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Per favore, se sei bianco evita di cantare una cover di Beyoncé o Rihanna

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Abbiamo già parlato di "Formation" e del valore culturale (e politico) delle ultime gesta di Beyoncé. Con un certo coraggio Beyoncé ha deciso di rappresentare in video tutti quei comportamenti che venivano additati come ridicoli per le persone di origini afroamericane, così da trasformarli in qualcosa da difendere con orgoglio. Il video di "Formation" porta con sé un immaginario potente in cui le macchine della polizia affondano nei fiumi e vengono calpestate, il che ha causato una serie di dibattiti che devono ancora trovare la loro soluzione naturale. Allo stesso modo il video "Work" di Rihanna ha messo in mostra l'orgoglio della ragazza di Bajan per le sue origini caraibiche.

Quello di cui vogliamo parlare ora è il tentativo delle persone di un'altra etnia (aka bianche) di imitare e ridicolizzare (più o meno intenzionalmente, vogliamo essere buoni) la negritudine messa in mostra in quei video. Per favore, persone bianche e prive di talento, smettetela di provarci; nessuno sta dicendo che il colore della vostra pelle vi vieta di provare a fare alcune cose o dire alcune parole, solo che forse bisogna stare un po' più attenti.

Fermatevi e pensateci un attimo, prima di mettervi dietro al microfono. Fatevi alcune domande: sembro pazzo se faccio questa cosa? Sto privando questo pezzo di orgoglio nero di qualsiasi significato aggiungendo un intermezzo insensato di chitarra/pianoforte? Sarò trascinato nel fango e nella polvere di Twitter per colpa di questa canzone che mi accingo a cantare? Il mio nome finirà indicizzato da Google accanto a qualche commento piccato su un blog con un milione di utenti unici al mese impedendomi di trovare lavoro per il resto dei miei giorni? (VICE non supporta in alcun modo questo comportamento.) Ne vale davvero la pena?

Non fate quello che fanno le persone qua sotto, ma dategli un'occhiata, se ne avete il coraggio.

 


I Black Sabbath sono la band più importante di sempre

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Illustrazione di Grace Hwang

I Black Sabbath stanno girando il mondo con il loro ultimo tour, che hanno deciso di chiamare The End. Dopo che Ozzy ha deciso di intraprendere una carriera da solista nel 1979, era difficile pensare che i ragazzoni sarebbero mai tornati a calcare un palco insieme. Il set del Live Aid del 1985 e l'apparizione dei compagni nelle ultime due date del tour di Ozzy a Costa Mesa, nel 1992, avevano contribuito a ringalluzzire l'appetito dei fan che li volevano di nuovo tutti insieme, nella formazione originaria, tanto oramai erano senza Dio (Ronnie James Dio, per intenderci). Ora, dopo l'uscita nel 2013 del loro primo album a raggiungere il Numero Uno in classifica, 13, i quattro cavalieri dell'apocalisse hanno deciso di sparare un ultimo colpo.

Il tour è iniziato in questi giorni, per cui quale momento migliore per un elenco dei motivi per cui i Sabbath sono il meglio?

 

1. I Black Sabbath hanno inventato l'heavy metal.

C'erano band pesanti prima dei Sabbath. Non dimentichiamo che Sir Paul ha scritto "Helter Skelter". Cream, Hendrix, Zeppelin, Vanilla Fudge e gli Who erano tutti sulle scene prima che gli Earth cambiassero nome in Black Sabbath nel 1969. Ma nessuno di questi aveva la stessa chiarezza d'intenti e la stessa determinazione dei ragazzi di Birmingham. Il libro di Martin Popoff uscito nel 2015, Who Invented Heavy Metal, segue la forma dalle trombe della Battaglia di Gerico nel 1250 AC alla fine del 1971. Popoff in maniera "in un certo senso faceta" dichiara che la versione di Johnny Burnette del 1957 di "Train Kept A-Rollin" sarebbe la prima canzone heavy metal della storia. Ma alla fine del libro, però, (attenzione spoiler) i Sabbath sono salutati in maniera definitiva come i veri inventori. 

 

2. Tutti e quattro i membri originali sono ancora vivi.

Non sono rimasti molti gruppi degli anni Sessanta che siano riusciti a evitare la morte di almeno uno dei membri fondatori. Gli Who ormai vengono chiamati i Two. Brian Jones dei Rolling Stones non è nemmeno arrivato al quattro luglio del 1969. Rimangono soltanto due Beatles. Secondo migliaia di post su Facebook, John Bonham sta suonando la batteria insieme a Lemmy, Cliff Burton, Randy Rhoads e Dio giù nell'inferno dell'heavy metal in questo momento. L'ultima band che ci si sarebbe aspettati di veder sopravvivere fino a oggi. Viene da chiedersi se non si siano fermati all'incrocio per firmare un contrattino...

 

3. I Black Sabbath hanno fuso assieme blues, jazz, rock e classica.

La magniloquenza del metal è iniziata con i compositori classici; Mahler e Wagner hanno dato una carica totalmente nuova alla musica. Questa cosa Geezer Butler la sapeva bene, essendo ispirato dal "Marte Portatore di Guerra" di Gustav Holst dalla suite I Pianeti. Tony Iommi utilizzava il tri-tono del diavolo (a.k.a. diabolus in musica) tramite power chord scordati suonati con un'arroganza blues. Lo stile jazzistico di Bill Ward era l'ingrediente finale di questo soufflé satanico, questa nuova forma musicale che ibridava le varie forme del passato e ne creava una nuova e terrificante.
 

 

4. Vaffanculo il flower power.

Prima dei Sabbath, la maggior parte delle band cantavano d'amore. Anche se coprivano temi diversi, l'amore era sempre la risposta. I Doors dipingevano quadri oscuri con sfumature di sesso e morte, ma mantenendo un approccio poetico. La gente dice che il sogno dei Sixties è morto ad Altamont il 6 dicembre 1969. Ma i Sabbath avevano già registrato il loro primo album di doom* orrorifico il 16 ottobre. A settembre 1970, uscì il secondo album, i cui temi di paranoia, guerra e abuso di droga schiacciavano ogni bel pensierino su quanto l'amore e la pace avrebbero conquistato il mondo. 

*Quando ho intervistato Iommi nel 2013, gli ho chiesto quando usarono per la prima volta il termine "doom" per descrivere la propria musica. La sua risposta fu: "Doom? ...dal primo giorno, a dir la verità".

 

5. Non si sono mai arresi alle proprie disabilità.

È noto che Tony Iommi ha perso le falangi finali di due dita in un incidente di fabbrica proprio nel giorno in cui aveva deciso di lasciare il proprio lavoro per dedicarsi alla musica. Il suo capo si sentiva molto in colpa e fece ascoltare un album di Django Rheinhardt al povero chitarrista depresso. Il giovane Tony rimase colpito dalla tecnica flamenco soprannaturale di Rheinhardt, resa ancora più incredibile dal fatto che anche il francese era rimasto mutilato a causa della fiamma di una candela fuori controllo. Invece di arrendersi, Iommi costruì delle protesi su misura per completare la parte mancante delle proprie dita, creò un set di corde dal diametro giusto per lui e le accordò in Do#. E per quanto riguarda il resto della band, è abbastanza evidente che Ozzy è da decenni una persona non completamente sana, nonostante le sue mutazioni scientificamente provate.
 

 

6. In prospettiva, i Black Sabbath sono tuttora il gruppo più pesante della storia.

Si possono trovare molte persone giovani e stupide che sostengono che i Black Sabbath hanno un suono vecchio, che dopo di loro tanti gruppi heavy hanno suonato più velocemente, più lentamente, con più volume o con accordature talmente basse che solo certi mammiferi marini le potevano percepire. Ma il demo dei Mayhem non faceva venire gli incubi agli ascoltatori e non fece intervenire il PMRC (Parents Music Research Center); ispirò roghi di chiese ma non roghi di dischi da parte della Chiesa. Quando l'album omonimo dei Black Sabbath uscì, venerdì 13 febbraio 1970, fece davvero paura. La gente usciva dalla stanza quando sentiva la pioggia, le campane e il riff definitivo. Non importa che cosa è successo dopo: niente è più stato altrettanto pesante, in un mondo altrettanto impreparato.

 

7. Cristiani temuti dai cristiani, ma amati dagli occultisti.

L'autore dei testi dei Sabbath, Geezer Butler, ebbe un'educazione cattolica. La prima canzone scritta dal gruppo parlava di paura del diavolo. "After Forever" da Master of Reality è stata definita la prima canzone rock cristiana. Eppure, per qualche motivo, grazie soprattutto all'insistenza di Vertigo Records per mettere una croce al contrario all'interno del gatefold del debutto (e altri trucchetti di marketing) le associazioni dei genitori e la Chiesa non persero tempo a condannare la band. Secondo la biografia non-ufficiale "dal punto di vista dello staff" How Black Was Our Sabbath, già dai primi concerti nel pubblico si contavano pseudo-streghe e fanatici di Ouija. Quando il gruppo declinò l'offerta da parte di un'organizzazione satanista di suonare a Stonehenge, pare sia stata lanciata contro di loro una maledizione. Da allora fino a oggi, la band ha sempre indossato delle croci per tenere lontano il male. Capito, mamma e papà?

 

8. Quelle copertine.

La fotografia della copertina del primo album dei Sabbath basta a far venire la pelle d'oca ancora prima di abbassare la puntina sul disco. A oggi, nessuno conosce l'identità della giovane donna che si vede davanti al Mulino Mapledurham. Possiamo glissare sul war pig in copertina su Paranoid e anche sulla scritta viola in rilievo di Master of Reality. Ma con Vol. 4 la band aveva ripreso la propria iconorafia grazie alla sagoma di Ozzy che si vede in copertina e a quel fantastico adesivo sul basso di Geezer nella foto del libretto interno che fa giocosamente riferimento alle note di copertina che ringraziano “the great COKE-cola company”. L'illustrazione di Drew Struzan per Sabbath Bloody Sabbath era così demoniaca che fu censurata in Spagna. Sulla foto di Sabotage, Bill Ward riuscì a presentarsi allo shooting senza pantaloni e dovette prendere in prestito un paio di collant rossi da sua moglie. Con Technical Ecstasy Never Say Die, il gruppo gettò la spugna e assunse Hipgnosis, la mente leggendaria dietro praticamente ogni copertina dei Pink Floyd.

 

9. I Black Sabbath hanno piazzato un album al Numero Uno negli USA nel XXI Secolo.

L'ultima volta che gli Stones hanno piazzato una hit al Numero Uno in America è stato nel 1981. I Rush non ci sono mai riusciti. Judas Priest? Iron Maiden? No e no. Ma i Sabbath hanno pubblicato 13 nel 2013—in un'epoca in cui il rock è stato spazzato sotto il tappeto da robaccia pop prefabbricata e di maniera. E checché ne dicano i tanti hater online che l'hanno ascoltato al massimo una volta, è un album fantastico che prova la capacità della band di fare qualcosa che pochi gruppi metal al giorno d'oggi sono capaci di fare: scrivere belle canzoni. La gente si è divertita a lamentarsi del fatto che "suonasse troppo Sabbath", ma perché non dovrebbero copiare se stessi quando lo fa letteralmente ogni altro gruppo metal? Ozzy non usa l'AutoTune, Iommi ha il blues e i testi di Geezer sono esuberanti, fantascientifici e profondi come sempre. Se volete leggere la versione lunga di come la penso su 13, ho scritto altre 5000 parole sull'argomento.

 

10. Sono tutti musicisti incredibilmente bravi.

A ripensarci fa ridere. Quando frequentavo le superiori nei tardi anni Ottanta, in giro si diceva che i membri dei Led Zeppelin fossero musicisti, mentre quelli dei Black Sabbath fossero solo degli scoppiati. Questo si basava più che altro su leggende e sul disco sconsiderato Live At Last. Lasciate che vi spieghi una cosa: i Sabbath non erano cattivi musicisti, ma d'altro canto avevano accesso alle migliori droghe. L'hashisc, l'alcool e la coca ogni tanto si mettevano di traverso. Ma ascoltate come suonano sul debutto. Non temono confronto con nessun'altra band al di qua dei King Crimson. Geezer è l'anello mancante tra Paul McCartney e Steve Harris. I riff di Tony vengono direttamente dalla fonte dell'ispirazione. La voce di Ozzy sembra miele caldo, e lo stile di Bill Ward è capace di farti piangere. Erano una forza devastante ai tempi, e lo sono tuttora. I gruppi oggi non si allenano quanto si faceva una volta. I Black Sabbath facevano sette concerti da 45 minuti ogni sera durante la residency allo Star Club di Amburgo. È lo stesso posto in cui i Beatles avevano affilato le proprie armi prima di partire alla conquista del mondo. I Sabbath hanno suonato allo Star Club più volte dei Beatles, e sarebbero stati in grado di doppiare i propri idoli se avessero voluto. 

 

11. I cantanti di Rainbow, Deep Purple e Judas Priest hanno tutti fatto parte dei Black Sabbath.

Dopo che Ozzy fu cacciato nel 1979 dopo anni di comportamento inammissibile, depressione generale e livelli di alcolismo epici, Ronnie James Dio prese il suo posto. Il cantante dei Rainbow era l'esatto contrario di Ozzy: professionale, intonatissimo, autore di testi, e americano. Dio fece quattro album in studio con i Sabbath, l'ultimo dei quali è anche il più peso: The Devil You Know del 2009, a nome Heaven & Hell. Quando Dio uscì per la prima volta dai Sabbath dopo Mob Rules, Ian Gillian dei Deep Purple fu convocato per cantare sull'esageratissimo disco alla Spinal Tap Born Again. E quando nel 1992 Dio si rifiutò di cantare al concerto di Costa Mesa di cui parlavo all'inizio, perché si trattava di aprire per Ozzy, Rob Halford dei Judas Priest prestò la propria voce da dio del metal. "Non ci sto", disse Dio, secondo l'autobiografia di Iommi Iron Man. "Non faccio da spalla a un pagliaccio". R.I.P. RJD. 

 

12. Parliamo di Bill Ward.

Lui è IL MASSIMO. Ward è senza dubbio uno dei più grandi batteristi della storia del rock. Ma, amici miei: rimangono i Sabbath anche senza di lui. Anzi, ci sono diversi dischi dei Sabbath che non comprendono membri fondatori del gruppo a parte Iommi, l'unico a tenere in vita il sogno per tutto questo tempo. Ward stesso non si ricorda di aver registrato Heaven and Hell. Nel 1997 non fu in grado di tenere il tempo sulla canzone "Selling Your Soul" per cui fu usata una drum machine. Nel 1998 ebbe un infarto e mancò tutte le date del tour tranne due. Durante alcuni Ozzfest c'era un batterista di rimpiazzo sempre pronto a sostituirlo dietro il sipario. Se vuoi usare l'assenza di Ward per boicottare 13 o The End, lascia che ti faccia una domanda: hai comprato il disco di Ward del 2015 Accountable Beasts? No? E allora chiudi quella cazzo di bocca. Non lo supporti davvero, vuoi solo fare il leone da tastiera. Se sei una delle settecento persone che hanno comprato il suo album allora hai il mio rispetto. Bill Ward si merita il nostro amore. E anche i Black Sabbath se lo meritano. 

 

13. The End sarà davvero La Fine.

Certo, sappiamo tutti che Sharon prenderà Ozzy e lo rimetterà su un tour bus alla prima occasione, ma questo è l'ultimo vero tour dei Sabbath. Magari registreranno qualcosa d'altro. Forse ci sarà un concerto di addio o tre. Forse li vedremo anche fare la pace con Bill Ward prima o poi. Ma con i contratti firmati, la battaglia ancora in corso di Iommi con il cancro, e l'età di tutti che si avvicina ai 70, questo tour sarà l'ultima possibilità di vedere i tre membri dei Black Sabbath in tour assieme. E se te la perdi, è colpa tua. Se sei mai arrivato alla fine di "Dear Father" (l'ultima canzone di 13) saprai che finisce proprio dove la band iniziò. 

Fate partire la pioggia e le campane.

 

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Vi presentiamo Kara-Lis Coverdale

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Kara-Lis Coverdale è giovane ma ha già una reputazione da paintagrane, da quando ha iniziato a mixare hip-hop e inni sacri durante il suo lavoro come organista alla St. John Estonian Evangelical Lutheran Church di Montreal, e da quando (nei suoi tre album) ha iniziato a testare i limiti della composizione elettronica. È anche una collaboratrice di lusso, avendo suonato con gente del calibro di Tim Hecker (sarà ospite anche nel prossimo Love Streams), Lee Bannon, e LXV.

Il suo album più recente, Aftertouches, dello scorso anno, evoca divinità olografiche e ombrose dal pulpito digitale di un computer. Durante in nostri scambi di mail, le risposte di Coverdale erano punteggiate di ellissi e divagazioni misteriose, come se i supi pensieri non potessero essere contenuti da un semplice schermo. Lo stesso vale per le sue composizioni: luminose ma ribollenti di idee. Manca davvero poco a quando Coverdale porterà finalmente in tour Europeo queste composizioni (trovate le date in fondo all'articolo), ragion per cui abbiamo deciso di farle qualche domanda .

Noisey: Di solito come ti prepari per un tour?

Kara-Lis Coverdale: Ogni mia performance è unica, nel senso che non ho un set fisso immutabile che ri-suono ogni volta. Per i mei show europei, avrò il privilegio di trattare ogni singolo invito come un'opportunità di estendere il mio lavoro e reimpostarlo in tempo reale. Farò nuove versioni live o variazioni di pezzi già esistenti accanto a materiale inedito, lasciando spazio all'improvvisazione. Una volta che il concept generale del set, la sfida sarà fargli prendere vita. Di solito lavoro con venticinque canali, uno per ogni voce o per ogni strato sonoro, su cui lavoro in tempo reale. Mi sono messa un sacco di riferimenti mnemonici di testo per salvarmi una memoria a breve termine su cosa ho salvato e dove l'ho salvato, in modo tale da poterlo tirare fuori velocemente durante un live. A volte uso dei codici o dei simboli per tenerli in memoria (sia in quella del mio corpo che quella del mio computer)

Consideri questa preparazione (e la performance stessa) parte del tuo processo di composizione?

Credo che la maggior parte delle creazioni musicali scaturiscano con una qualche idea di performance in mente. Personalmente vedo i dischi come creazioni rifinite, o documenti di un intenzione e di una capacità particolare, mentre in un live si mostra il processo, le possibilità di variazione, di interpretazione, e tutti quei dispositivi transitori che mostrano un contesto più ampio di cosa un disco potrebbe contenere. Nel caso della musica elettronica, un live è anche un'occasione di ascoltare la musica su un sistema adeguato. L'ho imparato molto tempo fa, quando ho iniziato a esibirmi come pianista. A differenza di un violinista che probabilmente si esibisce con uno strumento che ha tra le mani da più di dieci anni, un pianista è come un musicista elettronico che dipende dall'impianto: si mette davanti a centinaia di persone e prova a raggiungere un alto livello di emotività e connessione con un piano che tocca per la prima volta. È come mettere due estranei in una stanza e vedere che succede.

Come cambia il tuo processo quando ti trovi a lavorare con qualcun altro?

Le collaborazioni sono basate sulla fiducia reciproca, e sul lasciare che si verifichino fatti inaspettati e sorprendenti quando lasci entrare qualcuno nel tuo mondo, a volte si trasforma in una lotta per il controllo. Io passo la maggior parte del tempo da sola in un sistema chiuso ed ego-diretto, sia come compositrice che come performer. Quando invece accetto una collaborazione, il mio mondo si spacca. Il collaboratore ed io siamo entrambi sia turisti che guide, ci aiutiamo a vicenda a esplorare i nostri mondi, per cui c'è un processo di scambio reciproco e ricettività, che richiede apertura vverso ciò che sta fuori dalla tua visuale. A un livello operativo, le decisioni estetiche si compiono più velocemente quando collabori, perché ci si rimbalza reciprocamente un'idea. Molto spesso è bello che qualcuno ti spinga fuori dalla tua comfort zone. Gli strumenti e i set up possono cambiare radicalmente a seconda del progetto. È sempre un'esperienza liberatoria andare nello studio di qualcun altro, ma è anche bello invitare qualcuno nel proprio. L'ho fatto di recente, producendo una traccia per How To Dress Well. È stato come sbavare su una stessa scatola di cioccolatini solo che lui puntava al ripieno alla ciliegia e io al biscotto attorno, ma a entrambi piace la cioccolata per cui va bene. È andata più o meno così.

Che rapporto c'è tra la tua musica e la musica dance?

Non mi aspettavo che Aftertouches, né gli altri miei lavori elettronici venissero associati alla cultura dance. È stata una sorpresa per me venire inserita in line up assieme ad artisti dance, o a finire in certi magazine. Non esiste solo l'elettronica ballabile, e credo che i media dovrebbero comunciarlo più spesso. In generale, credo che i set che faccio ora siano una specie di concerti potenziati. C'è un sacco di movimento in quello che compongo, in termini di energia, ritmo e melodia. Se suonati su un buon impianto, può avere la stessa energia della musica da dancefloor, anche se io evito di usare ritmiche o pattern percussivi costanti. So di usare gli stessi attrezzi di molti producer dance, che facciano rap, EDM, techno o vari sottogeneri. Possiamo scambiarci il pubblico ma alla fine usiamo linguaggi differenti. In realtà, a un livello molto istintivo e interpretativo, io immagino sempre delle figure che danzano sulla mia musica, e quando lavoro a cose nuove uso sempre il mio corpo come prova. So che le cose non funzionano davvero finché il mio corpo non si sente portato a muoversi in qualche modo.

Tour:

March 6 - MUTEK - Barcelona, Spain
March 11 - Convergence - London, UK
March 19 - En Avant - Torino, Italia
March 31 - TMW - Tallinn, Estonia
April 1 - Rewire - The Hague, Netherlands
April 22/24 - Intonal, Malmö, Sweden
May 5 - St. John Sessine - London, UK (/w Tim Hecker, Rezzett)

 

L'industria musicale italiana è davvero maschilista?

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Ellen Willis, storica critica musicale del New Yorker.

Se non avete grosse fette di salame sopra agli occhi, vi sarete accorti che nel 2016, in Italia, parlare di eguaglianza dei sessi è ancora in qualche modo utopico. Sarà perché i nostri politici non aiutano a decostruire un modello ancora fortemente patriarcale, quello per cui la famiglia è padre-madre-figlio? O perché si permette a istituzioni laiche o religiose di intervenire quando a una donna viene in mente di abortire, mentre l'idea che possa scegliere di "affittare" il proprio utero—di cui secondo i motti femministi sessantottini dovrebbe detenere l'assoluta proprietà—è considerata abominevole, uno sfruttamento, da chi probabilmente un utero nemmeno ha mai sognato di possederlo? 
Che lo vogliamo o no, viviamo in una società in cui è impensabile proporre modelli di sessualità e identità di genere alternativi, per cui non solo alcuni faticano a non rimarcare in maniera più o meno plateale la differenza tra uomo e donna, ma resistono, nonostante l'apparente evoluzione della coscienza comune, ancora stereotipi e comportamenti sessisti di cui fatichiamo a liberarci. 

La musica è uno di quei territori in cui è permesso, sin da tempi non sospetti, promuovere una concezione di sessualità fluida e un abbattimento delle barriere tra generi. Se pensiamo alla figura aliena e androgina di Bowie e ai suoi mille volti che da soli bastano a riassumere cinquant'anni di lotta contro etichette e logiche patriarcali, ci rendiamo conto della potenza di questo mezzo nella rivoluzione dei costumi. Tuttavia, soprattutto negli ultimi tempi, chi ha seguito i media musicali si sarà accorto di come la discussione intorno al sessismo in musica sia tutt'altro che archiviata: ultimo cronologicamente il caso di Ke$ha costretta a lavorare con il produttore che a quanto pare la vessava, per non parlare delle accuse di violenza nei confronti di Michael Gira. Ma senza arrivare alle persecuzioni sessuali tout court, casi come quello di Kozelek che chiama "puttana" la giornalista che l'ha intervistato dichiarando dal palco che lei voleva solo scoparlo e consigliandole di "mettersi in fila" o, banalmente, la questione di genere nell'industria musicale ci costringe a porci domande che nemmeno vorremmo più avere l'imbarazzo di farci. Personalmente, non mi sono mai sentita particolarmente disturbata dalla questione, in primis perché onestamente nella piccola redazione di Noisey io e Sonia Garcia siamo i maschi alfa, e in secondo luogo perché ogni volta che naso, anche solo da lontano, un atteggiamento pseudo-sessista sono in grado di contestualizzarlo e lasciarmelo scivolare addosso—salvo alcuni casi in cui mi piace contrastarlo con considerazioni altrettanto stereotipiche come quella che chi ne è responsabile molto spesso è proprietario di un cazzo molto piccolo, metaforicamente o meno. In ogni caso, esiste ancora una discussione più o meno fondata sull'argomento, e finché esiste è bene poterla affrontare di petto. In passato su queste pagine abbiamo trattato l'argomento parlando con alcune delle ragazze che fanno musica elettronica in Italia, ma siccome la questione rimane aperta, e in molti lamentano che siano ancora poche le firme femminili all'interno della critica musicale nostrana, abbiamo pensato di riaprire la parentesi chiedendo direttamente ad alcune signorine che lavorano nei media musicali del nostro Paese in che modo percepiscono questa problematica. 


Nur Al Habash - Dirige Rockit e collabora con altre pubblicazioni musicali.

 "Perché la musica tendenzialmente interessa più agli uomini che alle donne?"
Da donna che lavora nell’industria musicale è una domanda che negli anni mi sono posta spesso. E alla fine ho capito tre cose: la prima è che non è poi così vero. La musica alle donne interessa quanto agli uomini, quello che non interessa è stare pomeriggi interi a commentare su Facebook o sui forum i suoni di una produzione, o il 7.4 che Pitchfork ha dato all’ultimo disco del tale gruppo, e così via. Insomma, non hanno interesse a sfoggiare gusti e conoscenze per competere con gli altri: per le donne la musica è tendenzialmente una cosa personale e votata al puro godimento (dopotutto, la nostra vita non è già abbastanza piena di discussioni?).


Detto questo, un fondo di verità ovviamente c’è: è innegabile che se si prendono in considerazione i vari campi in cui una donna può occuparsi di musica (sul palco, dietro una consolle, come organizzatrice di eventi, giornalista etc.) li si vedrà sempre pieni di uomini. Da qui viene la seconda cosa che ho capito, ovvero che molto banalmente c’entrano gli stereotipi, difficilissimi da individuare e superare anche nel 2016. La nostra cultura considera per qualche motivo (complesso, e che non è il caso di approfondire qui) la musica come una delle migliaia di attività “da uomini”. Per questo le donne nel nostro Paese sono sempre state relegate al ruolo di performer ed entertainer, e molte cantautrici e musiciste che negli anni hanno portato avanti una ricerca in Italia sono spesso rimaste nell’oblio: del resto lo stesso succede da secoli nei campi più disparati, qui come all’estero. Un pattern che involontariamente si ripete, con il ragazzino che sceglierà di imparare a suonare la chitarra elettrica o la batteria, e la ragazzina che prenderà lezioni di canto e ballo, perché in fondo è una questione di esempi: quello che vedi intorno a te, specialmente da piccolo, ti sembra sia il modo in cui le cose devono andare, e ti ci adegui. Per questo è importantissimo che ci siano degli esempi che mostrino alle ragazze che si può fare, che si può essere batteriste, organizzatrici di festival, giornaliste musicali ed essere brave, apprezzate e rispettate quanto e più degli uomini (lo si farà per esempio il prossimo 8 marzo a Londra, con il primo “Girls Music Day”).

La terza cosa che ho capito, anche questa piuttosto semplice ed evidente—eppure da molti contestata—è che in questo discorso c’entra il sessismo: spesso le donne che si avventurano in ambiti in cui c’è una predominanza maschile incontrano un ambiente ostile. Parlo ovviamente delle battute a sfondo sessuale e di commenti sessisti di tutti i tipi, ma anche delle mezzore intere di mansplaining (ovvero quando un uomo, pur non conoscendoti e non sapendo nulla di te, dà per scontato che in quanto donna tu sia ignorante—per cui si sente in dovere di spiegarti qualcosa con un’accondiscendenza simile a quella di un padre che spiega alla figlioletta com’è fatto il mondo), o del giudizio sull’aspetto fisico che viene sempre prima di quello sulle capacità e i contenuti, e così via. Tutti atteggiamenti che puntano a una sola direzione: far sentire inadeguate le donne che provano ad avvicinarsi alla musica. È evidente che quando un ambiente si rivela così inospitale o peggio ancora tossico, e quando c’è un alto rischio di rendere psicologicamente stressante una cosa che dovrebbe solo far star bene e dare soddisfazione, per una ragazza è più semplice e conveniente rimanere nella sua “safe zone” e rinunciare a mettersi in gioco.

Ma al di là di questi esempi, che spesso vengono liquidati come innocua goliardia, trovo che il sessismo che c’è in Italia in campo musicale sia di un tipo più silenzioso e bonario, che si traduce semplicemente nella scarsa presenza di donne sulla stampa, in lineup e conferenze, e in tutte le occasioni in cui in qualche modo c’è da riunire una rappresentanza. Il perché è semplice: nella maggior parte dei casi, chi è chiamato a selezionare questa rappresentanza sono gli uomini stessi, che tenderanno a scegliere altri uomini, spesso in buona fede e in maniera quasi inconsapevole. Un sistema che si autoalimenta e che rende sempre più difficile sbarazzarsi degli stereotipi e diffondere esempi positivi e vincenti per le ragazze che ci vogliono provare. 
Nonostante tutto questo, sono convinta del fatto che un articolo come quello che state leggendo farà tenerezza se riguardato tra 5 o 10 anni: nell’aria si sente sempre più il bisogno di mettere in discussione certi schemi e abitudini, e sono ormai anni che sulla stampa internazionale si parla in maniera approfondita di questo argomento. Basta esserne consapevoli, e continuare a lavorare sodo. 


Teresa Bellemo - dirige Cosebelle Magazine dove si occupa anche della redazione musicale. Scrive su Rockit, Prismo e altre cose di carta. 

Quando ho iniziato a scrivere di musica non mi è mai sfiorato il pensiero che quello che stavo per fare sarebbe stato originale. Su Spoglierò Simon le Bon, la mia prima rubrica, ho intervistato e parlato di musica e moda con artisti e artiste, indiscriminatamente. Conoscevo e tuttora conosco tantissime donne che hanno a che fare con questo mondo e molte hanno tutt’altro che un ruolo marginale. Ci sono tantissime donne che conoscono la musica in maniera approfondita, ne parlano con chiarezza e passione. Sono stimate perché svolgono in maniera egregia il loro “lavoro” (uso le virgolette perché lo sappiamo qual è il problema con lo scrivere, oltre che col genere) e grazie ad esso hanno scoperto e dato visibilità a progetti che lo meritavano. 

Forse se non credo che esista un profondo problema di genere come in altri Paesi è perché in Italia la musica conta poco? O non me ne sono accorta perché non ho mai ricevuto commenti sessisti, nonostante mie recensioni negative? Cioè, quando ho ricevuto reazioni negative so che le avrei ricevute comunque, perché dall’altra parte c’era il purista del genere o il fan sfegatato che difendeva il suo divo e l’avrebbe fatto a qualunque costo. Per anni non ho mai visto il mio parlare di musica come un’entrata in un campo nemico, ma semplicemente una scelta, una passione. Lo penso tuttora. Abbiamo bisogno di sentire come naturale tutto questo, di non dover chiedere permesso a nessuno, perché nessuno ce lo deve dare. Di non sentirci una riserva indiana noi stesse, in primis. Mi è capitato, parlando di musica con uomini, di non essere ascoltata. Mi è capitato soprattutto tra addetti ai lavori. Mi è capitato quasi sempre con persone arroganti, forse si sarebbero comportate male comunque, sarebbero state mandate a fanculo comunque. Ho organizzato due edizioni di un mini festival musicale e non ho incontrato nessuna difficoltà, tranne rapportarmi con i tizi del locale che ora vivono felici organizzando serate tributo ai Doors e a Jamiroquai. Avevo scelto di farlo per passione, perché ci credevo. A volte i gruppi pensavano di trovarsi davanti a un promoter uomo, in qualche raro caso si sono stupiti, quasi sempre no.

Nella redazione di Cosebelle, insieme alle altre tre ragazze che si occupano di musica, parliamo sistematicamente di quella che viene definita “musica da maschi”. Parliamo anche di elettronica, di noise rock, di slow core. Certe volte ascoltano delle robe che io, lo ammetto, faccio una fatica bestia. Sono gusti. C’è una musica da donne e una musica da maschi? Forse sì, ma come sempre ci sono infinite terre intermedie e la nostra redazione ne è un esempio. 

Ma c’è un punto su cui c’è ancora molto lavoro da fare, molto più che nel dietro le quinte. Le ragazze per salire sul palco hanno bisogno di mille dosi in più di coraggio rispetto a scrivere un articolo musicale o la più spietata recensione. Durante un concerto di Maria Antonietta sono rimasta atterrita dalle parole che dicevano due tizi sorridenti al mio fianco. Serve avere molto self control per accettare il fatto che si è da sole davanti a un pubblico che ti dà della puttana perché suoni la chitarra o perché canti di quando ti sei fatta un tipo. Come se una canzone non trattasse mai di temi del genere. Una musicista, se vuole suonare, deve essere dieci volte più brava di un uomo, perché staranno sempre lì a capire se sei in grado, se non suoni solo perché sei donna, perché sei bella. Perché se una donna apre bocca spesso il primo commento che si fa è se è carina o no, anche se il suo aprire bocca non c’entra nulla con il suo aspetto fisico. Oppure capita l’opposto, per cui una musicista può avere molti più riflettori su di sé soltanto perché donna, perché suonare “fa figa”. Come una donna cannone moderna. Essenzialmente la questione di genere è sulle spalle di chi prende in mano una chitarra o un synth. E finirà quando una donna che produce elettronica smetterà di fare notizia, quando i magazine non taggheranno come “inchiesta” un articolo titolato “Ma Grimes è figa o no?”. Quando ho iniziato a scrivere di musica non pensavo di fare nulla di originale. Oggi farlo serve a rendere banale parlarne e farla.


Giulia Cavaliere - scrive di musica e cultura pop per alcune riviste cartacee e online tra cui Rockit e Linus, fa parte della redazione di The Towner e Prismo.

"Le donne non capiscono un cazzo di musica" è una frase che ho sentito pronunciare spesso, non so quante volte da che parlo con altri di musica - cioè praticamente da sempre. Nella maggior parte dei casi mi veniva detta con quella modalità che vorrebbe lasciare intendere che "tutte le donne, tu presente esclusa, non capiscono un cazzo di musica", con quel tono che vorrebbe dimostrare che no, certo, tu sei diversa, tu hai guadagnato faticosamente la nostra stima, sei dei nostri, puoi discutere con noi e pensa, a volte, ma solo perché sei tu, puoi persino contraddirci. A pronunciare questa frase tanto decisiva sono sempre stati uomini con una cultura musicale medio-alta, in alcuni casi immensa, uomini che conoscono il rock, l'hip hop, il metal, l'elettronica, la bossa, che si commuovono ascoltando Billie Holiday e leggono avidamente della vita di Nina Simone, uomini che presenziano a un gran numero di live ogni anno, che per la musica prendono aerei e treni, fanno molte rinunce e che forse, proprio come me, sognano la propria vecchiaia da cultori della lirica. 

Una sera mi trovavo per la prima volta di fronte a un collega molto affermato, noto su scala nazionale come giornalista musicale ma anche un po' come giornalista tuttologo: radio, giornali, tv. Me lo presentarono amici in comune e fui felice e curiosa di ascoltarlo parlare dal vivo, di vederlo gesticolare enfatico raccontando di band e autori che anche io amavo. Molti gusti in comune—pensai: parliamone, sarà bello. Ricordo ancora nettamente il suo volto che mi guardava senza ascoltarmi una, due, tre volte, fino a quando, al quarto giro, del tutto incurante di questi sguardi scrutatori ed esaminatori, pronunciai evidentemente quella parolina magica, quella splendida nozioncina nerd magari del tutto irrilevante nella definizione della statura del nostro scambio, in grado di rendere visibile e non più trasparente la mia persona ai suoi occhi, di accendere in lui non dico la curiosità ma quantomeno una forma di autentica accettazione "ok ragazza, puoi parlare, ti vedo, ci sei". 

Se scrivi di canzoni italiane come faccio io, sei, sottesamente, "quella nostalgica" e in qualche modo, quella che, femmina, fa, tutto sommato, una cosa abbastanza da femmina. Le canzoni sono così sentimentali! Ah, questi cantautori che ti fanno struggere più che analizzare, che ti fanno piangere più che voler cercare! A volte capisci tutto questo da quel tono vagamente dispregiativo con cui senti pronunciare i nomi dei cantautori, insomma, lo senti un quel "Tenco" in quel "Califano", difficile raccontarvelo per iscritto, ma è qualcosa che somiglia in modo abbastanza decisivo a un "seh, vabbé", qualcosa che—sarà un caso?—non mi è mai arrivato diretto dalla voce di una ragazza. Quanto è difficile, insomma, far passare il fatto che nel buio della tua casetta di donna amante degli esordi di Riccardo Cocciante, ti spupazzi un sacco di Krautrock, che per ordinare Daniela Casa in vinile anche tu hai speso una discreta cifra e che no, quella maglietta di Future Days dei Can non è un po' di cotone a caso che ti è finito addosso. Quanto è difficile, dicevo, ma pure quanto non ci frega poi molto di dover far passare certi concetti, date le premesse.

Sono piccolezze, in apparenza, frasi, situazioni, concezioni come le tre descritte qua sopra, a popolare abbastanza frequentemente il mio mondo relazionale di donna-uomo che si occupano di musica; tutto potrebbere definirsi insomma nel fatto evidente, per quanto spesso non esplicitamete richiesto, di doversi guadagnare la possibilità di avere un'opinione scientifica tanto quanto quella del mio ideale equivalente maschile e di doverlo fare al di là di ciò che io scrivo, del doverlo fare per definizione perchè, tutto sommato, nella gag da pub del cultore assai edotto, alla fine "le donne non capiscono un cazzo di musica".

C'è un però: è bello quando non esiste nulla di tutto questo—e succede. Quando automaticamente sei considerata brava per quello che hai fatto, quando vieni scelta al posto di un altro perché "tu racconti in quel modo diverso, più attento, curato, vivo, qualcosa". A questo punto mi pare giusto e non scontato scriverlo: mi è stato detto spesso e non ho dimenticato il modo in cui ho sempre finito con il pensare che quel modo diverso, quel modo attento di cui mi stavano parlando, non derivasse dal mio essere donna ma dal mio essere una che ascolta con la stessa malattia Lory D mentre pulisce il bagno e Luigi Tenco alle 5 del mattino. 


Chiara Colli è nata a Roma nel 1983. Responsabile della rubrica musica di ZERO, scrive sul mensile Il Mucchio e il sabato sera conduce la trasmissione Crazy Rhythms dagli studi di Radio Città Aperta.

«Quando una ragazza è appassionata di musica, in genere è quella che le ha fatto conoscere il suo ragazzo. O al massimo il suo ex». Questa frase me la disse un amico circa quindici anni fa e ricordo che allora mi incazzai parecchio. Non solo perché, mio malgrado, tutti i ragazzi che avevo frequentato erano meno interessati alla musica di me, ma anche perché, col passare del tempo, la musica era sempre meno un interesse da condividere e sempre di più una fissazione circoscritta a un certo periodo della propria vita, perlopiù passato. Percepivo il pregiudizio, ma constatavo anche un più esteso pressapochismo, una superficialità che sarebbe divenuta l’anticamera di come oggi è recepita la musica: intrattenimento, una realtà relegata nella dimensione YouTube o al massimo di Spotify, roba da due concerti all’anno. Un problema culturale, di cui—in particolare in Italia—sono figli tanto le mappe sulle persone influenti all'interno del dibattito politico-culturale in cui compaiono pochi nomi femminili, tanto—entrando più nello specifico—commenti da Social Network secondo cui "alle femmine piacciono le lagne" (per amor di verità, però, ammetto che nella vita reale ho avuto la fortuna di non incontrare, almeno non spesso, questo tipo di persone).

Saranno gli anni che passano, ma della citazione iniziale—non totalmente inverificata, sia chiaro—oggi coglierei più gli elementi grotteschi che quelli provocatori. Qualcosa di molto vicino al ritrovarsi a discutere di unioni civili o risparmio energetico nel 2016. È indiscusso che il dato di fatto sia presente, che le donne che si interessano e occupano di musica—in qualsiasi settore, giornalistico, ma anche della produzione di eventi o come musiciste—siano meno degli uomini, fatto salvo, forse, l’ambito della comunicazione intesa come ufficio stampa. Questa ultima considerazione mi fa pensare a un’amica, molto colta (mi si conceda questo termine un po’ rétro), a cui un giorno sentii dire «Decisi di lavorare come ufficio stampa perché non mi sentivo all’altezza di fare la giornalista». Nell’impossibilità di generalizzare, di attribuire a un’unica causa le ragioni di una situazione composita, a fronte di un diffuso retaggio culturale per cui ci esistono “lavori/ambiti da uomini” e “da donna”, è possibile che una certa scrupolosità—il cui retro della medaglia è la mancanza di faccia tosta o anche una minore intraprendenza—amplificata da fattori esterni, porti a filtrare quelle che potrebbero essere potenziali giornaliste in settori che come ambito di interesse appartengono in misura maggiore, anche come fruizione, agli uomini.

Ciò detto, per quanto l’informazione e la possibilità di affrontare tematiche effettivamente esistenti ma passate inosservate (o date per scontate) per anni siano uno strumento utile, trovo altrettanto inefficace se a sollevare la questione donne vs industria musicale siano perlopiù gli stessi soggetti coinvolti. Trovo inefficace qualsiasi tipo di discorso e atteggiamento mentale che accentui distinzioni di genere, in quanto autoreferenziali e ghettizzanti. Un esempio concreto nell’ambito del settore specializzato, ovvero quello in cui il divario è più consistente: Il Mucchio e Blow Up. Da una parte, un giornale con circa una metà di firme femminili, attorno al quale a un certo punto si è creato “un caso”, con relative digressioni (…), proprio per via di quella che pareva un’anomalia—l’integrazione di (relativamente) tante donne tra i collaboratori; dall’altra, una testata di sole firme maschili, con un taglio molto specializzato e un’identità forte, ma che trasmette un po’ l’idea di prodotto culturale realizzato da uomini e destinato perlopiù agli uomini (a questo punto, forse dovrei specificare che personalmente lo leggo tutti i mesi). Il ruolo dei media più o meno di settore dovrebbe essere quello di uscire da un simile dualismo, nell’ottica di offrire un servizio al lettore in cui la “questione di genere” non è un argomento meta-giornalistico in cui, peraltro, spendere inutilmente energie, ma uno strumento per moltiplicare i punti di vista. Se ci sono dei luoghi comuni sull’argomento donne vs industria musicale, il ruolo dei media non è, a mio parere, né metterli nero su bianco, né ignorarli, né tantomeno fare delle quote rosa. Ma uscirne fattivamente: magari evitando che sia ancora una donna a scrivere il prossimo pezzo sulle riot grrrrl.


Guia Cortassa - È redattrice di Ondarock, contributor di Loud and Quiet e reviewer per The Quietus.

“Di’ alla tua amica che sono preventivamente arrabbiato per la recensione perché non è un disco da signorine e che se ha bisogno di sapere cosa scrivere davvero di chiedermi pure”. Ho ricevuto veramente questo messaggio, per interposta persona, da un tizio a me totalmente sconosciuto (ed estraneo al mondo della critica musicale) a cui una delle mie migliori amiche aveva appena comunicato che stavo scrivendo del disco di una delle sue band preferite. La cosa che però, al tempo, mi aveva fatto maggiormente inorridire non era stato il commento idiota in sé, quanto la reazione della mia amica, per niente risentita, anzi, divertita da quella frasetta inopportuna, una battuta per lei del tutto normale e quasi buffa. 

La divisione per genere non solo dei consumi ma anche della produzione culturale è un falso retaggio che, però, persiste ancora oggi e vive di stereotipi e contraddizioni. 
Ma se nel primo caso rimarcarla è decisamente sbagliato proprio dal punto di vista concettuale (non esiste musica da o per uomini come non esiste quella da o per donne: la scelta dei consumi è individuale e personale), nel secondo la specificazione al femminile non è negativa come si potrebbe essere subito portati a pensare.
Che ancora oggi ci si stupisca perché Björk o Grimes producono da sole le proprie tracce, per fare un esempio, significa che non ci si aspetta che siano in grado di farlo. Se i problemi di inclusione e percezione dei ruoli non esistessero, non esisterebbe neanche quello stupore. E perché quello stupore scompaia, è necessario rimarcare che sì, sono donne e sì, sanno creare e produrre esattamente come i colleghi, finché non sarà assimilato e dato per scontato. 

La gender-blindness, la rimozione, pretendere che non esistano discriminazioni e differenze di approccio e spazio, è l’atteggiamento peggiore che si possa tenere in questi casi, data la predominanza ancora maschile dell’industria musicale.
The Quietus, una delle webzine musicali independenti più famose e autorevoli, alla fine del 2014 ha lanciato una campagna di ricerca di collaboratrici donne, per equilibrare la presenza di voci all’interno della redazione. “The only time we’ve ever seen a readership analysis, we were pleasantly surprised to find out that there’s a near 50/50 male/female distribution among our readers and I’m pretty sure few other music titles can boast that. An obvious way for us to try and maintain this balance is not just to write about more female artists but ensure there are more female voices on the site full stop”, scrisse il direttore John Doran nell’editoriale di fine anno. Una mossa che aprì la strada ad iniziative molto simili in numerosi altri media di settore in Gran Bretagna.
Sarebbe bello vedere la stessa cosa accadere anche in Italia, invece di sentire continuamente ripetere “non siamo noi a non voler collaboratrici donne, sono le donne che non scrivono”. 


Irene Papa - scrive per DLSO, DJ Mag e ZERO.

Premessa: scrivere questo pezzo ha generato nelle mie vene un misto di sangue che ribolle dalla rabbia e serena accettazione che questa società non ce la farà mai. A far cosa? A smetterla di esprimere opinioni sulle persone in base a ciò che sono e non in base alle loro idee.

Detto questo, affrontare l’annoso tema donne e musica non è facile, per un cazzo. Si rischia continuamente di cadere in fastidiosi quanto falsi cliché e provare a restituire una fotografia realistica della situazione è davvero complicato. Ci sono troppi argomenti che si insinuano lateralmente al problema principale (perché sì, abbiamo un problema) e sviscerarli uno ad uno fa venire la labirintite. Ho riflettuto tuttavia sulle affermazioni che mi capita più frequentemente di ascoltare sull’argomento e queste sono le risposte scaturite dalle mie esperienze.

Cliché n.1: la musica tendenzialmente interessa più agli uomini che alle donne.
Senza andare a fare un distinguo tra generi, che vorrei affrontare più avanti, credo che la risposta sia no. Giro per club, festival e concerti da quando avevo 14 anni e non ho mai notato onestamente una prevalenza di genere sessuale all’interno del pubblico. Parlo delle serate pettinate nei club di provincia dove al massimo conoscono Luca Agnelli, come delle serate di Buka con Andy Stott a Milano, passando per festival pieni di act innegabilmente famosi a Torino, a Londra o in Croazia. Trovo che l’audience sia sempre stata eterogenea ben oltre le mie aspettative. Le donne girano, spendono per divertirsi, amano i locali.

E qui sento già le voci di chi sostiene che le donne si interessino alla musica solo quando trascinate dalla componente modaiola. Se dovessimo metterci ad analizzare le motivazioni alla base della fruizione musicale femminile, onestamente dovremmo porci le stesse domande anche relativamente agli uomini. Circoscriviamo per un attimo il discorso ai club, e stringiamo ancora di più il cerchio parlando solo dei posti che fanno musica elettronica ritenuta colta e destinata ad un pubblico di intenditori: quanti ragazzi ci vanno per il sound e per l’esperienza musicale fine a se stessa? Io di club “intelligenti” ne frequento parecchi e il 90% delle volte sono circondata da uomini che hanno assunto una buona dose di stupefacenti e neanche ricordano la lineup. C’è qualcosa di male? Assolutamente no. Mi chiedo solo perché stiamo qui a fare le filippiche su quanto le donne siano interessate alla musica quando mi pare che il pubblico maschile abbia spesso ben altri obiettivi. Ed è sotto gli occhi di tutti. 

Cliché n.2: è un problema di genere. Il pop piace alle femmine, l’elettronica ai maschi.
Ancora una volta, credo che mettersi a questionare sulla tipologia di musica che piace alla maggioranza del pubblico femminile sia un atteggiamento testosteronico e supponente. La musica non è né politica né tantomeno macroeconomia e non capisco quali evidenze si tirino fuori nel sottolineare che le femmine ascoltano le Icona Pop o Ellie Goulding. Davvero, è una domanda sincera: qualcuno mi spiega se a me piace il rosso e a voi il blu, che differenza socio-antropologica esiste tra me e voi? La musica è libertà, è vibrazione, è una colonna sonora soggettiva e non c’è nulla di più opinabile del gusto. Ma che ve ne frega a voi di quello che ascoltano o producono le “ragazze”? Le riflessioni su questo tema scritte dagli uomini nascondono il più delle volte la volontà neanche troppo velata di manifestare una superiorità. Nessuno vuole davvero analizzare il fenomeno perché incuriosito o preoccupato da un’atavica carenza di quote rosa.

Il discorso diventa poi ancora più sintomatico se ci spostiamo dall’elettronica di nicchia all’EDM: cos’è l’EDM se non una versione zarra del pop? Le dinamiche artista-pubblico, l’estetica stucchevole, l’idolatria diffusa sono caratteristiche mutuate dalla pop music. Siamo proprio sicuri di volerci vantare che l’EDM sia un mondo maschile, additando le femmine di apprezzare solo le canzonette facili, acustiche, melodiche?

Cliché n.3: non ci sono abbastanza donne che fanno musica, soprattutto nell’elettronica.
Non esiste una risposta univoca a questo manifesto, dipende da che punto di osservazione si guarda il mondo. Credete che il solo universo a prevalenza femminile sia il pop? Vi state fermando alla superficie. Portate la mente al jazz degli anni Quaranta o all’R’n’B dei Novanta: sono generi meravigliosamente dominati dalle donne, ed è una cosa talmente naturale che nessuno sta qui a rimarcare l’importanza rivestita da Etta James o da Mary J.Blige, è semplicemente stratificata in noi. Per quanto riguarda l’elettronica, tutto sta a cercare nei luoghi giusti: Matilde Davoli, Estel Luz, Elisa Bee, Caterina Barbieri, Any Other (sono solo le prime che mi vengono in mente e ho escluso tutto quello che ritengo indie per non aprire un capitolo parallelo) sono artiste conosciute tanto quanto Furtherset o Lamusa che se ne vanno all’Academy di Red Bull e stanno tutti qui ad elogiare. Il problema non è se le donne nell’elettronica siano abbastanza. Il problema è se l’elettronica—per di più italiana—non sia un ambito troppo piccolo per restituirci una panoramica veritiera della presenza delle donne nella musica. Se si è appassionati di questo genere, non si avranno grosse difficoltà nel trovare artiste donne che a vari livelli ne fanno parte. Se non lo si ama, risulterà sconosciuta anche Nina Kraviz che raduna migliaia di persone ogni weekend. Smettiamola di dire che le donne nell’elettronica siano una minoranza. È l’elettronica stessa ad esserlo e gli artisti rilevanti si contano sulle dita di una mano, maschi o femmine che siano.

Cliché n.4: i media rimarcano il sesso dell’artista solo quando è donna. Questo approccio alimenta il maschilismo?
Decisamente sì. E il problema non riguarda soltanto il modo in cui affrontano le questioni di genere. Quando Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti nel 2008, nessuno ha scritto che è stato il primo uomo venuto dal popolo dopo anni di oligarchia repubblicana. Hanno sottolineato tutti che era nero. Quando Samantha Cristoforetti è andata nello spazio, tutti giù a titolare che è stata la prima donna italiana a riuscire in questa impresa. Nero, donna, omosessuale, handicappato: non sono mai le idee che ci portiamo dentro a fare notizia, sono le caratteristiche fisiologiche differenzianti ad attirare l’attenzione.

Allora io dico: fregatevene se vi fanno pesare che siete donne come se fosse qualcosa di innaturale da sottolineare, in qualsiasi settore e in particolar modo in quello musicale. Ribaltiamo la situazione, approfittiamo di questa attenzione che tutti ci dedicano in quanto giornaliste, produttrici, artiste, DJ che occupano un posto ritenuto non loro e sdoganiamo un nuovo modello dove il risultato a cui ambire siamo noi e non i nostri colleghi uomini. Abbiamo tutte le carte in regola per essere le donne in cui le nuove generazioni vogliono identificarsi, senza aver bisogno dell’approvazione di papà.


Sonia Garcia - resiste nella redazione di Noisey fin dal primo giorno.

La mia personalissima esperienza nel campo dell'editoria musicale è breve e disseminata di momenti in cui credo di non avere dati sufficienti per maturare idee a riguardo, specie se si tratta di temi come donne, rapporto uomini-donne e tutto il vasto corredo di controversie lavorative che la convivenza di queste due enormi fette di genere umano comporta. Nell'approcciarmi a questi temi provo scomodità non perché viviamo in chissà quale nefando Paese o epoca storica, ma perché sulla mia pelle ho dovuto constatare che molte persone—in prevalenza uomini, ma fa poca differenza a questo punto—faticano a tenere in piedi pensieri del genere, e risolvono a monte la cosa declassandola, sminuendola. "C'è ben altro di cui parlare, altri problemi di cui trattare," è la risposta più comune, e se lo è in tema diritti civili e ddl Cirinnà, figuriamoci quando ci soffermiamo a parlare di musica e industria musicale, frammenti apparentemente ancora più inutili di vita quotidiana.

L''ESISTENZA di problematiche che riguardano la parità di trattamento, opportunità o anche solo percezione del lavoro svolto da una donna in ambito musicale è già di per sé un'enorme carie incurata per molti uomini, aziende, redazioni, band, etc. Una carie che si spera sempre vada via, o si affievolisca da sola, senza interferenza alcuna. Per molti, anzi, sembra quasi indispensabile rimarcare la distinzione spirituale tra uomo e donna, usandola come giustificazione agli episodi più disparati e spesso ridicoli. Il livello di dialogo è davvero questo: ci credo che poi c'è gente che mette in discussione—nel più meschino e avvilente dei modi—il significato dellla parola "stupro", o che utilizza come titolo di un'intervista una frase "rivolta alle donne", meglio se riguardante il proprio corpo.

C'è sempre un dirupo tra le parole che si spendono per sensibilizzare un pubblico a partire dalle basi—come ho fatto io ora, cioè dall'ammissione che questa cosa è reale—al modo in cui il pubblico poi metabolizza l'informazione e ci convive. Alcuni arrivano, proprio forti di questa consapevolezza, a supportare l'esistenza delle scene musicali a prevalenza maschile, come se effettivamente abbia senso la disparità di genere, vedi l'EDM, il rock, il metal, il rap, la club music in generale. Festival musicali a lineup paritarie non solo sono la norma in Paesi che non siano l'Italia, ma probabilmente sono anche i più promettenti a livello di qualità e freschezza; come ha detto un mio amico l'altro giorno, "Vai lì e ti ascolti la musica perlomeno del 2015, e non del 2013 come le serate qui a Milano." Serate in cui la lineup è cento percento maschile più per beata incoscienza che per convinzione. Alle poche tipe che suonano viene detto di "pestare" di più e via, spazio e tempo per agire diversamente non c'è e non c'è mai stato. 

Arriverà un momento in cui sarà cristallino agli occhi di tutti che progresso è anche intersezione tra interessi e volontà primarie di ogni individuo, che puntino alla distruzione delle barriere di razzismo e misoginia in toto, e non ci si può certo permettere di ragionare per compartimenti stagni. Ma, finché non sarà così, una soluzione che sul momento aiuta molte, moltissime ragazze a sentirsi più sicure è barricarsi in fortezze di sole donne e affrontare insieme l'inferno dell'industria musicale male-dominated, con la forza intrinseca della primordiale solidarietà tra donne di cui la fortezza stessa si permea. Staycore ed Electronic Girls sono giusto un paio di nomi, e uno è pure italiano. Questa prassi non è tuttavia abbastanza lungimirante, secondo me. Una tattica del genere può valere per chi fa musica, ma chi ne fruisce ha bisogno di altre impalcature che garantiscano un piano di appoggio stabile a cui fare affidamento ogni singola volta che il tema viene nominato. La coscienza collettiva di gente che per esempio "scrive di musica" deve passare dall'inesistente al militante, e per farlo basta ricordarsi che il senso di omertà latente non è eterno come sembra, ma può essere lavato via. Siamo qui apposta.

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La copertina dell'album di Renato Zero è pericolosamente simile a quella di Marra

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Vi ricordate la copertina di Status, uno degli album rap più bombazzi dello scorso anno? Se non ve la ricordate poco male, perché Renato Zero ne ha fatta una che, se non identica (diciamo che nonostante la somiglianza tra lui e Marracash, i due artisti non sono comunque la stessa persona), è molto simile a quella. Pare che nel gioco di rinnovamento dell'industria discografica italiana, oltre a ispirarsi liberamente a successi esteri nelle produzioni, ora ci si ispiri anche per quanto riguarda gli artwork. 

Del fattaccio si è accorto Emiliano Colasanti, che ha prontamente segnalato la cosa al buon Marra, il quale ha risposto con una risata. Male, molto male, perché noi se fossimo in te, caro Marracash, avremmo approfittato di questa occasione per chiedere all'altro uomo mascherato, Renatone, un bel featuring. Vi ci vediamo in una nuova versione di "Real Royal Street Rap" in cui Zero prende il posto di Lauro e voi due ve ne andate in giro per Roma come due eroi mascherati. Anzi, forse meglio tenere anche Lauro, che il triangolo è qualcosa che a Zero è sempre piaciuto. 

Pensateci!

Intanto ecco il mashup del progetto collaborativo ZeroCash, che si intitola Siedi.

 

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Che senso hanno le recensioni musicali nel 2016?

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Illustrazione di John Garrison

Il giorno venerdì tredici febbraio del 1970 una piccola band di Birmingham pubblica il suo debut, Black Sabbath. Poco dopo la sua uscita, il disco approda sul mercato statunitense e un critico musicale emergente di nome Lester Bangs si siede di fronte alla sua macchina da scrivere e inizia a schiacciare forsennatamente sui tasti per una notte intera, fino a che non gli escono ben cinque paragrafi che parlano del disco. Quei cinque paragrafi sarebbero poi stati pubblicati sul magazine Rolling Stone. Delle 575 parole uscite dalla penna di Bangs, nemmeno una era positiva: una stroncatura apocalittica, da capo a piedi. Il frontman Ozzy Osbourne non si degna neppure di leggere quella recensione. Tutti i musicisti, solitamente, affermano di non curarsi delle recensioni, ma nel caso di Osbourne, che è dislessico, probabilmente l'affermazione è davvero plausibile. Chiaramente, però, i suoi colleghi gli avranno riferito il contenuto della recensione, riportandogli il succo della questione tramite parole chiave inclementi usate da Bangs. 

“Bangs è morto dodici anni più tardi, aveva solto trentatré anni, e ho sentito molta gente sostenere che fosse un genio delle parole," scrive Osbourne nella sua autobiografia I Am Ozzy, datata 2010. "Ma per noi non era molto più che l'ennesimo coglione pretenzioso."

Bangs non era il solo ad aver smerdato i Black Sabbath. L'album non ricevette una grande accoglienza da parte della critica. Robert Christgau, che scriveva per The Village Voice, lo aveva definito “bullshit necromancy.” Un altro critico aveva infangato così a fondo il chitarrista Tony Iommi che, una volta che i due si trovarono faccia a faccia in un hotel di Glasgow, "Tony era passato alle mani, tanto che quel tipo aveva rischiato di finire all'ospedale," secondo le parole di Osbourne.  

Il tempo ha provato che Bangs e i suoi compari si sbagliavano di grosso. L'album, nonostante il poco consenso della critica, ha avuto il suo corso d'onore e ha venduto milioni di copie, oltre ad essere considerato una pietra miliare dell'heavy metal. Rolling Stone è addrittura tornata sui suoi passi qualche tempo dopo, cercando di rimediare all'errore mettendolo al numero 238 della sua lista dei 500 migliori album di tutti i tempi. 

E allora perché le recensioni negative, ai tempi, avevano indisposto i Black Sabbath al punto di portare Iommi a voler prendere a pugni in faccia un critico e Ozzy a ricordarsi quelle esatte parole per ben 40 anni? Semplice. Nel 1970—quando ancora Internet, MTV e le radio satellitari non esistevano—le recensioni erano una valida fonte di informazioni per chi seguiva la musica. Le recensioni erano la base per farsi un'opionione. Le recensioni erano la base per vendere dischi.

Lo stesso Bangs ha contribuito a sminuire il proprio ruolo e quello della critica confessando, nell'ultima intervista rilasciata, che: “Siamo onesti, se senti un pezzo alla radio, ascoltarlo ti porterà a comprarti quel disco molto più di ogni cosa che ci potrai leggere. Specialmente perché parecchia gente non ama nemmeno leggere." 
In questo, Bangs aveva decisamente centrato il punto: i più grandi nemici di un critico musicale sono le orecchie degli ascoltatori. Per quale motivo dovremmo affidarci alle parole di qualche snob impomatato quando il nostro cervello è in grado di elaborare secondo il proprio gusto se qualcosa fa per noi o meno? Quello che Bangs non poteva sapere era che, qualche decina di anni dopo la sua morte, ogni paio di orecchie in circolazione avrebbe avuto a sua disposizione una libreria praticamente infinita di album, canzoni, bootleg e mixtape risalenti a qualsiasi epoca, e per ascoltare una qualunque di queste cose gli sarebbe bastato pigiare un bottone.

Viviamo in un'epoca che Bangs non ha mai visto. Ci sono così tanti servizi di streaming in competizione—Spotify, Pandora, YouTube, Apple Music, Tidal, Google Play, Amazon Prime, Rhapsody, 8tracks, Soundcloud e Bandcamp, tanto per nominarne alcuni (senza citare il mercato dei download illegali)—che ci vorrebbero centinaia di migliaia di anni per ascoltare proprio tutto. Per cui, con ogni uscita disponibile istantaneamente a portata delle nostre orecchie, viene da chiedersi: abbiamo ancora bisogno delle recensioni?

"Le recensioni degli album erano una parte fondamentale dell'industria discografica quando la carta stampata la faceva da padrone, insieme al passaparola, alle radio e ai video", mi dice Pam Nashel Leto, addetta stampa di Girlie Action. Leto lavora come addetta stampa dal 1998 e si è occupata della promozione di Elliott Smith, degli Spiritualized e dei White Stripes. "A quei tempi, le recensioni avevano un peso importante; una recensione positiva in riviste come SPIN, Rolling Stone, The Source, Magnet The New York Times bastava a rendere curiosi i lettori abbastanza da farli andare a comprare l'album—in un vero negozio di dischi—o a vedere l'artista dal vivo, a volte anche senza aver mai sentito una canzone".

Da quando la carta stampata è passata in secondo piano, addetti stampa come Leto hanno cercato copertura mediatica per la propria musica da altre parti, cioè su Internet. Mentre si può dire che l'ascesa di Internet abbia praticamente ucciso la recensione su carta, o perlomeno che l'abbia relegata alle ultime pagine delle poche pubblicazioni rimanenti, ha anche dato luce a un nuovo tipo di critico: il blogger.

Nel corso degli anni Duemila, mentre giornali e riviste cercavano controvoglia di crearsi nuove nicchie online, le recensioni e il resto del giornalismo musicale continuavano a operare secondo un modello molto Web 1.0. I siti esistevano come oggetti statici, il potere rimaneva centralizzato e si continuavano a distinguere gli iniziati: coloro che avevano accesso ad album e comunicati stampa prima del pubblico. In generale, non c'era alcuno scambio con i lettori a meno che agli iniziati non venisse voglia di farsi un giro tra i bassifondi della sezione commenti.

Gradualmente, con la crescita di popolarità dei blog, la gente normale ha colto l'opportunità di strappare lo scettro della critica dalle mani delle pubblicazioni storiche. Webzine come Pitchfork e Buddyhead, che sono entrambe cominciate come progetti individuali da cameretta nei tardi anni Novanta, hanno acquisito rilievo grazie all'analisi critica senza filtri, senza esperienza, soggettiva che fornivano, conquistandosi un seguito che è arrivato a concorrere con quello di pubblicazioni finanziate da grandi corporation come Rolling Stone SPIN. Sono serviti da rimpiazzo per il vecchio mondo del giornalismo musicale che richiedeva coordinatori, correttori di bozze, uffici. A differenza delle piccole 'zine a tiratura limitata, questi siti avevano la possibilità di essere letti da tutto il mondo. Tabula rasa: chiunque abbia una connessione internet può diventare un critico musicale. 

Alcuni di questi blog hanno raggiunto uno status più legittimo nel corso del decennio che è seguito: Pitchfork è l'esempio più noto, essendo stato acquistato l'anno scorso da Condé Nast. Ma anche Pitchfork, punto di riferimento universale per le recensioni di album per più di dieci anni, oggi sta perdendo terreno rispetto alle opinioni espresse in tempo reale dalla popolazione tramite i social media.

"Il paradigma della recensione di Pitchfork per cui se finisci su Best New Music all'improvviso la tua carriera spicca il volo, penso, è quasi morto", dice Ian Cohen, che recensisce dischi su Pitchfork dal 2007. Cohen cita gruppi del boom indie rock di metà anni Duemila che hanno beneficiato del tocco da Re Mida di una recensione entusiasta su Pitchfork. Progetti come Broken Social Scene, Arcade Fire e Clap Your Hands Say Yeah—i quali ricevettero tutti l'ambito titolo di Best New Music tra il 2004 e il 2005—videro i propri numeri di pubblico e di vendite aumentare velocemente, un successo che è facile attribuire direttamente alle recensioni su Pitchfork. C'era un rapporto di mutuo beneficio tra il sito e gli artisti. Pitchfork pompava alcuni artisti che poi sarebbero diventati piuttosto famosi, così che Pitchfork finiva per avere una reputazione di saggezza e competenza, fino a sedersi sul trono di re dei tastemaker della musica figa. Ma con le conversazioni culturali a sfondo musicale che si svolgono su Internet a velocità sempre crescenti, la dinamica sta cambiando. 

"Ho sentito dire recentemente che il nuovo Pitchfork sono i ragazzi che discutono su Twitter", dice Cohen. "Se nascessero dei nuovi Arcade Fire, o dei nuovi Broken Social Scene, se ci fossero dei nuovi Clap Your Hands Say Yeah, verrebbero riconosciuti prima da loro che da Pitchfork". È finito il tempo in cui una recensione su Pitchfork o su un altro sito si poteva individuare come Paziente Zero per il successo di un artista.

Meaghan Garvey, un'altra ex-autrice di recensioni della redazione di Pitchfork, concorda. "Per brutta che sia la parola 'tastemaker', non penso che si possa più usare per i critici o i giornalisti. È la gente comune su Twitter o Instagram che modella i gusti della comunità", dice. "Nel tempo che ci metti a leggere una recensione, puoi ascoltare un terzo dell'album. E non è che i giornalisti forniscano importanti intuizioni o punti di vista che cambiano la prospettiva. È più facile che cerchino di rincorrere un diciottenne che ha un fantastilione di follower su Twitter ed è molto più fico di loro."

Chi punta a diventare un tastemaker deve adottare nuove strategie per far sentire la propria voce. Ad esempio, Anthony Fantano aveva fatto ben pochi progressi durante i due anni in cui aveva gestito un blog musicale e un podcast affiliato a NPR. Faceva fatica a farsi notare nel mucchio degli aspiranti critici. Ma prima di chiudere definitivamente con il suo sogno di una carriera nel giornalismo musicale, fece un ultimo tentativo. Piazzò una fotocamera digitale in salotto molto, molto vicino alla propria faccia e cominciò a recensire i dischi in formato video, esprimendo le proprie opinioni a braccio. Ora, con oltre 600 mila iscritti al suo canale YouTube, The Needle Drop, è una delle voci più influenti del panorama critico contemporaneo.

“Internet ha reso democratico il processo per cui qualcosa diventa popolare nella musica, e ha fatto la stessa cosa per il giornalismo musicale", dice Fantano. "Chiunque può esprimere la propria idea su un disco. Penso che il mondo delle recensioni e delle opinioni oggi sia una vera meritocrazia."

La critica musicale è diventata un'operazione personalizzabile, ma il lato negativo della questione è che, con così tante voci che cercano di sovrastarsi l'una con le altre, il tutto si è trasformato in una discarica di opinioni disinformate e discussioni avvelenate. L'introduzione di una nuova generazione di click-jockey non pagati o pagati pochissimo, di polemizzatori automatici e di opinionisti virtuali in competizione gli uni con gli altri per la recensione più veloce sono i fattori che ampiamente riconosciuti come causa di morte della critica professionale, per aver ridotto la ricezione collettiva dell'arte a una questione binaria di bello/fail, "figata o merda".

"Sembra che la funzione delle recensioni oggi sia intrappolata in un circolo vizioso di contenuti", dice Garvey, "per cui le persone che rispondono di più alle recensioni sono altri critici, o per leccare il culo all'autore o per punzecchiarlo o semplicemente per scrivere qualcosa su Twitter perché si annoiano. Si trasforma in questo cerchio chiuso in cui c'è una recensione, un editoriale che parla della recensione e poi quarantott'ore di discussione su Twitter. Non sembra che stia raggiungendo il pubblico giusto."

Per un esempio recente di quanto sia diventato chiuso il buco nero del giornalismo musicale, prendiamo la storia della band di Brooklyn, i Wet. A gennaio, Pitchfork ha pubblicato una recensione del debutto su major dei Wet, Don't You. La recensione era dura, dava al disco un misero punteggio di 4.0 e scherzava sul fatto che la band sembrasse un prodotto fabbricato dall'industria musicale, reso credibile con showcase dal vivo, playlist su BBC1 e clip sull'account Instagram di Khloe Kardashian. Poco dopo la sua pubblicazione, due redattori del sito Genius hanno pubblicato una recensione della recensione in forma di annotazioni, prendendo in esame le tesi della recensione e rispondendo per conto dei Wet, in effetti rendendo ancora più plausibile l'ipotesi della finta band creata a tavolino. Aspetta, non è ancora finita. Dopo la pubblicazione della recensione della recensione, e dopo che i vari critici avevano passato diverse ore a litigare su Twitter come loro si confà, Jezebel ha pubblicato un post di riepilogo di tutta la situazione. È difficile credere che un semplice ascoltatore di musica che vuole solo scoprire una nuova band sia disposto a seguire questa conversazione così in profondità, nel buco nero del contenuto, specialmente dopo che ha smesso di vertere effettivamente su come suona il disco. Ma aspetta! Prima di riemergere da tutti questi strati di Inception giornalistica, è d'uopo farvi notare che tutta questa storia viene riassunta nell'articolo sulla critica musicale che state leggendo. E magari qualcuno scriverà un articolo di risposta. È il cerchio della vita del contenuto.

da Genius

Non sorprende che la recensione negativa dei Wet abbia gettato Internet in una spirale di scimmiesco lancio di cacca. Le recensioni esplicitamente negative stanno diventando un fenomeno sempre più raro. Metacritic, un sito che aggrega le tante recensioni che riceve per album, film e video game, usa i colori per categorizzare la risposta generale da parte della stampa. Verde = recensioni generalmente positive, con un punteggio cumulativo del 61 percento o più. Giallo = mediocri, dal 41 al 60 percento. Rosso = cattive recensioni, sotto il 40 percento. Tra il 2013 e il 2015 non un singolo album è entrato nella categoria dei rossi. Ogni album uscito in quel periodo di tre anni ha avuto una media di risposta da parte dei critici buona o almeno mista. Bisogna andare indietro fino al 2012 per trovare l'unico album che è finito nella zona rossa: Fortune, di Chris Brown, e la risposta negativa era dovuta non tanto al calibro della musica, quanto alle recensioni che condannavano Brown per il suo passato da criminale e le sue aggressioni ai danni della sua ex compagna Rihanna. In poche parole, per avere una recensione negativa, negli ultimi quattro anni, bisogna letteralmente prendere a botte un altro musicista.

In confronto, nel mondo cinematografico, un medium in cui la data di uscita è ancora molto legata alle vendite—quelle vendite per cui la gente deve uscire di casa e aprire il portafogli—, gli standard critici sono ancora molto più alti. Nello stesso periodo tra il 2012 e il 2015 in cui nessun album è stato valutato come sotto la media qualitativa nella zona rossa di Metacritic, il 17,75 percento dei film usciti è stato rosso, il che tradotto significa 436 film (uno dei quali è Battle of the Year, un film sulla breakdance che comprende nel cast anche Chris Brown).

Allora perché le recensioni musicali si sono così ammorbidite? Qualcuno potrebbe dire che lo stato attuale del giornalismo musicale dipendente dagli sponsor e dai click ed è diventato troppo legato al successo degli artisti. La condivisione di un articolo sui Five Seconds of Summer sulla pagina Facebook ufficiale del gruppo, che conta oltre dieci milioni di fan, per esempio, porterà un picco di traffico al sito. Non importa quanto l'articolo sia scialbo o povero di contenuti (e uuuh, sappiamo quanto possono esserlo), una condivisione o un retweet da parte della band porterà i fan accaniti a inondare il sito di visite, facendo salire i dati di traffico mensili e rendendolo più appetibile agli sponsor. Per cui è nell'interesse della pubblicazione tendere a scrivere cose positive, specialmente degli artisti famosi.

Questo, in parte, è responsabile del risorgimento del poptimism: i critici saltano sul carrozzone dei vincitori invece di mettersi in prima linea a promuovere gli artisti meno conosciuti, rischiando qualcosa in più. In questo modo, artisti come Katy Perry e Taylor Swift dominano il ciclo giornaliero dei contenuti musicali, da lunghi editoriali che parlano del loro impatto culturale a liste di gatti che hanno instagrammato, e idoli dei giovanissimi come Justin Bieber conquistano la prima posizione nella classifica delle migliori canzoni dell'anno su rinomati siti musicali. Ogni voce che si levi contraria a questi artisti intoccabili viene soffocata online e trattata da clickbait o troll o semplicemente stronzaggine. Saul Austerlitz ha smontato in maniera piuttosto epica gli effetti del poptimism sul web con un articolo sul New York Times che dice: "Il poptimism utilizza ciò che è familiare per far mantenere una parvenza di rilevanza alla critica musicale. La cultura del click crea un sistema chiuso in cui si parla sempre di più degli artisti più famosi, che così diventano ancora più famosi, e se ne parla ancora di più. Ma la critica dovrebbe fornire degli stimoli ai lettori, non presentare semplicemente un bollino di approvazione. 

Oltre alla ricompensa del traffico in rete, però, ci sono altri motivi per cui ai siti conviene mantenere buoni rapporti con gli artisti. I siti e i grandi marchi che li possiedono hanno sempre bisogno di qualche favore: artisti da far esibire sul proprio palco al SXSW o che presentino una cerimonia di premiazioni, o etichette che comprino pop-up pubblicitari, o addetti stampa che diano una mano per ottenere quella grande intervista in esclusiva dopo che l'artista ha inevitabilmente toccato il fondo dopo essere stato filmato mentre guidava ubriaco in un drive-thru. Il confine tra la Chiesa e lo Stato spesso si confonde in questi accordi dietro le quinte.

Molti siti hanno abbandonato del tutto le recensioni (Noisey per esempio, smettetela di chiedercele). Quando Ben Westhoff divenne l'editor musicale all'LA Weekly nel 2011, una delle sue prime missioni fu proprio di smettere di pubblicare recensioni di dischi. "Non le leggeva praticamente nessuno", dice Westhoff. "L'altro problema è che è veramente difficile descrivere la musica a parole. Potrei usare paragrafi su paragrafi per descrivere un suono e non sarebbe comunque paragonabile a pochi secondi di ascolto". 

Le première sono invece passate alla ribalta per quanto riguarda la copertura delle nuove uscite. Nelle settimane precedenti al lancio di un album, l'artista lo promuove a singhiozzo sotto forma di première della prima traccia, della seconda traccia, del primo video, del video con il testo, della terza traccia, dell'artwork, della quarta traccia, e via di questo passo (una volta mi sono state proposte in esclusiva delle GIF di un video musicale—non tutte però, metà erano state promesse a un altro sito). Alle première manca la profondità critica della recensione, però. La maggior parte sono solo brevi biografie dell'artista, anzi, a seconda del sito, può arrivare a trattarsi di comunicati da due frasette contenenti una dichiarazione dell'artista fornita dall'addetto stampa e un link per il pre-ordine.

C'è un compromesso attaccato alle première. L'addetto stampa dell'artista promette di dirigere i fan su un certo sito e, in cambio, l'accordo implicito è che l'articolo del sito tenderà al positivo. Per avere un'idea di quante première vengano proposte ai siti musicali ogni giorno, ho appena cercato la parola "première" nella mia casella email e il mio computer ha preso fuoco, e poi ho ricevuto una mail che mi chiedeva se mi interessava una première della GIF della combustione. 

Gli artisti affermati con un pubblico fedele ormai hanno capito di avere il coltello dalla parte del manico nel gioco delle première, però, e potrebbe non essere un modello sostenibile ancora a lungo. Artisti mega-importanti come Beyoncé possono permettersi di lanciare un album a sorpresa alle tre di mattina il giorno di Natale e ogni singolo blogger correrà inciampando sui propri gatti (plurale) per postare la notizia. Ma anche le band di livello medio stanno incontrando un certo successo nel fungere da ufficio stampa di loro stesse. I Say Anything, per esempio, questo mese hanno pubblicato un album a sorpresa, I Don’t Think It Is, annunciandolo e mettendolo in streaming direttamente sul proprio sito internet per evitare la frammentazione traccia per traccia. "È un disco strano e funziona meglio come un'unità", mi ha detto il frontman Max Bernis. "Ascoltarlo canzone per canzone incasina le aspettative sull'album. C'è gente che non lo ascolta nemmeno se non gli piace la prima canzone".

È anche possibile che la critica musicale tenda a giudizi più positivi non solo per conquistare il favore degli artisti, ma anche per evitare la loro ira. Con l'accesso sempre crescente degli artisti ai social media, molti hanno iniziato a usarli per contrastare le critiche negative. Come vi possono raccontare Cohen, Garvey, Fantano e ogni altro critico che ha a cuore l'onestà della propria analisi critica, non è raro che un artista frustrato da una recensione negativa renda esplicito il proprio malcontento su Facebook o Twitter, e a volte nomini il critico per infangarlo. E sì, gli artisti leggono le recensioni, non c'è dubbio.

“Penso che gli artisti siano effettivamente gli unici a leggere le recensioni", dice ridendo il frontman dei Gaslight Anthem Brian Fallon. "Gli artisti e i propri collaboratori all'interno della label, gli addetti stampa e il management, loro leggono le recensioni. Tutto sta cambiando. In tour mi capitava di incontrare ragazzini che portavano riviste da firmare. Non succede più da anni."

L'ultimo album di Fallon, Get Hurt, è stato stroncato da Ian Cohen su Pitchfork e seppur Fallon abbia deciso di tenere per sé la propria delusione, è rimasto certamente colpito dalla risposta negativa, come succede a molti artisti, ed è in grado di citare praticamente a memoria la recensione. "Non ricordo affatto le recensioni positive. Penso sia una cosa che ha a che fare con la personalità artistica e la forte autocritica", dice Fallon. "La sala può essere piena di gente entusiasta e l'unica persona che dice 'fai schifo!' è anche l'unica che senti".

Non tutti gli artisti tengono la bocca chiusa come Fallon, però. Andrew Falkous, frontman dei Future of the Left, per esempio, è rimasto scottato sempre da Cohen su Pitchfork all'uscita dell'album del 2012 The Plot Against Common Sense, e ha scritto una risposta riga per riga sul suo blog dal tenore... be', diciamo solo che usava l'espressione “stupid cunt”. "Il fatto è che quella recensione uscì sette od otto giorni prima di ogni altra recensione", Falkous mi ha spiegato in un'intervista. "E anche una persona con un po' di senso critico può venire influenzata da una critica o dall'hype. Spesso si costruisce una certa narrazione e quelle prime parole possono finire per influenzare il punto di vista delle persone. Per cui ho pensato che fosse il caso di prendere posizione e rispondere velocemente 'vaffanculo'". 

Ma non riguarda solo il rock. Anche i rapper si sono scontrati con i critici. Wale una volta ha chiamato Complex per minacciarli dopo che il suo album The Gifted non era stato incluso nei "50 Migliori Album del 2013" e, lo scorso anno, Talib Kweli ha recensito la recensione di Pitchfork del suo album Indie 500 su Medium (voto: 3.6).

via Medium

"Alcuni artisti pensano che con una ripicca verso Pitchfork o SPIN ecc. loro abbiano vinto, abbiano preso il controllo della conversazione", dice Cohen. Ma mentre l'artista può anche pensare di aver vinto perché ha l'ultima parola, si può anche dire che così facendo diluiscano la propria arte. Creando uno scandalo attorno ai loro album che è cliccabile e ha un potenziale virale, tolgono attenzione alla qualità del proprio album. Tra cinque anni, quando gli ascoltatori di rap ripenseranno al disco di Wale, quanto si ricorderanno della musica e quanti delle battute e dei meme sulla sua telefonata di minacce?

Non serve un post da 1600 parole per lanciare una replica efficace, però. Con il semplice utilizzo di una "@" in un tweet, un artista può rovinare l'intera settimana di un critico, armando migliaia di fan che si scaglieranno contro il colpevole dell'offesa. A volte è innocuo e inoffensivo e può incoraggiare un dibattito pubblico. Ma può anche superare i confini della discussione civile ed entrare nel campo personale. Quando si tratta di giornaliste donne, le cose rischiano di farsi molto pesanti. Dopo che Lynn Hirschberg aveva parlato male di M.I.A. in The New York Times Magazine nel 2010, M.I.A. ha risposto twittando il numero di telefono della Hirschberg, portando i fan a chiamarla e lasciarle messaggi, una mossa che Hirschberg ha poi definito "non sorprendente, ma estremamente irritante".

Per cui forse la ragione per cui le recensioni sono diventate sempre meno negative è che i critici non hanno voglia di passare un intero pomeriggio a schivare insulti e minacce da parte di decisamente troppi avatar con un uovo per aver fatto notare che un artista ha cagato fuori un album che fa schifo. Garvey ricorda un caso in cui la sua recensione poco entusiastica di un album dei Future Brown scatenò una serie di vendette da parte del gruppo su Twitter e Facebook. "Erano andati a pescare roba della mia vita personale e finì per diventare una cosa meschina e bambinesca". Eppure, fa notare, "forse non è male che i critici vengano cazziati di tanto in tanto, per mantenere l'equilibrio del potere".  

Mentre artisti e critici giocano a ping pong gli uni con gli altri, compromettendo l'integrità della critica onesta con questa futile guerra fredda, gli ascoltatori—che dovrebbero essere i consumatori delle recensioni—finiscono spesso tirati in mezzo come figli di coppie divorziate. Le recensioni sono ancora certamente importanti per gli artisti, per i giornalisti e per gli addetti stampa, visto che se ne occupano ogni giorno, ma l'ascoltatore medio presta ancora attenzione? Secondo Andy Larsen, marketing manager del negozio di dischi Rough Trade a New York, sì e no.

“Dal punto di vista del negozio, vediamo che i dischi vendono di più quando ricevono il titolo di Best New Music o comunque un voto alto da Pitchfork, ecc.", dice. "I clienti senza dubbio cercano e fanno domande sulla musica che ha recensioni positive". Ma d'altra parte alcune vendite sono a prova di recensione. "Alcuni artisti vanno oltre la recensione. Non importa se hanno una recensione negativa o positiva su un blog o una rivista. Se hanno un pubblico fedele, nemmeno la peggior recensione possibile farà diminuire le vendite".

Per cui in fondo c'è un certo potere rimasto nella parola scritta dopotutto, e potrebbe essere prematuro dichiarare morta la recensione. Ma è certo che stia legata a un filo sopra una fossa comune piena di floppy disk, tessere di Blockbuster e CD degli Hot Hot Heat. La recensione, come la musica stessa, corre il rischio di diventare una forma d'arte diluita dalla tendenza smodata di Internet a livellarsi verso il suo minimo comune denominatore. 

Ma forse è questo che la gente ha sempre voluto dalla critica: di sentirsi semplicemente dire quello che già sapeva, di rinforzare le opinioni che già aveva e di leggere parole positive rispetto alle cose che le piacciono, annuendo con soddisfazione senza essere messa in difficoltà. Ci sarà sempre buona musica là fuori, ma grazie a questa democratizzazione (e diluizione) della tradizionale critica musicale, con il suo vecchio ufficio scricchiolante, la recensione, voi, gli ascoltatori, siete soli, alla mercé delle vostre opinioni. Dopotutto, se ce la faceva Lester Bangs, ce la potete fare anche voi.

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Il ritorno di Bruce su Hessle Audio

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L'esordio di Bruce come producer è arrivato a metà del 2014, per quella che è la cricca di più strenui lavoratori del suono bass UK: Hessle Audio. Ce lo ha presentato come uno dedito all'esplorazione del groove rotondo sia quando si tratta di cassa dritta che di rullare in versione più garage, tra energia UK hardcore e suggestione acida. Dopo un paio di EP su altre label e un botto di DJ set in giro per l'europa il nostro è oggi tornato all'ovile ed ha pubblicato un nuovo 12" a tre tracce.

A questo giro ci presenta il suo lato più austero e sperimentale, ma in cui il groove spezzato resta asciutto e diretto: se "Steals" è piena di scosse profonde da subwoofer armati, "Relevant Again" e "Petal Pluck" giocano a decostruire del tutto le basi di partenza: la prima chiudendosi in un isolazionismo che si disintegra sotto riverberi radicali, la seconda seguendo una sequenza di synth modulari che pare auto-costruirsi. È fuori il 25 marzo, intanto ascoltatevi l'anteprima qui sotto.

L'amicizia tra A$ap Rocky e Tyler The Creator è commovente

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Alcune delle coppie artistiche che rispettiamo di più—Sonny e Cher, Beyoncé e Jay-Z, Giovanni Caccamo e Debora Iurato—hanno inaugurato la loro relazione proprio sul palcoscenico. Forse una delle bromance più toccanti cui assistiamo negli ultimi tempi è quella tra A$AP Rocky e Tyler, the Creator: due personalità scoppiettanti che, incredibilmente, quando si trovano nella stessa stanza si rivelano una miscela esplosiva.

Dopo anni in cui giravano voci di una rivalità tra A$AP Mob e Odd Future, la coppia si è unita per un piccolo tour, lo scorso anno. Forse ve ne ricorderete perché i trailer di quel tour erano veramente esilaranti. Bene, dopo il successo dei loro concerti insieme, Rocky preso da un senso di mancanza è andato a trovare il fratello Tyler al suo show su GOLF Radio, e i due hanno ricordato quanto se la sono spassata insieme, hanno battibeccato su chi sia il migliore ad andare sui go-kart, discutendo successivamente dell'importanza del drifting su Mario Kart. 

Nel gioco di botta e risposta sempre più serrato, si arriva al punto in cui Rocky decide di imitare il suo compagno e host, e lo fa da dio, dato che in certi momenti sembra più Tyler del Tyler che s prende per il culo da solo. 

Potete vedere il video qui sotto, e poi utilizzarlo per confessare al vostro collega che, in fondo, è anche un vostro amico, e mettere così anche voi piede nel bellissimo mondo delle amicizie tra colleghi.

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Scott Carlson ha studiato i serial killer per entrare nei Church Of Misery

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Foto per gentile concessione di Rise Above Records

Quando il bassista e fondatore dei Church Of Misery Tatsu Mikami si è trovato improvvisamente senza band nel 2014, il veterano del doom non ha convocato altri musicisti giapponesi come aveva fatto in passato. Dopo essersi consultato con il suo amico Lee Dorrian della Rise Above Records, che pubblica i suoi dischi, ha deciso di guardare all'America. Il risultato è che il sesto album dei Church Of Misery, And Then There Were None, vede alla batteria Eric Little degli Earthride, alla chitarra Dave "Depraved" Szulkin dei Blood Farmers e—forse il più sorprendente di tutti—il frontman dei Repulsion Scott Carlson alla voce.

In effetti, Carlson sembra anche il più sorpreso di tutti. "Di tutte le band con cui pensavo sarebbe stato figo lavorare, non mi sarei mai aspettato di essere chiamato nei Church Of Misery", ci racconta quando lo andiamo a trovare nel suo appartamento di Los Angeles. "È un po' quello che ha reso il tutto una figata. Non era uno dei miei amici a chiedermi di provare qualcosa—è questo tizio dal Giappone che ho incontrato appena un paio di volte. È stata una cosa tanto inaspettata che ho pensato che sarebbe stata una bomba".

Vale la pena ricordare che Carlson non scrive liriche né canta su un intero album da Horrified dei Repulsion, una pietra miliare del metal estremo che si può dire abbia inventato il death metal e il grindcore in un unico colpo di mazza chiodata, che fu registrato nel 1986. Su And Then There Were None, Carlson ha sposato la tradizione dei Church Of Misery di scrivere esclusivamente canzoni che parlino di serial killer. Mikami ha suggerito candidati maturi come il medico inglese Harold Shipman, che nei primi anni Duemila è stato trovato colpevole dell'omicidio di quindici pazienti, e un altro inglese, John George Haigh, a.k.a. "Acid Bath Killer", che si disfava dei corpi delle proprie vittime in una vasca di acido solforico negli anni Quaranta. Ma Carlson ha anche portato avanti delle ricerche in autonomia, dalle quali sono emersi svariati assassini degni di nota—tra cui la "nostrana" Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio. 

Noisey: Come sei finito su un album dei Church Of Misery?
Scott Carlson
: Avevo incontrato Tatsu in diverse occasioni, abbiamo passato un paio di serate assieme. Mentre stava scrivendo questo album, il resto della band lo ha abbandonato, e in qualche modo il mio nome è venuto fuori parlando con Lee Dorrian di potenziali cantanti. Lee ha pensato che fosse una buona idea, così mi hanno contattato e mi hanno chiesto se mi andava di cantare e scrivere i testi per un nuovo album. Visto che era passato un bel po' di tempo dall'ultima volta che avevo scritto un intero album di testi—e cantato su un intero album—ho pensato di accettare la sfida. Adoro la musica dei Church Of Misery, per cui ero davvero carico fin dall'inizio.

Tatsu ti ha mai detto perché abbia scelto proprio te?
No. Ha solo detto che gli piace come canto. Gli piacevano i Death Breath e i Repulsion, per cui ha semplicemente detto: "Fa' quello che sai fare". Ho dovuto pensare bene a come far funzionare il mio stile con delle canzoni lente, perché sono abituato a urlare su brevi stacchi veloci. I Church Of Misery sono un po' diversi dal death metal perché devi tenere le note un po' più a lungo. Ma a parte quello, è sempre la stessa cosa.

Tutte le canzoni dei Church Of Misery parlano di serial killer, e tu ovviamente sapevi questa cosa dall'inizio. Ti piaceva come idea?
A dir la verità, no. Ma quando ho cominciato a fare ricerche, mi sono lasciato ispirare. L'idea di scrivere canzoni su mostri reali e abominevoli atti di violenza non mi attirava molto. Ma una volta che ho cominciato a vederla più da un punto di vista psicologico, ci sono entrato dentro di più. Per cui ho chiesto a Tatsu una lista di killer che avesse già coperto, e tutte le superstar erano già state spuntate, come Son of Sam e H.H. Holmes. Naturalmente ogni assassinio è una brutta cosa, ma l'unica cosa di cui non volevo assolutamente scrivere erano molestatori di donne o bambini o cose del genere. Volevo trovare gente che avesse casi interessanti, o un dettaglio che rendesse la solita storia di serial killer più interessante. E in qualche caso l'ho trovato, insieme a serial killer per cui Tatsu era contentissimo di avere finalmente una canzone, come John Haigh, l'"Acid Bath Killer". Tatsu aveva già in mente di mettere una sua foto in copertina. 

Quali sono gli assassini che hai scoperto tu?
John Bender e la sua famiglia. C'è un film [I Crudeli di Sergio Corbucci, del 1967] liberamente ispirato a questa storia. C'era una famiglia di assassini nel vecchio West che non veniva mai sospettata di nulla perché viveva sul Massacre Trail, il sentiero dei massacri, dove un sacco di gente veniva ammazzata dagli indiani. La gente si presentava alla capanna dei Bender indagando sulla gente scomparsa e loro dicevano tipo "Devono averli beccati gli indiani!". Avevano una bella figlia che faceva la cartomante, per cui attirava gli uomini dentro casa. Avevano una sedia al tavolo da pranzo proprio sopra una botola. Per cui dopo che la figlia li aveva attirati in casa, il fratello gli dava una gran botta in testa e poi li buttavano dentro a questa fossa sotto la casa. Poi li smembravano e seppellivano i resti nel loro meleto.

Harold Shipman è un altro killer raccomandato da Tatsu…
Esatto. È un personaggio un po' tipo Jack Kevorkian—solo che le sue vittime non volevano morire. Quello è stato un altro caso interessante. Se ti informi un po' su queste cose, è pazzesco quanti "angeli della morte" ci sono, questa gente che si arroga il diritto di porre fine alle sofferenze dei malati terminali e cose così. Ci sono un casino di storie di infermiere assassine. È abbastanza assurdo quanto la gente dedichi la vita ad assistere i malati e poi finisca per distorcere quel concetto e trasformarlo in "Questa persona sta soffrendo, per cui le toglierò la vita".

Clementine Barnabet è un'altra molto interessante scovata da te—una serial killer donna e di colore.
Già, era un'adolescente nera della Louisiana che faceva parte di una setta, nei primi del Novecento, che predicava che si potesse raggiungere l'immortalità assassinando famiglie da cinque componenti. Aveva tipo diciassette anni. La canzone si chiama "Hallowed Axe" e si trova sul 7" allegato alla versione in vinile "die hard" dell'album. Ma non è l'unica donna a cui abbiamo dedicato una canzone sul disco.

Leonarda Cianciulli è l'altra.
Era una donna italiana a cui una cartomante aveva predetto che i suoi figli avrebbero sofferto e sarebbero morti tutti giovani. Per cui lei si fissò che l'unico modo per salvare i propri figli fosse fare dei sacrifici umani. Siamo negli anni Quaranta. Per cui cominciò a invitare i propri amici a farsi predire il futuro a casa sua. Li uccideva, li faceva a pezzi con un'accetta e poi li faceva bollire per fare sapone e torte con il loro grasso. Era una pazza fottuta. La canzone è "Confessions of an Embittered Soul".

È interessante che ci siano due canzoni che parlano di donne che usano la chiaroveggenza per attirare le proprie vittime.
Be', è anche come ho condotto la ricerca. Ho cominciato a cercare donne, minoranze e persone straniere perché le trovo più interessanti. Ci sono un sacco di maschi bianchi americani serial killer, e sembrano essere un po' le superstar del campo. Ce ne sono anche un po' di inglesi, ma, per la maggior parte, i maschi bianchi americani sembrano andare per la maggiore nel mercato degli psicopatici assassini.

Del resto vanno per la maggiore in quasi tutto.
[Ride] Qualunque cosa abbia a che fare con la sofferenza di minoranze o delle donne, loro ce l'hanno ben coperto. Per cui, sì, cercare serial killer donne era più interessante. Cercavo cose così, e gente che avesse moventi soprannaturali dietro ai propri delitti, perché quella è la roba che mi affascina di più. Quelli sono i testi con cui mi sono divertito di più.

Di chi parla “River Demon”?  
Quella parla di Arthur Shawcross, che tornò dal Vietnam pensando di essere rimasto là. Era paranoico e aveva flashback in continuazione e si lanciò in una serie di assassini pazzesca. Un'altra idea di Tatsu.



Come hai già detto, questo è il primo album intero su cui lavori dai tempi di Horrified dei Repulsion. Ti sei sentito arrugginito?
Dal punto di vista della voce, sono abituato a sentirmi arrugginito perché con i Repulsion suoniamo soltanto cinque o sei volte all'anno e di solito prima facciamo appena un paio di prove, per cui non faccio mai in tempo ad allenare la voce come si deve. Per cui la prima session per l'album è stata un po' problematica. Ma poi mi sono preso qualche giorno ed è diventato sempre più facile. Ne avevo davvero voglia, comunque, perché non lo facevo da tantissimo tempo. E mi sono divertito molto. Bruce Duff, il tecnico con cui ho registrato, non viene proprio dal mondo della musica estrema—il che è stato fico perché mi ha spinto a provare alcune cose che altrimenti non avrei provato.

E dal punto di vista dei testi?
Subito dopo aver detto sì al progetto, ho pensato: "Oh cacchio, spero di farcela ancora". Perché era una cosa automatica: ai tempi dei Repulsion, mi veniva in mente un riff e ci scrivevo il testo sopra pochi secondi dopo. E questo processo mi ha ricordato che posso ancora farcela. Mi ha rimesso sulla strada della creatività, il che è una bella cosa, perché adesso ho voglia di fare qualcos'altro.

Tatsu parla inglese molto meglio di quanto noi parliamo giapponese, ma avete avuto comunque difficoltà con la lingua o per il fatto che lui vive dall'altra parte del mondo?
No. All'inizio gli ho scritto: "ok, dobbiamo trovarci e parlarne e discutere di queste idee". Ma lui mi ha solo detto "Non c'è bisogno, fa' quello che vuoi". In un certo senso questo mi ha fatto anche più paura, perché mi sono ritrovato con libertà totale, nessun indirizzo, e tutta la responsabilità era mia. Se il cantato o i testi fanno schifo, è colpa mia. Ho già lavorato in quel modo con Nicke Andersson nei Death Breath, ma lì era diverso perché lui mi aveva fornito i testi di quasi tutte le canzoni e in alcuni casi mi aveva anche fornito una traccia di voce guida per farmi capire dove mettere il cantato. In questo caso, ho dovuto chiedere a Tatsu dove voleva la voce perché non volevo cantare sopra una parte che gli sarebbe servita come introduzione o su cui avrebbe voluto mettere un assolo—perché i primi demo non avevano gli assoli. Per cui mi ha mandato qualche appunto su dove pensava andassero le strofe e i ritornelli.

A parte Tatsu, non hai incontrato gli altri che suonano sull'album.
Non di persona, no. Ci ho solo parlato via email. Gli ho mandato una lettera di complimenti dopo che Tatsu mi aveva inviato le strumentali finite, perché i ragazzi hanno suonato da dio. Ho sempre visto i Church Of Misery come un gruppo punk—ovviamente fanno doom, ma hanno anche sempre suonato con un'attitudine e un'aggressività tipicamente punk. Quest'album è molto più bluesy e incentrato sui riff. È molto più alla Sabbath, e penso che molto del merito vada ai ragazzi.

Avete parlato di andare in tour o suonare a qualche festival con questa lineup?
Non ancora. Tatsu mi ha chiesto alcuni mesi fa se ero disponibile ad andare in tour, ma non ne abbiamo ancora parlato per bene. Non ho idea di che piani abbia. Non so se chiederà a noi o se ha già altre persone in attesa. Ovviamente, lui vive in Giappone per cui gli farebbe comodo avere una band in Giappone con cui provare e andare in tour. Per quanto mi riguarda, David, Eric e io siamo solo collaboratori esterni. Lo abbiamo aiutato a finire questo disco. Non siamo membri del gruppo. È la band di Tatsu. Per cui spero la gente lo capisca e continui a seguirlo.

Ordina And Then There Were None sul sito di Rise Above Records.

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Una notte all'inferno: Siamo andati a Berlino a fare club-crawling coi turisti

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Foto di Vincent Bittner

A Berlino, è molto facile incontrare per strada giovani da tutto il mondo che girano in comitiva cantando e bevendo. Ma da dove vengono questi sbronzi turisti del clubbing? Cosa ancora più importante: dove vanno? Per capire meglio questo fenomeno abbiamo mandato due membri della nostra redazione tedesca, Philipp Kutter e Vincent Bittner, di unirsi a una di queste cricche per farsi una nottata di crawling di club in club senza alcun pensiero.

Preparazione

Philipp Kutter: Alcuni dei miei amici non avevano idea che esistessero eventi di club-crawling per turisti. Hanno reagito tutti scoppiando a ridere. Mi sono perso ad Alexanderplatz e mi sono ritrovato vicino a un club di nome Traffic. Non credo sarà l'ultima volta che lo vedrò stanotte...

Vincent Bittner: L'ultima volta che sono stato così nervoso prima di un party è stato quando mi sono andato a tagliare i capelli prima della mia festa della scuola di quinta elementare. Mi sono riscaldato con del Jack & Cola del supermercato e ho deciso di twittare i miei pensieri con l'hashtag #PubcrawlBerlin in modo da ricordarmi qualcosa di quello che sarebbe successo.

Rendezvous all'ostello

WOW, quattro bar e club! Giochi alcoolici! Gare di ballo!!! Ingressi VIP!!!! Che volete di più?

Kutter: Sono un po' in ritardo. Ci sono già tre altri partecipanti, ci danno un braccialetto che ci identifica come parte del gruppo, che mi fa sentire come se un cane mi avesse pisciato addosso. In questo ostello c'è un biliardino, e il mio collega e io veniamo completamente demoliti da quei coatti di VICE Sports. Non è un buon inizio, ma non sarà la nostra peggiore sconfitta della serata.

Bittner: Arrivo lì alle 9:20 PM, con dieci minuti di anticipo. Questo ostello trendy non ci offre subito da bere, per cui nel frattempo giochiamo a calcetto, e OVVIAMENTE abbiamo vinto 38:1 contro quei plebei di VICE Sports.

In cammino verso il primo Bar

Kutter: L'evento vero e proprio inzia ale 22. Ci sono centosessantatré persone. Centosessantatré! Una massa di umani che trotta per scarse distanze. una delle nostre guide, Mark, si mette in piedi su una rocia e ci spiega la prima parte del tour: "Ok, ci stiamo dirigendo verso il primo bar, assicuratevi di mostrare il braccialetto al buttafuori!" Al che salta giù e il suo esercito lo segue obbediente. Camminando per Alexanderplatz, passiamo davanti a un bar a tema spiaggia chiamato AlexOase, in cui grazie a dio non entriamo. Dopo due fermate di U-Bahn arriviamo a Rosenthaler Platz. Aspettiamo in fila davanti al bar Cosmic Kaspar, perché Mark sta parlando ai buttafuori. Un gruppo di inglesi inizia a cantare "Our House" dei Madness. Per un attimo sono tentato di fuggire via, tentando la sortita in mezzo al traffico. Venire investito da una macchina sembra potenzialmente meno doloroso.

Bittner: Sembra una gita scolastica. Io e il mio gruppetto iniziamo a chiederci da dove vengano tutti, e ognuno di noi si inventa dei personaggi da interpretare per tutta la notte. Io decido di essere un artista e perfomer belga.

Il primo Bar—Cosmic Kaspar

La gang mostra i suoi bracciali.

Kutter: Entriamo nel primo bar, che in realtà somiglia più ad un club. Il soundsystem mi ricorda quello di una Golf III col volume basso, e la musica sembra il suono delle ventole per l'areazione. Qualcuno inizia una specie di danza di accoppiamento rituale da ubriachi: iniziano a giocare con un volante decorativo attaccato alla cabina del DJ, lanciando degli urli tipo cervi in calore. Io non sono ancora sbronzo e allo stesso tempo ho paura di ubriacarmi troppo. Non voglio farmi quindici anni di prigione.

Bittner: A differenza dei miei colleghi, decido di fare le cose come Cristo comanda e mi ordino subito un Jack & Cola da dieci euro. Tre giovani inglesi approvano la mia decisione e mi raccontano che questo è il loro primo giorno a Berlino, e che sono contenti di essere lì. Sfortunatamente non capisco molto altro di quello che dicono a causa della musica, e perché le gambe mi costringono a ballare. Ci sono dei tizi di fianco a me che giocano con una specie di volante attaccato alla cabina del DJ come se fosse la cosa più importante delle loro vite. Poco prima di andarcene, una ragazza con un vestito rosso mi racconta che viene molestata da dei tizi sbronzi tutte le sere. Quando le chiedo quale è stato il caso peggiore mi racconta di un trentacinquenne che si è pisciato sotto in un bar.

In cammino verso il secondo Bar

Kutter: Dopo un posto così caldo è quasi traumatico ritrovarsi di nuovo al freddo berlinese di Alexanderplatz. Il nostro gruppo inizia a cantare, e la canzone durerà da lì alla prossima stazione. Cerco di tenerli un po' a distanza. Mi sento sempre più a disagio, specialmente mentre passiamo di nuovo davanti all'AlexOase. Oh no, cazzo, ci siamo fermati. Stiamo entrando all'AlexOase.

Bittner: Una ragazza spagnola mi chiede da dove vengo. Le rispondo che vengo dal Belgio e le inizio a insegnare un po' del mio "belga" finché i miei compagni non mi spiegano che quella lingua neanche esiste. Mi guardo attorno sospettoso finché non mi chiede da che città vengo, al che le rispondo "Felsen...kant," come in un brutto film comico. Proseguo: "Sono di Felsenkant. È nell est-ovest." La mia risposta la soddisfa e mi dice che siamo in un posto fichissimo e in un quartiere che avrebbe sempre voluto visitare. Chiedo a una delle guide cosa ci trovi di bello in questo lavoro e se gli piaccia. Mi risponde "drink gratis e party tutte le sere".

Il secondo bar—AlexOase

Kutter: Tappeti alle pareti, tendaggi e un'atmosfera da sagra del wurstel. Due giovani playmate siedono a un tavolo con un vecchio che sembra la versione molto grassa di Franz Beckenbauer. Poco dopo, si mette un braccialetto al neon all'orecchio e inizia a ballare come un matto. Le sue due compagne ridono di lui finché non va al bar a ordinare altri drink. Il dancefloor è riscaldato da un gran mix di hit da villaggio vacanze tipo Punjabi MC, i Nirvana remixati da Martin Garrix, 50 Cent e "Miami" di Will Smith. La gente inizia a farsi un botto di selfie. Una birra piccola costa quattro euro.

Bittner: Ordino un Vodka Red Bull da otto euro e cinquanta e ho provato a contrattare qualche shottino gratis. Per calarmi perfettamente nel mio ruolo di turista da party, ho deciso di andare a chiedere al DJ di suonare "Miami" di Will Smith, per mia sfortuna ha messo proprio quella traccia prima che potessi aprire la bocca.

In cammino verso il primo Club

 

163 participanti ad Alexanderplatz

Kutter: Abbiamo provato a fare un test e vedere chi ci stava dentro a cantare pezzi di Scooter. Si sono uniti in cinquanta. Abbiamo attraversato la strada per trovarci davanti al Traffic, e siamo entrati.

Bittner: Dopo essere riuscito a convincere un tizio che somigliava a un incrocio tra David Guetta e Avicii, ho iniziato a cantare canzoni tradizionali della mia natia Baviera, alcuni si sono uniti, altri sono rimasti indifferenti. Sticazzi. Spero che il primo club sarà migliore del secondo bar.

Il primo club—Traffic

 

La foresta piena di uccelli del Traffic

Kutter: L'interno del club è apocalittico. La musica è troppo alta e la gente sembra tutta uguale: un'unica specie dotata di magliette bianche. Normalmente on sopporterei di starci cinque minuti. Dopo avere bevuto quattro shottini ed essere stato testimone di tre tentativi di approccio falliti ai danni di una ragazza da parte di due tipi a caso, sono giunto a una innegabile conclusione: questa serata fa cacare. Ci dirigiamo verso il dancefloor. Il mio collega di THUMP sembra divertirsi. Le luci nere ammantano tutto, il che almeno rende i maschi simili ai vampiri che sono. La cosa mi fa stare male, allora decido di darci giù con l'alcool.

Bittner: Mi gira tutto. Probabilmente mi ci vogliono altri Vodka Red Bull e shottini gratis. Diamoci forte! Qualcuno si tocca... Io continuo a ballare e bere. Un paio di minuti dopo, mi trovo vicino al DJ, provando a trascinare i miei compagni sul floor per farli divertire tanto quanto me. Non so come riesco a tirare fuori il cellulare e fare un video, finché non naufrago in un mare di hit da classifica.

In cammino verso il secondo Club

Kutter: All'1:45 AM continuiamo col tour. Qualcuno chiede alla nostra guida Mark qual è la prossima meta e lui risponde "Stiamo andando al Matrix." Finalmente. Sono sempre stato curioso di vedere il Matrix, uno dei megaclub più famosi di Berlino, da dentro. Il nostro gruppo oramai si è ridotto parecchio.

Bittner: Mi pare di avere ficcato le nostre giacche in una borsetta blu e averle date al guardaroba. Mentre vado a riprenderle, photo-bombo un sacco di gente. Quanti ricordi. Sono gli unici che ho, il resto si è perso.

Il secondo club—Matrix

 

I <3 Matrix

Kutter: Il Matrix è proprio come me lo aspettavo, ma non è sicuramente la location peggiore della serata. Annebbiati dall'alcool ci imbattiamo in una sala del club completamente vuota. Un tizio dello staff che ci stava seguendo ci chiede se siamo del reality show tedesco "Berlin, Tag und Nacht." Gli diamo un sacco di risposte diverse e poi gli chiediamo se gli piace il suo lavoro. Ci risponde "Ma certo," come se glielo chiedessero tutti i giorni, "ma solo quando anche i clienti sono gentili con me." Uno del nostro gruppo gli urla, "Allora oggi te la stai spassando di sicuro!" Ottenendone un sorriso forzatissimo.

Bittner: Abbiamo finalmente raggiunto il tempio dela mediocrità. Chiunque dica che il Berghain è un bel posto non è mai andato al Matrix dopo cinque ore di club crawling intensivo. Mi pare di capire che da queste parti stiano girando "Berlin, Tag und Nacht," qualcuno mi parla ma sono così sbronzo che sto ascendendo verso un paradiso (ma potrebbe pure essere l'inferno) fatto di culi che twerkano sullo stesso mashup tra Nirvana e Martin-Garixx di prima . Tutti i miei colleghi sono spariti. 

La conclusione

Ho perso tutti. Sono solo. All'inferno #PubcrawlBerlin

Kutter: Ce ne andiamo alle 3:30 AM. Ora ho bisogno di andare altrove. Non può essere questa la conclusione degna di una serata, ma i miei colleghi non sono molto perlaquale. "Prima devo mangiare qualcosa", mormora uno di loro, chiarmaente sbronzo. Dopo un felafel ci troviamo al Prince Charles. Sta suonando Session Victim. Finalmente della musica decente. Gente che balla in maniera più rilassata. Questo è un finale dignitoso. Non farò mai più una cosa del genere nella mia vita.

Bittner: Bevo dell'altro alcool. Sei ore di zarraggine sono sufficienti. Prendo un taxi fino a casa, e racconto all'autista di un video su YouTube in cui un tipo fa musica con un bonsai. Adoro i bonsai.

Il mattino dopo

Kutter: Dopo un paio di antidolorifici e avere meditato sul fatto che ho bevuto troppo, penso al mio collega amante della vodka e a come si debba sentire lui oggi. Sarà che mi vergogno? Direi di sì.

Bittner: Inizio a capire che mi sono divertito solo perché ero davvero sbronzo, ma sono contento che non abbiamo davvero fatto giochi alcoolici né gare di ballo. Magari se stasera esco mi do una calmata...

Conclusione

Se non avete senso del ridicolo o volete semplicemente sbronzarvi senza preoccuparvi di rompervi le palle dopo un po', siete i tipi adatti a fare club crawling. Certo, se vi interessa la vera nightlife di una città come berlino anziché venire sballottati come una pecora da un pascolo all'altro, ovviamente dovete starne lontani. Però almeno potete vedere com'è fatto il Matrix senza fare tre ore di fila... Sempre che ve ne freghi qualcosa. Per quanto ci riguarda, ora abbiamo bisogno di lavare le nostre colpe al Tresor.

 

Staycore: computer contro il patriarcato

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Staycore.

Il Sonic Acts è il festival multidipliscinare di musica elettronica che dal 1994, per tre giorni, irrora Amsterdam—Stedelijk Museum, Paradiso—di linfa nuova, refrigerante, e non solo perché a febbraio fa un freddo fottuto. Quando ho scoperto che quest'anno si sarebbe tenuto esattamente nei giorni in cui avevo programmato di andarci, come qualsiasi altro essere umano al mio posto, ho gioito. La lineup di sabato, secondo giorno di festival, tra i tanti nomi contava quelli di Lotic, M.E.S.H, Paul Jebanasam, Lexxi, Daïchi Saïto, SØS Gunver Ryberg. Questo tipo di proposta musicale e il parallelo affiancamento di attività di ricerca, workshop ed esposizioni, plasmano un ecosistema tutto nuovo la cui fertilità è data proprio dall'impossibilità di descriverlo appieno. La multidimensionalità è sia individuale che collettiva, e non è un caso se sono stati ospitati showcase di due delle label più in primo piano sulla questione della non appartenenza di genere come NON e Staycore, rispettivamente rappresentati dalle triadi Angel-Ho, Chino Amobi, Nkisi e Kablam, Toxe e Alx9696. 

Con uno dei primi tre ho intrattenuto una delle migliori chiacchierate del 2016 e questo è bastato a farmi venire una voglia matta di confrontarmi con le seconde, collettivo e label a prevalenza femminile/femminista svedese che nell'ultimo anno ha fatto parlare molto di sé in giro. Inutile specificare che entrambe le crew, quella sera, sono state all'altezza di suddette chiacchierate—leggi: hanno raso al suolo il Paradiso.

 Dopo un paio di fraintendimenti telefonici ho incontrato Toxe (Tove Agelii, diciotto anni), Alx9696 (Alex Dabo, diciannove), e Kablam (Kajsa Blom, ventotto), nel seminterrato del Paradiso, nel bel mezzo degli ultimi preparativi per la serata, quindi anche di un discreto chiasso. Mi hanno raccontato un po' a turni di Staycore, ironia e non-ironia, Janus, Brasile e di come il computer sia il mezzo più efficace per combattere il patriarcato. In fondo c'è anche una foto bella mossa scattataci dal mio ragazzo, improvvisatosi fotografo per l'importante occasione. Le altre foto le ho fatte io sabato sera, sono un po' più carine perché c'erano delle luci della madonna.

Noisey: Da quanto vi conoscete?
Toxe:
Credo un anno? Qualcosa così. Sì, lo scorso inverno.
Alx: Sembrano un sacco di anni ma no, uno solo.

Tu Tove hai diciotto anni, giusto? Ho visto da Instagram che stavi lavorando alla tesina di maturità sui PMDD (Disordine Disforico Premestruale). Com'è andata?
Toxe: Ci sto ancora lavorando, ma sta andando bene! Un sacco di ragazze mi hanno contattato dopo quel post, non tutte conoscono davvero in cosa consiste questa sindrome. L'ultimo anno di superiori non abbiamo esami ma un grande progetto che puoi passare o non passare. E in genere sono collegati all'ambito dei tuoi studi; se fai musica il progetto potrebbe essere un mixtape, se fai psicologia, letteratura e filosofia hai l'opportunità di scegliere un argomento come il mio. Potrei fare un'altra intervista solo su questo [Ride].


Alx9696.

Vero e sarebbe comunque interessantissimo. Quindi non studi musica a scuola?
Toxe: No, e so che se lo facessi non sarebbe così interessante perché i professori sono pessimi. Però certo, vengo ispirata continuamente da quello che studio, ed è stimolante.

Da quanto suonate e come avete iniziato?
Toxe: Mi sa da quando avevo quindici anni. Mio fratello ha scaricato Ableton sul mio computer, mi annoiavo e ho deciso di dare un'occhiata. Mio fratello mi ha insegnato le basi, e poi mi ha lasciato da sola, per farmi imparare meglio. Non mi stava addosso e potevo sperimentare con tutto il tempo e la calma del mondo. Non sono molto brava con la tecnica, e sul momento non credevo che sarei davvero riuscita a produrre tracce. Lui è sempre stato attaccatissimo alle regole, alla tecnica e a come si "costruisce" per bene qualcosa, io sono molto più libera in questo senso. Sono ben contenta di non saperne niente e di continuare per la mia strada.
Kablam: Lo stesso per me, ho dovuto fare da sola. Ho cominciato con Logic, poi l'anno scorso sono passata ad Ableton. La nuova versione poi è molto simile a Logic, quindi non ci sono stati troppi problemi.

Usate anche strumenti analogici?
Toxe: Veramente no... per nulla. Faccio tutto col computer, non uso altro. A volte registro suoni o voci, ma non ho alcun tipo di strumentazione con me, mai.
Kablam: Neanche io. Ho provato con le drum machine, ma lo trovo estremamente diverso dalla produzione a computer. Lo trovo limitante, e forse le stesse persone che invece ne fanno ampio uso trovano limitante il mio approccio, ma vabe'. Il beat rimane sempre lo stesso, e le tracce escono tutte più o meno uguali. Boh. In ogni caso trovo bellissimo che basti un computer oggi per fare musica, mi fa sentire più libera.
Toxe: Costano troppo e non tutti possono permetterseli. È uno dei principali motivi per cui non ne faccio uso, per esempio.
Kablam: Sì, è una questione di classe e di strutture patriarcali. Sono quasi sempre gli uomini a prediligere l'utilizzo di synth e strumentazione analogica, e usare i computer mi sembra un ottimo modo per contrastare questa deriva.

Tempo fa ho parlato con un po' di ragazze italiane che fanno musica elettronica e utilizzano strumenti, e mi hanno riferito praticamente la stessa cosa. Ci saranno sempre uomini che si avvicineranno a loro sentendosi in dovere di "aiutarle", come se non fossero capaci da sole.
Toxe: Per questo credo sia importantissimo come prima cosa essere circondate da donne, quando hai bisogno di nozioni tecniche. Se fai una domanda tecnica e con te ci sono solo ragazzi, ti senti inevitabilmente stupida anche per via dell'atteggiamento che questi hanno quando si trovano in situazioni del genere. Io personalmente cerco di circondarmi da figure femminili, che siano mia sorella o Staycore. Quando ho conosciuto le persone dietro a Staycore la mia vita è come cambiata, proprio per la presenza di donne. All'inizio, i primi tempi che facevo musica, la gran parte di quelli che mi contattavano su Soundcloud erano uomini, e dicevano tutti più o meno le stesse cose. Ne ero stufa. Con Staycore mi sono sentita molto più sicura, adesso apprezzo più me stessa e la mia musica. Avere donne attorno a me mi ha aiutato tantissimo, e lo reputo super importante per l'autostima.

Sarebbe bellissimo questa sensibilità si diffondesse anche in Italia, dove spesso le producer arrivano a rassegnanarsi passivamente a questo sistema, facendo quasi peggio di chi ne è padrone. Dato ormai siamo in tema, parlatemi di Staycore.
Kablam: 
Cristian (Dinamarca) e Ghazal sono le ragazze che ci hanno connesso tutti. Appena trasferita di nuovo a Stoccolma ho conosciuto Cristian su Soundcloud, e ha cominciato a mandarmi le sue tracce. Ghazal poi mi ha scritto per chiedermi se volessi suonare alla loro serata Staycore.
Toxe: Identico per me. Ho semplicemente seguito Dinamarca su Soundcloud, e il giorno dopo mi ha scritto Ghazal facendomi i complimenti per la mia musica. Tre settimane dopo mi sono trasferita definitivamente a Stoccolma, e da lì ho iniziato a suonare alle loro serate. Tutto questo un anno fa, Staycore è davvero una roba nuovissima.

Già, pure NON è nata più o meno così, da come mi ha raccontato Chino Amobi. Tutte cose che succedono in archi di tempo brevissimi e però lasciano un segno enorme.
Alx: Non ricordo bene quando è nato tutto, ma mi ricordo le prime release, forse Halloween 2014.
Kablam: Tu Tove mi hai mandato una mail anche, mi sembra, chiedendomi una traccia.
Toxe: Sì perché avevo fatto un mix per un magazine della mia città, Baby Magazine, con su tutte producer donne, e ci volevo inserire Kajsa. Allora le ho scritto chiedendole una traccia, lei ha accettato, me l'ha mandata e abbiamo iniziato a parlare. Abbiamo passato fasi in cui ci sentivamo sempre alternate a silenzi lunghissimi, ma comunque ci siamo tenute in contatto.
Kablam: Non sapevo tu facessi musica! L'ho scoperto tramite un'altra amica, a quel punto gliel'ho proprio chiesto, "Perchè non me l'hai detto prima?" [Ride] Mi sono sentita colpevole, tipo. Le avevo risposto una cosa come "Beh, ecco la mia traccia," come una che se la mena a mille.


Paradiso.

Quanto hai vissuto a Berlino, Kajsa?
Kablam: Mi sono trasferita nel 2012, ci ho vissuto due anni, e sono ritornata a Stoccolma. Poi mi sono ritrasferita l'anno scorso per un po', e ora sono di nuovo tornata. A Berlino suono settimana prossima con l'altra mia "crew" [Ride], ne ho tante a quanto pare. Janus, che è quella con cui ho cominciato a fare musica. Adesso è anche una label, e ho una release imminente in uscita a maggio. Almeno questo è il piano.

Capito. Che ne pensate di questo festival?
Alx: 
È molto fico, si sente e si vede la ricerca che hanno fatto per organizzarlo.
Kablam: Sento come se fossimo connesse.
Tutti: Sì, sicuramente.

Alx: Siamo una specie di classe, la classe del 2016, ognuno con una nostra individualità, ma accomunati da una specie di "ideale", che però non saprei definire a parole.

Esatto, e riconosco nella vostra musica un layout comune, volto a superare ogni barriera fisica e mentale che fino ad ora ha condannato la produzione—specie di musica elettronica—ai compartimenti stagni che conosciamo. Proprio per questo non è necessario trovarne, di definizioni.
Alx: Sono d'accordo. Non faccio neanche musica per adesso, a breve inizierò, ma lo capisco bene. Per me non si è trattato di rendersi conto di qualcosa, sono sempre stato così. Mi definisco una persona non normativa, anche se ovviamente non è che ho sempre avuto questo aspetto. È stato un processo naturale di scoperta interiore ed esteriore; non mi sono mai riconosciuto in nessuna delle scene musicali in cui mi sono imbattuto, né nei "generi" convenzionali. Ho sempre cercato altro, ed è quello che credo facciano tutti nella loro vita, una continua ricerca di qualcosa che possa calzarti meglio. Un comfort che dia sollievo e renda giustizia alla multidimensionalità di istinti e nature che possono fiorire in ognuno di noi. Non parlo neanche di musica e basta, perché chi come me crede in questo si ritrova a fare musica diversissima l'una dall'altra e incatalogabile. Kajsa, Tove, Chino Amobi, Elysia Crampton... tutte sonorità diverse. Quello che connette noi tutti è l'individualità e la creatività con cui ci approcciamo alla nostra produzione, nonché alle non-normative come effettiva soluzione alternativa a quella dominante. Non so bene come sono finito a parlare di queste cose.

Ha perfettamente senso. In Italia si respira un'aria ben diversa, come potete immaginare. Le scene sono sacre, intoccabili, nel bene e nel male lo dico. Per questo faccio spesso riferimento a realtà "libere" come la vostra, perché è la dimostrazione che si può ragionare in altri termini ancora.
Alx: Siamo anche privilegiati, bisogna dire, in quanto figli di una società occidentale. Disponiamo di capitale, potere, e di conseguenza siamo anche liberi. La libertà che ci permette di operare in questo modo è figlia del capitalismo.

Vero, ma c'entra anche la società. In Italia non siamo pronti a niente del genere.
Alx: Immagino, perché c'è una società più conservatrice. In Svezia è ancora così spesso e volentieri, le destre sono più accanite che mai. Sono stato in Brasile di recente con Ghazal, la manager di Staycore, e abbiamo parlato con un vecchio del posto che continuava a lamentarsi di Sao Paulo—la città in cui eravamo—dicendo che faceva schifo. Noi gli ripetevamo che non era vero, era solo l'abitudine che lo faceva parlare così, che la città era meravigliosa e futuristica come nient'altro al mondo e via dicendo. Da fuori la nostra società sembra più libera, ma in realtà credo sia solo più ingabbiata. Per me poi è ancora più peculiare. Nessuno mi ha mai chiesto com'è crescere in Svezia per una persona nera, e io stesso sono il primo a non essere sicuro se quello che faccio è "cultura" o "arte." Essere qui infatti per me è molto strano, perché non so cosa pensi davvero la gente di quello che faccio. Quando siamo a Stoccolma e facciamo le feste Staycore le persone le assimilano come feste, nient'altro. Non si parla certo di "cultura," buona o cattiva che sia.

Capisco. Come mai eri in Brasile?
Alx: Mi stavo trasferendo a Berlino. Sono nato in Svezia da madre svedese e padre gambiano. Ero andato a suonare in Sudamerica con Cristian e Ghazal, e tra le tappe c'era anche Sao Paulo. Sono entrambi là comunque, Dinamarca in Cile e Ghazal a Cuba.

Fico. Le tue origini gambiane ti hanno influenzato in qualcosa? Non so te ma io non riesco a sentirmi completamente parte di qualcosa, specie se si tratta di culture/tradizioni di appartenenza. Questo non toglie che ci sia comunque molto legata.
Alx: Non sono mai stato fan accanito della musica gambiana, ma l'ho ascoltata davvero tanto e mi piace. La stessa "cultura" gambiana è una convergenza di tante altre, la dancehall, la musica jamaicana, e cose così.

Sì immagino, è più o meno la stessa cosa con le derive elettroniche della musica tradizionale sudamericana. Ci sono particolari ibridazioni musicali che secondo me è essenziale mantenere tali. Quando poi sono frutto di associazioni tra suggestioni di altri paesi e culture, e momenti più pop, "commerciali", diventa ancora più intrigante. Molti però la scambiano per ironia o post-ironia, senza rendersi conto che è una presa di posizione decisamente ottusa.
Kablam: Sì, lo è. Personalmente non ho mai suonato niente con ironia. Molte persone hanno problemi ad accettare che qualcosa piaccia davvero. Si sentono in colpa, o comunque si vergognano ad ammetterlo in pubblico. Ho smesso già anni fa di pensarla così, di vivermi addosso il senso di colpa altrui o idiozie simili. Me ne sono liberata completamente. Alcuni hanno anche definito la mia musica "post-Internet." Cosa cristo vuol dire?
Alx: È la definizione più semplicistica e banale che possa venire data. È già tanto se viviamo nel presente di Internet, in che modo potremmo rappresentarne il post? Sembra proprio una parolina carina inventata ad hoc per pigrizia, più che per attenzione. Nella nostra  "scena" i riferimenti di chi fa questo tipo di musica, e gli stessi musicisti appartengono a minoranze che hanno bisogno di crearsi da zero habitat nuovi, con tutte le loro energie. Non ironici. Non faccio musica e non ho lo stesso feedback di Toxe e Kablam, ma quando ho iniziato a suonare come DJ è stato difficile. Non c'è spazio per tutto quello che non è "normale". Per esempio, quando Ghazal e Cristian mi hanno insegnato a suonare, mettevano un sacco di reggaeton. Ghazal lo adora. In Svezia la gente balla ironicamente la musica che non capisce, specie se è nera o latinoamericana. "È divertente!" No, non lo è, puoi startene anche lì fermo e non ballare come un idiota. Essere te stesso.

Credo che siano due le reazioni più comuni al fenomeno: una è quella che dici tu, comportarsi da idioti e coglierne un inesistente aspetto goliardico; l'altra è rifiutarlo a priori, chiudersi a riccio e lamentarsi della troppa ironia.
Kablam: Esatto. Anche quando faccio set più convenzionali, magari anche pestoni, vedo reazioni del genere perché credo sia considerata low culture. Ha più appeal per le masse e a me piace da impazzire. Stasera sarà un misto tra robe mie nuove in uscita per Janus, e tracce altrui. Mi è sempre piaciuta l'idea di ibridare live e dj set, cose mie e di altri, valorizzando tutta la musica, non solo la mia.

Non vedo l'ora sia stasera! Direi che abbiamo parlato a lungo comunque. Quando tornerete a casa?
Tutti: Domani [domenica 28 febbraio].
Toxe: Devo tornare a scuola lunedì.

Ah cavolo è vero...
Toxe: Eh sì... ho scuola. Febbraio è stato un mese impegnativo, praticamente ogni weekend ero in una città diversa a suonare. Settimana scorsa ero al Sonar, questa ad Amsterdam, prima Berlino...

E dopo la scuola cosa farai?
Toxe: Penso che starò più dietro a Staycore, dato che avremo tutti più tempo libero.

Giusto.


Da sinistra: io, Toxe, Axl9696, Kablam. Staycore, givecore.

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Earl Sweatshirt ha debuttato come DJ: ora si chiama Earl Fletcher

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Thebe Neruda Kgositsile è il vero nome di Earl Felpa, conosciuto ai più come Earl Sweatshirt. È già da un po' che il rapper e producer di Chicago millanta di voler cambiare nome, ma ancora non sappiamo quale sarà il prossimo pseudonimo da cui ci faremo incantare. In ogni caso, un mezzo cambiamento è già avvenuto poche ore fa, in occasione del set per Boiler Room di Earl, che ha sfoderato il moniker da DJ Earl Fletcher. Il set, lungi dall'essere fantastico tecnicamente, è farcito di alcune chicche del mondo HH (Lil Wayne, Juvenile, Jadakiss e così via) ma anche di momenti estremamente chill di cui il buon Earl ama nutrirci (vi rimandiamo al suo Soundcloud per comprenderli a pieno). 

Il pubblico di Boiler Room non è famoso per il suo dinamismo, ma stavolta, nonostante si trovassero in uno skate shop (per la precisione nello skate shop dei Trash Talk), ad un certo punto si respira quasi un'aria goliardica da dancefloor.

Bella per Earl, Fletcher, o qualsiasi nome si scelga, finché ci fa pigliare bene.

 

Dimenticatevi del grime, il futuro di Londra si chiama 808INK

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“Drake è l'anticristo?” mi chiede 808Charmer, mentre si stiracchia su una sedia a rotelle, che è anche l'unico pezzo di arredamento all'interno del suo garage, se escludiamo il divano in cui sto sprofondando. Il fatto è che non gli avevo fatto nessuna domanda su Drake, né avevo lasciato intendere tra le righe qualche riferimento all'orsacchiotto canadese, è lui che ha deciso, da sé, che quello era un buon momento per paragonare Drake all'anticristo.

Nell'ultimo paio d'ore sono rimasto qui avvolto nel mio cappotto ad ascoltare attentamente le missive degli 808INK alla scena hip-hop che esiste oggi in UK. Se le opinioni fossero bustine di thè gli 808INK ne avrebbero abbastanza per dissetare tutte le casalinghe del Regno Unito, mi dicono che odiano gli inglesi, che odiano gli americani... A un certo punto uno di loro mi dice che in realtà odiano “qualsiasi cosa”.

Uno stream of consciousness di questo tipo da un triumvirato di artisti così giovani potrebbe essere facilmente confuso con un eccesso di supponenza, ma per gli 808INK non si tratta di questo. Nei due anni passati il trio di South London ha fatto uscire due LP autoprodotti, un mucchio di tracce e un gran numero di video che meritano la stessa attenzione riservata a quegli artisti che occupano (forse impropriamente) grandi spot di visibilità. Eppure non la ottengono: hanno lavori noiosi, come tutti, durante la giornata e la sera si ritrovano a fare musica in questo garage. Così, mentre i luminari della scena inglese bevono champagne sul loro jet in direzione New York e Toronto, è facile capire da cosa derivi la frustrazione degli 808INK. 

La loro musica è difficile da inserire su una griglia, ma possiamo dire che il paragone più vicino che mi viene da fare è con gli Outkast o la Odd Future, anche se entrambi (per motivi diversi) sono lontani anni luce dall'estetica del gruppo di South London. Semplicemente non c'è nessuno come loro oggi, nella scena inglese, per cui è legittimo che gli 808INK si aspettino qualcosa di più che continuare a fare i loro lavori di merda e registrare musica la sera. Ma con un suono che non è grime e non è nemmeno strettamente hip-hop, sono convinti che la struttura discografica esistente non possa premiare la loro musica, al momento. Considerato che le major decidono di puntare su gruppi con molta meno creatività e talento, non devo sforzarmi per capire il loro punto di vista.

Il gruppo è composto dal producer 808Charmer, dal rapper Mumblez Black Ink, e dal mago dei visual Pure Anubis. Così come tutti i grandi gruppi rap della storia, ogni membro ha un background differente (questo precetto vale anche per le società di supereroi). Anubis è un grande lettore di manga ed è appassionato di anime, mi dice che ha iniziato a girare video per a) beccarsi più ragazze e b) avere successo. 808Charmer ha scoperto le batterie in chiesa, ha imparato a produrre guardando un programma in tv e da quel giorno non ha mai smesso di provarci. Quando era più giovane Mumblez non sapeva nemmeno che quella cosa che fanno gli artisti hip-hop si chiama rappare—pensava stessero solo bofonchiando in modo strano, e provava a stargli dietro davanti alla tivù. Dopo che sua mamma si è rotta il cazzo di vederlo ripetere parolacce davanti al televisore lui ha iniziato a studiare 50 Cent e The Game con “How We Do,” scoprendo di poter rappare a sua volta seguendoli, per poi imparare a cantare e lanciarsi in performance di “Candy Shop” fuori da scuola: “Ripetevo anche lo ‘Yeah’ che si sente nel pezzo” mi dice, imitando il grugno di 50 Cent.

Proprio come i Power Rangers o il Wu-Tang Clan, gli 808INK sono tutti personaggi molto diversi tra loro. Forse è comprensibile, dal momento che ogni persona su questo pianeta è diversa da tutte le altre, ma nel caso di questi tre tizi c'è qualcosa di più spettacolare e affascinante. Quando ti fissa Charmer assume quell'espressione da Signor Miyagi, è così solenne che se ti ordinasse ti togliere e mettere la cera tu piegheresti la gobba e cominceresti a farlo. Anubis, che indossa un abito per tutta la durata dell'intervista (un travestimento che “fa parte di un progetto universitario” in cui lui fa la parte di Vincent Vega in Pulp Fiction) è il più zen dei tre ed è come se fosse stato tirato fuori da uno dei manga che ama leggere. Mumblez è il più amicone, e anche cazzone dei tre, quando è arrivato con un'ora di ritardo all'intervista si è scusato e ha detto:  “Sono nato di mercoledì, quindi mia mamma sostiene che sono un ragazzo problematico”.

È una conseguenza naturale che gli 808INK siano d'accordo o in disaccordo tra di loro a seconda di quale che sia l'argomento del momento. Ci è voluto pochissimo perché l'intervista si trasformasse in un dibattito rovente. Non significa che non mi sia divertito, anzi; in un certo senso questa dinamica ha anche sottolineato le discussioni, le riflessioni e i tormenti su cui poggiano le fondamenta del gruppo, e mi sono ritrovato di nuovo a pensare che non c'è nessun altro nella scena il cui processo creativo si muova lungo questi binari.

“Troppi lo fanno per hobby, là fuori,” spiega Anubis, mentre io sprofondo dentro la mia seduta. “Ci sono persone là fuori che mentono a loro stesse e ti dicono cose come [assume l'intonazione della voce tipica di tutti i coglioni di questo mondo] ‘Io lo faccio per l'arte bro, però...…’”—fa una pausa, aspetta un'altro mezzo secondo—“Bro un cazzo, sei più concentrato sui tuoi like su Instagram e sul numero di seguaci su Soundcloud piuttosto che sull'arte. O vuoi davvero darmi a bere che passi notti insonni chiuso in studio a cercare di fare qualcosa che nessun altro al mondo sia in grado di replicare?”

Mumblez continua: “Non si può trovare un metro di paragone per gli 808INK. Di quanti artisti d'avanguardia si può dire una cosa del genere? E ancora di più: di quanti emergenti si può dire una cosa del genere?”

Questo è un punto su cui mi trovo d'accordo, in quel mare di roba spesso inchiavabile che è Soundcloud ci sono centinaia di rapper e produttori che suonano semplicemente come la rilettura di uno stesso codice a cui tutti si ispirano, senza mai aggiungere nulla di nuovo. Ora è il grime, prima erano i suoni di Atlanta, non fa così tanta differenza. Uno detta il passo e tutti inseguono, ma alcuni di questi artisti, a volte—e qui potete metterci la vostra FKA twigs o il vostro King Krules—sembrano non farlo per i like su Instagram, ma il concetto non cambia. È difficile dire che gli 808INK non siano un'anomalia. I loro video low budget hanno un altissimo valore artistico e le loro tracce, che vengono tutti prodotto alla fine di un turno di lavoro o la sera dopo aver finito i progetti universitari: “Ci troviamo in studio senza aver cenato, se c'è bisogno. Non ci frega un cazzo di mangiare, possiamo registrare anche se siamo affamati, dice Mumblez con orgoglio. Tutto ciò che fanno punta ad ottenere attenzione, una première su FADER, un riconoscimento alla loro musica. Dove tutti gli altri artisti vengono serviti come in un fast food, gli 808INK stanno marinando in cucina mentre gli invitati sorseggiano champagne, senza fretta.

La mentalità del gruppo è qualcosa di differente da entrambe le metafore che ho appena fatto: sono completamente socnnessi da qualsiasi scena inglese e allo stesso tempo desiderano dipingere e raccontare Londra in un modo che non è mai stato provato prima. “Non amiamo la nostra città” mi dice Charmer, “le persone fanno finta di amarla, ma è solo per la resurrezione del grime. Hai presente quando i tuoi genitori ti dicono ‘Ai miei tempi indossavamo pantaloni a zampa e ballavamo i The Whispers’? Non voglio dovermi ritrovare un giorno a dire ‘Ai miei tempi indossavamo i bomber e ballavamo Skepta.’ Non ho fatto parte di quella cosa, non mi ci sento legato”. Alla fine afferma, con un po' di orgoglio, “Non mi vedrai a trent'anni mettere via la camicia di Versace per tirare fuori la tuta dall'armadio.”

Il lavoro più recente del gruppo, l'album Billy's Home, ruota attorno a un concetto che gli 808INK chiamano “Lundun.” Ma che cos'è Lundun? “È come una città nella città, come una provincia” spiega Mumblez: “Non stiamo provando a indossare il London kit pronto all'uso. Certo, viviamo a Londra, ma facciamo parte di un'altra cosa, e quella cosa si chiama Lundun.” Un concetto che di nuovo traccia il solco tra tra la scena londinese e questa crew. “Billy’s Home” è uno spaccato perfetto sulle loro vita, sulla vita a Deptford; il video di “Crooked. Bad” è stato girato nel corridoio di casa Mumblez. “Quando parlo dei blocchi parlo dei miei blocchi, che hanno facce umane e che pisciano giù per la tromba delle scale”, dice. Vogliono che la loro musica sia ascoltata e che conquisti Londra, ma con una differenza tonale che li separi dal grime.

Quindi cosa c'è dietro il beef tra 808INK, Drake, l'America e la scena inglese? Di nuovo due motivi, il primo è che “fondamentalmente qui in Inghilterra ci suchiamo tutto quello che gli americani decidono di scaricare. Succhiamo alla fonte proprio.” Il secondo è il ritrovato successo del grime e quanto, secondo loro, sia stato condizionato da Drake—un artista canadese. Come gruppo che non si relaziona molto bene con le folle impazzite per lo show di Bryson Tiller a Londra e allo stesso tempo non può essere infilato nella stessa scena di Stormzy o Skepta, è stato difficile trovare una collocazione. Come si fa a farsi sentire in questo contesto? Come si fa a sfondare?

Nei mesi passati, però, le cose hanno iniziato a girare meglio. Dopo aver licenziato il loro manager il gruppo ha fatto uscire i suoi migliori lavori: il trittico di video “Suede Jaw”, “Q’d Up”, e il già menzionato “Crooked Bad.” Hanno fatto uscire altre tracce come “Peach”, “Blah De Frog”, and “DSSY”—e tanto materiale, tutto allo scopo di migliorare e arricchire i loro live, così che sia impossibile per i promoter continuare a intenderli come un gruppo spalla, come un warm-up che non disturba nessuno. I tasselli alla fine si stanno incastrando nei loro posti: BBC 1Xtra ha suonato la loro musica, hanno ottenuto delle date sui palchi dei prossimi festival e gli occhi dei ragazzi di Londra si stanno girando nella loro direzione. In qualità di tizio che li ha osservati camminare durante tutto l'ultimo anno posso dire che, finalmente, si sono avvicinati al confine che li separa dal fare qualcosa di enorme.

La questione è una sola: chi avrà abbastanza palle da fargli firmare un contratto?

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È uscito "untitled unmastered", il nuovo album di Kendrick Lamar

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Lo scorso anno Kendrick Lamar ha approfittato delle sue apparizioni televisive per spingere musica inedita extra-To Pimp a Butterfly, lanciando poi alcune di quelle tracce qua e là per la rete sotto il nome di "Untitled'. Oltre ai non-titoli, questi pezzi hanno in comune il tono e le tematiche politiche, appassionate e poetiche che caratterizzano le produzioni del nostro Kendrick. Ma fino a ieri queste tracce rimanevano dei piccoli pirati che ronzavano per l'Internet. Pare che la spinta per pubblicarle sia arrivata da un tweet di LeBron James, che dopo la meravigliosa performance del signor Lamar ai Grammy chiedeva che quel materiale fosse in qualche modo pubblicato. E così è stato, guarda un po'! In ogni caso il materiale che ascolterete sembra risalga un po' al 2013, un po' a quest'anno, ma per la maggior parte il non-album è stato scritto nel 2014.

Trovate untitled unmastered su iTunes o in streaming qui sotto.

untitled 01 l 08.19.2014.
untitled 02 l 06.23.2014.
untitled 03 l 05.28.2013.
untitled 04 l 08.14.2014.
untitled 05 l 09.21.2014.
untitled 06 l 06.30.2014.
untitled 07 l 2014 - 2016
untitled 08 l 09.06.2014.

Il jazz è protesta: Andrea Centazzo

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Ho scoperto Andrea Centazzo grazie alle ristampe della benemerita Wah-Wah di due dischi incredibili come Ictus—che mescola l’improvvisazione jazz all’elettronica e a forti influenze orientali—ed Elektriktus, che muove verso territori kosmische. Poi ho approfondito un po’ la sua carriera estremamente libera e originale (che lo ha portato a suonare con alcuni tra i più grandi musicisti del Novecento), a cavallo tra jazz e avanguardia, classica e elettronica, caratterizzata da una estrema prolificità.
Ho ascoltato così altri splendidi dischi come quelli con Derek Bailey, Pierre Favre, Steve Lacy, Guido Mazzon, e l’imponente triplo Indian Tapes.
Sapendo che viveva in America da molti anni, è stato davvero inatteso scoprire che a dicembre avrebbe suonato a Macao (da solo) e poi al Masada (in un’improvvisazione di gruppo) nel giro di pochi giorni.
Intervistando Lino Capra Vaccina abbiamo toccato l’argomento (i due sono apparsi su uno stesso disco, Fluxmar di Roberto Donnini), e anche Lino si è detto molto contento di questo ritorno, ammirando e seguendo il percorso del collega. Era però anche stupito perché, diceva, “Centazzo non chiede poco. E fa bene”.
Mi ero quindi immaginato un musicista, a differenza di altri eroi dell’underground italiano di quegli anni, molto borghese, molto pacificato nella sua vita di compositore di colonne sonore a Los Angeles.
Grande è stata la sorpresa nel corso della chiaccherata, svoltasi nell’albergo milanese che lo ospitava tra un concerto e l’altro, trovandomi di fronte all’esatto contrario: a un uomo per niente in pace con il mondo, ancora davvero in guerra, incazzato e insoddisfatto per lo stato di salute dell’ambiente che gira intorno alla musica, la cosa più importante della sua vita.

Noisey: Partiamo dall’inizio: lei è nato a Udine, giusto?
Andrea Centazzo:
 Esatto.
 
E quali sono stati i suoi primi approcci con la musica?
La musica non è certo una cosa che mi era familiare: la mia è una famiglia di avvocati. E Udine, negli anni in cui crescevo, era una disperazione—non che oggi credo sia granché, però perlomeno è diventata una città di passaggio con l’apertura dei confini a Est. Ma in quegli anni non c’era proprio niente: un liceo musicale che poi è diventato conservatorio, ma ci sono voluti anni e anni. Da ragazzini ci affidavamo come maestri a musicisti dilettanti, gente che faceva un altro mestiere e che suonava nel tempo libero. 
Di solito c’erano delle categorie merceologiche ben precise: tipo i barbieri erano tutti trombettisti, non si capiva perché [ride]. Presi le prime lezioni con un maestro di chitarra: avevo tredici o quattordici anni, e non mi trovai molto bene—non tanto per lo strumento, che mi interessava, ma per il maestro, che non era molto stimolante. E quando sei all’inizio se chi ti insegna sa stimolarti, va bene, se no poi è meglio lasciar perdere subito.
 
Nel frattempo, a scuola, con altri amici giovani studenti e giovani teppisti si mise in piedi un gruppo, The Messengers, con cui suonavamo le canzoni dei Beatles e di quei gruppi lì. Era il momento in cui stava arrivando l’onda del rock anche in Italia. Nello stesso tempo il fratello maggiore di uno di questi compagni di scuola era un appassionato di jazz e fu lì che iniziai ad ascoltare i primi dischi: era un trombettista appassionato di Dixieland e quindi mi diede tutti i dischi di Bix Beiderbecke e di quel genere. 

Avevo letto un aneddoto su quando comprava i dischi a nome di sua mamma...
[Ride] Arrivavano dei cataloghi per le massaie, con su i grembiuli e altro... E dietro, in fondo, c'era un catalogo di dischi di un’etichetta di Milano che si chiamava Orpheus, che pubblicava cose di jazz, probabilmente senza i diritti: cose scadute, vecchie. E lì ho cominciato a comprare Lester Young, Miles Davis, Charlie Parker e quei vecchi dischi lì. 
E naturalmente arrivavano i pacchi a casa ed erano pacchi anonimi, e mia mamma pagava ‘sto contrassegno pensando di avere ordinato qualcosa, poi li apriva e si incazzava come una iena quando vedeva cos'erano! (ride) Tra l’altro non erano né LP né 45 giri, erano dei 33 con formato medio (EP).

Dieci pollici.
Sì, credo fossero dieci pollici. È stato un periodo molto formativo. Sempre in quel periodo lì, mi ricordo come fosse adesso—credo di avere avuto tredici o quattordici anni—in un negozio di radio (perché all'epoca chi vendeva radio vendeva anche dischi) di Tolmezzo, una cittadina della Carnia sperduta in mezzo alle montagne del Friuli, trovai Birth Of The Cool di Miles Davis: un'altra botta sonora per me, una rivelazione. E poi Coltrane Live at the Village Vanguard: anche quello mi sconvolse. 
 
Ma si riusciva in Friuli a trovare certi dischi?
C’era una distribuzione limitata, i dischi che trovavo nei negozi erano quelli che stampavano le grandi case discografiche: l'Impulse era distribuita dalla Columbia, Miles Davis lo stesso. Certo, non si trovava il disco di Ornette Coleman ancora, fin quando non fece poi i dischi con la Columbia. Poi c'era la Atlantic, allora si trovava Ray Charles perché era un cantante popolare, ma trovavi anche My Favourite Things di Coltrane perché era sulla stessa etichetta. Però non eri tu che decidevi, era il gestore del negozio o la casa discografica. C'erano comunque dei reparti di jazz nei negozi.
A Udine all’epoca non solo c’era una big band di jazz—ovviamente di dilettanti—ma c'era anche un quartetto con musicisti dilettanti molto interessanti e molto bravi con cui poi suonai.
Ma era un gruppo molto ristretto, ovviamente fatto da un avvocato, un notaio… Come al solito, come nella storia di Pupi Avati, quel giro di Bologna che faceva Dixieland: anche quelli erano un ginecologo, un otorinolaringoiatra... [Ride]

Il jazz ha avuto questa popolarità borghese in Italia; è stata una musica per la borghesia fino all'arrivo del free jazz e di Gaslini in Italia, e specificatamente poi di me, di Mazzon, di Liguori, e allora a quel punto è diventata una musica di protesta. Ma fino ad allora era la musica degli intellettuali che non volevano ascoltare Mahler ma qualcosa di diverso. 
Il jazz è arrivato in Italia soprattutto con gli anglo americani: io suono in duo con Don Preston, che è lo storico pianista di Frank Zappa. Un giorno eravamo lì seduti e mi chiede "ma tu dove sei nato di preciso?" "a Udine" "a Udine?? io ho fatto il militare a Trieste!" e mi dice che faceva jam session con musicisti locali, e con lui c'erano altri due jazzisti molto importanti che adesso non ricordo, mi sembra Charles Lloyd...
Sta di fatto che il jazz è arrivato anche con quella connotazione lì. 

Quindi da un lato la batteria rock e dall’altro l’amore per il jazz.
Le due anime, quella dell’autodidatta batterista rock quindicenne e quella dell’appassionato di jazz si svilupparono pian piano, fino a che a un certo punto cominciai a collezionare dischi, e con il gruppo a fare cose un po' più serie delle feste private con i compagni di scuola: incominciammo a fare serate nelle balere, nei night club, una vita che molti della mia generazione hanno fatto. Tutto ciò va avanti in maniera saltuaria però costante, perché la musica era diventata una mia mania, fino agli anni Settanta.

Lei in che anno è nato?
1948. Quindi nel ‘68 avevo vent’anni, facevo legge perché la tradizione di famiglia era quella, ma cominciavo a capire che nella musica senza studiare, senza applicarmi, senza prendere possesso dello strumento non sarei andato da nessuna parte: la verità è che, per quanto tu abbia talento, le forme espressive passano attraverso un movimento fisico, e quella è la tecnica, e se non studi la tecnica non ne vieni fuori. 
La conclusione è che nel 69-70 (all’epoca ero un avido lettore di Musica Jazz, ascoltavo tutto, ero gia' entrato nel trip dell’avanguardia per cui era il periodo di Ornette Coleman, Don Cherry e tutti questi musicisti), vidi sulla rivista un annuncio stranissimo: “Summer Holiday Jazz Clinic, in Wengen (Switzerland)”, e buttai il dado. 
Tra l’altro non costava poco, e la Svizzera era lontana, ma andai a questa clinic, uno dei primi seminari-workshop sul jazz che si organizzavano in Europa, e lì il mio mondo cambiò completamente: c’erano centinaia di ragazzi da tutta Europa; importante per scambiarsi esperienze, parlare, capirsi. 
E poi c’erano dei musicisti straordinari: parlo di Johnny Griffin, parlo di Jimmy Woode, tra i batteristi Peter Giger, Stu Martin… Gente che aveva una carriera vera, dei miti. 
Tra questi c'era Pierre Favre, batterista svizzero, che subito mi prese in simpatia—come tutti gli svizzeri parlava tedesco e francese, e anche italiano perché era stato parecchi anni a Roma. A quel punto, era il ‘70, avevo ventidue anni e non sapevo se fosse troppo tardi per provarci seriamente, ma lui mi disse “tu hai la passione e il talento, devi fare il musicista: studia e vedrai che ce la farai”. 

Quello è stato il momento in cui ho deciso che questo era il mio mestiere, e ritornai poi nella triste cittadina di Udine, contrattai con mio padre perché avrei dovuto laurearmi da lì a un anno (e non ne potevo più, non me ne fregava una mazza, questa è la verità).
Insomma gli dissi: “dammi una mano, se mi fai andare in Svizzera per un anno a studiare, poi io torno e mi laureo”. E con gran fatica lo convinsi. 
Quindi andai a studiare alla Swiss Jazz School, che all’epoca era l’unica scuola in Europa che usava il metodo della Berkeley (mentre adesso ci sono addirittura i corsi della Berkeley a Umbria Jazz) e ci rimasi un anno: feci una full immersion in questo mondo che a me era assolutamente sconosciuto, e soprattutto che non avrei mai potuto trovare in una piccola città di provincia chiusa tra la cortina di ferro comunista e l’Austria in un angolo sperduto d'Italia. Lì continuai a studiare con Pierre, studiai con Peter Giger, feci corsi di armonia, ma soprattutto mi rinchiusi con la batteria in un bugigattolo di tre metri per tre che mi avevano dato in uso. 
Stavo dentro dalle otto di mattina alle otto di sera a suonare, a suonare e studiare, al punto che mi vennero vesciche e piaghe alla mani: una cosa terribile.
 
Fatto ciò, ritornai in Italia e nei sei mesi successivi presi questa laurea.
E qui c'è l'episodio clou, perché alla fine della tesi, quando esco da questa porta e dico "è finita", c’è mio padre che mi dice: "bravo! Finalmente verrai a lavorare". 
E io gli ho detto "sto cazzo! L’accordo era che io mi laureavo, non che venivo a lavorare con te". Si incazzò come una belva e ci vollero due anni prima che ci riparlassimo. 

Però la fortuna (e questa è veramente fortuna)—perché io credo che se non fosse successo questo episodio non ci sarebbe stata la mia carriera—fu che all’epoca Franco Fayenz curava le edizioni della PDU
Avevo incontrato già Fayenz ad una conferenza a Udine. 
Nel frattempo c'era un personaggio che girava tra Udine e Milano, che però non c'entrava niente con il jazz—faceva l’impresario di night club. Questo tizio assurdo era un vecchio amico di mio padre. Un giorno lo incontrai e gli dissi "sai vorrei fare questo, quell’altro..." e mi disse "ma hai un nastro?", e all’epoca avevo fatto un duo con questo suonatore di organo Hammond, Armando Battiston, e gli diedi quel nastro. Tempo due giorni e mi chiama Fayenz e mi dice "è bellissimo, voglio pubblicare un disco" [Ictus, NdR].


Ma questo sarebbe comunque rimasto un episodio, dopo un'altra giornata da questa telefonata mi chiama e mi dice "Centazzo, guarda che Gaslini sta cercando un nuovo batterista: questo è il numero, chiamalo subito". 
Lo chiamai. Gaslini nicchiò un po' all'inizio: "ma lei è a Udine...". 
Perché all’epoca non era la vita di Internet, uno che stava a Udine era in Burundi, e quello che stava a Milano stava a Milano. 
Mi chiese se ero disposto a spostarmi, se ero sicuro. "Certamente, io vengo dove lei mi dice" "Allora venga domenica a Goro” (lui aveva casa sull’Appennino). 
Io all’epoca avevo una Mini, la caricai al punto tale che in autostrada invece che sorpassare derapava, come con gli sci, tonnellate di roba... Comunque arrivai a Goro con montagne di strumenti, feci un’audizione, e mi prese. 
Ancora oggi sospetto che mi prese più per tutta quella strumentazione piuttosto che per il mio stile.

Allora aveva fatto bene a caricare la Mini!
[Ride] Eh, sì! Perché comunque all’epoca non c’era un batterista jazz (perché Gaslini, seppur d'avanguardia, suonava jazz) che girasse con i campanacci, con i gong  e queste cose... Ovviamente era un set ancora primordiale: io avevo una batteria regolare, e in più avevo messo intorno tutte queste percussioni.
 
Lei qui aveva circa 25 anni?
Questo era il ‘72, per cui avevo 24 anni.

E come aveva sviluppato questi interessi? Ampliare così il set era un’idea originale.
Questo mi era venuto da Pierre Favre. Quando studiavo con lui, Pierre era all'epoca anche Artist Relation Manager per la Paiste (azienda produttrice di percussioni, ndi). Fu lui che per primo in Europa usò i gong e altre percussioni.

Quindi anche l’interesse per la musica balinese è nato in quel periodo?
Quello un po’ dopo: non siamo ancora a quel punto. 
Fu nel ‘76 che a New York trovai un disco di musica balinese: avevo già studiato con Pierre Favre, e due più due fa quattro. Il disco mi lasciò a bocca aperta: capii che il minimalismo anche di Glass e degli altri era nato da lì. Ho dunque preso tutta la filosofia dei gong di Favre e delle percussioni, l'ho messa insieme alla musica balinese, e quella è diventata un po' l'ispirazione per la mia musica. Qui il mio punto di riferimento era Pierre che poi mi ha fatto scoprire altri batteristi, ma il mio punto di riferimento erano ancora i batteristi.

Quindi Gaslini la prese.
Sì. Andai a provare con Gaslini e nel novembre del ‘72 debuttai alla Piccola Scala, e come dicono nei film “il resto è storia”, nel senso che lì cominciai la carriera. 
Quelli sono stati anni irripetibili, ne continuo a parlare perché io sono tornato in Italia a suonare nel 2015, e l’ultima volta che avevo suonato nel circuito del jazz in Italia era il 1986. Per cui per me è stato come arrivare in un posto in cui una volta c’era un’oasi e adesso c'è il deserto. 
Perché dal '72 al '76, con Gaslini, oltre a fare un numero di concerti impressionante tipo dieci o quindici al mese, venivamo pagati cifre che oggi non prendono neanche i musicisti rock: vivevamo facendo la musica che ci piaceva e quel cazzo che volevamo. Era un'epoca d’oro. 


In quel periodo, non essendoci mezzi di comunicazione, chi era interessato alla musica andava ai concerti o comprava gli LP. Oppure semmai ascoltava qualcosa alla radio o alla TV, perché la Rai produceva programmi di jazz—ma quello era il 10 per cento, il resto della comunicazione era live. Concerti, concerti, concerti. Con Gaslini abbiamo suonato dappertutto: nelle fabbriche, nelle chiese, a Sud, a Nord, Est, Ovest... Continuamente. 

Son stati anni incredibili, sono molto contento di avere vissuto quel periodo, perché mi rendo conto che oggi in Italia se vuoi sviluppare qualcosa di quel tipo, cioè fare della ricerca, dell'avanguardia, o la fai e durante il giorno lavori in banca, oppure non ne vieni fuori. 
Perché non ci sono più i soldi e soprattutto Internet ha ammazzato questo tipo di musica, perché purtroppo dà la possibilità a chi è pigro (e questa pigrizia mentale ormai è dappertutto) di ascoltare già lì, e lì finisce tutto. "Ma perché stasera devo andare al Masada a sentire Centazzo? Ci sono trecento tracce su YouTube di Centazzo, me le ascolto lì, e risparmio anche dieci o quindici euro”. Purtroppo ormai la mentalità è così, come con le etichette discografiche: poi ci arriviamo. 

Molti scontri con il padre, ma poi alla fine ha apprezzato i frutti del suo lavoro?
Alla fine è diventato il mio fan più sfegatato. Mio padre diceva che il mondo si divide in due: quelli che lavorano e i musicisti. Questa era la teoria di base di un avvocato di provincia.
Quando poi ha visto il mio nome sul Corriere della Sera, commentato in maniera entusiastica da Vittorio Franchini per il primo concerto con Gaslini alla Piccola Scala, ha capito che c'era anche una dimensione professionale seria, e si è un po' rassicurato. 
Credo anche che non avendo contatto col mondo della musica, purtroppo neanche classica perché a Udine non c’era neanche un mondo di classica, per lui vivere di musica era una cosa inconcepibile. 

Veniamo a Ictus, l’esordio discografico.
Quel disco è parallelo a Gaslini, come accennavamo prima, e tra l'altro mi è costato l’amicizia di Battiston, perché è uscito a nome mio ma era un disco di un duo. Con Franco Feruglio ospite come bassista in alcuni pezzi, ma un disco in duo a tutti gli effetti. E non c’è stato verso di far capire a Battiston che non l'avevo fatta io quella cosa lì, era stata un'idea del produttore. Perché chiaramente il contratto era a mio nome, io avevo firmato con la PDU, però questo non voleva dire che il disco non dovesse uscire attribuito a entrambi. 

Infatti adesso la ristampa Wah-Wah ha in copertina tutti e tre i nomi.
Quelli della Wah-Wah mi avevano detto "no no, lo facciamo con la grafica originale"; ma io ho detto che allora non gli davo il licensing. 
Non voglio più che questo equivoco venga perpetuato, punto e basta.

Come vi siete trovati per Ictus, come è nata la formazione, quando avete registrato?
Con Battiston avevamo un gruppo post-Messengers in cui si facevano pezzi rock, canzoni, suonavamo nei locali, e facevamo delle gran jam session. Avevo uno studio sulle colline intorno a Udine, e a un certo punto abbiamo iniziato ad accumulare materiali. 
Non registrati, eh: solo dei pezzi provati, perche' all'epoca nessuno aveva un registratore e quindi li accumulavamo "in testa". 
Provavamo, decidevamo...
Poi c’era un amico, vecchio riparatore di radio e tv che aveva la mania della registrazione e che era il primo ad avere dei registratori semiprofessionali, dei Revox. 
Venne da me in questo mio studio in campagna con dei buoni microfoni e registrò il duo, a cui si aggiungeva il basso in alcuni pezzi.

Era uno studio amatoriale, una casa di campagna?
La casa di campagna che il gusto ci guadagna! [Ride]
Proprio una casa in cui andavamo a suonare: io abitavo lì, e avevamo insonorizzato una stanza in maniera primitiva, con le solite cose, lana di vetro eccetera. 
Fu solo dopo Gaslini che cominciai a comprare delle macchine, perché fino a qui non avevo il becco di un quattrino.

Ma quindi per il disco vennero usati direttamente questi nastri? 
Sì, quelli registrati col Revox dal tecnico pazzo. Son venuto poi a Milano alla Basilica e abbiamo fatto un remix di quei nastri lì, aggiungendo un po' di riverbero o qualche sovrapposizione, ma cose marginali.
 
Quello era un disco molto originale per i suoi tempi, mischiava jazz, rock e influenze etniche. Da dove veniva l’ispirazione? 
Non si capisce. Entrambi ascoltavamo un sacco di materiale, però non è che ci ispirassimo a qualcosa in particolare. 
Qualcuno poi ha detto "atmosfere alla Soft Machine”, ma all'epoca io non li avevo mai presi in considerazione, non mi sembravano interessanti. 
Non lo so, c'erano atmosfere assurde... C’era un pezzo nel finale che si chiamava “Ode a Nazim Hikmet”, in cui c’è una parte di organo che è stata ripresa tale e quale da Jean Michel Jarre in Oxygen
E io mi taglio i cosiddetti che lui l'aveva ascoltata, a meno di coincidenze cosmiche, perché c'è proprio esattamente quell'atmosfera lì, con quel tipo di arpeggio con l'organo.
Non lo so, son quelle cose di quando sei giovane, sei entusiasta e ingurgiti tutta la musica che ti gira intorno: poi alla fin fine fai un mix e sputi fuori delle cose.

Nella vostra ispirazione, nella vostra sperimentazione c'era anche l'uso di sostanze o eravate sempre perfettamente sobri?
Sempre sobri. Battiston aveva questo handicap di essere cieco e quindi aveva questo suo mondo interiore che non siamo mai riusciti a scoprire del tutto. E come a tutti i friulani piaceva anche alzare il gomito. 
Io invece sono sempre stato astemio, non ho mai fumato e non ho mai fatto uso di droghe, devo dire la verità, nonostante abbia dormito nella droga, perché non c'è stato musicista di un certo periodo che non le abbia usate. 
Però, non so perché, non ho mai avuto interesse. Il mio motto era "la droga sono io". 
Tutte le atmosfere psichedeliche sono frutto di fantasia e non di aiuti esterni.

Ictus fu la prima di tantissime uscite discografiche.
Avevo un contratto per quattro uscite con la PDU. Feci quello, feci Fragmentos, disco solo, con poi in alcune tracce Giammarco [Maurizio, sassofono, NdR] e Tommaso [Bruno, piano e contrabbasso, NdR]. Registrato da cani, da cani, da cani in uno studio meraviglioso. 
Come cazzo hanno fatto a ridurre il suono così... Hanno messo dei compressori di vecchio tipo perché non avevano voglia di rompersi le palle a stare attenti a fare i volumi, per cui i suoni sono “uisssh uissshhh”: una cosa tremenda, veramente tremenda. 
Peccato. Perché come idea era il primo disco di sola percussione italiano, era ispirato a Neruda, ai suoi poemi: una bella idea. 
La foto che c'è in copertina era una foto perfetta, a fuoco… no: l'han messa sfocata, con dei colori di merda. 
È stato proprio un buco nell'acqua. 
Devo dire che invece contemporaneamente avevo fatto con la PDU un disco che si chiamava Elektriktus. Quello lì invece graficamente era un capolavoro, anche se erano entrambi stati fatti dalla stessa persona, Tallarini.


 

Il terzo disco con la PDU, che non uscì mai, fu Freedom Out con Gunter Hampel, Bruno Tommaso e altri musicisti tedeschi. 
Avevo fatto questo disco, e Gunter Hampel all'epoca era macrobiotico. Avevamo avuto dei contrasti durante la tournée, per cui io poi a una di queste improvvisazioni che facevano parte del disco misi il titolo "Please don’t eat macrobiotic", e lui si imbufalì, scrisse alla PDU e, in conclusione, il disco non uscì mai.

Se l'è un po' cercata.
[Ride] Sì, ma non me ne frega niente. Adesso c’è qualcuno che lo vorrebbe ripubblicare, vediamo se lo facciamo uscire postumo. Perché fu stampato ma rimase nei magazzini, mi diedero una decina di copie e finì lì.
 
Il primo contatto con la PDU quindi lo ebbe con Fayenz.
Sì, poi diventammo amicissimi. Lui anni prima veniva a fare conferenze sul jazz anche a Udine (è di Padova) e io a queste conferenze andavo e facevo domande, ma senza dire che suonavo. 
Infatti mi ricordo che poi nelle note di copertina di uno di questi dischi lui scrisse "avevo conosciuto Centazzo alle conferenze, però non sapevo che eccetera".
 
All’interno della PDU ebbe mai contatti con Mina?
La incontrai un paio di volte, ma lei non si curava dell'etichetta. Era ancora attiva come artista, viveva a Lugano, avevano lo studio a Lugano.
Infatti uno dei dischi di Gaslini fu registrato lì e per fortuna feci io tutto il mix, dopo. Perché se ci metteva mano Gaslini ci saremmo suicidati [Ride]: sarebbe stato solo pianoforte con nel retro un po' di piripipi...

La rottura con Gaslini avvenne nel ’76.
A un certo punto si era identificato in mio padre, lui aveva quarantatre anni e io ventisei, e il rapporto era tipo "Andrea, mettiti la maglietta"... e io a un certo punto non ne potevo più, avevamo questo scontro generazionale: lui e Bedori erano "vecchi", e io e Tommaso eravamo due ragazzi di ventisei, ventisette anni. 
Verso la fine del ‘75 ho avuto un problema alla spalla che non mi è mai passato: era incominciato con una distorsione fatta girandomi stupidamente nel letto, aggravata poi andando a giocare a pallavolo.
Si era tutto infiammato e alla fine del ‘75 facevo proprio fatica a suonare, non riuscivo a articolare i movimenti, se suonavo qualcosa di veloce avvertivo immediatamente il dolore. 
Per cui andai a Parigi un mese a curarmi da un dottore specializzato. 
Un giorno ero a Montmartre.  Apro il giornale e leggo "Gaslini presenta il nuovo quartetto": mi aveva silurato senza neanche avvertirmi. 
In qualche misura in questi contrasti aveva anche un po' paura perché io sono uno che non le ha mai mandate a dire a nessuno. 
In quella occasione per solidarietà Bruno Tommaso se ne andò, per cui lui prese due musicisti di New Orleans—era stato a suonare al festival—e lì la storia con Gaslini finì.

E c’è l’inizio della Ictus: in quell’anno, a Parigi per curarmi, avevo conosciuto Steve Lacy, che era chiaramente un mio mito. Era un personaggio incredibile, apertissimo.
Gli avevo dato dei miei dischi, e poi gli dissi "se organizzo dei concerti in Italia ti va di venire?" "sì, con te volentieri". Si fece questa tournée e alla fine avevo questo nastro bellissimo che poi diventò l'LP Clangs



Dissi alla PDU "vi interessa?", "mah, boh, mah"... nicchiarono; andai da un altro paio di etichette e tutte "sì, magari l'anno prossimo, adesso no". Ho detto “tagliamo la testa al toro: metto in piedi un'etichetta io, e fine”. E nel ‘76 partii con la Ictus.

La sua storica etichetta.
Sì, la Ictus nasce così, con questo disco in duo. Quando siamo partiti ovviamente non sapevamo ancora come funzionava. Il grosso del lavoro lo faceva mia moglie Carla Lugli, che era una ragazzina di 22 anni ma era bravissima a tenere i contatti. 
I dischi li distribuiva Bonandrini con la IRD, l'unica grossa distribuzione che c'era, qui a Milano. E avevamo distribuzioni internazionali.

Per fare un esempio di come tutto è andato a banane: Clangs, quindi il primo disco di una etichetta sconosciuta, di Andrea Centazzo (uno sconosciuto o semi-tale) e Steve Lacy (un mito del sassofono soprano, ma uno che aveva già fatto un sacco di dischi) vendette tre o quattromila copie. Ovviamente nel giro di due o tre ristampe e tre o quattro anni. 
L'altr'anno ho avuto da qualcuno a New York—che aveva avuto da qualcun altro—dei nastri registrati nel 1977 al Lirico con Steve Lacy e Kent Carter.
I nastri sono da suicidio dal punto di vista tecnico (anche se poi li ho un po' sistemati), ma musicalmente sono eccezionali: ho pubblicato due cd e per tutti gli Stati Uniti il distributore mi ha preso cento copie. 
Questa è la differenza: Il crollo totale. Non so come fanno a sopravvivere le etichette: ok io, sono da solo, pubblico cento o duecento copie solo quando poi faccio dei tour e so che c'è un minimo di interesse. Ho un archivio dal quale potrei tirare fuori non so quanti dischi, ma non è più possibile.
  
Prima abbiamo citato Elektriktus, che per me è un capolavoro. Quello come nasce? È un disco molto particolare.
Quello nasce perché all'epoca guadagnavo troppo (ride). Non è una battuta: avevo parecchi soldi e avevo sempre avuto la passione per la registrazione. Riuscii a comprare uno dei primi quattro tracce che c’erano in circolazione, un Tascam. All’epoca costava l'equivalente di settemila euro. Nell’83 comprai il sedici tracce della Tascam e lo pagai ventitre milioni di lire di seconda mano, per cui oggi sarebbe una macchina da cinquantamila euro. 
Le macchine costavano veramente tantissimo. 
Comprai queste macchine e delle tastiere e mi misi a sperimentare. All'epoca avevo fatto un concerto con Klaus Schulze, che suonava (secondo me malissimo) tutte queste cose analogiche con sequencer che erano all'epoca primitivi.
Io invece suonavo—non mi ricordo se con Battiston o con chi—una specie di jazz ma alla Soft Machine.
 
Però quelle atmosfere lì in qualche modo mi presero un po', quindi registrai questi nastri, li missai e li presentai alla PDU al produttore Roy Tarrant. Lui mi disse "noi importiamo la musica cosmica! Se vuoi lo mettiamo nella collana". 
La PDU infatti all'epoca pagava i diritti di varie etichette tedesche e pubblicava un sacco di cose di quell tipo. E così si fece, e diventò un disco di culto. Naturalmente ci guadagnai pochissimo, perché lui mi pagò solo il nastro, veramente una miseria. Però alla fine il disco ha circolato.

L'ha ristampato sempre Wah-Wah.
Sì. Ecco, anche queste etichette qui, cioè... Ti danno mille euro per fare queste ristampe.

Anche perché loro comunque ne stampano qualche centinaio.
Esatto. Purtroppo non son mai stati grandi business. [Ride]

Questo è poi il periodo in cui suona anche con Guido Mazzon?
Con cui ho risuonato da poco... Il ritorno dei guerrieri. Non suoniamo più insieme dall’80.

Il vostro fu un po’ il momento del cosiddetto nuovo jazz italiano, che aveva anche una certa connotazione politica, era una musica di protesta. Una rottura con il classico, addirittura estrema in certi episodi, come quello in cui lei si mette a piantare i chiodi nel palco.
Sì, ci sono stati vari elementi di provocazione, che magari noi facevamo in un senso, e John Cage faceva in un altro: tutti i musicisti dell’epoca che facevano musica di rottura erano orientati politicamente. C'erano gli estremisti come Cornelius Cardew, oppure quelli furbi come Gaslini, però tutti comunque guardavamo al pubblico della sinistra. 
E il pubblico della sinistra all’epoca veniva in massa a questi concerti. Poi magari andavano a casa e ascoltavano Claudio Baglioni, ma pazienza. 
Era anche un fatto di solidarietà andare a questi concerti: faceva parte dell'essere compagni. Poi magari pensavano "basta! quando finiscono, che non se ne può più?", però nessuno lo diceva perché noi rappresentavamo la rivoluzione. 
C’erano anche un sacco di equivoci all'epoca e un sacco di furbizie, però insomma... 

Lei ci credeva.
Certo, difatti mi son ridotto in queste condizioni per quello. [Ride]

In che senso?
Nel senso che a sessantasette anni sono ancora che giro il mondo a battere i pentolini, mentre tutti quelli che non ci credevano, o che facevano finta di crederci, adesso sono piazzatissimi con pensioni o stipendi d'oro.

Centazzo e i suoi mille gong. Foto via Paiste

Mi ricordo un episodio degli anni Novanta: venni a Milano non so per quale progetto, comunque di musica ormai molto standard, e andai a parlare all'assessorato alla provincia. Il direttore era uno che all'epoca era stato un ultra maoista, che alla Statale un giorno mi aveva accusato di essere solipsista perché avevo fatto un disco da solo! E questo qui era diventato guarda caso socialista della Milano da bere, ed era inciuciato con Craxi eccetera. 
Io son sempre stato uno che ha fatto quel che ha detto e ha detto quel che ha fatto. E difatti ho sessantasette anni, continuo a far questo lavoro, non ho avuto la pensione in Italia perché tutti quelli che dovevano versare i contributi non li hanno mai versati, e avanti di questo passo.
Sono ancora uno incazzato col mondo.

Però ne è valsa la pena?
Sì, sì, ne è valsa la pensa, rifarei tutto eh... Per l'amor di Dio, non è che mi penta.
Però ogni tanto ti viene il giramento di eliche perché vedi che in effetti certa gente ha veramente sfruttato quel periodo lì. 
E c'è stata gente che ci ha anche fatto dei soldi. Io per esempio non so quanti festival dell’Unità ho fatto gratis con i vari "dai, vieni, i compagni, bla bla". 
Quando poi a Udine aprirono il Teatro Nuovo, e cercavano un direttore artistico, il sindaco voleva che tornassi dall'America. Chi si oppose? L'ex PCI. Per cui avevo sputato sangue gratis. E hanno messo un massone, uno talmente potente che quando cadde il centro sinistra e venne la Lega lui rimase al suo posto. In Italia si sa che gli amici degli amici sono tuoi amici.

All’epoca comunque pensavate che con la musica si potesse cambiare qualcosa.
Il mio motto era "la rivoluzione non si fa in do maggiore", in questo credevamo.

Cercavamo di cambiare la società cambiando anche il linguaggio della musica. La musica doveva osare di più, proprio come la società. La colonna sonora della rivoluzione non poteva essere qualcosa di rassicurante e già sentito.
Non poteva essere nè “Roma capoccia” nè “Questo piccolo grande amore”. Doveva essere qualcosa di rottura.
 
E il popolo vi seguiva?
Non l’abbiamo mai capito. Io so che con Mazzon abbiamo fatto un concerto a villa Borghese a Roma e c’erano cinquemila persone… In apertura c'era uno sfigato con la chitarra che si rivelò poi essere Angelo Branduardi, che all'epoca non era proprio nessuno. E fu fischiato. Invece quando salimmo sul palco noi, silenzio di tomba. Dopodiché magari alla fine della serata sono tutti andati in discoteca, non lo so. Però c'era un rispetto e un credo:  penso che molta gente ci credesse.

Volevo parlare anche di un altro disco un po' di culto, Indian Tapes, che arriva più avanti.
Indian Tapes arriva nel 1980 e nasce nel ’77. Nasce insieme a Elektriktus perché alcune delle tracce finite in Indian Tapes erano delle sessioni che facevo da solo registrando, sperimentando… Allora, diciamo che le cose più cosmiche e più "commerciali" sono finite in Elektriktus, quelle altre più raffinate in cui c'era l'uso della percussione come strumento primario finirono poi in Indian Tapes.
Quando presentai la prima versione di Elektriktus al produttore Roy Tarrant disse che c’era troppa percussione. [Ride] "E che cazzo vuoi da me? Sono un percussionista, cosa devo suonare i violini?" "No, devi mettere più tastiere, dev'essere più un trip..."

Più cosmico.
E allora poi lavorai in quel senso. Con piacere, eh...
Invece Indian Tapes nasce soprattutto dalle mie visite alle riserve indiane fatte nella prima tournée americana del ’78. È la tournée in cui John Zorn suonava nel mio gruppo e dalla quale uscirono parecchi dischi. Andai in Alabama a suonare con Davey Williams e La Donna Smith, e loro mi portarono a vedere le riserve indiane, a Mountville e poi in altri posti. E rimasi più che sconvolto, perché lì le persone erano dei veri e propri reclusi. Poi ci sono tornato anche di recente per dei video per questo nuovo spettacolo che ho fatto: alla riserva Piramid's Lakes in Nevada. Tremendo.

Il disco è dedicato agli indiani d'America.
Sì, è una dedica ideologica perché poi la musica è di tutt'altro tipo, molto varia. E raccoglie tutti i materiali di quegli anni, due-tre anni di registrazioni e improvvisazioni e composizioni, in un unicum, tre LP, che dal punto di vista finanziario fu una follia fare.
All'epoca stampare i dischi comunque costava cifre impossibili, e essendo un disco con parecchi pezzi di sola percussione, con silenzi, non si poteva fare con un vinile economico ma andava fatto con vinile extra vergine, per cui si dovette stampare alla Polygram. Fu veramente come spararsi. 

Però appena uscito vinse il premio della critica discografica italiana, e mi lanciò come percussionista in tutto il mondo. Vinse anche il “Wax On Wax” di Downbeat: primo posto io, secondo non mi ricordo chi e terzo Max Roach. Da vergognarsi, no? [Ride]
Con Roach avevamo un eccellente rapporto: ci eravamo trovati diverse volte in varie occasioni. Gli regalai il box set e lui poi fece un'intervista al Corriere dicendo che era il disco che avrebbe sempre sognato di fare. 
Il ritaglio ce l'ho ancora in una cornicetta...
È un disco che è rimasto un po' come un mito. Tra l'altro dal punto di vista pratico non è che se ne vendette chissà che, perché era un triplo, per quanto costasse poco, era per l'epoca una bella sberla. 
Credo che si sia riuscito però a recuperare i costi, quello senz'altro.

 
Lei dice di non considerarsi un percussionista, ma più un compositore che suona percussioni, giusto?
Soprattutto l'evoluzione è stata in quel senso. Quando incominciai a suonare da solo mi resi conto che non mi bastava saper fare un rullo, ma dovevo cominciare a pensare a delle strutture musicali, e incominciai a scrivermi dei percorsi, dei pezzettini eccetera.
Nel ‘78 quando andai a New York, scrissi questo pezzo (per il sestetto con Zorn) in cui poi si improvvisava. L'anno dopo, tra il ‘78 e il ‘79 mi trasferii a Bologna (ero andato via dal Friuli nel ‘76 dopo il terremoto). Nel ‘76 e ‘77 ho abitato a Pistoia perché disegnavo le percussioni per la UFIP, e mi avevano trovato un posto dove stare. 
A Bologna ero direttore del Centro Jazz e Danza Contemporanea del Comune, e ho fondato la Mitteleuropa Orchestra. Quindi ho cominciato a scrivere veri e propri pezzi per orchestra. 

Senza una formazione accademica. 
Esatto. Avevo fatto un po' di studi privati con Armando Gentilucci, il compositore, e poi scrivevo d’istinto. La mia vita è sempre stata molto legata a questo fatto della creatività e poca tecnica, e anche sulla percussione non mi sono mai ritenuto un virtuoso, ho sempre pensato che quello che faccio ha un senso perché ha una struttura. 
Sono uno che compone le cose e poi le suona, e anche quando improvviso ho sempre dei riferimenti molto precisi, non faccio parte della musica aleatoria (qua direi un bel link a Cage), tanto che poi alla fine degli anni Ottanta ho abbandonato l'avanguardia e mi sono messo a fare musiche strettamente melodiche, e poi dal ‘90 (anno in cui mi sono trasferito in USA) al ‘98 ho addirittura smesso del tutto di suonare.

Addirittura?
Eh sì. Facevo colonne sonore a Los Angeles. Poi ho scritto tre opere liriche, un requiem per orchestra, musica per ensemble di tutti i tipi, musica da camera... Mi interessava comporre. 
E soprattutto non girare più con 'sti cazzi di strumenti che pesano un quintale [Ride].
Per me quella è proprio la cosa più tremenda: quando vedo le borse le odio, poi quando è tutto montato son felice di suonare. Ma con l'andare degli anni è diventato veramente un peso. 
Anche perché nel 2004, andando a fare una tournée in Giappone, per salvare una borsa con tutte le elettroniche che stava cadendo dall'over-head compartment dell'aereo mi sono torto e mi sono uscite due ernie lombari: son rimasto bloccato a Osaka come un baccalà, ho dovuto rientrare e annullare la tournée… è stato un casino. 
E da quel momento la schiena ovviamente basta che io sposti una sedia e mi fa male: c'è anche quel problema lì.

Questi lavori orchestrali o lirici se non sbaglio sono tra quelli che lei ama di più.
Sì, senza dubbio. Ci sono alcuni dischi che secondo me sarebbero quelli da portare sull’isola deserta tipo The Heart of Wax, musiche fatte per un balletto. Balletto che poi non è mai stato fatto perché son finiti i soldi, ma per fortuna son finiti dopo che mi hanno pagato la musica (ride).
Inoltre, l'opera Tina, su Tina Modotti, che si fece in Italia con Ottavia Piccolo e in America con questa straordinaria attrice messicana Lumi Cavazos, che è quella che aveva fatto Come l'acqua per il cioccolato di Arau. 
E poi l'omaggio a Pier Paolo Pasolini, Primo Concerto per Piccola Orchestra
Questi tre dischi secondo me sono abbastanza importanti.
Non voglio dire che Indian Tapes non lo sia, ma quei dischi lì concentrano un po' tutto il risultato di un percorso.
C'è anche Rain on the Borders che è un altro disco che ha un grosso senso per me.
Sembra che anche Visions tra quelli di sola percussione sia un disco che ha una sua poetica, però insomma io tengo molto alla musica che scrivo e in cui non suono, perché naturalmente lì c'è la purezza della composizione, invece dove intervengo come esecutore altero in tempo reale quello che scrivo, me la meno e me la giro come voglio. Invece quando dirigo un gruppo di dieci o cinquanta persone, quelle suonano, e devono suonare quello che sta scritto.

Con Hollywood ha avuto un rapporto un po' travagliato, giusto?
Schifoso, non travagliato [Ride]. Perché andai a Los Angeles con un contratto con la Warner/Chappell e mi sembrava tutto oro colato: “Che bello, arrivo e divento John Williams: al terzo giorno scrivo Guerre Stellari e al quarto faccio Indiana Jones”. 
In effetti arrivai lì e, sì, ero pagato come compositore in esclusiva, non avevo nessun problema finanziario, però io ero il numero settecentoottantadue di una lista di compositori che gia lavoravano. 
Era una specie di mobbing, stavo lì in attesa che succedesse qualcosa che non succedeva mai, e se trovavo dei lavori indipendenti non li potevo fare perché c'era l’esclusiva. 
Quindi fermo così per quattro anni, al di là del fatto che venivo da un divorzio catastrofico e storie pazzesche di donne anche lì; anche una col coltello, una che ha tentato di piantarmelo nella schiena.

Ma in senso figurato o fisicamente?
No, fisicamente, proprio fisicamente [Ride]... Ho avuto delle storie con le donne...

Questo posso metterlo nell'intervista?
Come no? Sono ancora vivo quindi si può mettere! [Ride]
Per cui ho avuto quattro anni un po' orridi, e se parti con il piede sbagliato poi è un casino. 
Difatti verso il ‘94 mi sono messo a scrivere musica di altro tipo, ho lasciato perdere l'idea di fare colonne sonore, anche se ne ho fatte parecchie. Ma ho dovuto aspettare il ‘93 per rescindere il contratto con la Warner, dovevo rinnovarlo e non l'ho rinnovato. 
E poi comunque, non avendo mai avuto un agente grosso, (perché quando ho lasciato la Warner anche quei due che mi stavano un po' dietro mi hanno mollato) ho fatto solo filmetti indipendenti, cose anche divertenti, per esempio due bei film cinesi ultimamente. Ne continuo a fare, però insomma sono produzioni indipendenti.
Ma devo dire che l’ambiente di Hollywood fa schifo. 
Per uno diciamo “rivoluzionario” come me era impossibile. 
Quando andavo a trovare questi produttori, soprattutto appena arrivato, il discorso che mi facevano era “bravissimo, abbiamo sentito i tuoi dischi, genio”. Poi al momento di lavorare la prima cosa era "hai presente Guerre Stellari? La vogliamo così". 
Allora io mi incazzavo e dicevo “chiamate John Williams”. 
Ma funziona così a Hollywood, è un mondo di cliché, non è un mondo di creatività, o in cui tu dici "sono arrivato e faccio la mia musica". No, nessuno rischia su un compositore sconosciuto una colonna sonora di un film in cui si investono molti soldi. Per cui non ha funzionato.
Però comunque devo dire che non era neanche il mio interesse principale, ecco, per fortuna. Speravo potesse essere una buona fonte di sostentamento ma non ha funzionato, anche per il mio carattere.
 
Negli ultimi lavori invece ho visto che ha sviluppato tutto un discorso di multimedialità.
La multimedialità ha salvato la mia vita. Quando nel ‘98 ho ripreso a suonare, volevo fare dei concerti da solo, cosa sempre difficilissima perché tu proponi un concerto di sola percussione e uno su dieci ti dice di sì, se ti va bene. Un altro conto è un concerto di piano solo. Anche nell'avanguardia, eh.
La multimedialità ha salvato la mia vita perché con quella non giri più esclusivamente nei circuiti musicali.
 
Adesso per esempio questo spettacolo Sanctuary che faccio a Udine, che chiude la tournée (ed è il primo spettacolo che faccio a Udine in vent’anni) lo faccio in una sede dove di solito fanno il Far East, festival del cinema orientale. È un cinema. Per cui viene un pubblico che non è esclusivamente il pubblico musicale. Perché c'è tutta la parte visuale che tratta l'Oriente. Anche quando feci il progetto su Einstein con LIGO, l'organizzazione che studia le onde gravitazionali, e la NASA e l'ESA che mi diedero appoggio, girai per tre anni l’America, nelle università, nei dipartimenti di astrofisica. C'era un fisico che faceva prima una conferenza sulle onde gravitazionali e poi, boom, arrivava il pazzo che faceva il concerto con le immagini. 
Esiste anche il dvd dello spettacolo.

Diciamo che ha reso quindi i suoi spettacoli più appetibili anche per chi doveva ingaggiarla.
Sì, la cosa ridicola è che la musica era sempre quella, ma basta presentarla in maniera diversa. È proprio marketing. La musica funziona così ormai, è un prodotto anche quello. 
Si presenta in una certa maniera, e all'interno di uno spettacolo così in realtà la metà è improvvisata. Perché, sì, ci sono dei punti di raccordo con il video, ma poi ci sono tutte le mie solite cose di musica improvvisata, che però in questo caso vengo stra-accettate e nessuno dice "troppe batterie" o "troppi tamburi", perché è un unicum e questa cosa funziona.
 
Come è nata la collaborazione con la NASA? Che insomma è abbastanza particolare per un musicista.
È nata grazie a un astrofisico italiano, Michele Valisneri, che ha una carriera rampante alla NASA. È nata perché la vita, come nel caso di Gaslini, riserva delle sorprese.
Io cercavo di fare dei concerti in Germania, e c’era un agente che era interessato.
I concerti poi non si fecero - come al solito in questo campo - e questo mi scrive e mi chiede se conosco, non ricordo più il nome, questo suonatore di stick, sai quello strumento che si suona con due mani e sembra una chitarra a dodici corde? 
Dice “questo qui sta a Parma, è uno bravissimo e vorrebbe conoscerti”. Ci scambiamo la mail, mi manda delle cose anche piuttosto belle ma che non mi interessavano, e poi mi scrive che lavora con uno che si chiama Giovanni che organizza dei concerti. Allora io che volevo tornare a suonare in Italia scrissi a questo Giovanni, e Giovanni mi scrisse che c'era un suo ex compagno di scuola che era diventato scienziato alla NASA, che suonava le tastiere e aveva sempre avuto in testa di fare uno spettacolo "musica e cosmo". 
Così ci siamo incontrati, siamo diventati grandi amici, e abbiamo messo su questo spettacolo insieme. C’è stato un giro del mondo per arrivare poi a due che abitavano a Los Angeles a venti chilometri di distanza. E così è nato lo spettacolo.

Adesso ne abbiamo un altro in gestazione su Marte, che si chiama Sands of Mars, su Curiosity e su tutte le missioni che sono state fatte. Però ci è un po' scappato di mano tra i vari impegni, purtroppo, perché adesso che è uscito il film con Matt Damon [The Martian, NdR] era il momento di farlo uscire.

Una caratteristica appunto della sua produzione musicale è una prolificità incredibile, ha fatto tantissimi dischi.
Troppi [Ride].

Come mai? Qual è l'idea? Registrare tutto e pubblicare tutto?
L'idea alle spalle di produrre questa massa costante di dischi è documentare ogni attimo della mia vita, è come quelli che si fanno le foto su Internet, una ogni giorno. Ma meglio...

O chi tiene un diario.
È un diario di viaggio. Tra l'altro è diventato anche abbastanza importante per me, perché nel 2012 la biblioteca del Dams di Bologna ha istituito il “Fondo Andrea Centazzo”, dove sono confluite tutte le mie opere:  sto cercando di portare più materiale possibile per documentare tutta l'attività, sia partiture, sia registrazioni, sia dischi.

Allora un po' di riconoscimenti ce li ha anche in Italia.
Ma riconoscimenti ci son sempre stati! La cosa drammatica della mia carriera è che io in quarantacinque anni non ho mai avuto una recensione negativa, ne avrò avute dieci tiepide o con delle critiche. Però a questo non è mai corrisposto dal punto di vista della distribuzione del mio lavoro una cosa equivalente. Uno si aspetta che essendo considerato un genio da Tizio da Caio e Sempronio poi possa andare a fare dei concerti e essere pagato. Non succede. 
Non c'è corrispondenza tra le due cose, la frustrazione sta lì. 
Io lo dico sempre: “piuttosto dite che il disco è uno schifo ma compratemene mille copie, non dite che il disco è un capolavoro e ne vendo cinquanta”. Purtroppo questa è la dicotomia che mi mette KO. 

Però se uno volesse fare cose orribili e venderle a pioggia farebbe un'altra musica.
Il problema è che per far cose orribili bisogna esser bravi, nel senso che bisogna avere una certa testa. Io per esempio per la Warner avevo scritto una serie di canzoni. Le canzoni erano per me bellissime, però tutti dicevano “son canzoni troppo difficili”. Non è facile scrivere le cose semplici. Uno come Paul McCartney, che io ritengo un genio dal punto di vista della semplicità, scrive delle cose che arrivano, boom, dirette. Ma è uno che è nato così, non è che prima suonasse con Stockhausen. La musica popolare in maniera semplice dà delle emozioni dirette: quando incominci ad arrivare a un livello intellettuale cambia molto—io mi salvo un po’ perché la percussione chiaramente dà questo tipo di fisicità… 

È vero, è molto fisica.
Ma quando poi si incomincia ad andare nella scrittura e simili, ho delle sovrastrutture che mi vengono dalla mia cultura, dai miei studi, dalle mie passioni.

Foto via Paiste

Ma a lei piacerebbe avere quel dono lì? O meglio, anche proprio azzeccare la superhit una volta nella vita, anche una schifezza, ma che vende venti milioni di copie.
E come no? Subito. Ma facciamo anche cinquemila. [Ride] Mi andrebbe benissimo lo stesso.
È ovvio, perché poi passano gli anni, lavori, lavori e ti ammazza questo fatto di dover continuare a faticare perché ogni volta devi rincominciare da capo, perché non è mai dato niente di acquisito.
Un aneddoto incredibile: il 1983 fu un anno d'oro, feci una tournée nella Germania comunista in duo con Albert Mangelsdorff, con la Mitteleuropa si fece una serie di concerti pazzeschi, si fece il festival di Ravenna, avevo fatto il concerto del Millenario di Udine con la Mitteleuropa.
Con la stessa orchestra "jazz" più gli archi eravamo andati a farlo anche al Museo del XX Secolo a Vienna, in più avevo fatto a luglio una tournée con Gianluigi Trovesi in duo... Cioè era stato un anno che di più non si poteva. 
Arrivato a settembre ho detto "be', a questo punto sono arrivato". 
Nel senso: “ci sono talmente tante recensioni “meraviglioso, genio”, ho detto, “che adesso qualcuno telefonerà". 
A dicembre ero senza lavoro. Passati tre mesi, nessuno aveva telefonato, e a gennaio ho dovuto riprendere il telefono e ricominciare a rompere le palle a questo e a quello per fare il concertino, andare dagli assessori a pietire per delle sovvenzioni... per cui non c'è MAI stato un momento in cui uno potesse dire “adesso mi rilasso, mi arrivano i soldi dalla SIAE, mi arrivano i diritti d'autore, le royalties dei dischi...”. Mai. Sempre una battaglia e sempre in salita. 
Per cui è chiaro che se avessi la capacità e la possibilità di fare una cosa che porta del danaro certo che la farei.

La cosa che forse mi ha colpito di più di questo incontro rispetto a quello che mi aspettavo è proprio appunto di avere trovato un combattente. Vedendo da lontano, sapendo che vive in America, colonne sonore, immaginavo ci fosse una maggiore tranquillità, invece ho trovato proprio un combattente.
Sono un vecchio gladiatore. Ma il leone che deve mangiarmi non è ancora nato [Ride].
Per me la vita è un'arena. Ma questo anche per carattere, eh. Diciamocelo chiaramente: sono sempre stato un rompicoglioni e quando qualcosa non mi piaceva l'ho sempre detto, e questo naturalmente non va bene quando fai questo tipo di lavoro. Non so quanti organizzatori ho veramente mandato a stendere, o anche solo cazziato.
Esempio: festival di Ravenna, sono invitato con la Mitteleuropa, mi chiama il direttore artistico e mi dice "sì, sai, devi venire, però vorrei mettere John Surman al baritono, vorrei avere al basso Barre Phillips, vorrei che tu chiamassi questo e l'altro" e io ho detto "ma allora fattela tu l'orchestra". E allora ho fatto sì il concerto, ma da quel momento quello lì non mi ha più chiamato. 
Non ho mai ceduto su queste cose. Mai ceduto.
E naturalmente poi alla fin fine uno dice "ma sei anche un rompipalle, non ti chiamo più". 
Per cui c'è sempre da lottare, ecco. 

Con lei negli anni hanno suonato nomi incredibili, da Don Cherry a John Zorn.
Tutti. [Ride]

Quali ricordi ha di queste esperienze? So per esempio che ha il rimpianto che non si trovi una registrazione del set con Don Cherry.
Quella è una roba che mi è rimasta qui sul gozzo. Non si trova la cassetta, che qualche coglione di collezionista senz'altro ha da qualche parte, perché mi ricordo perfettamente di aver visto girare una cassetta sulla plancia dove c'era il mixer dell'impianto. Hanno fatto un bootleg come è stato fatto a Milano col trio di Lacy al Lirico. All'epoca i tecnici sottobanco si registravano sempre la cassettina. 
Sparita. Ho fatto di tutto, ho rintracciato l'organizzatore originale: non riusciva a trovare chi l'avesse fatta. Un peccato. Perché quella sera lì tra l'altro suonai in una maniera completamente diversa proprio perché c'era Don Cherry.

Che anno era?
Uh... l'86 credo.

Quindi Don Cherry già pienamente nella musica etnica, world...
Quella sera ha tirato fuori la pocket trumpet e sembrava il Don Cherry di Mu. Di quel duo lì: e difatti io ho suonato come Ed Blackwell, in quel tipo di stile. Molto più jazzistico di quanto io suonassi già in quel periodo. Era un duo da paragonarsi al Don Cherry migliore, quello del periodo d'oro, con un tiro bestiale. 
Lui era fatto come un caprone [Ride], ma davvero un bellissimo concerto.

E poi appunto John Zorn, Derek Bailey... Chiunque.
Tutti quelli che contavano.
John Zorn tra l'altro lo ritrovai poi nel 2010: mi chiamarono a New York perché facevano un concerto benefit per la Mode Records, io dovevo fare un set con un sassofonista che si chiama Joe Giardullo, che è uno della mia età, uno che ha suonato anche con Steve Lacy. Poi aveva smesso e poi ha ripreso, bravissimo sopranista. 
E mi è arrivata una mail dell'organizzatore che diceva “cerchiamo un direttore per il concerto per piano e orchestra di John Cage”, e io mi son proposto, e il mio amico della NASA mi ha fatto anche un software per dirigere, perché non è una direzione convenzionale, è una direzione fatta all'epoca con i cronometri: ci sono due gruppi che suonano su tempi diversi e tu devi dargli i tempi. 
E lui mi ha fatto un software per cui il pianista Stephen Drury, il pianista storico che aveva fatto la prima registrazione con Cage, mi ha detto "se Cage avesse visto questo sarebbe impazzito. Ha sempre tentato di romperci i coglioni con cose strane e questa roba qui avrebbe semplificato un sacco, è ottima". 
Comunque, quella sera era Philip Glass in solo la prima parte, John Zorn con Cobra la seconda, e io nella terza che dirigevo questo concerto.

E John Zorn mi dice "Centazzo! Ma dove sei sparito tutti questi anni?", un po' stronzetto perché dopo i dischi che avevamo fatto nel ‘78 e nell'80 mi ricordo un'intervista di un giornalista italiano che gli aveva chiesto "come si è trovato a suonare con Centazzo?" e quello gli ha detto "ma io non ho mai suonato con Centazzo. Centazzo ha preso delle mie tracce e le ha messe sui suoi dischi". 
Perché era il periodo, the denial period in inglese, in cui Zorn voleva togliersi dalle spalle tutte le collaborazioni in cui non era stato protagonista.
Environment for sextet, il disco dove lui suona in sestetto con me, è a mio nome e il pezzo è mio. E lui suonava il sassofono e basta, per cui aveva questo atteggiamento. 

Dopodiché quando mi ha trovato quella sera mi ha fatto mille feste, mi ha detto "no, bisogna che rincominciamo a suonare insieme", e abbiamo fatto tutta una serie di concerti, e poi nel 2012 mi ha dato queste due settimane allo Stone per fare il festival della Ictus, il trentennale, e lì ho fatto di tutto e di più: ho fatto il trio con Barry Altschul e Andrew Cyrille a cui tenevo tantissimo perché erano miei idoli degli anni passati. 
Ho fatto il duo con Marilyn Crispell che è un'altra che avevo incontrato quando era ragazzina e ci eravamo sempre ripromessi di fare delle cose e non le avevamo mai fatte.
E ho rifatto l'orchestra (Mitteleuropa) lì, metà con musicisti di New York, e ho fatto venire Mazzon, Schiaffini, Ottaviano e altri dall'Italia. 
Sono state due settimane fantastiche.

Ho notato che dal vivo tuttora suona un sacco di campioni, loop: una cosa piuttosto particolare nell'ambiente.
Un'altra cosa che mi ha cambiato la vita è stata la tecnologia. Perché io suonavo già negli anni Ottanta uno strumento che si chiamava Silicon Mallet, fatto dalla Simmons, che poi mi era stato modificato da Dave Simmons in persona perché aveva dei problemi. 
Era una tastiera tipo vibrafono, però era talmente pesante da essere intrasportabile. Poi c'erano limitazioni tecniche pazzesche, per programmare i loop bisognava andar fuori di testa. 

Quando siamo arrivati a un livello tecnologico verso il 2000 per cui con un computer e una tastiera si potevano fare delle cose come si deve, è stata una grande svolta. 
Perché suonando dal vivo mescolo sempre i campioni con i piatti e questo e quest'altro, quindi si crea un'atmosfera che non è più solo o elettronica o acustica, ma è il mix delle due, che dà quel sound particolare. 
E soprattutto qualche anno fa questo mio amico, Mario De Ciutilis, ha inventato il Kat Mallet. Lui è italo-americano di terza generazione, è percussionista al New York Radio City Hall e come hobby ha l'elettronica e ha inventato tutti questi strumenti, pad, tastiere, eccetera. Questo che uso esisteva già negli anni Novanta, ma pesava diciotto o venti chili perché era di metallo. 
A un certo punto anni fa ne ha fatta una versione in alluminio, e da quel momento la mia vita è cambiata, perché ho potuto viaggiare con lo strumento. 

Perché bisogna tener conto che in America io vado a fare i concerti viaggiando in aereo, e ogni giorno diventa sempre peggio, non puoi portare più niente: tutto costa. Se porti  elettroniche e le porti in cabina, quando passi i controlli di sicurezza ti fanno un deretano così, perché son cose che nessuno conosce. Non è che passi con una chitarra elettrica, passi con una specie di tastiera con delle robe strane. 
Però queste due cose, l'usare il Mac con i campioni e usare il Kat per triggerare i campioni, mi ha permesso di campionare tutti i miei suoni, perché quasi tutti i suoni che uso sono strumenti miei. 

E che cosa mi crea? La possibilità, per dire, di suonare un gong grave campionato, e dal vivo la stessa nota su quella serie di gong che ho, e quello che esce alla fine è un suono combinato che sembra un suono vero, nuovo.  
C'è anche un fatto gestuale: uno che batte un piatto non è come uno che schiaccia un tasto di gomma. E questo ha cambiato completamente quello che faccio. Adesso sviluppo sempre nuovi campioni, lavoro sempre sui suoni, però è sempre roba acustica. 
Anche i suoni elettronici, molti di quelli che si sentono, sono suoni naturali tutti filtrati. Faccio quel tipo di lavoro lì insomma, ecco.

Lei è sempre stato una figura che si è trovata un po' a cavallo tra il jazz, la classica, l'avanguardia, l'elettronica, anche volendo new age per certi versi, è un casino insomma.
È un casino! [Ride]

Penso soprattutto perché intanto è più facile appartenere a un mondo, giusto?
Bravo! In America questi passaggi sono più semplici—non sono semplicissimi neanche là, ma sono più semplici - nel senso che uno può fare le colonne sonore e poi fare musica classica. John Williams lo fa, per dire, no? Oppure uno può fare come Philip Glass: la musica classica ma anche le colonne sonore, o può suonare il piano dal vivo. 
Il problema è che soprattutto in Italia questo mi ha tagliato fuori da tutti i singoli circuiti. 

Un aneddoto: quando ho avuto la commissione per scrivere l'opera lirica sulla storia di Bologna al Teatro Comunale per “Bologna 2000, Capitale Europea della Cultura”, che è stato uno dei cinque progetti che ho fatto in Italia in venticinque anni (tre opere, il requiem per orchestra e lo spettacolo coi Balinesi, che è stato una cosa meravigliosa), il presidente di Bologna 2000 mi dice “vai al teatro comunale a parlare col direttore artistico perché devi metterti d'accordo con lui per le prove... bla bla”. 
Allora vado e c'era questo tizio, di quelli che proprio si sentono "io sono io e tu non sei un cazzo" come il Marchese del Grillo.
Mi presento, questo mi guarda con gli occhi sbarrati e mi dice "Centazzo... ma io mi ricordavo di un batterista jazz" e io gli ho detto "sì, quello è mio cugino. Io faccio il compositore, lei non mi conosce perché vivo in America" 
"Ah, allora parliamo".
È così. Perché non c'è l'accettazione in un campo dell'altro.

Come quando poi nel ‘93 la Warner/Chappell fece un cofanetto con le mie cose classiche, c'erano anche parti di Indian Tapes: era un periodo in cui in verità ero anche un po' confuso su come procedere.
Vittorio Franchini fece una recensione di questo concerto per orchestra che avevo registrato in Polonia con l'orchestra di Potsdam, dicendo "eh, si sente il blues di Centazzo", perché naturalmente Franchini essendo un critico jazz doveva metterci un riferimento. 
Che non c'entrava una mazza.
Però lui era un critico jazz e non poteva recensire un disco di una musica che sta appesa lì e non si sa cos'è...

Per cui indubbiamente mi son dato delle gran badilate sui piedi a fare questi salti, perché la libertà ha un prezzo, si paga, e io l'ho pagato, con poco lavoro spesso, oppure incomprensioni, oppure critiche come queste che non c'entrano un tubo.
Però rifarei tutto da capo. 
Perché alla fin fine ho sempre fatto quello che ho voluto, non c'è mai stato qualcuno che mi abbia detto cosa fare e questo, insomma, è un bel risultato.

Ne è valsa la pena.
Sì, ne è valsa la pena senza dubbio. 
Poi a un certo punto, credo (tocco un attimo ferro) che più avanti, quando la mia carriera sarà finita in un pugno di cenere, alla fin fine qualcosa rimarrà. 
Ed è il motivo per cui mi sono anche dato molto da fare affinché la musica non sia solo registrata ma anche scritta, cioè che rimangano dei documenti.

E difatti nel primo contratto che ho fatto con la Warner li ho costretti a fare l'edizione completa delle mie opere dagli inizi fino al ‘93 e a distribuirle gratuitamente in tutti i conservatori italiani. 
Per cui uno va al conservatorio di Milano e trova cinque volumi di composizioni di Andrea Centazzo. Magari fra cinquant’anni uno andrà lì, le aprirà e dirà "ma che cazzo scriveva questo idiota? Buttiamole via".
Però per il momento ci sono, no? Per cui, insomma, rifarei tutto. Punto.

Per me la musica è la vita. È stata il perno della mia vita, tanto che ho perso mogli e amanti a causa della musica, nel senso che si arrivava a certi punti che era sempre "o me o la musica".

E se siamo qua oggi sappiamo cosa ha scelto.
[Ride] Esatto! Son state scelte certe volte anche pesanti, anche la mia attuale compagna adesso non è che apprezzasse molto l'idea che me ne andassi quaranta giorni in tournée (poi l'ho convinta): è difficile accettare una vita come questa, che uno continui a fare queste cose. Finché uno è giovane rientra nella logica, poi uno a un certo punto si dovrebbe fermare.

Ma c'è mai stata la tentazione di smettere?
No, mai.

O di dire “faccio qualcos'altro”.
Mai, proprio mai. Perché quando ho detto “faccio qualcos'altro” mi son messo a fare video, che è ancora peggio [Ride]. 
Comunque ho continuato a fare arte, non ho mai pensato di fare un altro lavoro. 
Tanto che ho rifiutato anche degli insegnamenti che adesso mi avrebbero potuto fare molto comodo. 
Ho rifiutato cattedre per chiara fama sia di percussione sia di storia della musica, perché l'idea di andare anche solo due volte alla settimana a insegnare mi faceva venire l'orticaria: sono molto selvaggio in questo. 
Per cui… lavoro, eh. Lavoro, lavoro, lavoro, non faccio altro dalla mattina alla sera. 
Però come dico io, quel che voglio io e quando voglio io.
E con questo, caro Federico, ci salutiamo.

Salutiamo tutti Federico Sardo su Twitter: @justthatsome
 


Il punk è morto da quarant'anni, e Mark Perry lo sa benissimo

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 (Immagine via)

Veloce, furiosa e al vitriolo, la scena punk britannica prese vita a metà anni Settanta aprendo la bocca per fare uscire tutta la rabbia e il bisogno di anarchia che fanno cacare addosso le nonne. Sex Pistols, The Damned, The Slits, Stiff Little Fingers, Sham 69... E successivamente la generazione anarchica di Crass e Flux Of Pink Indians scaturì dalla coda dell'ottimismo inglese anni Sessanta con urgenza, sangue e concerti nelle cantine popolati di giovani incazzati. Oggi è un'ovvietà ricordarlo, ma era molto più che musica: un vero e proprio movimento culturale, in cui avere qualcosa da dire contava molto di più di "sfondare". Chiedete a quelli che c'erano, specialmente tutti i cinquantenni con la maglietta dei Ramones che ancora fanno i baristi nei locali per concerti.

L'influenza di quegli anni è ancora viva in collettivi hip-hop DIY come Odd Future come nelle collezioni che affollano le fashion week di tutto il mondo e nei risvolti politici del grime inglese di oggi, eppure la scena originale, basata su chitarre, latex e caos, è sepolta da una vita. Forse gli ultimi chiodi li hanno piantati robe come la carta di credito dei Sex Pistols uscita la scorsa estate, o il fatto che il leggendario CBGB ha annunciato che riaprirà per servire pancake all'aeroporto di Newark. O forse la fine l'avevano già dettata i venti milioni di copie vendute da Dookie dei Green Day, con successiva esplosione mondiale del pop-punk che ci ha poi dato dai Blink 182 ai Fall Out Boy. Oppure molto molto prima: con lpultimo numero di Sniffin' Glue, chiuso dall'editor Mark Perry quando vide la sua band preferita (i Clash) firmare un contratto milionario con la CBS.

Se ce n'è uno che lo sa, quello è proprio lui. Dopotutto, avendo creato la fanzine più influente della storia d'Inghilterra, ispirata al brano dei Ramones “Now I Wanna Sniff Some Glue”, Perry mostrò a tutti, con attitudine sfacciatissima, che si potevano creare dei capolavori con due flgi di carta e del nastro adesivo, dando uno scossone enorme alla scena, fino ad arrivare a stampare quindicimila copie. Sniffin’ Glue ERA la scena punk, la voce del movimento: attirò su di sé un sacco di attenzione e raggiunse uno status da eccezionale meteora cult. NME la definì "la più cattiva, acida e divertente rivista sul rock'n'roll". Poi, nel 1977, dopo dodici infuocati numeri, sparì con la stessa tempestività con cui era apparsa, perché Perry voleva evitare il rischio di venire assorbito dalla stampa mainstream. L'ultimo numero uscì accompagnato da un flexi disc contenente “Love Lies Limp”, l'esordio della band di cui era il cantante: Alternative TV, che nei quarant'ani successivi avrebbe fatto uscire altri dieci dischi.

Considerato che Mark Perry non si ha mai risparmiato commenti sul punk, e che il mondo della musica in cui è nato è completamrnte cambiato, è ora di riprendere il discorso e vedere com'è messa la situazione oggi. Siamo finiti a parlare di un sacco di cose belle, e di altre molto meno belle, come il CBGB...

 (CBGB via)

Noisey: Ai tempi degli Alternative TV si facevate il pienone, per cui imagino che la riapertura del CBGB come ristorante all'aeroporto di Newrk ti tocchi particolarmente.
Mark: Era ovvio sarebbe successo, prima o poi. Ma credo che la gente ci abbia investito troppo a livello emotivo, manco fosse Beethoven, cazzo, o la cattedrale i Notre Dame. Non lo è, è solo un club. Il CBGB aveva già inziiato a colare a picco quando ha iniziato a fare soldi, a vendere magliette e tazze anziché pensare a far suonare le band. Grazie a dio il Roxy non è durato tanto, perché probabilmente avrebbe fatto la stessa fine. Non so perché la gente se la prenda così, come quando John Lydon ha fatto la pubblicità del burro e tutti a dire "è la morte del punk!" E perché? La gente è ridicola. Morte del punk? Ma di che parlano? Il punk è morto il giorno che i Clash hanno firmato per la CBS. Non avremmo dovuto attendere quarant'anni per capirlo.

Cominciamo l'intervista col botto, quindi…
La gente di aggrappa ai simboli della propria giovinezza. Guarda la morte di Bowie, la gente prova ad attaccarsi a quello che può... Si dipingono dei cazzo di fulmini in faccia!  Scrivono su Facebook "È morto David Bowie, è morta parte di me..." Che va bene se muore tua madre, tuo padre, ma non una cazzo di popstar. Sono cagate! Tutti dicono che non si dovrebbe criticare questo atteggiamento, che bisognerebbe avere rispetto, ma sono idiozie. C'è chi ha suonato "Life On Mars" con l'organo in chiesa per fare un tributo a Bowie. Quello sarebbe un tributo? Dai, che mucchio di cazzate!

Ok, di sicuro non è l'aeroporto di Newark, ma c'è un qualche luogo al mondo dove lo "spirito del punk" è ancora vivo? 
Per me lo spirito del punk in realtà veniva solo dallo spirito del rock. E cosa potrà mai voler dire questo, quando gran parte dello spirito del rock è solo cercare di vendere dischi?

Dimmelo tu. 
Sai, la settimana scorsa è morto qualcuno che è stato probabilmente tanto influente quanto Bowie, Robert Stigwood, che era il manager dei Cream e dei Bee Gees. È interessante, perché parliamo sempre dell'infuenza di gente come Bowie o Johnny Rotten o i Clash, ma tipi come lui o come il manager dei Led Zeppelin Peter Grant dominavano davvero il mondo. Sono quelli che cacciavano davvero i soldi. Sono quelli che hanno portato la musica rock fuori da locali come i Marquee e negli stadi: hanno messo insieme i Cream e prodotto film come La Febbre Del Sabato Sera, e roba del genere. Hanno portato il rock alle masse, ed è a causa loro che ora esiste questa macchina da soldi grossa e monotona. Non si torna indietro, non si può tornare ai tempi in cui Bowie suonava al Roundhouse o qualche altro club di merda. Hai presente? La storia è andata avanti, è cambiato tutto. Qualsiasi cosa stia succedendo oggi, che sia lo spirito del rock o quello del punk, agisce su un contesto completamente differente da quando è iniziato.

Dici che il punk, come lo hai conosciuto tu, non potrà mai più esistere?
Questa cosa mi irrita. Non tu, ma in generale la gente che si fa pugnette chiedendosi se il punk sia ancora rilevante. Per me punk ha sempre voluto dire "la scena punk", ma per molti punk vorrà per sempre dire Green Day.

Che siano i Green Days o gli Slaves, queste band tengono il punk in vita?
Non credo abbia più importana. La gente fa un sacco di casino: una band con le giacche di pelle e le cartuccere che fa musica un po' aggressiva viene chiamata punk, ma per me quella è solo una rock band. Per me il punk è morto nel 1977. Non dico non ci sia gente che ha del talento, o che non esistano scene interessanti da qualche parte, ma non c'è paragone.

Secondo te esiste ancora la controcultura?
Direi di no, davvero. Oggi è impossibile fare qualsiasi cosa senza uno sponsor o qualche tipo di sostegno, per cui come fai a rimanere underground? Cose come il Rebellion Festival mi sembrano delle gran cagate. Se la sono sempre menata tantissimo di essere underground, e una volta ho detto all'organizzatore "Questa cosa non è proprio possibile, Cristo, siete sponsorizzati da Doc Marten's!" E lui "sì, ma è Doc Marten's, non un brand qualsiasi." Chissenefrega di chi è. Come si fa a cavarsela in un contesto del genere? Come fai a fare roba pura, underground, controculturale e DIY? Non può esistere una controcultura in un contesto del genere.

In passato com'era?
C'era l establishment, e c'era tutto il resto. Se facevi parte del resto, potevi anche essere cool e andare in giro a suonare e fare concerti, e restare underground. Se suonavi a Reading eri comunque underground, se finivi su NME eri comunque underground perché non eri sostenuto o sponsorizzato da nessuno. Ora ci sono molte più sfaccettature, la musica è molto più capitalista. L'estabilishment c'è ancora, ma ci sono anche molti più toni di grigio. Ci sono perfino dei concertini in provincia che vengono sponsorizzati da Jagermeister, o dalla birra Red Stripe. È sempre capitalismo. Nelle scene underground o nella controcultura di un tempo, queste cose non esistevano.

 Vecchie punkzine (via)
E le zine? Pensi abbiano ancora speranza in questo mondo di capitalismo rampante?
Non so niente delle zine di oggi. Credo che una delle cose più comuni, e anche uno dei problemi più comuni, sia che ci si ritrova con troppe voci che parlano tutte assieme. Negli anni Settanta e Ottanta c'erano troppe zine, si è passati da quattro o cinque come Sniffin’ Glue, Ripped & Torn e poche altre, a centinaia di pubblicazioni. Nell'era di internet è ancora peggio. Tutti hanno i loro blog, e la gente che legge quei blog fa recensioni di l blog sulla propria zine. E come se se lo buttassero a vicenda, in un certo senso. È difficile avere impatto se non c'è una voce riconoscibile. Se ci fossero giusto un paio di voci ribelli il suono si sentirebbe più chiaramente.
 
Possiamo chiudere con una nota positiva? Chi sono secondo te le voci alternative più forti di oggi?
Parlando di spirito punk e di cose che mi hanno fatto dire "wow, questa è roba che mi gasa!", direi le Savages. Hanno un bel carattere. Ci puoi sentire dentro un po' di Sonic Youth e un po' di PJ Harvey. Sono bravissime!

Ci sono un sacco di punk band femminili che spaccano, al momento. 
È vero. Negli ultimi anni, a guardarlo bene, le cose più interessanti che ho ascoltato vengono da band o artiste femminili. Mi piace un sacco di roba, ed è quasi tutta fatta da donne. Le Savages, ma anche il nuovo album di Patti Smith o gente cme Bat for Lashes: Natasha Khan è bravissima. È il momento delle voci femminili. Suonano tutte molto fresche.

Grande! Grazie Mark. Una vera gioia parlarti.

Towkio e Vic Mensa parlano di droghe nella nuova hit "GWM"

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Quasi un anno fa è uscito .Wav Theory, il super mixtape del rapper Towkio, membro del collettivo di Chicago Savemoney (di cui fanno parte, tra gli altri, anche Chance The Rapper, Vic Mensa, Kami De Chukwu, JoeyPurp, Caleb James, Brian Fresco e Dally Auston). Dall'uscita di quel mixtape, che segue due EP, stiamo aspettando che l'artista precedentemente conosciuto come Tokyo Shawn tiri fuori un full-length vero e proprio, e la traccia che ha appena sfoderato insieme al socio Vic Mensa, prodotta da Mr. Carmack & Kenny Segal, potrebbe essere un buon segnale che quel debut stia finalmente per arrivare. 

"G W M" è il titolo della traccia in cui Vic e Tow si scambiano barre a tema droghe: parlano di MDMA, DMT e di altre sostanze non proprio legali. Un buon modo per prepararsi al fine settimana, insomma: 

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Noisey Mix: Shawn O'Sullivan

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Foto via.

Nella classifica dei dodici migliori mix del 2015, Juno Plus ha inserito pure quello di Shawn O'Sullivan per Secret Thirteen, che in effetti era un concentrato anafilattico di pulsioni techno e acid anni Novanta, proprio come lui stesso aveva descritto. È stato allora che ho capito che era giunta l'ora di chiedergliene uno per Noisey. Originario di Farfield, in Iowa, ma da dieci anni stabile a Brooklyn, NYC, le suggestioni che lo hanno forgiato stilisticamente si riconducono a minimal synth obliqua, irruenze hardcore, e una generica attitudine punk nel maneggiare le ibridazioni che questi elementi possono originare. Il percorso artistico di Shawn comincia con due progetti wave, i Led Er Est e i Further Reductions, rispettivamente affiancati da Sam De La rosa e Katie Rose, mentre come solista è stato inserito in rassegne di L.I.E.S., Sacred BonesWierd Records e recentemente con Avian, su cui è uscito con un EP come 440PPM. Un paio di anni fa ha pure suonato al Bossa Nova Civic Club di New York—dove molto spesso fa set tutt'ora—con il boss di Mannequin Records, il signor Alessandro Adriani, che nel dubbio salutiamo.

Questo mix è un cassetto dentro il quale sono sparpagliate un po' tutte queste anime; si riconosce un filo conduttore più o meno disturbato, che trasfigura introspezioni noise/proto industriali in rally tachicardici di techno old school scalmanata, come la traccia anonima al minuto 52 (quasi 53) da lui definita "una delle mie preferite di tutti i tempi". In realtà mi ha detto di chi è ma credo sia un segreto, e non sarò certo io a svelarlo. Buone convulsioni.

Tracklist:

01. Bambule - Vertical Invasion
02. Ab-hinc - Relics 
03. Current 909 - And Then He Pushes Back
04. Rank - Zentral Zykosis
05. Francesco Clemente - Fra Nerezze e Luce
06. Le syndicat Electronique - Entrevue Misanthropique
07. Brigade Internationale - First Time
08. Njurmannen - Cold Meat Industry
09. SPK - Suture Obsession
10. Limbonic Art - Promenades Limbiques
11. Cytochrome C - Un Arbre En Levitation
12. No Name - 01100010
13. UHT/Saoulaterre - Noyau Rapide

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La performance di Future e The Weeknd al SNL

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Aspettavamo da un po' che Future ci deliziasse con la sua performance al Saturday Night Live. L'annuncio della sua esibizione era arrivato da Yeezus in person daurante la sua apparizione al SNL, che ovviamente aveva alzato l'asticella, e non di poco. Fortunatamente, Future non si è tirato indietro, e anzi ha portato con sé il compagno di autotune The Weeknd. Per molti fan è stata una sorpresa poter sentire quella traccia eseguita dal vivo in televisione. Più tardi, nella stessa serata, ha suonato anche l'inno all'arrivo della primavera, "March Madness", e "Jumpman" in compagnia dell'host Jonah Hill.

Ketama 126 - Nina

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Tutto ciò che tocca Chicoria è oro, penso sia giunto il momento di ammetterlo e metterlo in forma scritta, per ufficializzare il tutto. Che sia produrre la propria musica, commentare quella altrui o produrre quella dei suoi soci, difficile che qualcosa che esca dal rapper del TK deluda i suoi fan. Tra i soci del Chicoria c’è Ketama 126, che in Smuggler’s Bazaar ha già pubblicato Ketam-City lo scorso anno. Il ventitrenne che fa parte del collettivo 126 “che va dopo il nome perché è il cognome della mia famiglia”, mi spiega, dopo un album e un mixtape collettivo ora è pronto a tornare. “Sì, sto lavorando a un disco, ma ancora non ho deciso un cazzo, ultimamente sto ragionando per singoli e video”, mi racconta mentre ci guardiamo in anteprima il video del suo nuovo singolo “Nina”, che da ora è disponibile qui sopra: “Il pezzo si chiama così, ma non c’è un motivo preciso. Semplicemente, dopo aver fatto il beat, ho iniziato ad ascoltarlo a stecca, il ritornello ha iniziato a girarmi in testa quasi naturalmente”. D’altronde, come rivelato in un’intervista di qualche tempo fa, la musicalità è per lui tutto: “Posso fare pezzi stupidi pieni di flow e musicali, ma non farò mai una canzone piena di contenuti e messaggi che suona da schifo,” dichiarava. “Quindi mi entra in testa questo ritornello che fa Nina, Nina, non piangere Nina. Mi è subito piaciuto un sacco e in più Nina è un nomignolo romanesco con cui puoi chiama’ qualsiasi pischella, è come un diminutivo di bambina. Era perfetto, perché così chiunque può dedica’ ‘sta canzone pe’ consola’ ‘na pischella che piagne.” 

Anche la location del video è particolare: “Il video è girato al Trullo, per una fortuita casualità, ovvero che - pochissimo tempo dopo che sono andato a registra' la canzone - ho scoperto che questo street-artist che si chiama Flavio Solo aveva fatto 'sto dipinto al Trullo intitolato Nina Piangente, con accanto una poesia dei Poeti der Trullo che inizia co “non piagne, Nine”. Non potevo che girarlo lì.”

 

Puoi seguire Ketama 126 su Facebook e Instagram.

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