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Tre ore di post punk e new wave mai sentita prima dal Blocco Sovietico

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Kevin De Broux aka Kevin Failure è un personaggio dalla storia molto particolare. La sua famiglia si trasferì dal Midwest degli Stati Uniti alla Siberia quando lui era solo un bambino, subito dopo la caduta del comunismo, e lì venne esposto per la prima volta a cose come la musica punk (ovviamente quella siberiana), l'alcol e le droghe. Ritornato negli Stati Uniti pochi anni dopo, lo aspetta una vita da criminale, tossico ed emarginato che lo porterà a rifugiarsi nella sua passione per la musica. 

Dopo varie esperienze in gruppi punk e hardcore, dà vita al progetto Pink Reason, una delle cose migliori che siano capitate alla musica DIY americana negli ultimi vent'anni, progetto che è stato appeso al chiodo un paio di anni fa, insieme alla depressione e alla tossicodipendenza che ne erano il carburante. Ora Kevin si dedica principalmente, oltre che alla sua famiglia, a fare il DJ ai rave (dove fa girare house, techno e industrial esclusivamente in vinile), e al suo progetto di tutta una vita: la raccolta, catalogazione e studio della musica underground proveniente dall'ex Blocco Sovietico.

In questi giorni è stato invitato a esibirsi come DJ a New York per un set composto esclusivamente di post-punk e new wave proveniente, appunto, dall'Europa dell'Est di anni Settanta e Ottanta. Brian Turner della blasonata stazione radio di Jersey City WFMU ne ha approfittato per invitarlo in studio e dare un assaggio delle perle nascoste: il risultato è un'impressionante trasmissione lunga tre ore in cui Kevin fa girare musica tanto sconosciuta quanto sorprendente, interrotta circa una volta ogni ora dai commenti estasiati di Turner che non riesce a credere alle proprie orecchie. E nemmeno ai propri occhi, visto che le copertine di alcuni di questi dischi sono folli quanto la musica che contengono, e lui le fotografa per caricarle sul sito della radio. 

Parliamo di stili che vanno dalla cold wave più glaciale al punk rock più sanguigno, passando per lidi più sperimentali e anche quasi disco; spesso si tratta di album pubblicati su "etichette di Stato", dischi che venivano censurati o distribuiti sul mercato nero. Emblematica la frase dell'"Iggy Pop russo" Nik Rock-N-Roll, che cito a memoria: "Hanno sofferto per la propria musica? Sono stati picchiati, arrestati, separati dalle proprie famiglie a causa della propria musica? No? E allora che si fottano". 

Se volete passare un pomeriggio all'insegna di musica totalmente sconosciuta, strana, esotica, incredibile, ispiratrice non dovete fare altro che cliccare su questo link, far partire lo stream e aprire bene le orecchie. 

Giacomo è su Twitter: @generic_giacomo.

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Sono tornati i Gorillaz, ascolta la loro nuova canzone "Hallelujah Money"

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Il ritorno dei Gorillaz nel 2017 era ormai una certezza dati i segnali di vita lanciati negli ultimi mesi, tra playlist e varie ed eventuali. Ora è tutto realtà: la band ha condiviso il primo estratto dal suo nuovo album—che non ha però ancora un titolo o una data d'uscita. 

Il pezzo si intitola "Hallelujah Money" ed è una collaborazione con Benjamin Clementine, un cantautore inglese che ha vinto il Mercury Prize nel 2015 per il suo album d'esordio At Least for Now.

Il brano è stato condiviso via Twitter e ha un testo piuttosto politico: contiene riferimenti a Trump e all'immaginario di chiusura e aggressività di cui si è fatto portavoce. Nel video, Clementine canta il pezzo nell'ascensore della Trump Tower mentre diverse immagini vengono proiettate dietro di lui. Lo potete guardare qua sotto. 

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Esplora l'infinito oltre il clubbing con questo mix di Jerome

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Matt Lutz è la mente dietro alle due piattaforme più fresche e promettenti di cui dispone la non-scena elettronica globale, che ne ridiscutono le strutture alla base: Jerome e Classical Trax. Entrambi i progetti vogliono fare da punto d'appoggio per artisti con un'idea di clubbing fluida, che per il bene di noi tutti sta finalmente trovando il proprio spazio un po' ovunque, ormai. Su CT, i colleghi di Thump hanno approfondito già in passato, mentre a Jerome, di grande ispirazione anche per Noisey Mix, non è ancora stato dedicato nessun inserto speciale. Perciò il ritorno di Labels.

Su Jerome Matt spinge mix con cadenza diurna, massimo di due-tre giorni, e le scelte artistiche sono quasi sempre le più lungimiranti in termini di tendenza. Odio ricorrere al termine "scena", per denominare un particolare e florido sottobosco musicale, ma se scorrete il suo Soundcloud, i nomi che vi appariranno sono abbastanza inconfondibili. Jerome è allo stesso tempo anche label, a rimarcare il fatto che la ricerca di Matt lo porta a dare a questi producer uno spazio concreto, all'interno dell'industria musicale. Ci ho fatto due chiacchiere via mail, per capirne meglio la genesi, i progetti per il futuro, e gli attuali fiori all'occhiello. Gli ho pure chiesto di farci un Rate Your Mixes improvvisato, ovviamente anche riguardo Noisey, e niente, Matt, è stato un onore. Per stare sicuri, comunque, ce ne ha preparato uno ad hoc, che potete ascoltare qua sotto.

Noisey: Ciao Matt, come va? Cosa stai facendo in questo momento?
Matt Lutz: Ciao, direi che sto bene, grazie! Al momento sto lavorando.

Hai qualche altra attività oltre alla musica?
Sì, lavoro nel settore sanitario qui ad Hanover, Pennsylvania, e nel tempo libero gioco a basket.

Quando è nata l'idea di Jerome, e da cosa si differenzia da Classical Trax?
Il progetto si è formalizzato circa uno o due anni fa, ma non mi ci sono messo giù d'impegno fino all'anno scorso. L'idea dietro è quella di dedicare uno spazio particolare agli artisti che puntano più in là del solito "clubbing", e che in gran parte escono anche su Classical Trax, esplorandone le sonorità attraverso i mix. A volte questa ricerca diventa musica vera e propria, ma principalmente si tratta di ricerca sperimentale. È stato molto importante per me trasformare Jerome anche in una label, perché mi ha dato la possibilità di occuparmi delle release di amici, e di altre persone oneste e lavoratrici, con cui negli anni ho legato parecchio. Non vedo l'ora di far uscire alcuni di questi progetti nel 2017!

I mix stanno ottenendo sempre più visibilità, sia tra gli artisti che tra i fruitori di certa musica. Per questo Jerome spicca così tanto, in questo scenario. Perché hai scelto proprio questo formato?
I mixtape sono cruciali perché permettono a noi ascoltatori di osservare la musica da un punto di vista diverso a seconda del producer/artista. Il formato corto, di circa mezz'ora, è perché credo che su Internet la gente abbia sempre meno voglia di ascoltarsi contenuti di due o tre ore.

Stimo molto il tuo gusto nello scegliere gli artisti per i mix. Che tipo di feedback hai dal tuo lavoro? A cosa ti sei ispirato per far partire il progetto?
Ricevo un sacco di feedback positivi da parte degli artisti che stimano la serie, perché permette loro di creare musica in senso lato, senza essere forzati dentro una particolare "categoria", "genere" di mix. Le mie ispirazioni sono state gli stessi artisti, e forse altre serie di mix simili come Lvlsrvryhi, Disc Magazine, Akoya Books e qualcun altro che sicuro mi sto dimenticando. Questi sono i miei principali riferimenti, dacci un'occhiata perché spaccano davvero.

E musicalmente che background hai? Hai avuto altri progetti musicali in passato?
Vengo da un contesto musicale abbastanza anomalo, rispetto a quello di tanti altri. Sono cresciuto ascoltando quasi sempre quello che si ascoltavano i miei genitori, quindi Billy Joel, i Rolling Stones e i Beatles. Al liceo inizialmente guardavo Rap City, e seguivo un po' i gusti dei miei compagni, fino a quando non sono stato introdotto al mondo dell'indie-rock. Solo al primo anno di università ho avuto contatto con tutta la musica "sperimentale", quando mi sono preso il mio primo computer. Mi sono imbattuto nel grime e nella DFA Records. Non sono mai stato particolarmente dotato di abilità musicali, e no, non ho avuto gruppi o similari. Ciò che ho sempre adorato della musica è il senso di pace e calma che è in grado di apportarmi.

Quali sono le label e i progetti che ti entusiasmano di più al momento? Sei in contatto con qualcuno di loro?
Ah, me ne vengono in mente tantissimi! Alcuni nomi sono Joragon, Swan Meat, Max Rollins, Louis Me e Total Trax, Alienood, Aghnie, City, Baby Blue, Ptwiggs , Buga, DJ Esmera, Nahshi, Uniti Blood Frenzy, JG Jour, Morten HD, Ballo, Dellity, AN System, Profundo Vazio, Sharkboy Lava, Phool… A dire il vero ci sono due crew/label che spiccano nella mia testa in questo momento: Tobago Tracks e Sobborghi, la crew milanese formata da ragazzi molto in gamba che hanno sempre fatto di testa loro, sfornando release di club music super positiva. Complimenti a Sam, Worli, Carlo, e a tutto il crew.

Cosa hai in mente per questo 2017?
Non posso fare nessuno spoiler, se non quello che ci saranno più mix e più tracce di Isolation e che ci saranno due nuovi EP di Dellity e AN System.

Parlami del mix che ci hai preparato.
L'ho fatto in camera mia e volevo semplicemente inserire alcune tra le migliori uscite della label, alcune pure inedite. Niente tracklist per il momento.

Mi elencheresti i 5 migliori mix usciti su Jerome e su Noisey Mix?
Aiuto, è difficile sceglierne solo cinque! Forse quelli che ultimamente mi hanno ispirato di più sono Englesia #003 , Mess #008, T-U #013, An ni #030 e Uurah #032. Di Noisey mmm… Nahshi, Habibiboi, Aghnie, Why Be e Swan Meat.

Grazie mille Matt e buon lavoro!
Grazie a te per l'opportunità.

Sonia è su Twitter: @acideyes.

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JJ Whitefield, il poeta del ritmo

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Lo scorso agosto a Bologna si è tenuto Garden Beat, festival di musica black alla seconda edizione, che ha chiamato a raccolta – alle Serre dei Giardini Margherita—artisti del calibro di The Mixtapers, Débruit, Mop Mop e Karl Hector and The Malcouns. 

Come oramai d'abitudine nel capoluogo emiliano, lo svolgimento della due-giorni è stato turbato dalle lamentele del vicinato, allarmatosi ancor prima dell'inizio del festival, per l'eventuale disturbo che l'evento avrebbe creato. L'associazione Kilowatt (che cura la rassegna estiva dei Giardini) e la direzione del festival, per non incorrere in eventuali denunce, sono state costrette a spostare alla Velostazione Dynamo i DJ set previsti oltre la mezzanotte: del clima anti-degrado che tiene sotto scacco le realtà culturali (più e meno militanti) bolognesi si era parlato qui e qui

Nonostante tutto, Garden Beat è riuscito a portare un po' di sano groove nel tedioso caldo agostano e, seduti su una confortevole panchina del parco, siamo riusciti a scambiare qualche parola con Jan Weissenfeldt, aka Karl Hector, aka JJ Whitefield, cervello e chitarra dietro una miriade di progetti. Tra le ultime fatiche del musicista bavarese, JOHNNY!, band che vede nel suo organico Henry Taylor, figlio del leggendario Ebo Taylor, ed Eric Owusu, percussionista e cantante già visto al lavoro con Pat Thomas e Orlando Julius: i tre 45 giri pubblicati lo scorso ottobre da Now-Again Records mescolano le ritmiche dell' afro-beat dell'Africa occidentale con le psichedeliche fuzz guitars, tipiche dello zamrock originatosi nello Zambia. Inoltre, il nuovo album di Karl Hector and The Malcouns sembra che possa uscire nel corso del 2017!

Le parole di JJ qui sotto passano in rassegna le tappe del suo percorso musicale, consacrato alla costante ricerca della contaminazione e alla diffusione del groove nel globo terracqueo. 

Noisey: Innanzitutto, mi piacerebbe sapere quando è cominciato il tuo viaggio consacrato al funk-ed-oltre. Quando eravate adolescenti, avevate una qualche sorta di background musicale? I vostri genitori erano musicisti?
JJ: Ho frequentato una scuola steineriana a Monaco che era focalizzata sull'educazione musicale: avevo circa 11 anni quando ho iniziato a suonare il violino, poi a 14 anni ho cambiato e ho scelto la chitarra. I miei genitori non sono musicisti, ma avevano a che fare con il teatro e la performance art: nonostante non fossero direttamente coinvolti, la musica intorno a me c'è sempre stata e l'ho sempre ascoltata. 

…tuo fratello Max ha frequentato la tua stessa scuola?
Sì, ma è più giovane di me, quindi si è iscritto in un periodo successivo! Comunque, sono stato esposto ed ho cominciato ad interessarmi alla musica molto presto. Quando ero all'ottavo anno (corrispondente alla terza media italiana, ndr), Bo Baral, il ragazzo con cui ho fondato la band (chiamata Hotpie & Candy all'epoca, ndr), tornò in Germania dal Sudafrica – lui è tedesco, ma si trasferì in Sudafrica coi genitori quando era bambino – e divenne mio compagno di classe. Anche lui era molto interessato alla musica, quindi tra di noi scattò subito l'intesa e cominciammo ad ascoltare musica assieme. Eravamo molto affascinati dagli strumenti, perciò a 15-16 anni, creammo la band ed iniziammo a suonare con diverse persone – se possibile, con i migliori musicisti che potevamo trovare. Nella band c'erano molti compagni di scuola che lasciarono una volta che la scuola terminò. Visto che volevamo tenere in vita il gruppo, cercammo altri musicisti: ad ogni modo, iniziammo seriamente a provare e a scrivere i nostri pezzi intorno ai 18-19 anni, quando ancora eravamo a scuola. 

…questo accadde agli inizi degli anni Novanta? 
Alla fine degli anni Ottanta in realtà, tipo 1989. Finimmo la scuola nel 1990 e quello fu veramente l'inizio delle nostre esplorazioni musicali. A partire dai 15-16 anni, avevo iniziato a collezionare dischi e a fare il DJ durante le feste scolastiche. Compravo le tipiche cose anni Ottanta, come Jocelyn Brown e Chaka Khan: questi dischi furono la mia introduzione alla musica dance nera. In seguito, partii in viaggio per Parigi con un amico di scuola, che era un anno più grande di me: durante l'intero viaggio mi fece ascoltare George Clinton (cose tipo "Atomic Dog"). In confronto alla musica a cui ero abituato, era davvero qualcosa di psichedelico e assurdo. Iniziai a collezionare tutto il "p-funk", perché volevo avere l'intera discografia dei Parliament-Funkadelic, compresi i side-projects e le collaborazioni. Nell'era pre-internet, era durissima trovare quei dischi! La fine degli anni 80, in Inghilterra, diede inizio alla scena "rare groove": durante quel periodo, c'erano molte compilation bootleg che contenevano una o due tracce funk assieme ad altri cose più simili a Roy Ayers, ad esempio. Mi ricordo chiaramente che all'interno di una di queste compilation, c'era "Hot Pants Breakdown" dei Soul Tornadoes. 

Quando sentii quelle tracce per la prima volta, fui totalmente catturato dallo stile garage ruvido e semplice. Così cominciai a collezionare tutta questa roba! Andai spesso negli Stati Uniti ed in Inghilterra a scovare questi 45 giri che furono l'ispirazione per il sound dei Poets of Rhythm. Anche i Meters furono un'importante fonte di ispirazione all'inizio: avevo letto un'intervista dove George Clinton diceva che l'unica band più "funk" dei Funkadelic erano i Meters, perciò tornai al negozio di dischi e comprai ogni cosa dei Meters che riuscivo a trovare. Bo Baral ed io eravamo fanatici del "New Orleans sound": abbiamo trascorso letteralmente pomeriggi e sere dopo scuola a cercare e ad ascoltare dischi nei seminterrati dei negozi. Come ti ho detto, quello è stato il periodo durante il quale abbiamo iniziato a scrivere i nostri pezzi perché desideravamo registrare il nostro 45 giri, dopo averne collezionati così tanti. Nel 1992, andammo in studio a registrare un paio di pezzi, trovammo uno stabilimento di produzione, stampammo il nostro 45 giri e lo regalammo ai nostri amici. Uno di loro lo portò ad Amburgo dove c'era una nuova etichetta che si chiamava Soulciety Records. Una settimana più tardi, il capo della label ci chiamò, chiedendoci se volessimo fare un album. Ovviamente rispondemmo di sì! Eravamo appena usciti da scuola! Non avevamo minimamente pensato ad un contratto discografico, successe in modo naturale, un passo alla volta. Incidemmo il disco e diventò abbastanza popolare all'epoca: la scena "acid jazz" imperava con il suo sound digitale soulful e caramelloso e il pubblico fu sorpreso dal nostro sound rozzo à la James Brown. Nessuno credeva che dei tipi tedeschi e bianchi potessero suonare così

Dopodichè, andammo in giro a suonare per due anni, diventando una band ancora più unita. Non avevamo un piano vero e proprio: ad un certo punto, registrammo il secondo album per la Desco Records, ma lo scartarono perché troppo sperimentale [Discern/Define, uscito definitivamente nel 2001, NdR]. In quel periodo, stavo facendo uno stage per un'etichetta di Monaco che aveva distribuito Entroducing di DJ Shadow. Un giorno, il mio capo mi chiese se conoscevo i Poets of Rhythm perché questo tipo americano [DJ Shadow, NdR] voleva lavorare con loro. Risposi che era il mio gruppo! Questo fu il principio della "connection" con DJ Shadow. Ritoccammo l'album che originariamente doveva essere un LP singolo, incidendo 2-3 nuovi brani: in quel periodo le etichette hip-hop pubblicavano quasi esclusivamente LP doppi, quindi la Quannum [l'etichetta di DJ Shadow, NdR] ci chiese di registrare altro materiale per poter poterlo pubblicare. 

Fu la svolta per noi negli Stati Uniti, grazie soprattutto alla spinta ricevuta da DJ Shadow: il primo disco, infatti, ebbe risonanza principalmente in Europa. Già a quel punto, tra di noi c'erano divergenze creative – chiamiamole così – soprattutto a causa della mancanza di un chiaro disegno… nessuno di noi sapeva cosa fare. Dopo la pubblicazione del disco, facemmo due tour e la band si sciolse. Traslocai a San Francisco perché lì conoscevo molte persone della Quannum. Cominciai ad espandere i miei gusti musicali, producendo beats ed interessandomi profondamente alla musica africana. Il primo album dei Whitefield Brothers [il progetto di JJ e suo fratello Max, NdR] era in corso d'opera e doveva uscire per la Desco, con la quale avevamo deciso di incidere un disco più adatto al loro catalogo. Come forse saprai, l'etichetta si divise in Daptone Records e Soul Fire Records. Philip Lehman a capo di Soul Fire acquistò i diritti da Gabriel Roth della Daptone e pubblicò il disco. Egon lo ripubblicò più tardi per la Now-Again nel 2009. 

È abbastanza complicato capire come le cose siano andate alla fine, ma questa è più o meno la storia completa, almeno quella accaduta prima di internet! Sono ancora sbalordito dalla quantità di concerti che facemmo negli anni Novanta, dato che la nostra musica era totalmente leftfield, per niente "pop," in confronto allo spirito di quegli anni. Per qualche strana ragione al pubblico piacque il nostro approccio funky-garage e da lì seguì tutto il resto. 

…puoi raccontare un po' dell'etichetta per la quale lavoravi durante il tuo stage?
Si chiamava Marlboro Music. Veramente un pessimo ambiente dal momento che la label era parte della sezione promozionale di Philip Morris. Studiavo economia all'università come piano B nel caso in cui la mia carriera musicale non fosse destinata a realizzarsi: pensavo che almeno avrei potuto lavorare nell'industria musicale. Feci quello stage per 6 mesi e fu una cosa positiva per la mia carriera, ma, in generale, quell'esperienza mi fece capire che il music business è un ambiente di merda! Non finii neanche l'università! 

Sia Karl Hector and The Malcouns e The Whitefield Brothers sono profondamente influenzati dalla musica africana (dal Mali all'Etiopia). Quando hai iniziato ad interessarti a questi elementi sonori? Esplorare questa parte dello spettro sonoro è stato un processo naturale?
In verità, i Whitefield Brothers erano più influenzati dalla musica afro-caraibica. In quel periodo, ero completamente immerso nell'island funk, ad esempio The Invaders , un genere che ha sonorità soleggianti e percussioni toste allo stesso tempo. 

Ho cominciato a collezionare queste cose a metà degli anni Novanta, dopo aver scoperto ed esplorato la gran parte del "funk" disponibile in quel periodo… Ora è più semplice perché puoi andare su internet e comprare un 45 giri funk a 200 dollari e via così! Nessuno all'epoca ci insegnava, ero l'unico a Monaco a cercare quella roba. C'era pure Florian Keller [DJ e percussionista di Monaco, NdR], che è stato il mio "dj-buddy" per un sacco di tempo. Siamo andati spesso negli Stati Uniti per fare dei "diggin' trips". A metà degli anni Novanta, compravo già diverse cose: nonostante Fela Kuti fosse l'unica cosa [africana, NdR] che si trovasse nei negozi di dischi, mi sembrava una musica oscura e affascinante! Se analizzi profondamente la storia del funk, ti conduce all'Africa: il contenuto ritmico viene da lì.

Leggi: Infinite Jazz — la nascita del jazz contemporaneo e tutte le sue contaminazioni.

Potresti spiegare quali sono le differenze—dal punto di vista tecnico—tra suonare un groove funk piuttosto "dritto" e i poliritmi africani?
Non abbiamo mai studiato questa o quella musica in modo formale: ascoltavamo uno specifico stile, tentando di emularlo senza suonare uguali. L'influenza era totalmente aurale: anche quando ci piaceva un pezzo funk, eravamo stimolati a scrivere il nostro senza copiare il riff o il break di batteria. Le mie fonti di studio sono stati i dischi! Naturalmente, ho ricevuto un'istruzione formale dello strumento musicale quando ero ragazzo.

…quindi non avete pensato "muoviamo l'accento ritmico da qui a qui", da una pulsazione di tipo occidentale ad una africana?
No assolutamente! Non c'è stato niente di premeditato!

…può darsi che abbiate studiato queste cose successivamente?
Sì, quello avvenne più tardi, tipo sei anni fa, quando provai a capire perché i ritmi africani suonano così e quelli occidentali suonano diversamente… Comunque, è difficile dire quali siano le differenze perché di stili africani ce ne sono un casino, mentre il funk è tutto basato su James Brown… Ok, i Meters sono diversi, ma c'è sempre il violento backbeat (un forte accento sul tempo debole). La musica africana è più ricca e complessa dal punto di vista ritmico, succedono un sacco di cose! Non ci sono molti pezzi funk in 6/8, mentre, quando analizzi più approfonditamente la musica africana, il metro 6/8 è dominante quanto il 4/4. Se non capisci come funzionano tutti gli "strati", diventa complicato suonare in una situazione del genere! Ad ogni modo, in Africa, ogni Stato ha sviluppato la propria musica: inoltre, c'è musica africana influenzata dal funk americano, quindi c'è una sorta di circolarità. Dal momento che l'uno prende dall'altro, ci sono anche similitudini—tranne per la musica tradizionale che è un mondo completamente diverso: ad esempio la desert music del Mali e dei popoli Tuareg, la musica del Marocco o la musica palm-wine [l'antenato dell'highlife ghanese e nigeriano, NdR]. Quando ho scoperto la musica africana, ovviamente ho iniziato dalla Nigeria grazie a Fela, poi ho dato un'occhiata alla regione costiera [Occidentale, NdR]: il Benin, ad esempio, è totalmente diverso e in altri Stati trovi un sacco di influenze geniali... Nel corso degli anni ho tratto elementi da ogni cosa che ho ascoltato e ho provato ad incorporarli nella mia musica. Non voglio suonare precisamente musica del Mali o del Benin, o nigeriana, prendo pezzettini di suono e di ritmo da quello che mi piace e cerco di combinarli, facendo qualcosa di nuovo. Questo è il motivo per il quale provo ad esplorare nei limiti del possibile tutta la musica del mondo! Il funk e la musica africana sono perlopiù in 4/4 o 6/8, ma la musica araba ha metri che vanno dal 7/8, al 10/8 o 10/4. Quando scopri queste cose e cominci a scrivere in metri come 15/16 o chissà cos'altro, hai veramente un casino di combinazioni possibili! Per di più, se riesci a prendere qualcosa da ovunque e fare la tua musica, be', è una figata!

L'ultima cosa pubblicata con il nome Karl Hector and the Malcouns è il box Can't Stand the Pressure che contiene i vostri quattro EP pubblicati tra il 2011 e il 2015, mentre il vostro ultimo album è del 2014. State lavorando a qualcosa di nuovo?
Sì, siamo pronti a tornare in studio adesso. Ti meraviglierai più tardi [durante il concerto, NdR], perché negli ultimi due-tre anni la mia principale influenza è stato il krautrock degli anni Settanta. Qualche anno fa ho lavorato con un paio di musicisti dello Zambia [Rikki Ililonga ed Emmanuel Chanda, NdR], i padrini del cosiddetto zam-rock. Questo è successo grazie ad Egon della Now-Again che mi chiamò perché voleva che suonassimo come "backing band", dato che avevano avuto diverse richieste dai festival musicali dopo la ripubblicazione dei loro dischi. Nella musica funk, gli assoli di fuzz guitar non sono molto comuni, ma questi tipi hanno distorsioni fuzz dappertutto. Ho cominciato ad interessarmi a questo tipo di suono, perché la loro musica era una figata pazzesca. Avevo già nella mia collezione del kraut-rock, soprattutto i Can e altra roba "funky"… poi ho scoperto per la prima volta il kraut più "rock-oriented"—che io chiamo "space-rock"—e pure quello ha  un sacco di chitarre fuzz. I nuovi pezzi si ispirano molto a questo: c'è ancora molta Africa, ma è più "rock" di quanto non lo fosse precedentemente. Abbiamo suonato questi nuovi brani in un paio di concerti. Dovevamo andare in studio due mesi fa, ma non eravamo pronti, data la complessità degli arrangiamenti. Abbiamo fatto molte modifiche e avevamo bisogno di sincronizzarci un po', ma credo che per settembre saremo in studio [ci sono andati in dicembre , alla fine, NdR].  

Com'è essere un musicista bianco che suona musica ispirata al continente nero? Il tuo amore per la musica africana è evidente ed onesto, ma ti è mai passata per la mente l'idea di appropriazione culturale?
Per me la musica non ha colori. Non ho mai avuto a che fare con l'idea di appropriazione culturale: il sistema armonico che la musica africana popolare moderna usa è quello occidentale, a dire il vero. Se vai in un piccolo villaggio africano ed ascolti la musica tradizionale, sentirai armonie modali poiché i musicisti usano degli strumenti molto semplici e limitati, ma, dal momento in cui suoni una chitarra, un pianoforte o dei fiati, devi usare il sistema occidentale: non hai scale naturali o roba del genere. Ognuno prende da un altro e così via, non c'è separazione per me. La musica del Giappone che mi piace ha diverse influenze… La musica del Mali è molto vicina alla musica orientale in un certo qual modo, ogni cosa è connessa. La parte difficile è trovare il proprio percorso tra queste diverse musiche, ma ognuno può fare quello che vuole. 

Devi solo conoscere le radici e rispettarle…
Certo. L'unico modo per creare qualcosa di nuovo è combinare quello che c'è già.

Ho letto in alcune interviste che non sei molto interessato alla "sequenced music"—in altre parole musica composta con macchine e computer—perché manca di libertà ed emozione: hai cambiato idea? O, quantomeno, c'è qualche artista che ti fa venire la pelle d'oca anche se fanno musica sequenziata? Credo che Madlib o Edan (con il quale hai collaborato) trasmettano una sensazione dinamica e vivida anche se lavorano con dei campionatori.
Io stesso facevo beat hip-hop, quindi la "sequenced music" mi piace. Ero profondamente dentro al mondo hip-hop dalla fine degli anni Novanta a metà dei 2000. È il modo in cui usi il sequencer. Ad esempio, Madlib sa qual è il miglior modo per non farlo suonare computerizzato. Puoi sentire libertà nella sua musica, è molto organica. Allo stesso tempo, mi piace la roba boom-bap come DJ Premier, anche i beats secchi e duri sono fighi! In definitiva, però, fare beats non mi dà la stessa emozione che suonare live: l'interazione tra musicisti non può essere replicata da una macchina.

Ci parli di Rodinia, il tuo progetto uscito lo scorso anno: sembra qualcosa a metà strada tra musica live e "sequenced". 
È nato perché mi piace molto la musica ambient. Forse è la parte complementare di tutta la musica più incentrata sul ritmo che ho suonato in tutti questi anni. Se sei interessato alla musica kraut, ascolti necessariamente i Tangerine Dream, Klaus Schulze e altri artisti che producono suono dove il "beat" è completamente assente. Mi piace molto esplorare questo genere. Colleziono synth da quando ho iniziato a suonare, quindi ora ho una serie di strumenti abbastanza notevole: ogni volta che trovo un synth che costa poco, lo compro e durante i primi tempi usavamo sempre il Moog durante i concerti. Johannes [Schleiermacher, sassofonista della band ethio-jazz Woima Collective, NdR], l'altra persona in questo progetto, ha suonato varie volte con i Malcouns ed io ho suonato con la sua band. Abbiamo già lavorato insieme e anche lui è molto appassionato di sintetizzatori. Una volta era bloccato a Monaco dopo un concerto, allora abbiamo passato due giorni nel mio studio a suonare: abbiamo preso un tavolo gigante e l'abbiamo riempito di tutti i synth che potevamo. Poi abbiamo aggiunto una drum-machine di fine anni Settanta, che non si poteva neanche programmare ed aveva solo dei ritmi pre-settati, che non abbiamo neanche usato: tuttavia, la macchina è stata essenziale perché mandava l'impulso principale a tutti gli altri synth perché fossero sincronizzati. Abbiamo registrato delle lunghissime sessioni dove non facevamo altro che sovrapporre suoni su suoni. Questo materiale è rimasto poi fermo per un anno nel mio hard disk: ogni tanto mi capitava di ascoltarlo e mi dicevo che avrei potuto farne qualcosa! Allora siamo andati 5-6 giorni a Berlino dove abbiamo registrato degli overdub di batteria, chitarra, sassofono e flauto e mixato il tutto. È stato tutto molto veloce rispetto al lavoro che si fa con una band al completo e, oltretutto, mi piace molto ciò che ne è uscito. Abbiamo appena mixato il secondo disco la scorsa settimana e probabilmente verrà pubblicato durante l'inverno. È più sperimentale, ma sempre nella stessa vena. Io ed i Malcouns l'abbiamo ascoltato oggi nel furgone ed è piaciuto a tutti! Non abbiamo neanche lavorato assieme  nella stessa stanza per questo secondo disco: ho registrato le mie tracce di synth individualmente, mentre lui ha lavorato sulle sue a Berlino. Poi ci siamo scambiati il materiale, abbiamo registrato un po' di overdubs e aggiunto qualche batteria prima di mixarlo. È divertente, perché è un processo totalmente differente, non devi sistemare la band e microfonare ogni strumento, puoi lavorare passo dopo passo e lasciarti andare. 

Ci sono molte etichette che ristampano vecchi dischi sconosciuti dall'Africa, dal Medio ed Estremo Oriente e dall'America Latina: pensi che questo fenomeno sia completamente positivo o che possa avere delle conseguenze negative?
Se l'etichetta lo fa nel modo giusto e paga i musicisti, per me è ok, perché mi dà l'opportunità di ascoltare musica che non avrei la possibilità di scoprire altrimenti. Internet e le etichette che fanno reissue sono positive anche per i musicisti, perché hai l'intera discoteca del mondo alla portata di un click. Vent'anni fa avevi bisogno di andare in un negozio, ascoltare un mucchio di dischi per trovare qualcosa di figo; ora è tutto lì ed è meraviglioso perché puoi farti influenzare da un sacco di roba, puoi provare a studiarla e incorporarla in quello che fai.

Non hai mai la sensazione che ci sia troppa musica disponibile e che la gente non riesca ad ascoltarla in una maniera sufficientemente profonda? 
Non saprei, per me non ci può essere "troppa musica" là fuori. Più ce n'è, meglio è. Non mi interessa troppo la parte del business: una parte di queste ristampe hanno numeri enormi e hanno successo, vedi Soundway con la compilation sul Ghana, o anche Analog Africa e Strut, che sono molto popolari. Ora come ora, come tu dici, il mercato mi sembra un po' saturato, quindi esce molta roba e probabilmente sarà difficile per alcune etichette avere dei ricavi reali. Ad ogni modo, queste persone sono per la maggior parte totalmente fanatiche per la musica: vanno nel posto, trovano i musicisti, trovano i nastri d'incisione. Molta gente fa questo tipo di lavoro oggigiorno. 

…più per l'amore della musica e non per costruirci un business?
Se lo fanno per l'amore della musica, sono totalmente a favore. So che c'è gente che va in Africa e frega gli artisti, pubblicando bootleg e questo fa schifo. Neanche a me piace essere "bootleggato"; mi è già successo diverse volte ed è orribile. Dall'altro lato, essendo un ascoltatore, è sempre bello poter ascoltare roba fresca. 

Sapendo che sei un "record lover", dicci quale pepita ha catturato il tuo interesse ultimamente.
Ehhh! Non saprei, compro veramente un sacco di roba. Ho acquistato un 45 giri dal Burkina Faso recentemente ed è geniale! Non mi ricordo neanche il nome della canzone o dell'artista… Poi, con tutte queste nuove compilation, cerco di trovare qualcosa che nessuno abbia già scoperto, qualcosa di dimenticato. Quando trovo qualcosa che non ho mai sentito prima…

…non riveli a nessuno cosa hai scoperto!
E passo tre giorni ad ascoltarlo, diventando matto.

Ho visto che hai selezionato cinque dischi per egotripland e uno di questi era Hailu Mergia, che è stato ristampato da Awesome Tapes From Africa nel 2014, quindi pensavo che conoscessi qualche reissue o compilation.
Non seguo molto la roba ristampata onestamente… Ne ricevo un po' da etichette o amici ogni tanto. Comunque, Hailu Mergia lo conosco da un sacco di tempo. Quel brano per me è il pezzo funk etiope per eccellenza, ecco perché l'ho scelto. Stilisticamente, mi rappresenta! È magnifico, perché il basso suona seguendo un metro ternario mentre la chitarra e la batteria rispettano una struttura ritmica a quattro tempi, quindi si incontrano ogni 12 pulsazioni. 

Eravate soddisfatti del secondo album dei Whitefield Brothers?
Era molto figo, ma era composto da materiale vecchio… Abbiamo registrato solo 2 o 3 pezzi nuovi all'epoca, tutto il resto era stato registrato prima. Ognuno di noi ha finito le proprie tracce individualmente e abbiamo messo tutto assieme prima di aggiungere le parti vocali. Egon, poi, trovò la gente che rappasse sui nostri pezzi. Il primo disco era molto più rigoroso in termini di stile, mentre per il secondo volevamo allargare il campo. Dovevamo metterci tutto dentro. Avevamo un sacco di brani incompleti, prendemmo i migliori, aggiungemmo qualche elemento e quel lavoro diventò il secondo disco!

Sto ancora aspettando il ritorno dei Whitefield Brothers! C'è una qualche possibilità di vedere un nuovo album prima o poi? 
Non penso succederà. Ho prodotto musica con mio fratello per molto tempo e ora… Come posso dire… Ci sono divergenze personali e creative. È sempre difficile lavorare con un membro della tua famiglia, perché tutto diventa più intenso ed emotivo. Quando si è in disaccordo, finisce sempre in un litigio, ed era diventato tutto troppo negativo per me. A metà degli anni 2000 quando stavamo finendo il secondo disco, c'erano già molte tensioni. Ad un certo punto ho detto che non ne potevo più. È finita così, ognuno di noi suona la propria musica ! 

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Il battesimo del fuoco dei Rixe

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Coups Et Blessures, il primo 7" dei punk parigini Rixe, è uscito nel 2015 ed era una bella botta di freschezza per l'Oi!, un genere che è spesso considerato (a ragione) trito e ritrito. Come tutto l'Oi! di qualità, il suono era scarno ma aggressivo e dotato di abbastanza melodia da spingere chiunque al singalong.

Il secondo EP Les Nerfs A Vif è andato esaurito quasi immediatamente e, dopo un tour europeo e uno americano la loro reputazione come uno dei gruppi punk più importanti del 2016 è ormai solida.

Il 7" Baptême Du Feu [o Battesimo del Fuoco], il loro nuovo disco da quattro canzoni, uscirà in marzo. Come i dischi precedenti, a stamparlo sarà l'eccellente etichetta londinese La Vida Es Un Mus e, a giudicare dalla prima traccia che è uscita ieri, è un altro centro perfetto, con il giusto equilibrio di ruvidezza e melodia. 

'Baptême Du Feu' sarà disponibile a partire da marzo da La Vida Ee Un Mus.

Immagine: YouTube.

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Com'è, per una band underground italiana, andare in tour in Giappone?

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"Lì si fuma ovunque. Immagina questo posto, e tutta questa gente, che fuma" dice Fabio, il batterista dei Dags!, mentre indica i tavoli foderati di gente attorno a noi. Siamo in una trattoria stile vecchia Milano, è sabato ed è ora di pranzo. "Immagina che però ci sia anche una piastra lì, accesa, con le fiamme alte un metro e tu stai morendo di caldo. E la tua giacca, alla fine, è il risultato di questi odori," aggiunge Marcantonio, voce e chitarra. Bé, bene: abbiamo iniziato a parlare da cinque minuti del loro mini-tour in Giappone e già si è introdotto nella conversazione l'argomento "disagio". "In strada però non puoi fumare, tranne che in dei recintini appositi," dice Viole, basso. "Sai la linea tratteggiata degli allenatori di calcio a bordo campo? Ecco, la stessa cosa ma in una stradina di merda."

I Dags! sono un gruppo piccolino: sono di Milano, hanno fuori un EP e un album, non fanno grandi tour o grandi show e cercano di fare un po' tutto da soli. E fanno math rock, o emo, o punk con i chitarrini: non un modo di fare musica particolarmente di grido, ma sicuramente dotato di uno zoccolo duro composto da gente presa benissimo che ascolta, chiacchiera, organizza i concerti, ci va e tutto il resto. Un vantaggio dei circoli relativamente piccoli è che rendono semplice, se si vuole, farsi tanti amici: il che si è rivelato essere fondamentale nel rendere realtà, per i Dags!, un tour giapponese. E devo dire che il concetto di "tour giapponese" mi ha sempre fatto viaggiare i pensieri, principalmente perché fa scattare nella mia testa un immaginario di perfezione in cui ai concerti sono tutti educati, nessuno spinge e tutti chiedono scusa non appena urtano un altro essere umano.

Al loro ritorno, quindi, li ho beccati per capire un pochettino com'era andata la cosa e chiedergli un attimo di raccontarmi le cose più strane che gli sono capitate nella loro settimanella in giro per il paese e le abitudine concertistiche dei nostri colleghi nipponici. Oltre a loro tre, in viaggio c'era anche Luca Benni di To Lose La Track, la loro etichetta. In mezzo all'intervista, e anche in fondo, ci sono un bel po' di fotografie scattate durante il tour. 

Noisey: Bé, ragazzi, è andata: ma com'è che siete finiti in Giappone, esattamente?
Fabio:
 Un amico di Marca, Ben, che suonava nei Cats and Cats and Cats, si è trasferito lì da ormai cinque anni. Adesso suona con un altro gruppo, i Merry Christmas, e ci aveva proposto questa cosa già un anno fa.
Marca: Era la classica roba da "Abito in Burundi, ho sentito il disco, venite a suonare!" E tu rispondi "Perché no, che bello!"
Fabio: Poi la cosa si è concretizzata quando Ben ci ha proposte due date e ci ha chiesto un sì o un no. A quel punto non aveva senso farne solo due, e via di Facebook e di contatti.
Marca: Lo abbiamo detto a Luca Benni, che è impazzito e ha sentito un altro suo amico che abita a Kobe, e questo ci ha dato una mano a organizzare un'altra data. Poi è arrivato Tsunehiro, il capo di Friend of Mine Records, che è un po' il Luca Benni giapponese a dir la verità. L'ultimo che si è aggiunto è Tak, un ragazzo giapponese che scrive per Fecking Bahamas [un sito dedicato al math rock, nda], il cui festival si tiene appunto a Tokyo. Che tra l'altro inizialmente ci aveva rifiutato perché c'erano già troppi gruppi, e poi invece ci ha chiesto lui di aggiungerci alla cosa ed è nata una storia d'amore bellissima.
Fabio: Lui è ancora in hangover, probabilmente. La sera del concerto si è sboccato sulla nostra maglietta, che fortunatamente era gialla e quindi dissimulava. Gli amici lo hanno abbandonato, lui si è svegliato il mattino dopo con un'altra maglietta, senza pantaloni e quindi senza soldi né cellulare. In mutande, è andato alla stazione di polizia. Lì gli hanno dato dei pantaloni, gli avranno fatto un sostitutivo della carta d'identità, è uscito ed è venuto al nostro concerto la sera stessa. Era talmente distrutto che nessuno l'ha riconosciuto. Il mattino dopo era ancora più disfatto, aveva mille yen ed è salito come un cadavere sull'aereo che l'ha portato a casa. In tutto questo, lui è un uomo sposato. Gli abbiamo ri-regalato una maglietta, era il minimo. Ma una è stata lasciata, vomitata, in un cestino di Tokyo.

Ok, quindi tutta una serie di giri e amicizie che vi hanno dato una mano. Ma poi, nella pratica, voi che avete fatto?
Marca:
Tutti i gruppi che conosciamo che sono stati in Giappone sono stati invitati. Lì sono megaospitali: gli piace molto il tuo gruppo, ti invitano e pensano a tutto loro. Arrivi e loro ti portano ovunque. Noi siamo capoccioni, non ci ha invitato nessuno, ci eravamo fatti le nostre date—e ci avevano terrorizzato tipo, "Ah, si offenderanno perché avete voluto fare tutto da soli". E invece è andata bene, abbiamo sovvertito tutti i pronostici. Questo prova un bucio di culo incredibile ma anche una bravura notevole. Perché alla fine c'è quello che ha paura di suonare in provincia di Piacenza perché magari non ci rientra coi soldi della benzina. Noi abbiamo detto boh, magari in Giappone ci voglio andare lo stesso nella vita, facciamo anche dei concerti. Se te la vivi come una relativa vacanza in cui metà del tempo suoni, è tutto ok.

La prima data, quindi, era al festival di Fecking Bahamas. Ma com'è un festival DIY, da quelle parti?
Viole: 
Diciotto band su due palchi, due locali diversi nello stesso isolato, uno al quinto piano e uno in uno scantinato. Mezz'ora a testa, orari rispettati e cambi ipertecnici—fonici bomba, che tra l'altro è una costante di tutto il tour, come pure l'amplificatore di chitarra della madonna.

C'era una mega-organizzazione anche a livello piccolo, quindi.
Viole: 
Tu dici vabbè, vai a suonare in Giappone: cosa ti porti? Se fai un parallelo con quello che hai qua dovresti portarti tutto, perché in Italia quasi nessuno ti dà niente. Siamo andati con la chitarra e i pedali e basta. In tutte le venue c'è l'ampli di basso della vita a otto coni, la testata valvolare, dodici amplificatori, la batteria con i piatti—Fabio doveva chiedere di poter mettere i suoi, per dirti. C'è sempre un fonico di palco e uno che fa i suoni al mixer. Di una bravura devastante, nessuno ha mai detto "abbassati" o cose simili, e stiamo parlando di locali piccoli. 

Che mi dite dei gruppi con cui avete suonato e del pubblico?
Viole: 
Noi e gli Hikes, che sono americani, eravamo gli unici che cantavano.
Marca: Una quantità di strumentale che non hai idea. Nessuno parla o canta, ma sembra tutto molto puro. Vado per la musica, non cago il cazzo, non faccio polemica. Forse noi siamo troppo abituati a "Io sto con lui, lui sta con l'altro, quello fa schifo, in questo posto non vado". Io per primo, per carità. Ma lì gli piace proprio la musica, tutti la studiano. Non ho visto nessuno che non avesse un'impostazione classica, sembrava il saggio di fine anno.
Viole: Però è stato figo, c'era un botto di gente, locali piccolini e tutti attenti. Ci avevano avvertito che ci sarebbe stato silenzio prima e dopo ogni pezzo, finché non ringrazi e gli fai capire che il pezzo è finito loro stanno zitti.
Fabio: Solo all'ultimo concerto sono partiti applausi spontanei. Sennò lo schema era questo: finisce il pezzo, arigato! E applausi. Sennò ti lasciano stare.

Quindi non ci sono quelli che ti fanno la gag o ti gridano le cose a caso.
Viole: Sì, poi in realtà quello che trattengono durante il concerto lo scatenano prima e dopo: ti chiedono la foto—a Kobe, la sorella di un membro di un altro gruppo mi ha chiesto la foto perché "stava imparando a suonare il basso." E se gli dai qualcosa gratis impazziscono, anche solo gli adesivi. O il sampler di To Lose La Track: diciotto pezzi, sono tutti su Bandcamp, ma per loro era clamoroso. A me, in cambio di un sampler, è arrivato un free drink. 
Marca: Parentesi, non esistono i free drink. L'acqua e la birra te li paghi—un po' meno, c'è la riduzione. Ma è un modo per continuare a generare soldi, che se supporta quella roba che abbiamo provato noi—due fonici, strumentazione paura, impianto figo, insonorizzazione e quindi nessuno ti caga il cazzo—allora è ok. Anche la lista: a parte una persona che entra gratis, tutti gli altri hanno solo una riduzione. Posso avere cento persone nella mia lista, non ti danno un limite, ma al posto di 3500 yen ne paghi 1000. E le consumazioni invece di 500 le paghi 300. Non è una stronzata, continui a fare soldi invece che perderli in cazzate, in gruppi che bevono settanta birre. E capita il gruppo che si beve quattro casse di birra. Dici ok, le ho prese al LIDL e costa 40 euro, ma lì non esiste.

Ma come vi spostavate fisicamente? Avevate un furgone?
Viole: No abbiamo fatto il JR Pass, che è praticamente l'interrail giapponese. Prendevamo i treni più merdosi, che però sono tipo Frecciarossa prima classe italiana. Con l'unico problema che ci sono le carrozze fumatori, tornando a quello che dicevamo prima. Lì nessuno ha la macchina, nessuno di noi la avrebbe. Ma neanche quella dei tuoi genitori. Questo genera un movimento di carrellini interessantissimo che, dopo due giorni che ci stavano cadendo le braccia, abbiamo abbracciato.
Fabio: Quando vedi dove sono i locali e come sono, sarebbe anche impensabile arrivare col furgone e pensare di parcheggiarlo da qualche parte. Arrivi lì col tuo carrellino, nel nostro caso fornito dal tipo dell'etichetta che ci aveva dato una mano, con sopra la tua roba, monti e stop. 

Avete suonato tre volte a Tokyo, ma la gente era sempre la stessa?
Viole: Tre date a Tokyo, ma è come dire "in provincia di Milano". Ci sono cinquanta minuti di treno da una all'altra, per dirti. È come suonare a Bergamo. Tipo, Shibuya è un quartierone, ma è come fosse una città. 
Fabio: La seconda data, a Shinjuku, era nel locale che era il secondo palco del festival della prima. A due civici di distanza, praticamente.
Viole: Era un lunedì, ed è venuta gente. C'è un botto di roba da andare a vedere, ma anche un botto di gente. E costicchiano, i concerti, tra i venti e i trenta euro con il cambio. E poi abbiamo sempre suonato con quattro o cinque band.
Marca: L'ultima sera, con sette band, è stato il mio incubo. Quattro si è rivelato il numero più basso. Dopo quattro concerti dici, "Minchia, non ci sto più dentro." 
Fabio: Da noi una data con sei gruppi diventa un festival, impazzisci. I fonici impazziscono a capire chi fa il check per primo, i check durano mezza giornata, e lì precisi. Nessuno ha sforato. 

C'è stata qualche reazione particolare dalla gente che è venuta a vedervi che vi ha lasciati un po' così?
Marca: Banalmente, la cosa di fare la foto o firmare il disco, roba che giustamente qua non è mai successa. Qua di solito è una roba da invasati che dici, "Vabbè zio, stai sereno, non è successo niente." Lì alla quarta foto la prima sera ho detto, "Boh!"
Fabio: I complimenti dopo concerti. Mi è capitato due volte di scendere dal palco e vedere il batterista del gruppo successivo, che mi aveva fatto i complimenti, salire sul palco, sedersi e rivelarsi tipo il Tullio De Piscopo giapponese.

Vi siete beccati anche un terremoto, mentre eravate lì. Com'è andata?
Fabio: Io mi sono chiesto se avessi avuto uno spasmo alle cosce o se ce l'avevamo avuto tutti. A terremoto finito eravamo tutti mezzi alzati, pronti a uscire dal letto che non capivano cosa fare.
Viole: Dopo un po' sono arrivati Ben e la sua ragazza, da cui stavamo, e ci hanno detto se volevamo un tè. "Era solo sette punto tre!" Insomma, c'è stato un solo ferito, e probabilmente era in una barca sopra l'epicentro. E poi siamo andati a giocare a calcetto a Shibuya, come dei veri Holly e Benji. 

Avete venduto più merch di quanto fate in Italia?
Marca: Più che altro a un prezzo più alto. Qua andiamo a ondate, c'è la sera dove vendi un disco e quella dove ne vendi sette senza motivo. Però sì, un po' più costante direi. Tante magliette. 
Viole: Alcuni fanno costare la roba veramente tanto. Noi abbiamo fatto una roba abbastanza equa, il solito pacchetto disco e maglietta, e paghi di meno. L'obbiettivo era farli fuori per avere spazio in valigia. 
Marca: La mia valigia dell'andata era solo magliette dei Dags. 
Viole: All'ultima data i Case of Emergency sono saliti tutti sul palco con una nostra maglia!
Fabio: Cioè, era imbarazzante, tutti e quattro. Quando li ho visti sul palco stavo morendo dentro. 

La data di Kobe com'è stata? Avete mangiato il celeberrimo manzo di Kobe?
Fabio: L'associazione che garantisce la qualità della carne di Kobe puntualmente smentisce la cosa della birra e dei massaggi. Abbiamo scoperto che sono iniezioni di grasso! 
Viole: Bé, a Kobe succede quello che deve succedere in ogni tour: suoniamo con gruppi metal. Uno faceva metalcore, e gli altri erano praticamente una cover band dei Korn. 
Marca: Essendo il locale più grosso in cui siamo stati, ovviamente non c'era nessuno. Trenta persone a dir tanto, ché il giorno dopo era festa nazionale. E noi suoniamo per primi, prima di questi gruppi metal, quindi il disagio era clamoroso. Ma come in tutte le situazioni disagio, riesci comunque a vendere sette magliette. 
Fabio: Era la sera dopo la partita di calcetto, quindi c'era anche del disagio muscolare. Tra l'altro, dopo averci chiesto per settimane delle foto a colori e chiare che ci siamo dovuti far fare al posto di quelle in controluce con noi in silhouette, hanno messo quelle in controluce con noi in silhouette. Avevano stampato la bandierona con la nostra foto, un banner vero e proprio, con noi in cima. 


Ci sono state altre usanze concertistiche particolari che non vi aspettavate?
Marca: A Kyoto abbiamo fatto parte della line-up piramidale: sei l'headliner, ma sei in mezzo. Se suoni durante la settimana, il terzo o il quarto gruppo su sette è il principale. È l'apice della serata, e dopo puoi andare a casa.
Fabio: E l'apice della serata è le otto di sera. I concerti sono tra le sei e mezza e le dieci. 
Marca: Il festival è iniziato alle undici del mattino e c'era gente, zero problemi. Presumo che per loro funzioni bene—nonostante ciò riuscivamo ad arrivare a casa alle tre. Senza ubriacarci e senza devastarci eh, senza alcun motivo reale. Poi c'è questa usanza del brindisi a fine concerto. E c'è l'intro dei concerti!
Viole: Sì, a una data il promoter ci ha detto che dopo il check e il tempo libero dovevamo essere assolutamente al locale per un "meetup". E tu dici ok, boh, va bene. E ci siamo messi tutti in cerchio, con il promoter che diceva, "Grazie di essere venuti tutti qui, siamo molto felici, Dags dall'Italia..." Poi ha distribuito i pass a ogni band presentandola, e tutti ad applaudire. C'era un grande giubilo, e lì per lì ti fa stranissimo—poi capisci che è ok anche se non capisci un cazzo perché è tutto in giapponese. Sai chi sono tutti, tutti sono felicissimi, tutti si fanno gli inchini. Non è una roba da boyscout, loro lo "sentono" veramente. E ci è anche capitato che ricevessimo soldi che non avevamo chiesto. In bustine dedicate! Almeno due locali, a fine serata, ci hanno dato un foglio Excel con tutte le entrate della serata—bar, ingresso, eccetera—e i guadagni loro e di tutti i gruppi. 

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Quella volta che i Gazosa cercarono di diventare gli Evanescence

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La crescita musicale di ognuno di noi ha dei punti cardine fondamentali, snodi che vanno a influenzare il modo in cui approcciamo la musica negli anni formativi della nostra vita. E i miei sono andati a coincidere con due fenomeni piuttosto importanti: 1) l'esplosione del nu metal e 2) la possibilità di passare ore davanti a MTV a guardare video musicali. Insomma, non essendoci ancora YouTube il piccolo schermo era una via per dare un volto ai miei eroi musicali del tempo e prendermi bene per l'immaginario di turno. Tra i video che mi colpirono un botto ricordo "Toxicity" dei System of a Down, "In the End" dei Linkin Park e—arrivando quindi al succo di questa cosa che sto scrivendo—"Bring Me to Life" degli Evanescence. 

Restando su questi tre nomi, devo dire che i SOAD e i Linkin Park hanno entrambi avuto carriere più che rispettabili. Insomma, i primi hanno smesso di fare musica nuova dopo una coppia di album che penso siano tra le cose migliori mai uscite da quel giro, i secondi sono diventati un'enorme rock band da stadio che non mi esalta particolarmente ma neanche mi causa orticaria o sentimenti particolarmente negativi. Gli Evanescence, invece, si sono rivelati una gran bella one hit wonder. Escludendo da questo i molti megafan sfegatati che hanno (e che tuttora esistono in gran numero, come dimostra il fermento generale scatenato dall'annuncio di un loro concerto in Italia nel 2017), vi sfido a dirmi a memoria altre due, tre canzoni di Amy Lee e compagni che non siano "Bring Me to Life".

E niente, mentre l'altra sera occupavo il mio tempo scavando nei meandri di YouTube, sono capitato su un grandissimo documento audiovisivo che mi era totalmente sfuggito nei miei anni di frequentazione del fantastico mondo della musica. Quella che azzardo può essere una testimonianza di quella volta che un'etichetta discografica—la Sugar, facciamo i nomi—provò a trasformare i Gazosa ormai finiti negli Evanescence italiani cercando di ricreare "Bring Me to Life" con una bella dose di Sottotono.

Signore e signori, eccovi una cover di "Nessuno mi può giudicare" di Caterina Caselli a cura dei Gazosa—i Gazosa—assieme a Tormento. È tutto bellissimo. Torme rappa come se volesse essere da qualsiasi altra parte tranne che lì su quel muro di inutili, spenti chitarroni. La tipa dei Gazosa pronuncia malamente una strofa con accenti totalmente a caso senza il minimo senso del ritmo. Il video ha tutti i clichè dei clip nu metal, dalle maschere ai vetri rotti alla gente che poga e saltella. E poi, completamente a caso, c'è un tipo che fa breakdance.

"Nessuno mi può giudicare", tra l'altro, è stato l'ultimo singolo dei Gazosa prima del loro scioglimento. Un ultimo, disperato tentativo di renderli relevant prima che l'oblio se li portasse via, verso una tristissima reunion con il batterista come unico membro originale del gruppo a cercare di tirare avanti la carretta. Schiacciate play qua sotto e state bene. E schiacciate anche qua per leggere la nostra intervista con la Caselli.

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L'importanza del successo di Childish Gambino per gli altri nerd di colore

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Childish Gambino ne ha fatta di strada. L'uomo nato con il nome di Donald Glover è passato da essere un outsider sfigatello nel mondo del rap a vincere un Golden Globe, e ora il mondo riconosce il suo talento. Non tutti saremmo stati in grado di trasformarci da rapper perlopiù zimbello a maestro del funk (come conferma il suo ultimo album Awaken, My Love!), producendo nel frattempo una serie TV comica tra le migliori del 2016. Ma il suo impatto sui suoi fan è stato molto più profondo ed è avvenuto molto tempo prima. 

Torniamo per un attimo al 2011. Ero un ragazzo di 19 anni sulla soglia dell'età adulta, non del tutto a mio agio con me stesso, quando ho cominciato a seguire Glover. Fino a sedici anni sono stato in una scuola maschile a predominanza nera, circondato da rap e compagni super virili, poi mi sono trasferito in un college a maggioranza bianca. Lì, la norma erano camicie a quadri, jeans skinny e le mezze magliette. Mi sforzai di adattarmi a ognuno di questi ambienti sociali, cercando di essere più nero possibile a scuola, e meno al college per evitare intimidazioni da parte dei miei compagni bianchi. Earl Sweatshirt ha raccontato alla perfezione questo dilemma in "Chum": "troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri".

Ma il 2011 è stato anche l'anno di uscita del debutto di Glover, Camp. Ascoltandolo, i suoi testi mi hanno comunicato la mia stessa angoscia sociale. Anche lui era cresciuto sotto costante scrutinio per la sua leggera... diversità. Non rientrava nello stereotipo del giovane uomo di colore scolpito da decenni di cultura pop americana, costruendo rime e melodie con una cadenza poco "mascolina". Faceva riferimento a serie di culto come Freaks and Geeks e Firefly e sperimentava con l'EDM. Glover stesso era consapevole di questa suo posizione, dichiarando in intervista del 2011 che "a lungo la musica è stata bianca o nera, ma ora c'è gente come Tyler, the Creator che riesce a raggiungere il successo. Come me, è un ragazzo nero di classe media vestito come uno dei Good Charlotte e la gente lo chiama frocio. Una volta sono stato aggredito solo perché avevo uno skateboard". 

Non tutti apprezzarono quel disco. Forse vi ricorderete che Camp si guadagnò un 1.6 su Pitchfork, in una recensione che sembra tuttora pazzesca, in cui lo si accusa di usare "argomenti pesanti come razza, virilità, rapporti, street cred e 'vero hip-hop' come oggetti di scena per crearsi un finto personaggio da outsider". Non sentivano quello che sentivo io, la mia storia. La stranezza di Glover è stata spesso scambiata per debolezza o incapacità di articolare un messaggio coerente, e il rifiuto del suo personaggio e delle sue sfaccettature da parte di un famoso sito di critica musicale sembrava ripudiare l'idea che si potesse essere neri e strambi.

Lui non se ne curò, rimettendosi in pista nel 2013 con Because the Internetun album bellissimo, strano e cinematografico che esibiva alcuni cambiamenti importanti. Glover era più sicuro di sé, ma la sua angoscia continuava a risuonare. Qui è un animo goffo, che passa di identità in identità tanto nella vita quanto su disco, perché evidentemente stava soffrendo. Allo stesso modo, come succede a tanti altri ragazzini che crescono con passioni che vanno al di là di ciò che la gente si aspetta da loro, io continuai a cercare di mantenere un equilibrio tra l'essere "troppo nero" e "non abbastanza nero". 

In un'intervista con Noisey del 2013, Glover si è presentato più cupo che mai: "Ho tentato di ammazzarmi. Ero davvero fottuto... Credevo di non sapere cosa stessi facendo. Non stavo vivendo secondo i miei standard, vivevo secondo gli standard di altre persone, e semplicemente pensai 'non vedo il perché'". La gente si è sempre associata ai disadattati della musica del passato, attaccandosi alle loro idiosincrasie per trovare conforto. Basta guardare come i fan hanno pianto la scomparsa di David Bowie e Prince l'anno scorso; come hanno idolatrato e riadattato l'estetica punk di Sex Pistols, Slits e Ramones; come ancora oggi si rechino a decine di migliaia per vedere Madonna, Springsteen e Iggy Pop, per capire che tendiamo a gravitare attorno a persone che ribaltano le aspettative. L'"artista tormentato" è diventato un cliché perché, a un certo punto, è stato reale. Gli artisti che combattono una propria guerra interiore attraggono la gente. 

Confrontarsi con i propri problemi non fece altro che rendere Glover più forte, e la sua musica divenne una tela su cui proiettare il caos nel suo cervello. Lo si sente ululare in "II. Earth: The Oldest Computer (the Last Night)" e ronzare in "II. Zealots of Stockholm [Free Information]", entrambe su Because the Internet. Fu un'epifania per me, grazie alla quale scoprii che essere diversi da ciò che la gente pensa che siamo non è una brutta cosa. I critici se ne accorsero e riconobbero la dedizione di Glover alla causa dell'album, pur continuando ad accusarlo di sforzarsi troppo di risaltare. Non si trattava di uno sforzo—la sua naturale tendenza a essere diverso veniva dal fatto che diverso lui lo è

Glover ha mantenuto un profilo basso negli anni seguenti, lavorando con impegno a quella che diventerà la serie TV su FX Atlanta. Il programma riesce a spostare i confini della televisione afroamericana—in buona compagnia, con serie come Insecure e Black-ish—esplicitando gli stereotipi contro cui Glover ha dovuto lottare per tutta la vita nel contesto di una realtà alternativa. Per riassumere velocemente la trama, diciamo che il personaggio di Glover, Earn Marks, si trova ai confini del mondo hip-hop di successo prima di diventare il manager di suo cugino, il rapper Paper Boi—e su questo impianto si inseriscono innumerevoli spunti comici, colpi di scena bizzarri e un piano narrativo surreale. 

Poi arriviamo al presente e al disco non-rap di dicembre 2016, Awaken, My Love!. Israel Damola su Noisey lo ha definito un album che "sembra più, be', un risveglio. Il suo uso massiccio di strumentazione alla Funkadelic e Sly Stone, dello stile di canto tremolante alla Bootsy e degli urletti alla Prince serve a esprimere amore, speranza e, naturalmente, la paura di portare una nuova vita in questo mondo"—alludendo alla recente paternità di Glover. Il ragazzino alienato di Camp si è evoluto ed è arrivato a sovvertire le varie definizioni dell'essere neri attraverso la sua musica, sfuggendo di nuovo alla stretta dei critici. Ha cambiato forma di nuovo.

E così eccomi, a venticinque anni, in grado di dire che Glover mi ha insegnato a essere me stesso. Senza scuse. Come per tutte le identità che le nostre culture creano, ci sono dei livelli nell'essere neri. E, che ci si riconosca nell'immagine ultra-virile delle persone di colore proiettata da maggior parte del rap, o in quella di un ragazzo alternativo che è diverso da così, l'evoluzione di Glover ha dato una voce a quei freak e geek di colore che pensavano di dover compromettere la propria personalità per essere accettati. Ma quando impari a lasciare da parte questi pregiudizi, puoi iniziare lo stesso viaggio di Glover. Mettere a tacere le voci che ti dicono di essere questo o quello. Imparare a essere soltanto te stesso. 

(Tutte le immagini: Ibra Ake)

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La storia del new rave in otto canzoni, raccontata da Jamie dei Klaxons

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Furono gli anni Ottanta, per primi, a dare alla luce un nuovo mondo chiamato rave. Prima venne l'house, e nel giro di poco arrivò il momento della techno. Poi Paul Oakenfold se ne andò a fare un giretto a Ibiza, portò via con sé il sole delle Baleari, ed eccoci qua trent'anni dopo in un mondo fatto di universitari americani a torso nudo che riempiono stadi per vedere Avicii e gente che lavora nel marketing musicale che sbava sui Chase and Status.

Ovviamente mancano diversi capitoli a questa breve storia—i campi infangati su cui vagavano i figli dell'acid house, ad esempio. O le chiese in cui la forma-rave si è fatta tale: il Paradise Garage negli Stati Uniti, l'Amnesia di Ibiza, l'Hacienda in Inghilterra. Ma c'è un capitolo in particolare che è stato trascurato più di ogni altro, quando si tratta di parlare della storia della dance: il new rave.

All'inizio la cosa era partita da qualche giornalista che, per farsi due risate e riprendersi da una sbronza particolarmente pesante, si era inventato un rebranding indie di un genere con decenni di storia, spingendo i teenager inglesi dell'epoca ad andare a scuola con addosso un paio di skinny gialli, rossi e blu e i capelli stopposi di liquido di glowstick. Fu un movimento dalla vita breve, ma per un certo periodo sembrava essere ovunque. Nel giro di qualche mese, il new rave era arrivato al mainstream e in serie TV come Skins, e qualsiasi band formata in quel periodo aveva deciso di mettere nel proprio nome parole come "Trash", "Disco" o "Club". Alla fine tutto si spense in concomitanza con un sequestro di massa di MDMA nel Regno Unito, che lasciò la generazione di adolescenti successiva a barcamenarsi con un po' di mefedrone e a collezionare cappellini per passare il tempo.

Il catalogo che compone il nucleo del new rave è scintillante e piuttosto vario, dai Test Icicles ai Does It Offend You, Yeah? passando per i Crystal Castles. Ma i veri pionieri del genere, la band che tirava indiscutibilmente più di ogni altra, erano i Klaxons. Il loro album di debutto, Myths of the Near Future, vinse il Mercury Prize. Suonarono dal vivo assieme a Rihanna. Sono andati avanti a suonare per dieci anni. James, Jamie e Simon dei Klaxons sono stati praticamente gli Zeus, Apollo e Poseidone del new rave.

Dato che Myths of the Near Future compie dieci anni questo mese, chi meglio di Jamie Reynolds stesso può accompagnarci per mano mentre ripercorriamo quegli anni? Gli abbiamo fatto sentire otto canzoni, e lui ci ha detto quello che ne pensava. Appena potete, fate un brindisi per quei momenti in cui chiamavate "rave" qualsiasi cosa facevate con i vostri amici—tipo trovarvi in cucina di casa dei vostri genitori con una strobo rotta—e continuate a leggere.

1. NEW YOUNG PONY CLUB – "ICE CREAM"

Iniziamo nel 2005, prima che il new rave fosse effettivamente nato come genere a sé.
Jamie Reynolds: Sì, grazie per averlo specificato. In quegli anni alcuni gruppi non volevano essere raggruppati sotto il termine "new rave". Credo che la gente tendeva a collegarli alla cosa per il modo in cui si vestivano. Portavamo tutti le stesse cose. Quando andavamo in tour assieme avevamo tutti voglia di fare casino, e quindi anche quello aveva contribuito a creare un'aria di "scena". Ma non chiamerei new rave un pezzo come "Ice Cream"—è tipo una versione sexy della disco. Insomma, ci sta che non volessero avere niente a che fare con una scena che aveva come principale punto di riferimento la cultura degli anni Novanta.

2. SHITDISCO – "I KNOW KUNG FU"

Gli Shitdisco a che punto stanno della linea del tempo del new rave?
Avevamo lo stesso management, e quando uscirono con questo pezzo stavamo facendo concerti assieme da un mesetto. Hanno iniziato a suonare più o meno quando abbiamo iniziato a suonare noi, c'erano fin dall'inizio. A livello musicale, ancora una volta—sta tutto nel nome—facevano questa sorta di ibrido tra post-punk e disco, cioè la formula che andava per la maggiore prima che arrivammo noi, e questo pezzo non è che una continuazione di quel filone. Noi volevamo provare a spingerci verso altre direzioni, ma pezzi come "I Know Kung Fu" avevano un'identità definitva. Venivano dagli LCD Soundsystem, dalla Output Records, cose così.

Come fu andare in tour con loro nel 2006? 
Amo gli Shitdisco con tutto il mio cuore—non avremmo potuto divertirci di più, è stato davvero assurdo. Il nostro tour manager si chiamava "Ravey Davy" e aveva inventato questo cocktail, il "Rewind", che era praticamente mezza bottiglia di sidro, mezza bottiglia di rosso e qualche sostanza a caso. Si preparava 'sta roba, poi si metteva a saltare e scalciare a caso e a una certa ci diceva, "Ok, dovete salire sul palco." Gli Shitdisco sono stati nostri fratelli nel caos.

Strano che non abbiate vomitato ovunque.
Un paio di volte mi è capitato. Penso che lì fossimo al massimo del nostro edonismo. Appena dopo quel tour, il nostro management ci impose un nuovo tour manager dicendoci che dovevamo darci una calmata o non avremmo mai avuto successo. Quindi quelli sono stati i nostri ultimi momenti di libertà, ci siamo divertiti davvero un sacco. Era come essere in famiglia, quando c'erano gli Shitdisco.

3. CSS – "LET'S MAKE LOVE AND LISTEN TO DEATH FROM ABOVE"

Questo pezzo dei CSS mi aveva mandato in fissa quando era uscito. Che ruolo ha nella traiettoria del new rave?
Ancora, è un pezzo disco tutto sexy che parla apertamente dei Death From Above 1979, che avevano guidato la rinascita di quel crossover disco-rock che andava un sacco prima che arrivassimo noi. Parlano di loro, parlano di sesso, è un pezzo disco: è sexy disco. 

Perché pensi che la gente tendeva a inserirlo nella categoria "new rave"?
Credo sia stata questione di contemporaneità, eravamo tutti in attività e facevamo tutti pezzi ballabili. Riuscivamo tutti a far impazzire il nostro pubblico e andavamo spesso in tour assieme; e allora, da fuori, sembravamo una grande famiglia. Simon usciva con Lovefoxx, la loro cantante, e quando suonavamo assieme si creava sempre una bella chimica. È interessante riascoltare tutti questi pezzi ora, dato che a quei tempi volevamo provare a fare un salto in avanti, ma molti di questi gruppi non erano che continuazioni di quello che stava succedendo appena prima di loro. 

4. KLAXONS – "ATLANTIS TO INTERZONE"

Ora sì che ci siamo! Per me "Atlantis to Interzone" è stato il primo vero esempio tangibile di new rave.
Mi piace che tu abbia scelto questo pezzo e questo video perché, insomma, è lui. È strano, perché tutti i nostri altri video sono stati fatti da Saam Farahmand, e tutte le sue cose hanno un elemento fantasy; questo è l'unico che non abbiamo fatto fare a lui, ed è quello che incarna perfettamente tutto l'immaginario new rave. Ci sono i vestiti colorati, le chitarre usate per fare qualcosa che vorrebbe essere dance, è tutto caotico. Bellissimo.

Quando stavate mettendo assieme tutto questo avevate anche solo il minimo presentimento che il new rave sarebbe letteralmente esploso? 
Noi siamo di New Cross, un quartiere a Sud-Est di Londra, e nella nostra zona era già a buon punto. La gente per cui suonavamo usciva fuori di testa. Ma volevamo uscire dal nostro piccolo cerchio, e in fondo "Atlantis to Interzone" è arrivata al momento perfetto. È stata il nostro picco prima che diventassimo pop a tutti gli effetti, è il pezzo che definisce la nostra carriera prima del primo album. La suonavamo dal vivo e la gente si prendeva benissimo, ma dato che l'album non era ancora uscito tutti restavano fermi su cose tipo "Golden Skans". Ed è curiosa, come cosa.

Dopo "Atlantis to Interzone" tutti cominciarono a vestirsi come voi…
Sì, Simon era un'icona fashion in quegli anni, e non so se la cosa gli sia stata davvero riconosciuta. Ogni volta che usciva una qualche sua foto gli altri gruppi prendevano appunti. Stranamente, a tenere tutto assieme era più la moda che la musica. 

Prima del new rave era come se tutti provassero a vestirsi come gli Strokes, e nel giro di un attimo tutti cominciarono a mettersi le robe più strane che riuscivano a trovare.
Sì, e nel giro di un attimo finisci in un video dei Trash Fashion. Un mese prima dei Klaxons anche noi ci vestivamo come fossimo negli Strokes, o andavamo di giacca e cravatta direttamente. A una certa abbiamo detto, "Fanculo". Siamo andati al mercato di Deptford e abbiamo investito dieci sterline per prendere qualche vestito per bambini, ed eccoci qua. 

5. JUSTICE V SIMIAN – "WE ARE YOUR FRIENDS"

"We Are Your Friends" uscì dopo "Atlantis to Interzione", ma ovviamente i Justice e i Simian erano in giro da un bel po'.
Questo pezzo era come un inno, in quel periodo. La mettevano su a ogni festa, e i Justice erano i capi del business. Quando diventammo loro amici era come se avessimo incontrato i nostri eroi. L'EDM non era ancora venuta fuori, e in un certo senso loro sono stati i precursori della cosa. Secondo me è interessante pensare che, a parte noi, tutti cercavano di distanziarsi da qualcosa, sai?

È un pezzo che suona senza tempo.
È fantastico. Mi sono appena riguardato il video e al centro ha quell'abbandono mentale, quel comportarsi come se non te ne fregasse un cazzo... insomma, forse ai tempi non ce ne rendevamo conto, ma erano una grande influenza per noi. Questa canzone è il nodo che tiene unito tutto quanto. Qualcuno ha deciso di usarla come titolo per quell'orribile film sull'EDM, ma non credo abbia senso collegare le due cose—questo pezzo è stato un precursore, e il nostro inno.

Come mai, secondo voi, in quegli anni tutti decisero che volevano prendersi meno sul serio e ballare di più?
A livello culturale, non so davvero darti una risposta. Era un periodo felice e tutti erano fuori di testa. Era colorato, sregolato e stupido. Non era il resto del mondo che era troppo serio o se la tirava troppo, erano il caos e quello spirito di abbandono ad attirare la gente.

6. TRASH FASHION – "IT'S A RAVE DAVE"

Eccoci verso la fine del 2006, e questo è quello che potremmo chiamare "new rave da discarica"…
Sì, insomma, credo sia ok dire che i Trash Fashion fossero ironici. Nessun altro tra gli artisti di cui stiamo parlando lo era; prendevano tutti quello che facevano sul serio. Questi qua, invece, forse avevano provato a salire sul carro prendendo il genere per il culo e approcciandocisi ironicamente, cosa che succede sempre nella vita di un movimento pop. Se hai un suono definito, prima o poi qualcuno lo userà e lo prenderà in giro. E questo è quello che è.

Ti ricordi di quando uscì questo pezzo?
Ho sentito il nome "Trash Fashion" un sacco di volte, ma non li avevo mai davvero ascoltati. I loro video hanno riferimenti ai nostri, robe così. È come se volevano avere qualcosa a che fare con la scena, ma non sono mai stati sotto il nostro radar. E poi, il loro nome... il Trash era il club in cui andavamo sempre, la moda era quello che teneva tutto assieme, e si rifacevano a quello che stavamo facendo. È un tentativo di toccare lo zeitgeist.

Ho letto da qualche parte che, arrivati a un certo punto, l'etichetta "new rave" ha iniziato a darti fastidio. È stato in questo periodo?
A me non ha mai dato fastidio, ma eravamo una democrazia, e altri membri del gruppo volevano staccarsi dal termine "new rave". E allora così abbiamo fatto. Nel 2006 ormai avevamo già avuo il notro momento pop. I ragazzi vietarono i glowstick al nostro concerto alla Brixton Academy, e fu un momento che segnò un passaggio impotante. Volevamo che il "new rave" fosse una rampa di lancio più che una scena che avrebbe definito la nostra carriera.

7. HADOUKEN! – "THAT BOY THAT GIRL"

Ti ricordi quando gli Hadouken pubblicarono questo pezzo? 
Certo. Non credo che, ai tempi, lo rispettassi abbastanza. Ascoltarlo ora me lo fa apprezzare molto di più.

Per me è il contrario... all'epoca mi ero presa benissimo, mentre adesso mi viene da dire, "Oh wow".
A me non aveva toccato particolarmente perché vivevo in una mia bolla. Mi sarebbe piaciuto se gli Hadouken e i Late of the Pier fossero venuti in tour con noi in quegli anni, perché in fondo sembravano molto più vicini a quello che volevamo fare noi di quanto lo fossero molti altri. Insomma, qua il loro cantante si approccia alla voce quasi come un MC, no? L'ibrido tra indie e grime risale a prima del new rave, e il grime con le chitarre era una figata. Mi piace quando i generi si incontrano. Il risultato può essere terribile, certo, ma in questo caso mi sembra sia andato tutto bene. Avrebbe avuto senso collaborare di più con gli Hadouken per noi, certamente.

E perché non lo avete fatto?
C'era una forte aria di competizione, e a volte i rapporti tra i gruppi erano un po' strani. Non penso di averci mai parlato, ma ricordo di aver provato sentimento contrastanti per loro. E a ripensarci oggi devo dire che non c'era motivo di averli. 

8. LATE OF THE PIER – "SPACE AND THE WOODS"

Per me i Late of the Pier assomigliavano ai Klaxons. Erano nati dal new rave ma erano riusciti a svoltarla e uscire da una categorizzazione troppo forte.
Sì, certamente. Sono un altro gruppo a cui mi sarebbe piaciuto dare più attenzioni. Da quello che ricordo, erano piuttosto competitivi. Credo fossero all'università assieme a Simon. Avremmo dovuto legare di più, perché Erol—il loro produttore—era anche il nostro. Avremmo dovuto passare più tempo assieme. Quando ascolto "Space in the Woods", e altri loro pezzi, e ascolti i loro testi, mi rendo conto che forse erano quanto di più vicino ci fosse a quello che provavamo a fare noi. Mi sento molto più vicino a loro che a tutti gli altri gruppi. 

Questo pezzo come si inserisce nella storia del new rave?
Non credo lo faccia, più che altro perché penso che non volessero averci niente a che fare. Erano molto consci di quello che suonavano, sembravano avere una formazione umanistica, erano molto creativi, ed è una cosa che rispetto. Insomma, ha senso che volessero evitare di essere inseriti in quel calderone, lo capisco. Ma in fondo, ancora una volta, credo fosse la moda ad averli avvicinati a noi e al genere. E al fatto che comunque avevano influenze pre-new rave, post-punk e disco. 

Quando è morto il new rave, secondo te?
Forse è morto quando abbiamo bandito i glowstick alla Brixton Academy. Era il nostro concerto più grande di sempre, il nostro picco assoluto, e avevamo deciso di privarci dell'elemento che ci aveva portati fin lì. 

Pensi che potrà mai risorgere? 
Non lo so... ci vorrebbe un gruppo che provi a rilavorare quel sound per fare qualcosa di totalmente nuovo. O forse dovremmo riprovarci noi. Ma non è una cosa che immagino possa succedere a breve termine.

(Illustrazione di Joel Benjamin)
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Il nuovo album dei Gnod ha un titolo lunghissimo con cui però ci troviamo molto d'accordo

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Gli Gnod sono un gruppo piuttosto particolare: vengono da Salford, in Inghilterra—un luogo piuttosto deprimente che ha dato i natali a due Joy Division su quattro, per darvi un'idea—e lì hanno sviluppato una loro rilettura apocalittica del kraut rock che mi manda piuttosto in estasi. E che dire, il loro nuovo album è in arrivo. Come segnalato dalla nostra collega americana Kim Kelly, che tra l'altro usa un termine bellissimo per descriverli come "noiseniks", il disco uscirà per Rocket Recordings e ha un titolo decisamente lungo che, a tradurlo, sembra un titolo pallosissimo per un articolo che parla di musica ma è davvero così: Just Say No to The Psycho Right-Wing Capitalist Fascist Industrial Death Machine.

Facciamo una domanda retorica di cui sappiamo già la risposta ma facciamola lo stesso: perché questo titolo? "L'impressione che abbiamo è che il futuro potrebbe essere ancora più inquietante del presente in cui viviamo," ha dichiarato il loro Chris Haslam. "Il 2016 è solo l'inizio di quello che credo essere la distruzione sistematica del liberalismo e dell'equità da parte dell'establishment, in risposta alla perdita di fede del pubblico nel loro sistema."

Se volete qualche nome di riferimento per farvi venire voglia di ascoltare Just Say No eccetera vi possiamo dire le parole "Swans", "Black Flag" e "Jesus Lizard". Ma in realtà basta schiacciare play qua sotto, dove trovate embeddato il primo estratto dal disco: si intitola Body for MoneyQua i pre-order.

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Il mio primo appuntamento con Lars Ulrich dei Metallica

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"Sei stato sposato tre volte. Credi ancora nell'istituzione del matrimonio?" Già, ho deciso di esordire così. Lars Ulrich si prende una lunga pausa, fa una faccia stupita e dopo un momento di troppo di silenzio risponde: "Uhm... sì, ci credo. Ho vissuto molto. Un terzo matrimonio... il meglio viene alla fine".

"Anche mio padre si è sposato per tre volte", provo a dire.

"Perfettamente in linea con la nostra fan media, direi", Lars risponde, secco.

Per essere un appuntamento, mi sembra di aver iniziato davvero benissimo. Mentre io e il batterista danese—senza dubbio il più riconoscibile e schietto membro dei Metallica—sediamo ad un tavolino nel dehor del ristorante di Robert DeNiro a Tribeca, percepisco l'imbarazzo che comincia a infiammarmi il viso. Non ho scelta, devo andare avanti: "Ti consideri un romantico?"

"Uhm… non sono cose a cui penso spesso", dice. "Credo di potermi considerare romantico. Se proprio devo rispondere, sì. Yeah! Non parlo mai di questi argomenti... credo di potermi considerare un romantico".

"Ti sto mandando in paranoia?" Chiedo. "Sono troppo diretta?"

"Oh no… è solo che sono in modalità nuovo album", risponde.

Ah, certo. I Metallica hanno un disco nuovo, Hardwired… To Self-Destruct, uscito dopo otto anni di silenzio, il loro decimo album. Se vuoi scoprire di più su questo album e parli inglese, leggi l'intervista di Kim Kelly a Lars. Ma i first date di Noisey non sono interviste normali. Il mio piano, come ogni volta, è di ficcare il naso! Entrare nel personale! Parlare d'amore, romanticismo e, magari, se l'appuntamento procede bene, sesso. Voglio dire, dovrebbe essere una cazzata, giusto? Conosco i Metallica. Ho desiderato ardentemente la classica maglietta Metal Up Your Ass (mia madre ha detto di no). Ho passato molte serate a guardare il soffitto della mia camera ascoltando "Nothing Else Matters" (e siete pregati di non menarmela sul fatto che è la loro canzone più commerciale e per questo non sono una vera fan dei Metallica. Quella canzone era la voce della mia anima di tredicenne). Ho intervistato Kirk Hammett al Rock Am Ring nel 2008 (abbiamo parlato di film horror e di essere mezzi filippini). Lars e io ci siamo già incontrati: a San Francisco nel 2005, dentro al tour bus dei Kings of Leon (Lars: "Certo, è possibile. Se non mi ricordo nient'altro di quella volta, vuol dire che è meglio non parlarne").

Ma l'appuntamento non è iniziato nel migliore dei modi. Cambio tattica.

Foto di Rebecca Miller

Noisey: Se non fossi sposato e questo fosse un vero appuntamento, quale sarebbe la tua situazione ideale? Ami molto il cinema, giusto?
Lars Ulrich: Quando entro nel mondo di un film riesco a spegnere il cervello. Sfortunatamente, la musica non riesce più a coinvolgermi come una volta. Nel mondo dei film succedono ancora cose creative, è più intrigante. Il cinema è decisamente il mio passatempo preferito. Questi cosi [indica il suo smartphone] tendono a incasinarti la vita se glielo lasci fare, quindi penso che vedere un film sia il modo più intimo per staccarsi da questo maledetto aggeggio.

È il motivo per cui mi piace prendere l'aereo. Faccio finta che il wi-fi non funzioni.
Il cinema è la mia grande fuga. Mia moglie e io stavamo pensando di andare a vedere un film appena finiamo qui. 

Visti i tuoi impegni e il fatto che tu e tua moglie [Jessica Miller] avete dei bambini, devi programmare le vostre uscite con precisione?
Due cose: numero uno, essendo danese, la programmazione è nel mio DNA. In secondo luogo, trovo che invecchiando, e io ho tipo cent'anni...

Non hai cent'anni.
Sei troppo gentile: ne ho novanta. Invecchiando, fare programmi ti viene naturale. Quindi la combinazione tra essere danese ed essere stagionato mi porta a pianificare. Stiamo a New York dieci giorni e io sono pieno di impegni in agenda, quindi dobbiamo rubare un po' di tempo per noi. Specialmente in questa cazzo di città—qua gli spettacoli fanno il tutto esaurito. Abbiamo un certo equilibrio: lei mi mantiene un po' più spontaneo e impulsivo, e io la rendo un po' più organizzata. Anche nel rapporto tra me e James Hetfield, io sono quello che mantiene le cose in riga. 

Non abiti più in Danimarca da quando avevi 17 anni. Ti ricordi qual è stata la prima impressione dell'America che hai avuto da ragazzo?
La stazza. Tutto è gigante qua. Venimmo a New York nel '74, '76, '78. Erano i tempi in cui le macchine erano grandi come campi da calcio. Andavamo nei negozi di dischi a comprare tonnellate di vinile. Mi sono diplomato in Danimarca a 16 anni e ho abitato in Florida per un anno. Frequentavo un'accademia del tennis. Mio padre giocava a tennis e suonava jazz, e la Danimarca è un posto estremamente liberal. All'improvviso mi sono trovato in un dormitorio a Bradenton, Florida, dentro un vecchio hotel marcio trasformato in accademia del tennis, e le luci si spegnevano alle 21.30. Sono finito nei guai per aver fumato erba. Era uno scontro tra mondi, quindi sono praticamente scappato. Ma poi ci siamo trasferiti in California. A quei tempi cercavo di convincere me stesso di avere un futuro come giocatore di tennis. In Danimarca ero tra i primi dieci della mia fascia d'età, mentre arrivato a Los Angeles non ero nemmeno tra i primi dieci del mio quartiere! Non sono riuscito nemmeno a entrare nella squadra di tennis del liceo di Corona Del Mar. È stato un vero trauma. Abbandonato lo sport, in due o tre secondi la musica ha preso il suo posto.

E com'è stato? Hai trovato subito ragazzi della tua età a cui piaceva la stessa roba?
La California del Sud, in quel periodo, era piena di sedicenni con polo Lacoste rosa. Erano tutti fighetti o atleti. Ho cominciato a indossare le magliette di Iron Maiden e Motörhead, a farmi crescere i capelli (me li tiravo tutti i giorni perché pensavo di allungarli). Ero un ragazzino sfigato, emarginato e solitario. Non ero strambo o disadattato, ma mi facevo i fatti miei, nessuno mi rompeva il cazzo, ma vivevo nel mio mondo.

Qual era la tua percentuale di successo con le signorine allora?
Inesistente. C'è una percentuale più bassa di zero?

Non erano attratte dai tuoi lunghi capelli fluenti? 
Ogni tanto qualcuna sembrava rendersi conto della mia esistenza, forse un cenno del capo, ma nulla di più. 

Ma poi hai formato una band…
Eravamo molto giovani. James e io ci siamo conosciuti che io avevo soltanto diciassette anni. James e Ron, che era il suo migliore amico, vivevano da soli. Dave Mustaine—che è stato il nostro chitarrista per il primo anno—aveva una personalità molto magnetica, era molto bello, dei capelli fantastici. James e io eravamo molto impacciati, Ron se la cavava e Dave Mustaine era davvero fico. C'era un sacco di gente attorno a Dave Mustaine. Aveva tantissimi amici di entrambi i sessi. Loro ci guardavano e chiedevano "e questi chi sono?". Dave ci presentava come i membri della sua band. Piano piano abbiamo cominciato a capire. Poi abbiamo conosciuto Cliff e lui ci ha convinto a trasferirci a San Francisco. 

Com'era la scena a San Francisco?
Parliamo di fine '82, inizio '83, la cultura stava cambiando. Abbiamo cominciato a sentirci più a nostro agio a socializzare. San Francisco era l'antitesi di LA. La scena rock di LA dipendeva da movimenti, fenomeni, mode. A San Francisco le persone erano molto indipendenti e ognuno faceva quello che voleva. Ci siamo ritrovati in mezzo a un grande gruppo di ragazzi a cui piaceva il rock, la maggior parte aveva una band, tutti respiravano musica. Ci trovavamo in 20, 30 o 50 attorno a uno stereo a farci birre su birre in cima alla Strawberry Hill nel mezzo del Golden Gate Park. La gente suonava e basta. Noi eravamo così. A LA era tutta una questione di gerarchie, di leader e seguaci. A San Francisco la gente ti apprezzava per quello che eri. Abbiamo davvero assorbito questa attitudine, l'abbiamo presa a cuore. Ormai da 33 anni.

Tu hai tre figli maschi. Sono già adolescenti?
Uno va all'università a Boston, alla Berklee School of Music. Un altro è al liceo a Marin e il più piccolo va al MCDS a Marin. 

Ti chiedono mai consigli per i loro problemi di cuore? O si tengono a debita distanza?
Loro sono molto più avanti di me, perlomeno di me alla loro età. Ci siamo fatti un paio di chiacchierate. Ma parlando di consigli, penso che grazie a internet imparino tutto da soli. Io sono sempre disponibile per parlare con loro, non c'è alcun muro tra di noi. Il più grande, che ha 18 anni, se la sta cavando molto bene su a Boston, credo che si stia divertendo. Ha anche un'amichetta lassù. Io ero figlio unico ed ero un tipo solitario. Nessuno dei miei figli è così, anzi. Senti, come ho già detto, se ti svegli una mattina e sei uno che va a scuola nella California del Nord, anzi, nella contea di Marin, hai già vinto la lotteria in partenza. E poi anche in termini di accettazione sociale e cultura, e di punto di vista sul mondo, non può andare tanto meglio di così. Quindi penso che alla mia famiglia vada al meglio delle possibilità. Ricordo loro tutti i giorni quanto siamo fortunati. A dir la verità, io e mio figlio di mezzo scherziamo spesso: ogni giorno, quando è ora di andare a scuola, si ferma un attimo a pensare quanto è fortunato a frequentare la Marin Academy. Ne apprezza ogni minuto. Quindi mi sembra che stia funzionando. 

Tra questo album e il precedente avete detto di esservi presi un po' di tempo per concentrarvi sulle vostre famiglie. 
È importante. La cosa più bella che è capitata a questa band è che tutti e quattro, specialmente Hetfield e io, siamo diventati papà più o meno nello stesso periodo. Era 18 anni fa, quindi se oggi ne ho 100... no, avevo 35 anni quando ho avuto il primo figlio. È stato un elemento nuovo nel nostro rapporto; ci ha dato qualcosa di nuovo di cui parlare. Ci ha dato la possibilità di costruire un nuovo legame su questa base, è stata una figata. I ragazzi vanno d'accordo. Nella nostra band, il fatto che tutti e quattro diamo priorità alle responsabilità domestiche e tutti e quattro abbiamo iniziato il turno più o meno alla stessa età è davvero ottimo. Ci vuole un po' a capire certe cose quando sei in una band. 

Nel corso degli anni, quando hai abbastanza fortuna da raggiungere il successo, raggiungi anche l'indipendenza economica. E così siamo stati in grado di aggiustare i parametri dei nostri tour per passare più tempo a casa. Abbiamo la regola delle due settimane: non stiamo via da casa per più di due settimane alla volta, 16 giorni al massimo. Abbiamo fatto 180 date per l'ultimo album in turni di due settimane alla volta. Non è il modo più economico di girare il mondo, ma non si può badare a spese quando si tratta di sanità mentale. Se riesci a rimanere in qualche modo sano, hai più possibilità di riuscire a suonare tutte le volte e di non finire in un abisso di disperazione e dolore. 

Quando non eri sposato, era difficile capire se le persone che conoscevi ti apprezzavano per quello che eri o perché eri il batterista dei Metallica?
C'è stato sicuramente un periodo in cui questo non importava. Quando hai 18, 19 o 20 anni, quando sei appena uscito di casa e sei in tour per tutto il continente, quella domanda non ha alcun senso. Specialmente se si tratta di un goffo sfigatone come me. 

Quando hai cominciato a sentirti a tuo agio in quel campo?
Ottima domanda. Penso intorno a metà degli anni Ottanta, durante il tour di Master of Puppets. Ozzy e Sharon ci presero sotto la loro ala e passammo con loro praticamente un anno intero. Suonavamo negli stadi, dove alle 20.45 il concerto è finito e sei libero, e ti trovi ad Albuquerque, New Mexico, o a El Paso, Texas, e hai circa 21 anni, penso tu possa immaginare cosa succedeva. Da qualche parte in quel tour, sono passato da "non ci sto capendo un cazzo" a "comincio a capirci qualcosa". Direi che era l'86, avevo tra i 22 e i 23 anni. 

Era difficile essere famoso e alla ricerca d'amore? Non c'erano certo i siti di appuntamenti negli anni Ottanta. 
Già, Al Gore non aveva ancora inventato internet. La cosa bella della California del Nord e della Baia in particolare (e naturalmente del centro del paese) è che è il posto dove la fama funziona meno. A LA, ovviamente, era l'opposto, a New York in un certo senso anche. Quindi usavi il tuo radar come potevi. Ma noi siamo al livello perfetto. Siamo abbastanza famosi per poter andare dappertutto, ma non tanto da non essere in grado di andare in giro o frequentare persone normali. È un posto tranquillo. E invecchiando ho sempre cercato di mantenere la mia normalità. Soltanto raramente ho utilizzato guardie del corpo o uno staff numeroso—per fare il pezzo grosso con una dozzina di gorilla dietro di me. Ho sempre preferito confondermi con la folla e calcarmi il cappello sul viso. Se tu fossi una psicologa, ti direi che ho imparato a sopravvivere in questo modo. Non è mai stato un problema, perlomeno in confronto alle persone veramente tanto famose. 

Hai detto che non trovi più molta ispirazione nella musica... ma suonare nei Metallica continua a darti gioia?
Dieci o trent'anni fa era diverso. Tipo: "Oh mio dio, i Guns N' Roses, oh mio dio chi sono questi Nirvana! Gli Oasis!" Ne sentivi parlare e li volevi incontrare. Oggigiorno non ci sono band che hanno quel tipo di impatto su di me. L'ultima volta che ho pensato: "Cazzo! Questa roba mi ispira davvero" è stato con una band chiamata The Sword, da Austin, Texas. Fanno stoner rock, alla Black Sabbath ma più moderni. Super fichi. Li abbiamo scoperti sette o otto anni fa, e abbiamo subito deciso di portarli in tour. Poi c'è una band norvegese che si chiama Kvelertak. Ormai gruppi come questi si contano sulle dita di una mano. Ma non voglio tagliare con l'accetta. Ne so di più di cinema che di musica perché lo seguo di più. Questo non significa che se mi capitasse di sentire della musica fantastica non la riconoscerei. Solo che succede sempre più raramente. 

Qualche tempo fa ho guardato il documentario Mission to Lars. Com'è stato conoscere Tom?
Tom è fantastico, Tom è il migliore. La gente mi chiede: "Sei davvero andato a conoscere quel tizio? Sul serio?" Eravamo oltre i 170 concerti in quel tour, e riceviamo un'email su questa famiglia che sta girando un film su Tom che cerca di incontrarmi. Voglio dire, davvero? È ovvio che vogliamo conoscerlo. Non è poi così complicato. Naturalmente lavoriamo molto con la fondazione Make A Wish, e incontriamo un sacco di ragazzini in situazioni terribili. Fa parte di noi, ed è anche bello per noi. A volte questi momenti ti salvano la giornata. A volte stai passando una brutta giornata e cose come questa ti aiutano a ricordare quanto sei fortunato. E non è il caso di prendersela se l'omelet non era cotta alla perfezione nel hotel Four Seasons che ti ha ospitato quella notte. Tom e la sua famiglia sono stati meravigliosi. Siamo rimasti in contatto e ora siamo amici. Ci sentiamo spesso. 

Some Kind of Monster è uno dei miei documentari musicali preferiti. Come protagonista, avevi qualche rimorso o apprensione quando avete iniziato a girare?
Abbiamo deciso di fidarci di Joe e Bruce, riconoscendo che non potevamo gestire ogni dettaglio. La nostra casa discografica all'inizio doveva pagare le spese, doveva essere più un "making of" dell'album, ma poi le cose hanno preso una piega inaspettata. Ci chiedevamo cosa farci, visto che l'etichetta non sembrava volerlo più finanziare. Abbiamo deciso di restituirgli i soldi e dare tutto in mano a Joe e Bruce dicendo "fate quello che dovete fare", rendendoci disponibili per qualunque cosa. Mi piacciono le sfide, e mi piace fare cose uniche. Sapevamo che Joe e Bruce non ci avrebbero fregati. E quello è stato il nostro salvagente.

Sono abbastanza bravo a separare le cose. Posso accumulare della roba in un angolo del mio cervello e dimenticarmene facilmente. So essere molto poco emotivo su queste cose. Ci sono stati dei momenti, riguardando il materiale durante la lavorazione, in cui ho dovuto entrare in quella modalità. Dovevo trattarlo in terza persona, non so se mi spiego—non sono io, ma una specie di personaggio. Penso che la sfida sia stata quella della trasparenza. Per me, o sei trasparente o non lo sei. Non è che possa essere un po' trasparente e un po' no. Abbiamo detto: "Le porte sono aperte, cazzo, divertitevi". È andata così. Un paio di altri membri della band la pensavano in modo diverso. 

Se tu avessi una figlia, la metteresti in guardia verso i fidanzati musicisti?
No. I musicisti sono persone creative che hanno bisogno d'amore come tutti.

Ma creano anche un sacco di problemi.
Mi sembra un po' una generalizzazione, non è come vedo il mondo io. Penso che sia un po' contraddittorio se avessi una figlia e le consigliassi di non frequentare i musicisti. Le consiglierei di stare attenta in ogni caso, che si tratti di persone nel campo creativo o meno. Sono sicuro che ci siano altrettante cazzate commesse da scienziati e atleti e studenti di economia. Tutti. Quindi no, non le direi di stare lontana dai musicisti. 

Che cosa non sopporti in un appuntamento? Per me è quando l'altra persona è sgarbata con i camerieri o mangia a bocca aperta. O se non è capace di fare le coccole, tipo non è bravo nella posizione del cucchiaio. 
Grazie per l'informazione! Per me è [non avere il senso del] l'umorismo e [non capire] il sarcasmo e l'ironia. Noi danesi amiamo stuzzicare e provocare, fa parte del nostro DNA. A volte capita che provi a lanciare qualche frecciatina verso le persone, specialmente se non le conosco, per vedere come le gestiscono. Se non le gestiscono nel modo giusto, è finita per me. Sono così in generale, non solo nel contesto di un appuntamento. Bisogna che sia capace di capire lo humor astratto, e un punto di vista inusuale verso il mondo. 

Tutte le foto sono di Rebecca Miller.

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Gli Hotelier odiano le istituzioni ma amano le emozioni

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Sulla copertina di Goodness, il nuovo e terzo album degli Hotelier, c'è un sacco di nudità senile. Per scattarla sono bastati un annuncio su Craigslist e qualche volontario di buon cuore, ma anche una richiesta alla polizia per essere sicuri di non stare infrangendo alcuna legge. D'altro canto, da un album che si chiama Bontà, non possiamo aspettarci troppo grezzume—soprattutto se il suo punto è tentare di trovare la bellezza in ogni cosa, abbandonarsi a domande generalmente ritenute infantili, accettare la propria fragilità. 

La prima volta che ho sentito gli Hotelier è stato grazie a Home, Like Noplace Is There, il loro secondo album. Il loro esordio, It Never Goes Out, era un classico disco pop punk come tanti ne sono usciti negli ultimi quindici anni: melodie a tutto spiano, testi genericamente emotivi, un'onesta attitudine DIY. Home, invece, aveva dentro qualcosa di diverso, e il primo brano—dal titolo adorabilmente didascalico, "An Introduction to the Album"—lo metteva immediatamente in chiaro. Era un muro di testo, un saliscendi emotivo: uno spontaneo straripare di sentimenti forti, per dirla come Wordsworth (è un riferimento che ha senso e non è a caso per dire un nome famoso, lo giuro, aspettate).

Alla base di "An Introduction to the Album" e del disco stesso c'era, detto semplicemente, una montagna di merda personale. È difficile riassumere in poche parole quello che è successo al loro frontman Christian Holden: come ha raccontato a Stereogum, molti dei suoi amici avevano sviluppato tendenze depressive e/o suicide, la sua ragazza a sua volta lo minacciava dicendogli che si sarebbe uccisa per gelosia, e un suo caro amico aveva iniziato a picchiare la sua partner. Holden, nel disco, parla di tutto questo senza troppi giri di parole: e lo fa in modo torrenziale, brutale, senza filtri, riuscendo però a risultare inclusivo. Holden non è un narratore onnisciente; al contrario, si pone sullo stesso piano del suo ascoltatore e cerca continuamente di coinvolgerlo in un rapporto di empatia reciproca. "Ho cercato una via d'uscita / Non è quello che facciamo tutti?", dice in "Introduction"—un brano che sembra pensato per essere corale, e che suonato dal vivo dà un enorme senso di comunione

Home, Like Noplace Is There è stato l'album della svolta, per gli Hotelier, e li ha portati all'attenzione di qualsiasi importante sito musicale americano—persino The FADER, che se ne è uscito con un titolo del calibro di People Really Love the Hotelier. Home è risultato estremamente accessibile grazie alle sue sonorità, ma senza perdere il fascino di una complessità tematica tutta da sviscerare. Era un disco speranzoso, che trovava nella condivisione una chiave per chiudere definitivamente cattiveria e dolore in un immaginario ripostiglio. Goodness parte dalle stesse modalità espressive ma le usa per affermare la necessità di qualcosa di semplice e puro: l'assenza di ogni filtro e paranoia nel modo in cui ci poniamo domande sulla nostra esistenza e sul mondo in cui viviamo. E ci riesce raccontando di situazioni, persone e luoghi ben definiti e caratterizzati, facendoli però risultare universali. 

Fotografia di Kylie Schaffer.

Su Goodness c'è un pezzo che si intitola "Opening Mail for My Grandmother", per darvi un esempio. Christian canta di sua nonna e di una scena totalmente umana—lui, nipote, che legge a lei le lettere che ha ricevuto, e si riempie di gioia per la sua spensieratezza nel reagire all'arrivo di notizie da amici lontani: "Da Gingie a San Francisco, i nipoti stanno bene / L'infermiera del St. Beth's ha perso il marito / 'Ma presto si reincontreranno', tu scherzi alludendo". Quando gli chiedo che cosa ne pensa, sua nonna, del fatto che gli ha dedicato un brano, Christian mi risponde che è morta da poco. Mi viene subito da dire una lunga serie di "I'm sorry, I'm sorry"—ma lui dice che è ok, "Qualcuno le ha detto che avevo scritto di lei, ma non sono sicuro che sia riuscito a ricordarlo dato lo stato in cui era. Volevo trovare un momento per celebrarla, ecco."

Mi sembra che Holden pesi le sue parole, mentre parliamo. Il che ha senso, data la cura che mette in quelle che usa per la sua band. Avrei voglia di iniziare l'intervista chiedendogli di spiegarmi le radici filosofiche dietro a Goodness, ma gli risparmio la cosa dato che Alyssa Kai, sua amica e giornalista del Guardian, gli ha fatto un favore pubblicando un breve testo che ha dentro tutto il senso del nuovo corso del gruppo: "Siamo svegli e siamo stanchi e vogliamo di nuovo amore nelle nostre vite. E così ora ci troviamo nella Bontà, nei boschi fuori dai sobborghi, provando a re-imparare quell'amore." 

"Nei boschi fuori dai sobborghi", tornando alla copertina dell'album. Per Holden, come per Wordsworth (visto?), la natura è una forza enorme, benigna e guaritrice, a cui affidarsi in un processo di scoperta della propria identità. Per dirvi, c'è un pezzo—"Soft Animal", che prende il nome da una poesia di Mary Oliver, citata nel testo e tutto—in cui Holden toglie qualsiasi filtro e parla direttamente agli animali, ai fenomeni atmosferici, chiedendo conferma dell'integrità del suo io: "Cerbiatto, cerbiatta, nevischio / Fatemi sentire vivo / Fatemi credere che tutte le mie identità possano allinearsi." 

Sono molti i momenti in cui Holden alza lo sguardo al cielo, nel disco, incontrando quello della luna e del sole. Nella luna vede la faccia dell'altro—ma un altro alla Levinas, per spingere sul concetto di condivisione e coralità di cui sopra: "nell'epifania del volto dell'altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l'altro"—"Io vedo la luna, e lei vede me / E questo basta", canta Holden. Nel sole, invece, vede una fonte ambivalente di tepore e distruzione: chiede al suo interlocutore di "restare steso con lui dove il sole batte al punto giusto", ma afferma anche di non poter resistere a una luce troppo forte. 

Sole e luna, figure ancestrali come la nudità che adorna la copertina del disco: ed è alle radici di ciò che ci rende umani che Holden e gli Hotelier puntano, nel parlare di emozioni in forma musicale. E nel porre, come dicevamo, domande imbarazzanti togliendo qualsiasi filtro all'espressività. Devo vergognarmi del mio corpo? Posso parlare di sole e luna senza sembrare scontato? Ho troppa paura di morire? Sto davvero bene con questa persona? Ho dei problemi mentali? Tutte domande legittime, che spesso non si fanno mai parola, e restano a vegetare e marcire nelle nostre teste. Bé, gli Hotelier non fanno niente di complesso: le buttano fuori e basta.

Parlo con Holden su Skype, un pomeriggio di gennaio. Donald Trump è da poco diventato presidente degli Stati Uniti e, per una persona che di lavoro fa il musicista e vive in una comune anarco-punk predicando i meriti dell'unschooling, la cosa non è affatto una buona notizia. Holden è una persona tranquilla, disponibile—ma d'altro canto sarebbe stato strano se non avesse confermato nella realtà di essere come il narratore dei suoi testi. È da qua che cominciamo a parlare. 

Fotografia di Kylie Schaffer.

Noisey: Stavo leggendo l'intervista che avete rilasciato a Stereogum assieme allo stream di Goodness, e sono rimasto piuttosto colpito dalla parte in cui parli dell'unschooling—quella filosofia per cui al centro dell'educazione dovrebbero esserci le scelte del singolo studente e non una struttura ordinata, dall'alto al basso. Come ti sei avvicinato a questi concetti?
Christian Holden: Sono venuto a sapere dell'unschooling mentre ero ancora alle superiori, e non stavo necessariamente apprezzando la cosa. Quindi una buona parte del mio interesse può essere legato a questo disagio, ma ripensandoci oggi credo di essermi preso bene perché è un modo per applicare un certo modo di vivere anarchico alla realtà—e soprattutto per presentarlo ai ragazzi il prima possibile. E funziona, fa quello che dovrebbe e vorrebbe fare: introdurre i ragazzi a un mondo non necessariamente legato all'autorità e alle gerarchie, ma più ai loro desideri, all'interazione e alla collaborazione. 

Queste idee hanno toccato anche il modo in cui scrivi per gli Hotelier? Perché quello che percepisco, quando canti, è un forte senso di comunanza—vedi "An Introduction to the Album"—e credo che si possa fare un parallelismo con la filosofia dietro all'unschooling.
Il desiderio che ho di vedere un mondo in cui i ragazzi possano seguire i loro sogni a livello educativo viene dallo stesso punto che mi permette di buttare fuori emozioni crude facendolo sembrare naturale, credo. È tutto molto collegato, e anche se non ci penso spesso è interessante capire come i collegamenti tra i miei neuroni possano significare qualcosa per gli altri.

Goodness è una reazione ai cazzi personali che avete avuto mentre scrivevate Home, Like Noplace Is There
Alla fine percepisco Home come un disco piuttosto speranzoso di per sé, sai? Goodness è più una continuazione delle risposte che avevo dato in Home. Hanno un messaggio simile, entrambi parlano di crescita, in un certo senso. Di un passaggio tra stati.

Ci sono tre brani, sull'album, i cui titoli sono coordinate. 
Le prime portano al luogo di cui parlo nella poesia che è il testo del pezzo stesso. Le seconde e la terze, invece, sono posti in cui mi sono fermato a guardare la luna mentre stavo scrivendo: il primo è il posto dove abbiamo registrato quel dialogo e quei suoni, al campeggio per unschoolers in Vermont dove lavoro; il secondo è un posto a tre chilometri da casa dei miei dove andavo spesso da ragazzo, questa parete rocciosa da cui sgorga un ruscello che è davvero una figata.

Nonostante i vostri pezzi siano pieni di riferimenti a luoghi e persone ben definiti, sono riusciti a toccare nel profondo un sacco di persone. Trasmettono sentimenti tutto tranne che generici, ma al contempo sembrano universali. È una cosa a cui pensi mai? 
Sì, ci penso molto. È una vita che ascolto musica pop, ed è grazie al pop se ho iniziato a scrivere canzoni. Ma chiunque scriva canzoni pop probabilmente si scontra con la genericità delle sue parole. È difficile trasmettere emozioni complesse, e al contrario è troppo semplice scrivere cose stupide. La cosa che cerco di fare è trovare un modo in cui prendere questo genere, questo modo di scrivere canzoni, e renderlo capace di toccare la gente in modi diversi dal solito. E adesso, arrivato al terzo album, il fatto che i pezzi che ho scritto—fatti di così tante parole, e così difficili da memorizzare e cantare—hanno permesso ai nostri fan di relazionarsi alla nostra musica in modo molto profondo mi lascia un po' così. In positivo!

Che cosa pensi dell'opinione per cui il punk potrebbe avere una nuova infusione di energia dalla presidenza di Trump? E in che modo Trump influisce su voi Hotelier?
Credo non importi, in realtà. Possiamo dire con certezza che l'ascesa di Trump e delle conseguenti tendenze fascistoidi che si porta a dietro non faranno bene al punk, ad esempio nella volontà di questo establishment di chiudere gli spazi DIY che, in primo luogo, permettono al punk di esistere. Almeno, negli Stati Uniti. Inoltre, qualsiasi taglio verrà fatto a livello sanitario sarà pesantemente destabilizzante per chiunque, figuriamoci per chi ha scelto come lavoro di suonare in un gruppo e andare in tour. Ma in fondo, davvero, pensiamo ad andare nel futuro—otto, dieci, vent'anni—e che cosa diremo? "Wow, sono usciti un sacco di bei dischi in questi anni!" Non importa niente. Il punk non è così potente, non sarà un risvolto positivo di ciò che sta succedendo negli Stati Uniti. Non so bene come Trump influenzerà noi Hotelier, ma sicuramente—escludendo It Never Goes Out—siamo sempre stati un gruppo con un'aura politica, ma non siamo mai stati particolarmente espliciti. Ora, invece, sento un deciso bisogno di dare evidenza a quello in cui credo, dato che il nostro avversario ora è definito, e meno trasparente, subdolo di prima. 

Fotografia di Kylie Schaffer.

Ti va di spiegarmi un attimo la storia che racconti in "Piano Player"? Perché è un pezzo piuttosto complesso, e la scena che dipingi nel pezzo è molto evocativa.
Non c'è un vero protagonista, in "Piano Player". O insomma, potrebbe essercene uno, il narratore. L'idea del pezzo è quella di dare due esempi di persone che a volte consideriamo come esempi di saggezza. Una bambina, ad esempio: il mondo è qualcosa di nuovo, per lei, e allora riesce a esprimersi con onestà e sincerità usando pochissime parole. Oppure una donna anziana, che guadagna saggezza dalla quantità di esperienze che ha vissuto. E nel testo entrambi interagiscono con l'idea di eternità. Il narratore si trova di fronte questa ragazzina che coglie fiori e li mette in un barattolo, pienamente cosciente del fatto che moriranno nel giro di un giorno anche tenendoli nell'acqua; ma a lei non importa, "Mi piacciono queste cose, e voglio portarmele in casa, mettermele attorno." E si crea questa contrapposizione tra narratore per cui l'eternità non esiste, e la bambina che non si pone il problema. 

E poi c'è la signora che suona il pianoforte, e si relazione all'idea di eternità in modo diverso: per la sua età, principalmente, ma anche in modo retrospettivo, ripensando alla sua vita e ai suoi amori attraverso il piano. Insomma, la domanda è: le cose durano per sempre? E sono fatte per durare per sempre?

E tu che cosa credi, a riguardo? 
Non credo debbano durare per sempre. Riesco a proiettarmi nel futuro ma tendo a non lasciare che quello che penso colpisca il mio presente. Un po' come la bambina con i fiori. 

Gli Hotelier saranno in Italia tra poco, sabato 4 febbraio al Colorificio Kroen di Verona e domenica 5 al Circolo Biko di Milano, entrambe le date assieme a quegli eroi dei Crying. Andateci, per favore.

Elia è su Twitter: @elia_alovisi
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Alla fine del mondo con Nikki Sixx

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È una bellissima giornata di primavera a Los Angeles e io mi trovo in un'auto che ne divora le strade insieme a Nikki Sixx e, davvero, c'è solo un argomento di cui voglio parlare con questa leggendaria rockstar: la morte.

Membro fondatore della band hair metal anni Ottanta per eccellenza, i Mötley Crüe, Sixx è famoso per tre cose: il sesso, la droga e la morte. La sua vita è stata raccontata fin troppo; il periodo Mötley Crüe in The Dirt, la biografia della band scritta da Sixx, Mick Mars, Tommy Lee, Vince Neil e altri che stavano loro vicini, e poi nella sua autobiografia The Heroin Diaries, incentrata su, indovina, il suo rapporto con l'eroina. Non importa che siate fan o meno, perché alla fine ti ritrovi davanti al tizio che, insieme ad altri tre adolescenti da riformatorio apparentemente senza alcun futuro, ha lanciato l'heavy metal verso un'orbita completamente nuova. 

Poche ore prima, mi trovavo ad attendere davanti alla porta del primo piano di uno studio di registrazione a downtown Los Angeles. Erano circa le dieci del mattino, il che significa che ero in piedi dalle cinque in preda all'ansia. Aspettando sul patio, fumo una sigaretta e chiacchiero con il fotografo. Fumo un'altra sigaretta. Finalmente, dopo quello che sembrerebbe un tempo appositamente concepito per farmi stressare il più possibile, veniamo fatti entrare. 

I quartieri di Sixx Sense, la trasmissione di Nikki Sixx su iHeartRadio, sono da azienda, sterili; danno la stessa sensazione di una biblioteca universitaria appena aperta, disegnata per essere piacevole esteticamente e nulla più. Mentre camminiamo verso il retro dell'edificio passiamo davanti a vari studi in cui si stanno registrando programmi, con i cartelli "On Air" illuminati. Incontro lo sguardo degli speaker attraverso le vetrate, il che mi riporta alla mente la mia ansia. 

Nello stesso modo in cui Alice Cooper e KISS hanno aperto la strada per i costumi, gli oggetti di scena e i power chord, i Mötley Crüe hanno spazzato via ogni dubbio sul fatto che le band hair metal potessero avere un'influenza importante sulla musica moderna: non serve guardare più in là degli artisti inclusi nella compilation Nashville Outlaws: A Tribute to Mötley Crüe per avere una prova di quanto una band hair metal possa ispirare una generazione di musicisti di generi che possono tranquillamente essere considerati l'opposto del loro. 

"Cerchi me?" chiede, aprendo la porta dello studio vuoto in cui lo sto attendendo. Ha ancora i suoi classici capelli cotonati, tinti di nero; la stessa capigliatura che portava quando si è trasferito a LA, diciassettenne. Ha più tatuaggi di quanti credessi e porta gli occhiali da sole anche al chiuso.

Di questi tempi, Nikki Sixx fa ascoltare al mondo i suoi gruppi preferiti nel suo programma, in omaggio a Sharon e Ozzy Osbourne, che scommisero sui Mötley nei primi anni Ottanta portandoli in tour. La sera (e probabilmente anche di giorno, considerato che il musicista cinquantottenne si è dato una bella calmata rispetto alla sua gioventù) va in tour e compone dischi con i Sixx A.M., un trio composto da lui, DJ Ashba (conosciuto per aver suonato la chitarra nei Guns N' Roses dal 2009 al 2015) e James Michael, un produttore che ha lavorato con praticamente tutti, da Hillary Duff a Trapt. Ashba ha aiutato Sixx a costruire il suo studio, Funny Farms (in attività dal 2006 al 2013) e Michael ha collaborato con Sixx su alcune canzoni dei Mötley Crüe, il che spiega perché i Sixx A.M. suonano compatti, energici e spesso spaccano. La band mescola arrangiamenti di archi da musica classica con riff hard rock per creare una specie di rock orchestrale che ha uno stile naturale, seppur un po' datato. 

Il loro scopo iniziale era di scrivere una "colonna sonora" per l'autobiografia di Sixx The Heroin Diaries, incentrata sui suoi anni passati nell'inferno della dipendenza da eroina e altre droghe. Una volta che il pubblico si è fatto le orecchie sulla title track dell'album, "Life is Beautiful", i DJ radiofonici hanno cominciato a chiedere un nome per questa band per dirlo ai propri ascoltatori, così hanno deciso per Sixx AM.

Sixx mi racconta che questo progetto è il primo in cui si è trovato a confrontare i propri testi con altre persone, e a collaborare veramente con altri musicisti. "Ho imparato moltissimo sulla scrittura dei testi da James", dice Sixx, "perché sono rimasto da solo a lungo, a scrivere tutti quei testi da solo per i Mötley Crüe. Vince [Neil] diceva sempre 'Cazzo, amico, è impossibile cantare tutte quelle parole nella metrica del pezzo', ma è quello il motivo per cui la voce di Vince era così figa, perché li scrivevo come poesie e non per la melodia. E quindi con James sono felice di avere un partner nella scrittura, è pazzesco". Sixx ci tiene molto a precisare che la band non esisterebbe senza Michael e Ashba, e che lui è semplicemente il tipo che li ha aiutati a salire su un palco. 

Il quarto album della band, Prayers for the Damned, affronta materiale oscuro—morte, tossicodipendenza, fallimento e nichilismo. È un album gospel per gente che non crede in Dio e registrarlo, per Sixx, è stata un'esperienza edificante. Prayers for the Damned, come tutte le uscite dei Sixx A.M., è incentrato sulle difficoltà e le lotte della vita nella classe lavoratrice. Prayers for the Blessed, il loro quinto album, uscito solo pochi mesi dopo Damned, contiene invece canzoni su gente che non hanno molto ma si considerano immensamente ricche o, per usare le parole di Sixx, "la gente che ha bisogno di più preghiere". 

È facile buttare la band nello stesso calderone dei Nickelback, o l'attuale formazione dei Guns N' Roses, o Slipknot o System of a Down—insomma, i gruppi rock da radio generalista. È anche facile dare per scontato che la semplicità dei testi significhi che le emozioni provocate e incoraggiate dalla musica siano meno importante, come se essere bravi ed essere comprensibili fossero due cose che si escludono a vicenda.

Tutti conoscono la storia dell'overdose di Nikki Sixx e della sua morte. In un'occasione, durante un tour in Giappone, quello che credevano essere il suo cadavere è stato abbandonato in un cassonetto dietro casa del suo spacciatore, dopo un'overdose di eroina. La volta dopo è stato dichiarato morto e resuscitato da un infermiere che casualmente era anche un suo grande fan. La sua battaglia contro la depressione e le droghe non è certo una novità nel mondo della musica, ma lui è uno dei pochissimi artisti a essere morto, ritornato in vita e in piedi la mattina dopo. 

"Qual è il tuo rapporto con la morte ora che sei padre, pensando ai tuoi figli?" gli chiedo.

"Voglio una bella tomba nel cimitero di Hollywood. Volevo prendermi una lapide coi controcazzi che dicesse 'Nikki Sixx, 1958 - ???' e visitarla ogni anno con la mia famiglia e farci una bella foto, così al momento della mia morte, quando sarebbero venuti a visitare la mia tomba avrebbero detto 'Vi ricordate quando venivamo qua ogni anno con Nikki a far festa?' Un paio di persone mi hanno detto 'Guarda che ti facciamo internare se fai una cosa del genere'. Ma in generale, la mia convinzione è che ho passato una vita veramente dura, cazzo. È stata anche una bella vita, e voglio solo vivere nel presente. Sai come si dice, tutto passa. Quando sei in vetta, lascia che te lo dica, tutto passa. E quando sei sottoterra, pieno di vermi, anche quello passerà, capito?"

A un certo punto chiedo a Nikki Sixx cosa farebbe se potesse rivivere la sua vita da capo. "Il mio obiettivo finale è fare l'artista di strada senza casa", risponde con sarcasmo uscendo dall'auto. Prima che faccia in tempo a chiedergli che cosa intende, viene portato via, e scompare. 

Adam Menzies ha disegnato l'illustrazione.

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La guida di Noisey al rap francese

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Il rap è arrivato in Francia più di trent'anni fa. Inizialmente, era considerato solo una moda pacchiana per ragazzini—il primo programma televisivo mai trasmesso in Francia, H.I.P.H.O.P., era basato quasi solo sulla breakdance ed era pensato per essere visto principalmente da adolescenti. Insomma, le prime interviste che i Public Enemy, Eric B e Rakim concessero in Francia furono organizzate da un programma per ragazzi. Oggi, il genere è cresciuto immensamente e l'opinione generale è che sia qua per restare. Man mano che si è sviluppato e ha raggiunto un pubblico sempre più ampio, il rap francese si è fatto sempre più vario a livello sonoro. Abbiamo quindi chiesto a Yérim Sar, un nostro collega di Noisey Francia, di farci una panoramica sulla scena ad inizio 2017.

Diversità

Ci sono voluti anni, ma sembra proprio che lo scontro tra "vero rap" e "rap commerciale" sia finalmente finito, in Francia. Ci sono album usciti qualche anno fa che dopo essere inizialmente stati considerati patetici tentativi di svoltarla entrando nel mainstream, sono oggi percepiti come veri classici. Un esempio è Première Consultation di Doc Gyneco, uscito nel 1996: un album fantastico che, dopo essersi attirato l'odio di tutta la scena appena uscito, tutti hanno imparato ad apprezzare semplicemente perché è una bomba (un criterio piuttosto importante nel selezionare, da ascoltatore, che cosa mettere nelle proprie orecchie). Chi ascolta rap in Francia oggi è più pragmatico e si lascia andare meno a ovvietà: "successo" e "popolarità" non sono più parolacce. Il che ha permesso ai rapper di abbandonare qualsiasi inibizione e provare soluzioni nuove, con risultati sia buoni che cattivi.

Il video di "Nirvana" di Doc Gyneco. 

Ed è questo il motivo per cui il rap francese, oggi, è estremamente vario (nonostante l'opinione contraria della frangia più nostalgica della scena)—forse più di quanto lo sia mai stato. Alcuni stili vanno per la maggiore, ma non bisogna scavare troppo a fondo per trovare gemme potenzialmente apprezzabili ugualmente dai megafan come da chi non ascolta solitamente rap, da chi cerca potenza di fuoco e skill al microfono come da chi vuole semplicemente divertirsi. L'esistenza di persone come AlKpote, VALD o Oreslan, solo per dirne alcuni, sarebbe stata problematica qualche anno fa. Ma nel 2017 i poster che annunciano i loro nuovi album e mixtape sono su tutti i muri di Parigi, e tutti si beccano amore e rispetto sia dall'underground che, diciamolo, dai ragazzini delle medie.

Il video di "Meilleur Lendemain" di AlKpote e VALD.

Street Rap

In francia non si usa molto il termine "gangsta rap", dato che solitamente viene visto come qualcosa di tipicamente (se non solamente) americano. Ma abbiamo il nostro equivalente, il rap de rue, o street rap, che è praticamente la stessa cosa. Se fai rap de rue parli, in nessun ordine particolare, di: risse, spaccio, come sopravvivere in un ambiente ostile, droghe, qualsiasi cosa sia definibile "hardcore". Va però detto che il solito canovaccio del tizio tutto incazzato che fa il duro è ormai percepito come vecchio, e anche gli street rapper più pazzi ormai hanno iniziato a prendersi meno sul serio quando rilasciano interviste e se ne escono con punchline super-ironiche nei loro pezzi.

I video di "#Jesuispasséchezso" di Sofiane.

Conscious rap

Il conscious rap ha ancora una certa importanza nella scena rap francese, anche se non è il genere che vende di più oggi come oggi. La società attuale, però, regala al genere una varietà lirica mai vista prima: c'è da parlare di islam e razzismo, terrorismo, paranoie, ingiustizie, disuguaglianza sociale... Insomma, gli ultimi due anni sono stati particolarmente duri per la Francia, e il conscious rap ha avuto terreno fertile per fiorire. La morte di Adama Traoré il 19 luglio 2016, un ragazzo presumibilmente ucciso dalla polizia senza alcun motivo particolare durante un controllo, è stata motivo di grandi dimostrazioni, tra cui un concerto organizzato da due tra i principali conscious rapper francesi: Kery James e Médine. Per l'occasione, a loro si sono uniti diversi artisti generalmente considerati più vicini allo street rap (gente come Sofiane, Mac Tyer e Dosseh). 

Gli artisti più importanti del genere sono probabilmente i La Rumeur, che non pubblicano niente da anni ma continuano a suonare dal vivo con regolarità—due dei membri del gruppo hanno però girato e pubblicato un film l'anno scorso, e hanno finalmente annunciato di essere al lavoro su un nuovo album. Una curiosità: i La Rumeur hanno vinto una causa contro Nicolas Sarkozy, ex presidente francese, durata otto anni—la band era stata accusata di diffamazione e calunnia nei confronti della polizia francese.

Il video di "Musique Nègre" di Kery James feat. Lino & Youssoupha.

Rap-varietà

Uno dei sottogeneri essenziali del rap francese è il "rap-varietà", o "pop rap". Come il nome suggerisce, è musica a cui siamo tutti inevitabilmente sottoposti dato che è lo stile che ha avuto, e ha, più successo tra la popolazione. Che si tratti di Maître Gims, Soprano o Black M, tutti hanno una formula costruita su misura per un pubblico mainstream, una macchina pop apprezzata in particolare dai bambini e dagli anziani. Quando si parla di produzioni, qua, siamo più vicini a territori alla Lady Gaga o Rihanna che a qualsiasi cosa anche remotamente legata all'hip-hop. Il pubblico più underground e hardcore non fa altro che disprezzare artisti come questi—ma recentemente le cose hanno iniziato a cambiare, in parte perché i rapper-varietà sono sempre felici di lasciare spazio agli "street rapper" per un featuring nei loro pezzi (premettendo allo street rapper di turno, in cambio, di raggiungere un pubblico più ampio). Ad aiutare il processo c'è anche il fatto che i rapper-varietà non sono usciti dal nulla, nonostante siano estremamente famosi: tutti si sono fatti le ossa come membri di gruppi rap più tradizionali (Soprano era un membro dei Psy4 de la Rime, Gims e Black M dei Sexion d'Assaut). 

 Il video di "Tout donner" di Maître Gims.

Dall'altra parte dello spettro c'è tutta una gamma di rapper tradizionali che, nonostante non vendano tantissimi album, contano ancora qualcosa quando si tratta di dimensione live. Parlo di gruppi fondamentali come i La Scred Connexion, di un'intera generazione che va da Kohndo a Nakk Mendosa, o ad altri come i Les Sages Poetes de la Rue—tutti nomi ancora ben conosciuti oggi. Stranamente, i loro fan non bazzicano molto i negozi di dischi ma sono ben felici di andare a vederli dal vivo.

Altri artisti, come Casey o Virus, riescono tranquillamente ad andare in tour senza alcun progetto musicale da proporre: i loro fan rispondono sempre, quando sentono di essere chiamati in causa.

Trap francese

Ogni volta che i francesi abbracciano un trend nato dall'altra parte dell'Atlantico, raramente tutto va liscio—ed è esattamente quello che è successo con la trap in Francia. Solo pochi artisti ben selezionati sono riusciti ad adattarla al loro stile, mentre molti si sono accontentati di copie generiche e impersonali. Grazie a dio, alla fine, è arrivato Kaaris. 

Come era facile predire, la trap francese ha perso presto la sua ragione d'essere, e molti artisti la considerano solo una moda che presto finirà. I suoi giorni sembrano contati e molta gente ha semplicemente abbandonato lo stile senza pentirsene particolarmente. Ma ci sono altri che sembrano decisi a reinventarla: non dobbiamo dimenticare i giovani trappeur che vogliono solo provare a dimostrare il loro valore anche se tutti gli ripetono che ormai hanno perso il treno, assomigliando ad allenatori di Pokémon Go che continuano a vagare per strada anche se tutti hanno smesso di giocarci tre mesi fa. Un risultato c'è però stato, a livello di evoluzione: l'ultimo fenomeno è la cosiddetta "afro-trap", resa popolare da MHD. Il principio è piuttosto semplice: prima, MHD registra i suoi versi e un ritornello usando una base tradizionalmente trap. Poi, la sostituisce con una base afro-beat e ta-dan! Finito il lavoro. Come era prevedibile, diversi rapper hanno aderito al movimento lanciato da MHD, oggettivamente l'esordiente di maggior successo nella Francia di oggi.

Il video di "AFRO TRAP Part.7 (La Puissance)" di MHD.

Bravi ragazzi & stramboni

Il costante allargamento del pubblico rap ha permesso inoltre a diversi rapper di concentrarsi sulla musica che adorano piuttosto che sulla sacra street cred. Il risultato più evidente del fenomeno è il successo di Nekfeu. A nessuno, o quasi a nessuno, frega un cazzo della legittimità di ciò che ascolta, e meglio così. Perché Nekfeu, e tutta la sua crew L'Entourage, non è altro che un ragazzo normale che adora il rap, ed è facile rendersene conto ascoltandolo. Un altro risvolto positivo della cosa è che tutti gli artisti che condividono questo approccio sono ben felici di collaborare gli uni con gli altri. 

L'audio di "Donne-moi ta main" di Gradur feat. Nekfeu.

Scendendo un po' di più nei meandri della scena troviamo anche un po' di stramboni, che sono venuti fuori dal nulla e sono riusciti a sorprendere (quasi) chiunque. 

È difficile categorizzare Jul, che viene da Marsiglia. Principalmente perché le sue influenze sono in costante evoluzione, e il risultato è un bordello incredibile ma, al contempo, decisamente riconoscibile. Anche se non fa altro che coprirsi la voce con l'auto-tune, Jul è paradossalmente il rapper più francese che abbiamo in Francia—abbraccia l'eredità musicale del suo paese (successoni degli anni Ottanta che nessuno ammette di aver ascoltato un casino, per esempio), e la unisce con tutto ciò che puoi trovare per le strade: musica raï algerina, reggaeton, rap e R&B americano. Curiosità: l'ultima volta che Young Thug ha rilasciato un'intervista a Parigi ha detto che Jul "gli assomiglia", e che "potrei fare anch'io quello che fa lui." Il che è estremamente lusinghiero, ma ricordiamoci che Young Thug è un tizio che non si prende nemmeno la briga di presentarsi alle riprese dei suoi stessi video. Il che ci permette di guardare la cosa da un'altra prospettiva.

Quando si tratta di scrivere canzoni, Jul riesce a risaltare dato che continua a essere decisamente umile nonostante venda vagonate di dischi. Le sue cose sono al contempo prese bene e malinconiche, e il suo segreto è il modo in cui unisce le due cose. L'anno scorso ha pubblicato almeno cinque album e non si fa problemi a registrare mixtape e progetti gratuiti per soddisfare i suoi fan. Inoltre, tiene con loro un rapporto molto stretto sui social (ed è uno dei pochi artisti che parlano direttamente con i suoi fan).

Il video di "On M'appelle L'ovni" di Jul.

I PNL hanno contribuito a rendere popolare questo rappare ibrido, ma la loro formula è così unica che anche i loro amici d'infanzia non riescono ad assomigliargli veramente quando provano a riprenderla. Ademo e N.O.S. sono riusciti ad essere estremamente produttivi e a imporre velocemente il loro stile: una scrittura apparentemente semplice e in realtà elaborata, un po' di viaggioni egoisti e una serie infinita di racconti su quanto siano tristi le giornate di uno spacciatore senza alcuna prospettiva di un futuro migliore. Inoltre, continuano ad avere un'aura di mistero scegliendo di non rilasciare interviste e far parlare la musica. La sinergia tra le loro voci (auto-tunate) ha giocato un ruolo importante nel loro successo; hanno già messo il loro ingegnere del suono sotto le luci dei riflettori, una cosa che accade molto raramente nella scena francese. Inoltre, già molti si sono accorti di loro fuori dai confini francesi; sono già apparsi su una copertina di The FADER e suoneranno al Coachella di quest'anno.

Un altro esordiente che ha avuto un successo inaspettato è stato SCH: nonostante abbia uno stile decisamente eccentrico e abusi dell'auto-tune, il pubblico ha fatto il tifo per lui dal primo momento in cui il suo nome ha iniziato a girre.

Quando si parla di pubblicare album, i grandi vecchi della scorsa genrazione sono meno costanti delle loro controparti giovani e ipereccitate, capaci di pubblicare mediamente almeno due progetti all'anno, ma continuano a resistere. 

IAM sta registrando un nuovo album, il nuovo progetto di NTM avrà dentro campionamenti registrati nelle corsie di un supermercato, Rockin'Squat degli Assassin è ancora attivo... e grazie al potere della nostalgia, i pionieri del genere stanno facendo grandi numeri dal vivo collaborando per una serie di concerti dal nome "L'era d'oro dell'hip-hop".

Un concerto intero della serie L'Âge d'Or du rap français, girato a Parigi.

Quanto durerà ancora la vecchia generazione? Booba è ancora una stella, ma ha sempre detto che arrivato a una certa età smetterà di rappare; Rohff ha confermato che il suo prossimo album sarà senza dubbio il suo ultimo; e Oxmo Puccino ha scelto un sentiero diverso un sacco di tempo fa, preferendo uno stile più liscio e jazzato con una live band sul palco. C'è anche Lino, idolo delle punchline degli Ärsenik, che sputa barre come il primo giorno—e non potremmo essergli più grati. Sta anche lavorando a un nuovo album, e continua ad andare spesso in tour. Ma quando si tratta di vendite, la vecchia guardia è stata sorpassata definitivamente dalle nuove leve.

I confini dell'impero

Negli anni Novanta, il rap francese veniva tutto da Parigi o da Marsiglia—se eri un rapper e vivevi da qualsiasi altra parte, le tue robe non sarebbero mai arrivate a nessuno. Fortunatamente, le cose sono cambiate. Internet ha abolito i limiti geografici. Gradur, per esempio, viene da un'area quasi inesistente nella mappa del rap francese: il nord del paese. E ha avuto un successo clamoroso, confermando che alla gente non frega più niente della tua città. In realtà, il rap francese a volte viene da altri paesi, come il Belgio. C'è una grande tradizione di appropriazione della loror cultura, in Francia: ogni cosa belga che spacca il culo—che si tratti di fumetti, libri o pornostar—diventa immediatamente francese. La stessa cosa vale per il rap e per Damso, un rapper belga scoperto da Booba, e per Hamza, un MC nato per scrivere pezzi da strip club e ha scelto di recitare la parte del trafficante.

Il video di "La sauce" di Hamza.

Una nuova strategia economica

Le vendite sono diminuite per chiunque faccia musica, e quindi anche per chi fa rap; ma i rapper si sono adattati al sistema meglio di molti altri. Mentre diversi artisti continuano a seguire lo schema tradizionale di promozione dei loro album, molti hanno adottato approcci radicali. Il merchandising e i concerti sono ormai molto più importanti degli album venduti e delle rotazioni delle radio. Molti rapper hanno dei propri brand, e tutti fanno anche apparizioni in discoteca. Anche se ci è voluto un sacco di tempo, i club mettono spesso rap e sono ben felici di pagare i rapper per esibirsi dal vivo. Il che spiega perché certi MC che non vendono una sega riescono a vivere tranquillamente grazie alla loro musica e fanno impazzire migliaia di persone in settimana in settimana con i loro concerti.

Nel 1996, Booba disse che Parigi era "come gli Stati Uniti dieci anni fa". Ora non è più così: abbiamo raggiunto un altro livello e abbiamo ridotto il gap tra noi e loro, quindi ora siamo più o meno messi come gli Stati Uniti... nove anni fa. E forse può essere solo un dettaglio per gli americani, ma per noi francesi è davvero tanto. 

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Guarda il nuovo video di The Delay In The Universal Loop

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Di solito quando vedo un video con la telecamera che segue un tizio su uno skateboard mi sale il gringe a 9000 dopo i primi 5 secondi e la pianto lì dopo 10. Per fortuna questa volta invece di un tizio sullo skateboard c'è una specie di delfino incazzato che è il protagonista del nuovo video di "Planetary Dance" con Laura Loriga.

La verità è che a scrivere i testi che accompagnano le anteprime video ci si sente sempre un po' come degli agenti immobiliari: tutti belli impettiti a raccontare cose che, se ancora avete abbastanza neuroni per percepire e interpretare la realtà circostante, avete già visto e compreso. In questo caso l'agente immobiliare si trova a raccontare la casa costruita per il nuovo singolo di Dylan Iuliano, in arte The Delay In The Universal Loop, il cui moniker in alcune circostanze è stato terreno di scontro, ma la cui musica è un'oasi di pace (tipo, scusate; vi prego di apprezzare la zona living, mentre schiacciate mi piace sulla sua pagina Facebook).

Il video di Dylan è un po' in ritardo, rispetto al disco Split Consciousness, che invece era in orario e che vi abbiamo raccontato un po' di tempo fa dicendo che "Non c'è bisogno di descrivere la musica di Dylan se non come una versione 2015 di  2001 Odissea Nello Spazio in cui il protagonista, anziché essere un riflessivo astronauta che scala con fatica lo spazio-tempo, è un giovane, uno della "Eternal Youth of the 7th Universe" che si diverte a saltare da una Supernova a una Nana Rossa." 

Ovviamente questo anno (e poco più) di attesa sono nulla in confronto alla vita media di una Nana Rossa, per cui il ritardo è completamente perdonabile.

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Se non hai ancora ascoltato il disco di The Delay In The Universal Loop e sei molto pigro per cliccare altrove, puoi farlo qui sotto:


Terraforma ha annunciato i primi nomi dell'edizione 2017

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A noi di Noisey piace molto il Terraforma, già solo per il fatto che si auto-definisce "un festival di musica dedicato alla sperimentazione artistica e alla sostenibilità ambientale". Siamo quindi molto felici di poter condividere con voi i primi nomi della nuova edizione del festival, che si terrà sempre nel bosco di Villa Arconati a Bollate, in provincia di Milano, dal 23 al 25 giugno 2017. 

La prima bomba si chiama Andrew Weatherall, nome storico dell'elettronica tutta, seguito a breve giro dalla pioniera della sintesi modulare Suzanne Ciani. Ci sono poi Laraaji, maestro dell'ambient, e Arpanet, progetto di Gerald Donald (Drexciya, Dopplereffekt). Arriveranno a breve ulteriori nomi.


L'artwork ufficiale del festival si intitolerà Carte Mutaforma e sarà a cura di Francesco Cavaliere, che si è esibito durante la scorsa edizione del festival. Martedì 14 febbraio, al Gluck50 di Milano, si terrà la presentazione delle grafiche assieme a un'esibizione dal vivo di Cavaliere e Invernomuto. "Ho provato ad estrarre alcuni dettagli da far reagire con l'insieme", ha scritto Cavaliere in un comunicato stampa," come il baffo sinistro di un paguro, l'aura di un anello aromatico, i calchi ridisegnati di falde e cavità terrestri. Sono come delle librerie sonore plastiche in continuo mutamento".  

I biglietti per il festival sono già in vendita su Mailticket: costano 80 euro per i tre giorni di festival e includono il campeggio. 

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Leggi i nostri contenuti legati alle precedenti edizioni di Terraforma.

Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

BRUNORI SAS
A Casa Tutto Bene
(Picicca)

Con questo mio scritto voglio comunicare al Dottor Dario Brunori che non ho nessun sogno frustrato dai tentacoli della Città Metropolitana. Non me ne frega un cazzo quando, fermo a un semaforo rosso, vedo le montagne in fondo a Viale Zara, in quelle giornate particolarmente ventose in cui il giogo della città e le polveri sottili si fanno meno soffocanti. Al tempo stesso voglio comunicargli che ci vedo nessuna poesia nelle foglie che cadono d'autunno o nella neve d'inverno sulle guglie del Duomo. Se vedo un arabo pregare in una via del centro non mi commuovo per il miracolo dei contrasti tra la città-capitale-della-moda-capitalista e la semplicità di inginocchiarsi in direzione della Mecca. Anzi, non solo non mi commuovo, ma non me ne frega un cazzo, niente di niente. Gentile Dottor Brunori Sas, è mio grande interesse che Lei sia perfettamente consapevole che quando incrocio lo sguardo malinconico di una ragazza in metropolitana non penso ad una bella poesia, ma agli avocado non ancora maturi che ho a casa e ai saldi di Steam. Non ho nessun desiderio di passeggiare in un bosco o altre stronzate che, immagino, per Lei siano estremamente importanti come andare allo stadio o mangiare tanto cibo durante le feste quando si va a casa dei lolparenti. Spero che la sua chitarra si autocombustioni e che il premier non-eletto e non-mortale Gentiloni effettui un prelievo forzoso dal suo conto corrente come misura estrema e necessaria per finanziare qualche opera pubblica del cazzo e in alcun modo poetica come, non so, i tornelli in uscita dalla metro a San Siro.
METASTASI ACUSTICA

SAM SKINNER
Danny Through Junior
(Soft Speak)

Sam Skinner è uno dei Pinegrove, nuove stelle post-emo folk dal New Jersey, e questo è il suo debutto solista. Si tratta di un disco-caminetto, sia nel senso che se uno non è un estimatore di questo tipo di roba avrà come reazione quella di volerlo buttare nel fuoco, sia perché è un disco tranquillo, lo-fi ma raffinato, adatto a farsi ascoltare nelle sere invernali. Un disco molto ben fatto, tra nuovo cantautorato americano, folk e qualche distorsione, per - come diceva genialmente un mio amico - "annoiarsi in modo molto elegante". Intendiamoci, lo zio non si inventa niente di nuovo, e se vi piace la roba pesa (con qualsiasi accezione vogliate prendere il termine) potete stargli bene alla larga, però nel suo genere è sicuramente qualcosa di ben fatto e che mostra un talento melodico che sicuramente farà parlare ancora di sé nei prossimi anni, sia da solo che nel progetto principale (e del resto non è neanche il primo di loro a uscirsene con roba solista, dopo il progetto Half Waif di Nandi Rose Plunkett).
IL PRESIDE DEI SIMPSON

BONOBO
Migration
Ninja Tune

Migration non è un album brutto, ragazzi, giuro. Mentre lo ascolto non mi scazzo e non mi annoio e no che non mi annoio. Perché è un album tutto tranquillino, con le arpe e i pianoforti, le note tutte lunghe che inalano a pieni polmoni manco fossero in cima al Monte Velino e le vocine chete di quelle che vorreste idealmente sentire sul vostro letto di morte come ultima testimonianza della bellezza del mondo mentre il tetro mietitore vi prende e vi porta via con sé verso un terrificante oblio senza fine. E allora perché c'è una faccina che sbocca qua sopra? Perché ragazzi, Bonobo fa musica piacevole ma di cui non c'è una sega da dire se non, "Hey, è piacevole!" Vi leggereste volentieri un longform su Bonobo e sul suo nuovo album? Se la risposta è "sì" probabilmente i nostri gusti in fatto di letture non sono molto simili. Vogliamoci bene lo stesso, però.
BOMBOLO

DADAR
S/T EP
(Murung)

Dadar è Piff, punk trentino che abbiamo sentito in passato suonare la chitarra in gruppi come Crop Circles, Left In Ruins, Sang e Shitty Life, il che, non so se lo sapete, è un curriculum impressionante. Con questo progetto, in cui suona tutto da solo, abbandona i riff e la velocità spaccaossa in favore di tre pezzi punk rock poppeggianti, che sarebbero la perfetta colonna sonora di una festicciola in casa a base di pogo, danze sfrenate e orsetti gommosi alla vodka. Appena fatto play ho subito ripensato ai miei sedici anni passati a girare il paese in treno all'inseguimento dei Briefs, ma svecchiati da qualche trucchetto robopunk che dimostra il fatto che Piff si è tenuto aggiornato sulla odierna ondata di punk/wave americano (Coneheads, Liquids, Uranium Club). La cassetta, con bellissimo artwork a cura di Francesco Goats e Rites Of Screen, non contiene musica rivoluzionaria, ma è una bella boccata d'aria fresca in un'Italia che, quando si parla di punk rock, puzza decisamente di naftalina.
ITALIANI SU JIMMY

MOON DUO
Occult Architecture Vol. 1
(Sacred Bones)

Diciamo subito che i Moon Duo mi stanno un po' sulle balle. Sono derivativi a bestia, saccheggiano di qua e di là come se nulla fosse (Chrome, Neu, Hawkwind e chi più ne ha più ne metta), dal vivo mi mettono l'entusiasmo di un'orchestra che fa hullygully alle sagre di campagna. Nonostante ciò godono di una certa fama, essendo il pubblico sempre teso a cercare i nuovi Can o qualche nuovo clone da spacciare per novità assoluta. Bene, in questo disco però i nostri si staccano un po' dai classici canoni e si spingono addirittura in zone che potrebbero ricordare i Visitors o i Rockets, a volte con spruzzi di synth wave anni ottanta, tanto che sospetto si siano comprato tutta la discografia dei Classix Nouveaux. Tutto questo potrebbe darci una speranza di uno smiley, ma ahimè ecco che ci piazzano sempre il crauto di una-nota-una che ha veramente rotto il cazzo e le palle e tutto quello che ci sta attaccato attorno. Sarebbe ora si mangiassero anche solo una buona insalata mista.
SCORBUTO GIOVIALE

JAPANDROIDS
Near to the Wild Heart of Life
(Anti-)

Ora farò una lista di cose di cui quest'album è composto—cose che, se messe nelle mano di due canadesi giovani e sporchi, non sono pretenziose e non fanno vecchio. Pronti? Via. Le motociclette. I punti cardinali. Esprimere i propri sentimenti. Spaccare le bottiglie. Chiamare le proprie canzoni "True Love and a Free Life of Free Will". Usare le parole "dream", "sky", "love" e "heart" nella stessa strofa. Mettersi i giubbottini di pelle. Il Texas. Il Tennessee. Le allitterazioni. Il mezcal. Le sbronze e i doposbronza. Dire che si faranno certe cose fino alla fine dei propri giorni. I corettoni "oooh-ooh-ooh" in secondo piano. Le chitarre loopate che sembrano synth ma sono chitarre. Usare l'espressione "Fare la sborrata della vita con l'amore della tua vita" durante un crescendo. I crescendo. Il rock and roll. È tutto!
SUOR FRANCA

LOWLOW
Redenzione
(Sugar)

C'è stato un periodo della mia vita in cui ho ritenuto umanamente accettabile l'ascolto di Rancore, ma poi per fortuna ho compiuto quindici anni. Non voglio male a lowlow, mi sembra un tipo abbastanza a posto e, in un certo senso, penso che faccia del bene al mondo del rap italiano. Le sue metriche sono molto precise e i suoi testi estremamente didascalici e accessibili, entrambe qualità che permettono ai suoi ascoltatori di "farsi l'orecchio" e sviluppare tutti quegli strumenti necessari per approfondire il mondo del rap e goderne successivamente su livelli più complessi (per l'ironia o per i riferimenti che sottintendono). Non voglio davvero fargliene una colpa, ma nessuno che si fosse dimenticato a sufficienza del liceo e dell'adolescenza farebbe mai un pezzo rap su Paolo e Francesca (e questa è uno dei motivi per cui sono convinto che, col fine di preservarla, bisognerebbe negare l'accesso alla letteratura alta a tutti gli adolescenti). Dicevamo: il disco di lowlow è un buon disco rap che mi annoia da morire, dall'inizio alla fine, ma che comunque non riesce a farmi schifo o farmi salire la collera necessaria per scriverne una recensione negativa. Proprio come gli ignavi della Divina Commedia (dai, sul serio?).
FORMICHETTI ALIGHIERI

ALLISON CRUTCHFIELD
Tourist In This Town
(Merge)

Nel tentativo di fare il botto nel dorato mondo della musica a volte la gente si spinge fino a limiti imbarazzanti. L'esempio l'abbiamo qui nello stereo, con Allison Crutchfield che ha deciso di diventare un ibrido fra Cindy Lauper e Avril Lavigne. Il problema è che non canta come queste ultime due (anzi direi che non canta proprio, semmai emette suoni) e che fra testi privi di respiro fra una frase e l'altra e melodie vocali che servono più ad allungare il brodo che a dire qualcosa, la nostra eroina riesce a rovinare anche quel minimo di intuizioni che potrebbero fare la differenza (vedi "Secret lives and deaths", massacrata non appena apre bocca). Certo, a sua discolpa neanche il suo gruppo precedente, gli Swearin', erano un granché tutti presi com'erano a fare i piacioni con un power pop adolescenziale senza nerbo (che loro chiamavano pop punk, pensate un po'). Ma d'altronde ai gggiovani piace sta robaccia, quindi potrebbe diventare disco dell'anno magari anche su Noisey, chi lo sa. A me, se non si era capito, fa cagare.
TURISTA NON PER CASO

CIBO
Capolavoro
(INRI)

Uno dei più grandi fraintendimenti della musica italiana è quello per cui il rock demenziale sarebbe un vero e proprio genere, che uno può prendere e suonare come si suonano il funk o la samba. Non è così. Il rock demenziale non è un genere, è un movimento. E di questo fanno parte un numero definito di band. E queste band sono morte, tutte, sì, anche Elio e le Storie Tese, dai. Non solo è molto difficile far ridere in generale, ma far ridere suonando un misto tra math core, Queens of the Stone Age e Litfiba è un'impresa veramente impossibile. 
PIERROT LU NER'

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La colonna sonora di Skins racconta il disagio e la bellezza post-adolescenziale

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Colonne sonore bellissime è la serie di Noisey che parla di colonne sonore bellissime. Qua gli altri episodi.

Mi ricordo ancora la prima volta che ho visto il trailer di Skins. Avevo diciassette anni, un apparecchio in bocca e braccia maldestre che non sapevo mai dove e come mettere. Come ogni sera, stavo guardando la TV quando la soap opera generica che mi ero trovato di fronte staccò in pubblicità e la TV si lanciò all'improvviso in una fantasia strobo in slow-motion—ricordo di aver visto corpi mezzi nudi che si strusciavano, con addosso lingerie fluorescenti, e occhi palesemente fatti e persi nel vuoto che mi invitavano a unirmi a loro in quella che sembrava essere la festa definitiva, il tutto con "Standing in the Way of Control" dei Gossip come sottofondo. 

Non avevo mai visto niente di simile. Avevo guardato The OC e Una mamma per amica come tutti, certo. Il problema è che erano sì serie per ragazzi con ragazzi come protagonisti, ma questi erano adolescenti americani pieni di soldi che non avevano mai un capello fuori posto, solitamente interpretati da attori ventenni con strutture ossee impeccabili. Skins era tutto il contrario. I personaggi avevano i brufoli, guardaroba composti esclusivamente di vestiti di H&M e dicevano cose tipo "Ciao, capezzola." Era esagerato e forzato, certo, ma sotto al suo surrealismo c'erano delle trame genuine in cui la maggior parte dei ragazzi—inglesi e non inglesi—potevano rivedersi. Si parlava di verginità da perdere, di disordini alimentari, di divorzi, di compiti, in un modo che non appariva apertamente moralizzatore. In altre parole: era come le nostre vite, solo abbastanza interessante da essere trasmesso in TV.

Chi guardava Skins finiva, bene o male, ad applicare la sua colonna sonora alla sua vita. C'erano dentro classiconi di gente come Cat Stevens e i The Fall, che raggiungevano così nuove orecchie; al contempo, la serie era una piattaforma che artisti relativamente sconosciuti potevano usare per spiccare il volo. Come era successo a me, per molti il primo contatto con la musica di Skins arrivò con "Standing in the Way of Control"—una canzone che, in Inghilterra, sarebbe diventata un faro nelle notti caotiche delle serate per studenti di quegli anni. Beth Ditto aveva dichiarato che aveva scritto il testo di quel pezzo in risposta alle misure contro i matrimoni gay di George W Bush: con un testo come "Ostacoliamo il controllo / Sì, vivete le vostre vite / Solo come sapete farlo" diventò nel giro di poco un dito medio musicale generazionale capace di far sentire meno solo chiunque si stesse approcciando a quell'apocalisse personale che è il raggiungimento dell'età adulta. 

Quel pezzo permise inoltre ai Gossip di finire due volte sulla copertina di NME solo nel 2007. La prima, pubblicata appena prima del finale della prima stagione il marzo di quell'anno, aveva come titolo, "Sex, Skins and Standing in the Way of Control;" una dimostrazione di come la musica di Skins stava iniziando a filtrare nel mainstream e oltrepassare il suo pubblico adolescente. Già che ci siamo, prendiamoci un minuto per apprezzare questa loro performance della canzone al T in the Park l'estate del 2007 (giochino divertente: bevete ogni volta che vedete una kefia). 

Un'altra band che deve molto alla seria sono i Foals. Anche se non erano esattamente piccoli o sconosciuti in quegli anni, la loro apparizione in un mini-episodio speciale (che potete vedere qui sotto) gli diede quella spintarella necessaria a raggiungere un livello più alto di fama. La loro prima copertina di NME, arrivata nel 2008, arrivò in un numero dedicato ai nomi più promettenti della scena inglese, e la rivista ne parlò come un gruppo che avrebbe "definito quell'anno"; l'effetto-Skins era iniziato.

Grazie all'uso della musica di artisti nuovi ed emergenti, Skins è stato capace di definire un era in cui i gusti musicali dei ragazzi che guardavano il programma venivano rispecchiati dal prodotto stesso. Era una serie che non solo sapeva esattamente come prendere di mira il proprio pubblico, ma riusciva al contempo a rendere le sue scene cruciali più realistiche, e quindi più memorabili. Skins, ad esempio, è stato uno dei primi programmi mai usciti dal Regno Unito a includere la dubstep nella sua colonna sonora. Nessun altro programma prima di allora aveva mai usato pezzi come "0800 Dub", "Angry" e "Colourful" di Skream, inni della scena di Bristol dell'epoca. 

Poi ok, non che tutti gli studenti di Bristol si facessero tutti di ecstasy tutte le mattine, circondati da bei ragazzotti con addosso felpe colorate: ma un sacco di momenti della serie riuscivano a rappresentare fedelmente quello che stava succedendo a livello musicale in Regno Unito. A metà degli anni Duemila, a Bristol erano attivi Peverelist, Joker, e Pinch, artisti che all'epoca erano tra i più rispettati e influenti dell'elettronica britannica. Serate che chi viveva a Bristol ben conosceva—il Just Jack, il Crazylegs e il Subloaded—venivano imitate nelle feste e nelle discoteche delle scene di Skins; le stanza foderata di gente piene di laser, come quella che compare nel primo episodio della seconda stagione, erano ispirate a locali di Bristol come il Blue Mountain, il Motion o il Basement 45.

La colonna sonora era però anche usata in modi più complessi. Di stagione in stagione, per ogni personaggio veniva costruita una playlist personale coerente con le loro emozioni; "Your Heart Is So Loud" di Colleen sottolineava l'innocenza di Effy; "Untitled (Samskeyti)" dei Sigur Rós rappresentava una via di fuga onorica per Michelle; il testo di "Alice Practice" dei Crystal Castles ("Ciao / Presto le cicatrici guariranno / Fai finta di niente / Ma in realtà no") rispecchiavano il dolore che Sid provava per aver perso il padre; e, in una delle scene più memorabili della serie, "Hometown Glory" di Adele accompagnava Cassie che piangeva, a letto, mentre mangiava una mela. Era il finale della seconda stagione, ed era un finale aperto: necessario a dare un'impronta realista a una narrazione basata sul modo in cui dei ragazzi gestivano per la prima volta l'amore, la perdita e la loro identità senza avere veramente gli strumenti per farlo. 

Questo senso di perdita dell'innocenza traspare anche dal finale della prima stagione, in cui tutto il cast canta in coro "Wild World" di Cat Stevens. Skins sorprendeva spesso il proprio pubblico con tagli improvvisi come quello e, anche se l'aspetto musical-che-rompe-la-quarta-parete poteva sembrare non c'entrare niente con una serie che principalmente mostrava adolescenti che sniffavano mefedrone (RIP) dalla tavoletta del cesso, in qualche modo tutto funzionava. Il testo parla di "belle cose che diventano brutte", di quanto sia "difficile tirare avanti solo a sorrisi" e di come Cat ricorderà sempre la ragazza "come una bambina". È un passaggio metaforico dall'infanzia all'età adulta—un avvertimento: il futuro sarà difficile, il mondo ci cambierà e non c'è niente che possiamo farci.

Il mondo che Skins aveva creato non durò per molto. La serie non poteva continuare per sempre, e le fondamenta nu-rave e indie-math della sua colonna sonora affondarono con lei. Il che non significa che Skins e la sua musica non abbiano influenzato la contemporaneità: la serie fu infatti cruciale nell'assicurare un futuro migliore e più rilevante per altri drammi adolescenziali inglesi come Misfits e l'inedita in Italia My Mad Fat Diary. Serie americane come One Tree Hill hanno colonne sonore da cartone animato, a confronto (e il formato originale diventò così popolare che nel 2011 si provò a fare un remake statunitense di cui è meglio non parlare). Skins parlò di droghe, sesso, aborto e autolesionismo mettendoli sotto una lente d'ingrandimento realista e precisa, diventando uno dei programmi più famosi mai usciti dal Regno Unito.

La colonna sonora di Skins ha buttato assieme qualsiasi cosa, dai Ladyhawke ai Late of the Pier, dagli MGMT ai Vampire Weekend, dagli Spiritualized ai Dandy Warhols, in una festa piena di alcool e droga di quelle che sembrano non dover finire mai. Ha creato una capsula temporale musicale e ci ha messo dentro una cultura giovanile britannica impentinente, frustrata e ribelle. Anche se le sue canzoni sono sopravvissute a quella bolla, a quei due anni, viste in quel contesto non fanno che fotografare un'immagine iper-specifica di un modo di vivere che è esistito solo per poco, tessendo inoltre una narrazione sull'arrivo dell'età adulta che sembra tuttora senza tempo. 

Skins ci ha raccontato che la realtà ci investirà come un bus (letteralmente, a volte) e, nel nostro cesso di mondo post-Brexit, la sua colonna sonora può ancora parlare a molti di noi. Quindi, ricordando quello che faceva Chris, marciamo tutti per strada in questo 2017 e intoniamo tutti un enorme "fanculo."

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Phil Elverum è un personaggio particolarissimo, eroe del lo-fi a metà tra l'eremita e l'icona di culto. Con i suoi Microphones ha dettato, ormai più di dieci anni fa, le coordinate fondamentali per chiunque volesse fare musica invernale, storta e stonata ma al contempo brutalmente vitale: It Was Hot, We Stayed in the Water e The Glow Pt. 2 sono classici senza tempo, capaci di passare nel giro di un minuto dallo stringervi il cuore in una presa gelida al farvi sentire una brezzolina fresca dietro alle orecchie. Alla fine dei Microphones, Elverum cambiò nome in Mount Eerie e iniziò a sperimentare con le distorsioni, il rumore e il black metal, raggiungendo nuove vette di minimalismo e crudezza. 

Da qualche tempo a questa parte, però, Elverum è rimasto in silenzio per un motivo più che ragionevole: sua moglie, l'artista Geneviève Castrée, è morta lo scorso luglio per un cancro al pancreas. Solo un anno prima, avevano avuto la loro prima figlia. Ora, Elverum è pronto a pubblicare un nuovo album a nome Mount Eerie: si intitola A Crow Looked at Me e uscirà il 24 marzo per la sua etichetta P.W. Elverum & Sun. Elverum ha dichiarato di averlo scritto interamente nella stanza in cui la moglie è morta. 

Qua sotto potete ascoltare il primo estratto, che si intitola "Real Death" ed è (giustamente) una mazzata emotiva clamorosa. "Quando la morte, la vera morte, entra in casa ogni poesia è autistica / Quando entro nella stanza dov'eri / E mi rendo conto che ora è vuota / Tutto crolla, le mie ginocchia crollano / Il mio cervello smette di funzionare, non riesco a pronunciare una parola", dice Elverum, e procede con frasi diaristiche da bividi: "Una settimana dopo che sei morta è arrivato un pacco con sopra il tuo nome, e dentro c'era un regalo per nostra figlia che avevi ordinato senza dirmelo, e lì sui gradini della porta di casa mi sono messo a piangere." 

Che dire, per scrivere una canzone—e un album—del genere ci vuole un cuore enorme, e grazie a Dio che ci sono artisti volenterosi di buttare giù qualsiasi protezione per darsi così completamente a chi li ascolta. Qua potete leggere un breve testo che Elverum ha scritto per accompagnare l'album.

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La copertina di To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar rappresenta uno dei lasciti più importanti dell'epoca Obama

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La parte visuale è sempre stata importante per la narrazione musicale di Kendrick Lamar. Che si tratti del furgone di sua madre come cornice dei racconti della sua giovinezza a Compton sulla copertina di Good kid m.A.A.d City o della foto di una madre che allatta i suoi figli per simboleggiare le origini degli afroamericani in "The Blacker the Berry", c'è un commento visuale per ogni tema importante nella sua musica. In modo simile, l'artwork di To Pimp a Butterfly si lega alla trattazione senza mezzi termini di temi come razza, amore/odio per se stessi e, soprattutto, dell'essere neri in America. Ma negli ultimi tempi, proprio come hanno fatto The Roots con Things Fall Apart ritraendo il fallimento dell'umanità nell'epoca dei diritti civili, o il simbolismo del tumulto post 9/11 di American Idiot dei Green Day, la copertina di TPAB è arrivata a essere uno dei momenti iconografici più rappresentativi dell'era Obama.

La foto—scattata dal famoso fotografo Denis Rouvre sotto la direzione di Kendrick Lamar e del CEO di TDE Dave Free (anche conosciuti come il duo The Little Homies) e Vlad Sepetov—ritrae un gruppo perlopiù composto da uomini e bambini neri nell'atto di festeggiare davanti alla Casa Bianca, con il rapper al centro che tiene in braccio un bambino. Ai loro piedi giace un giudice bianco con delle X disegnate sugli occhi che suggeriscono che sia morto. Secondo Lamar, la foto rappresenta "amici che non hanno mai visto il mondo, portati in un posto che magari hanno visto solo in TV, un posto diverso dal quartiere—e loro che si prendono bene. Ecco perché hanno quelle facce esaltate". In un certo senso, la foto rappresenta anche la lunga e travagliata strada che ha portato i suoi fratelli su quel prato e il sospiro di sollievo dopo aver ridotto un po' le distanze tra neri e bianchi. E in questo modo la copertina di TPAB simbolizza anche l'invito che Obama ha rivolto all'hip-hop, e per estensione alla cultura afroamericana, ad entrare nella Casa Bianca. 

Le scelte di illuminazione ed esposizione effettuate da Rouvre evidenziano le cicatrici e le bruciature sulla pelle di tutti i soggetti che sfoggiano con orgoglio bottiglie e denaro in primo piano. Ogni dettaglio della foto risalta in contrasto con lo sfondo sfumato della Casa Bianca, mentre Lamar e compagnia illustrano metaforicamente le comunità urbane oppresse nell'area Sud Est di D.C. che circondano la magione presidenziale nella realtà. Del resto l'hip-hop ha sempre girato attorno alle politiche presidenziali, criticando i suoi grandi avversari Ronald Reagan e George Bush Sr. Tuttavia, l'idea di entrare nella Sala Ovale è sempre parsa tanto improbabile che quando una persona di colore ha fatto un tentativo, tutti gli artisti lo hanno supportato. Ma non è sempre stato così facile. Nel 1984, DJ Grandmaster Flash e Melle-Mel fecero una canzone intitolata "Jesse", un omaggio al campione dei diritti civili Jesse Jackson, che entrò nella storia come secondo candidato presidente nero, che ignorò o si rifiutò di riconoscere la canzone in alcun modo (in sua difesa, diversi anni dopo la MC e attivista Sister Souljah fu invitata a parlare al suo forum Rainbow Coalition). E poi, naturalmente, ci fu l'imprescindibile momento Kanye-Bush del 2006. Eppure, quando Obama si è lanciato nella corsa alla presidenza nel 2007, l'hip-hop era il genere dominante nella musica pop e il futuro presidente si rese conto della sua importanza per guadagnare voti—uno dei primi a supportarlo fu Ludacris—soprattutto dei giovani. La sua abilità nell'incorporare e alludere a elementi del rap durante la campagna elettorale diede l'impressione di vero apprezzamento per la prima volta. 

Questo non significa che Obama l'abbia sposato senza critiche. "Non c'è dubbio che la cultura hip-hop influenzi la nostra gioventù fortemente. E una parte di questa non è solo un riflesso della realtà", ha dichiarato. "Contribuisce anche a creare la realtà. Io credo che se tutto ciò che vedono i nostri ragazzi è una glorificazione del materialismo e del bling e del sesso occasionale... stanno ricevendo un ritratto irrealistico del mondo". Eppure, quando Obama fu finalmente eletto presidente, invitò persone di colore da ogni spazio, specialmente creativo, nella Casa Bianca. Uno spazio che non avevamo mai occupato prima in proporzioni simili con gente come Jay Z, Chance The Rapper, The Roots, De La Soul, Nicki Minaj, Wale, Janelle Monae, Killer Mike, e Common per fare qualche nome. La presenza di questi artisti è tanto più importante quando si considera un semplice fatto: la Casa Bianca non solo è uno spazio tradizionalmente non-nero ma, anzi, è uno monumento dell'oppressione. 

Secondo il sito della Associazione Storica della Casa Bianca, cosa a cui hanno fatto riferimento sia Barack che Michelle, i commissari di D.C. nel 1792, "avevano un piano per importare lavoratori dall'Europa", ma la risposta fu così scadente che "si rivolsero agli afroamericani—schiavi e liberi—come grosso dei lavoratori per costruire la Casa Bianca, il Campidoglio e altri palazzi del governo". Per quanto gli Obama abbiano interferito con questa tradizione anche soltanto con la loro presenza, la copertina di Lamar rappresenta un ingresso ben più violento nello spazio che abbiamo costruito. Nella traccia di apertura dell'album, "Wesley's Theory", rappa: "Porterò il mercatino delle pulci di Compton alla Casa Bianca/Arriva un repubblicano, lo mandiamo KO" ed è lo spirito di questo sentimento che rispecchia l'inclusione che abbiamo visto negli ultimi otto anni. Tutta via, è il verso seguente (Becco il Presidente con una catena d'oro al collo/Non sono istruito, ma ho un assegno da un milione di dollari grosso così) che sta alla base del rapporto tra Lamar e il presidente. 

La mutua ammirazione tra Lamar e Obama è ben documentata. In un'intervista live su YouTube in cui a Obama è stato chiesto chi vincerebbe in una battle tra Lamar e Drake, lui ha scelto il primo e ha più volte dichiarato esplicitamente il suo apprezzamento per TPAB e in particolare per la canzone "How Much a Dollar Cost". Kendrick, dal canto suo, è sempre stato un attento osservatore di Obama, facendo riferimento alla sua linea politica in canzoni come "Hood Politics". Il loro primo incontro pubblico avvenne quando Lamar e altri musicisti di primo piano furono convocati per discutere una nuova iniziativa del presidente chiamata My Brother's Keeper, "concepita per aiutare le nuove generazioni di neri e altre minoranze a restare sulla retta via" tramite la figura del mentore. In un filmato in supporto dell'iniziativa, Kendrick dichiara: "Ho parlato con il presidente Barack Obama e condiviso lo stesso punto di vista. Abbiamo parlato di quartieri centrali, dei problemi e delle soluzioni, e di avvicinarsi alla gioventù, consapevoli che un buon mentore può salvarti la vita". Il video poi mostra Lamar illustrare il suo manifesto personale sul prendersi cura dei membri della propria comunità e dimostrare loro che "hanno un posto nel mondo". Questo sentimento è buona parte del motivo per cui Lamar ammira così tanto Obama, come ha detto a XXL. "Incontro molte persone ai piani alti, e a volte sono così separate dal mondo e dalla gente che non sanno nemmeno interagire con te. Vederlo rapportarsi a mia madre, alla mia nipotina, a me stesso come essere umano, è stata la cosa più bella".

Essere trattati da esseri umani è facile, ma sono tantissimi i momenti in cui la comunità nera ha dovuto ricordare al resto del mondo di questo fatto mentre persone di colore venivano ammazzate senza motivo, cercando di dirci che è tutto a posto anche nelle circostanze peggiori. È questa idea di resistenza che Rouvre cattura così bene nella copertina di TPAB tramite la sua composizione claustrofobica del gruppo che proietta un'aura di invincibilità e forza. La foto getta luce anche su alcuni dei problemi più gravi dell'epoca Obama, nell'hip-hop e in politica. È un promemoria per Obama che gli ricorda la gente che ha cercato di aiutare senza riuscirci a causa delle sue medesime visioni nobili e ottimistiche di un paese unito, oltre che della strenua resistenza del partito repubblicano e di un popolo che in gran parte si rifiuta di riconoscere la discriminazione razziale. La copertina di TPAB enfatizza il legame tra rap e virilità che continua a ignorare le donne. È decisamente letterale nel contesto della foto, visto che le varie donne presenti si vedono a malapena, sommerse dalla folla di uomini. Ora resta l'idea del giudice "repubblicano" morto di cui in "Wesley's Theory", che al contrario sembra vivo e vegeto incarnato dal Presidente Donald Trump, che invita artisti e personaggi dello spettacolo neri per fare bella figura davanti alle telecamere.

Per quanto brevi siano stati, questi otto anni con Obama, la cultura nera e hip-hop ha trovato un posto nella Casa Bianca. Non importa chi sia il nuovo inquilino, anzi, ora più che mai dovremmo ricordarci questa immagine di uomini, donne e bambini gioiosi su quel prato, e ricordarci del suo significato per la politica americana. Il popolo nero non scomparirà, ma ha ancora molta strada da fare. E per quanto ora non sia che un bel ricordo, la musica e le immagini di To Pimp A Butterfly sono il miglior esempio di quello che rimane dopo questo periodo, cosa di cui Lamar è consapevole. "Penso che il mondo, non solo l'hip-hop, gli debba qualcosa", ha detto del presidente. "Dobbiamo tutti riconoscergli il merito di averci fatto entrare in quell'edificio. Probabilmente non riusciremo mai più ad entrarci". Speriamo che si sbagli. 

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