissene—in Italia comunque non la usa nessuno. Ora: perché chiamarsi "Nessuno" e mettersi una maschera? È un'idea così originale che di "No One" ce ne sono dieci solo su Discogs (e quindi sono persone che almeno hanno pubblicato qualcosa, e una è un gruppo nu metal). Di "Nobody" ce ne sono 14. Uff.

Poi: perché dovete cantare in inglese se non siete inglesi e non riuscite a dire cose standard copiate da quello che vi ascoltate? Davvero avete dentro solo quello? Non avete voglia di dire qualcosa di vostro? Con delle basi e dei suoni così potreste davvero fare cose belle e originali, e invece quello che mi resta è che sarete veri per sempre e spaccherete con la vostra crew, e sbadiglio.

(Poi ok, agli italiani che mediamente non sanno l'inglese non gliene frega un cazzo se pronunciate male le cose o non dite niente di che, ma secondo me è un gran problema.)

Tommy Dos Maister - Un pochino più bravo ( prod. BRNSN )

Buongiorno, interrompiamo quest'articolo e passiamo la linea a SkyTG24, dove c'è un importante aggiornamento sul destino del mondo. Che Dio ci aiuti.

Ok, riprendiamo la linea. Comunque: ragazzi, c'è un video ANIMATO. Ma non animato tutto fighetto come quello nuovo di Mecna, siam buoni tutti a fare il bianco e nero coi culi delle tipe. No, no: qua parliamo di animazione semi amatoriale e pure grottesca e interessante da guardare. Cioè, non c'entra un cazzo con il pezzo, ma nei primi venqiuattro secondi c'è un bambino che va a scuola da cui esce un tipo che fa arti marziali con in mano un ventaglio che diventa UNA BROCCA D'ACQUA che diventa UN COSO CON DELLE GAMBE. Date dei soldi a questo tizio. 

Il pezzo, sfortunatamente, non è incredibile. Cioè, suona molto bene, e se dicesse cose più interessanti magari avrei fatto una grande scoperta. E invece Tommy Dos Maister non fa altro che parlare di quanto sia bravo a rappare e gli altri facciano cacare. Non sono d'accordissimo, ma se parlasse di cose migliori me lo ascolterei serio. Però usa la parola "cinegro" per riferirsi a sé stesso, e quindi un po' mi carica. Vai Tommy, riprovaci. Davvero. 

Keezy The Young Magro - CHAPEAU / T'APPO' (Official Video)

Qua abbiamo tutta la trap italiana condensata in due minuti e cinquantanove secondi grazie al buon Keezy The Young Magro, che vince superando Albe Ok all'ultima curva il premio di tizio dal nome migliore di questo articolo. Direi che il suo modello è Izi, per il modo e la frequenza in cui dice le cose, ma c'è una cosa di cui mi sono reso conto in tutto questo: per un sacco di gente, ormai, fare rap significa prendere qualcuno per fare una base trap generica, dire cose rifacendosi a uno dei grandi della scena trovando se proprio qualche punchline divertente ("La chiudo a caso / Riso soffiato" non fa schifissimo dai) e giocare con l'autotune, con le voci alte, con le terzine—senza provare minimamente a creare una narrazione personale che esuli dalla grande triade "spacco", "ti amo" e "avevo difficoltà e ora ce la sto facendo / ce l'ho fatta". E questo è un problema.

PIPPONE-EPILOGO COSTRUTTIVO

Da quest'ultimo pezzo, imparo che Keezy The Young Magro (quanto mi piace scriverlo, non avete idea) è una persona che ha stile dentro e non gliene frega niente di come si veste, che la gente gli diceva che non era capace e invece guardatelo adesso, che ha cura dei dettagli per migliorarsi, che suo padre non c'era mai e quindi lui era l'uomo di casa e aiutava sua madre. E non è che c'è da pigliarlo per il culo per questo: è che ormai la gente crede che basti raccontare i cazzi propri nel modo più genericamente rap possibile e pagare Facebook per farcela. 

Invece, ragazzi, per me (e non è la verità indiscutibile eh, è tutto soggettivo) si tratta di creare un immaginario ben definito e, in qualche modo, inedito. Prenderò i ragazzi liguri come un esempio: ci sono dei tratti comuni tra loro, un po' perché si dividono—giustamente—gli stessi produttori e un po' perché, effettivamente, autotune e un certo modo di dire le cose sono gli elementi che "vanno". Ma vi faccio un esempio. Tedua usa parole originali ("insalata di farro", "facocero") e gioca con il suono di ciò che dice in una maniera inedita in Italia (e quindi ancora non del tutto compresa). E già che c'era ha creato, a forza di fare pratica, una mega-narrazione attorno alla Drilliguria/Orange County che risulta interessante, sfaccettata, con dentro un viaggio personale non gridato ma suggerito—e che personalmente mi attira, e suona fresco e nuovo. 

Oppure, per fare un nome meno affermato ma che credo abbia un enorme potenziale: Vaz Tè, quando canta di Palmaro o dell'Over 2,5 della Lazio, lo fa con un'imperturbabilità annullante e totalizzante, rendendo cullanti giochi di parole e termini che, senza quello stile e quella cura dei dettagli, risulterebbero infantili. Credo sia per questo che mi esalto quando lo sento cantare "Non c'è il mercato ma il supermercato"—che non è la cosa migliore mai scritta da un rapper, ma è molto più originale dell'ennesimo "Mi guardo le spalle", "Ho troppe bitch addosso", "La mia crew regna" o simili. 

Quindi ragazzi (e ragazze, ché non ha senso che non ci siate nella scena), il mio personalissimo consiglio è il seguente: invece di registrare una cosa che cerca di essere quello che vi gasa, provate a immaginarvi che cosa vi gaserebbe se esistesse, e provate a farlo. Poi non ci riuscirete tutti, ma strofinare banconote da 5 euro sullo schermo del vostro portatile probabilmente non vi porterà da nessuna parte.

Elia è su Twitter, se volete mandargli le vostre cose anche non rap: @elia_alovisi

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Drake si è offerto di salvare un tizio che si stava suicidando

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Vi ricordate quando Drake si è scambiato la faccia con quella di Obama l'ultimo giorno della sua presidenza? Ecco, quello è il momento in cui ho pensato che ormai Drizzy avesse toccato il punto più alto possibile. Insomma, non poteva ragionevolmente fare niente di più egoista ma, al contempo, fragile. I due lati della sua personalità si erano fusi, finalmente. Era finita.

Bé. Drake ha preso i miei dubbi come una sfida personale, sembra, perché a quanto pare è lì fuori, convinto di riuscire a salvare gente che sta per lanciarsi da un ponte con il potere delle sue parole. È successo davvero. 

Il Manchester Evening News riporta che sabato mattina il tour bus di Drake si è trovato in un ingorgo causato da una strada chiusa, a sua volta causata da un tizio che aveva deciso di mettersi dal lato sbagliato del guard rail di un cavalcavia. La polizia era presente sulla scena, e ha confermato che il suddetto tizio ora è salvo. 

Comunque, il senso di ragno di Drake ha iniziato a prudergli. Lo immagino lì, seduto, bloccato nel traffico di un'autostrada inglese—e sapeva di essere l'eroe di cui tutti avevano bisogno. Con la testa tra le mani—lo vedo, davvero—tormentato per un attimo, per poi alzarsi, sotto il peso della sua nuova catenazza della Stone Island, e gettare via la sua copertina post-concerto. Era stata sempre questa la sua missione? 

Me lo chiedo perché stando all'ispettore Phil Sturgeon, Drake ha mandato qualcuno a offrire i suoi servizi: "Un agente è stato avvicinato da un uomo, uscito da un tour bus bloccato nell'ingorgo, che diceva di far parte dell'entourage di Drake. Ha dichiarato che Drake si offriva per parlare all'uomo sul cavalcavia, se necessario. L'offerta è stata declinata con un ringraziamento."

"L'offerta è stata declinata con un ringraziamento."

L'offerta è stata declinata con un ringraziamento."

E così, in un secondo, i sogni di Drake si sono infranti. Non avrebbe fatto la differenza. Non sarebbe mai stato SuperDrake. Era ancora soltanto Drake, il Rapper MultiMiliardario. :'-(

E niente, amici, così Drake ha raggiunto davvero l'apice. Siamo ufficialmente entrati in una fase post-Drake. 

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Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

GIORGIO POI
Fa Niente
(Bomba Dischi/Universal)

Questo è il primo album di Giorgio Poi, secondo la leggenda nato un po' per caso dalla nostalgia di casa (promemoria: niente di quello che dicono gli artisti che riempiono locali da più di 200 persone è vero). Provo a mettermi nei suoi panni: scrivi qualche canzone in italiano un po' anni Sessanta per scherzo e improvvisamente scopri che ti viene bene. Riesci a tirar fuori canzoni interessanti, farcite di citazionismo da boom economico misto psichedelia Summer of Love (i phaser, gli echoplex e gli ululati battistiani), e ci infili un paio di buffer elettrosintetici un po' spaghetti sound che fanno sentire il tuo pubblico esperto di musica. Ma quando si tratta di chiudere nove pezzi in italiano vai un po' nel pallone, perché non ce la fai a scrivere come un gentleman o lady del tempo che fu, allora cominci con la poetica della quotidianità, i giochetti di parole, il riferimento ultramoderno in mezzo ad atmosfere vintage, ed ecco che lo spettro del cantautorato indie ti avvolge. Sei nella bolla, pensi di stare scrivendo delle gran figate e invece a me viene voglia di trasformarmi in un troll alt-right e dirti: smettila di fare il fiorellino delicato con gli occhi sul cellulare e i piedi nei mocassini, smettila di tornare a casa presto e osservare la pioggia, smettila di innamorarti porco cazzo, di pensare alla mamma e ai vecchi compagni di scuola—fa' qualcosa che non renda bene con un filtro di Instagram, drogati da solo in mezzo agli sconosciuti, fatti prendere a pugni da una ragazza per strada, pesta una merda, perché alla fine 'ste canzoni sono anche belle e piacevoli da ascoltare, solo che l'idea di avere una conversazione con te mi fa venire dupalle come dupalle a specchio da balera.
ANIMA ALBINA

JENS LEKMAN
Life Will See You Now
(Secretly Canadian)

"To Know Your Mission", il primo pezzo del nuovo album di Jens Lekman, ha dentro così tanti campanelli e spirito gioioso che sembra una canzone di Natale. E io sono una persona per cui, mediamente, il Natale è un'occasione per stare tre giorni a leggere, giocare e ingrassare senza essermi neanche preso lo sbattimento di fare un albero o comprare regali—per dirvi, il suono del cuore della mia coinquilina che si spezza quando le ho detto che l'albero "poteva tranquillamente prenderlo lei se lo voleva" mi tormenta ancora ogni volta che chiudo gli occhi per addormentarmi. Una cosa che invece mi aiuta a dimenticare i tormenti è Jens, che come tutti i bravi svedesi ha una voglia di vivere indecente e può cantare cose come "Le mise il tumore sul tavolo per vedere se fosse quello che le faceva paura" come se stesse dicendo "Che bello, questo sole mi fa sentire tutto frizzantino", con sotto le percussioni baleariche e i violini. E non so bene che mi prende, ma quando ascolto questo disco qua mi sento come se facessi le piroette alla festa latino-americana di quartiere, come se fossi il più bello del centro anziani e avessi appena sedotto la signora Franca al ritmo di un liscio sfrenato. Sentitevi anche voi così.
JOHN GUIDETTI

COBOL PONGIDE
Vita da Spaziale
(Dolce Disco)

Cobol è da sempre uno scienziato pazzo con la fissa della vita umana su pianeti lontani. Dopo tutti i film sul tema, ad esempio The Martian, il nostro è sicuro che non la raccontano giusta e quindi ha deciso di fare un album a tema, in cui finalmente si amplia la strumentazione una volta rigorosamente toy pop e 8bit per bassi sintetici più gonfi e un nuovo assetto vocaloide. Quadretti di sopravvivenza domestica con cagnolini che sono marziani e viceversa e arie tra il neoclassico e il synth pop fanno di Cobol Pongide il Battiato dell'8bit italiana: attendiamo che colonizzi Marte per farci portare tutti lassù, altro che il tizio della Virgin.
HOWARD IL PAPERO

KREATOR
Gods Of Violence
(Nuclear Blast)

Ad ascoltare il quattordicesimo (!) disco in studio dei Kreator sono due persone diverse. Da una parte c'è lo spettro del metallarino sinistroide al primo anno di superiori che ha appena scoperto Violent Revolution e vuole urlare tutta la sua rabbia al mondo; dall'altra c'è la persona semi-razionale che, nonostante ascolti ancora tonnellate di musica spazzatura, all'alba dei trenta si chiede che senso abbia. Nella fattispecie, che senso abbia registrare il quinto disco in studio esattamente uguale ai precedenti da quasi vent'anni a questa parte. La poetica e la retorica dell'inossidabile Mille Petrozza, cinquant'anni e non sentirli a suon di sei allenamenti in palestra la settimana e dieta vegana da prima che essere vegani fosse fico, sono sempre lì, immutabili: il mondo fa schifo, la società fa schifo, i politici fanno schifo, tutto fa schifo e noi cazzo glielo urliamo in faccia. Certo, rispetto a quando ha iniziato c'è qualche digressione melodica in più, ma non è che mondo, società, politici e tutto facciano meno schifo, e non si può fare una colpa al buon Mille di essere coerente con se stesso. Però, per quanto Nuclear Blast lucidi e smalti sempre ogni sua uscita, ci sono cose che nel 2017, purtroppo, lasciano abbastanza indifferenti. Come l'anarchismo insurrezionalista dei Kreator. Con buona pace dello spettro del metallarino quattordicenne che, lo so già, farà di tutto per trascinare la persona semi-razionale in transenna all'incombente concerto di Milano.
TEUTONICTHRASHER MANCHEENO

PAN DEL DIAVOLO
Supereroi
(La Tempesta)

Credo che i Pan Del Diavolo siano dei gran bravi ragazzi: simpatici, piacevoli, buoni, onesti, sinceri. Davvero non ce l'ho affatto con loro, se avessi una sorella sarei contento se frequentasse uno dei due. Però davvero non ce la posso fare, sarà sicuramente una questione di miei gusti ma per me 'sta roba è veramente inaffrontabile - se dovessi studiare a tavolino un'idea di musica orrenda perfetta, l'idea platonica di musica orrenda, sarebbe qualcosa di molto vicino a questo disco: arrangiamenti rock appena venati di folk ben fatti, puliti, mai sopra le righe, cantato poetico cantautorale ma anche iperpop e iper impostato, melodie radiofoniche, un genere musicale assolutamente inattuale e inutile, inoffensivo. Al disco ha collaborato pure Piero Pelù, vedete voi come volete considerare questa informazione: se siete il tipo di persona cui questo fa venire voglia di ascoltarlo allora probabilmente vi piacerà anche.
LA SORELLA DEL SERGENTE HARTMAN 

LUCIO CORSI
Bestiario Musicale
(Picicca Dischi)

Ora lo dico, rischiando coppini, smutandate e spergiuri: io non sono per principio contro i cantautori, quelli con la chitarra acustica che dicono le cose in italiano. Solo, negli ultimi anni mi sono sentito un attimo lontano da quello che cantavano—mi sono sembrati stantii, nazionalpopolari, o copie peggiori della loro versione migliore. E niente: Bestiario Musicale, nonostante abbia momenti ingenui che mi fanno dire un EDDAAAAI degno del miglior Mughini (cfr. "C'è un movimento punk Nella foresta / Gli alberi con i capelli verdi sulla testa / E le galline con le creste vengono malviste dalla Guardia di Finanza"), mi sembra proprio un bel disco. È tutto intimo, con due chitarrine, due tastierine e poco più—ma quel poco più fa davvero la differenza, come quando ne "L'upupa" entra un coso che sembra uno xilofono che fa pa-para-para per tre secondi e mi carica come gli SKRRRRR di "Cartine Cartier". E anche se parla di animaletti, e lo fa in modo iper-naïf, non devo far finta che non mi faccia venire in mente a tratti le parole "Angelo Branduardi" e non mi prenda bene.
LA PULCE D'ACQUA

SOL INVICTUS / SOLBLOT / SONNE HAGAL / :OF THE WAND AND THE MOON:
Ghostly Whistlings: A Tribute To M.R. James
(Café Grössenwahn Grammophon)

Ci sono un Inglese, uno Svedese, un Tedesco e un Danese che suonano neofolk; un giorno incontrano uno scrittore di storie di fantasmi. Non è una barzelletta scema; è un racconto uggioso, abbacchiato e un po' triste. È l'insieme di quattro diversi accompagnamenti messi insieme da alcuni degli esponenti più validi di un genere, il neofolk, che coi fantasmi, la tradizione e l'inquietudine flirta più o meno per definizione. Ogni artista si fa carico di interpretare un diverso racconto di M. R. James, il più celebre scrittore di  ghost stories con cui Tony Wakeford (Sol Invictus) si era tra l'altro già confrontato nel 2008 attraverso il progetto The Triple Tree. Particolarità: ciascuno si cimenta con un racconto ambientato nel proprio Paese d'origine. Il risultato è variegato: Sol Invictus incide un pezzo da Sol Invictus, Solblot torna alla vita dopo un lustro di silenzio, Sonne Hagal regala il momento più intimista e interessante dei quattro e Kim Larsen (:OTW&TM:) trolla tutti quanti abbozzando sì e no una base ambient e niente più, perché lui può. Morale della favola: niente di nuovo, ma tutto bellissimo.
LO SCRIBACCHINO VITTORIANO

AA.VV.
T2 Trainspotting (Original Motion Picture Soundtrack)
(Interscope)

Devo dire la verità: sono abbastanza gasato all'idea di questo sequel. Ok, immagino che sarà una bieca operazione nostalgia, un fan service, tutto quello che volete. Però, anche avendo già letto Porno, a me l'idea di passare ancora del tempo con quei personaggi fa piacere. Non voglio molto altro se non ignorantate, fotta (e Danny Boyle dovrebbe garantire abbastanza per tutto questo). Insomma sono uno di quelli per cui il trailer non è "madonna che pagliacciata" ma "promette bene, mi gasa". Del resto c'è stato un periodo in cui la videocassetta (sì sono vecchio, ok) di Trainspotting era un po' come un disco: non è che dovessi proprio mettermi lì a guardarlo, semplicemente lo mettevo su mentre facevo altro, come sottofondo. E che cosa cazzo non era la colonna sonora dell'originale? Se ci penso, peraltro, penso a Damon Albarn e Justine Frischmann bellissimi e fattissimi alla prima del film, una delle immagini più iconiche di quel periodo e quel mondo. Sono riuscito ad arrivare alla fine senza avere detto una parola su (la maggior parte di) questa colonna sonora (se isolata dal contesto). Non era facile.
KARIN PARKE

STROMBOLI
Volume Uno
(Maple Death Records)

Non so bene perché, forse per via del nome, o forse semplicemente perché sono scemo (e ignorante, visto che era già uscita una cassetta nel 2015), ero convinto che gli Stromboli fossero un gruppo di più o meno punk cantato in italiano, un po' tipo i Distanti o i Gomma. Invece col cazzo: innanzitutto è un progetto solista (di Nico Pasquini) e inoltre siamo dalle parti di un'elettronica industrial-noise-drone di fattura pregevolissima. Roba marcia, scura e sinistra di quella che a noi piace sempre, realizzata con ottima inventiva, grande consapevolezza e padronanza dei propri mezzi, e - tra echi di Suicide e del krautrock più notturno - più idee di quelle che si trovano mediamente in un mare abbastanza affollato e spesso poco stimolante come quello dell'industrial-techno di provenienza americana che tanto si è sentita negli ultimi anni, ormai abbastanza appiattitasi su se stessa. Bravo Pasquini, mo' vedi di romperci il culo dal vivo.
ALESSIA MERZ NEL FILM PANAREA

Hanni El Khatib
Savage Times
Innovative Leisure

Normalmente non sono interessato ai revival anni settanta, e volendo essere sincero neanche ora. Ma Hanni fa il suo sporco lavoro e, sebbene il singolo "This I Know" sia una vera ciofeca, il resto di questa raccolta di cinque EP usciti a raffica precedentemente riesce a spaziare quel tanto che basta per allontanare l'effetto "Lenny Kravitz del futuro". Con sbuffi e strappi elettronici hi e lo fi e arrangiamenti che strizzano l'occhio a volte al Lennon più zozzone periodo Plastic Ono Band, Savage Times si fa ascoltare per quello che è: un modo di proteggersi sotto una coperta di lana mentre fuori imperversano le radiazioni. Vedete voi se vi conviene.
KABBASIZI ADDOVAI

PAPERHEAD
Chew
(Trouble In Mind)

Tempi duri per le band di rock revivalista. Grazie a Internet e al mercato delle ristampe, abbiamo a portata di orecchio un archivio sconfinato di registrazioni anni Sessanta e Settanta che non aspettano altro che di essere ascoltate e apprezzate da giovani e meno giovani. Così a gruppi come i Paperhead non rimane che cercare di incorporare le influenze più varie nel tentativo di sembrare originali pur rimanendo ancorati al vecchio sound tra psichedelia, pop e prog, con il risultato che ogni canzone sembra copiata da un gruppo diverso e ognuna contiene una parte goffamente bizzarra, un trombone, un fuzz giocattoloso, un pirulo infantile, un coretto fiabesco. Fatto sta che, a meno che non stiate indossando un abito giacca-pantalone di velluto bordeaux e una camicia a sbuffo, potete tornare ad ascoltare Joy of a Toy di Kevin Ayers, sono sicuro che non ne avete ancora avuto abbastanza. 
SCOTTATO DALLA TROUBLE IN MIND

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Parliamo dei Metallica e Lady Gaga ai Grammy

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Non volevo parlarne. Mi ero promessa che non l'avrei fatto, che avrei lasciato marciare la parata scintillante di Musicisti Che Non Conosco e Stelle Che Non Riconosco verso il tramonto di Los Angeles senza nemmeno uno dei miei soliti pezzi su quanto i Grammy non vadano proprio d'accordo con il metal. Ma poi Lady Gaga ha cantato un pezzo assieme ai Metallica ed è andato tutto in merda.

Non fraintendetemi—non ho alcun problema o preconcetto nei confronti di Lady Gaga. Anzi, penso abbia una voce della madonna, e apprezzo il suo supporto per la comunità LGBTQ. Ho guardato la sua esibizione al Superbowl, mi sono messa a canticchiare "Bad Romance" e mi piace il fatto che abbia tentato di fare country, in un certo senso. Voglio enfatizzare seriamente che non la odio in alcun modo, ma devo essere onesta con voi: quando l'ho vista sul palco con i Metallica, tutta piena di lustrini, abbagliata e con gli occhi spalancati, ci sono rimasta male. Insomma, per Gaga era un'opportunità di dimostrare quanto fosse brava a fare rock, e di rendere tributo a uno dei suoi gruppi preferiti di sempre... e quindi, invece, ha scelto di fare la matta. So che è una parte fondamentale di quello che fa—è il concetto al centro del suo brand, in un certo senso—ma sarebbe stato bello vederla lasciar perdere qualsiasi personaggio e abbracciare un genere che ama, e che storicamente i Grammy hanno sempre trattato come se fosse una merda.

I problemi sono iniziati da subito: la presentatrice, Laverne Cox, non ha citato i Metallica nella sua introduzione, invitando il pubblico a guardare "I vincitori di otto Grammy e la vincitrice di sei Grammy, Lady Gaga." Certo, si è scusata con il gruppo via Twitter, e sono sicura che sia stato un errore onesto—dopotutto, presentare un evento del genere ti mette una bella pressione addosso—ma dai, questo sarebbe dovuto essere il grande momento dei Metallica. Invece, quell'errorino ha gettato le basi per una situazione imbarazzante. 

Dei problemi tecnici hanno rovinato la festa fin da subito, dato che un microfono difettoso ha lasciato James Hetfield, il cantante dei Metallica, ad ansimare e sbuffare e dire i suoi yeah-heah senza che nessuno potesse sentirle. Per le prime barre di "Moth Into Flame", una delle tracce più forti del loro nuovo album, i grandi Metallica sono stati ridotti a essere il gruppo-spalla di Gaga, che ha cantato al posto di Hetfield. Come ho detto prima e come sicuramente già sapete, Gaga ha una voce incredibile, e funzionava bene su un pezzo così aggressivo—il suo ululato gutturale e istrionico non è sembrato particolarmente inadatto al contesto, ecco. Se mai Gaga volesse mettere da parte la moda e dedicare parte del suo tempo libero a una band heavy metal, spaccherebbe. Giocando le carte giuste, un giorno potrebbe aprire ai Savage Master

Allo stato attuale delle cose, però, qualsiasi altro metallaro con cui ho parlato della cosa ha espresso la stessa opinione, da uno stridente "Ha fatto schifo!" a un più caritatevole, "Forse si è sentita confusa e stava cercando di coprire i problemi con il microfono di James?" Qualsiasi sia la causa—e la mia opinione è che sia l'umanissimo desiderio di Gaga di essere amata da tutti—l'esibizione in sé è parsa forzata, impacciata e malpensata. Gaga è stata un po' ingenua a cercare di "piacere" sia al suo pubblico che a quello dei Metallica, anche se il loro pubblico è diventato così vasto che ormai include chiunque abbia mai sentito "Enter Sandman" sulla sua stazione radio rock locale e ha deciso di non cambiare anale. 

Forse l'aspetto più frustrante di tutto questa baraccata è che Lady Gaga se ne sarebbe dovuta rendere conto prima. In fondo ascolta davvero metal, conosce il genere da molto più tempo di quanto ne abbia passato a fare la popstar. Quando vivevo a Londra (tra il 2009 e il 2013, cioè in quello che è stato ragionevolmente il periodo migliore per Gaga) ero a due gradi di separazione da lei, dato che i miei amici conoscevano bene la sua ex collega e DJ Lady Starlight, e mi dicevano della sua passione per il glam rock e l'heavy metal. La Starlight—che si chiama Colleen Martin—è anche andata in tour con i Judas Priest, aprendo i loro concerti, e il suo amore per i riff si sente nella musica di Gaga (o forse è stato il contrario), che ha sempre parlato apertamente del suo amore per classici del calibro di Iron Maiden, Judas Priest e Metallica. 

Chiunque se ne sia mai uscito con dichiarazioni-gemme del calibro di, "Quando la gente mi dice che sarò la prossima Madonna, io rispondo sempre che sarò i prossimi Iron Maiden" ha sicuramente il metal nelle vene. E poi c'è stato il suo chiodo dei G.I.S.M., una storica band HC-punk giapponese. Nel 2014 l'ho vista nel (minuscolo e ubriachissimo) pubblico del SXSW, ad Austin, Texas, con una maglietta di Killers addosso, tutta presa bene ad ascoltare i Lazer Wulf, un trio mathcore di Atlanta.

Quello che voglio dire è che è tutto tranne che una neofita, e nonostante questo la sua esibizione è sembrata al mondo quello che succede quando la tua collega Karen si ubriaca e si "lascia andare" durante "Smells Like Teen Spirit" alla serata-karaoke dell'ufficio. Innanzitutto, il "pogo" sul palco è stato davvero imbarazzante, e quasi non sono riuscita a guardare Gaga emergere da quel piccolo mare di comparse con camicie di flanella addosso. Poi, il fatto che si sia lanciata dal palco in una pozzanghera di tizi messi lì a riempire posti  puzzava di disperazione coreografata—una sorta di barbarico "Sono figa?" non pronunciato che riecheggiava silenziosamente tra le note della canzone. 

Tutto quello che c'è stato in mezzo—la canzone in sé, o quello che ne è rimasto una volta che Hetfield è finalmente riuscito a raggiungere Gaga per cantare assieme a lei nello stesso microfono—è stato un miscuglio, reso ancora più confuso dalla presenza di quei tizi che "pogavano" sul palco e le mosse esagerate di Gaga. La cosa più metal che ho visto l'ha fatta Hetfield che, a pezzo finito, ha buttato fuori la sua palese incazzatura dando un calcio all'asta del microfono. 

Può essere stato un errore dell'ingegnere del suono? Nessuno sapeva che Hetfield era il cantante? Forse era tutto un piano per far sì che la voce di Gaga fosse il centro dell'attenzione, così che quei vecchiardi icone del thrash fossero solo la sua band di supporto? Non lo sapremo mai, ma io ho qualche sospetto (e Pitchfork dice di aver risolto il caso).

C'è un sacco—e voglio dire, un sacco—di spazio, nel metal, per concerti dozzinali e sudati (è una delle cose che ci riescono meglio), ma l'errore cruciale di Gaga è stato il fatto che non è riuscita a mettere da parte i suoi istinti teatrali e si è sentita costretta a renderli ancora più palesi, come se fosse la protagonista di un rifacimento amatoriale del film sugli Spinal Tap. L'esibizione non ha mai preso forma, e non è sembrata davvero a suo agio a essere su quel palco, lei che si meritava quel momento più di chiunque altro fosse seduto in quel teatro. Sarebbe potuto essere una figata, e invece è stato quello che è stato. Armati di tutta la loro potenza di fuoco, le loro produzioni e i loro soldi, i Grammy non sono ancora riusciti a rendere giustizia al metal—nemmeno per cinque minuti.

L'affronto che sono stati i Gagtallica si è unito a un'altra egregia cazzata che ha steso un drappo funebre sulla vittoria dei Megadeth, che aspettavano un momento del genere da una vita e invece ha solo sottolineato ancora una volta quando ai Grammy non freghi nulla del metal. La band dei Grammy ha suonato "Master of Puppets"—cioè una delle canzoni più famose dei Metallica, neanche una di quelle a cui Dave Mustaine ha collaborato mentre era nel gruppo—mentre i Megadeth salivano sul palco a ritirare il loro premio per Dystopia, il loro ultimo album. Insomma, è stata una mossa che sarebbe potuta sembrare piuttosto sospetta: sarebbe, perché ovviamente i Grammy non possono essere così sgamati da saper riconoscere due delle band più famose della storia del metal. E sicuramente non sapevano niente delle antipatie che sono sempre esistite tra Mustaine e i Metallica, nonostante siano ben documentate ovunque. Com'era prevedibile, i media specializzati hanno demolito i Grammy per le varie gaffe della serata, e un sacco di metallari hanno espresso opinioni piuttosto colorite e veementi. 

Almeno i Baroness e i Gojira si sono presi una nomination. Mi ha fatto molto piacere vedere che il loro talento è stato riconosciuto, e mi lacia la speranza che un giorno—magari non troppo lontano—i Grammy possano tirarsi fuori i loro pollici perfettamente curati fuori dal culo e dare alla comunità metal un'opportunità onesta e rispettosa di dimostrare quello che sappiamo fare. 

Fotografia di Kevin Winter / Getty 
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Chi va davvero a vedere DJ Gruff?

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Ho esitato a lungo prima di decidermi se andare o meno a vedere Dj Gruff. Mi sono imbattuto per caso nella locandina del suo concerto a Roma dell'11 Febbraio passeggiando per San Lorenzo, mentre mi guardavo le spalle per controllare se qualcuno mi stava pedinando con l'intenzione di derubarmi.

C'erano da considerare vari fattori, mi dicevo tra me e me: in primis il fato che siamo nel 2017 e che Gruff ha 52 anni; certo, mi dicevo, si parla di un fuoriclasse, di un outsider assolutamente geniale, ma il cordone ombelicale che mi legava al mondo da cui Gruff proviene è stato reciso da tempo immemore. Così come non ho più nulla da spartire neanche con le persone che vanno a vedere un suo concerto nel 2017, ed era questo il secondo problema: a innervosirmi era la prospettiva di sentirmi come un pesce fuor d'acqua, solo e boccheggiante in mezzo ad una fiumana di extraterrestri.

Dj Gruff è 1/3 dei Sangue Misto, gruppo seminale tanto per l'hip-hop italiano quanto per la mia adolescenza, e l'unico dei tre che dopo i duemila abbia continuato effettivamente a dedicarsi al rap. Deda si è dato all'elettronica sotto il nome d'arte Katzuma, ed è fin troppo noto quel che combina Neffa da sedici anni a questa parte.

Inciso: un giorno vi racconterò anche di quella volta, anni fa, in cui io e il mio migliore amico siamo andati ad un concerto di Neffa a Villa Ada, mettendoci in prima fila e urlandogli per tutta la durata del concerto parole tratte dal vocabolario sanguemistico. Neffa, visibilmente incazzato, alla fine del live fu costretto a dire che, se ci interessava, il suo fonico era rimasto lo stesso di allora.

L'autore, mimetizzato nel pubblico.

È proprio questa considerazione a spostare l'ago della bilancia e a farmi decidere di andare, anche perché non avevo mai visto Dj Gruff in concerto e non avevo assolutamente idea di cosa aspettarmi—ero attraversato da un misto di curiosità e timore. Prima del concerto ho provato a strappare un'intervista a Gruff scrivendogli più volte in privato, ma purtroppo il nostro si è comportato esattamente come le ragazze con cui solitamente ci provo: ha visualizzato senza rispondere.

Il concerto si svolge a pochi passi da Stazione Termini, precisamente in un centro sociale nei pressi di Viale Manzoni. La domanda spontanea che mi sono posto lungo tutto il tragitto dalla stazione al locale è stata questa: quali sono i motivi che spingono qualcuno ad andare a vedere Dj Gruff? Si tratta di qualcosa in più di semplice timore reverenziale e di rispetto per i giorni che furono?

Siccome non riesco a trovare l'indirizzo del posto, essendo senza navigatore, chiedo indicazioni ai passanti. Vedo due persone che dall'aspetto potrebbero essere potenziali astanti del concerto: si tratta di una coppia di fricchettoni, lui con i dread e lei con un orsetto di peluche messo sulle spalle a mo' di zaino. Mi danno delle indicazioni sbagliate e ovviamente mi perdo.

Abbattuto ma non vinto, continuo a girovagare finché non incontro un paio di ragazzi che mi indirizzano correttamente e finalmente arrivo al concerto. Mi rendo conto immediatamente conto che le cose sono molto peggio di quello che temevo e inizio a sudare freddo.

Sono circondato.

Circondato dal 1998.

Il centro sociale, come se si trattasse di una gigantesca capsula del tempo sepolta da Philip K. Dick,  mi ha evidentemente spalancato le porte di un'ucronia: in questo universo parallelo in cui il tempo è fuor di sesto i baggy jeans a vita bassa continuano ad essere indossati , così come le felpe ECKO e le scarpe con la linguetta pump.

Fortunatamente avevo preventivato questa opportunità e avevo già deciso di mimetizzarmi con la fauna urbana del locale, tirando fuori dall'armadio un cappello con visiera piatta, una felpa con cappuccio e un gilet a mezze maniche da indossare sopra ad un paio di vecchie Adidas Superstar II (quelle rese famose dai Run DMC, per intenderci).

La mia missione, mano a mano che passa il tempo, si fa più chiara. Il mio scopo è quello di sovvertire le certezze di quei poveri b-boy inconsapevoli dell'ottusità mentale che li accomuna a un sasso. Io sono John Titor, un elemento perturbatore  venuto dal futuro a sconvolgere le menti degli astanti. Sono Prometeo, che fa scoprire Tedua agli uomini.

Siccome una volta anche io ero uno di loro, un cosiddetto "purista", conosco i loro punti deboli e so come e dove colpire. Decido di adottare una strategia attendista: sono in inferiorità numerica e non ho speranze di farcela da solo. Non mi resta altra scelta che camuffarmi, fingermi uno di loro, far domande neutre per fargli abbassare la guardia e solo allora incalzarli con un fendente dritto nel cuore.

Come scopro presto, anche nel 2017 Gruff rimane un catalizzatore di attenzione, o meglio di devozione, come pochi.

Molti degli ascoltatori sono venuti apposta da altre città solo per assistere al concerto: Francesco e Sasha, per esempio, sono venuti apposta da Pescara. "La città di Lou X. Lo conosci?", mi chiedono con sguardo scrutatore, lo sguardo del b-boy che sta tentando di capire se chi ha di fronte abbia abbastanza knowledge per sostenere una conversazione proficua o se si tratti solamente di un rookie che ha ancora tantissima strada da fare.

Piano piano le loro difese si abbassano. Il mio odore ha tratto in inganno il branco, che adesso mi crede uno dei suoi componenti. Siccome mi trovo in una una gigantesca area di stasi culturale in cui lo Zeitgeist è ancora quello della musica commerciale vs musica underground decido di far leva su quello.

"Ragazzi, che ne pensate della Dark Polo Gang? Io sto in fissa, li ho pure intervistati".

Il gelo.

I visi delle persone intorno a me si contorcono in un modo osceno, i loro sguardi torvi mi impalano al pavimento.

Appena quei poverini tornano a respirare, le risposte che ho ricevuto andavano tutte nella stessa direzione, e nella mia testa continuano a rimbombano come un'informe ecolalia disturbatrice: quella non è musica è moda, è trap non rap, sono dei sucker (sic!).

Una foto professionale di Gruff, scattata dall'autore.

È Daniel a regalarmi però la più grande dose di incazzatura all'interno del locale. Daniel è un ragazzo che come me si trovava in prima fila, uno studente di ingegneria del suono (come ci tiene a sottolineare, per avere un principio d'autorità su cui far leva e poter parlare ex cathedra), con il quale discuto di massimi sistemi: Guè Pequeno non è musica, mi spiega, era bravo nel 2003 quando faceva "Hardboiled Sabotatori" ma poi basta. Rafforzava il suo ragionamento con una inoppugnabile tesi: se a Guè Pequeno dicessero di suonare gratis o di non suonare, lui sceglierebbe la seconda opzione. Questo, sempre secondo Daniel, proverebbe che la passione non è ciò che lo spinge a fare musica: e, continua a spiegarmi, se fai musica non essendo spinto dalla passione semplicemente non stai facendo musica. Si tratta proprio di un'altra cosa, a livello ontologico. Se siete curiosi di scoprire cosa rimarrete delusi, perché il nostro Daniel era un disco rotto, impermeabile a tutte le critiche  che gli muovevo a proposito di questo "ragionamento". La sua risposta era sempre la stessa. "Non è musica, punto e basta". Quando gli ho chiesto di nominarmi un paio di dischi di Guè Pequeno cosa credete che abbia risposto?

Chi non ha mai frequentato l'ambiente hip hop potrebbe rimanere stupito da un simile atteggiamento, puramente ideologico, che ricorda da vicino certi fondamentalismi di matrice religiosa. Ma anche l'hip hop, come ogni religione, conserva una struttura fondamentalmente paradossale e Dj Gruff incarna perfettamente la porzione più cattofascista di quest'ambiente, la retroguardia culturale che si nutre di conservatorismo sonoro, di misoneismo cieco e ideologico. "O credi in Dio o sei ateo" mi dice Mirco da Frosinone, o Dj Gruff o Tony Effe, o stai con quel ragazzo che ha tirato una sberla a Dark Side alla fermata dell'autobus oppure sei Dark Side.

Un'altra brillante prova me l'ha fornita Mattia, un venticinquenne in fortissima psicoconfusione col quale siamo arrivati—partendo dalle Sacre Scuole, ovviamente—a parlare di Dargen D'Amico. Mattia sosteneva che, "ultimamente", Dargen D'Amico facesse musica "per finti intelligenti". Quando gli chiedo di motivarmi la sua accusa, mi risponde di nominargli un pezzo del primo e dell'ultimo disco per un confronto. Quando lo faccio, il nostro mi risponde: "Semplice, il primo pezzo che hai nominato è bello, il secondo è brutto". Ho dei testimoni che possono confermare che è andata esattamente così.

Degna di nota una ragazza di cui purtroppo non ricordo il nome (scusami!) che ho convinto a dabbare davanti al palco tra gli sguardi cagneschi delle persone intorno a noi e che spero leggerà questo articolo perché le ho promesso che ci sarebbe stata lei in copertina. Cosa non si farebbe per provare a scopare avere un po' di materiale in più per un pezzo, eh?

In tutto questo, è passata un'ora dall'orario di inizio indicato e di Dj Gruff ancora non c'è traccia.

Nonostante il ritratto impietoso che ho delineato fino adesso, rimango sono comunque un po' emozionato: Dj Gruff è stato per lungo tempo una colonna portante della mia vita, e soprattutto le sue canzoni d'amore mi hanno coccolato per tantissimi anni. Continuo a considerarlo un genio. Sono e gli sarò sempre riconoscente per questo. Se l'hip hop ci ha veramente insegnato qualcosa di buono è che occorre ricordare le proprie radici, il proprio background culturale. Musicalmente, lo ripeto, io e quel mondo non abbiamo più niente da spartire, e ciò nonostante mi sento ancora profondamente in debito.

Ecco perché sono molto emozionato quando Gruff sale finalmente sul palco. Si presenta molto gioviale (citazione), e nonostante abbia 52 anni ne dimostra almeno venti in meno. È giusto un po' imbolsito, ma la plasticità e l'eleganza dei suoi movimenti sembrano essere indirizzati a me per avvisarmi di non fare caso a qualche chiletto di troppo perché questo b-boy fiero i suoi atout da giocare ce li ha eccome. Sono in prima fila: il concerto vedere alternarsi scratch e rap, in proporzione più o meno di due a uno. Oltre a scratchare sui suoi pezzi più famosi, quelli per i quali continuo a considerarlo un genio nonostante tutto ("Ti canto", "E così è") Gruff si lancia a volte in freestyle giocati col suo solito stile di alternanza tra finte rime equivoche e allitterazioni verbali (che privilegiano molto spesso il significante al significato). Certamente non è Ensi, però tutto sommato si fa apprezzare.

Il delirio arriva quando Gruff intona i suoi classici: i ritornelli di "Svarionato" e di "1500 lire" sono accompagnati da un coro unanime del pubblico e lo stesso Gruff sembra sorpreso dall'incredibile ovazione ricevuta (a giudicare dall'evento su Facebook e da quanto ci ho messo per fare la fila al bar, nel posto si trovavano più di mille persone). "Lucida Follia" è quasi irriconoscibile per via del cambio di metrica vagamente dylaniano.

Immancabili i Sangue Misto, ovviamente: Gruff, però, come per porre le distanze tra il suo sé attuale e quel periodo ormai lontano della sua vita, decide di scratchare soltanto, senza rappare le sue strofe, quasi fosse poco più che una concessione al pubblico—venuto più per quello, forse, che non per gli ultimi dischi del nostro, tra i quali comunque spiccano almeno due capolavori, e cioè Sandro O.B. e Phonogruff.

Cantare "Cani sciolti", "Lo straniero" e "Clima di tensione" davanti a Dj Gruff è stata un'esperienza mistica, che per un attimo mi ha riportato con la mente ai miei quindici anni, quando io e la mia "crew" (non ridete) ci riunivamo ore prima dei concerti di Kaos per essere sicuri di conquistare la transenna.

Il concerto è durato più di tre ore, ma io dopo due ero stremato e abbandono la prima fila tra gli spintoni e le gomitate. Prima di uscire, vedo un cesto con delle Morositas offerte gratuitamente e facendo una spola strategica davanti a banchetto ne prendo sette.

Mi incammino verso la stazione Termini con una ragazza conosciuta al concerto e iniziamo a chiacchierare. Secondo lei, il concerto merita una condanna senza appello: gli svarioni di Gruff mi dice, ormai vanno per conto loro, non lo accompagnano più. Non sono d'accordo con lei, ma poi iniziamo a cantare Calcutta ad alta voce e nessuno di noi due ci pensa già più.

Anche tu puoi incamminarti verso la stazione Termini con Matteo, scrivigli su Twitter: @realmattycon
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Guarda in anteprima il nuovo video di Pula+

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Quel drago di Pula+ ha quasi finito di scrivere il suo quinto album, Featuring Pula, che ha deciso di finanziare con una campagna su MusicRaiser. Il suo nuovo video è per un pezzo tratto proprio da quel disco, e oggi ve lo facciamo vedere in anteprima. Si intitola "Cerchio di fuoco" ed è una sorta di viaggione autobiografico in cui Pula ricorda alcuni momenti imbarazzanti della sua carriera per capire bene il loro ruolo nella sua vita, e culmina con un bel pugno sul mento. 

Trovate il video qua in fondo, dopo la spiegazione che Pula stesso ci ha regalato: è un'analisi approfondita del testo e della sua visione, che abbiamo deciso di riprodurre qua sotto integralmente. 

"Cerchio di fuoco" è il primo estratto dal mio nuovo album, Featuring Pula, che ho intitolato così perché ci sono io in tutte le canzoni... direte "ovvio, certo" e in effetti è così ma ci sono io nel senso che ci sono come non ci sono mai stato. Non a caso, questo è un pezzo in cui parlo di me e per me. Penso che sarebbe figo che ogni artista, ogni tanto, facesse qualcosa di simile, così, oltre a offrire musica, si metterebbe sul piatto la propria esperienza di vita, senza la quale, la canzone (bella o brutta che sia) rimarrebbe vuota.

Il brano affronta, appunto, temi personali, a partire dal mio approccio alla musica fino ad arrivare alla terza strofa in cui parlo di un episodio avvenuto quando avevo 14 anni: ero ubriaco e in paranoia per un live che stavo per fare in questo locale, sono andato nel bagno a pisciare e, una volta fatta, ho visto una pozza di urina per terra… ho pensato fosse mia e l'ho asciugata tutta anche se, indubbiamente, era di chiunque fosse entrato in quel cesso quella sera. Insomma, uso questo episodio per parlare dei sensi di colpa all'apparenza insensati, per dire che si può pagare anche per qualcosa che non si è fatto, e questo mi fa incazzare, prima di tutto con me stesso.

Così, a un certo punto arriva la scena madre del video, quella in cui mi tiro un pugno sul mento, un uppercut (e mi sono fatto male sul serio), e questo succede subito dopo la seconda strofa, perché in quei versi gioco a essere in pieno l'artista, Pula+, infatti metto gli occhiali da sole, inizio dicendo "è il ritorno dell'originale..." eccetera. L'uppercut riporta tutto alla realtà, quel pugno sono io che amo e odio me stesso, un po' come in Fight Club (che mi ha ispirato) uccido una parte di me, dandole al tempo stesso tutta l'importanza che merita. Ed è un pugno che taglia il brano, come a sancire uno stacco tra me personaggio e me persona reale, dando vita alla massima sincerità d'espressione. In altre parole ho voluto dare un pugno a tutti gli stereotipi del rapper, dell'artista infallibile e con questo nuovo disco sancisco, in pratica, il nuovo inizio della mia vita musicale.

Questo brano è una confessione e le immagini del video mettono in scena questa cosa ritraendomi mentre parlo a uno smartphone—il confessionale dei nostri giorni—
all'interno di una palestra, il classico luogo da circolo degli alcolisti anonimi, dove ci si confessa senza preti. Lo smartphone ha realmente ripreso la scena che è andata in diretta sulla mia pagina Facebook. Il video, diretto da Francesco Coia e Dimitrije Roggero, è la ripresa della mia confessione allo smartphone, avvenuta davanti a tutti, il mio sfogo pubblico, di fronte ai miei fan e a chi era connesso e magari ha schiacciato play.

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Mick Jagger non si ricorda di aver scritto la sua autobiografia

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Che vita ha vissuto Mick Jagger! Essere il frontman dei Rolling Stones significa aver fatto almeno dieci giri del mondo con Keith Richards a dietro, il che ha creato certamente qualche situazione interessante da raccontare. E sembra che negli anni Ottanta a Mick fosse venuto il bisogno di metterle tutte su carta, finché poteva. Il risultato fu un manoscritto di 75.000 parole in cui raccontava la sua vita, che diede alla casa editrice John Blake.

Ma quando Blake contattò Jagger per parlare della pubblicazione del libro, in quella che potrebbe essere la mossa più 'Mick Jagger, Rocktar' di tutti i tempi, lui rispose che non si ricordava di averlo scritto. Solo 75.000 parole. Niente, in confronto alla coca e alle feste.

La notizia è stata riportata dal Telegraph (per tutti voi che non potete sfondare il paywall del Times): il giornale spiega che l'autobiografia sarebbe dovuta essere pubblicata con una nuova prefazione di Jahher. Il piano è stato poi abbandonato, e ora Mick ha deciso che il libro non vedrà mai la luce del giorno. Ad ogni modo, la sua casa editrice ha parlato di alcune delle rivelazioni di Jagger in un articolo uscito sullo Spectator. La più bella è la seguente: Mick ha comprato Stargroves, la sua megavilla nell'Hampshire, completamente fatto di LSD perché rock and roll, baby. Non c'è niente di più rock che acquistare un immobile. 

Blake fa inoltre notare che il manoscritto "mostra un Mick più tranquillo e vigile della sua caricatura reale," e anche se probabilmente il timbro di accettazione di Mick non arriverà mai, restiamo nella speranza di poterci mettere le mani sopra, un giorno. 

(Immagine via Wikimedia Commons)

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Ascolta il nuovo album dei Pissed Jeans "Why Love Now"

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I Pissed Jeans sono sempre stati in grado di trovare il male, la tristezza, la depressione e la comicità nella banalità della vita. Matt Korvette non canta di voler distruggere il sistema, canta del sistema che distrugge lui mentre tenta di arrivare alla vecchiaia al suo interno. Il tutto su uno sfondo punk strisciante e rumoroso che si può considerare una versione moderna delle sonorità paludose di Flipper, Kilslug e Jesus Lizard.

Why Love Now, il loro quinto disco che potete ascoltare qua sotto, è ancora più potente e frutstrato dei precedenti. "(Won't Tell You) My Sign", "Actavia" e "The Bar Is Low" sono marce funebri a mille watt e c'è un rapporto inversamente proporzionale tra il titolo "Worldwide Marine Asset Financial Analyst" e l'incazzatura del pezzo. "I'm a Man", con la voce narrante della scrittrice Lindsay Hunter, racconta il quotidiano sessismo dell'ufficio, dalle dimostrazioni di forza nel cambiare il boccione dell'acqua con una mano sola al mettere in chiaro che "mi piacciono i bambini, ma non vado matto per i fidanzati e per i mariti". Fa paura perché è normale, perfettamente plausibile. Il secondo disco della band era intitolato Hope For Men; questo disco suggerisce che non ci sia poi tanta speranza. Al timone di Love ci sono due produttori: Arthur Rizk, il Signore dei Riff che sta dietro ai Sumerlands che ha anche già lavorato con Title Fight, Prurient e Inquisition, e la leggenda del punk e della no wave Lydia Lunch. Rizk ha scelto gli ampli giusti; Lunch ci ha messo tutta la rabbia che serviva.

Korvette e io abbiamo parlato principalmente di quanto siamo tristi noi maschi, ma anche un pochino di musica.

Noisey: Com'è stato lavorare con Lydia Lunch?
Matt Korvette: È stata una grande presenza nello studio—il suo atteggiamento è molto diverso dal nostro, She was just a great presence in the studio—her attitude was very different from our attitudes, e con la sua esperienza e le sue storie ci ha motivati tantissimo. Non sapevo cosa aspettarmi, il che era il bello. Non è che stessimo andando in studio con una persona di cui puoi consultare le 12 produzioni più famose e sapere esattamente come lavorerà. Era semplicemente pazza—si ascoltava le canzoni, si metteva a sbraitare, ha dato allo studio un'atmosfera molto diversa dal solito, noi siamo abituati a una certa quiete, una certa discrezione—abbiamo sempre lavorato con produttori che avevano le maniere di uno psicologo o qualcosa del genere, mentre Lydia è stata una forza della natura, completamente selvaggia. È l'opposto del californiano passivo-aggressivo—"sì certo, fa' come vuoi, tutto a posto, una figata" e poi invece la pensano in un altro modo o non hanno alcuna opinione. Lei aveva grande entusiasmo e diceva cose allucinanti, e se le piaceva qualcosa le piaceva davvero. Credo che ogni suo complimento sia stato sincero al 100 percento. 

Da dove viene  "Ignorecam"? Sembra strano che degli uomini vogliano essere ignorati, perché noi non la prendiamo bene di solito.
Viene da un vero feticismo che penso che alcune persone abbiano davvero perché ho visto la pubblicità online di servizi per cui si paga delle donne per essere ignorati, c'è tipo una linea telefonica apposita. E ho pensato fosse un'idea davvero fantastica e davvero bizzarra, visto che è una cosa che si può tranquillamente fare gratis. La canzone viene anche dal fatto che nella nuova cultura di Internet si può continuare a seguire qualcuno su Twitter e Facebook ma mettendo il mute o bloccando questa persona. È un modo assurdo di interagire, come se ogni tuo contatto umano fosse costruito su misura. 

Non riesco a immaginarmi qualcuno come GG Allin o Iggy Pop eccitarsi con una cosa del genere. 
Forse invece è proprio quello che vogliono, visto che ricevono costantemente attenzione. Spesso, penso, le persone cercano ciò che non potrebbero mai trovare nella loro vita di tutti i giorni. È il motivo per cui ci sono sfigati che vogliono farsi strangolare dalle tipe ma di giorno fanno il turno serale a riempire gli scaffali al supermercato e abitano in casa con i genitori, o avvocati di grido che si fanno mettere il pannolino. Può trattarsi di un riflesso contrario della loro vita reale. 

Per loro è una fuga, ma i Pissed Jeans non ti lasciano scappare.
Un paio di album fa ho scritto un pezzo intitolato "Goodbye Hair" sull'arrivo della calvizie. Sta succedendo a me e un paio degli altri della band, e avendone parlato in una canzone ora non dobbiamo più preoccuparcene. Facci un pezzo sopra, parla della tua frustrazione, e improvvisamente la cosa non sarà più così grave, invece di indossare sempre un cappello e cercare di nasconderlo, quello crea molto più stress. 

La mia canzone preferita del disco è "I'm a Man". Come siete riusciti a coinvolgere la scrittrice Lindsay Hunter?
Siamo amici da un po', un paio d'anni. Ho scoperto tramite un'amica che è una fan dei Pissed Jeans e io avevo molto apprezzato i suoi libri, ci ero uscito di testa. Ha un'estetica simile a quella dei Pissed Jeans, con le dovute differenze tra letteratura e musica. Quando ascolti "I'm a Man" è così dolorosamente reale, non è una storia dell'orrore, non c'è un mostro che fa cose vomitevoli e sanguinose, è una persona vera, verosimile. Quando l'ho sentita per la prima volta mi sono venuti i brividi per l'imbarazzo e, sentendo la lista di descrizioni che usa per questo personaggio, ho immediatamente pensato "cazzo, quello l'ho fatto anch'io di sicuro". È stata perfetta, ha centrato in pieno tutte le cose che riguardavano anche me facendomi sentire male e in imbarazzo.

Fa impressione perché non è sopra le righe—non è scioccante come Trump che palpa le donne. È banale. È vero.
È facile cadere in questa trappola anche quando si cerca di stare attenti e badare al proprio comportamento. L'idea diffusa è che i violenti e gli stupratori siano solo dei poco di buono mascherati che aggrediscono sconosciute nel parco di notte, ma invece spesso si tratta di colleghi e ragazzi a posto. Non si tratta solo di urlare cose alle ragazze per strada, ma anche di parlare sopra una tua collega senza rendertene conto, o non includere una donna in un'attività dando per scontato che non le interessi. Sono quelle piccole cose che è più difficile notare, ma ci si può lavorare. Io stesso ci sto lavorando, non voglio sembrare il tipo che ha capito tutto e lancia insulti agli altri uomini. Sto solo cercando di essere una persona migliore, e molte di queste canzoni sono dirette a me stesso, oltre che agli altri. 

Che cosa c'è dietro a "Not Even Married"?
Quella canzone è una risposta ai tipi come me, più giovani di me, diciamo attorno ai 25 anni, che vivono una vita piuttosto ordinaria e quando vengono lasciati dalla fidanzata entrano nella fase da artista alla Ian Curtis. Ne sono completamente distrutti. Eppure non saprai mai cosa vuol dire soffrire per una rottura finché non ti troverai a negoziare il possesso della casa e la custodia dei figli. Trovo divertente che i giovani romanticizzino le loro rotture pur non avendo perso un granché. Non è da prendere come un trattato pensato e documentato al 100 percento, è uan canzone piuttosto impulsiva, ma a volte è bello scrivere in modo impulsivo. Non sai di cosa stai parlando finché non devi vendere casa tua e andare a vivere al piano di sopra di un bar con il permesso di vedere i tuoi figli soltanto nei weekend. Mi sto avvicinando alla fine del decennio degli amici che si sposano, e sto entrando nel decennio degli amici che divorziano. 

Vedere la depressione in modo romantico ti impedisce di affrontarla sul serio. 
Ci sono persone che fingono di essere depresse per fare festa e attirare l'attenzione. È veramente uno stile del cazzo da adottare di proposito. Nel corso degli anni abbiamo suonato un paio di volte con i Mudhoney, e nel backstage uno di loro ci fa: "Avete visto il Cobain Triste stasera?" A quanto pare, da anni ai loro concerti c'è sempre almeno un adolescente con la maglietta di Daniel Johnston e un cardigan liso che sta davanti al palco a guardarsi le scarpe con aria triste, nel tentativo di assorbire lo spirito di Kurt Cobain per come lo capiscono loro. Loro ridevano come matti—la gente lo ha trasformato in un idolo triste, ma non penso che Kurt Cobain volesse comunicare questo con la sua arte. "Tenete il broncio!" Quella è una cosa che lui avrebbe voluto non avere, e la gente l'ha resa la sua cosa speciale. Essere potenziali suicidi non è uno stato a cui aspirare. Se ti comporti così, non hai mai provato la depressione vera e non hai mai desiderato di suicidarti. Naturalmente è un'influenza importante per così tanta gente, ma non importa dove si trovano, c'è sempre qualcuno che imita Kurt e cerca di farsi notare, e di far notare quanto è triste. Se devi fare Kurt Cobain, salta su qualche batteria. 

Foto: Ebru Yildiz.

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La gita interstellare di Clap! Clap!

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Vi ricordate quando Cristiano Crisci si faceva chiamare Digi G'Alessio? Faceva elettronica acida e pulsante, e già nel 2012 diceva con orgoglio di non ritenere che le sue cose appartenessero a un genere specifico, concedendo solo un "sarebbe meglio ascoltare la musica e basta, captare quello che ti dà; credo ci siano dei grandi filoni culturali, e il mio è la black music." Inizialmente per "black music" potevamo intendere footwork, wonky e house (per quanto a lui non andasse giù); il primo seme di quello che sarebbe stato poi fu però un EP, Ivory, composto interamente da campionamenti di musica africana e versi di animali.

Da quando ha iniziato a farsi chiamare Clap! Clap!—con Gwidingwi Dema, uscito nel 2013—le intenzioni sonore che Crisci aveva fatto sbocciare in Ivory hanno iniziato a crescere organicamente. Insomma, basta sentire il pezzo di apertura di quell'EP, che si intitola (pronti?) "Please Mother Rain Wash Our Souls From Human Evil" e si auto-qualificava come "un'ipnotica danza tribale moderna", per rendersi conto di come la ricerca di Crisci si stava spostando pesantemente in territori africani ancestrali. 

Il botto, Cristiano, lo ha avuto con il suo primo LP, Tayi Bebba, uscito nel 2014 per la bristoliana Black Acre—che però, nonostante suonasse pesantemente africano, era composto per la stragrande maggioranza da materiale sonoro tratto dal patrimonio musicale delle tribù siberiane. Dopo un buon riscontro in Italia, sono iniziati ad arrivare cinque alti anche dall'estero—prima con il riconoscimento di un suo mix da parte di un'etichettina come Ninja Tune, poi del celebre DJ della BBC Gilles Peterson, e infine con la chiamata di Boiler Room. 

L'ultima grande soddisfazione che Cristiano si è tolto è stata La Grande Collaborazione™. Il figlio di Paul Simon ha infatti passato a suo padre Tayi Bebba, che l'ha ascoltato e ha deciso di contattare il Crisci per lavorare insieme al suo nuovo LP. "Quando è arrivata, il mio manager pensava che fosse uno scherzo," ha dichiarato in un'intervista a Internazionale. "Mi ha aperto un mondo su una parte della cultura blues e gospel statunitense che non conoscevo." E tanto per, ha pure firmato un contratto di distribuzione con Warp.

Proprio oggi esce A Thousand Skies, il suo secondo lavoro sulla lunga distanza. C'è sempre la black music e il tribalismo, certo, ma in questo caso sembra di intraprendere una sorta di viaggio cosmico. È un album molto variegato che passa dalla footwork degli esordi a paesaggi incantati, e che unisce ai campionamenti anche tantissime parti suonate dal vivo, creando una sorta di musica totale dal feeling più umano che in passato. Abbiamo fatto una chiacchierata al telefono con lui per tirare le fila del suo percorso finora.

Noisey: Ciao Cristiano, ricapitoliamo un po' il tuo percorso? Ho letto che hai cominciato dal rap, mentre ricordo bene che fino a qualche anno fa invece eri noto come Digi G'Alessio.
Clap! Clap!: È lunga, perché sono quasi vent'anni di cazzate, e anche poco interessante, però ti faccio la carrellata: ho iniziato tra il '95 e il '96 verso i 13, 14 anni come MC del 3gk che era una delle prime crew a Firenze—c'erano già gli Stamina 5 ma non c'era questa grande scena in Italia in generale, figurati a Firenze. È stata una cosa molto intensa per tutti noi, e infatti abbiamo continuato tutti a fare musica. C'è chi ha fatto etichette come Fresh Yo!Label, o gli Schoolboy Sound che sono diventati un soundsystem molto famoso in Italia, anche se ora hanno smesso. Ognuno ha preso la sua strada ma siamo rimasti molto legati alla musica. È partito tutto da lì.

Tu di che anno sei?
Dell'81. Poi, arrivati intorno ai primi 2000 sono cascato sul punk-HC come molti adolescenti e da lì ho iniziato a suonare il sax, e diedi vita al Trio Cane, che faceva jazz-punk. Abbiamo fatto un disco, abbiamo suonato un po' in giro per l'Italia, sempre nell'ambito dei centri sociali. È durata tre o quattro anni. Poco dopo, facendo anche jazz nei club in Toscana mi sono avvicinato sempre di più anche al funk, al soul, e da questo filone sono ritornato un po' all'hip hop. Ho messo tutto quanto insieme ed ho iniziato il primo progetto di musica elettronica, sempre di gruppo, che era A Smile for Timbuctu, nel 2005. Dopo questo ho fatto partire il mio progetto solista che era appunto Digi G'Alessio. 2008-2009 feci il primo EP, le prime cose, tutto in free download. Nel 2012 feci l'EP Ivory che mi folgorò, ero superfelice del risultato, e da lì ho deciso di concentrarmi su quella direzione: molto tribale, rivolta a sonorità più africane, etniche, meno elettroniche. E ho creato un nuovo progetto che è Clap! Clap! per andare avanti su quella strada. Ed eccoci qua.

Anche come ascoltatore immagino tu abbia spaziato molto.
Uh, tantissimo. Direi quasi a 360 gradi. Dall'ascolto accanito di hip hop all'ascolto accanito di hardcore e di punk, che poi ti portano a loro volta a scoprire tantissimi altri generi. Poi essendo sassofonista, oltre a esserci tutto il mondo del jazz c'è stato anche tutto il periodo della no wave, tutte le sperimentazioni legate al disco punk, o a cose come No New York. Il Trio Cane guardava molto a quelle cose lì: Pop Group, A Certain Ratio. Però il mio maggiore ascolto è sempre stato dedicato al jazz perché è una musica che mi ha sempre dato qualcosa su tutti i lati: sia per rilassarmi, sia per ballare, sia per l'ispirazione, per tutto. Gli ascolti principali rimangono là.

Dove vivi adesso? Stai all'estero?
No, sempre a Firenze!

Chissà perché ero convinto che stessi a Londra, forse per l'etichetta.
No, no, troppo caotico. Ho fatto un po' di giri, ho vissuto a Rotterdam, un po' in giro, ma poi sono tornato. In primis per la famiglia—abbiamo deciso di far crescere nostra figlia qua in Italia, e poi sono molto legato al territorio. Per quanto uno non ci sia legato a livello sociale, a livello politico, come penso il 99% degli italiani, ci siamo legati per tutto il resto. Sai il sole, il cibo buono... (ride, nda)

Dalla percezione che ne hai, il tuo è un seguito principalmente internazionale?
Eh, sì. All'inizio soprattutto è andato molto molto più all'estero. È uscito da Londra comunque, come progetto. L'Italia è arrivata un po' dopo, però c'è sempre stata dai, un po' anche per chi seguiva prima Digi G'Alessio, un po' perché comunque un pubblico per certe musiche c'è. Ora di più, sta andando meglio.

Poi magari c'è anche quel discorso che una cosa italiana viene percepita come figa solo dopo che se ne sono accorti all'estero.
Sì, è una routine. Però ho notato che non ce l'abbiamo solo noi: tutta l'Europa guarda sempre a Londra e Berlino, anche perché insomma sono città che hanno prodotto grandi cose, hanno fatto veramente cultura. Però sono contento comunque della situazione italiana, sia a livello di band che di produttori.

World music ma anche cose più nuove, un'impronta footwork…Tu come definiresti quello che stai facendo? Se vogliamo definire, che è sempre una cosa un po' antipatica.
Ma no, invece fa bene: è comodo, aiuta. Aiuta anche nella ricerca della musica. Descriverla però è molto difficile, per me è una rappresentazione di quello che vivo ogni giorno. Si vede anche nell'itinerario della musica di Clap! Clap!, dal primo EP all'ultimo album non ti dico che sono due musicisti diversi perché lo stile è molto personale, però la musica è molto, molto varia. Il primo EP è molto scuro, le ritmiche sono molto accentuate, è una cosa molto underground quasi tutta a 160 bpm con cassoni giganteschi. Nell'ultimo album invece ci sono proprio cantati melodici. In questi anni ho avuto una figlia, mi è cambiata molto la vita, e questa cosa si legge nella musica. Per me è una cosa legata, più che a un genere musicale, a quello che vivo ogni giorno: in un momento bello produco un determinato tipo di musica, nei momenti neri un altro. Non tanto ispirandomi a qualche artista, ma proprio a come sto, e vai: macchine e si registra. 

Secondo me in questo lavoro comunque si sentono anche delle forti radici hip hop.
Sì, sì, sì. anche perché tra le macchine usate per la registrazione dell'album ci sono l'SP 404 e l'MPC che sono praticamente le macchine principali del genere, con cui sono stati fatti la maggior parte dei beat, quindi anche in un discorso di sound e sonorità quello si sente molto. Quando registro dal vivo con le macchinette facendo le batterie a mano mi viene molto da andare su ritmi sui 98, 95 e si va subito su quel genere, ecco.

C'è anche un concept dietro al disco, giusto?
Il concept, come feci per Tayi Bebba, è un piccolo racconto che segue i brani. Tayi Bebba era un'isola dove succedevano delle cose, invece per A Thousand Skies è la storia di Agata, che è questo personaggio che si addormenta e inizia a sognare di viaggiare nel cosmo. Viaggiando tra le stelle le appaiono tutte quelle che sono la rappresentazioni greco-romane delle costellazioni, da Orione, il Toro, Andromeda... Le appaiono come sono descritte nella presentazione greco romana però con caratteri completamente differenti, fanno altre cose. Ho giocato su questa cosa qui, che segue molto l'idea cosmica dell'album e esprime il concetto di ritornare, alla fine di un ciclo, e trovare molti anni dopo il pianeta cambiato, che vive nell'amore e nella pace. Un po' come in Tayi Bebba, anche qui c'è un finale con pace e amore.

Tra il personaggio femminile e il fatto che hai avuto una figlia da poco c'è qualche legame?
Sì sì sì, senza dubbio è lei. Quando ho fatto l'album e ideato la fiaba Greta era appena nata, e io sono concentrato tutto quanto là, ed è abbastanza ovvio che la mia ispirazione al momento sia tutta su lei.

Campionamenti, ok, ma c'è anche molto suonato live.
Tantissimo. Nei lavori precedenti sono sempre andato a campionare da diverse parti del mondo, soprattutto all'inizio mi sono concentrato principalmente su posti freddi, come la Siberia, o le pianure della Mongolia, le steppe... e cercare di produrre ritmi caldi, come i ritmi tribali africani. Questa era la prima ricerca di Clap! Clap!, mentre ora è molto più concentrata su quello che è il nostro suolo, infatti ci sono tantissimi sample che vengono dall'Italia, non solo field recording miei ma anche di archivio, di Di Martino, di Alan Lomax. Per quanto riguarda i musicisti praticamente ho raggruppato molta gente con cui avevo già suonato, come la mia prima band, o i jazzisti con cui si suonava insieme. Dall'hip hop al funk al punk al jazz, con gli stessi musicisti, tutti insieme in una sala a registrare le nostre sensazioni. Questa era l'idea e sono molto felice di questa cosa. Soprattutto del risultato.

Chi suona il piano in "Ode to the Pleiades" ?
Nicola Giordano che è un mio carissimo amico, pianista fiorentino. Mi piace tantissimo quello che fa. Qualsiasi registrazione che abbiamo fatto è sempre stata fatta alla prima: momenti veramente belli e naturali.

Nel disco (nell'ultimo pezzo, davvero molto bello) c'è HDADD. 
C'è Marco, bravo!

Che a Noisey amiamo particolarmente, il suo ultimo disco è stato una nostra premiere. Che rapporto avete?
Siamo fratelli, fratelli da altri genitori. Ci assomigliamo anche: siam tutti e due piccolini con la pelata (risate). Con lui collaboro già dai tempi di Digi G'alessio, avevamo fatto Danse avec les loops che era il disco con Colossius, poi avevamo un progetto insieme noi tre, che era Brain Funk—lui all'epoca si faceva chiamare ancora Uxo e non ancora HDADD.

Io sono completamente innamorato della sua musica, soprattutto le interpretazioni della musica mediterranea che ha lui. Si sente tantissimo, anche se molte volte sono pad, droni (scusa il termine), però si sente tantissimo la sonorità mediterranea, che è una cosa difficilissima da fare, veramente. Soprattutto oggi. Questa cosa si sente in Edizioni Mondo, l'etichetta di Francesco, non solo per le scale ma parlo proprio di sonorità, e la sento da morire nella musica che fa HDADD. Per questo l'ho voluto nell'album e per questo ci ho sempre collaborato da dieci anni a questa parte. Ci sentiamo spesso e collaboriamo insieme, siamo veramente amici stretti.

Cosa pensi che A Thousand Skies abbia qualcosa in più, o anche semplicemente di diverso, rispetto al lavoro precedente?
Molte diversità. Molti lavori vecchi erano più basati sulla ricerca, sull'inventare dei suoni nuovi che non esistevano, basandomi su cose già fatte da altre persone: metterle insieme fino a trovare la sonorità che stavo appunto cercando all'inizio. Questa invece è stata molto più istintiva, perché essendo molto più suonato, molte delle registrazioni sono prese alla prima, e si sono tenuti anche gli errori. In passato ho sempre cancellato, rifatto... invece in questo album ho voluto tenerli per tenere il tutto più vivo possibile. Penso sia un disco un po' più umano.

Parlami un po' di Paul Simon. Come è andata?
Nacque tutto quando il mio manager mi scrisse "non so se è una bufala, è molto strano, ma sembrerebbe che Paul Simon voglia incontrarti per farti sentire le sue canzoni!" ti rendi conto? "Guarda, è una bufala" gli ho detto, "ma te prova, vai avanti". E invece era veramente lui che voleva farmi sentire delle canzoni, quindi già una cosa surreale. Ci siamo sentiti prima tramite management poi siamo entrati in contatto, è stato molto bello. Lui era rimasto molto colpito da Tayi Bebba e mi ha iniziato a parlare di Graceland e di tante cose di ricerca che aveva fatto lui, che aveva rivisto nel mio disco, e in effetti... lui lo ha fatto vent'anni prima e io in un'altra maniera, con un altro genere, però effettivamente ci sono molti legami. Non è soltanto la kalimba o l'indira o l'Africa, ma è proprio un discorso su come si va a ricercare sulla musica, in una maniera più spirituale, più realistica che invece soltanto relativa al sound come succede spesso. 

Comunque fissammo questo appuntamento, lui era in tour a Milano, ci vedemmo in hotel, aveva tutto l'album in fase embrionale nel computer, mi fece sentire e mi chiese cosa ne pensavo e soprattutto se c'era una canzone dove potevo sentire di metterci sopra qualcosa di mio. Io ci sono rimasto. La sua musica è molto diversa dalla mia, quindi è molto difficile, però mi piacque tutto, e scelsi una canzone. 

Mi mise in contatto con il suo sound engineer, che è Roy Halee. Fu assurdo perché quando mi scrisse Roy Halee, ancora prima di mandarmi i file, nella prima mail mi scrisse per complimentarsi per il suono di Tayi Bebba. E lui è l'ingegnere del suono di Bob Dylan, comunque. È uno che se ti fa i complimenti sul suono di un disco ci rimani veramente di stucco. C'ho la mail stampata! Avevo gli occhi lucidi.
Poi allora feci la prima canzone, e feci dieci take di questo primo pezzo, perché ci vai con i guanti sul lavoro di altri. Il primo take era quello che aveva fatto lui, con aggiunta giusto una drum machine, tipo. Nel take 2 c'era già qualche aggiunta in più... e man mano, nel take 6 avevo cominciato a togliere anche delle cose sue ,e il take 10 era praticamente un remix. Tutta la scala... con molto rispetto. E lui scelse il take 8! Ci rimasi! Era molto modificato, ed è "The Werewolf" poi più o meno come è uscita. Poi mi ha scritto che era molto contento del risultato finale, gli sembrava una delle canzoni più belle dell'album e se volevo farne un'altra. Da lì siamo arrivati a quota quattro, una non è finita nel disco, ma siamo a quota quattro. Una delle soddisfazioni più grosse della mia vita.

È anche uno di quei nomi di cui puoi vantarti, che ne so, con i tuoi genitori e sanno di cosa stai parlando.
Sì! È una pagina della storia della musica. Dopo questa cosa mi hanno messo su Wikipedia. Fantastico!

Un paio di mesi fa ho partecipato a un incontro al festival Jazz Refound sulle contaminazioni tra musica italiana e musica nera, e ho definito il lavoro tuo e anche dell'ultimo Go D ugong come "musiche post-tutto per un mondo post-globale", dicendo anche che "da italiani buttano fuori roba assolutamente slegata da qualsiasi identità nazionale, pastiche totali, fatti di sample o di parti originali, con ospiti dal mondo intero, frullati in assoluta libertà, ma senza poter prescindere da innegabili radici black". Ti ci ritrovi?
Pienamente. Anche DJ Khalab fa questo secondo me, in Italia fortunatamente sta venendo fuori un buon numero di produttori che non va molto a seguire troppo le mode estere ma cerca di crearsi una sua identità e un suo stile. Questo per me è l'abc di tutto. E più siamo e meglio è. E ci hai preso al 1000%, almeno per quanto riguarda me.

Dove vorresti arrivare? Quali sono i tuoi obiettivi?
Sto sereno. Basta, va bene così. Come dice Notorius B.I.G., "mo' money mo' problems". Starei tranquillo con la mia famiglia senza rompere le palle a nessuno. Ovviamente facendo la mia musica.

Federico non ascolta solo musica post-tutto, ed è anche su Twitter: @justthatsome

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Dieci cose su cui Moby aveva ragione, oltre ai rapporti tra Trump e la Russia

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Fotografia di Melissa Danis.

Se l'anno scorso qualcuno avesse detto, "Moby salverà la nazione," qualsiasi persona sana di mente avrebbe risposto, "Certo, sono totalmente d'accordo." Perché è così che si fa quando ci si trova di fronte alle parole di un matto: si fa cenno di sì con la testa e ci si sposta di un paio di metri. Ma dato che viviamo in tempi di matti, tanto vale cercare qualsiasi porto sicuro se il mare è in tempesta: Moby, veterano della techno etizio che posta foto di maialini su Facebook per San Valentino, va comunque bene come salvatore. 

Durante la settimana, Moby ha scritto sui suoi social che i legami di Trump con la russia erano verificabili, e tutti abbiamo detto un bel, "bravo!" Moby sembra una bella persona, diciamocelo. E anche se se ne esce spesso con delle frasi da John Schindler che si basano un po' troppo su amici senza nome e un generale affetto per lo stato profondo, qualche giorno dopo il New York Times ha pubblicato un articolo che confermava le sue parole, almeno per quanto riguarda le sue opinioni di intelligence. Anche se non tutte le sue accuse sono state dimostrare, ci accontenteremo di Moby come il nostro Nostradamus.

Anche se spesso viene definito un pioniere dell'elettronica, a Moby non viene spesso riconosciuta la sua capacità di prevedere eventi storici. Per spiegarci bene, abbiamo fatto una classifica di dieci persone, band e movimenti dietistici su cui Moby aveva ragione fin dall'inizio (e quando diciamo "aveva ragione" intendiamo "aveva abbastanza ragione"), da Eminem al veganesimo.


Eminem

"Nessuno ascolta la techno" è uno degli insulti più grandi della storia della musica pop, ma nel 2017 Eminem è ancora lì a rappare di donne stuprate e uccise. Quindi: fanculo. Il punto va a Moby. (Un punto un più perché la techno continua a spaccare.)

I Joy Division

Molto prima che gli Interpol iniziassero l'eterna guerra di baritoni sensuali e linee di basso tutte buh buh buh buh buh che imperversa da anni, Moby si faceva bello già nel 1995 apparendo su un album di tributo ai Joy Division, A Means to an End. Contribuì con una cover di "New Dawn Fades", tra l'altro fatta piuttosto bene. 

La musica nella pubblicità

Ok, questa non è necessariamente una cosa buona, ma tenete in mente che bisogna dare credito quando è dovuto. Moby si era accorto che poteva diventare schifosamente ricco con i suoi pezzi prima di chiunque altro. Vendette tutte le tracce di Play, il suo album del 1999, a qualsiasi azienda e brand interessato a metterlo nelle proprie pubblicità. E ora, grazie a lui, possiamo tutti comprare auto nuove sapendo esattamente che musica ascoltare ogni volta che la prendiamo su per fare due chilometri e andare all'Esselunga a prendere cinque casse d'acqua. 

La non-importanza dei testi

Nel 1997 Moby mandò a MTV una cover di "That's When I Reach For My Revolver" dei Mission of Burma a MTV, e il network gli chiese di cambiare il testo del pezzo. Quindi lo reintitolò "That's When I Realize It's Over," affermando che non credeva che il testo cambiato importasse qualcosa. Anche se vedere i testi e le parole come qualcosa di secondario e togliergli qualsiasi significato non è esattamente una cosa "giusta", ha sicuramente anticipato e predetto l'idiozia dei testi dei Chainsmokers e l'intera esistenza di Kellyanne Conway

Il cristianesimo

Prima che Moby smettesse di bere, era un cliente fisso di questo noto buco di culo newyorkese (ormai chiuso). Non credo di averlo mai visto lì, ma tutti gli skinhead mi sembrano la stessa persona. E c'è stato per quasi tutta la sua carriera, finché recentemente non si è dato al cristianesimo diventando tutto devoto. In entrambe queste sue scelte di vita, Moby anticipò il fuoco dell'inferno in cui stiamo vivendo ogni giorno. Insomma, tutti non vediamo l'ora di mollare 'sta vitaccia e venire accolti dalle porte del paradiso dopo esserci spaccati il fegato. 

Miley Cyrus

Prima che Miley facesse cover dei Replacements con Joan Jett e Laura Jane Grace, Moby si era già reso conto del suo potenziale alternativo. Nel 2014 girò un corto con lei e i Flaming Lips. Moby però non ha alcun merito nel lavoro dei Flaming Lips dopo Embryonic. Probabilmente nessuno lo vuole, quel merito. 

La prevalenza dei cori gospel nella musica pop

Questa me l'ha suggerita il mio editor. Dato che non ho mai ascoltato davvero Moby prima di oggi, devo fidarmi della sua parola. A me piacciono più gli Staples SIngers, ma trovare dieci cose su cui Moby aveva ragione prima di chiunque altro non è così semplice come i vostri genitori possono avervi datto credere. Quindi sì, dai, diciamo "la prevalenza dei cori gospel nella musica pop."

Il veganesimo

Anche se non è stato effettivamente un precursore del movimento, possiamo dire che Moby ha piuttosto ragione nel dire che gli animalisono una cosa molto bella. Inoltre guadagna punti per essere sempre stato un attivista per i loro diritti, senza essere sceso nella misantropia proto-razzista alla Morrissey. 

I VOID

Certo, chiunque può sostenere che i VOID o i Los Crudos non sono stati i migliori gruppi hardcore della storia, ma Moby adora i VOID, e continua a mettersi loro magliette per dimostrarlo. Dato che in passato faceva punk in prima persona, è molto improbabile che sia stato uno stilista a scegliergli i vestiti. E, come tutti noi adulti che ancora portiamo magliette dei gruppi, sembra un po' ridicolo ad averle addosso.

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Non ne posso più della nostalgia

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Le Cose di Giacomo è la rubrica in cui Giacomo Stefanini si lamenta delle cose che hanno a che fare con la musica o, più raramente, le racconta e basta.

A gennaio 2017 mi sono svegliato con un forte dolore agli occhi per aver passato tutto il 2016 a rotearli davanti alle folle che si strappavano i capelli per via di tutte quelle rockstar e popstar e scienzastar morte. Questo non significa che sono il più fico di tutti, ma solo che sono un triste cinico dal cuore di pietra, quindi compatitemi, ma non ho pianto nessuno dei morti che avete pianto voi l'anno scorso. 

Ora è il 2017, e quest'anno tocca a me. Infatti, nei primi giorni dell'anno, una rapida occhiata al computer mi ha fatto rendere conto di una questione molto più importante di tutti i vostri cantanti preferiti messi insieme: sono passati dieci anni dal 2007, l'anno in cui per vari motivi la mia vita ha preso una direzione nuova e di conseguenza un anno la cui musica ha lasciato un segno profondo nella mia mente. 

Visto che il giornalismo musicale è morto, va di gran moda pubblicare articoli che commemorano il decimo, ventesimo, venticinquesimo, quarantesimo anniversario dei dischi. Una cosa che dovete sapere di me è che io malsopporto la nostalgia, la malinconia non mi dà gioia; forse molti di voi sarebbero contenti di fare un tuffo nel passato, di lasciarsi investire dai ricordi, sorprendere dalle ricorrenze e, fra una lacrima e un sorriso, rimembrare ancor l'età dell'innocenza aiutati da una serie di madeleine musicali. Io no. Rabbrividisco al solo pensiero. 

Ed è questo brivido che ha suscitato in me la visione di questo articolo che celebrava i dieci anni di Person Pitch di Panda Bear. Una voce dentro di me ha detto: "Se Person Pitch compie dieci anni, tutto il 2007 compie dieci anni" e sono stato assalito dal panico. Ho pensato: "Dovrò passare tutto l'anno a schivare gli attacchi di nostalgia da ogni parte dell'universo musicale, sarà una guerra". E così mi è venuta un'idea. Fare tutto in una volta, subito, con uno strappo netto. Ascolterò tutta la musica che ascoltavo nel 2007 e sfogherò la mia frustrazione su di voi, sperando che il mio nervosismo valga come intrattenimento.

Blank Dogs - Diana (The Herald)

Io fui in prima fila nella Blank Dogs-mania e il mio 12" di The First Two Weeks è lì a testimoniarlo. Forse voi non lo sapete, ma per qualche mese, forse un anno o poco più, la scena underground mondiale impazzì per questo misterioso progetto lo-fi post-punk da cameretta, che fece scoppiare la "shitgaze" e che finì per dare vita alla fucina di musica di merda che conosciamo come Captured Tracks Records (ciao Mac DeMarco!). Ascoltare il primo Blank Dogs nel 2017 delude un po'; lo ricordavo mostruoso e malinconico, tanto che, non esistendo sue foto né notizie sulla sua identità, veniva da immaginarselo come un qualche tipo di mostro o di freak, un Elephant Man che incideva questa musica storta e grigia in una cantina umida—che, per chi arrivato a questo punto ancora non mi conoscesse, è da intendersi come commento positivo—e invece adesso mi viene da pensare soltanto a un tizio pelato in tuta che registra con GarageBand. Per carità, l'efficacia pop di "Leaving the Light On" non si discute, ma temo di aver lasciato tutto il mio trasporto per lui nel 2007.

Akron/Family - Love is Simple

Dio, mi si chiude lo stomaco e ho bisogno di una birra. Fatemi fare due conti: sì, è come sospettavo. Nel 2007 non avevo ancora avuto alcuna esperienza enteogenica, ma amavo parlarne e immaginarmi di averne. Il risultato è che questo album campeggia nella mia Expedit, entrato nella mia vita a causa di una fidanzata e di una simpatia passeggera per il mentore degli Akron/Family Michael Gira (che allora militava negli ottimi Angels of Light e non aveva ancora capito quanti soldi avrebbe potuto fare risuscitando il nome Swans). Se chiudo gli occhi mentre l'ascolto mi vengono in mente un mio amico che canta "Phenomena" con la voce buffa (bello), io che lo trovo in versione vinilica a Barcellona e lo compro (brutto) e degli americani bianchi ricoperti di perline colorate, coi sandali e i simboli dell'Om disegnati addosso, che parlano di pace interiore (molto brutto). Con tutta la psichedelia da fattoni bellissima che c'è in giro, mi dovevo affezionare proprio a questo. Ovviamente "There's So Many Colors" mi fa un po' venire il magone, e la stessa cosa vale per "Phenomena" e "Don't Be Afraid, You're Already Dead", sentimenti che accolgo con lo stesso calore con cui un vecchio leghista accoglie uno sconosciuto che gli entra in giardino.

Pink Reason - Cleaning the Mirror

Lo so che non parlo d'altro. Pink Reason è stato più volte su Noisey Italia che al pronto soccorso per overdose. Il fatto è questo: nel 2007 esce Cleaning the Mirror su Siltbreeze, un mio amico ne compra varie copie perché in Italia sarebbe stato impossibile trovarlo, e mi dice "Questo disco sembra fatto apposta per te". Dal primo momento che la puntina tocca il primo solco di "Goodbye" la scena è quella delle pupille in Requiem for a Dream. Che cos'è questa musica brutale, sgangherata, spettrale, che sembra registrata con il cappio al collo? È come se dentro di me ci fosse stato un buco a forma di Cleaning the Mirror fino a quel momento. Questo album non è tanto una questione di nostalgia per me, visto che lo ascolto tuttora piuttosto spesso, e quando non lo ascolto lo suono con la chitarra, da solo, così, perché sono una persona estremamente problematica.

Arcade Fire - Neon Bible

Questo fu il momento in cui la mia totale ignoranza del mondo musicale mainstream fece il giro e mi diede un grosso calcio in culo. Prima del fatidico 2007 non avrei mai pensato di essere in grado di apprezzare musica che non si potesse descrivere con aggettivi tipo "cessofonica" o "strafottente", ma credo che, a causa della mia sbornia intellettuale (pensate che in quell'anno mi sono addirittura diplomato), fosse arrivato il momento di sentirmi abbastanza fine da apprezzare violini ed ensemble di sette o otto persone sul palco, oltre a ricercate composizioni come queste. Pensavo che riascoltarlo oggi mi avrebbe traumatizzato di più, invece mi ricorda soltanto parzialmente la mia ex ragazza e il mio cuore resta il nocciolo di pesca cementificato che era prima. Però è un bel disco. 

Clockcleaner - Babylon Rules

I Clockcleaner erano già tra i miei preferiti da qualche anno grazie al loro fantastico album Nevermind, ma con questo LP superarono ogni aspettativa. Sono pervaso da brividi di imbarazzo durante "Vomiting Mirrors" ricordando quando la ascoltavo in cameretta a tutto volume, scapocciando come tuo zio quella volta che ti portò al concerto degli Slayer e bevve tre birre di nascosto. Tra l'altro nella mia testa sono il primo gruppo punk che ha riportato in auge i pezzi da più di cinque minuti e le punte di diamante nella rivalutazione collettiva dei Flipper. Uh, e c'è la cover delle Breeders che mi fece scoprire le Breeders. Ok, questo lo riascolto volentieri. Ah! Sono rimasto abbagliato da un flash di me che faccio air guitar davanti allo specchio. 

Dots - Demo

A proposito di strumenti assurdi, il 2007 è stato anche l'anno dei Dots, gruppo punk rock formato dai miei amici Marco, Alessandro e Andrea, che dopo aver inciso un demo bellissimo si trasformò in un'orgia semovente che arrivò a comprendere addirittura otto persone (un solo minorenne), compreso il sottoscritto. Quando qualcuno organizzava un concerto si aspettava di veder arrivare un trio punk rock chitarra-basso-batteria, invece arrivava una carovana di ubriaconi con chitarre supplementari, percussioni giocattolo, un sintetizzatore che mandava solo frequenze fastidiosissime (eccomi) e un tizio in tutina da supereroe che faceva cori in falsetto e ingaggiava gare di Campari con il pubblico. 

Con questo gruppo, nel 2008, siamo stati in tour negli Stati Uniti e abbiamo suonato sia con i Clockcleaner che con Pink Reason, quindi gli sfigati siete voi. Peraltro nel 2016 i Dots hanno ripreso a suonare, dopo sette o otto anni di tregua, questa volta con una formazione più o meno fissa e soprattutto senza il mio synth a disturbarli. Nessun bisogno di morire di nostalgia quando si possono vedere spettacoli come questo

Io ci ho provato, a esaurire tutta la fastidiosa nostalgia potenziale di questo 2017 in una sola giornata, se ce l'ho fatta o meno ve lo saprò dire a dicembre, certo è che ho passato diverse ore in uno stato di considerevole disagio e non vedo l'ora di mettere su i nuovi dischi che mi sono arrivati la settimana scorsa, tutti appena usciti. 

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Come diventare un DJ di successo senza saper mixare

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Essere un DJ o un promoter nel 2017 ha anche fare con molte altre cose oltre alla musica. Anzi, la musica rappresenta soltanto circa il 7% di quello di cui dovresti preoccuparti quando si parla di trovarti un posto in prima fila nel mercato della musica dance e della vita notturna. I giorni del volantinaggio ormai sono finiti; se vuoi farti notare devi pensare in modo creativo!

Ecco alcuni suggerimenti da seguire per assicurarti di diventare qualcosa di più di un semplice DJ o serata pacco. Seguendo i nostri consigli, diventerai un brand conosciuto e amato a livello internazionale. 

1. Foto per la stampa

Ok, hai trovato un nome (probabilmente brutto) e sai più o meno far funzionare un controller Pioneer, ma oh no! Ti sei dimenticato di farti fare una foto! Non preoccuparti, tutto quello che devi fare è chiamare il tuo amico che ha un DSLR e fargli seguire le regole che ti elenchiamo qua sotto, a seconda del genere musicale.

Techno — Sguardo per terra con aria spenta, interno capannone abbandonato o complesso industriale. Preferibile il bianco e nero. 

House — Sorridi guardando per terra, interno capannone abbandonato o complesso industriale. Preferibile il bianco e nero.

Garage/Grime — Sguardo serio sulle scarpe da ginnastica, interno capannone abbandonato o complesso industriale. Preferibile il bianco e nero.

2. Meme

Non basta essere bravi DJ. Devi mettere sul tavolo qualcosa di più di una buona collezione di dischi e la tecnica base di mix. La stessa cosa vale per chi organizza feste—ci sono altre cose a cui pensare oltre a dare alla gente una serata che ricorderanno per il resto della loro vita. Devi far ridere, e intendo far ridere davvero. Roba tipo condividere una foto di Willy Wonka con sopra scritto "E così hai appena preso dell'MDMA e la musica house ti ha cambiato la vita?" oppure una foto di un gruppo di hobbit che si abbracciano con la scritta "Quando ritrovi i tuoi amici in discoteca". Queste sono le immagini che ti fanno spiccare come persona speciale. Non il solito DJ, non la solita serata, no, qualcosa di più grande, capace di regalare un sorriso, capace di far scoppiare a ridere anche il più cinico dei veterani. Posta i meme liberamente e in grandi quantità; meme taglienti, meme straordinari, meme culturalmente rilevanti, meme potenzialmente sessisti che nessuno denuncerà perché tutti hanno già preso i biglietti per venerdì prossimo. Postali su ogni piattaforma e tocca il cielo con un dito. 

Via Flickr.

3. Serate a tema

Cercate un modo per distinguervi? Perché non organizzare una serata a tema? Invece di affidarvi alla solita formula trita e ritrita della stanza buia con le luci colorate che si accendono e spengono, perché non sperimentare un po' con decorazioni e costumi. Ecco un'idea: Alice nel Paese delle Meraviglie—un riferimento culturale perfetto, tanto che viene da chiedersi come mai nessuno lo abbia mai usato! Oppure una serata di carnevale, cowboy contro indiani... qualunque cosa tu faccia, ricorda: la club culture non morirà finché ci saranno maschi vestiti da orsacchiotti che organizzano gare di braccio di ferro in discoteca. Ehi, ecco un'altra idea: una serata a tema "morte del clubbing" in cui tutte le ragazze vengono vestite da racchetta da ping pong e tutti i ragazzi da hot dog giapponese.

4. Hashtag

Tecnicamente la serata che hai organizzato non può esistere se non c'è una hashtag per ogni cosa che posti su Facebook, Twitter e Instagram. Qualcosa tipo...

#MakeTwoStepGreatAgain
#NonMollareMai
#StaiSerenaSorella
#VaiColFunky!
#IlClubbingPerfetto
#SerataIndimenticabile
#SaveTheDate
#LaNotteÈNostra
#Indimenticabile
#NotteInfinita

5. Cose matte

Quando fai il DJ, le tue azioni lontano dai piatti sono tanto importanti quanto quello che ci gira sopra. Per questo è importante mantenere alto l'interesse nel tuo marchio personale tramite le cose matte. Le cose matte servono per mettere in evidenza il tuo senso dell'umorismo e per guadagnare importantissimi like e condivisioni. Perché non fare qualcosa di fuori dall'ordinario come un DJ set improvvisato dentro un Outlet del Kasalingo? O invitare un gruppo di fan a fare after all'ostello? O fare un video live su Facebook mentre cerchi di mangiare un copertone? 

Via Flickr.

6. Devi farti Snapchat!

Ci sono un botto di filtri e puoi scrivere sulle foto!

7. Metti su Instagram le hall degli hotel e degli aeroporti, oltre ovviamente a ogni tuo pasto

Non limitarti a dire di essere ad Amsterdam, provalo facendo una foto alla tua birra da aeroporto con la didascalia: "Colazione dei campioni! Praga, stiamo arrivando!" Post come questi sono cruciali per il tuo brand. Se non condividi la foto di un tuo amico che fa finta di strusciarsi sullo spatafillo nella hall dell'albergo a Dusseldorf, come faremo a sapere che sei un DJ internazionale? Come facciamo a sapere che non sei soltanto FAKE NEWS?

8. Impara a usare le emoji

Ok, lo ammettiamo, molti di questi consigli richiedono molto tempo. A volte, le parole rischiano di complicare inutilmente un concetto, come cercare di usare un armadio come fermaporta. A volte serve qualcosa di più semplice, di più delicato: l'arte delle emoji. Fidati di me, questo sarà di grande aiuto per il tuo brand. Ecco, a grandi linee, come usarle:

= per ritwittare un altro DJ che ha scritto che ieri sera hai spaccato.

= Questa emoji significa che sei tornato in studio e le canzoni stanno venendo fuori molto bene.

= La perfetta didascalia per un video di te che fai completamente impazzire la sala grande con un drop.

= Per accompagnare il classico tweet "Non vedo l'ora di arrivare da voi, Arezzo!".

= Questa va bene sotto alla foto della pizza con scritto "Pizza Time!".

9. Impara ad apprezzare il clickbait

Facebook è una piazza molto, molto affollata, e tu devi stare attento a che il tuo pubblico non venga distratto da nuovi DJ più sexy di te, o da feste con coriandoli più colorati. Come fai? Facile. Postando una flusso costante di articoli con titoli come Dieci baby-celebrità che sono cresciute veramente in fretta Provate a mangiare di nuovo delle pepite di pollo dopo aver visto questo videoQuesto cane si è innamorato di un aspirapolvere, GUARDA IL VIDEO! puoi stare sicuro che nessuno staccherà gli occhi dalla tua pagina Facebook. 

10. Compra i like

Se nessuna di queste cose funziona, non preoccuparti. Basta pagare. 

Foto in alto via Flickr.

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Noisey Mix: Yan Kin

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Il mix di oggi si chiama "El mix", ed è del producer cileno, da tre anni stanziato a New York, Yan Kin. Yan Kin altro non è che la pronuncia fonetica inglese del suo vero cognome "Llanquin", che usa per intero come Hector Llanquin, nella miriade di altre attività che porta avanti a New York. Hector è nato a Santiago de Chile, e, prima di trasferirsi negli USA, ha vissuto per un periodo in Messico, dove è nata una splendida collaborazione con la crew NAAFI. Citando la breve bio presente nel suo sito, "i suoi lavori esplorano le relazioni tra la cultura dell'utente, il techno animismo, le teorie del complotto e gli immaginari latino-americani in tutta la loro tensione tra modernizzazione e tradizione." Oltre a produrre musica, Hector è infatti anche un visual artist, web developer, grafico, videomaker, perciò le tematiche di cui sopra si manifestano sotto forma di video, stampe, render, simulazioni digitali, scultura.

Non è una novità che il connubio tra tecnologia, politica e arte sia cruciale, sia cruciale, di questi tempi, per la lotta al conservatorismo elitarista da quattro soldi delle nuove leve destrorse. Il mezzo digitale assume una dimensione a sé stante, dove consumare e praticare il proprio atto di resistenza, anche a costo di "trattare le coscienze come ennesimi brand", citando un vecchio stato di Hector su Facebook che mi aveva colpito, diventa una necessità. Soprattutto perché il dibattito non trova altro habitat che quello.

La sua musica trasuda un'urgenza espressiva e rappresentativa dell'esperienza a cavallo tra le Ande, il Messico e gli Stati Uniti, in cui high-tech ed eredità mapuche si completano a vicenda. Questo mix ne è il dipinto più cristallino.

Tracklist:
01. Kawin - Mapuche chant
02. Yan Kin - Mapurbe
03. Esplendor Geometrico - Dynamo 3
04. Nar - Azan
05. Paul Marmota - Terra Incognita (unreleased)
06. Tariq - My lame Crew
07. DJ LyCoox - Bad News
08. Azul y Negro X Mr Oizo X Yan Kin - Temple
09. Novelist - Ignorant And Wot
10. Lou Kessler - Difference And Repetition
11. B.T.C. LAB - 4526-Tess
12. Shygirl - Want More
13. My Sword - Restricted
14. Pu - Tu'u Hotu Iti

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La poetica dell’opera aperta di Umberto Eco nella musica elettronica

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Alla fine degli anni Cinquanta, Umberto Eco entrò in contatto, lavorando negli studi RAI di Milano, con i maestri Luciano Berio e Bruno Maderna, tra i primi fautori del movimento elettroacustico nel nostro Paese, e conseguentemente, oltre che con la loro musica, con quella di Stockhausen, Boulez, Pousseur (protagonisti della nascita della musique concrète), altri pionieri del genere elettronico di prima data che si trovavano spesso a passare da quelle parti. Berio e Maderna fondarono proprio in quei luoghi il famoso Studio di Fonologia, sulla scia dei centri istituiti già a Parigi e Colonia. 

Si stava scatenando un processo culturale rivoluzionario, attraverso la sperimentazione sonora della Neue Musik e del proseguimento della ricerca già avviata, tra gli altri, da Edgar Varese e John Cage. Lo stesso Eco definì Cage "il gran sacerdote del caso", in grado di rendere musica il silenzio e l'improvvisazione; una filosofia, più che una tecnica, che avrebbe influenzato la storia della musica del Novecento fino ad arrivare al jazz. 

La musica elettronica, prima ancora che diventasse un genere a sé stante (o quanto meno prima che assumere dei contorni a cui siamo più abituati nei nostri giorni), era ricca di questi aspetti metodologici. Il prologo alla nascita della musica elettroacustica coniugava lo studio quasi scientifico da parte dei suoi procreatori di una forma che contrastasse quella musicale/tonale più tradizionale. Di lì a poco si sarebbe diffusa in modelli più celebri, come la kosmische musik dei Tangerine Dream e dei Kraftwerk. In Germania, del resto, aveva da decenni preso vita la scuola di Darmstadt, dove Werner Meyer-Eppler suggerì la forza dell'alea nelle opere d'avanguardia sonora, ossia l'aleatorietà causata da uno sviluppo che non contempli un indirizzo stabilito aprioristicamente.

Il denominatore comune per ognuna di queste ricerche innovative ruotava costantemente intorno a quanto Eco definì la poetica dell'opera aperta, destinata a toccare corde inusuali dell'evoluzione musicale e del campo artistico in generale. Ogni interpretazione è potenzialmente illimitata e va intesa come una forma di esecuzione. L'opera rivive una nuova prospettiva attraverso la comunicazione con il fruitore, assume una terza cornice. Pousseur li chiamava "atti di libertà cosciente", concettualmente riproducibili nella nostra mente in qualsiasi altra forma, liberi di muoversi. 

Un pensiero che sembra calzare con la metafora letteraria di Eco e con ciò che succede anche in Joyce (in Ulysses e Finnegans Wake), nella musica seriale e nella pittura informale: l'arte diventa un dialogo indeterminato, destrutturato. Deleuze e Guattari la definirono più tardi deterritorializzazione: simboli e concetti mossi puramente dall'ingegno della destrutturazione simbolica, che nel loro trait d'union portano a compimento un risultato concretamente vero, spoglio di canonicità.

La musica elettroacustica suscita questo sin dagli inizi: la polivalenza del messaggio estetico, più che della forma in sé, non è lontano da quanto avevano sperimentato nel Romanticismo tedesco Beethoven, Mozart, Haydn e da quanto continuarono su questi rimandi Liszt e Berlioz poco più avanti. Le metafore sonore e la forza motrice dell'immaginazione dominano un nuovo corso di idee che illuminano un percorso ancora molto ancorato all'irriducibile potenza delle parole, dei testi di accompagnamento. L'arte diventa un monito per aprire la mente, non per circoscriverla in un confine di cui già fa parte. Non comprimerla, inibire con l'aspettativa che debba mantenere determinati canoni, ma uscire dagli stessi, rendere la sua capacità di valorizzare l'immaginazione più vicina all'inesauribilità. 

Berio trovava analogie tra questo fenomeno e quello del comune linguaggio parlato: così come le parole sono simboli arbitrari scelti da noi in base ad un processo di relazione ai suoni, lo stesso, nella musica elettroacustica, è possibile attuarlo con il connubio tra strutture di note e modalità di impostazione non convenzionali delle stesse. Il continuum sonoro non è ascrivibile ad una regola, ma tecnicamente libero a ogni pensiero interpretativo.

Proprio questa pluralità di effetti e di concatenazioni sembra mancare alla definitezza tangibile dei generi e degli stili musicali più immediati, dove per la maggior parte dei casi non esiste uno schema scindibile, interpretabile, che vada oltre l'opera stessa. Si rimane confinati nei presupposti della logica, sia tecnicamente che concettualmente, restringendo il campo delle vere dispute emozionali e dei suoi effetti. Il concetto di base di un'opera "tradizionale" viene portato a termine in una durata ben stabilita (la musica radiofonica, per definizione, deve durare 3 minuti, per esempio), che oltre quel racconto non crea una prospettiva fuori dalla sua stessa cornice. Non entrano in azione altre componenti che dovrebbero stabilire una sintonia e uno stimolo strettamente cerebrale. La parte più immediata di un testo o di una struttura musicale del pop (agli antipodi del discorso aperto) è quindi la medesima entro i cui confini si troverà la risposta alle sue intenzioni, non è concepita per evadere da questa essenzialità.

L'enfatizzazione di tale processo è, in altri modelli accettati in modo univoco dalla nostra percezione, un fenomeno quasi utopistico. Per dimostrarlo, nel 1958 Eco studiò e realizzò insieme a Berio Thema (Omaggio a Joyce), elaborazione elettroacustica incisa su nastro magnetico con la voce di Cathy Berberian (mezzosoprano, moglie di Berio durante quegli anni). Originariamente pensato per diventare una trasmissione radiofonica di lettura a fuga (come nel testo di Joyce), è la prova di due idee simultaneamente protagoniste (quella linguistica e quella dei suoni) che parallelamente si dislocano nei loro ruoli, senza seguire una partitura obiettiva. La decomposizione e l'accostamento degli elementi danno vita ad una dinamica a sé stante, molto simile a quella contrappuntista, dove comporre e ricomporre in maniera diversa causa l'effetto di straniamento dal normale. Una metamorfosi di due fattori che trasversalmente generano i loro spazi: parola, suono, poesia e musica non sono più distinguibili, ognuno in proiezione libera della propria natura.

Quando Eco nel 1962 scrisse infine Opera Aperta, si riferiva proprio a questo modus operandi dell'arte—tutta—che stava nascendo in quel periodo, alle sue sconfinate idee di associazione, che rendevano il fruitore una parte attiva e pensante. L'esatto opposto della comfort zone del pop più estremo (e della sua cultura) e dei generi regolarmente più fruibili. L'artista, in qualsiasi forma d'arte, consegna al ricevente un significato espressamente dischiuso alla percezione, antidogmatico, che attraverso l'intervento dell'interpretazione può subire un'indefinita possibilità interpretativa. I valori ascritti a questo tipo di poetica richiedono perciò maggiore attenzione, come successe quando Brian Eno descrisse l'ambient music "tanto facile da ignorare quanto interessante", perché nessuno era così abituato ad ascoltare attentamente un pezzo che in cinque minuti cambiava natura da un momento all'altro, in maniera polimorfica. La trama non era predeterminata e diretta da una necessità di coerenza, di sintesi, e questo era un problema.

Eno diceva a questo proposito che l'unico modo che abbiamo per uscire dai muri di razionalità dentro cui ci precludiamo di stare è servirci dell'arte per abbatterli. L'ambient prende corpo partendo proprio dalla sottrazione del necessario e dal conseguente incremento dell'arbitrarietà rappresentato dall'arte. Solo qualche settimana fa, ha accompagnato al nuovo album Reflection un'app in grado di generare lo stesso brano musicale in versioni potenzialmente infinite, sempre diverse, ogni volta che la si voglia ascoltare. La versione "generative", appunto, che altro non è che l'opera aperta traslata nel nostro futuro. La sfida ad interpretare un'elaborazione che non sta riproducendo qualcosa già sentito - ma si sta rigenerando - è ciò che è insito nella fenomenologia mossa da Eco, più di mezzo secolo prima.

Il rapporto tra uomo e macchina, mente artistica e mente interpretativa, sono solo alcuni dei punti che mette a fuoco la poetica dell'opera aperta del filosofo piemontese, ispirato da quanto la musica elettronica stava definendo già a metà Novecento. Del resto, come disse Bill Bernbach, pubblicitario statunitense protagonista della rivoluzione creativa proprio negli anni Cinquanta, "le regole sono quelle che l'artista spezza; nulla di memorabile è mai uscito da una formula".

Giovanni scrive di musica per il sito AuralCrave. Seguilo su Twitter: @storiesonvenus.

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Ascolta in anteprima Forget, il nuovo album degli Xiu Xiu

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"The Call", il primo pezzo del nuovo album di quella splendida creatura queer e multiforme che sono gli Xiu Xiu di Jamie Stewart finisce con le parole, "CLAP CLAP CLAP BITCHES / WHY WHY WHY BITCH / WHY WHY CUNT / WHY WHY WHY WHY WHY," sguaiate e sgraziate. Non la scelta più accomodante, ma al contempo la chiave di lettura di tutto il progetto Xiu Xiu: lasciarsi andare alla nostra individualità, accettare i nostri difetti e i nostri feticci in una celebrazione di tutto ciò che è realmente umano e non imposto da leggi sociali di frattura. E farlo con l'elettronica, il noise pop, l'art rock come base. 

Insomma, Stewart è sempre stato un artista pronto a denudarsi in tutta la sua fragilità, quasi umiliandosi nello stimolare i suoi stessi nervi scoperti—per dirne uno, il video di "Dear God I Hate Myself" non è altro che la sua compagna di band Angela Seo che si ficca due dita in gola e vomita mentre lui si mangia una tavoletta di cioccolato. Credo che alla base di ciò che fa ci sia, in fondo, un tentativo di normalizzazione: se vogliamo che (per dirne tre) i disordini alimentari, la depressione e il sesso anale non siano più dei tabù, tanto vale parlarne aprendosi completamente al mondo. 

Forget, il nuovo LP degli Xiu Xiu, esce venerdì 24 febbraio per La Tempesta International ed è un'altra grande dimostrazione del potere liberatorio e confessionale della loro musica. Lo potete ascoltare da oggi, in anteprima, su Noisey. Abbiamo anche fatto due domande via mail a Jamie, che ci ha anche mandato un piccolo paragrafo in cui ci racconta una cosa che gli è successa a Firenze per introdurre l'ascolto. Trovate la nostra conversazione sotto lo stream. 

Ciao. Se state ascoltando questo disco, grazie. Stasera, a un concerto a Firenze, ho lanciato un tamburo in aria e mi è caduto sulla fronte. È stato un casino. Ho perso un sacco di sangue, ma è tutto ok. È stata una stronzata, ma è stato anche abbastanza divertente.

C'è un pezzo, su
Forget, che parla di un pianoforte, un'armonica e un sassofono che mi cadono in testa. Quindi mi sembrava di dover parlare di quello che mi era successo davvero. Ieri sera stavo lavando i miei calzini nel lavandino dell'hotel. Uno mi è caduto nel bidet mentre lo stavo asciugando con il phon. Per qualche motivo, mi ha dato un sacco fastidio—ma ero già piuttosto ubriaco, quindi chissà che cosa mi stava davvero dando fastidio.

Poi ho letto che cosa fosse una "Derby's dose" e ho pensato a come la gente stia distruggendo la Terra perché sanno di non meritarsi di vivere su questo pianeta miracoloso. Se guardate che cos'è, potreste pensare che siano solo i bianchi a non meritarsi di vivere qua sopra. Ma perché vorreste mai vivere in un luogo dove è successa una cosa del genere? 

Abbiamo scritto
Forget per voi e speriamo davvero che vi piaccia molto. 

Noisey: Come avete conosciuti i ragazzi della Tempesta? È molto bello che stiate lavorando con un'etichetta italiana.
Jamie Stewart: 
Siamo molto felici di lavorare con loro! Ce li hanno presentati i Father Murphy, che sono nostri cari amici. E cantano sull'album, tra l'altro. 

Come spiegheresti il tuo uso della parola Forget? Personalmente, in questo momento la collego al mio tentativo di dimenticare quanto il mondo stia facendo schifo, in questo momento. E in questo senso, la musica può essere un catalizzatore della mia attenzione e far sì che la mia presa male si faccia da parte. 
Dimenticare è qualcosa di preoccupante, super personale e individuale, ma al contempo inevitabile. Può essere liberatorio, per esempio—come hai notato—nel modo in cui può farti mettere da parte il mondo perverso in cui stiamo vivendo, o può essere tragico. Dimenticare la voce di tua madre dopo che è morta. Ma è qualcosa di universale: scompariremo, noi e qualsiasi cosa mai potremo chiamare nostra. Nel bene e nel male. 

Mi sembra ci sia un senso di tensione e disperazione che attraversa tutti i pezzi dell'album, anche se non lo percepisco come qualcosa di deprimente—anzi, mi sa di liberatorio. C'è un sentimento, o un'idea, che secondo te collega tutti i pezzi? 

Mi ritrovo in quello che dici, per me è così. È un disco che parla di paura, tensione, preoccupazioni e tristezza, ma lo fa in un modo per noi inedito se guardiamo al nostro passato. Prima, ci aggrappavamo a sensazioni come queste, le esaminavamo e le dissezionavamo. Su questo album non ci tiriamo indietro dai loro confronti, ma ci approcciamo al nostro sentire da una direzione super naturale, subconscia e non lineare. Così da renderlo curioso, interessante e strambo più che meramente oppressivo. 

Tra tutto ciò che canti, l'immagine che più mi ha colpito è quella degli strumenti che ti cadono addosso in una sorta di scenario da fine del mondo, in "Get Up".

Sono aperto a qualsiasi interpretazione, ma per me quel pezzo parla di come a volte ci comportiamo da idioti nonostante i nostri errori o gli incidenti che ci capitano. Sono una metafora per rappresentare una reazione esagerata allo stress, ma anche un tentativo di trovare un po' di spirito nel fare i matti.

Avete scelto di devolvere tutti i profitti del vostro Bandcamp ad ACLU per i prossimi quattro anni, ed è una cosa fantastica. Come sta andando? Prenderete altre iniziative di protesta e resistenza alla presidenza Trump?
Ci sta arrivando un sacco di supporto. Abbiamo già raccolto diverse migliaia di dollari, e raddoppieremo ogni offerta ricevuta. Continueremo a protestare con regolarità, chiameremo i nostri parlamentari e scriveremo lettere. Se tutto andrà bene non dovremo ricorrere a misure più drastiche, spaventose o violente. 

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La guida di Noisey al Death Metal in Italia

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Il death metal in Italia non ha mai trovato grande seguito, nemmeno nella prima metà degli anni '90, quando per cinque minuti in Paesi evoluti come la Svezia o l'Inghilterra suonare il metallo della morte riuscì addirittura ad essere figo (per quanto incredibile, è un concetto ribadito anche da Albert Mudrian nel divertente Choosing Death). L'ambiente dello Stivale, palesemente derivativo e destrutturato, persino nel momento di maggior interesse globale verso il genere aveva avuto difficoltà a produrre degli album di valore e non aveva ricevuto grandi attenzioni da parte degli addetti ai lavori. Per capire l'interesse riservato al death metal dalle nostre parti basti sapere che il debutto degli Electrocution, Inside The Unreal, ça va sans dire uno dei lavori nostrani migliori del tempo e oggi titolo ricercatissimo dai collezionisti, uscì per una sussidiaria di Contempo, l'etichetta fiorentina che distribuiva Diaframma, Perigeo e le versioni italiane dei titoli 4AD; non certo una realtà radicata nell'humus estremo. 

Fu per questo che, al cambiamento verificatosi intorno al 1995 e riassumibile sostanzialmente nella perdita di interesse da parte del mercato discografico in questo tipo di corrente, lo scalcagnato microcosmo italico non aveva assolutamente la forza sufficiente per sopportare lo scossone e rimanere in piedi.

Così, questo passaggio di moda, se nel resto del mondo portò allo scioglimento di alcune ottime formazioni e lasciò indenni solo i gruppi più solidi, in Italia portò a un'interruzione delle attività pressoché totale, e anche i pochissimi che prima del '95 erano arrivati a pubblicare un album nel giro di un attimo scomparvero o cambiarono radicalmente la propria line up. Qualcosa ricominciò a muoversi, molto piano, solamente a ridosso degli anni 2000, ed ecco perché in Italia non si può parlare di una scena death metal, ma ogni gruppo bene o male ha fatto, e fa ancora, storia a sé.

Allo stesso modo, dalle nostre parti è molto raro trovare una band che sia riuscita a mantenere un nucleo forte tra le proprie fila, tanto che sono numerosi i casi di formazioni completamente rivoluzionate tra un album e l'altro e ci sono addirittura situazioni in cui nell'organico attuale non è rimasto proprio nessuno dei fondatori. Nonostante queste premesse a dir poco traballanti, però, nel 2017 la penisola è comunque in grado di farsi valere grazie a diverse realtà interessanti e, in qualche caso, uniche anche nel panorama internazionale; da proposte più romantiche e impegnate, ad altre strafottenti e caciarone, senza dimenticare realtà più serie e per puristi o produzioni finemente cesellate per il mercato di massa, per quanto possa esserlo quello di un genere la cui poetica si fonda su doppia cassa, cantato tubercolotico, violenza, decomposizione, immaginari horror, blasfemia e amenità di sorta.

Proprio da chi dell'immaginario horror e della blasfemia fa volentieri a meno vale la pena cominciare: i parmigiani Dark Lunacy, che sono uno di quei gruppi che tanti in giro per il mondo ci invidiano. Concentrandosi su tematiche alte e ricercate, gli emiliani da sempre infondono nella loro musica una fortissima impronta emotiva, a tratti raffinata, mutuata dalla passione del frontman Mike per la cultura russa e per i suoi grandi scrittori classici. Nel 2006 trovarono la definitiva quadratura del proprio cerchio portando queste influenze al livello successivo nello splendido The Diarist, un concept album dedicato ai novecento giorni di assedio di Leningrado, creando un perfetto connubio tra storia, letteratura e death metal. Questioni personali portarono poco dopo all'allontanamento tra il suddetto Mike Lunacy ed Enomys, suo compagno sin dagli esordi e fino ad allora autore di tutte le musiche, ma ancora oggi la band, pur se completamente rinnovata nella sua lineup e senza aver mai più toccato le vette altissime di oltre dieci anni fa, continua a scrivere ottima musica (di recente ha tagliato il traguardo del sesto album con The Rain After The Snow) e riscuotere successi in giro per il mondo, soprattutto oltreoceano. Come sempre, nemo propheta in patria.

Il nostro underground però può venire in soccorso anche di chi si intende poco di letteratura classica e cerca ascolti leggermente meno impegnati, magari in chiave cialtrona. I Cadaveric Crematorium, da Brescia, rispondono a questa specifica esigenza: figli bastardi di grindcore e brutal death metal, dall'inizio degli anni Duemila hanno vomitato in modo più o meno (ir)regolare album uno più scemo dell'altro, sempre divertendosi come pazzi. Il miglior episodio è sicuramente Grindpeace (Punishment 18, 2008), un'accozzaglia di rutti, urla, blast-beat, cover dei Guns 'n' Roses, citazioni dell'opera, omaggi a Quake III Arena e altro ancora. Roba da far impallidire il miglior psichiatra, ma anche il più recente One Of Them (The Spew, 2012), per quanto meno vario e imprevedibile, regala dei momenti interessanti. Trattasi di un concept album (nientemeno) dalle premesse narrative di grande valore: l'umanità, controllata mentalmente dal cattivo di turno, in un dato giorno ad una data ora, molla una scoreggia collettiva che modifica l'angolazione dell'asse terrestre, allontanando il pianeta dal Sole e facendone un'infertile landa desolata pullulante di aberrazioni mutanti. Un'epopea di grande pathos, raccontata a suon di bestemmie e grida suine.

D'altro canto c'è anche chi, pur abbracciando i canoni del grindcore, in canzoni da due minuti scarsi imbottite di doppia cassa e riff al cardiopalma infila il nichilismo più oltranzista. Maestri di questo (dis)ordine sono gli astigiani Cripple Bastards, che guidati dal cantante Giulio The Bastard si sono via via spostati dal noise/hardcore degli esordi per spingersi in territori più metallosi, tanto da approdare addirittura su Relapse, una delle etichette più specializzate in ambito deathgrind, per il rilascio del loro ultimo Nero In Metastasi (2014), a testimonianza del livello qualitativo di un gruppo che non teme alcun confronto. Pietra angolare del combo piemontese è l'imperituro Misantropo A Senso Unico, che nel 2000 già conteneva importanti spunti di riflessione come Non Servire A Niente (È La Tua Sorte) o Sbocco Nichilista. Quando l'hardcore più antiumano incontra la velocità del death metal non possono che uscirne dei dischi felici, fedeli a un socialismo degno dei Napalm Death più radicali.

Un altro nome che fa dell'ibrido tra differenti generi (e del nichilismo) il proprio marchio di fabbrica è quello dei Fuoco Fatuo, trio recentemente diventato quartetto e dedito ad una delle deviazioni "classiche" del death metal, ossia la mescolanza al doom. Già noti ai lettori di Noisey per essere stati tirati in ballo quando fu il momento di decretare la provincia più metallara d'Italia, i Nostri hanno una ricetta magica a base di suoni asciutti, tempi dilatatissimi e canzoni da dieci, dodici minuti con sì e no settanta parole ciascuna. Coerentemente con l'immaginario sepolcrale che vogliono evocare, i Fuoco Fatuo tentano di mantenere attorno a sé un alone di mistero, ad esempio suonando interi concerti con un telo nero appeso davanti, impedendo al pubblico di vedere sul palco altro che sagome. La volta che ho osato chiedere la ragione di questa scelta al frontman mi sono sentito rispondere: "non si chiede perché, credo la cosa sia già alquanto nichilista di per sé", appunto. Qualsiasi sia il significato da attribuire a queste parole, devono aver avuto un buon effetto su chi di dovere in Profound Lore, una delle label indipendenti più eminenti del panorama statunitense, visto che il nuovo Backwater, previsto per il prossimo aprile, uscirà sotto questa egida.

Qualora, al contrario, queste derive non dovessero essere di gradimento, si può sempre cercare rifugio tra chi il death metal lo interpreta ancora secondo i crismi di venticinque anni fa, tra l'altro sempre rimanendo a Varese. 

Sarà l'aria particolarmente sporca di quelle parti, ma dalla provincia dei sette laghi arrivano anche i figli non riconosciuti, benché riconoscibili, di Carcass e At The Gates: i Soul Rape. Il quartetto fa di tutto per far scendere la lacrimuccia nostalgica degli anni '90, tanto che per l'artwork di copertina del suo (per ora) unico album, Endless Reign (Punishment 18, 2015), ha chiesto gli illustrissimi servigi nientemeno che di Dan Seagrave, IL maestro indiscusso dell'illustrazione death metal in persona, artista il cui pennello ha dato un volto ai lavori di più o meno chiunque, dai Morbid Angel agli Edge Of Sanity, passando per Benediction, Suffocation, Entombed, Nocturnus, insomma, chiunque. E, a questo punto, anche dei Soul Rape. Peccato solo che la band sia poco attiva e pubblichi materiale col contagocce, ma è un problema logistico che devi mettere in conto quando il tuo batterista è entrato in pianta stabile nei Node (altra formazione storica del sottobosco lombardo), il tuo cantante e compositore principale è architetto in Svizzera tedesca e il tuo bassista è un violoncellista dell'Arena di Verona. Chi dice che il death metal è un genere ignorante?

Sempre per la serie "metallari colti", i Soul Rape si attestano solo sul secondo gradino del podio, perché il primo è occupato dai bergamaschi Veratrum (che potete ammirare nella foto in copertina), alfieri di un ottimo ibrido tra black e death metal, sulla scia dei Behemoth più truzzi, ma con molte più tastiere, probabile retaggio del frontman, chitarrista e principale compositore Haiwas, che musicalmente nasce proprio come tastierista. "Metallari colti", dicevo, perché il buon Haiwas, oltre ad essere studioso di Satana, è studioso in generale: appena terminato un dottorato di ricerca a Oxford, per festeggiare il trentesimo compleanno l'Università Statale di Milano ha deciso di offrirgli una cattedra. Spero che il ruolo di docente non lo distragga troppo dai suoi doveri musicali, visto che i Veratrum sono una delle band più divertenti e interessanti degli ultimi anni: oltre al tamarrissimo uso delle tastiere, i Nostri sono anche uno dei pochissimi gruppi a cantare in italiano e a sviluppare la propria musica secondo dei concept ben definiti. Nel caso di Sentieri Dimenticati (originariamente autoprodotto nel 2012) si parlava di città mitologiche, mentre Mondi Sospesi (Beyond, 2015) si concentra specificamente su Babilonia.

Una formazione che invece originariamente si proponeva affine ai Veratrum, o per meglio dire, un'altra band che voleva fare i Behemoth, erano i Death Heaven, che dall'alto vicentino se ne uscirono con il discreto Viral Apocalypse nel 2007. Evidentemente insoddisfatto del risultato, il quartetto sparì dalle scene per quasi dieci anni, per ripresentarsi nel 2015 sotto il nome di Ad Nauseam con un disco a dir poco fulminante. Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est, uscito per la piccola ma specializzatissima etichetta ceca Lavadome nel 2015 è stato accolto positivamente pressoché ovunque, tanto da portare il gruppo di Schio fin proprio in Repubblica Ceca, sul palco del Brutal Assault, uno dei festival estremi più rinomati in Europa. La loro musica, che già ai tempi dei Death Heaven partiva da un inconsueto grado di difficoltà, è davvero complessa, senza per questo perdere l'approccio diretto e incazzato tipico del death metal. La cifra stilistica degli Ad Nauseam rimane ancora derivativa, dovendo tantissimo da un lato agli Ulcerate quanto a organicità nella composizione e dall'altro ai Gorguts in termini di sound, ma il livello raggiunto da questi ragazzi è sbalorditivo se paragonato alla media delle formazioni "di genere".

Di tutto possiamo rimproverare il metal italiano, specialmente il death, frammentato, sempre in ritardo e incapace di imporre un sound proprio e personale; c'è un elemento, però, che accomuna molte formazioni nostrane: la perizia tecnica. Gli Ad Nauseam sono infatti solo (tra) i più recenti di una lista particolarmente corposa di nomi che non teme confronti quanto a capacità di esecuzione e abilità allo strumento; tra i tanti, due nomi di punta sono i Gory Blister e i romani Hour Of Penance. I primi sono dei veri e propri alfieri del death italico, che ricadono in pieno nel discorso iniziale relativo alle difficoltà degli anni '90: formatisi nel '91, arrivarono al completamento del debutto Earth Bleeds solo nel 1999, ma per ragioni estranee alla band (Noise Records, l'etichetta con cui i nostri trovarono l'accordo, venne acquisita e la società acquirente scartò numerosi album già pronti e in procinto di pubblicazione, tra cui proprio Earth Bleeds) non vide la luce in modo compiuto fino al 2003. L'evento, comunque, non riuscì a fermare gli avvicendamenti interni alla lineup, da sempre molto instabile tolti il chitarrista Raff Sangiorgio e il battersita Joe La Viola, e per il secondo lavoro, l'ottimo Skymorphosis, si dovette aspettare fino al 2006. Sound asciuttissimo, ritmo frenetico e strutture articolate sono da sempre i tratti distintivi di una formazione che si formò a Taranto, ma si trasferì presto a Milano, dove con l'avvento degli anni '10, tra una sostituzione e l'altra, sembra finalmente in grado di rilasciare materiale a cadenza regolare (di poche settimane fa l'annuncio di un sesto album previsto entro l'anno). Evidentemente ispirati agli esponenti più tecnici della scuola americana, ma senza mai scadere in sterili virtuosismi e con una forte propensione al concept fantascientifico, questi veterani della scena nazionale si sono ritagliati una nicchia di fedelissimi in giro per il mondo e possono vantare anche la partecipazione di Karl Sanders dei Nile come cantante ospite nel quarto album, Earth-Sick (Sliptrick, 2012).

Gli Hour Of Penance d'altra parte sono, oltre che un altro consolidatissimo nome del panorama nazionale, lo spunto per aprire forse l'unica digressione plausibile in cui racchiudere più di un gruppo alla volta. Per quanto anche in questo caso diretta emanazione di una scena altra, quella statunitense capitanata dai primi Cannibal Corpse, Dying Fetus, Devourment e compagnia, l'Italia ha sparato più di una cartuccia in ambito brutal death metal, la corrente più animalesca e bestiale dell'intero genere. Antropofagus, Septycal Gorge e proprio Hour Of Penance sono ottimi esempi di brutallo alla mediterranea, poco noti alle grandi folle perché da questo Paese è difficile uscire, ma che nulla invidiano ad altre formazioni pur provenienti da nazioni improbabili, che però vantano ben più magnanimi riscontri di critica e pubblico. Prendete i Disgorge: perché dei Messicani che suonano brutal death metal (dei Messicani che suonano brutal death metal) devono "farcela" e degli italiani no? Mah. Sarà per questo che il quartetto di Roma, nell'arco della sua lunga e rocambolesca vita, si è pian piano allontanato dai suoni esordi, per avvicinarsi ad una forma sempre più orecchiabile e user friendly. Anche per loro, il progressivo ammorbidimento rispetto agli inizi coincide con un ugualmente progressivo ricambio dei musicisti, tanto che oggi nessuno dei membri originali fa più parte del gruppo. Questo non ha impedito al nome Hour Of Penance di continuare a produrre musica, e anzi di divenire via via più riconosciuto man mano che l'evoluzione procedeva. Freschissimi del lancio di Cast The First Stone (2017, Prosthetic), i quattro hanno appena tagliato il traguardo del settimo disco in studio e sono uno dei nomi più affermati del death metal italiano nel mondo.

Il primato assoluto come gruppo più famoso e che ha ottenuto il maggior successo, pur partendo da un ambiento disagiato come quello nostrano spetta infine ad una band che con gli Hour Of Penance ha in comune molti punti di partenza: i Fleshgod Apocalypse. Nati nel 2007 proprio come costola degli Hour Of Penance, prima di diventare il progetto principale del cantante e chitarrista Francesco Paoli, gli allora poco più che ventenni si fecero notare con il loro debutto Oracles (2009) grazie al connubio tra death metal, allora di stampo brutal, e… Musica classica.

Parte del gruppo ha alle spalle una formazione musicale di estrazione classica, il che ha portato ad una particolarissima quanto originale proposta musicale: orchestrazioni sinfoniche da un lato, growl e blast-beat dall'altro. Dopo l'ottima accoglienza riservata al primo album e un ep sintomaticamente chiamato Mafia, il gruppo ha fatto il grande salto ed è approdato su Nuclear Blast, l'etichetta specializzata in metal estremo più grande al mondo. Nei bassifondi metallari girano molte voci sulle modalità di perfezionamento di questo contratto di collaborazione, ma resta il fatto che da allora per i Fleshgod Apocalypse il percorso è stato di crescita continua. Via via sempre più levigati, lavorati ed elaborati, i loro dischi sono passati da un brutal con inserti classici a un vero e proprio ibrido tra un'anima classica e una estrema, arrivando fino ad inserti di soprano femminile. Tanti accusano il gruppo della capitale di essersi venduto alle logiche di mercato, snaturando il proprio sound e rendendolo via via sempre più schiavo di se stesso, e confrontando il recente King (2016) con i primi due album il cambiamento è netto ed evidente.

Dove stia il confine tra evoluzione e commercializzazione è difficile dirlo, ma il dato incontestabile è che oggi il seguito di Paoli e compagni è amplissimo, tra date che registrano il tutto esaurito (fuori dall'Italia, chiaramente) e oltre trecentomila follower su Facebook.

In un'ipotetica classifica, dove i Cannibal Corpse sfiorano i due milioni di like, gli in Flames superano di poco il milione e i Carcass non arrivano a seicentocinquantamila, un'esposizione e notorietà del genere da parte di un gruppo metal estremo italiano sono una grande notizia. Al netto di tutti i nostri limiti culturali e infrastrutturali, se qualche riflettore in più venisse puntato sul death metal del Bel Paese, potrebbero crearsi condizioni utili a far venire alla luce una situazione che, viste le premesse, si rivela decisamente florida, pur rimanendo continuamente segregata a un'esposizione commerciale inesistente, a festival organizzati col culo (anzi, ormai non se ne organizzano praticamente più), a locali assolutamente inadeguati in cui esibirsi.

Disclaimer: come tutti gli elenconi, il manipolo di gruppi nominati fino a qui è ben lontano dall'esaurire tutti i nomi che meriterebbero attenzione, ma sicuramente è una buona lista da cui cominciare.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.  
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