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Non basta saper fare la trap per fare la trap

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La prima volta che ho avuto il rigetto per un rapper credo mi sia successo con Maruego, ai tempi in cui qualcuno commentava la sua musica così: "I can't compute. Perchè sto ascoltando questa cosa? Deve esserci un ottimo motivo dietro. Oddio, il problema poi è che Don Capucino sta da un lato e questo sta dall'altro. Dov'è la differenza?".

Era circa il 2014 e la mia amica Sonia cercava di farmi capire che Maruego era una bomba nucleare piovuta dal cielo per far saltare il banco nel rap game italiano, mentre a me sembrava una pagliacciata, qualcosa che inserito nel contesto della lingua italiana non aveva davvero senso di esistere. Ovviamente la mia opinione a riguardo nel corso di un brevissimo lasso di tempo è cambiata completamente, ma non sono sicuro di aver mai capito perché. Credo sia la stessa cosa successa con Ghali, con Sfera Ebbasta, la Dark Polo Gang, Tedua e Laioung (con gli ultimi due, in particolare, sono ancora a metà del percorso). Credo che l'hip-hop, ma in un certo senso la musica in generale, si componga di tutta una serie di strumenti che si potrebbero sintetizzare in un vaghissimo concetto di imparare a farci l'orecchio per riuscire poi ad apprezzarne le sfumature. Un concetto che è lontano parente del "Per me questo è solo rumore" rifilato da mia madre (presa come campione per il 99% delle madri) a commento di qualsiasi pezzo noise.

Tutta questa premessa ci porta direttamente a questo video:

Il ragazzo che canta è Giordano Cremona, la metà di Merk & Kremont, coppia di producer che nell'ultimo anno ha raccolto i frutti del proprio lavoro e raggiunto un successo straordinario, in Italia e in giro per il mondo. Giordano ha perso una scommessa amichevole col suo socio, o qualcosa del genere, e si è ritrovato a dover produrre un pezzo trap per dissare i suoi amici. Se volete approfondire il backlog della storia legata alla scommessa questo link è un ottimo punto di partenza.

Sono abbastanza sicuro che si tratti di un esperimento capitato un po' per gioco e in modo spontaneo. In ogni caso il risultato ricorda da vicino quanto capitato ad Hopsin lo scorso anno quando, nel tentativo di perculare Future, si è ritrovato a comporre una hit (qui la storia completa). Effettivamente se ci limitiamo ad un'analisi esclusivamente qualitativa del trappare* di Lil Merk (il moniker che Kremont ha scelto per questo video) non ci sono cazzi per nessuno. Questo mi riporta di prepotenza al debolissimo concetto espresso due paragrafi più in alto: perché alcuni generi non immediatamente comprensibili riescono ugualmente a gasarmi (nell'accezione musicale del termine e cioè: far sentire bene, far divertire, far fantasticare e in ultima analisi anche far sentire fighi)?

Immagino che sia una questione di attitudine, che molto spesso riesce a superare il talento e succede in tutti gli ambiti dell'intrattenimento. Alcuni calciatori sono più forti di altri calciatori, eppure hanno molti meno tifosi e non riescono a galvanizzare le folle. Johnny Marsiglia è il mio rapper preferito e il suo disco (previsto per il 2017) è uno dei pochi dischi in uscita di cui mi fregherebbe qualcosa anche se domani iniziassi a lavorare come Poste Italiane, ma gioca uno sport diverso. La Dark Polo Gang riesce a farmi dimenticare che sembro un povero rincoglionito quando l'indicatore del volume è uguale o superiore a 26 (in una scala in cui dal 20 in su le persone ai semafori iniziano a guardarti come il povero pirla che sei), questa cosa qui fatta da Kremont invece no, anche se è fatta (forse) in modo migliore.

La verità è che credo anche il gioco di Merk & Kremont non avesse quel fine polemico che invece ho il sospetto di aver individuato in molti dei commentatori di apprezzamento per "Disco d'Oro". Non ho una particolare simpatia per tutto il carrozzone legato al brand de Il Pagante o per questo finto dissing basato su una parodia spiccia dei codici tipici della Dark Polo Gang che si è scatenato sui profili social di Roberta Branchini (in larga parte basato sul meme la gang non si infama), ma riesco anche a capire che ormai si sia raggiunta una popolarità tale per cui queste cose diventino dominio del pop. Probabilmente loro si considerano anche fan, di quella cosa lì.

La stessa dinamica che mi è capitato di percepire con questa parte di un vlog di Rovazzi, in cui compare anche Chiara Ferragni:

Sono 20 secondi in cui Chiara Ferragni fa la rapper su un beat di Charlie Charles (davvero). Il problema è che invece di haha, lol la prima cosa che mi è venuta in mente è stata ciao Myss Keta. L'output finale infatti è molto simile a quello che eroga la diva mascherata di Porta Venezia nei suoi pezzi. Allora perché uno è figo e l'altro, pur tecnicamente molto simile (con un po' di generosità rispetto all'esperimento Merk & Kremont) è uno scimmiottamento che non mi comunica niente e mi risulta posticcia e artefatta? Perché, a parità di esecuzione tecnica e di risultato percepito, da un lato riesco a convivere con la credibilità di Sfera Ebbasta, Ghali, Tedua o, per esagerare, della BPR Sqvad e del suo attore principale East Pitbull, ma dall'altro non riesco a godere in alcun modo della professionalità di Merk & Kremont?

C'è uno strato di cultura che prolifica oltre e parallelamente alla musica e che coinvolge involontariamente gli artisti stessi. Non è una cosa negativa come in sei uno stupido, ma non lo sai e quindi fai ridere, ma più come in la tua musica è più mia che tua. È un discorso complicato e bisognerebbe chiedersi: la Dark Polo Gang potrebbe esistere senza internet? Ovviamente no, ma perché dovrei pormi il problema quando ho uno smartphone in tasca e almeno cinque dispositivi in casa mia che possono connettersi alla rete? C'era una canzone di Dargen il cui ritornello recitava Come posso fidarmi di una musica che al primo black-out non c'è più? Non so perché mi sia venuto in mente proprio ora, ma credo che sia utile per raccontare una parte di questo problema e di questa non-volontà di riconoscere una cultura perché ci sembra una cosa stupida e bassa, o comunque accessibile solo tramite chiavi di lettura che costringono l'ascoltatore a calarsi in una realtà (a seconda delle opinioni) stupida e bassa.

È un argomento profondo e che merita di essere approfondito per quei quattro fessi che hanno piacere ad approfondirlo, ma nel frattempo sono convinto che la riproducibilità tecnica di un pezzo trap non sia sufficiente a garantire una fruizione altrettanto soddisfacente, allo stesso modo in cui una stampa Ikea di un'opera d'arte non conserva nessuno dei connotati che davano valore all'opera d'arte originaria. I pezzi di Kremont e quella mini-gag di Chiara Ferragni hanno un valore tecnico molto elevato, ma nessun carisma, perché? Non lo so, ma immagino che sia lo stesso motivo per cui Wayne che parla al telefono con una scarpa è figo e Mattia Costioli che parla al telefono con una scarpa è solo un coglione con una scarpa vicino alla testa.

O forse ha a che fare con la stessa ragione per cui, ieri sera, ci sono rimasto molto male quando tutte le felpe arancioni della Dark Polo Gang sono andate sold out prima che potessi decidere che era okay stanziare 60 dei miei euro per l'acquisto.

*Sento il calduccio dell'Inferno sotto i piedi, non prendetevi la briga di augurarmelo.

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Ho accompagnato mia moglie a vedere Britney Spears e la fiera del porno di Las Vegas

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Per gli ultimi 34 anni l'intero mondo del porno si è incontrato ogni gennaio a Las Vegas per mostrarsi le tette e scambiarsi le merci nei quattro giorni della fiera di Adult Video News. L'evento annuale permette ai fan di entrare in contatto con qualunque protagonista dell'industria vietata ai minori e di comprare qualunque sex toy sul mercato da quelle specie di tori meccanici erotici a dildo giganti a tema fantascientifico. Il mio rapporto con il mondo del porno è iniziato quasi vent'anni fa; prima quando ho lavorato al Big Brother Skateboarding Magazine di Larry Flynt, poi quando ho iniziato a recensire porno per VICE con la mia serie Skinema, che poi è diventata anche un libro e una serie di documentari. Lo scorso weekend, per la prima volta in oltre un decennio, mi sono ritrovato all'ammucchiata di AVN come rappresentante dei miei nuovi datori di lavoro, Penthouse, e per ragioni totalmente egoistiche mi sono portato dietro anche la mia bellissima moglie. I giorni delle fantasie di sesso a tre all'interno di eventi come questi sono ormai passati, ho imparato nel corso degli anni che ogni pensiero sconcio abbandona la mente di ogni lavoratore del porno nel momento in cui ti vedono mano nella mano con una ragazza. Sono anche arrivato ad accettare che non sono per niente bravo a parlare con la gente. Come Larry David, sono bravissimo a creare situazioni di tensione e imbarazzo grazie alle mie battute fuori luogo che fanno ridere solo me. Nel corso degli anni mia moglie è diventata piuttosto brava a farmi uscire da conversazioni scomode con la sua piacevolezza. Mi sono reso conto che è molto meglio se non esco mai di casa senza di lei.

La moglie di Chris intenta ad adorare Britney.

Per ringraziarla dei quasi vent'anni che ha passato a tenermi lontano dai guai, mi sono organizzato per realizzare uno dei suoi sogni: un concerto a sorpresa di Britney Spears. Quando ci siamo messi insieme, mia madre faceva la maestra di danza per un gruppo di bambine piccole, insegnando loro jazz, tip-tap e hip-hop. I miei piedi si odiano tra di loro e non sono in grado di tenere il ritmo di niente, ma ricordo la mia meraviglia nel vederla ballare per la prima volta. Al saggio di fine anno del 2004 decisi che l'avrei sposata. Lei e le altre insegnanti misero in scena una coreografia del singolo di Britney Spears "Toxic", dal suo album più volte di platino In The Zone, e fu una cosa quasi pornografica. Nel corso degli ultimi 13 anni, ogni volta che ho sentito quella canzone la mia mente è tornata automaticamente alla visione di mia moglie che roteava come una spogliarellista agitando una sedia come fosse in Flashdance. Mi chiedo ancora come mai i genitori delle studentesse non si siano lamentati o non abbiano coperto gli occhi delle loro figlie. Forse l'hanno fatto e io ero troppo distratto da mia moglie per accorgermene.

La canzone in sé ha un significato speciale per noi, perché a quei tempi ero dipendente dai farmaci e stavo cercando di ripulirmi. Mentre abbandonavo un vizio ne prendevo un altro, visto che cominciavo a non poter più fare a meno di mia moglie. Come recita il testo della canzone: "Basta un assaggio del veleno paradiso, sono dipendente da te / Non lo sai che sei tossico?" Nel giorno che sarà ricordato per sempre come il più triste e squallido Inauguration Day nella storia degli Stati Uniti, circondato da tutte le fantastiche tette e culi dell'industria dell'erotismo, ho scelto di tirare pacco a tutte le feste porno a cui ero stato invitato e annegare le mie frustrazioni politiche al concerto di Britney Spears. La mia idea era che se c'era qualcosa in grado di distrarmi dall'uomo cattivo sarebbe stata mia moglie che ballava su una versione live di "Toxic" e, che cazzo! Ha funzionato. Per tutte le due ore dello show mi sono dimenticato completamente del mostro dentro la Casa Bianca. Miss Spears era più bella, più brava e più intonata che mai, secondo mia moglie, fan della prima ora. Di questi tempi mia moglie fa la personal trainer e ha notato il tono muscolare impressionante di Britney, constatabile da chiunque anche da una parte all'altra dell'auditorium, meno che da me. Non ci vedo molto bene. 

Britney Spears fotografata da Denise Truscello.

 

Toxic.

Secondo la tradizione di Las Vegas, è stato tutto ciò che un fan potesse desiderare. Spears ha cantato tutte le sue hit comprese "Oops!… I Did It Again", "Crazy" e la cover di "I Love Rock N Roll" di Joan Jett. I costumi erano sfarzosi e sexy e a un certo punto è stata sospesa a 15 metri sopra il palco vestita da angelo. La scenografia funzionava alla perfezione—a un certo punto si è trasformata da chitarra gigante in albero gigante. Mia moglie si è divertita dall'inizio alla fine, anche se io me lo sono vissuta come un ragazzino ansioso che fa il conto alla rovescia prima di Natale. Ogni canzone ci avvicinava un po' a "Toxic". Non conosco tutto il catalogo di Britney—quello è competenza di mia moglie—ma se c'è una cosa che conosco è l'inizio di "Toxic". Me lo sono canticchiato in testa migliaia di volte, ogni volta che ho avuto una fantasia su mia moglie. Ho atteso le prime note con il fiato sospeso per quasi due ore, ma non sono mai arrivate. "Non la canta?" ho chiesto a mia moglie. "Deve cantarla!"

Alcune canzoni dopo mi ero arreso, finché mia moglie non mi ha dato di gomito: "Eccola!" "No", ho risposto, "questa è troppo lenta. Non è l'inizio". E invece, Britney ha rallentato la prima strofa, finché, alla seconda, il tempo ritorna quello normale e lei salta dalla cima dell'albero verso il pubblico, assicurata a dei cavi che la tengono sospesa. Io ero in estasi. Non sapevo se guardare Britney o mia moglie. Alla fine ho deciso di fissare gli occhi su mia moglie e filmare Britney con il mio iPhone per guardarla più tardi. Mia moglie mi aveva detto di essersi dimenticata i passi che aveva inventato per "Toxic" 13 anni fa, mentre io li ricordavo alla perfezione. Per fortuna non c'è stato bisogno di mostrarglieli, visto che appena partita la canzone se li è immediatamente ricordati. Vedere mia moglie ballare in quel modo di nuovo dopo tutti questi anni è stato il miglior regalo che potessi ricevere, specialmente in un giorno così doloroso. Grazie, Miss Spears. 

Rendendosi conto del terrore e della disperazione dell'Inauguration Day pervadere il suo pubblico, Britney ha appositamente concluso il suo spettacolo con la hit "Keep on Dancing Till the World Ends". Il pubblico ha lanciato un ruggito, sapendo bene che il nostro nuovo comandante in capo potrebbe davvero far finire il mondo molto presto. Ho visto genitori preoccupati abbracciare i propri figli, mentre amanti etero, gay e trans piangevano nelle braccia gli uni degli altri—siamo tutti spaventati del domani. Mentre scendeva il sipario, ho sentito uno spettatore urlare "Fuck Donald Trump!" È stato come se parlasse a nome di tutto il pubblico. Be', a parte me. Io ero troppo impegnato a cantare "Toxic".

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Chi può essere il Justin Bieber italiano?

Torna al P-Gold con il mix di Obi Baby

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Se abitate a Milano probabilmente lo sapete già, questa settimana Zero compie vent'anni. La festa sarà epica, inizierà sabato alle 18, sarà a Macao e durerà VENTI ORE. Ogni ora un anno, ogni ora un DJ diverso (dal 96 al 2016), che suonerà solo musica dell'anno che gli è stato assegnato. Si ricostruirà quindi la colonna sonora di 20 anni di feste a Milano. E poi ci saranno i barman dei bar dove Zero va a bere (i migliori di Milano) che si alterneranno al bancone dalle 18 all'alba preparando un cocktail inventato apposta per l'occasione.

Per caricarvi abbiamo un mix di Obi Baby direttamente dall'anno 2000, la prima stagione del Pervert Gold, o P-Gold, leggendaria serata al Rolling Stone di Milano, zarrissima e dai distintivi colori nero e oro. Ecco che cosa ci ha detto Obi riguardo al mix:

Il mixato rispecchia molto lo stato d'animo di quegli anni. Da una parte c'erano le feste e club iconici che folleggiavano con la parte più soul e funky dell'house music. Questa comunità era prevalentemente legata alla scena riccionese. Questa scena però era destinata a cambiare profondamente con il nostro arrivo. Infatti Pervert, nutrendosi musicalmente ad Ibiza e Londra, iniziò per primo, ad importare altri stili musicali differenti da quello americano dei vari Vega e co. Nel set questo nuovo sound possiamo identificarlo con Saint & Sinners e Laurent Garnier o Chicken Lips. Tutta roba più elettronica. Ben presto sdoganammo Steve Lawler, Deep Dish e tutta la scena prog inglese che diede una ventata di freschezza assieme ad un rinnovamento della scena italiana. Erano anni di grosso fermento e li ricordiamo con grossa eccitazione. La musica era veramente al centro delle serate. Buon ascolto!

Ascoltate il mix di Obi Baby qua sotto e ci vediamo sabato 28 gennaio a Macao

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Ascolta la nuova uscita Gqom Oh!, il SiyaThakatha EP di Dominowe

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È ormai quasi un anno che il mondo si è accorto della gqom di Durban, in Sud Africa—probabilmente una delle tendenze più fighe del clubbing mondiale, una sorta di house sghemba in versione apocalittica e afrofuturista. Questo è stato possibile in buona parte anche grazie al lavoro di Francesco Cucchi aka Nan Kolè, produttore e DJ romano che ha fondato Gqom Oh!, etichetta nata con lo specifico intento di connettere gli artisti di Durban con i club del resto del mondo e far scattare una logica di cross-contaminazione culturale. 

E niente, oggi arriva una nuova uscita Gqom Oh! che vi consigliamo caldamente. È il debutto sull'etichetta di Dominowe, un produttore di Durban che ha solo diciannove anni ma sembra suoni gqom da una vita. L'EP si intitola SiyaThakatha, che significa "magia nera" in lingua zulu. Ne trovate qua sotto un estratto, "Umthakhati", un pezzo martellante che immagina un'esperienza di clubbing cui cui a tenere il tempo, al posto di una cassa digitale, ci sono delle percussioni tribali, incessanti e distorte.

Potete acquistare da subito l'EP in digitale su Bandcamp. A breve sarà tutto disponibile anche su Spotify.

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Noisey Mix: HDADD

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No Age Music è un live mixtape in cui ho cercato di creare una struttura narrativa circolare, utilizzando tracce di diverso stile, mood e provenienza. Queste sono caratterizzate da una forte espressività contenutistica che le accomuna per intensità e respiro cinematico. Volevo che il mixtape vivesse di vita propria e suonasse come una colonna sonora figlia dall'armonioso paradosso della decontestualizzazione... pezzi che sottratti dal loro contesto originario, una volta riassemblati, diventano le squame di un uroboro che ruota all'infinito senza mai toccarsi la coda. Un po' come la ciclicità storica che sfugge al nostro sguardo e viene però scandita da ritmi ancestrali, suoni senza tempo e musiche universali. Buon ascolto.

HDADD è solo una delle manifestazioni artistiche di Marco Acquaviva, fondatore di Queenspectra su cui nel novembre dello scorso anno ha visto la luce il suo ultimo splendido LP, Sense Of Wonder. La descrizione che ci ha mandato del mix di oggi, è tanto semplice quanto evocativa: il filo conduttore è, ancora una volta, il senso di unità col cosmo e perciò di infinito, rivelato in forma di storia ciclica: il pachacuti andino, gli yuga indiani, e via dicendo. La continuità con i suoi lavori da producer è evidente, in termini di atmosfere; quarantacinque minuti di dilatazioni prog mistico, ambient, funk e kraut astrali, in un'inconscia celebrazione di una stessa natura "madre". C'è poco altro da aggiungere a parole, se non che questo venerdì abbiamo un viaggio, non un mix.

Sonia è su Twitter: @acideyes.

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Abbiamo preso una pizza e un amaro con i Gomma

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Tutte le fotografie sono di Giuliana Capobianco.

Venerdì scorso Bologna era presa in ostaggio da un gelo mica da poco e in serata ci sarebbe stato questo festival al Covo, uno dei locali storici della città—Inverno Fest, si chiama. L'idea malsana che mi propongo è quella di abbandonare la mia sessione casalinga di Doom e affrontare le temperature siberiane per fare due chiacchiere con una delle rivelazioni musicali del 2016: i Gomma sono da un paio di mesi sulle pagine di tutta l'editoria musicale, digitale e addirittura cartacea. Anche sulle nostre.

Dopo che l'Italia tutta si è resa conto dell'esistenza di Fine Before You Came e Gazebo Penguins, l'emo italiano (per usare un termine-cappello che vuol dire tutto e niente ma che vi faccia capire più o meno quello che intendo) ha vissuto un breve periodo di gloria qualitativa e quantitativa per poi fermarsi un pochettino, con i suddetti FBYC e Gazebo a prendersi una pausa e nessuna delle nuove leve sorte dalla scena a toccare veramente un'ampia parte del loro potenziale pubblico. Questo fino ai Gomma, che però—va detto—sono un caso particolare dato che in realtà loro, della scena, non ne hanno mai fatto parte, un po' per motivi anagrafici, un po' perché semplicemente vengono da un background diverso. E allora è curioso cercare di capire come si sentano, solo all'esordio, a essere nel mezzo di un fuoco incrociato di amore incondizionato e hating spudorato.

Arrivo al locale che i ragazzi stanno ancora facendo il soundcheck. Una bella scusa per me, il mio amico Paolo e la fotografa Giuliana per berci un paio di whisky al locale di fianco. I vecchietti del baretto ci guardano incuriositi e io bevo di fretta, un po' nervoso. Perché cavolo fossi agitato sul momento non riesco ancora a spiegarmelo. Quella che leggerete è una sintesi di un'oretta che, per dirla in breve, è fatta di parole sui poteri occulti, Calcutta, di brutture del liceo e di quanto siano belle certe serie televisive. Un po' imbarazzato, chiedo alla band di farsi un giro di amari con noi. "Ho già fatto dei concerti sbronza e non è bello", mi dice Ilaria. Dopo averle insinuato di essere degli straight edge—accusa prontamente respinta—ci sediamo fuori dal locale. 

Noisey: La verità è che i capi di Noisey mi chiedono di fare un'intervista un po' diversa dal solito...
Giovanni: E chiedere invece di Caserta. Ti prego, no! Non mi fare la domanda la solita domanda "Come si vive a Caserta..."

Mi stai già rispondendo! No, in realtà io vorrei sapere qualcosa di più sul vostro passato. Perché siete spuntati dal nulla. Sono andato sul Facebook di Paolo, che ce l'ha aperto, e ho trovato questo video dove suonava una cover di "Hipsteria" dei Cani con Ilaria e Matteo. E quindi mi sono chiesto, volevate suonare altro da quello che siete adesso?
Paolo: 
No, in realtà no.

Perché siete un gruppo, che soprattutto nelle chitarre, mi ricorda quel mondo alla Fine Before You Came, eppure, nelle vostre citazioni culturali, ne siete distanti.
Giovanni:
 Noi ascoltiamo tutto. La cover dei Cani è stata un caso... Con Ilaria, ad esempio, ho fatto una canzone dei Gazebo Penguins. 
Ilaria: "Difetto." Abbiamo fatto anche i Foals, e gli Alt-J.

Il vostro suono è nato dal nulla.
Ilaria: Sì, abbiamo cominciato a scrivere robe ed è uscito quello. E infatti non saprei se definirlo ancora emocore.

Il mio voyeurismo mi ha portato a leggere i commenti sotto i vostri video di YouTube. Tanti complimenti e poi una roba che torna che suona tipo "È un gruppo creato dai poteri occulti, dai sionisti, qualcuno ha creato i Gomma..."
Paolo: Gli illuminati.

Chi di voi è il sionista della situazione?
Giovanni: Michele Montagano, il ragazzo che gestisce la nostra etichetta e ci produce, ha deciso che voleva formare una band per fare un sacco di soldi tramite il gruppo Bilderberg.
Matteo: C'era di mezzo anche Licio Gelli!

Non conosco le band della zona, ma: oggi, a Caserta, vi vogliono bene?
Giovanni: Ragazzi, non possiamo rispondere sinceramente a questa domanda, dai. Sì, ci vogliono bene, ci amiamo tutti. [Ridono]
Ilaria: Diciamo che ci sono persone che apprezzano il nostro successo.
Matteo: Abbiamo tanti amici che ci seguono.
Giovanni: Ma non puoi fare un gruppo solo per loro.

Oggi come oggi preferireste suonare a Caserta o Milano?
Ilaria: Milano! Siamo tutti d'accordo. Non perché mi piaccia Milano! 
Paolo: C'è un gran bel pubblico.
Giovanni: Forse il concerto più bello che abbia fatto. 

E invece l'esperienza con Calcutta com'è andata?
Ilaria: Te lo dico con sincerità? Per me è stato un incubo. Ma non per Edoardo, è stata la situazione generale, quello che ci circondava.

Penso ci sia stato un equivoco. Il pubblico di Calcutta non è il vostro pubblico.
Ilaria: Esattamente. Non esisteva nessun tipo di contatto.  Ci sentivamo segregati in quel backstage, ad aspettare di suonare—aspetti, sali, scendi, e te ne vai.
Paolo: Nel tour con Calcutta la data che è andata meglio è stata quella di Napoli. Ci sentivamo accolti dal pubblico. 
Matteo: Ma è stato comunque importante. Perché tra tutte le persone che erano venute per Calcutta qualcuno ha cominciato ad ascoltarci.
Giovanni: Una cosa però: forse noi non c'entriamo con il mondo del quale fa parte adesso Calcutta. Ma noi siamo legati musicalmente alle origini di Edoardo.  C'è un filo che ci lega nella crescita come appassionati di musica. E che poi ovvio, questo è relativo. Perché anche noi siamo il pubblico di Calcutta. 
Paolo: Non ci è piaciuto essere stati fischiati. Non so, è stato brutto. 

Avete tra i vostri riferimenti musicali Vasco Rossi? Come Jacopo Lietti, ad esempio, parte dell'emocore ce l'ha dentro.
Ilaria: Io sinceramente no.
Giovanni: Io ho cominciato ad apprezzarlo da quando ho scoperto che lo arrestarono per possesso di cocaina. 

Mi interessa il modo in cui volete condividere i vostri testi. È una cosa complessa, soprattutto se si ha di fronte un pubblico nuovo. Ilaria, dai video ho notato che tieni spesso gli occhi bassi.
Ilaria: Non mi sento molto a mio agio sul palco, ancora, ecco. Vedere le persone lì sotto mi irrigidisce. Non penso sia timidezza, mi esce spontaneo. Mi piace stare sulle mie. Il mio stare sul palco non è "Vi sto raccontando una storia", non cerco empatia, ma è "Mi sfogo con voi".
Giovanni: Ma anche perché suoni per te, e poi per gli altri. 

Sul palco siete in sottrazione, c'è un intimismo quasi estremo.
Giovanni: Parlo per lei, ma penso che non sia facile stare sul palco a raccontare i cazzi tuoi.

Quindi c'è del privato nelle vostre canzoni.
Ilaria: Praticamente solo quello.

Nelle interviste si parla delle citazioni a Pavese, di un certo cinema...
Ilaria: Diciamo che è un po' inflazionato questo discorso sulla letteratura e sul cinema. Ci sono i riferimenti, ma non sono rilevanti ai fini della struttura. 

Ilaria, tu hai solo diciotto anni e stai uscendo dal liceo. Ma come ti poni rispetto al mondo dei tuoi coetanei?
Ilaria: Non la vivo benissimo, ma mi tocca accettarlo. Comportarmi di conseguenza. Ci sono cose da fare, che non mi stanno bene, ma devo farle.

A scuola sei una star?
Ilaria: No, praticamente sono lo zimbello! Sai, su Rolling Stone mi hanno chiesto se il mio comportamento nei confronti dei miei compagni di classe fosse da snob. Il fatto è che forse è proprio il contrario. 

Ho capito che c'è un motivo portante nell'album, che si vede soprattutto in "Vicolo Spino". Che è un po' quello che dell'amare per essere amati. Quella parte che dice...
Ilaria: "Ma in realtà lo faccio per me".
Giovanni: È orrenda come cosa.

Sì, è la maledizione dell'esistenza questa cosa, ma è bello come siate riusciti a portarla in musica.
Ilaria: Sinceramente non so come risponderti. La scrittura è stata spontanea.

Quindi i testi sono tutti tuoi. 
Ilaria: Praticamente, quello di "Elefanti" l'ha scritto Giovanni e quello di "Toska" lo abbiamo scritto a quattro mani con Matteo. La versione originale per me era incantabile. Era un bel testo, ma era una poesia, non una canzone. E anche l'intro e l'outro sono a quattro mani con Giovanni.

Senti, perdonami la domanda alla Marzullo. Sei tu quella che ama e che ha bisogno di essere amata? O sei la vittima del gioco?
Ilaria: Amo perchè ne ho bisogno.
Giovanni: È la domanda più bella che ci abbiano mai fatto. [Ridono] 

Tra le citazioni apprezzo molto Pavese. Chi di voi ce l'ha messo?
Giovanni: Io. C'è una tragedia in cui uno dei personaggi afferma che la morte è un destino, e che non possiamo fare altro che augurarcela. La morte, anche quando è desiderata, in realtà è... come se fosse naturale.

I tuoi riff di chitarra mi piacciono perché sono tristi. 
Giovanni: Cerco di ispirarmi sempre meno ad altri chitarristi, è meglio essere la bella copia di sé stessi che la brutta di qualcun altro. E tutto dipende da come ti sei svegliato quella mattina, se era buono il caffè e da chi ti ha fatto arrabbiare. Nascono così.

Sento solo accordi minori nella tua musica.
Giovanni: No dai, un accordo maggiore ci sta in tutto l'album! No davvero, un accordo maggiore c'è! Ma è nella canzone più brutta, "Le scarpe di Beethoven". Sì, è l'unico pezzo in maggiore. 

Cosa studiate?
Matteo: Scienze politiche e relazioni internazionali.
Giovanni: Io studio giurisprudenza. Comunque in momenti come questi a me piacerebbero domande del tipo "Dove vai a tagliarti i capelli" o "Qual è il tuo gin tonic preferito", "Di che colore ti piacciono le scarpe?"

Davvero, vorresti delle domande del genere?
Giovanni: Davvero. Quando leggo l'intervista a un autore che mi piace spesso le domande mi fanno cadere le palle. Piuttosto, sarebbe bello sapere cosa fanno il sabato sera i miei musicisti preferiti.

E tu cosa fai il sabato sera?
Giovanni: Adesso suono!
Paolo: È vero. Adesso tutti i weekend siamo fuori a suonare. Un po' dispiace, stare lontano dagli amici e la famiglia.

Facciamo  un gioco, indoviniamo i vostri telefilm preferiti. 
Giovanni: Per me è "La serie".

Breaking Bad
Giovanni: E italiana?

Romanzo Criminale.
Giovanni: Sono proprio banale. 

E Ilaria secondo me... Skins.
Ilaria: Oh no, avevo dodici anni! È Black Mirror.

Matteo, dai tuoi baffi il tuo è chiaratamente Narcos.
Matteo: No no, il baffo è solamente un esperimento. 
Giovanni: In realtà è My Name is Earl, un giorno ha visto una puntata e si è presentato con i baffoni
Matteo: Adesso sto guardando Westworld. È una gran bella idea.  

Vi scappa mai di andare in bagno mentre siete sul palco?
Giovanni: Fisso. Sempre. È una costante.

[Veniamo interrotti dal loro tour manager, Alessandro: è un omone dalla barba minacciosa. La sua espressione è chiara: sto succhiando tempo libero ai ragazzi. Ci ricorda che i ragazzi devono mangiare e loro, disponibilissimi, ci chiedono di accompagnarli. Purtroppo perdo il filo del discorso sulla questione urinaria.]

L'altro giorno guardavo un documentario,  The Devil and Daniel Johnston. Johnston aveva questa cosa che un giorno poteva sembrare il nuovo Bob Dylan, il giorno dopo un totale fallimento. Questa antipatia, questa discrepanza, seppur per motivi diversi mi ha fatto pensare a voi. Credo che sia questa idiosincrasia—perdonatemi la parola da stronzo—che mette da una parte la voce ispirata ai Negazione, ai Kina, quasi fastidiosa e una chitarra invece più melodica. Continuerete così?
Ilaria: Non è una scelta.
Paolo: Giovanni adesso ci sta tirando fuori dei pezzi nuovi..
Ilaria: Sì, ci hanno definito un misto tra Le Luci della Centrale Elettrica e i Negazione.

Le Luci?
Ilaria: Questa confusione è un miscuglio causato dalle nostre influenze musicali diverse. Boh, poi non è un quesito quello che ci stiamo ponendo, quello della nostra musica, se piace bene, altrimenti 'sti cazzi.
Matteo: Michele ci ha resi leggermente differenti su album rispetto a come suoniamo dal vivo. Sull'album forse siamo... più ascoltabili. Dal vivo invece tendiamo ad essere più rumorosi.

Vi piace essere famosi? Giovanni, tu hai fatto anche il protagonista di un video
Giovanni: Mi fa strano essere riconosciuto. Davvero, è una strana sensazione. Sto diventando un po' come Tommaso Paradiso. No, scherzi a parte, io non penso ci sia tutto questo seguito sulla band.

A livello mediatico è così. Siete su Rolling Stone, XL, Rockol...
Giovanni: [Scherzosamente, nda] Ma questo è perché la qualità della critica musicale ormai è uno schifo. Se io fossi il direttore di una rivista non andrei mai a far intervistare i Gomma. 

Siete mai stati dipendenti da qualcosa? Ecco, sarebbe figo mi diceste di sì, ma vi capisco, io sofferto solo la dipendenza con World of Warcraft.
Matteo: Anche io. Fino all'uscita di Cataclysm
Ilaria: Io invece dei manga. Il mio preferito è Billy Bat di Naoki Urasawa. 
Giovanni: Io i manga non li leggo molto. Una volta ero un fanatico di Dylan Dog, ma dal 2012 in poi non ne vale la pena. 

E Bologna? Bologna vi piace?
Ilaria: Io dopo la scuola vorrei salire a studiare qui. Anche se ho avuto solo brutte esperienze a Bologna! Quest'estate ero salita per passare una settimana con le mie amiche, avevo il portafoglio pieno, avevo appena prelevato. Tra l'altro erano i soldi che dovevo dare per le nostre registrazioni. Il tempo di salire e scendere dal pullman che mi ritrovo con la borsa aperta e senza portafoglio. Ho passato due giorni in Questura, in pratica. E la cosa divertente è che nella borsa avevo i DVD della prima stagione di Centovetrine e un Almanacco Sportivo 1950-2000 [Ovviamente non erano questi gli oggetti contenuti nella borsetta, ma avevo promesso ad Ilaria che avrei, insomma, reso più democristiana la scenetta, nda], e quando mi hanno chiesto di vederla, per fare un check... è stato imbarazzante.

Ho rivisto al Covo i Gomma durante la serata. Ilaria stava appoggiata al muro del locale con la stessa posa di certe ragazze dei film di John Hughes, totalmente disinteressata alla band di ragazzini che suonava come se stessero facendo cosplay di un gruppo inglese a caso. Alla fine del concerto, prima del loro turno, ci si avvicinano i fratelli Tedesco, leggermente tesi. "Mi raccomando, fateci un applauso almeno voi", dice Paolo. I Gomma sono quel gruppo di amici con i quali avresti voluto passare l'adolescenza ascoltando i Fugazi e giocando alla Playstation—che è un po' il segreto del loro successo e del loro involontario romanticismo. Oltre al fatto di suonare qualcosa di spontaneo e vivo e forte. 

Poi sono anche saliti sul palco. E si sono presi gli applausi di tutto il pubblico.

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Evviva Ivan Graziani

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Mi parlavi però di una forma che nella chitarra synth della Roland non "trovi"?
Io considero la chitarra ancora come una "donna con le curve al punto giusto", bella da "toccare". Comunque, a parte questo, io sono ancora per una chitarra che in partenza ha un suono suo.
(Intervista a Guitarclub, agosto 1986)

A leggere questo breve scambio di battute si direbbe che Ivan Graziani, l'italian folgorato al quale ci dedichiamo quest'oggi, non abbia mai avuto grande simpatia per le innovazioni tecnologiche, soprattutto se applicate alla sua amata chitarra. In realtà, se leggiamo l'intervista per intero, il nostro propendeva per l'uso di pick up esafonici MIDI che non solo implicavano un largo utilizzo di elettronica, ma soprattutto gli permettevano di non sostituire le chitarre elettriche con aggeggi dai look futuristici e spigolosi. Perché, appunto, le curve di una chitarra per Ivan erano importantissime, a livello erotico. E, in effetti, la sua musica è sempre stata carica di quella scintilla sensuale che viene dall'ambiguità, già dalla sua voce acuta per cui non è mai stato chiaro chi fosse: un cantautore? Un rocker? Un cantante di musica leggera? Un poeta mascherato da saltimbanco? (Ivan era famoso per non prendersi assolutamente sul serio, tanto che farà anche un cameo in un film come Italian Boys di Umberto Smaila, il che dice tutto.) 

Il collante di tutte queste cose rimane il mistero iconoclasta della sua musica, difficilmente incasellabile: anche se ti ritrovi a canticchiare "Lugano Addio" mentre fai il bagno, stai sempre parlando di un inno anarchico riveduto e aggiornato. Se cantiamo ad esempio "Il chitarrista", parliamo di sesso che viene scambiato al posto del denaro: insomma soggetti forti, come anche in "Motocross" dove la "street credibility" del nostro raggiunge picchi impensabili (donne che ingannano poveri polli a favore di bande di teppisti). Ci mettiamo a parlare di lui perché, finalmente, la Sony ha deciso di onorare degnamente il ventennale della sua prematura scomparsa con una raccolta chiamata Rock e ballate per quattro stagioni, che comprende anche il disco postumo realizzato dall'amico Renato Zero, Per sempre Ivan, che, a prescindere dal suo valore, è un sentito omaggio a un personaggio incredibile. 

In effetti, la figura di Ivan ha influenzato, in modo subliminale e non, generazioni di rocker, se non proprio di punk (e se vogliamo andare oltre, anche di metallari ai quali dedicherà una spiritosa quanto situazionista "I metallari" contenuta in Ivangarage, forse il titolo più hard di tutta la sua carriera). La sua chitarra graffiava come una lama incandescente, unendo tecnica e istinto, tanto che diverrà uno dei turnisti più apprezzati in Italia: innumerevoli le sue sessioni con Battisti, De Gregori, la PFM per la quale scriverà anche, e con quel personaggio fuori dagli schemi a nome Hunka Munka che poi rivedremo nei Dik Dik a portare i suoni sozzi e distorti del suo organo. Ma soprattutto l'"associazione a delinquere" con Venditti produrrà quel capolavoro eccezionale dal nome I lupi, un disco che già dalla title track fa presagire l'incubo, la coscienza che una spada di Damocle pende sulla libertà dell'uomo, quella del potere: per cui la necessità di rifiutare ogni gerarchia e ogni guerra, l'importanza della diserzione. 

Ivan non la manda a dire anche nei successivi capitoli della sua discografia, basti pensare a "Fame" contenuta nel celebre LP Agnese dolce Agnese, con quei versi che sarcasticamente recitano "in nome della fame ho ammazzato le illusioni". E la ruvida copertina che cita il brano, ad opera di Tanino Liberatore in pieno periodo Ranxerox (ricordiamo che Ivan era anche un alacre fumettista, sempre attento alle innovazioni di questo linguaggio, tanto che possiamo dire che molte delle sue canzoni siano vere e proprie sceneggiature per tavole mai realizzate). Ma ricordiamo anche "Pigro", in cui si scaglia contro l'intellighenzia radical chic additata come una delle cause dell'ignoranza d'animo e della presunzione generalizzata, oppure la geniale "Monna Lisa", dove si narra di uno scoppiato che decide di sfregiare e rubare la Gioconda, a simboleggiare la distanza fra cultura e vita e soprattutto anticipando il vandalismo seriale che verrà. E che dire di "Ballata per quattro stagioni"? Una poesia crudele, che mette il dito nella piaga, che piange prendendosi gioco del suo stesso dolore. 

Insomma, Ivan forse è il nostro Elvis Costello, o forse semplicemente è la versione punk romantica di Frank Zappa, o la versione metal di un cantastorie acustico, o la versione psichedelica di un cantante di musica popolare, o la versione easy listening con piglio italico di un Captain Beefheart in salsa country (come vedete, mi è impossibile inquadrarlo se non sparando etichette a caso). Si parla di un autore completo che in un sol colpo scrive i testi (colmi di poesia fra il surreale e l'iperrealista), suona, arrangia tutte le sue canzoni, e canta con quella sua voce sarcastica, appunto punk, con la quale avrebbe potuto interpretare anche la Bibbia: e questa caratteristica è, in effetti, stata un'arma a doppio taglio per lui. I discografici di turno hanno sempre tentato di trasformare l'eclettismo di Ivan in una macchina da soldi, fallendo chiaramente a più riprese. 

Graziani era sì una gallina dalle uova d'oro, capace di tirare fuori singoli storici, ma ovviamente li arrangiava e proponeva in maniera sempre straniante anche quando meno te l'aspettavi. Soprattutto gli album erano un caleidoscopio di trovate per cui era difficile riuscire a superare la famigerata "metà classifica". Fare un certo tipo di discorso era come respirare per lui, logico che fosse impossibile riportarlo a più miti consigli. Ma ahimè, appunto, la fame bussa e Ivan deve suo malgrado venire a patti e trovare degli escamotage per sfangarla.

Soprattutto dopo il flop del 1983, con l'album Ivan Graziani, che pur contendendo la celebre "Il chitarrista" si ferma alla trentatreesima posizione in classifica, è evidente che c'è uno scollamento fra Ivan, il suo pubblico e i discografici. Discografici i quali cercano in tutti i modi di imporgli un "modus vivendi" più che una direzione artistica. Palesemente stufo, nell'81 dichiarò che si sarebbe presto ritirato dalle scene, cosa che fortunatamente non avverrà materialmente mai: ma forse a livello mentale qualcosa da quel momento s'inceppò. 

Sia come sia, alla fine Ivan decide di accettare questa sfida "mainstream" e nel 1984 pubblica Nove, prodotto da Celso Valli, all'epoca motore sonoro di act raffinatissimi come i Matia Bazar di Melancholia: il tentativo è quello di puntare principalmente sulla raffinatezza che è già insita nelle sue composizioni, lasciando in qualche modo da parte le asperità rockeggianti. Il risultato è un disco chiaramente levigato in tutte le sue parti, in cui fa capolino l'elettronica: a suo modo esteticamente e acusticamente perfetto come una pietra preziosa lavorata da un orefice. 

Il problema è che, appunto, la personalità pirotecnica di Ivan sembra sacrificata, e anche dal punto di vista delle innovazioni sonore c'è poco da dire sennonché si tratta della maggiore concessione al pop fino allora raggiunta dal nostro (il singolo in apertura, "Limiti" sembra una metafora della situazione). Il lavoro però ottiene il risultato sperato, raggiungendo il quattordicesimo posto in classifica riscattando in parte la brutta prestazione del precedente album. 

Ma, ovviamente, gli avvoltoi della discografia puntano molto più in alto, tanto che il nostro eroe sarà praticamente costretto a partecipare a Sanremo con un brano che non lascia il segno, "Franca ti amo", piazzandosi nelle zone basse della classifica sanremese. Eppure, nonostante anche il pubblico rimanga indifferente, non è meno interessante dei tanti motivetti da juke box dell'epoca (e nel giro armonico "classico" si sentono gli echi del centro di gravità permanente di Battiato). E soprattutto c'è una svolta che salta subito alle orecchie: è la piena adesione alla svolta elettronica iniziata con Nove che porterà alla pubblicazione di Piknic, album che stiamo per sviscerare e che, forse, rappresenta nel bene e nel male un autentico giro di boa.

Piknic pare sia considerato all'unanimità come "il punto più basso della carriera di Ivan Graziani". Ma ne siamo sicuri? Il motivo di tanto astio non sarà forse nella definitiva radicalizzazione elettronica della musica del cantore abruzzese? In effetti, gli affezionati al Graziani rock non hanno quasi nulla cui appigliarsi in questo disco. Al posto dei chitarroni troviamo una sovrabbondanza di percussioni sintetiche, Fairlight, diavolerie digitali ma—come spiegavo nell'incipit dell'articolo—ci sono le chitarre synth, le quali sono usate in maniera massiccia: anche se a orecchio profano sembra tutto creato da tastiere, la chitarra c'è ancora, eccome. 

Ma è una chitarra "del futuro", che parla a orecchie scevre dai soliti tran tran del r'n'r. Il tentativo di Piknic è quello di fare il gioco della musica pop sovvertendone in un certo senso gli schemi dall'interno (da cui titolo, in cui la parola picnic, apparentemente innocua, è scritta con quella K punk): si cerca una leggerezza quasi estrema sulla quale la poetica ironica e graffiante di Ivan tende a modellarsi come una tutina in latex. 

Non è da sottovalutare neanche l'anno di uscita, il 1986, che vedrà la pubblicazione del primo capolavoro Panelliano di Battisti, ovvero Don Giovanni. Ecco, Piknic è il Don Giovanni di Ivan Graziani, tutto calibrato sul gioco innovazione/asciuttezza/elettronica per tutti i palati ma nello stesso tempo straniante. Soprattutto nei testi, dove situazioni banali sono descritte come se si parlasse dei massimi sistemi: d'altronde è la stessa operazione di Panella, anche se lì un semplice grattarsi la schiena veniva dipinto con un linguaggio talmente ostico da annullarne lo stesso significato. Qui invece si capisce almeno l'argomento, ma si rimane come intontiti proprio dal fatto che… se ne parli. Paradossalmente, quindi, un disco dedicato alla massa che allo stesso tempo la nega, pigiando l'acceleratore sui suoi gusti polverizzandoli contro il muro dell'ovvio. Ma lasciamo parlare i brani, veri gioiellini d'astuzia.

L'apertura è rock, un rock sintetico. "Sola" è il biglietto da visita, con i marchingegni digitali di Fabio Liberatori, ex Stadio e deus ex machina di Dalla, in primissimo piano. Ma l'ibridazione col synth pop è evidente, con inserimenti di campionatore che ricordano i futuri esperimenti dei Depeche Mode di Music for the Masses (appunto… un titolo che è un manifesto) o dei Tears For Fears di The Hurting. Si notano certi elementi AOR, ma dosati in modo che ammicchino senza guastare del tutto il tiro del brano, che va via liscio come l'olio usato per far girare bene i pomelli del Fairlight. D'altronde se agli Eurythmics di Be Yourself Tonight non è stato rimproverato nulla, non si capisce perché dovremmo farlo con Ivan.

Con "Shame" l'elettronica è totale e palese, con suoni che ricordano zone "black", Prince e Terence Trent D'Arby in primis. Ma anche qui il rock è presente, se non onnipresente (la chitarra è intelligentemente digitalizzata per confondere le acque). Il brano parla ironicamente di un rapporto in cui la lei di turno è accusata di non saper "cucinare". Ma, a guardare bene, la frase "non sai tirare neanche il collo a un vecchio pollo come me" ricorda un po' il "devi usare un pollo" del "Tengo 'na minchia tanta" di Zappiana memoria, per cui la metafora sessuale è chiaramente nell'aria. Aria di cui sembra composto il brano, che come arriva se ne va, lasciandoci con l'amaro in bocca, come se si ascoltasse una provocazione pop bella e buona. Cosa che, di base, è veramente. Pigliatevi questo e vaffanculo.

Stranamente un pezzo come "Ed è felicità" è stato aspramente criticato, come se fosse una mera sozzeria. Per il sottoscritto rappresenta invece un brano con una melodia micidiale, che può competere con il Battisti de "L'apparenza", anche a livello di suoni. Se il testo fa sbroccare i fan hardcore di Ivan che si aspettano un'altra "Come", è solo perché il nostro sembra dire, ancora una volta, veramente quello che sente a dispetto delle apparenze. Un po' come se volesse, appunto, sondare gli abissi della quotidianità che tutti cerchiamo di mettere sotto il tappeto, e l'unico modo per farlo è tirarli fuori davvero definitivamente. Operazione riuscita: "le briciole innocenti di un biscotto", nella sua languidezza pop, farà proseliti (basti pensare ai Soerba di "I am happy" in cui i biscotti da mangiare erano cruciali). Anche qui il fade out sbrigativo lascia di stucco, ma la vera musica di consumo deve consumarsi molto prima di finire nelle orecchie delle masse, no?

"La mia isola" è un brano, anche qui, di stampo intimista tempestato da sintetizzatori in preda a sequenze tra orologi impazziti e mallet coldwave, in contrasto con l'aria latina della chitarra. "Con te sarò un uomo violento e prepotente / ma anche un giocattolo di pezza con cui ridere e scherzare": sembra un messaggio diretto agli allibiti ascoltatori. Poi uno stacco ancora una volta di rock digitale che riporta all'Ivan che tutti conosciamo e che rivela le potenzialità della formula rock/campionatori. Nel testo forti ammiccamenti al sadomasochismo, sensazione che forse Ivan avrà avuto nel mettere insieme il disco e che, alla fine, risulta probabilmente la sua forza.

"Zio gorilla" si pone invece nel solco delle canzoni-divertissement di Ivan, tessendo le lodi di uno zio fuori dagli schemi. Un pezzo sviluppato con suoni stile pop giapponese, al limite del karaoke certo, ma dalla struttura ritmica particolarmente assurda e arrangiata in modo che non ci si accorga di lei. Nonostante i tempi dispari in abbondanza, sembrano appena percettibili nell'algidità dei suoni, cosa che rende il pezzo permeato da un sentore d'incompiuta che sembra voluto e spudoratamente tirato in faccia.

"Soffice" è una ballata d'amore in equilibrio sulla fune del vapor, in cui l'autore fa scorrazzare la sua vocalità ebbra delle grazie della protagonista femminile. E' un curioso ibrido fra la poetica di Ivan e le atmosfere stile A–ha, che onestamente vedrei bene coverizzato da Hannah Diamond, farcita com'è di paddoni e percussioni molleggiate. Sicuramente un must per chi vuole creare un'atmosfera post hauntology in salotto, aspettando la sua bella.

"Ho paura dei temporali" sfoggia un rock funk plasticoso che poi si apre in arie melodiche completamente sfasate: ritorna lo spettro di Battisti, ma stavolta quello di E già. Col suono di The man from Utopia di Zappa, il brano ostenta la tematica, molto semplice, di un adulto che si caca sotto per i fulmini, niente di più niente di meno. Che cosa voler chiedere di più da un pezzo pop? Già per questo mi sembra una follia bella e buona.

Il brano successivo "Rosanna non sei tu" è un racconto femminile tipico di Graziani: amori non corrisposti, nostalgie, equivoci, tra campanelli digitali sognanti ed elettronica "cinese" con tanto di assolo di cori campionati che farebbe la felicità di tutti quelli che oggi registrano dischi con i preset del Volca Sampler, credendo di farci fessi. Cori che nella loro finzione danno il via a un altro brano che nella sua iperrealtà sembra una cartolina della Standa.

"Baby Love" sembra strizzare l'occhio a Kid Creole, la storia di una ragazzina che va al ballo della scuola e gode delle meraviglie e dell'amore dell'adolescenza, "dal tuo corpo sul suo". È l'Ivan sensuale, che ancora una volta parla di una situazione banalissima e naturale senza troppi colpi di scena, se non un arrangiamento minimale di sintesi FM e percussioni che esplodono in ritmi latinoamericani. Forse il brano più leggero del lotto, che però pesa talmente come una piuma che non si può pensarne davvero male, dai.

Conclude tutto "Evviva Vivi'", storia di narcisismo e sfrontata libertà femminile, una versione postmoderna, forse, della Marta di "Lugano Addio" o della dolce Agnese che fu. Ricamata da fugaci percussioni elettroniche stile Fad Gadget, campioni di chitarra e pianoforti elettrici a pioggia, anche stavolta si ospitano stacchi palesemente hard e assolo di chitarra synth prodotto probabilmente dalle sapienti mani di Luciano Ciccaglioni, un turnista che dai Marc 4 ha suonato praticamente con tutti (e si sa che Ivan era un grande fan del turnismo, vero fulcro della musica che funziona). È uno dei migliori brani del disco, che non a caso inneggia alla libertà tanto agognata da Ivan (potrebbe essere che "Vivi" sia in realtà lui stesso: se volessimo rovesciare il nome, ricaveremmo infatti un sospetto Iv–Iv, le iniziali di Ivan).

Questo sarà paradossalmente l'ultimo album di Ivan per la Numero Uno, come tutti sanno (tornando sempre ai parallelismi col nuovo corso di Battisti) la "casa" del Lucione nazionale. Se molti insinuano che Piknic sia nato solamente per onorare dei meri vincoli contrattuali, è anche vero che i limiti imposti dalla situazione sono per Ivan un modo per sperimentare territori fino ad allora alieni, con un approccio tipo "nulla da perdere" e "sintesi estrema" che è evidentemente coraggioso nonostante tutto. 

Quello che verrà dopo, infatti, darà sicuramente ragione all'Ivan rockettaro, proprio in vece di questa provocatoria svolta. Riprenderà infatti le redini della sua carriera passando per prove più rock, chitarristiche, digitali ma grezze come l'album Ivangarage, fino all'ultimo successo conclamato, la sanremese "Maledette malelingue". Scagliandosi contro i moralisti benpensanti (narra di una frequentazione fra una ragazzina e un uomo non propriamente giovane contro i quali parte una crociata stile "Il gigante e la bambina" di Dalla/Ron) raggiungerà il settimo posto a Sanremo rilanciando decisamente le sue quotazioni, dei cui frutti, purtroppo, non riuscirà a godere appieno. Un cancro ce lo porterà via proprio mentre pensava ad altri progetti che è difficile immaginare meno che interessanti. 

Parlando di Piknic Ivan diceva "quello è un lavoro loro, non mio". Ma se lo stesso Ivan, nelle note di copertina di una vecchia raccolta, diceva di pensare "che non esista peggiore spiegazione di quella che può dare un autore, soprattutto quando deve parlare della propria produzione", allora forse Piknic è in realtà un dispetto, un sabotaggio perfettamente riuscito, dove l'autore si salva e affonda invece la nave della finzione. 

Io lo voglio ricordare come quando suonò all'ex manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma, nella mia zona natia: tutto sudore, battute sardoniche, rock e completo abbattimento della barriera palco/pubblico manco fosse Iggy Pop, straordinariamente vero. Diciamolo: Ivan Graziani ci manca perché "a chi assomiglia non si sa / se non avesse un nome / la chiamerei Libertà". Evviva Iviv.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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Blood Orange ha fondato un nuovo gruppo, i VeilHymn

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Dev Hynes è una figura mutaforme. All'inizio faceva indie danzereccio con i Test Icicles; poi, decise di appendere al chiodo i capelli cotonati e, attraverso qualche disco a nome Lightspeed Champion, si è trasformato in Blood Orange, cantastorie emigrato e abile rilavoratore dell'eredità black.

Oggi, però, Hynes aggiunge un'altra freccia al suo arco: ha infatti fondato un nuovo progetto, i VeilHymn, una collaborazione con il musicista Bryndon Cook (che fa musica a nome Starchild). I due hanno pubblicato ieri il loro primo pezzo, che si intitola "Hymn." Lo trovate qua sotto: Cook ha le luci dei riflettori addosso, mentre Hynes si è preso cura della produzione e delle seconde voci. È qualcosa di ricco, tenero e pesantemente soul. 

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Questo studio dimostra che i cani preferiscono il reggae

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I cani sono proprio come noi. A parte la tendenza degli umani a complicarsi inevitabilmente la vita, c'è una cosa in particolare su cui andiamo particolarmente d'accordo con i cani: il reggae. Secondo uno studio dell'Accademia d'Arte di Scozia e dell'Università di Glasgow, i cani dimostrano "un comportamento più positivo" quando vengono esposti alla musica reggae, oltre che a quella soft rock. La BBC riporta che i cani che hanno partecipato allo studio hanno ascoltato anche Motown, pop e musica classica. 

Ora, a noi questa sembra una lista di generi piuttosto ristretta. Niente rap, metal, elettronica? Non sapremo mai a quanto ammonta l'apprezzamento dei canidi per il funeral doom, per esempio, o per la bounce di New Orleans. Dog-Selected Ambient Works avrebbe potuto essere la nuova frontiera. Ma può ancora succedere, visto che un altro dato raccolto dallo studio dice che i cani "hanno preferenze musicali individuali". Se non altro abbiamo imparato che i cani, proprio come gli umani, hanno tutti una copia di Legend di Bob Marley in casa da qualche parte. Dog Marley. E con questo abbiamo finito.

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Come Flume ha rovinato la musica con un drop

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Non ce ne siamo accorti subito, ma Harley Streten—cioè l'australiano Flume—aveva una formula ben definita fin dall'inizio. Ancora prima che se ne uscisse con il suo album d'esordio nel 2012, era già emerso come un produttore capace di gestire con uguale maestria percussioni affilate e sample vocali. Entrambi erano alla base del costante saliscendi nelle dinamiche dei suoi pezzi. Molti produttori della sua generazione lavoravano in modo simile, ma la magniloquenza frivola delle sue primissime cose le rendeva qualcosa di simile al gas esilarante—che, in base al contesto, serve sia a mandarti in pappa il cervello che a far partire i razzi.

La prima volta che ho visto Flume dal vivo, al Terminal 5 di New York—dove ho passato la serata a evitare tizi palestrati con tipe sulle spalle bevendo un po' di drink da tredici dollari—mi sono reso conto che c'è una ricetta dietro al suo successo. Molte delle sue produzioni hanno lo stesso identico drop vertiginoso: si può notare da molti dei suoi remix di alto profilo, come quello di "You & Me" dei Disclosure—avete presente quelle spruzzate di synth singhiozzanti e quella compressione in sidechain che ti prende allo stomaco? Li usa all'apice di tutti i suoi pezzi più famosi. Ne potete trovare un primo esempio nel suo remix di "Tennis Court" di Lorde: dopo un lento crescendo fatto di lunghe note compresse, il suono si spiega in una serie di drop a tempo raddoppiato inframmezzati da vocine frammentate e tutte scoppiettanti. È un suono facilmente riproducibile e popolare, e non ci è voluto molto perché tutti se ne rendessero conto.

Da allora Streten è diventato sempre più famoso, fino a diventare un nome riconosciuto a livello mondiale. E ci è riuscito grazie ad altre rilavorazioni tutte hipsterone e a un secondo album, uscito l'anno scorso, con dentro qualche hit internazionale (come "Never Be Like You", con Kai, e "Say It", con Toe Lo). Con il passare del tempo, il suo suono è diventato così identificabile da garantirsi un nome proprio: lo stile del suo album di debutto—ondate di synth ampollosi rilassanti come venti in burrasca che soffiano fuori dalla tua finestra—si è evoluto in una struttura caratteristica che molti chiamano il "Flume synth" o il "Flume drop".

Può essere difficile descrivere lo stil di Flume usando parole concrete, e chi prova a parlarne spesso lo fa foneticamente. "Quando penso al suono di Flume, l'unico modo in cui posso descrivere quello che mi viene in mente è una serie di accordi che fanno VVWUUUM, con qualche nota forte in mezzo, su un THOOM pesante ma non così frequente," mi dice Kitty, una producer di New York City. "E mi piace un casino," ammette. "Non ne posso più, se devo essere sincera, ma oggettivamente spacca."

Non è poi così strano, se si parla di elettronica, che un produttore trovi uno stile di successo e decida di dedicarcisi, né è così inconsueto che altri artisti lo assumano a loro vantaggio. Eric Prydz, per esempio, ha visto il suono del suo snare diventare il "Pryda snare", oggi soggetto di infiniti tutorial su YouTube e altre forme di appropriazione tipiche di Ableton. Come è successo a Prydz, anche Flume ha la sua discussione su Reddit, e su YouTube ci sono dozzine di tutorial che possono trasformarvi a tutti gli effetti in una sua bella copia. Se avete dodici minuti da parte, potete anche imparare come fare a ricreare fedelmente il drop del suo remix di Lorde.

Un tutorial per ricreare il suono di Flume su Ableton. Foto via YouTube.

Ma che cos'è che piace alla gente dello stile di Flume, oltre ovviamente al fatto che chi lo usa—lui in primis—sta avendo un enorme successo? È una domanda centrale a qualsiasi discorso sulla musica pop: che cosa fa scattare alla gente quel "qualcosa"? "Personalmente, credo che il motivo stia nel fatto che è musica davvero soddisfacente," dice Kitty. "I pezzi EDM più efficaci sono costruiti attorno al drop; il piacere più basilare della cosa nasce dalla soddisfazione insita nell'ascoltare qualcosa crescere il più possibile e sentirlo esplodere."

Kitty sta parlando di quei drop da festival da cui molti ricavano piacere e che a molti producer piace usare nei loro pezzi. Ma se gente come Afrojack e Skrillex si è dedicata a perfezionare il droppone sporco e cattivo, Flume ha scelto di combinare la formula strutturale del tipico drop EDM con qualcosa di più soffice e clemente. Quando Flume suona dal vivo e i suoi pezzi raggiungono il loro climax, la gente non alza i pugni al cielo tutta carica come fa, per dire, il pubblico del Tomorrowland: si muove gentilmente, dondola, balla. "Prima del Flume-Rinascimento, la norma era creare tensione con bassi profondi e le giuste percussioni," dice Kitty. "Flume ha scoperto, o almeno reso popolare, un approccio più multidimensionale al drop, usando una sorta di spazio negativo per far risuonare ritmicamente i suoi synthoni." 

Negli Stati Uniti, il drop alla Flume è diventato ancora più famoso grazie al contributo di un'icona delle caramelle: gli M&Ms. Il jingle di una pubblicità delle M&Ms trasmessa ampiamente nel 2016 era infatti, "Candyman" di Zedd e Aloe Blacc. E se Zedd si era costruito una carriera facendo electro pensata per suonare enorme, la struttura di quel pezzo gridava invece "Flume" a pieno polmoni. Diplo ha anche accusato pubblicamente Zedd di aver creato un "Drop alla flume falso." 

Le somiglianze erano particolarmente evidenti anche grazie a tutti i flirt che Flume stesso ha avuto con il magico mondo della pubblicità. Qualche anno fa, la Intel ha collaborato con lui per una pubblicità che aveva come protagonisti il setup del suo palco e i suoi accordoni tuonanti. Un po' come quando Gap usò "Digital Love" dei Daft Punk nel 2001 con in testa una certa idea di elettronica melodica e innocua. Certo, c'è una distanza enorme tra Flume e i Daft Punk: ma sono entrambi parte di una lunga tradizione di brand che usano pezzi allegri e sensibili per comunicare effettivamente la plastica luccicante del commercio mainstream. Insomma, il suono di Flume è particolarmente appetibile per chi si occupa di pubblicità dato che può toccare uno spettro demografico molto ampio: dai ragazzini e i clubber in erba fino alle casalinghe che tengono la TV accesa tutto il giorno. 

E così il suono alla Flume è diventato inevitabile. Oltre alle pubblicità, è arrivato anche agli apici della musica più mainstream. Qua sopra potete ascoltare "Here Comes the Night" di DJ Snake, dal suo album di debutto Encore, costruita attorno a un drop alla Flume che compare più o meno attorno ai 90 secondi dall'inizio del pezzo. E non dimentichiamo i capi dei successoni da classifica, i Chainsmokers, che l'anno scorso hanno usato quel modo di editare la voce e quei synth sincopati su "Roses". E grazie al successo monumentale di, "Closer", che è rimasta per quattordici settimane al numero uno della classifica dei singoli statunitense, "Roses" ha risalito la china arrivando al numero 25 (e raggiungendo, invece, il primo posto nella Top Dance Music Chart di Billboard).

Ci sono anche altri produttori meno famosi che hanno provato a tentare la fortuna replicando lo stile di Flume, forse sperando di ricevere così un aiutino a salire un gradino in più sulla scala del successo. Per esempio Vincent con la sua "Her", che potete sentire qua sopra. L'estate scorsa i Party Pupils, un duo di Los Angeles hanno rilavorato "Ms. Jackson" degli OutKast in versione Flume (errorone, secondo me) e riempiendola di synthoni spezzati. Risultato? Il loro pezzo ha fatto 400,000 play su SoundCloud in due settimane e ora ne ha più di un milione. Il che dimostra quanto si possa diventare famosi semplicemente cucendosi addosso un certo stile. 

Un altro esempio sono i Louis the Child, un duo di Chicago che l'anno scorso ha fatto il botto con una collaborazione con K.Flay intitolata "It's Strange". Il pezzo, pompato anche da Taylor Swift, prende molto da Flume. Un commentatore non solo si è reso conto della somiglianza, ha scritto che il loro pezzo era meglio di Flume. Personalmente, se mi mettessero una benda sugli occhi credo che farei fatica a riconoscere chi è chi. Ma il punto non è essere capaci di adottare lo stile di Flume: è che a forza di applicarlo inizia a stancare. Il sistema di rilascio della dopamina di questi pezzi opera sempre allo stesso modo, usa sempre lo stesso suono—e tutti ci ricordiamo com'è andata a finire con i drop dubstep, vero? 

"Succede, così è la vita," dice Nina Las Vegas, una DJ e producer australiana, quando le chiedo che cosa ne pensa di questa appropriazione generale dello stile di Flume. Sono undici anni che Vegas conduce un programma su Triple J, una delle stazioni radio australiane più famose, ed è quindi stata testimone dello sviluppo dello stile in prima persa. È inoltre una cara amica di Flume. Da persona abituata ad ascoltare attentamente qualsiasi cosa inizi a fare tendenza, quando si parla di musica dance, sembra essere d'accordo sul fatto che la formula sia ormai abusata. "Se viene rilavorata in modo sensato non c'è nessun problema, credo. Quando dietro non c'è un'idea è piuttosto facile rendersene conto, e chi copia non durerà," dice. "Non puoi continuare a ripetere una formula per troppo tempo."

Streten, nel frattempo, si sta smarcando sempre di più dal suono di cui è stato pioniere. Ascoltate per intero il suo Skin e vi renderete conto che si sta spostando verso qualcosa di più convenzionalmente pop, sia per quanto riguarda le strutture dei suoi pezzi che per le sue melodie—il che ha senso, se pensiamo alla sua parabola e a quella di chi ha trovato successo seguendo la sua scia. Ma solo il tempo potrà dirci se il suo nuovo corso avrà lo stesso impatto sui SoundCloud di tutto il mondo. 

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Il primo LP delle Donnas compie vent'anni, ma sarà sempre adolescente nel cuore

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Scoprii le Donnas grazie alla mia passione per le commedie romantiche di fine anni Novanta e inizio Duemila. Nello specifico, stavo guardando la finta storia d'amore Adrian Grenier e Melissa Joan Hart trasformarsi in vero amore in Drive Me Crazy, quando Grenier per fare il figo porta Hart a vedere le Electrocutes—che poi sarebbe le ragazze delle Donnas prima che le Donnas le occupassero a tempo pieno. Sul palco portano top glitterati (molto anni Novanta) e la loro attitudine incazzata e riot grrrl sprizza da ogni mossa e da ogni riff. Il loro ruolo era quello di conferire a Grenier l'immagine del cattivo ragazzo ribelle con cui avresti voluto scappare dopo il concerto (ma non dimentichiamo la comparsata della band in Streghe). 

Dopo aver visto il film mi sono tuffata nella discografia delle Donnas. Era il 1999 e la band aveva pubblicato tre album dalla sua formazione nel 1993, potevano bastare. Le Donnas erano giovani donne fortissime la cui estetica era un'intelligente misto di Ramones e Runaways, mentre i loro testi erano decisamente sfrontati e mi insegnarono lo slang per parlare di droga ("Everybody's Smoking Cheeba") e come studiare un piano per uccidere la fidanzata della persona che ti piace ("Get Rid Of That Girl"). Il loro album più famoso è del 2002 ed è uscito su Atlantic Records: si intitola Spend the Night e contiene il pezzo pop perfetto "Take It Off"; ma il primo album omonimo delle Donnas è pieno di melodie lo-fi e inni da tre accordi, un mix di insolenza adolescenziale e ringhio punk. Non c'è una canzone che superi i tre minuti ed è la musica perfetta da ascoltare sul walkman mentre esci di nascosto di casa per una seratona in città. Quest'anno il loro primo album compie vent'anni. Dall'ultimo concerto delle Donnas nel 2012, la cantante Brett Anderson si è data allo studio, a Stanford, alla sua band The Stripminers e alla sua musica da solista (ha appena firmato un contratto con una casa discografica). Ci siamo incontrate per parlare di questo disco sottovalutato, dell'undici settembre, di download e delle diverse personalità delle sue band. 

Noisey: Come vi è venuto in mente di chiamarvi The Donnas?
Brett Anderson: È successo giocando con il logo di McDonald's. È stata una cosa piuttosto casuale. Suonavamo insieme dal 1993, quando eravamo alle medie. Eravamo in due band: The Electrocutes e The Donnas.

Aspetta un attimo, quindi le Electrocutes esistevano davvero? Non le ha inventate il regista di Drive Me Crazy?
Certo! Il regista ha usato il nome della nostra altra band. Era un nostro fan e ci ha detto: "quanto sarebbe figo usare il vostro nome segreto?" Avevamo un disco con il nome The Electrocutes intitolato Steal Your Lunch Money. Quando abbiamo pubblicato il disco bianco e nero delle Donnas, avevamo ancora anche le Electrocutes. Le Donnas erano più punk rock stile Ramones, le Electrocutes più casiniste. Ci piacevano un sacco i Sonic Youth. Una volta abbiamo suonato alla radio di Stanford come Donnas, e subito dopo come Electrocutes. Le Electrocutes erano la nostra vera band, e le Donnas il side project. Poi le Donnas hanno cominciato ad avere successo, così siamo finite per unire le due band. American Teenage Rock 'n' Roll Machine è stato il momento in cui le due band si sono fuse. Penso che da quel momento in poi la musica sia cambiata un bel po'. 

Eri tu la songwriter principale, o ci lavoravate insieme? 
È sempre stata una cosa collettiva. Abbiamo sempre scritto da una prospettiva di gruppo. Tra noi ci chiamavamo la "Fun Generation". Ogni volta che scrivevo i testi, cercavo di concentrarmi su qualcosa che ci rappresentasse tutte e quattro. Quando qualcun'altra scriveva i testi, cercavo sempre di comprendere e di renderla una cosa di gruppo. 

Che cosa stavate ascoltando nel periodo in cui avete composto il vostro primo album?
L'influenza principale di quell'LP erano i Ramones. Per le Electrocutes erano Free Kitten, tutta la roba riot grrrl, Bikini Kill, Bratmobile, L7, Sonic Youth, Faith No More, Metallica, KISS, Poison, Mötley Crüe e David Lee Roth. Ascoltavamo un sacco di roba.

Foto originale presa dall'archivio personale di Brett.

Quali sono le tue canzoni preferite sul disco bianco e nero?
In quel periodo scrivevamo insieme al produttore Darin [Raffaelli]. Quel disco sembra composto di vecchi classici alle mie orecchie. Io amo i vecchi classici. "Let's Rab" e "Let's Go Mano" sono canzoni che avevamo scritto con Darin. "Rab" è una parola che diceva una nostra compagna di scuola, e noi l'abbiamo trasformata in slang per quella canzone. Anche "Mano" era una parola inventata. "Last Chance Dance" è interessante perché l'intro della canzone è il nostro insegnante di geometria di terza media che fa un vero annuncio. Non ricordo se abbiamo scritto la canzone su quel ballo in particolare o era una coincidenza. Ricordo Allison che gli chiedeva se potevamo usarlo per la canzone. 

Avete iniziato ad avere successo già dal vostro primo disco, o solo da Spend the Night?
Questo disco per me rimane sconosciuto. Ho sempre pensato che ai tempi nessuno sapesse chi eravamo. Mi ricordo che "Huff All Night" era una delle mie canzoni preferite. Era molto divertente da suonare e anche comporla fu divertente. È stata una delle prime volte che ho pensato sul serio a come mettere insieme la struttura del ritornello con la melodia.

Come è cambiata la vostra vita con Spend the Night e il contratto con Atlantic?
È stato pazzesco. Ho appena risentito questa storia da una prospettiva diversa, e io non me n'ero resa conto, ma avevamo un tour in programma subito dopo l'undici settembre. È successo di lunedì, e quel venerdì noi abbiamo suonato a Los Angeles, al Palace. Avevamo un intero tour pianificato e i nostri genitori non volevano lasciarci andare. Noi abbiamo deciso di andare comunque, perché era importante. Siamo arrivate a New York e ci aspettava un sold out all'Irving Plaza, un mese dopo l'undici settembre. C'erano i rappresentanti di tutte le case discografiche. Era la prima volta che la gente usciva perché dopo l'undici settembre erano rimasti tutti nascosti per un po'. È stato un tempismo davvero strano. L'intera nazione era in lutto. Noi eravamo spaventate e sconvolte, ma nel frattempo la band stava andando molto bene. È stato molto complicato. Ricordo anche che quel concerto fu una figata nonostante tutto quello che stava succedendo. Ci siamo dette: "Se c'è una cosa che siamo in grado di fare, è un bel concerto".

Sei ancora in contatto con le altre ragazze?
Certo! Anzi, sto messaggiando con Maya in questo preciso momento.

Avete suonato insieme ultimamente? Tornerete mai a suonare insieme?
No, è passato un bel po' di tempo, tutti ce lo chiedono. Ma abbiamo suonato abbastanza per una vita quando eravamo giovanissime. 

Che cosa fai ora?
Ora sono a Stanford. Sto per laurearmi. Lo so che è molto strano. Nel nostro primo disco c'è una canzone intitolata "I Don't Wanna Go To School". Fa ridere quando si fa questo salto d'identità. Mi ricordo di quando ero in tour e dicevo: "L'università è una stronzata. Una montagna di debiti e poi non riesci a trovare lavoro". E ora sono all'università. Studio psicologia. Avevo iniziato questa facoltà a Berkley nel 1997. Pazzesco. Stavamo per partire per il tour, ma non pensavamo che avremmo avuto successo, così ci eravamo iscritte tutte all'università per un semestre.

Qual è il cambiamento più grande che hai visto nell'industria musicale nel corso degli anni?
La prima cosa è stata Napster, e quello è stato un bel disastro perché le etichette pur avendolo previsto non hanno voluto adattarcisi. Avrebbero dovuto, e avrebbero avuto molte possibilità. È facile dirlo per me perché non lavoro per una casa discografica, ma eravamo abbastanza coinvolte nel business e sapevamo che sarebbe successo. Non si può fermare l'America. Dobbiamo farci furbi su queste cose. Quello che invece siamo finiti per fare (controvoglia) è che il nostro prodotto, il disco, è diventato solo un mezzo di promozione. Quindi è finita che fai uscire i dischi sperando che spargano la voce sulla tua band, e i tuoi prodotti diventano il concerto e il merchandise.

Guardando a come stanno oggi le cose, pensi che l'industria musicale sia cambiata in meglio o in peggio?
Quando è successo noi è diventato completamente impossibile vivere del nostro lavoro. Abbiamo dovuto cercare di fare soldi da tutte le altre cose marginali. È stato difficile e scoraggiante e poi è arrivata la crisi. È come se la crisi dell'industria musicale fosse stata l'avanguardia di quella nazionale. È stato un doppio colpo. Mi sembra che i soldi non siano mai più ritornati nell'industria musicale. È stata una valvola che si è aperta in un senso solo. Se ci penso adesso e penso a come se la cavi una band che inizia al giorno d'oggi, proprio non so come ce la faccia.

Che consiglio daresti a te stessa da giovane?
Direi: non preoccuparti del domani così tanto, e di come quello che stai facendo ora influirà sul tuo futuro perché, davvero, non importa. Pensavo che ogni cosa influisse sulla mia vita e fosse o-la-va-o-la-spacca, ma non è così. Mi direi di andare al ballo dell'ultimo anno di superiori. Non ci sono andata perché pensavo fosse una stupidata, una formalità. Ma del ballo mi sarei ricordata per tutta la vita, mentre ora non ricordo che cosa ho fatto quella sera.

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Il batterista dei My Bloody Valentine si è rotto le palle del volume basso ai concerti

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I My Bloody Valentine, leggende dello shoegaze, vengono spesso citati come uno dei gruppi più rumorosi del mondo. Il che è piuttosto difficile da stabilire oggettivamente: possiamo farci aiutare dai decibel, che sono a tutti gli effetti misurabili, ma usando questo criterio la band più rumorosa del mondo sono i Manowar. Insomma, è tutto piuttosto soggettivo: essere nel pubblico di un concerto degli MC5 nel 1965 sarebbe probabilmente un'esperienza più rumorosa di un concerto di Britney Spears a Las Vegas oggi. Ma da qualsiasi punto di vista li si guardi, possiamo dire che i My Bloody Valentine—che hanno costruito una carriera creando muri di suono—sono spaventosamente rumorosi. 

È tenendo tutto questo in mente che dovremmo leggere la lettera che il loro batterista Colm Ó Cíosóig ha spedito all'Irish Times settimana scorsa. È decisamente interessante: si apre con l'idea che "accettare una cultura ammutolita sia pericoloso" e continua spiegando perché il volume ai concerti alla 3arena di Dublino è, dannazione, troppo basso.

Recentemente sono stato a due concerti alla 3arena, entrambi molto costosi, e ho sperimentato rappresentazioni fastidiosamente scadenti e limitate di quelle che dovrebbero essere splendide realtà travolgenti. La 3arena rappresenta questa nuova realtà che castra la cultura e la fa pagare una fortuna. Il limite di decibel imposto alle casse è davvero triste. Quando sei in prima fila a un concerto il basso e la batteria dovrebbero farti tremare le ossa, e la musica dovrebbe riempirti la testa fino a poterti portare all'estasi. Ed è così che volevo sentirmi quando sono andato a vedere i Black Sabbath venerdì scorso e Neil Young qualche mese fa. Invece, ho dovuto accettare il fatto che nessuno avrebbe alzato il volume e che difficilmente avrei potuto raggiungere qualsiasi estasi.

Nella lettera Ó Cíosóig non parla della sua carriera come batterista di Un Gruppo Molto Rumoroso; non c'è alcun segnale che faccia intendere che forse ha una percezione disumanamente alta del volume. Ma questo non può toglierci il piacere di leggere una lettera perfettamente costruita da un cinquantenne che si lamenta di come nessuno abbia più voglia di provare orgasmi rumoristici o di lasciarsi andare. 

Non potevo nemmeno incazzarmi perché avrei disturbato le persone vicino a me!

Cazzo, sì. Trovate la lettera per intero qua.

Foto via MBVOfficial su Instagram.
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Ascolta "Primo", l'esordio di Matteo Vallicelli

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Tutti abbiamo, bene o male, dei gusti musicali in continua evoluzione—è quella cosa per cui a sedici anni dici che non ascolterai mai niente che non contenga almeno un assolo di chitarra elettrica, e a venticinque fai i balletti ascoltando "Sorry" di Justin Bieber. E non c'è niente di male, in tutto questo: è un segno di crescita, di apertura mentale. Ecco, Matteo Vallicelli è una persona che ha fatto un sacco di cose diverse, nella sua carriera, e ascoltandole è curioso capire come è arrivato a scrivere un disco come "Primo". 

I suoi inizi sono nello screamo, nell'hardcore e nel punk: Endless Inertia, Revolution Summer, Smart Cops. Poi, il garage con i Wildmen e il post-punk come batterista di Soft Moon e Death Index. Ora, un trasferimento a Berlino e la scoperta dell'elettronica. "Primo", l'esordio solista di Vallicelli, è il primo album di un italiano a uscire per Captured Tracks, etichetta-culto newyorkese. È una serie di pezzoni di elettronica cazzuta e arpeggiata con un'atmosfera ottantiana e retro, che scelgono—sorprendentemente, per un batterista—di non concentrarsi troppo sulle percussioni. Lo potete ascoltare qua sotto per intero in anteprima. Appena sotto, trovate una mini-intervista con Matteo. 

Noisey: Di solito quando faccio interviste cerco su Google "intervista (nome artista)" e non esistono, almeno nelle prime pagine, interviste a te come artista solista. Come ti prende il fatto di essere in prima persona a dover rispondere dell'album? Ti son capitate cose che ti han stranito/preso bene a riguardo?
Matteo Vallicelli: Naturalmente è ancora una cosa fresca per me, ma mi piace l'idea di essere l'unico responsabile dietro questo progetto. In qualche modo mi fa sentire più maturo come musicista e più orgoglioso che mai di fare quello che sto facendo. Le cose che mi hanno più stranito per ora forse sono proprio le interviste, che da batterista, in passato, ho chiaramente sempre schivato.

Che cos'è che ti fece dire, "Me ne vado da Roma, vado a Berlino"? La musica è stata una motivazione primaria o secondaria?
La voglia di vivere in una città moderna. Roma è stupenda e la amerò per sempre, mi ha insegnato tanto, ma è una città che campa di rendita del suo glorioso passato. Berlino, al contrario, è una città brutta (diciamolo!), oscura, ma è un posto in balia delle novità, dove tutto è in continuo mutamento. Non direi che mi sono trasferito lì appositamente per fare musica, ma la città si è rivelata assolutamente funzionale al mio percorso. Sia per la sua scena musicale, che è stata sicuramente di grande ispirazione, che per via di cose più pratiche… tipo i negozi di sintetizzatori: ce n'è uno a ogni angolo della strada. 

Hai fatto tante cose diverse negli anni, le analizziamo un attimo e mi dici che ti resta di ognuna? Gli Endless Inertia, che oggi sono un po' culto un po' dimenticati, i Revolution Summer e l'HC, gli Smart Cops (com'è che vi era venuta la gimmick?), il garage coi Wildmen, il turnista con Soft Moon.
Gli Endless Inertia sono un culto? Davvero? Ho ancora duecento CD in garage a casa dei miei, se a qualcuno interessa! Comunque è stata la prima band con cui sono andato in tour al di fuori dell'Italia, e all'epoca non avevo neanche la patente. E penso resti quella in cui ho dato di più a livello di inventiva con la batteria. Non so se oggi riuscirei a uscirmene con certi passaggi così intricati. Revolution Summer li associo alla libertà di movimento sul palco. Suonavo il basso, e fu l'unica esperienza (prima di adesso), in cui non fossi costretto a rimanere seduto alla batteria. Peccato siano durati troppo poco. Smart Cops: il gruppo più completo in cui abbia mai suonato. Oltre ad avere un estetica ben definita (sbirri in divisa da punx, e viceversa) eravamo anche dei treni sul palco. Coi Wildmen ci siamo divertiti un casino ed è stato il primo progetto con cui ho messo il naso fuori dalla scena hardcore. Infine le esperienze con The Soft Moon mi hanno reso un "professionista" e perfezionato sotto tanti punti di vista.

Fotografia di Margot Pandone.

E attraverso tutti questi cambi di casacca com'è che ti è passato per la testa di andare anche sull'elettronica? 
Non è stata una mossa premeditata. Dopo aver sciolto i Wildmen nel 2013, non ho più buttato fuori altra musica. Posso capire che sembri strano uscire con un disco così adesso, ma semplicemente in tre anni è successo di tutto, mi sono appassionato a tante altre cose e specialmente all'elettronica. Primo è il prodotto di un lungo periodo di ricerche, scoperte e sperimentazioni. 

Nello specifico come hai conosciuto i ragazzi di Captured Tracks? Una cosa figa che fanno tuttora è fare i post in cui dicono "Hey, mandateci le demo che le ascoltiamo davvero!" 
Ho conosciuto Mike (il boss dell'etichetta) e Pam (la label manager) nel 2009 quando suonavano con i Blank Dogs. Poi negli anni siamo rimasti in contatto tramite i vari tour negli States di Smart Cops e The Soft Moon. Entrambi hanno lavorato per una vita in negozi di dischi, quindi sono abituati ad ascoltare molta, moltissima musica. Mike è un collezionista di dischi pazzesco. Sono assolutamente appassionatissimi a quello che fanno e sono certo che ascoltino davvero quanti più demo riescano.

Hai mai sentito la colonna sonora di Hotline Miami? Perché quello che fai sull'album ci starebbe dentro perfettamente. Perché la percepisco un po' ottantiana e distorta, di quelle cose che starebbero bene sui videogiochi 8-bit come su Miami Vice come alle serate.
Non sono un gamer quindi non ho idea di cosa sia Hotline Miami, anche se dal nome azzarderei si tratti di una tamarrata spara-tutto alla GTA San Andreas?! Comunque mi piacerebbe un sacco provare a sonorizzare un videogioco in futuro, e lavorare in qualsiasi altro ambito al di fuori del mondo prettamente musicale.

Perché sviluppare un discorso senza le percussioni come elemento fisso?
Anche questa non è stata una scelta premeditata. Però suono la batteria da quindici anni, e penso che in qualche modo il mio inconscio mi abbia voluto guidare su altri territori. Con questo non voglio dire che mi sono stufato delle percussioni. Sogno ancora di avere una Ludwig anni '60 e una Roland 808 in studio. Semplicemente mi sono divertito un sacco a lavorare sul ritmo utilizzando strumenti diversi da quelli a cui sono sempre stato abituato.

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Suspiria: quando la paura è multisensoriale

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Colonne sonore bellissime è la serie di Noisey che parla di colonne sonore bellissime. Qua gli altri episodi.

Susy Benner decise di perfezionare i suoi studi di balletto nella più famosa scuola europea di danza. Scelse la celebre accademia di Friburgo. Partì un giorno alle nove di mattina dall'aeroporto di New York e giunse in Germania alle 22.45 ora locale.
(Intro di Suspiria, voce narrante di Dario Argento)

Tutti voi sarete cresciuti col fascino dell'horror, anzi della paura tout court. Da bambini è difficile sfuggire all'attrazione-repulsione di farsi spaventare da qualcosa, anzi lo spavento è fondamentale proprio per il superamento dello stesso. Logico che nei tempi moderni i film siano uno dei mezzi più semplici per farsela sotto a quell'età, mentre a livello rustico magari una volta bastava solo una zucca di halloween con una candela accesa dentro nel buio. Certi traumi non vengono mai superati, e anche da adulti la "goduria dello spavento" è spesso un must. 

Uno che non si è mai lasciato alle spalle questa fase è Dario Argento. O meglio, ci ha provato solo una volta con il film Le Cinque Giornate, ma è tornato presto a quella che è la sua passione fondamentale, cioè impaurire e impaurirsi. Un pazzo puro, solo a vederlo nei documenti video del suo periodo d'oro trasuda incubi e bad trip da acidi—probabilmente ingeriti a valanga. 

Di film allucinanti ne ha fatti davvero tanti, ma a parte Profondo Rosso, che è oramai un'icona della paura su pellicola, c'è un altro dei suoi film che irrompe dirompente nell'immaginario collettivo in maniera tanto scomoda che c'è spesso la tendenza a rimuoverlo a favore del suo illustre predecessore. Ebbene, questo film è Suspiria, che proprio questi giorni torna restaurato nelle sale. Un film che potrebbe essere considerato più un film-installazione che una vera e propria pellicola, un bombardamento sensoriale e multimediale, una cosa che va verso il meta horror, superando immediatamente il genere, in cui Argento si cimentava per la prima volta proprio in occasione di questo film (Profondo Rosso, infatti, per quanto molti facciano confusione a proposito, è un thriller). Pare che i giovani non siano tutti al corrente di questo capolavoro. E allora vi racconto un po' com'è cascato nella mia vita di giovinotto, in un certo senso sfondando delle porte non sempre aperte: spero di darvi l'esempio. 

Come ho conosciuto Suspiria è presto detto: avevo circa nove o dieci anni e dopo tanto tempo a immaginare il contenuto dei film horror di cui scorgevo i trailer in TV e che mi facevano già cagare sotto così, decisi che avrei affrontato un film di quel tipo dall'inizio alla fine. Troppa la curiosità, troppo l'istinto di andare fino in fondo. E quindi un giorno, poiché passavano Suspiria in TV, mi dissi: "Ok, vediamolo. Ce la posso fare, tanto che sarà? Oramai sono grandicello, e poi dai su, che cazzo, un po' di fegato!" Mi sintonizzai e via. Le prime scene erano chiaramente una cosa oscura che non presagiva niente di buono, tutte basate sulle forze occulte degli oggetti, per cui anche una semplice apertura automatica di una porta rappresentava una tagliola pronta a uccidere. Il commento musicale, figurarsi, era di un'ossessività maniacale: la protagonista immersa nella sfiga, con un'impossibile pioggia torrenziale annessa, un crescendo di voci malate che sussurrano nel brano portante della colonna sonora, elementi che fanno a cazzotti fra loro fra fontane impazzite che zampillano, neon glaciali in un tunnel, tombini ripresi come se si mangiassero l'acqua, alberi che serbano su di se visioni spettrali finché non si arriva alla famigerata scuola di danza, che a differenza di tutta questa oscurità è appunto, colorata in modo sospetto. 

In caso non la conosceste, la trama di Suspiria è la seguente (cito dal sito ufficiale di Dario Argento): Giunta a Friburgo per perfezionare i propri studi presso una accademia di danza, la giovane americana Susy Bannon incontra un'atmosfera alquanto strana e misteriosa. Molti eventi sinistri accadono nella scuola. Susy, che comincia ad avvertire dei continui inspiegabili malesseri, vuole vederci chiaro... e Argento nelle sue parole sintetizza così: "Mi sono detto che volevo raccontare i personaggi delle streghe perché avevo letto vari libri e conoscevo bene l'argomento. Ho anche incontrato persone che si dichiaravano streghe. Non credo all'esistenza delle streghe, però restano un fenomeno culturale ed esistono nell'immaginazione, quindi è un po' come se esistessero anche nella realtà". Ecco, appunto, Suspiria parla di streghe. Ma non sono mica streghe tipo la Befana. 

Io pensavo vabbè, siamo solo all'inizio, non è ci sarà tutta questa roba per cui cacarsi addosso. E invece nel giro di pochissimi fotogrammi succede di tutto. Una tipa viene assassinata praticamente subito in maniera brutale, a colpi di coltellate nel cuore ancora pulsante e impiccata fino a rompere una vetrata/ soffitto i cui vetri vanno a uccidere un'altra tizia che passa di sotto tagliandole praticamente la faccia a metà, tutto questo con tonnellate di sangue e di schifo che se guardavo uno snuff movie era meglio. A quel punto ho spento la TV dicendomi: Madonna mia del Carmine, meglio che torni a giocare con i puffi. Ecco, per me Suspiria era finito lì, in quei fotogrammi c'era tutto, il resto era puro corollario. È come se Argento, già dall'inizio del film, dicesse: "Perdete ogni speranza o voi ch'entrate", calando subito un asso di picche del disastro e scaraventando lo spettatore nel suo delirio malefico. E l'assenza di speranza, paradossalmente, Argento la esprime con colori sparatissimi, una colonna sonora letteralmente fragorosa e ricchissima di soluzioni, incongruenze nella narrazione talmente evidenti che implicano una completa mancanza di bussola, come un sogno lucido ma terrificante. 

In questo senso, pare che l'assenza di speranza nasca proprio dal fatto che la morte è creativa quanto gli stratagemmi per sfuggirle, e la salvezza nel fatto che da un brutto sogno ci si sveglia sempre. E infatti ingegnosissime sono le morti e le torture inflitte alle povere ballerine: il finale del film è l'anticorpo del subconscio che entra in azione risolvendo tutto con la veglia (simboleggiata dal fuoco purificatore, ma non sto qua a farvi lo spoiler). Subconscio che viene stimolato in tantissimi modi nel film, da ombre non meglio identificate che fanno capolino improvvisamente (e qui gli errori di regia, tipo i riflessi della troupe sui vetri ecc., vengono sfruttati egregiamente, tanto che addirittura nelle prime scene si vede di straforo un Dario Argento riflesso nel vetro del taxi fare una smorfia delirante) fino agli oggetti piazzati in maniera diversa dal solito (famosa la storia delle maniglie delle porte piazzate più in alto del normale, un po' alla maniera di Alice nel paese delle meraviglie quando si cala il funghetto). 

Per non parlare dell'utilizzo di stoffe colorate a sostituire le gelatine davanti alle luci per dare l'illusione di dipingere completamente di colore i volti degli attori, l'utilizzo del sangue come qualcosa di irreale, che non può far veramente paura essendo palesemente vernice rossa, ma appunto per questo scatena un cortocircuito micidiale: siamo vivi o no? (La stessa cosa, in maniera meno fluorescente, accadeva in Profondo Rosso). Ma si è parlato molto anche delle tecniche di impressione della pellicola: ispirate a roba apparentemente innocua come Biancaneve e i sette nani e Il mago di Oz, si sfruttano delle tecniche che sono il canto del cigno del technicolor ma nello stesso tempo spinte verso un'esaltazione tale che, nel 1977 (in piena era punk), si può dire che Argento abbia prodotto un film new wave dalle macerie di un precedente sistema. Anche nella musica di quel periodo, tra l'altro, le molto abusate chitarre elettriche cominceranno a colorarsi di effetti che ne smaterializzeranno i suoni fino a renderle definitivamente sintetiche.

Della colonna sonora si è parlato un po' troppo: c'è chi asserisce che Suspiria sia un disco che senza il film non può stare in piedi. Mai sentita cotanta idiozia: Suspiria anticipa di tantissimi anni l'utilizzo di strumenti tradizionali etnici a fini maligni, tanto che solo anni dopo troveremo casualmente molte delle stesse idee riciclate per dischi quali Flowers Of Romance dei PIL, che puzzano di zolfo e di malanni. L'ibridone fra rock, etnico, sintetizzatori impazziti che sembrano ribellarsi ai loro creatori con fare animista e malvagio e quei bassoni gonfi di fuzz e flanger malati fino al midollo preannunciano in un certo senso gli esperimenti sincretici della new wave, ma vanno anche oltre, fino al noise estremo ottenuto con fragorose percussioni e sovrapposizioni di voci graffiate e belluine, percorse da suggestioni di negromanti senza tempo. 

La colonna sonora di Suspiria è osticissima pure nei momenti più rilassati: anche quando fa capolino un "sensuale" sassofono rimane sempre una rilassatezza indotta, quasi un'overdose da farmaci in cui sei la vittima stordita alla quale stanno imponendo degli esperimenti mortali. A confronto lo score di Profondo Rosso è roba da oratorio. Ai comandi ci sono ovviamente i Goblin, che si confermano tra i più importanti gruppi italiani del periodo, sia per il cinema sia no: ma qui il peso specifico di Dario Argento è indiscutibile, tanto da poter essere considerato il quinto Goblin (il tastierista Maurizio Guarini non fu accreditato all'epoca, altrimenti sarebbe il sesto). È di Argento l'idea di introdurre strumenti musicali etnici come il bouzouki e i tamburi parlanti africani, sua l'idea di un assalto uditivo sfinente, tanto che durante le riprese era solito bombardare gli attori con la colonna sonora sparata a tutto volume e a tradimento, così da rendere i protagonisti veramente spaventati. Grazie a ciò i Goblin si lasciano alle spalle quasi definitivamente il prog, entrando in un concetto musicale più ampio. Per la prima volta Argento, insomma, dirige anche l'orchestra e non solo il film in sé.

Film che, come si ricorda spesso, è composto di 1300 inquadrature, nessuna uguale all'altra. Una follia, che in questo caso ricorda l'operazione di Carmelo Bene in Salomè, che lavorando con una serie infinita d'inquadrature e montaggi maniacali, sul potenziamento dei colori, sul montaggio subliminale e sul rivoltamento percettivo dello spazio creò a tutti gli effetti (come lui affermava) "il primo videoclip della storia". Ecco, forse Suspiria può essere il secondo. È indubbio che il regista romano si sia ispirato anche alle gesta del factotum leccese, trovando tutta una serie di escamotage, dalle lenti anamorfiche ai processi d'inibizione, le luci ad arco, fino al tipo di pellicola utilizzata a bassissima sensibilità, con l'aiuto fondamentale del direttore della fotografia Luciano Tovoli; poi c'è la pazzesca scenografia di Giuseppe Bassan in cui il vuoto e il pieno, il moderno e l'antico scivolano l'uno nell' altro senza soluzione di continuità, come in un delirio lisergico che tiene conto anche della lezione di Escher (citato un po' ovunque nel film) per cui sopra e sotto, tempo e spazio diventano una continua illusione ottica. 

C'è anche da dire che non c'è volto che si trasfiguri sotto luci e diavolerie scenografiche se non portato davvero alle estreme conseguenze: e in questo Argento ci butta un po' del suo sadismo, portando gli attori a fare cose che neanche lui sa a quali conseguenze porteranno, tanto per arrivare a quei livelli di stress in cui realtà e paranoia s'incontrano. Celebre l'episodio in cui l'attrice Stefania Casini, per la scena del filo spinato, fu costretta a camminare in una stanza piena di filo di ferro senza nessun'ulteriore istruzione, col risultato che rimase davvero intrappolata nel filo procurandosi vere ferite, e fu liberata successivamente soltanto con l'ausilio d'importanti cesoie. Da questo si capisce che è un film nato con una sconcertante determinazione: probabilmente per Argento all'epoca alba e notte erano la stessa cosa (nel making of trasmesso dalla Rai nel 1977 il nostro sembra imbottito di anfetamine che manco Vasco Rossi nell'intervista con Mike Bongiorno).

Sulla sceneggiatura, che dire: si sente il peso specifico della grande attrice (ma che dico attrice, icona) Daria Nicolodi, all'epoca compagna di Argento, che co-firma con mano sicura una storia in cui sono presenti solo ed esclusivamente donne e gli uomini hanno ruoli marginali. Ma facciamo parlare direttamente lei, dal sito ufficiale: "La sceneggiatura deve davvero moltissimo alla mano di Daria o, meglio, ai racconti che la nonna le faceva quando era piccolina. La nonna le raccontava che da giovane era andata in una scuola di perfezionamento, ci rimase ben poco perché capì che lì si insegnava la magia nera. Anche tutta la scena finale del film è stata ispirata da Daria, che in una sorta di dormiveglia 'vide' come poter arrivare alla Regina Nera. La distribuzione americana volle un'attrice statunitense come protagonista e, nonostante quel ruolo fosse stato scritto per lei, dovette rinunciarvi". 

Su questo si potrebbe disquisire parecchio: Suspiria potrebbe essere considerato un film femminista in cui però vengono sciorinate le contraddizioni interne al mondo femminile, la donna che finalmente combatte i propri mostri e dà loro fuoco, la parte nera dell'"altra metà del cielo" che fa finalmente pulizia di eoni di oppressione liberandosi prima dall'interno poi definitivamente all'esterno. Ma ci sono anche riferimenti contro l'educazione classica in generale, che potrebbero essere paragonati al futuro nastro bianco di Haneke per i rimandi subliminali al nazismo: la scena dell'uccisione del cieco avviene, ad esempio, nella Königsplatz di Monaco di Baviera usata da Hitler per i suoi comizi e per le imponenti parate. Nel film le atrocità vengono commesse dalle vecchie generazioni ansiose di fagocitare nel nulla le proprie giovani vittime (la strega malvagia è davvero una vecchina di novantaquattro anni strappata a una casa di riposo e buttata nel set a recitare, tanto per essere chiari). 

Di rimando, è una critica a un sistema economico e di potere, certo: il discorso dello straniero che deve vedersela con un mondo ostile (il personaggio principale è un'americana—per imposizione della produzione, potrebbe venire da qualsiasi posto del mondo—costretta ad affrontare gli spettri marci dell'Europa) non è assolutamente posto lì a caso. Di base sono servite su un piatto... ehm, d'Argento le paure di un Occidente che si sgretola sotto i nostri occhi diventando sempre più opulento e colorato, la pop art che uccide, una moderna favola di Hansel e Gretel dietro i cui canditi invitanti si nasconde la morte. 

Solo per questo è un film ancora attualissimo perché, oramai, siamo tutti nel ventre della strega e senza saperlo ben felici di ingrassarlo (anche nel film, d'altronde, le ballerine non fuggono dalla scuola nonostante cadano loro in faccia tonnellate di vermi). Consiglio a tutti di rivedere Suspiria nel suo lussuoso restauro in 4K, da oggi fino al primo febbraio: ancora una volta, come da bambini, nello spavento c'è la soluzione per ritrovare la libertà. E diciamolo: questa libertà non è un sogno e men che meno un incubo. Si chiama donna.

Suspiria in versione restaurata in 4K sarà nei cinema di tutta Italia dal 30 gennaio al 1 febbraio.

Demented sta cercando di farsi passare lo spavento su Twitter: @DementedThement.
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Soundcave è l'ultimo rifugio sicuro dei metallari italiani

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Nel pieno centro di Milano, in una parallela di corso Genova che non ti capiterà mai di imboccare nella vita a meno che tu non lo faccia di proposito, c'è un negozio un po' particolare: aperto a orari tutti suoi, incastrato tra un centro scommesse e (manco a dirlo) una parrocchia, dalla vetrina spoglia e con la serranda calata spesso e volentieri anche durante le ore di apertura, non ha un aspetto particolarmente accattivante. Eppure è lì da più di vent'anni e dalle quattro mura di Soundcave è passata tutta la storia del black metal.

Roberto, il titolare, è un compagnone, non rifiuta mai due chiacchiere, e qualche volta, mentre stai scartabellando tra il nuovo disco dei Goatblood e gli ultimi arrivi della Debemur Morti Productions, ti capita di sentirlo raccontare della volta in cui, poco più che ventenne, si è ritrovato i Mayhem (sì, Euronymous, Necrobutcher, quelli là, tra poco ci arriviamo) che piantonavano la sua casella all'ufficio postale di Vanzago per conoscere il loro amico di penna, o di quando ha assistito a una session di storytelling in tedesco a Berna, per la festa di compleanno della moglie di un membro dei Darkspace.

In quasi trent'anni di black metal accumuli un quantitativo tale di aneddoti assurdi da poterne fare un libro, e da Soundcave ci vai anche per questo, per sentirti un po' parte della storia, per conoscere la scena. Tutti gli avventori sono degli habituè, tanti si conoscono tra loro perché conoscenti di musicisti, amici di musicisti, anzi, spesso sono loro stessi i musicisti e soprattutto, la clientela è quantomai eterogenea. Di motivi, per andare a fare compere al civico 7 di Via Daniele Crespi, un appassionato ne ha molti: il posto è piccolo e le rastrelliere di dischi non sono neanche più così piene, è vero, ma questo è perché ormai il giro dei frequentatori è talmente consolidato che basta un messaggio su Facebook o un'email all'indirizzo del negozio e qualsiasi desiderio viene accontentato su misura. Un negozio di dischi tailor-made, dove il cliente entra presto a far parte di un ecosistema. Rivolgerti a Soundcave ti permette di entrare in contatto con tutti, ma proprio tutti gli addetti ai lavori e buona parte dei musicisti del settore, e gli ordini vengono presi alla maniera di una volta, come quando i nostri nonni andavano a fare la spesa al negozietto in paese e il bottegaio li riconosceva e li chiamava tutti per nome; qui è la stessa cosa, solo che al posto di tre michette ti ritrovi il prossimo album dei Rotting Christ o dei Nuclear Winter.  Il sabato, poi, il negozio diventa un vero e proprio "salotto buono del metallo", con gente che entra al mattino ed esce alla chiusura. Anzi, proprio mentre ero lì a curiosare nel cestone dei vinili usati, mi si avvicina un altro avventore, sulla quarantina, offrendomi un bicchiere di plastica: "favorisci?". Titubante, chiedo cosa dovrei favorire, e con tutta naturalezza mi sento rispondere: "Prosecco. Giovedì era il mio compleanno, se vuoi i pasticcini sono sul bancone, sopra i cd in offerta". Quando si dice il clima familiare.

Sfatiamo il mito del metallaro capellone coi brufoli che si veste di nero per fare la parte del freak nei corridoi della scuola: oggi la più gran parte di chi ascolta questa musica ha quarant'anni e i capelli li ha persi da un po'. Il metallaro tipo, nel 2017, è lo stesso metallaro tipo del 1994. Nel senso che è proprio la stessa persona: il ragazzino brufoloso oggi ha vent'anni in più, un lavoro, spesso una famiglia, e quasi sempre un pensiero critico particolarmente sviluppato dovuto a due decadi e più di ascolto di un genere che via via si è fatto sempre più strutturato e a tratti impenetrabile ai non iniziati. Le recenti derive musicali intraprese dai blackster non di rado includono riferimenti filosofici, grande attenzione alla ricerca spirituale e anche una particolare fascinazione per la cosmogonia e l'esplorazione astrale, e il cliente di Soundcave non fa eccezione. Il gran casino, le chiese bruciate e le provocazioni sataniste in generale su cui si basava il movimento venticinque o trent'anni fa oggi sono una goccia nel mare di contaminazioni, studi, sviluppi e ibridazioni, e chi spende i propri soldi in dischi è sempre più esigente e meticoloso nel proprio ascolto, rendendolo quasi uno studio. Ciò nonostante, o forse proprio per questa sempre maggiore complessità, "sarebbe bello avere un po' di ricambio generazionale", dice Roberto, "tornare a vedere qualche pischello che entra in negozio per la prima volta e mi chiede – Oh, ma tu eri amico di Euronymous?". 

Già, Euronymous, al secolo Øystein Aarseth, universalmente riconosciuto come la mente contorta che nella Oslo degli anni '80 diede forma coerente (ma neanche troppo) all'intera baraccata passata alla storia come black metal, nonché fondatore dei summenzionati Mayhem. "E lo eri sul serio, suo amico?" chiedo. "Beh, ci scrivevamo le letterine", risponde Roberto. Parentesi storica per i più giovini: all'epoca tra appassionati di musica estrema la via di comunicazione maestra era il tape trading, lo scambio di cassette duplicate di straforo quando non direttamente registrate in casa. Tipicamente, i nastri erano accompagnati da lettere in cui si commentava il contenuto musicale allegato e si davano pareri su quanto l'amico di penna aveva inviato e scritto in precedenza. Ecco le "letterine", ed ecco per quale ragione i Mayhem nel 1990 si ritrovarono a piantonare una casella postale di Vanzago: per conoscere il mittente dei nastri che arrivavano lassù, nella fredda Norvegia, dalla provincia milanese. 

Con Aarseth non furono sempre rose e fiori, certo, racconta Roberto da dietro il bancone, come quando intorno al 1992 "mi telefonò incazzato nero perché aveva sentito che mi stavo accordando con i Bestial Summoning per stampare il loro disco, ma a lui stavano sul culo, quindi mi ritrovai a dover scegliere se realizzare quel disco o il Live In Leipzig dei Mayhem". Euronymous era noto per il carattere particolarmente accentratore, da padre-padrone ideologico dell'intero panorama black metal, e mal tollerava chiunque mettesse in discussione la sua supremazia; questo atteggiamento particolarmente intransigente lo portò a forti contrasti con molti musicisti e personalità dell'ambiente (tanto da arrivare rimetterci la pelle nel giro di pochi anni) e a quanto pare tra lui e gli olandesi Bestial Summoning non correva buon sangue. Con l'andare degli anni comunque il rapporto tra il giovane milanese e il padrino del metallo nero si andò consolidando, tanto che Euronymous "Avrebbe anche dovuto stampare il mio disco sulla sua Deathlike Silence Productions", prosegue Roberto riferendosi a In Absentia Christi dei MonumentuM, band di cui è mente creativa e principale esecutore, "ma è morto prima". 

A questo punto viene naturale chiedere: "E Varg [Vikernes, controverso personaggio dietro al progetto Burzum nonché prima amico e poi assassino di Euronymous, ndr], lo conosci?" Anche in questo caso, la risposta non delude: "Sì, direi che lo conosco. Ho pure passato una giornata in cella con lui, a Oslo, registrando le nostre conversazioni. Tutte le interviste che ha rilasciato nel 1996 le ho scritte io, ho ancora a casa le TDK da novanta minuti. La titolare della Misanthropy Records [etichetta che pubblicò alcuni degli album più famosi di Burzum] all'epoca era la mia ragazza; quando incarcerarono Varg per l'omicidio tutti vollero intervistarlo, ma c'erano dei limiti per accedere a un carcere di massima sicurezza norvegese, così lei decise di mandare me armato di registratore, io misi su nastro ore ed ore di conversazione che poi sbobinai e vendemmo 'pacchetti' diversi della stessa intervista alle riviste di settore di mezzo mondo. Ovviamente il mio nome non compare mai, usammo uno pseudonimo diverso ogni volta". 

Poi, dopo aver parlato di Euronymous e di Burzum, è naturale incalzare il mio ospite su una delle leggende più famose della storia del black metal: il suicidio di Per Yngve "Dead" Ohlin, frontman dei Mayhem dall'88 al '91, che un pomeriggio, nella sorta di casa comune fuori Oslo dove viveva la band in quel periodo, decise di puntarsi un fucile alla fronte e premere il grilletto. A trovare il cadavere rincasando quella sera fu proprio Euronymous, il quale, storia vuole, "ha spedito a quattro o cinque persone frammenti del cranio di Dead, ma io non ci ho mai creduto". "Ah, quindi non è vero..." "No, no, è tutto assolutamente reale", continua Roberto, "il pezzo di teschio l'ho ricevuto, ce l'ho a casa assieme alla lettera, intendo dire che non ho mai creduto che Dead si fosse suicidato". BOOOOM.

Oltre all'attenzione per i clienti e al quantitativo industriale di folklore, racconti e situazioni assurdi, comunque, a tratti capita anche di parlare di musica per davvero, ed è lì che si inizia a discutere di quale gruppo sia più interessante, di come funzioni il mercato discografico underground nel 2017 e dei massimi sistemi. Perché Soundcave è anche il quartier generale di Avantgarde Music, una delle etichette più interessanti del panorama estremo, da vent'anni dedita alla diffusione delle forme più particolari e ricercate di black metal e affini: da qui, oltre al succitato leggendario Live In Leipzig e altre cose di casa Mayhem sono passati, in ordine sparso: Katatonia, Solefald, Carpathian Forest, Behemoth, Evoken, Opera IX, Taake, Forgotten Tomb, Darkspace, Abigor e centinaia di altri artisti e progetti nazionali e internazionali. Nella vita di ciascuno di loro, questo piccolo grande negozio in zona Sant'Agostino, nella musicalmente atrofizzata Milano, nella cattolicissima Italia, si è ritagliato uno spazietto. Quindi il mercato musicale è ancora vivo? Secondo Roberto sì, ma ci vorrebbe proprio il ricambio generazionale di cui sopra, perché per lui io sono "uno dei clienti più giovani. Io sopravvivo grazie a dei quarantacinquenni che per qualche miracolo ancora non si sono stufati di comprare dischi, e per le vendite che faccio su Bandcamp". 

Quindi il business digitale esiste? "Non proprio. In America sì, per quanto in calo, mentre in Europa pagare per dei file non fa proprio parte della cultura comune; per il mio lavoro Bandcamp è uno strumento irrinunciabile oggi, perché la gente da lì compra i dischi". Il cliente affezionato invece, più che il profilo Bandcamp di Avantgarde Music, preferisce la pagina Facebook di Soundcave: è qui che vengono pubblicate regolarmente le foto degli ultimi arrivi in negozio, con tanto di commenti personali del Nostro in caso di lavoro particolarmente meritevole. L'ultimo "caso", la ristampa dell'EP Old Man's Wyntar del misconosciuto progetto Mosaic: il disco a Roberto è piaciuto talmente tanto che su Facebook ha scritto, cito testualmente, "cazzo si. packaging state of the art, Eisenwald art, e disco molto molto bello (...) Chi non lo prende è un barbapapà". Risultato? Venti copie arrivate ed esaurite in un'ora. Due sono le possibilità: o l'oltranzista clientela metallara ha davvero paura di essere associata ai Barbapapà, o c'è un rapporto tale col gestore del negozio da fidarsi ad occhi chiusi dei suoi consigli. Certo, la credibilità che può vantare nell'ambiente qualcuno che nel 1999 ha dovuto trovare un secondo albergo a Hellhammer e Necrobutcher dopo che questi, ubriachi, sono stati cacciati per aver lanciato i materassi fuori dalla finestra della stanza e aver vomitato nei vasi di fiori... Ha un certo peso.

L'Italia non ha mai goduto di grande considerazione nei resoconti dell'epoca; sul black metal norvegese dei primi anni '90 si è detto e scritto di tutto, ma nessuno ha mai pensato di interpellare un ragazzo italiano che, nonostante avesse rapporti diretti con tutti i protagonisti, si è sempre tenuto lontano dai riflettori. Forse è stata la scelta di mantenere un profilo basso a non fare del mastermind dei MonumentuM un personaggio di spicco, ma se sei appassionato di musica estrema, quando passi da Milano fai un salto da Soundcave. Puoi scoprire perché i Godkiller a Milano non suonarono mai prima dei Mayhem, ma passarono la serata al bancone del bar e come questo portò alla registrazione del tutto fortuita del live "Mediolanum Capta Est". Manco a dirlo, la colpa fu di Roberto. E mentre te lo racconta, magari ci rimedi pure un paio di pasticcini. Di solito sono lì, sopra i cd in offerta.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.
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"The Power of Failing" dei Mineral compie vent'anni

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Nel 2014 i Mineral fecero un'ultima prova prima di imbarcarsi in un tour mondiale di reunion. Ancora non lo sapevano, ma c'era così tanta gente che voleva vederli dal vivo che lo avrebbero dovuto estendere di qualche mese. Si esibirono in segreto al Mohawk, un locale di Austin, a nome The Parking Lot. Dopo due pezzi iniziarono a suonare "Slower"—"È così tanto che non resto solo… Ne ho bisogno più di quanto tu possa immaginare", cantava il loro frontman Chris Simpson—e il pubblico, un centinaio di persone che avevano aspettato in fila tutto il giorno per essere sicure di entrare, si trovò catapultato in un attimo in tutta la crudezza del loro esordio, The Power of Failing. La cosa che univa la maggior parte dei presenti, oltre a un amore condiviso per l'emo degli anni Novanta, era il fatto che non avessero mai visto i Mineral dal vivo prima di allora: erano troppo piccoli, o troppo lontani, quando erano in attività. 

Sono passati vent'anni da quando i Mineral, quattro pizza boy texani che giocavano a fare il rock, pubblicarono The Power of Failing su Crank! Records (un'etichetta ormai scomparsa che oggi possiamo tranquillamente considerare una fabbrica di successi emo). Era un album grezzo, e la voce di Simpson era come costantemente appesantita e supplicante—entrambi motivi per cui molti, all'epoca, li videro come la prosecuzione logica di band come i Sunny Day Real Estate o i Christie Front Drive, entrambe realtà che avevano iniziato qualche anno prima a costruire le fondamenta di questa sorta di branca emotiva dell'hardcore. I Sunny Day erano però tutto tranne che continuativi nella loro attività, e i Christie Front Drive si sarebbero sciolti di lì a poco: i Mineral sfondarono quindi una porta aperta. Certo, erano meno "post-hardcore" dei loro contemporanei, ma avevano una qualità inedita a livello sonoro: abbracciavano senza problemi l'alt-rock radiofonico della loro epoca.

L'album si apre con "Five, Eight & Ten", in cui Simpson esordisce con un "Gli umili, i giusti e i docili / Mi stanno insegnando a scegliere quale volontà cercare", una frase forse più adatta per cominciare una levzione di catechismo che un album emo. Ma la realtà non lascia spazio a ironia: l'album è attraversato da una palese sfumatura cristiana, che viene però messa alla prova da un dubbio costante, una sorta di spettro irremovibile. Dubbi nei confronti della fede che gli è stata inculcata crescendo, dubbi su sé stesso, dubbi sull'amore e dubbi sulla vita.

Testi come "Non è la stessa cosa quando fissi / Un perfetto tramonto dorato / E pensi a come hai venduto l'anima / Per scacciare via la pioggia" possono sembrare dei cliché emo alle nostre orecchie moderne: nel 1997, erano rivoluzionari. Certo, il punk e l'hardcore erano terreni fertili se si trattava di esprimere rabbia e insoddisfazione, ma era piuttosto insolito sentire testi così personali e incentrati sulle trappole dell'insicurezza. I Mineral erano la personificazione di quella tendenza che gruppi come gli Embrace e i Rites of Spring avevano messo in modo poco più di dieci anni prima. The Power of Failing fu uno dei primi dischi emo pubblicati nel 1997, e diede il tono all'anno con il suo approccio coraggioso e vulnerabile. 

I Nirvana e i Sonic Youth avevano scelto di esprimersi usando ironia, apatia e distacco; i Mineral offrivano un'alternativa al loro approccio scegliendo la sincerità, e pochi riuscivano a suonare più sinceri di Simpson. Prima che la sensibilità diventasse un prodotto facilmente acquistabile e impacchettabile, parole come "Lei piegava le sue paure come se fossero aerei di carta / E le perdeva in mezzo agli alberi" erano come ballate per i post-punk dal cuore spezzato dell'epoca. E, per quanto possa sembrare stupido oggi, per molti avevano una qualità guaritrice. 

Era una forma di terapia che non sarebbe potuta arrivare in un momento migliore. Il grunge stava ormai morendo, band come i Creed iniziavano a dominare le classifiche e il punk stava venendo sempre più normalizzato. Chi era giovane e scontento aveva bisogno di un campione—una scena underground immacolata e senza filtri. Molti la trovarono grazie ai Mineral, alla loro sincerità e alla loro assenza di sovrastrutture. Inoltre, il punk da tre accordi aveva iniziato ad annoiare: e non essere "bravi" a suonare uno strumento non significa che sia impossibile sperimentare a livello sonoro. Il punk aveva voglia di crescere.

A livello musicale, The Power of Failing era tanto drammatico quanto lo era il suo titolo. Scott McCarver, il chitarrista, giocava una parte fondamentale nella creazione dinamica delle melodie del gruppo, anche se l'interazione tra basso e chitarre che avrebbe cementato il suono dei Mineral sarebbe stata più evidente sul loro secondo e ultimo album, EndSerenading, uscito nel 1998. Le canzoni di The Power of Failing avevano strutture punk: tanto feedback, ritornelli basati su accordoni, e un ampio uso della classica dinamica "rumore-arpeggio-rumore". Anche se era un LP con tanti errori, furono proprio questi a dare ai Mineral quell'aria di gioventù e ingenuità che ebbe parte fondamentale nel loro successo. Crescendo, i membri del gruppo avrebbero cambiato il loro approccio: i The Gloria Record, la band che Simpson fondò assieme al loro bassista Jeremy Gomez, avrebbero mantenuto l'approccio melodico dei Mineral ma sostituendo le emozioni più crude con una compostezza matura.

La voce di Simpson su The Power of Failing è forzata e spesso stonata. I suoi tentativi di far combaciare le sue abilità vocali con i suoi sentimenti è in parte qualcosa di tenero e onesto, in parte un disastro frustrante. Hanno dentro una bruttura che alcuni possono trovare insopportabile, e che probabilmente hanno funzionato anche grazie all'età di chi era all'ascolto. Non sapremo mai come sarebbe potuta andare se non avessero trovato un pubblico adatto, ma il fatto che l'eredità dei Mineral continua a crescere è un testamento del potere insito nel loro album di debutto. 

I tour che i Mineral fecero prima di sciogliersi, nel 1998, erano piuttosto modesti: dalle cinquanta alle cento persone stipate in club minuscoli in giro per gli Stati Uniti. Diciassette anni dopo il loro ultimo concerto, sono riusciti a mandare sold out locali in giro per il mondo, e sono poi ripartiti per un altro tour assieme agli Hum, altre leggende degli anni Novanta. Quello che è stato chiamato "emo revival" continua a prosperare e ha fatto bene anche a molti dei contemporanei dei Mineral—come i Braid, i Get Up Kids, i Piebald e molti altri, tutti più o meno impegnati in tour di reunion. Escludendo gli American Football, che avevano fatto solo dodici concerti e pubblicato un album prima di sciogliersi e oggi non hanno problemi a mandare sold out qualsiasi locale in cui suonino ovunque nel mondo, i Mineral sono la band che ha più beneficiato da tutto questo.

E non sono solo le band "originali" a starsi godendo queste nuove attenzioni. Un sacco di nuovi gruppi emo, spinti da etichette come Topshelf e Count Your Lucky Stars, sono apparse sulla scena. Cazzo, persino i rapper si sono messi a fare emo. E anche se è difficile immaginare Lil Yachty che si spara The Power of Failing, in qualche modo è possibile tracciare una connessione tra la musica dei Mineral e il cosiddetto emo rap. 

Anche se si sciolsero prima che il loro valore venisse davvero riconosciuto, band come i Death Cab for Cutie e i Pinback devono ringraziare i Mineral per il modo in cui suonano. E forse sono stati gruppi come i secondi a tenere vivo il loro nome, pronunciandolo nelle interviste e portandogli nuovi fan ogni anno. È difficile provare a immaginare come sarebbe potuta andare avanti la loro carriera, se avessero deciso di restare assieme e onorare il contratto che avevano firmato con la Interscope poco prima di sciogliersi. Forse avrebbero marcato l'inizio di un emo commerciale ante litteram. Ma è bello pensare che forse, tutti quegli anni fa, non avrebbero retto alle luci dei riflettori: in "Parking Lot", il pezzo che chiude l'album, Simpson canta: "Non mi importerebbe nulla se oggi ti portassi tutto via / Sono sicuro che non mi mancherebbe nemmeno il dolore".

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Ecco la lineup del Beaches Brew 2017

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Fa freddo, eh? Stai pensando alla spiaggia, vero? Magari stai anche prenotando le vacanze per quest'estate—anche se dubito che i lettori di Noisey abbiano abbastanza soldi o siano in grado di organizzarsi con tale anticipo. Fatto sta che oggi è il tuo giorno fortunato: è il giorno in cui Beaches Brew, il festival gratuito che si svolge dal 5 all'8 giugno sulla spiaggia dell'Hana-Bi di Marina di Ravenna, oggi annuncia la prima porzione della sua lineup. Ed è inutile specificare che Marina di Ravenna rischia di trasformarsi in un atollo della Polinesia Francese, visto che questa lineup è una bomba atomica. Questa è forse la miglior battuta che abbia concepito in vita mia. Prego.

Ma passiamo senza indugi a rivelare i nomi tramite questa locandina disegnata da Father Futureback:

Esaminiamola un po' nel dettaglio. King Gizzard & the Lizard Wizard? Ma non è l'ensable psichedelico australiano che ha messo a ferro e fuoco il mondo e non è mai passato per l'Italia? Thee Oh Sees, questi li conosciamo bene, tutti sfoggiamo almeno una cicatrice procurataci ballando a uno dei loro concerti. Gli Shellac sono il carrarmato noise rock del dio del rumore Steve Albini. Weyes Blood è la nuova sacerdotessa della psichedelia americana. E poi la maga della sintesi modulare Kaitlyn Aurelia Smith, i re del voodoo rock'n'roll funk King Khan & the Shrines

Mi sembra già di sentire la sabbia tra le dita dei piedi.

Il Beaches Brew si svolgerà dal 5 all'8 giugno a Marina di Ravenna. L'ingresso è gratuito. Segnatelo.

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I rapper di CasaPound sono anche peggio di quello che credi

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L'estrema destra italiana, come del resto quella di tutto il mondo, è alla disperata ricerca di far passare il proprio messaggio razzista, nazionalista e, vorrei dire, anacronistico (se non fosse terribilmente attuale) in ogni modo possibile. Il suo metodo di diffusione preferito è quello dei meme, seguito a stretto giro da fake news e falsità storiche, poi dall'appropriazione culturale e, in ultima istanza, da musica perlopiù inascoltabile (e non sto parlando solo dei testi raccapriccianti). 

Abbiamo pensato varie volte di parlare della musica dell'estrema destra italiana su queste pagine, ma, un po' per non fare pubblicità alle loro posizioni e un po' per la disarmante povertà di questa scena, non siamo mai riusciti a scriverne. Ma oggi, purtroppo o finalmente, è giunto quel momento.

L'ultima avventura musicale del fronte CasaPound/Blocco Studentesco è emersa in questi giorni, pur esistendo da diversi anni, con il suo primo video ufficiale su YouTube, intitolato "Difendi Roma": si tratta dei Drittarcore, di cui non avremmo assolutamente voglia di parlare se non fosse che questo gruppo, anzi, questa crew, invece di fare oi! o black metal o epic metal o folk o industrial (gli unici generi che fino a ieri era concesso suonare agli esponenti di questa parte politica) fa rap. Sì, il rap, la musica più afroamericana della storia dopo gli spirituals degli schiavi nelle piantagioni di cotone. E dire che tanto l'Africa quanto gli Stati Uniti non rientrano tra le simpatie di CasaPound e affini—addirittura, prima che i "fascisti del terzo millennio" comparissero sulla scena politica, la famosa band oi! neofascista romana Dente di Lupo in una sua canzone afferma che "il rap è per i froci / e i negri amici tuoi" (grazie Dente di Lupo, ci avete preso in pieno, è proprio quello che siamo, orgogliosamente).

Ma com'è questo fasciorap? Fondamentalmente sembra una parodia della ODEI Crew, tra boom bap e un muro di synth plasticosissimo che sembra campionato da Gabry Ponte, che scivola in un momento In The Panchine quando uno degli MC pronuncia la rima: "No pray for Paris, qui non siamo in Francia". "Difendi Roma" sarebbe quasi LOLrap se facesse ridere. Mi aspettavo un'operazione ultra-attuale per conquistare il pubblico giovane, ma immagino che l'autotune sia troppo poco macho per questi legionari. Meglio un collage di frasi fatte sull'eredità dell'Impero Romano e sulla "rappresaglia" contro i "nemici di Roma" che non vengono nominati (a parte Nichi Vendola e "il DASPO di Gabrielli"), innaffiato di rime sulla birra che immagino siano state concepite per sostituire quelle sulla marijuana da zecche che fanno gli altri rapper. 

Diciamo la verità: è un grande salto per CasaPound, che con questo video si appropria del genere musicale più amato da chi la odia, ma un piccolo passo indietro per l'umanità. 

Potete indirizzare le vostre minacce a Giacomo su Twitter: @generic_giacomo.

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I Mountain Goats hanno scritto una canzone per il nuovo Guerre Stellari

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Una delle cose a cui ci possiamo affidare per far sì che i prossimi mesi non facciano troppo schifo è il nuovo capitolo di Guerre Stellari, che uscirà a dicembre e—se tutto va bene—vedrà il regista Rian Johnson andare nel profondo dell'interiorità dei suoi personaggi e inventarsi qualche bel colpo di scena. Anche se la colonna sonora sarà scritta da John Williams, aka quello che non sapevate essere il musicista migliore di tutti i tempi, è venuto fuori che Johnson e John Darnielle dei Mountain Goats avevano sviluppato per i cavoli loro qualche gag musicale per il film.

Stando a quanto ha spiegato Darnielle su Twitter, il titolo del pezzo—"The Ultimate Jedi Who Wastes All the Other Jedi and Eats Their Bones"—è partito come uno scherzo, ma gli è poi venuta voglia di scriverlo e registrarlo veramente. E ora Johnson l'ha caricata sul suo SoundCloud personale, che a quanto pare è una cosa che esiste.

Il brano è una questione solista, con la voce di Darnielle accompagnata solo dall'acustica. Contiene frasi tipo "Con la polvere di ossa di Jedi impilata sul suo piatto come carote bianche" e un pezzo in cui Darnielle spiega come l'adattamento per il cinema della storia del Jedi Definitivo sarà fantastica grazie alle telecamere "inconcepibilmente ad alta risoluzione" di Johnson. È un pezzo molto stupido, ma forse ha anche un leggero carattere motivazionale—"Non disperarti per la fine che ti aspetta", canta Darnielle. Potete ascoltare "The Ultimate Jedi" (col cacchio che mi va di riscrivere quel titolo ancora una volta) qua sotto. 

Immagine via Wikimedia Commons
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