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Abbiamo chiesto ai rifugiati di Vienna che musica ascoltano

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Tutte le foto di Sebastian Rossböck

Lo sappiamo cosa state pensando mentre leggete il titolo di questo post:  "Cos'hanno nel cervello questi idioti di Noisey?" Ma la verità è che i nostri colleghi tedeschi volevano sapere qualcosa di più di queste persone di cui sentiamo parlare ogni giorno, di cui vediamo più spesso i cadaveri che i volti e le case distrutte che le loro playlist. Volevamo sapere qualcosa che li riguarda, che gli interessa, qualcosa che occupa le interminabili giornate che passano in coda per poter superare una frontiera o farsi timbrare un documento. Perché non offrirgli una piccola distrazione durante questa giornata? Dopotutto abbiamo fatto questo gioco con persone decisamente meno interessanti.

Se fate parte di quella schiera di persone che sono convinte che la possibilità di emigrare vada guadagnata con la miseria e che uno smartphone o qualsiasi altro aggeggio elettronico rappresentino una condizione di ricchezza sufficiente per starsene "a casa propria", allora potete anche fermarvi qua e, detta proprio fuori dai denti, fare a meno di continuare a leggere il sito, perché non avete gli strumenti per capire la realtà, figuriamoci cosa potrete mai capirci di musica. In caso contrario siamo convinti che la musica abbia il potere di alleviare le fatiche della realtà e, in generale, sia un aiuto per evitare di immaginare le persone come alieni provenienti da un altro universo, quando in realtà ascoltano Pitbull, i Metallica e hanno dei gusti di merda proprio come voi altri. Quindi siamo andati a West Railway Station a Vienna, ma la situazione non era adatta, per cui ci siamo spostati alla stazione centrale di Vienna, dove era stato allestito uno spazio temporaneo per ospitare i rifugiati. Qui le persone erano un po' più rilassate e abbiamo scorto anche qualche volto sorridente, a cui siamo andati prontamente a rompere il cazzo perché è la cosa che ci riesce meglio fare.

Mahdii

Noisey: Quale genere ti piace di più? Hai qualche artista preferito?
Mahdii: Impazzisco per il pop persiano e i miei due cantanti preferiti sono Ahmad Saidi und Ali Ashabi.

C'è qualcuno che ti piace nella scena occidentale?
Pitbull.

Oh. E cosa ti piace di Pitbull?
Mah, semplicemente il modo in cui si esibisce.

Cosa stai ascoltando in questi momenti di attesa?
Roba tradizionale, oggi soprattutto musica persiana. Prima ho ascoltato Armin 2 AFM e Hossein Eblis.

Abdollah. È il tipo che ride nel mezzo

Noisey: Ciao, cosa ascolti di solito? 
Abdollah: Mi piace la musica tradizionale afgana. Penso che il numero 1 sia Safdar Tawakoli.

C'è qualcosa di speciale che ti aiuta nei momenti più duri?
Certo che c'è, ad esempio nomi come Mahasti, Hayedeh, Ahmad Zaher e Moien.

Adel 

Ehy, qual è il tuo genere preferito?
Mi piacciono soprattutto il progressive e il metal.

Capito, e hai una band preferita?
Direi gli Opeth, ma anche Dream Theater, Riverside, Haken e Leprous.

Oh, i Leprous hanno appena cacciato un disco nuovo.
Sì, ma anche i Riverside.

Ma ci sono scene metal o progressive in Siria?
Sì, no, cioè sì... Non lo so. Io ho registrato qualcosa, ma è più che altro un progetto solista, suono tutti gli strumenti da solo. Si chiama Ambrotype e l'8 giugno farò uscire il mio primo album. Si chiamerà The Revelation. Sto già lavorando al passo successivo e ovviamente il prossimo lavoro sarà ispirato al viaggio che mi ha portato qui. Revelation racconta la situazione siriana e com'è la vita in quel posto, adesso, ma mi piacerebbe raccontare altro. Per il momento ho messo insieme tre canzoni ed una si chiama "Hiraith" (ndr, non sono sicuro di aver capito bene questa parola). Significa "sentire la mancanza di una casa che non è mai esistita". Siamo quasi morti durante il viaggio verso l'Austria. È stata davvero dura.

E credimi quando dico che sono dispiaciuto per questo. Ma sono anche contento che la musica sia riuscita ad aiutarti, in qualche modo. Ti sei portato dietro degli strumenti?
Non qui, ho lasciato tutto in Turchia. Ho un laptop e una tastiera.

C'è musica che ti aiuti in questa situazione?
Ho ascoltato il nuovo album di Riverside e gli Opeth, anche Steven Wilson e Porcupine Tree.

Queste esperienze, credi che siano di aiuto per la tua musica?
Ho avuto il cancro alle ossa e mio fratello è morto in un incendio, ma devo dire che sì, la sofferenza in qualche modo ti aiuta a tirare fuori la musica migliore. "The Ambrotype" è una canzone che parla dela situazione in Siria ed è effettivamente la miglior cosa che abbia mai composto.

Qual è il tuo piano?
Sto andando in Olanda. Mio papà è inglese e io sono nato in Inghilterra, ma non ho mai fatto richiesta per un passaporto inglese. Ecco perché sto andando in Olanda a spiegare che devo raggiungere mio padre, ho copie di tutti i documenti necessari. Se non dovesse funzionare potrei fare richiesta d'asilo in Olanda e continuare a lavorare alla mia musica lì.

Mi piace l'Olanda.
Sì, ma io voglio andare in Inghilterra. Conosco la lingua e mio padre vive già lì, mentre il resto della mia famiglia lo raggiungerà presto.

Vi siete separati?
Sì, perché loro possono entrare legalmente, devono solo aspettare il via libera, hanno un passaporto o sono minorenni, per cui è più facile. Per me era impossibile visto che ho ventidue anni, ma alla fine andrà tutto bene.

Buona fortuna allora.

 

Muhammad (a destra)

Quale genere preferisci?
Le cose vecchie, i classici arabi che si ascoltavano i miei genitori. Uno dei miei cantanti preferiti è Abdelhalim Hafez.

Ascolti anche qualcosa delle nostre parti?
Sì, in particolare rap e hip-hop, è un genere che mi piace, soprattutto 50 Cent e Eminem.

Hai sentito qualcosa nelle ultime settimane, durante il tuo viaggio?
Purtroppo non ho ascoltato niente per più di due settimane. Ho dovuto attraversare un periodo molto stressante.

Che cosa ti ascolterai alla fine di tutto questo, quando avrai raggiunto la tua destinazione?
In realtà mi piacerebbe imparare di più sull'hip hop tedesco, quindi penso mi butterò in quella direzione.

Ahmed

C'è un genere che ti piace più degli altri? Un musicista preferito?
Mi piace la roba pesa tipo il Death Metal. Impazzisco per i Metallica, Opeth e Iced Earth, ma tra questi il mio cantante preferito è James Hetfield.

Wow, e come mai ti piace così tanto?
Perché credo che l'hard rock abbia un'energia tutta sua, ti aiuta a scaricare la rabbia.

Che cosa si ascolta in Siria?
Ultimamente tanto rap. Credo che Eminem sia il più popolare.

Anas, Nour, Mohammad (da sinistra a destra)

Quale genere preferite?
Anas: Mi piace il rock and roll, e il meta.
Mohammad: Musica classica, Beethoven, roba barocca diciamo
Nour: Pop, solo il pop.

Mi immagino che spasso quando dovete decidere cosa ascoltare. Prima un ragazzo ci ha detto che in Siria Eminem sta spaccando, è vero? 
Anas: Sì, è così, è molto ascoltato.

Quali sono i nomi che ascoltate di più?
Anas: Iron Maiden, Metallica e Linkin Park
Mohammad: Amo Bach.
Nour: One Direction.
Anas: Ci piace la musica occidentale, ma ascoltiamo molto anche robe più tradizionali e legate al nostro Paese.

C'è la musica pop sulla radio siriana?
Anas: Diciamo che ci facciamo i nostri CD. La radio passa solo annunci e messaggi.

C'è qualcosa che hai ascoltato in queste settimane?
Anas: Hai presente "One"?

Quella dei Metallica? 
Anas: Sì, la amo. Penso che quell'assolo sia perfetto.

 

 


Cosa ho imparato sulla musica dai Simpson

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Sono approdata alle medie quando il nu-metal era una cosa imperante, onnicomprensiva, da cui non era possibile scappare, quindi per me era difficile immaginarmi che ci fosse qualcos'altro, oltre al nu-metal. Lo so, un incubo. Disperata, tentavo di racimolare informazioni utili dai ragazzi più grandi, ma non ero ancora consapevole che la vera fonte della mia conoscenza musicale stava proprio lì, davanti ai miei occhi: i Simpson

Da quando mi sono affrancata dalla musica da acne della prepubertà, ho dovuto dar credito al buon Homer Simpson per avermi fatto sentire per la prima volta gli Smashing Pumpkins. E questa è solo una delle tante nozioni che mi sono state impartite dal mix letale di interessi musicali e impulsi olistico-parodistici della serie di Matt Groening. Ed ecco alcune delle lezioni più importanti che ho imparato da questo calderone di pubertà pre-internet che mi ha comunque inculcato un'ossessione per i Nirvana talmente intensa che mi ha quasi spedito in terapia.  

Non è così difficile avere un sadgasmo

C'è stato un momento, verso la fine degli anni Novanta, in cui se sentivo parlare anche solo un po' male dei Nirvana me la prendevo più che se mi avessero cagato sui capelli, e non scherzo. Ma, anziché indurmi a scrivere lettere infuocate, i Simpson mi hanno fatto rivalutare il mio punto di vista sulla musica, oltre a farmi riflettere, come forse nessun altro, sul gesto finale di Kurt.

In un episodio intitolato "That 90s Show", Homer riforma la sua band del college, un gruppo grunge chiamato Sadgasm (un riassunto perfetto per quel genere di musica), che si scioglie dopo che Homer si rinchiude in casa perché, si sospetta, ha un problema di droga. Il riferimento va così in profondità che, al telegiornale, ad annunciare la fine dei Sadgasm è Kurt Loder, lo stesso che lesse su MTV la notizia della morte di Kurt Cobain nel 1994.

Le siringhe trovate nell'appartamento di Homer si rivelano essere di insulina: gli è venuto il diabete perché beveva troppi frappuccini. Ma l'episodio, nonostante i mascheramenti, rende l'idea più di quanto fanno alcuni documentari di dubbio gusto sullo stesso tema. I pezzi dei Sadgasm che prendevano per il culo i testi dei Nirvana erano fighissimi. Non scherzo. “Pain is brown/ Hate is white/ Love is black/ Stab the night/ Kingdom of numb/ Closet of dirt/ Feelings are dumb/ Kisses hurt,” è un testo che mi è entrato talmente nell'anima che probabilmente ci ho anche creato un mio alter-ego su qualche forum.

La controcultura non esiste

La puntata “Homerpalooza” ha avuto un grosso effetto su di me, da bambina, e non solo perché, da allora, ogni lineup di festival è stata una delusione totale (per dire, forse i bilanci dell'ATP andrebbero meglio se avessero in programma Smashing Pumpkins, Sonic Youth, Cypress Hill e un ologramma di Homer Simpson). Sono cresciuta in un buco di culo di paesino, e avevo 12 anni quando vidi quell'episodio per la prima volta, quindi chiaramente non avevo la più pallida idea di chi fossero le band ivi citate. Ora so che Billy Corgan è un tranquillone sano di mente e pieno di capelli che è là solo per confortare tutti gli uomini in piena crisi di mezza età—occhiolino—ma so anche che i festival sono tendenzialmente una merda. 

Chiaro, se mi trovo in situazione sono anche in grado di farmi il nodo alla maglietta e ballare come una cogliona per ore, ma so benissimo che quella sensazione di libertà che ti danno i festival—che consiste più o meno in: dormire in una tenda e faticare a cagare e ad avere rapporti di qualsiasi tipo se non sotto effetto di sostanze euforizzanti che ti procuri urlando a caso se qualcuno ha della droga come se non esistesse polizia nel mondo—è in realtà un castello mentale. Fortunatamente però ho avuto i miei momenti di consapevolezza della totale inutilità delle ansie da festival grazie alla storica puntata dei Simpson.

Certe volte i VIP in forma di cartone animato possono insegnarti di più dei tuoi genitori

Che si tratti di Michael Jackson che dà la voce a un paziente di un manicomio che crede di essere Michael Jackson stesso, o di Johnny Cash che appare come guida spirituale sotto forma di coyote che fa visita a Homer durante un'allucinazione procurata con un peperoncino speciale, oppure di Gengive Sanguinanti Murphy che invita Lisa a liberarsi delle sue angosce suonando il sassofono, le lezioni imparate da questo cartone animato sono molto più intense di quelle apprese da consigli accorati di persone in carne ed ossa.

Quando il coyote Johnny Cash dice ad Homer che tutto ciò di cui ha bisogno è la sua anima gemella, tutto d'un tratto ti rendi conto che tu e il tuo amichetto strano alla fine siete una bella coppia oppure che devi piantarla di fingere di avere più tette imbottendoti il reggiseno perché alla fine chi ha bisogno dei ragazzi quando c'è la musica?

L'elitismo è una roba da babbi 

C'è un sacco di gente là fuori che se la prende con Kanye perché suona ai festival cosiddetti alternativi o con i Metallica headliner del Glastonbury. E ancora una volta Matt Groening ha detto la sua sull'argomento e ha zittito tutti prima ancora che parlassero: ha capito che fare gli snob, con la musica, è una roba da idioti, e quando ha avuto la possibilità di fare musica con i personaggi da lui creati ha pensato di fare featuring con gente tipo Michael Jackson per il pezzo “Do the Bartman” e con il cast del Principe di Bel Air per “Deep, Deep Trouble”. L'album che contiene questi pezzi si chiama The Simpsons Sing The Blues, e negli anni Novanta ha pure preso il disco d'oro e devo dire che se l'è meritato tutto.  

Matt Groening ha esteso questo mantra anche nel mondo reale. Ha curato un'edizione dell'All Tomorrow's Parties (prima della bancarotta), quella del 2010, e ha messo gli Spiritualized accanto a Iggy and the Stooges. Perché... Perché no? Nel suo mondo è super ok che B.B. King e DJ Jazzy Jeff condividano un palco, che i Ramones suonino alla festa di compleanno del nonno  e che Mick Jagger sia un capo scout. Questo per dire che la musica è una forza che unisce, non dovrebbe mai creare divisioni. 

Qualsiasi cretino può avere una Band

Piantatela di lamentarvi del lato stupido della musica o di come PC Music sia un progetto indecente—se Homer Simpson ha potuto formare un quartetto di barbieri, allora tutto è possibile. 

 

Groundislava ft. Erik Hassle - Flatline

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Il pop strumentale di Groundislava è roba da meditazione. L'ultima volta che avevamo avuto notizie di questo venticiquenne che all'anagrafe risulta Jasper Patterson, fu ai tempi dell'LP cyber-tranceggiante Frozen Throne, una storia d'amore tormentata tra mondi reali e virtuali. Roba concettuale, e considerate che il disco usciva accompagnato da un videogioco ispirato al singolo “Girl Behind the Glass.” Già quel disco e i successivi remix rappresentavano una svolta secca di sound, e questo nuovo singolo intitolato "Flatline" sembra proseguire oltre nella stessa direzione.

È un songolo mellifluo e suadente, in cui magari l'autore non si è preoccupato di creare un mondo (come era successo per l'ultimo album) quanto di creare atmosfera, con l'aiuto del crooner svedese Erik Hassle, la cui voce distante sembra riportare questi suoni sulla terra. Ci sono versi come "Stole the money, I got away / Put them all in the wishing well" ["Ho rubato dei soldi e me la sono cavata / Li ho buttati tutti nel pozzo dei desideri."].

È un pezzo molto interessante e stratificato, sia dal punto di vista emotivo che musicale, rivela nuovi dettagli a ogni ascolto e ci ha fatto venire una gran voglia di ascoltare l'EP che Groundislava sta per buttare fuori su WeDidIt. Lui stesso ha dichiarato: "Sta a metà tra l'energia di Frozen Throne  e la direzione in cui vanno la maggior parte dei miei nuovi brani: sono più lenti, più atmosferici, mi sto concentrando di più sui dettagli. Volevo comunque aggiungere dei toni più pop, motivo per cui penso che la voce di Erik Hassle sia perfetta." Se volete farvi catturare dall'atmosfera del pezzo, scaricatela e/o ascoltatela (in esclusiva) qua sotto e chiudete gli occhi:

Nell'era dello streaming, i musicisti devono ragionare come imprenditori?

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Immagine di Paul Raffaele

Lo streaming è il futuro della musica. È un argomento scottante, ma la conclusione è più che scontata. Molti, in particolare gli artisti, sostengono che lo streaming digitale promuova una visione della musica mercificata, mentre i suoi difensori lo vedono come rinascita di un'industria poco avvezza ai cambiamenti. Però ecco, non c'è dubbio che qualcosa sta succedendo. L'arrivo di Apple Music a giugno è stato l'ennesimo colpo di grazia, questa volta definitivo, per le vendite. Spotify adesso vale 8.5 miliardi di dollari. Eppure, anche se lo streaming è diventato il modello d'industria dominante, i servizi che lo riguardano devono affrontare il problema della sua redditività a lungo termine. Non è ancora ben chiaro se il numero di contribuenti è sufficientemente alto—né se lo sarà mai—per far fruttare economicamente i servizif esistenti. Questo modello è diventato più che fruibile dalle compagnie di streaming, ma può diventare sostenibile anche dagli artisti (e relative label)? Come previsto, nessuna delle compagnie di servizi streaming ha ancora trovato una risposta a queste domande. 

Dalla prospettiva di un PR, è all'ultima domanda che chi si occupa di servizi streaming deve rispondere prima che può. Il pagamento all'artista, se non è il nodo fondamentale della questione finanziaria, è sicuramente al centro di quella etica. Molti musicisti se la prendono con la dialettica di queste compagnie, che vogliono far credere a tutti costi ci siano dietro progetti aggregativi, di costruzione di comunità, quando di fatto avviene l'esatto contrario. Il recente appello di Taylor Swift ad Apple Music al pagamento degli artisti per lo stream delle canzoni nella sua versione di prova, è stata un'ottima mossa, ma negli ultimi anni altri appelli di questo tipo hanno avuto un'accoglienza tutt'altro che buona. Damon Krukowski dei Galaxie 500, nel 2012, ha scritto che la sua band aveva ricevuto 21 centesimi per 7800 riproduzioni streaming di una canzone su Pandora e ne sarebbero serviti altri 312000 per arrivare a guadagnare tanto quanto avrebbero concesso le royalties derivate dalla vendita di un LP. Pochi mesi fa, Aloe Blacc ha rivelato di aver tirato su meno di quattromila dollari su Pandora, per la collaborazione con Avicii nella mega hit estiva del 2013 “Wake Me Up!”. È essenziale che le compagnie di streaming siano trasparenti nei loro reali intenti, e dichiarino se stanno a fianco dei musicisti o meno. 

“Parliamo un sacco di consumatori che non capiscono necessariamente i benefici dello streaming, ma qui c'è da fare vera e propria educazione all'interno della comunità degli artisti," ha detto Joe Armenia, responsabile delle relazioni pubbliche tra artisti e label di Rdio. "Non possiamo sottovalutare l'importanza di far capire certe cose agli artisti."

Per intortarseli a dovere, le aziende in competizione devono dimostrare agli artisti di far parte di un piano, di un progetto a lungo termine. E in un sistema in cui gran parte dei servizi pagano meno di un centesimo a riproduzione, tutto ciò serve almeno a trasmettere ai musicisti che l'interesse nei loro confronti va oltre il valore monetario. Senza troppa sorpresa, c'è da dire che è la tecnologia alla base di questi piani: le compagnie di streaming hanno cominciato perlomeno a garantire agli artisti un accesso diretto a dati e setup per permettere loro di analizzarli senza intermediari. 

“Nella comunità degli artisti, ce ne sono già alcuni che colgono l'importanza di usare e accedere ai dati," sostiene Chris Phillips, responsabile della produzione di Pandora. "C'è una bella fetta dell'industria musicale che però non ci arriva." Dentro Pandora, Phillips è stato a capo della Pandora Artist Music Platform, un programma di analytics lanciato lo scorso ottobre dopo anni e anni di lavorazione. I musicisti possono usarlo per informarsi sul reale numero di ascoltatori, senza limitarsi alle sole riproduzioni, ma andando a ricercare la loro provenienza geografica, che social usano, playlist, e qualsiasi altro dato utile, tutto confezionato in report dall'interfaccia user-friendly e alla portata di tutti. Possono usare questi dati per pianificare tour nelle aree a più alta concentrazione di fan, scegliere setlist ad hoc sulle basi di quali sono le canzoni più popolari, interagire con i fan su piattaforme social etc. I principali servizi di streaming hanno tutte piattaforme simili, sia a livello di operazioni che di lavoro. Le possibilità sono decisamente allettanti, ma lo è ancora di più la retorica utilizzata dalle aziende a questi scopi: vogliono vendere gli analytics ai musicisti esattamente come potrebbe fare un grosso marchio di analytics a un'azienda priva di inventiva. Suggeriscono di usare gli analytics per costruire una strategia, esattamente come farebbe una startup. 

“Ultimamente, ci piacerebbe davvero molto se la prima cosa fatta da un musicista appena alzato la mattina fosse loggarsi su Pandora e dare un'occhiata ad AMP," ha detto il cofondatore di Pandora, Tim Westergren a VentureBeat quando AMP è stato lanciato lo scorso ottobre. Per lui gli artisti si dovrebbero comportare come vere e proprie aziende che prendono decisioni in base a dati analitici—pensando come le startup che vogliono "tamponare" il problema della scarsa popolarità della loro musica. Gli artisti in genere guardano solo il lato pop e sfarzoso del lavoro che fanno, ma quando si trovano faccia a faccia con la realtà dei fatti in forma di dati analitici, si apre una dimensione tutta nuova. Se sapessi esattamente cosa piace a una determinata audience, in un determinato posto, con una determinata demograficità, non cominceresti a calibrare la tua musica di conseguenza?

Attualmente i servizi di streaming sostengono di devolvere dal cinquanta al settanta percento dei loro ingressi ai diritti d'autore, sia verso le label che alle royalty di distributori come SoundExchange. Solo una piccola parte di questi soldi però arriva davvero agli artisti. Perciò, se da una parte questi ultimi hanno ragione quando dicono che non vedono sufficienti compensi economici per la loro musica, dall'altra è anche vero che il modello di business in questione non ha mai avuto incrementi monetari degni di nota, specie per i servizi di streaming. Il più grande problema dietro a realtà del genere—i pochi soldi che fanno questi servizi—non è di semplice soluzione. L'intera industria musicale ha visto scemare i profitti di anno in anno per quindici anni, ed è molto probabile che gran parte di queste perdite non verranno mai recuperate. 

“L'economia è diversa” ha concluso Chris Becherer, capo della produzione di Rdio. “Stiamo ancora introducendo il modello a un sacco di persone. Ci vorrà un po' per portare le royalties a fare quello che faceva la gente ai vecchi tempi." Il modello di streaming in sé detiene parte di questa responsabilità. Il free download illegale, fiorito negli anni pre-streaming, è nel DNA di molte aziende. Ulteriori tagli da cui trarre profitto sono i "freemium", tier supportati dagli annunci pubblicitari che offrono Spotify e tutte le altre catene. Sono stati iper criticati dai servizi a pagamento, ma questi ribattono che, considerando che gli ascoltatori sono abituati a prezzi bassissimi o semplicemente inesistenti, per la musica, è molto difficile spingerli a pagare senza prendersi dei rischi. Tuttavia, se il modello continua a permettere ai consumatori di pagare pochissimo per accedere ai servizi, i soldi non basteranno mai a nessuno. 

Questo crea dei problemi—ma se fossimo in un'industria più rosea, un'"opportunità"—per i servizi streaming, che se volessero apportare maggior valore agli artisti sottoforma di royalties e diritti d'autore, non potrebbero. È qui che entra in gioco la retorica per cui gli artisti vengono visti come utenti aziendali che usufruiscono dei dati di un servizio streaming. In teoria, sono gli artisti a supplementare i pagamenti per le royalties dal valore più basso, un po' come un autista Uber compensa le proprie tariffe con il valore aggiunto della flessibilità su orari e prezzi del lavoro stesso. Invece di fare musica e venire pagati e basta, gli artisti qui diventano partecipanti attivi nell'utilizzo del servizio, che potenzialmente autogenera il valore economico di cui hanno bisogno

“Sarebbe magnifico che i dati originati dagli streaming venissero forniti direttamente agli artisti," ammette Simon White, che gestisce Phoenix e Hudson Mohawke, "Credo che l'estrapolazione di questi dati diventerà parte fondante dei giri di affari che ci serviranno per andare avanti. Riuscire a inquadrare chi e dove sta ascoltando la tua musica, oltre che comunicare con queste persone in via diretta, sono grandi e potenti strumenti per noi—in particolare se parliamo di musica che non passa necessariamente dai mass media. Invito tutte le aziende di streaming ad aprire i loro portali e a permettere il libero accesso agli artisti."

Musica e tecnologia sono diventati sempre più un tutt'uno, specialmente ora che stanno fiorendo le startup focalizzate sull'industria musicale e i suoi dati analitici. Aziende come Semetric (acquistata dalla Apple a gennaio) e Next Big Sound (comprata da Pandora a maggio dopo una previa collaborazione con Spotify) offrono l'accesso alle pubbliche interazioni, ai dati su vendite, concerti e riproduzioni streaming che possono fornire informazioni mai rivelate prima sulle singole performance e sulla reazione degli ascoltatori. Questi dati sono presentati agli artisti su apposite piattaforme di software come Pandora AMP.

“Se sai quando, dove e in che contesto i tuoi fan stanno ascoltando la tua musica, allora puoi regalare alla gente un'esperienza magnifica al momento giusto, nel luogo giusto," ha specificato il portavoce di Spotify Graham James.


Spotify / Screenshot

Sono stati molti gli artisti a saltare e bordo: secondo i dati di Pandora, migliaia di act, dai primi in classifica alle band indie, hanno rivendicato la propria identità su AMP. Rdio offre servizi simili ai suoi iscritti, mentre SoundCloud ha dichiarato di avere oltre ventimila partecipanti al proprio progetto On SoundCloud. Ma non ci sono solo aziende che forniscono agli artisti questi dati e li usano per garantire loro un seguito più mirato, sul versante label esistono casi come 300 Entertainment, che usa gli accessi ai dati sulla musica di Twitter come strumento per lavorare alla produzione di nuovi artisti, e ha reso popolare gente come Migos con l’ausilio di queste tattiche social innovative.

Se da un lato non si può negare che ci sia da parte dell’industria una certa spinta all’uso di questi dati, il loro effettivo valore resta difficile da quantificare per gli artisti. Per chi ha ancora qualche difficoltà a far convivere musica e tecnologia, è abbastanza complesso capire in che modo certe informazioni possano aiutarci, ora e in futuro. Ma quanto dovremmo lasciarci influenzare da dei software di analytics sviluppati da compagnie che di base vogliono soprattutto aumentare i loro profitti? “È la morte” ci dice Thomas Arsenault, musicalmente conosciuto come Mas Ysa, quando gli chiediamo se ha mai studiato i numeri per aiutare la propria carriera.

“Forse sbaglio a pensarla così, ma non leggo i commenti né mi preoccupo dei like che prendo o simili. Non leggo nemmeno le interviste. Non voglio sapere chi pensa cosa di qualcosa. Non sono molto famoso, per cui forse dovrei. Penso sia importante fare roba del genere se vuoi essere un professionista nel 2015. Io non so come fare.” In questa prospettiva, i dati regnano, e aiutano a compiere decisioni migliori. Idealmente per i servizi di streaming, gli artisti che sono stati educati. Idealmente, gli artisti allenati all’uso dei servizi di streaming dovrebbero essere in grado di “far sposare arte e scienza”, come dice Phillips di Pandora, attingere alle risorse a lungo termine fornite dalla tecnologia e, in definitiva, guadagnare di più. Questo renderebbe anche gli artisti più attivi sulle suddette piattaforme, incrementando il bacino culturale e quello di utenza dei vari servizi, aumentando così i guadagni di tutti. Man mano che gli artisti diventano utenti dei servizi di streaming, diventano sempre meno responsabili delle percentuali di guadagno che riescono a ottenere da loro.

Questo funziona anche al conterio: una band brava a usare i dati per scegliere che strada intraprendere sarebbe in grado di trovare scorciatoie innovative per la fama e il successo, mentre una che non usa gli analytics o li usa male, si troverà nei guai e con meno soldi di quelli che che avrebbe guadagnato da un accordo sulle royalty più vantaggioso. Certo, se all’orizzonte non c’è nessun accordo più vantaggioso, rivolgersi a una piattaforma di streaming sembra la migliore opzione.

Ma c'è dell'altro. Sensibilizzare gli artisti sul potenziale valore degli analytics non significa solo introdurre loro qualcosa di nuovo. Vuol dire anche portare gli artisti ad accettare i benefici di tali dati come rappresentazione dello stato effettivo le cose. Avvicinare gli artisti ai servizi di streaming, rendendoli dipendenti l'uno dall'altro. Questa dipendenza reciproca sembra essere ciò che perseguono gli stessi servizi—ed è da questo che dipende il successo del mercato dello streaming. 

Consideriamo che i database dipendono dalle modalità operative delle singole aziende; gli analytics di Spotify non saranno mai quelli di Rhapsody, né tantomeno quelli di Pandora. Le band dovrebbero quindi adattare le loro canzoni in base ai canoni del servizio? In un recente saggio, il musicista e professore Mike Errico, teme che il principale rischio di questo ingranaggio sia tirare su generazioni di musicisti furbi, che si dedicano a produrre tracce poco più lunghe di trenta secondi, giusto per farsi pagare dal servizio. "Spotify di fatto incentiva questo tipo di cambiamento formale della traccia," così che i musicisti sono quasi spinti a non approfittare dell'ambiguità del sistema di cui dispongono, ma limitarsi a comporre pezzi da trenta secondi giusto per accaparrarsi quei pochi spicci in più.

La tecnologia musicale ha da sempre dettato legge per quanto riguarda la lunghezza delle tracce, basti pensare alle limitazioni dei primi strumenti di registrazione: 78 giri, poi 45, che potevano contenere dai tre ai cinque minuti massimo di musica. Se un band non aveva un 45 giri, semplicemente non finiva in radio, compromettendo la sua potenziale popolarità solo per questioni di durata di un singolo. È uno dei principali motivi per cui gran parte delle hit da radio sono lunghe meno di quattro minuti, un sistema che è rimasto ancorato molto a lungo, incurante delle evoluzioni tecnologiche. Se gli artisti, in passato, hanno dovuto affrontare i limiti tecnologici dei loro tempi, perché adesso, non possono adeguarsi agli standard attuali e garantirsi un ingresso economico col minimo sforzo? Se le nuove tecnologie (malgrado le loro pretese liberatorie) continuano a supportare le limitazioni che determinano forma e lunghezza delle canzoni, perché non trarne vantaggio? 

Cosa ne sarebbe di Spotify? Abbiamo visto cosa succede a una band che prova a fregare il piano tariffario di Spotify, quando i Vulfpeck hanno caricato un album interamente muto, “Sleepify,” sul portale, e chiesto ai fan di attivare lo streaming mentre dormivano. La band ha raccolto ventimila dollari prima che Spotify si rendesse conto di cosa stava succedendo e bannasse l'album. "Se Spotify ci dovesse mai dare questi soldi, li useremmo per un tour," hanno detto. Questa è solo una zona d'ombra, dato che i Vulfpeck, apparentemente, non hanno fatto altro che attenersi alle regole di Spotify; mentre d'altra parte è lo stesso Spotify che decide quali sono queste regole. In conclusione abbiamo quindi il servizio streaming che cerca di controllare l'intero mercato musicale e di dettarne le leggi, diffondendo il messaggio che se le band non si piegano ad esse, la loro visibilità evapora in tempi record.


Apple Music / Foto concessa da Apple

 

Niente meno che un fiero sostenitore dei diritti degli artisti come David Byrne ha recentemente dichiarato che i musicisti sono imprenditori. Byrne ha anche detto che la cooperazione e la trasparenza sono le chiavi per un sistema migliore e ha notato come persone provenienti da qualunque ambiente del music business stiano lavorando tenendo bene a mente questi principi. E fino a un certo punto, ciò potrebbe anche funzionare: un recente articolo pubblicato dal New York Times sostiene che, in base al reddito e alle statistiche riguardanti l’occupazione, i musicisti stanno finanziariamente meglio nell’era del post-Napster, soprattutto grazie a un incasso nettamente più elevato per quanto riguarda i live (qualcosa che i servizi streaming potrebbero aumentare ulteriormente). Ma esistono anche trappole per le band che si aspettano di comportarsi come piccole aziende focalizzate sull’ottimizzazione economica. Ciò non cambia il fatto che esse dipendano comunque da compagnie più grosse in cerca di profitto, che hanno invero poche ragioni di aiutare gli artisti più del minimo necessario, di cambiare veramente le cose. Ciò conferma d’altra parte la gerarchia in cui un pugno di potenti corporazioni possono controllare la distribuzione e l’utenza, praticamente il modo in cui l’industria musicale ha sempre operato. E se, da artista, sei in grado di trascendere tale gerarchia, il risultato è Tidal. Ma così facendo rimani comunque all’interno del sistema. 

A questo punto, i dati possono essere usati come una distrazione. Possono fare sembrare più varie e grandi le opportunità offerte, quando in realtà sono solo leggermente meno ristrette di prima. Adottare gli analytics è una scelta, ma una compagnia che costringe gli artisti ad adottarli come una fonte di reddito economicamente significativa, automaticamente la nega. E gli analytics non risolveranno le lacune del sistema—la mancanza di trasparenza, le gerarchie consolidate, le radicate discordie—che hanno creato problemi per anni. Potrebbero essere parte di un nuovo modello di industria musicale, che metta meno enfasi sulla compravendita di artisti e sulle pratiche di business e più sulla trasformazioni dei flussi di informazione in flussi di denaro. Questo è il grande obiettivo che si prefiggono oggi le compagnie di streaming, e sostengono che ci sono molto vicine. E chi lo sa? Magari in venticinque anni saremo qui a parlare del momento in cui il Dylan della nostra generazione sarà prima di tutto uno stratega.

L’ideale a lungo assunto è che ci dovrebbe essere una separazione tra il perseguimento dell’arte e il perseguimento del guadagno commerciale. Ma gli artisti vogliono essere pagati per la loro arte, e i servizi di streaming vogliono che  gli artisti adottino le pratiche commerciali. Negoziare questi obiettivi apparentemente in contrasto dipenderà dalla conquista di un numero sempre maggiore di subscribers, dal patteggiare compromessi significativi fra le molte parti in gioco, e dall’essere realistici a proposito di quanto i dati dicono. E questo se le cose vanno come previsto; gli ascoltatori potrebbero anche decidere, da questo momento in poi, di volere ascoltare solo musica dal vivo e mandare a puttane l’intero progetto per tutti quanti.

 

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#C2C15: finalmente la line-up completa

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La line up di #C2C15 annunciata finora era quasi completa. Quasi. Mancavano un po' di nomi che sono stati lanciati con questo qua, che è il terzo e ultimo annuncio relativo alla prossima edizione. Neanche a dirlo, quelli che mancavano erano nomi piuttosto grossi. Delle belle mine, direi. Non sapevamo ancora, ad esempio, che Mumdance avrebbe suonato anche con Shapednoise e Logos nella versione trio chiamata The Sprawl e come loro mancavano all'appello ancora Not Waving, Rabit, Kode 9 (che però, per qualche motivo, ci aspettavamo), Furtherset, e Jack Garratt.

Soprattutto però non ci aspettavamo di trovare Thom Yorke alle prese col live del suo Tomorrow's Modern Boxes, il disco uscito in maniera defilata e carbonara a settembre 2014 e finora mai eseguito in Italia. Ma ora basta chiacchiere, è ora di cominciare a contare i giorni che ci separano dall'inizio del festival. Il 4 novembre 2015, giorno in cui ci sposteremo in massa a Torino per assaporare di nuovo l'atmosfera di Club To Club. Saluti!

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Vi presentiamo "Magnifier", onde psichedeliche sotto la lente dei Giöbia

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Un album che inizia con un'ansia che solo le migliori narrazioni sci-fi tipo The War of the Worlds di H. G. Wells sanno mettere, che è l'ansia dell'osservazione, di qualcos'altro che ci osserva, e continua sul tema dell'occhio, dell'esperire gli altri e del provare esperienze alterate tramite la vista—leggi: esperienze puramente allucinatorie o alterazioni naturali date dalla naturale scissione dell'io da tutto ciò che lo circonda e lo penetra. Magnifier, nuovo lavoro dei Giöbia di cui vi avevamo presentato poco fa il primo video, è intenso e oscuro come una visione notturna. Un album in cui chitarre gravide sono bilanciate da voci aleatorie, flangeroni surfano su onde sonore pesanti, per rimarcare il doppio binario su cui sono maturati i Giöbia: da una parte il buon vecchio garage e dall'altra psichedelia pura.

Non lontani dai Deep Trip dei Destruction Unit o dalle cavalcate desertiche di Gnod e White Hills, i Giöbia arrivano con Magnifier la propria vetta, finora, quanto a strutture sonore e identità, tanto da potersi permettere di auto-sabotare il concetto stesso di psichedelia, come in un viaggio guidato. Non aspettatevi quindi di perdervi completamene in quest'album, preparatevi piuttosto ad essere bendati e presi per mano dalla band e fidatevi di loro perché quello che vedrete, oltre a quello che sentirete, vi piacerà.  

Ora che avete sentito quello di cui sono capaci, i consigli sono 

1. Procuratevi Magnifier!!! Lo trovate, da dopodomani, nello store di Sulatron Records oppure in cassetta su Hologram Skies

2. Andate a vedere i Giöbia dal vivo!!! Di seguito le date del tour. Fate particolare attenzione a quelle italiane, il 3 ottobre a Torino e il 16 ottobre a Milano:

Sep 09 2015 Rossli - Bern , Switzerland

Sep 10 2015 Papa Dula - Halle, Germany

Sep 11 2015 Copenhagen Psych Fest -  Copenhagen, Denmark

Sep 12 2015 Fryd1000 - Aalborg, Denmark

Sep 14 2015 Trauma - Marburg,  Germany

Sep 15 2015 Incubate Festival - Tilburg,Netherlands

Sep 16 2015  L'Escalier -  Liege, Belgium

Sep 17 2015 Hausbar M13 - Tubingen, Germany

Sep 18 2015 Vortex Surfer Musikclub - Siegen, Germany

Sep 19 2015 Vulture Festival - Lugano , Switzerland

Oct 03 2015 El Barrio - Torino, Italy

Oct 16 2015 Cox 18 "La societa psichedelica" - Milano, Italy  RELEASE PARTY

Nov 13 2015 Rümpeltum - St. Gallen, Switzerland

Nov 14 2015 Kunst Keller 027 - Furth, Germany

Dec 04 2015  Bassy Club - Berlin, Germany

Dec 05 2015  Dresden, Germany

Dec 10 2015 La Mecanique Ondulatoire – Paris, France

Dec 11 2015 La Poulpe — Reignier, France

Dec 12 2015  Le Coq d'Or —  Olten,  Switzerland

Segui Giöbia su Facebook o sul loro sito.

Il nuovo video di John Grant è un viaggio tra le mille tentazioni di una sauna gay

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Tra i grandi classici della canzone d'amore ("I only have eyes for you", "Wonderful world", "Candy shop", "Trap queen") non avrei mai pensato di trovare un titolo tanto brutale come "Disappointing". Eppure eccola qua, una nuova canzone del più amato e riverito cantante soul della scena, John Grant, che presenta così il suo terzo album Grey Tickles, Black Pressure.

"Disappointing", apparsa online ad agosto, è una specie di ballata disco-funk robotica che cammina sulla sottile linea tra la purezza e la follia dell'amore, mentre scorre liste su liste di oggetti, concetti e tentazioni che sono tutte deludenti se confrontate a te, chiunque tu sia per John Grant. Devi essere un bel po' speciale però, perché secondo questo pezzo sei meglio di Dostoevskij, le ballerine, Francis Bacon e la luna di settembre abbracciata dai rami di un albero secolare. E questo solo in una strofa!

Ora, la canzone è accompagnata da un video perfetto per la regia di David Wilson, in cui compare il DJ Andy Butler di Hercules & Love Affair oltre a un mucchio di altri manzi maturi. Perché qual è il modo migliore per rappresentare l'euforia permanente del vero amore che resiste ad ogni tentazione? Te lo dico io: girando il video dentro la sauna gay che sta sotto il ponte della ferrovia, ecco come. Lascio la parola al regista.

"L'idea per il promo mi si presentò molto chiaramente. John circondato da uomini e oggetti che rappresentassero tentazioni o distrazioni dalla relazione monogama. 

Questo concept è stato poi sviluppato con la telecamera che si lascia distrarre da queste tentazioni, mentre John resta imperturbabile: si rivolge direttamente allo spettatore, spesso comparendo dopo lunghi, morbidi movimenti di camera. È stato divertente trattare la telecamera come un'entità in sé: non una persona, ma un punto di vista che si sposta in continuazione da John e cade nella tana di coniglio della sauna gay."

Guarda il video qui sotto.

 

Il producer che ha mollato gli NWA prima di "Straight Outta Compton"

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Arabian Prince verso la fine degli anni Ottanta.

Los Angeles. In una pescheria a Marina Del Rey c'è un piccolo ma ancora sconosciuto gruppo hip-hop che si riunisce per una festa di compleanno. Il festeggiato è noto come Egyptian Lover. Con lui ci sono gli amici Arabian Prince, Grag Maeck, e uno che si fa chiamare Snake Puppy. La storia di questi ragazzi nonè molto nota, ma sono stati degli elementi fondamentali nella genesi della scena west coast, tra i primi a mescolare musica dance e rap in un genere ibrido che allora si chiamava electro-funk.

Era la progenie bastarda di Kraftwerk, Rick James e Funkadelic, si aggirava attorno alle 130 BPM e il suo mix di synth futuristici e beat di 808 era la colonna sonora della vita per le strade di LA. A quei tempi, DJ crew come gli Uncle Jamm's Army organizzavano feste al Veterans Auditorium e alla LA Sports Arena, un posto dalla campienza massima di diecimila persone che regolarmente mandavano sold out. Greg Mack, uno dei DJ della seminale emittente hip-hop K-DAY, era riuscito a portare alle masse questo stile di musica intorno al 1983.

Continua Sotto.

Oggi Arabian Prince, il cui vero nome è Mike Lezan, è molto lontano dal fanatico di Prince che era nel 1982. La Los Angeles di quegli anni era un posto davvero folle per le feste. Ice T, il proto-gangsta rapper, girava tra i b-boy con una cofana di capelli ingellati Dr. Dre e DJ Yella facevano parte della World Class Wrecking Crew, ostentando occhi truccati e tute di pailette. In mezzo a tutto ciò, Arabian Prince aveva iniziato a farsi largo come ballerino alle jam di quartiere. Non molto tempo dopo sarebbe diventato un grande DJ, poi un rapper e poi un importantissimo producer, lavorando ai brani electro funk di Bobby Jimmy & The Critters, ottenendo una nomination ai Grammy per il suo lavoro con JJ Fad e producendo molte cose in solo, diventando nel fratrempo anche amico di Andre Young, anche noto come Dr. Dre.

Questa età dell'innocencza non sarebbe durata ancora molto, anche per colpa di Arabian Prince. Il Gangsta rap, il genere nato dall'epidemia di crack, dagli abusi della polizia e dall'effetto devastanto delle Reaganomics sui quartieri di LA, si sarebbe impadronito dell'ambiente afroamericano, abbattendo completamente l'electro funk. Pioniere di questo nuovo mondo fu un gruppo di ragazzi chiamato N.W.A.

L'artwork di N.W.A And The Posse, in cui i nostri appaiono in versione pre-gangsta.

Arabian Prince ne fu un membro fondatore e una delle principali forze creative, prima che quella banda di electro-funkers di strada mutasse nell'icona rap che è oggi. Scrisse e produsse il primo singolo degli N.W.A., "Panic Zone", oltre a rappare in alcuni pezzi dei loro primi due album e a produrne diversi, ma nel film Straight Outta Compton lui non c'è. Un po' come Pete Best, il batterista che mollò i Beatles poco prima che diventassero famosi, Arabian si tuffò dalla nave poche settimane prima che i ragazzi facessero uscire il loro leggendario secondo album, auto-cancellandosi dalla storia.

Ciononostante, ha dei bei ricordi di quei tempi: "Io e Dre ci siamo conosciuti bazzicando la cena. Sulla west coast negli anni Ottanta c'era giusto una piccola cerchia ristretta di DJ. Dre stava con la Wrecking Crew, io con Bobby Jimmy And The Critters, e per forza di cose ci siamo beccati. Vivevamo nello stesso quartiere: Compton, South Central LA. Andavamo allo skate park, in spiaggia, a rimorchiare..." 

Dr. Dre portò Arabian Prince nella cricca Ruthless Records quando lui ed Eazy-E iniziarono a lavorare assieme. Arabian divenne il primo producer di casa Ruthless, e si considerava un socio in affari. "Io e Dre ci eravamo stufati di non venire pagati," racconta Lezan. "Producevamo un sacco di dischi che guadagnavano un bel po' di soldi, ma non riuscivamo mai a vedere un centesimo di royalty. Eazy E era il procacciatore di farmaci del quartiere, per cui aveva un po' di soldi. Dre un giorno venne da me e mi disse: 'Eazy ci finanzia un progetto, io e te facciamo i producer. La chiameremo Ruthless Records, sarà una roba di famiglia in cui tutti si spartiscono i proventi.' In realtà non funzionò per niente così, per colpa di Jerry Heller e di varie altre cose..." 

Suge Knight e Jerry Heller, i cattivi del fim.

Jerry Heller era il manager degli N.W.A.'s e mentore di Eazy E. Arabian, Dr. Dre, Ice Cube e gran parte della scena lo accusa di essersi intascato gran parte dei diritti degli N.W.A., sfruttando il loro successo a suo unico vantaggio. Nel film fa la parte del cattivo, e i ricordi di Arabian dicono confermano questa versione dei fatti: "Prima dell'uscita di Straight Outta Compton facevamo un botto di concerti, e mi ricordo di avere pensato 'Man, non ci stanno mica pagando come dovremmo.' Prendevamo metà dei soldi, mentre l'altr metà spariva nel nulla, non li vedevamo mai. Al che ho cominciato a chiedere a Jerry Heller: vendevamo milioni di dischi, ma non si vedeva mai un soldo né vedevamo mai i tabulati delle royalty. C'era sempre una scusa per non farceli vedere."

E ancora: "Quando facevo dischi come Arabian Prince guardagnavo poco, ma ora che ero in un gruppo che vendeva milioni di copie di colpo stavo guadagnavo ancora meno? Com'era possibile? Come potevamo essere dei cattivissimi gangsta ma farci inculare i soldi sotto il naso? La gente dice che sono stato stupido a uscire dagli N.W.A., ma poco dopo Dre e Cube se ne sono andati per lo stesso motivo. Io l'ho semplicemente fatto per primo.

"Panic Zone", scritta e prodotta da Arabian Prince. 
 
La storia di Arabian Prince dimostra come la storia sia sempre scritta dai vincitori. Il film Straight Outta Compton è stato prodotto dalla vedova di Eazy, Tomica Woods-Wright, che è stata anche citata più volte in giudizio da Arabian. "Non sono arrabbiato con loro per avermi lasciato fuori dal film, dato che hanno estromesso anche JJ Fad. Anche lei aveva fatto causa a Tomica."

JJ Fad fu la prima vera artista di successo della Ruthless Records, non gli N.W.A.. Il suo album Supersonic, prodotto da Arabian Prince, fu il primo disco di una rapper donna a ottenere una nomination ai Grammy, e il singolo estratto vendette un milione di copie. Si potrebbe pensare che fosse meritevole di una menzione in un film sulla storia degli N.W.A., ma non ce n'è traccia.

"Se il motivo per cui non siamo nel film è perché questa donna vuole vendicarsi di noi, vuol dire che non ci sta con la testa," dice Arabian Prince. "Lei in quei momenti non c'era nemmeno. So che è la produttrice esecutiva e ha i diritti su quasi tutto, probabilmente Dre e Cube avevano le mani legate, per cui non saprei... Ma c'è gente che conosce la vera storia, per cui la verità prima o poi verrà a galla."

Da sinistra a destra: Arabian Prince, Jerry Heller, Eazy E, Dr. Dre, DJ Yella

A parte le fregature di Heller, i motivi della dipartita di Arabian Prince dagli NWA sono oggetto di varie speculazioni. Alcuno dicono che fu buttato fuori quando Ice Cube tornò dal college. Altri dicono che le sue produzioni dalle tinte electro non andassero bene per l'immagine gangsta che gli NWA stavano cercando di costruirsi. Comunque sia andata, una volta mollato il gruppo Arabian restò in buoni rapporti col resto del gruppo: "Quando iniziarono la guerra contro Cube io ne restai fuori" dice. Arabian Prince continuò a stare con Ruthless, a produrre per JJ Fad e fare dischi solisti. Per un po' si unì anche alla neonata Death Row, ma la mollò dopo avere incontrato l'altro cattivo del film. 

"Quando Dre mollò Ruthless, lui e Yella vennero a casa mia a Burbank e mi inivtarono in studio per chiedermi se volevo partecipare a qualche progetto" dice "ci andai e c'era Suge Knight con un po' dei suoi ragazzi. Conoscevo Suge dal quartiere e sapevo che genere di persona fosse. Ho capito che quello non era il mio posto. Quando abbiamo cominciato con gli N.W.A. era una roba di famiglia, tutta gente amica, mentre lì non conoscevo nessuno e non mi fidavo di nessuno.

Mike Lezan oggi.

Durante i lunghi tour, Arabian notò come le prime consolle come il ColecoVision avevano trasformato molti suoi amici da sfattoni a videogiocatori. Sempre interessato alle nuove macchine, synth e tecniche di produzione, iniziò ad appassionarsi anche ai videogiochi e agli effetti speciali. Arabian imparò a programmare e divenne un game tester ed esperto di vari campi della programmazione. La sua azienda Hypnotic FX ha prodotto anime in Korea e creato gli effetti speciali di film come Independence Day.

Tuttavia non tiene la musica troppo lontana dal cuorea "Dopo gli N.W.A., faci il mio primo album (Brother Arab). Non fu una hit come quello di Cube, ma era roba mia, e ci guadagnai un po' di soldi. Egyptian Lover e io siamo appena tornati da un tour europeo, cosa che facciamo da quasi vent'anni. Non ho mai smesso di creare e sto lavorando a un album con dentro bel po' di nomi grossi roba top-secret. Amo la musica elettronica e rispetto tantissimo quelli che la fanno al momento, come Flying Lotus. L'ho incontrato un paio di volte ed è un figo."

L'istituzione dell'hip-hop losangelino Stones Throw Records ha fatto uscire un'antologia della musica di Arabian Prince nel 2008, e ci ha promesso l'esclusiva del suo nuovo progettone. "Alcuni dicono che il gangsta rap ha ucciso l'electro funk, ma credo si sia semplicemente evoluto nel pop e nella EDM. Molti dei beat che usavamo allora sono risorti, sono solo cambiati gli artisti. Le cose si evolvono e io ho sempre provato a farlo. C'è chi dice che essere un'innovatore è una maledizione, ma per me è stata il contrario".

 


Guarda Stormzy che rappa in una chiesa con un coro gospel

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Ultimamente sembra che il grime si sia dato alla musica classica, a partire dall'evento BBC alla Royal Albert Hall lo scorso mese, ma anche così siamo certi che nessuno si sarebbe mai aspettato tutto questo. In un video caricato ieri, c'è Pepstar che canta il suo ultimo pezzo in una chiesa. "Ero seduto in studio un giorno e ho avuto quest'idea di un'enorme chiesa con un bell'organo e un coro dietro di me," ha spiegato a SBTV, "e niente, l'ospite d'onore ha fatto il resto". 

L'ospite d'onore in questione è Stormzy che, fresco fresco dell'impegnativa esibizione al Reading, butta giù le sue migliori barre in mezzo alla chiesa assieme al collega. Che vi piaccia il gospel o no, concorderete con noi che il coro contribuisce a rendere tutto immensamente più fico. Guardate voi stessi.

Empress Of - Me

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"Sono l'imperatrice di me stessa" sembra affermare Lorely Rodriguez, in arte Empress Of, musicista di Brooklyn il cui debut, Me, esce domani per Terrible Records, casa di Blood Orange, Solange, Twin Shadow e Kindness, tra gli altri (ma potete ascoltarlo già in streaming via Hype Machine). Beat che si avvicinano all'universo Fade To Mind/Night Slugs-esco di Kelela, voce tra le astrazioni di Bjork o FKA Twigs, concretezza da club tipo Jessy Lanza, elementi pop à la Purity Ring e sguardo ambizioso verso le gigantesse della musica, come le sorelle Knowles—da qui forse il moniker da training autogeno Empress Of: sono l'imperatrice di tutto quello di cui voglio esserlo. 

Le prime apparizioni di Rodriguez risalgono al 2012, con la splendida serie Colorminute—tracce di un minuto abbinate a colori, uscite su YouTube—in cui tutto era concentrato soltanto sulla voce e sul lato più sperimentale e rarefatto delle produzioni, tanto che i richiami a Björk erano più evidenti, rispetto al suo album. Una presentazione totalmente priva di connotazioni: nessuno aveva idea di come fosse fatta Empress Of, di chi fosse, da dove venisse. 

A questo seguì un EP, Systems, uscito nel 2013 sempre per Terrible Records, in cui Rodriguez decise di dare omaggio alle proprie origini Hondureñe e cantare due pezzi in spagnolo, tra cui "Tristeza," che fu remixata da Pional, El Guincho e Delorean, come se a dare il benvenuto a questa nuova voce dell'R'n'B contemporaneo fossero proprio membri di una comunità di matrice ispanica, che già allora la elessero imperatrice di una precisa regione di produzioni elettroniche.  

I critici accolsero Systems paragonando il lavoro di Rodriguez a quello di un'altra voce ai confini del pop di quel momento, Grimes. Ma il lavoro di Empress Of era destinato a discostarsi da quel tipo di estetica, cosa che si vede bene in Me, album che già dalla cover art si localizza più in un territorio intimo, cantautorale—con una foto in bianco e nero che richiama quella di Horses di Patti Smith. 

Rodriguez ha più volte dichiarato l'importanza che dà ai testi, il peso conferito ad ogni parola, che lei desidera sia limpida e definita e arrivi in maniera diretta a chi l'ascolta, così come desidera arrivino le sue storie. E qui si ritorna al titolo scelto per il suo debut, scritto, registrato e prodotto unicamente da lei nei 10 mesi passati in Messico, il che le ha permesso di vivere un'ispirazione liminale tra le sue origini e le sue abitudini acquisite nella Grande Mela. 

Parecchi dei pezzi contenuti nell'album, oltretutto, sono riferiti al rapporto di Rodriguez con se stessa, come “Need Myself,” il primo pezzo che ha scritto per l'album, che ruota attorno al concetto di isolamento e indipendenza, tra una dichiarazione d'intenti, un'ammissione di colpe e una volontà di potenza, che Rodriguez tenta di estendere, almeno nelle sue intenzioni, anche ad altre ragazze, ma in un modo molto più sottile e delicato rispetto alle roboanti dichiarazioni di femminismo delle grandi dive del pop.  

Questo suo carattere liminale non significa che Me sia un compromesso, anzi, è più una ricerca individuale e personalissima che riesce a collocarsi spontaneamente nella piega da cui nascono i lavori più interessanti di questo momento in cui distinguere pop da ricerca sperimentale non ha alcun senso. 

Me esce domani per Terrible Records. 

Giuni innamorata fra i miraggi

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Un’estate al mare/ stile balneare”: quante volte in vacanza avrete intonato tale ritornello? Non tutti sanno però chi era la cantante dal vocione potente, con quei capelli alla maschiaccia e gli atteggiamenti androgini. Perché in generale Giuni Russo è percepita come una delle tante meteore anni ottanta, quelle che poi mollano investendo in una catena di ristoranti. Ebbene no, oggi faremo giustizia ricordandola, in questo settembre che ha visto la sua nascita e morte (per l’esattezza il 7 settembre 1951 e il 14 settembre del 2004): una delle voci più potenti d’Italia e una pioniera, se non l’unica esponente del pop vocale italiano più “ambiguo” (la sua storia con l’inseparabile paroliera-compositrice Maria Antonietta Sisini è ormai negli annali degli amori clandestini del pop). Italian Folgorati, a sottolineare che la Russo è stata innanzitutto “la Voce”, si occupa proprio di Vox, il suo secondo album dell’83 che esce poco dopo il famigerato successone di “Un’estate al mare” e dopo il capolavoro Energie.

Continua Sotto.

Per inquadrare la situazione partiamo proprio dallo storico singolo.  L’apparente spensieratezza del ritornello distrae, infatti, da una serie di messaggi ambigui, che, anziché nascosti sono, perlopiù espliciti, qualcosa di davvero scomodo in una canzoncina estiva che si propone per tutte le età. Basti leggere l’incipit: ”Per le strade mercenarie del sesso che procurano fantastiche illusioni…”. Ebbene sì, per quanto gli autori stessi vogliano fare i furbi, qui si parla di una mignotta che vagheggia di una meritata vacanza al mare, come tutte le persone normali. Il verso “nelle sere quando c’era freddo si bruciavano le gomme d’automobili” descrive fedelmente il “mestiere” lungo le autostrade, sovrapponendo estate e in inverno in maniera surreale, come in un flusso di coscienza durante le interminabili attese dei clienti. Il verso “per Natale voglio un Harmonizer con quel trucco che mi sdoppia la voce” sembra buttato là …, poi rifletti un attimo e salgono subito alla mente telefonate camuffate a scopo estorsione/ricatto sessuale, cosa che all’epoca, in effetti, era possibile.

Il problema in questi casi sono i discografici: la solita Caterina Caselli (di cui già parlammo QUI) fiuta l’affare e cerca di costringerla a sfornare singoli estivi, senza rispettare l’artista che vuole invece un nuovo tipo di approccio. La Caselli acconsente per tenersela buona (visto il suo potenziale commerciale), ma di contro si vendica con un sabotaggio calcolato a qualsiasi alzata di cresta. La guerra inizia proprio dopo la pubblicazione di “Vox”, infatti la Caselli si dichiara, per ovvi motivi, contraria all’uscita del disco. Allo stesso modo Giuni – nonostante le idee radicali—strizza ancora l’occhio ai temi balneari, per far tacere Caterina che nel frattempo gli ha estorto un contratto quinquennale con la sua CGD (in pratica l'ha ammanettata). Ma come in “Bing Bang Being”, lato B di “Un’Estate Al Mare” pieno di riflessioni esoteriche firmate dall'allievo di Gurdjieff Tommaso Tramonti, Giuni continua a seminare panico. 

In teoria a tema ombrelloni, “Abbronzate Fra I Miraggi” parte subito come una sgroppata new wave dal respiro sixties (addirittura echi pre-Twin Peaks nell’intro di chitarra), storie di scuola in Sicilia, terra nativa condivisa con Battiato in cui le maestre insegnano tutto tranne che l’amore. Ma ecco che le ragazze lo scoprono da sole: “Donne troppo indipendenti abbronzate dai miraggi/ma innamorate solo al mare”, tentate da sguardi fugaci maschili? No, affatto. Dai testi metaforici si direbbero femminili “il melograno è già maturo fa venire voglia di provare/speriamo manchi presto la corrente”: taglia e cuci fra le sonorità de La Voce Del Padrone e L’Arca Di Noé, ha uno stacco due-note-due preso a prestito da "Seventeen Seconds" dei Cure, come a simboleggiare il fascino dell’ignoto. Un potenziale inno lesbico, annuncia che il resto sarà pepato. Tanto per cominciare, Giuni firma quasi tutte le canzoni, coadiuvata da Messina e dall’inseparabile Sisini: i collaboratori ovviamente però sono come lei, stellari. 

“Buenos Aires”: Italo-disco fusa alla Grace Jones delle fisarmoniche, è un pezzo politico sulle libere elezioni del 1983 in Argentina, dopo la sconfitta della giunta militare, tristemente famosa per le quarantamila morti correlate. Giuni si chiede preoccupata "Cosa resterà dopo le elezioni?". Forse l’ennesima copertura dei criminali, cosa che poi in effetti avverrà? Ma nel ritornello apertissimo c’è la voglia di futuro in una terra esemplare per tutti i popoli che combattono: “Guida un po’ più piano che voglio vedere”, aria che ti aspetteresti da un Fossati ultimo periodo. “Libertà morale per noi” è il traguardo, ed anche la cifra stilistica dell’LP: inafferrabile.

Anticipato da un effetto tape da accensione del play, “L’Oracolo di Delfi” è uno dei modi per Giuni di sfoggiare la sua incredibile tecnica vocale che in questo caso, nonostante il soggetto greco, si apre alla musica popolare cinese virata wave, ancora una volta mischiando le carte e spiazzando l’ascoltatore. La batteria di Golino picchia come una dannata, poi ecco un ritornello che è canto lirico pop: occidente, oriente, moderno e antico deflagrano tutti insieme in un sol colpo. Un pezzo davvero storto, impreziosito (si fa per dire) da un testo di Luzzatto Fegiz sotto falso nome: il quale non fa altro che imitare male il citazionismo di Battiato, ma se non altro è utile alla Russo come base per i voli eccezionali delle sue corde vocali… Sembra quasi cantare in mandarino!

Ma il meglio deve ancora arrivare, e il lato A si chiude con la minacciosa “Post Moderno”, che in anticipo sui tempi è un “lucido” bignami della nostra epoca. Aperta a un pad che sembra pacato nel descrivere i "Ragazzi di Granada che quando poi viene la sera vanno in giro coi blue jeans," diventa poi un pensiero intollerabile che scatena una raffica di vocalizzi compulsivi. Buchi neri del moderno, loop paranoico/critici, incapacità di capire cosa succede e ancora una volta attacco al potere “Leader qua leader di là”. Di "Fuochi sacri" urla la Russo nel suo lirico punk, con tanto di finale in risata tra il sardonico e il folle, sfumato in un ostinato e monocromo synthrock. Ottima sinergia fra la Sisini, Giuni e i due capoccia Battiato e Pio, davvero in stato di fottuta grazia e arrangiamenti killer in odor di Warning.

In “Oltre Il Muro” la lirica la fa ancora da padrona, mescolando Klaus Nomi e il glam come se nulla fosse. Stavolta, a colpi di Fairlight e Simmons, si salta forse il muro di Berlino? No, più che altro un muro psicologico che Giuni, a furia di esperimenti vocali, abbatte direttamente: "Pazza? Oh no!" canta ironicamente la nostra eroina, lasciando anche spazio a suggestioni cosmic/new age (ricordano certi momenti di Legione Straniera di Giusto Pio) verso il finale, in cui è evidente che è pazza davvero.

Ok ma dov’è la vera concessione balneare? Sì, va bene abbronzate dai miraggi, ma vogliamo qualcosa di concreto, e allora Giuni ci regala una dolcissima ballata, “Sere D’Agosto” veramente un gioiello. Poche interpreti potrebbero cantare di certe cose senza apparire ridicole: la Russo non solo le amplifica, ma dona loro quella credibilità che meritano in quanto motore dell’umanità tutta. Ecco perché versi come "Le sere d’agosto profumano l’aria / Bisogno di sole / La voglia d’amare" nella sua bocca rappresentano istanze di libertà e non cazzate. Fra i sequencer si consuma un’atmosfera da “eco antica nell’aria”, arpeggiatori suadenti, ampi riverberi: chissà cosa avrebbe potuto combinare Giuni se fosse stata su 4AD. Presenterà questo pezzo al Festivalbar, trasfomandolo nel vero traino del disco, anche se non sarà mai pubblicato come singolo: d’altronde bissare "Un’estate Al Mare" con un brano del genere sarebbe come dare caviale ai polli.

Colpi di sampler aprono “Le Grandi Colpe”, che con l’autocitazione ritimica di "Ho Fatto L’Amore Con Me", vecchio brano scritto proprio dalla premiata ditta Sisini-Russo-Malgioglio per Amanda Lear, lascia la musica all’onnipresente Cacciapaglia, il quale confeziona un pezzone—appunto—postmoderno, evocando arie del ventennio, svarioni d’opera uniti a citazioni di "Luglio col bene che ti voglio" e un’epica di forte impatto. "Passo notti ad aspettare albe che ricordano Hiroshima / Gente persa per le strade / Ciglia dai colori artificiali / Uomini che cercano l’amore fra le rovine della civiltà". Detto questo, Giuni è molto chiara: "Le grandi colpe no, non mi appartengono" e lo rileva bene Radius (colui che la salvò dall’anonimato presentandola a Battiato) con un assolo quasi alla Pink Floyd che poi va in vacca dissonante, a ricordarci che le ciambelle hanno il buco. Certo, in gola ad Annie Lennox questo pezzo sarebbe diventato una hit mondiale: ma come si sa, l’esterofilia viene prima di tutto. 

E conclude questo discone il singolo, Battiato e Pio ancora con le mani in pasta: "Good goodbye, Amsterdam / Non lo so cos’è importante o no": a giudicare dal testo, le perplessità derivano da un consumo di droghe leggere nella meta giovanile di sempre. Tra l’altro, mentre i parenti svernavano a Rapallo per le vacanze, lei invece andava a spaccarsi al Cavern Club di Liverpool che, come tutti sanno, è il simbolo dei Beatles, mentre qui (col cambio generazionale e di consumo) è associato ai Roxy Music. D’altronde "La musica leggera oggi / Nelle classifiche dei dischi impera", quindi il cortocircuito temporale è inevitabile. In effetti, la scelta del singolo non è campata per aria: si tratta del brano più semplice di tutto l’album, anche rispetto a "Sere D’Agosto". L’arrangiamento è volutamente patinato, come la cartolina lì descritta (anche se ci sono virtuosisimi vocali nascosti, tipo il bordone di voce finale che sembra un synth fisso su una nota sola e invece è proprio lei), in un disco che già di per se suona più definito del predecessore, una sfida ai discografici. 

Ma questi, ahimè, non riusciranno mai a seguirla. Disobbediente fino in fondo e profondamente ferita per le umiliazioni subite (non ultima l’esclusione da Sanremo a favore di Patty Pravo ed Enrico Ruggeri), Giuni decide di recidere il contratto con la CGD dopo Mediterranea, tentativo di unire commercio ed esperimento, purtroppo intaccato dalle pressioni. Nella liberatoria di cessato rapporto è indicata come “persona non grata”, come un’artista ingestibile. A causa di questa ignominiosa marchiatura a fuoco, nessuna etichetta si farà avanti con un contratto se non la Bubble, quella del Tony Esposito di "Kalimba de Luna". Anche per questo, la maledizione delle canzonette estive continua a perseguitarla per un paio d’anni, vedi "Alghero" e "Mango Papaia". Solo nel 1988, con A Casa di Ida Rubinstein avremo la vera Giuni, in perenne lotta per un repertorio straordinario, nonostante le frequenti marchette televisive (usate in modo perlopiù strumentale). Che la malattia l’abbia davvero sconfitta è tutto da dimostrare: basti ascoltare Il Ritorno Del Soldato Russo, suo testamento discografico del 2014, per capire che non se n’è mai davvero andata: "Sì, sarà la forza del destin / Se mi senti ancora più vicin".

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The People Versus Mecna

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The People Versus è la serie di Noisey in cui i musicisti si abbassano a rispondere alla vera feccia dell'umanità, ovvero i commentatori dei loro video su YouTube.

Dopo una piccola pausa estiva la vostra serie preferita è tornata in onda e oggi a rispondere ai vostri commenti del cazzo è il proprio il Nemico Numero Uno dell'estate: Mecna.

Gli abbiamo chiesto di leggere i commenti più cattivi (o incomprensibili) sotto al suo video "Non Dovrei Essere Qui" e lui è stato così entusiasta che ha deciso di accendere il Wi-Fi e cercarne altri di sua iniziativa. Tutto per amore dell'autotune.

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Club To Club ti invita al derby

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Il tifo calscistico  è una cosa strana. Tralasciando quando degenera in robe brutte e contrapposizioni violente, spesso e volentieri il tifo si trasforma in un'esplosione di creatività ed energia: i cori, le ole, i tamburi, le trombe... Per non parlare di tutte le possibilità che ci sono di acchittarsi e mascherarsi coi colori e i simboli della propria squadra. Oltre questo genere di manifestazioni di passione, lo scegliere una squadra e supportarla presenta sempre un botto di sfaccettature interessanti, di risvolti sociali, storici e culturali. Insomma, non solo è divertente, ma ha anche un posto nella storia. Gli esempi sono innumerevoli.

Sono cose che non scappano all'occhio di un artista. Parliamo di Nico Vascellari e Carlos Casas, che collaborano da anni sotto varie forme, e che negli ultimi tempi hanno lavorato sull'estetica e la cutlura del tifo, concentrandosi sul paese in cui queste assumono le dimensioni più folli: il Brasile. Nico è (tra le altre cose) metà del duo Ninos Du Brasil (con Niccolò Fortuni) che sappiamo bene essere una sorta di shaker in cui tutto ciò che è brasileiro viene fatto a pezzi, mixato e restituito sotto forma di un esplosione elettronica di colori e percussioni. Il calcio è una di queste, e i visual che Casas ha progettato per i loro show riflettono questo interesse. Ne abbiamo avuto testimonanza tante volte, soprattutto durante le ultime due edizioni di Club To Club, ma anche con la colonna sonora del socumentario Socrates Uno Di Noi, dedicato al grande calciatore e attivista brasiliano.

Però ecco, domenica 13 settembre a Milano c'è il Derby, e allora più che al campionato Brasiliano sarà il caso di dedicarsi a quello nostrano. Club To Club e Coda Lunga, lo studio di Nico, hanno deciso di anticiparlo e portarlo sabato 12 sui palchi del Fabrique di Milano: tra sbandieratori (bandiere di Milan e Inter realizzate appositamente da Coda Lunga), video di partite vintage manipolati da Casas e, ovviamente, la musica di Ninos e Forest Swords. Esatto: a sfidare i carioca mutanti sarà proprio Matthew Barnes, che con i Ninosa condivide l'amore per certi tribalismi acustico-sintetici, per la psichedelia a colori elettronici e per il pop brutalizzato. Farà da contraltare ipnotico e profondo al carnevale furibondo di Ninos.

Se volete partecipare a questo Derby, be', sappiate che abbiamo in palio un paio di abbonament.. ahem.. di accrediti per voi. Se volete vincerli, non dovete far altro che condividere questo post sui vostri social scrivendo per quale delle due band tifate, senza dimenticarvi di includere gli hashtag #C2C15 e #Derby2Derby. Estrarremo a sorte tra i partecipanti chi si aggiudicherà la possibilità di andare a fare il tifo e vincere. 

Segui #C2C15 su Noisey
Segui Carsberg su Facebook e su Twitter#ProbablyTheBest beer in the world.

 

 

Nots - Reactor

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Le NOTS vengono da una buona famiglia: non solo sono di Memphis, ma il loro primo album uscì su Goner, che un tempo fu casa di gente come Jay Reatard e gli Oblivians. Roba veloce, rozza, nervosa... Tutti gli aggettivi migliori che si possono assegnare a un quartetto post punk, specie se formato da sole ragazze. Sembrano un misto tra le Bikini Kill, i Fall e i Cramps, finendo a ricordare molto da vicino anche i concittadini e mai dimenticati eroi Lost Sounds.

Il loro nuovo EP si intitola We Are Nots, dura circa venitsette minuti, ed esce il 20 novembre per Heavenly Recordings.

Guarda la performance di Kendrick al Late Show di Stephen Colbert

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Anche se Kendrick Lamar ha fatto quello che in molti già considerano, se non il disco, uno dei dischi dell'anno — To Pimp a Butterfly — nei suoi live sta ancora dando fondo soprattutto al materiale dell'album precedente, Good Kid, m.A.A.d City. A parte mettere "King Kunta", "i", e "Alright" alla fine dei suoi concerti, Kendrick non aveva ancora rivelato al mondo il vero potenziale live dei suoi pezzi nuovi. L'anno scorso il rapper aveva chiuso in bellezza il Colbert Report suonando da lui per la prima volta un pezzo che ancora non aveva titolo, aveva suonato "These Walls" a The Ellen Show e al Saturday Night Live aveva fatto "i". Kendrick insomma ha spesso usato la TV per lanciare le sue nuover performance, e quale migliore occasione se non la serata inaugurale del Late Show with Stephen Colbert? Per la prima volta in assoluto, Kendrick ha suonato un medley di tracce da To Pimp a Butterfly, tra cui "U", "Momma" e "Wesley's Theory."

È comprensibile il motivo che spinge Kendrick a non voler portare il disco ai grossi festival—non è roba immediata e potente come Good Kid Mad City. Ma sulla base di questa performance si è creato in noi il desiderio, che speriamo si realizzi, di un tour mondiale in cui Kendrick porti dal vivo To Pimp A Butterfly. Sarebbe uno spettacolo. Kendrick è un intrattenitore, e la sua band è completamente sul pezzo. Se poi pensiamo, da bravi complottisti, che "King Kunta" contenga un dissing più o meno velato a Drake, qui potete notare che mette una particolare enfasi sula barra a tema "ghostwriter" di questa performance. Abbiamo capito il livello delle performance che si terranno con questa nuova era di Late Night al Sullivan Theater. È ovviamente altissimo.


Darkstar - Stoke The Fire

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I Darkstar sono arrivati al terzo album, e stanno per farlo uscire ancora su Warp. Sapevamo già che si sarebbe intitolato Foam Island, ma ancora non si aveva idea di come avrebbe suonato, come si sarebbe evoluto il loro pop sintetico pieno di synth epici e basse da dancefloor. A quanto pare, aquesto giro al duo è venuta volia di percorrere ancora una volta sentieri un po' malinconici e riflessivi, ma non senza un po' di luccichii qua e là. A quanto pare si tratta di un concept ispirato da un ritorno nella propria regione d'origine, che li ha portati a chiedersi come vivano i teenager del nord dell'Inghilterra nel 2015.

Il primo pezzo che possiamo ascoltare è un viaggetto house romantico, non nostalgico ma decisamente ibrido, indeciso tra le lacrime e i sorrisi. C'è un bel riff di corde digitali coperto di pad analogici e cristalli di synth vari che ci accompagnano a masticare cose agrodolci. A quanto pare, tutto il disco avrà questo mood, ma lo sapremo per certo solo dal 25 settembre!

Noisey Mix: Valerie Martino

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Valerie Martino e i suoi synth spasticoidi fanno avanti e indietro tra east e west coast statunitense sotto il nome di Unicorn Hard-On dal 2003. Il nome, leggo in una vecchia intervista, avrebbe a che fare con l'ambiguo simbolismo dietro alla figura degli unicorni, da sempre rappresentanti di mascolinità (lo stesso corno ricorda un simbolo fallico) e tuttavia forzatamente associato alle ragazzine. 

Il suo ultimo LP, Weird Universe, risale ormai a un paio di anni fa, ed è uscito per Spectrum Spools—Container, Donato Dozzy + Anna Caragnano, Prostitutes. Attualmente è stabile a Providence, ma prima di fermarsi ha traversato il continente passando da Philadelphia, L.A e Nashville. La sua musica, fin dai tempi dei The Squelcher, suo primo gruppo noise, è sempre stata caratterizzata da elettronica geneticamente modificata, ipnotica, ossessiva, e tendenzialmente psicotropa, in ogni sua incarnazione. 

Non mi dilungherò sui prevedibili cazzi che Val ha affrontato per il solito fatto di essere donna, e la ridicola meraviglia provata dal pubblico durante i suoi live—troppo convinto che le ragazze debbano fare cose "tranquille"—perché temo non sia questa la sede giusta, ma è bene che si sappia che le cose stanno così anche negli Stati Uniti. 

Il mix qua sotto è plastico e sintetico e Val ce lo descrive come "una raccolta di tracce recenti o in uscita di alcuni dei miei più grandi amici. È tutta roba abbastanza pesa, e ovviamente strana, come piace a me". Buon weekend a voi.

 

Noisey Mix: Valerie Martino by Noisey Italia on Mixcloud

 

Tracklist:

Fyoelk - Alumm

Wilted Woman - Hendrik

Davey Harms - American Raw

Xerome - Spell fff

Via App - Baby K Interaction

Lolito - White Linen

Julia - She Won't Judge Me

L Lewis - Live at NO-TECH 5.21.15 (Excerpt)

Unicorn Hard-On - Dream Machine

Hotline, droghe e un nuovo disco: il Neon Indian di Vega Intl. Night School

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Foto di Valeria Anzaldo

Alan Palomo ha avviato il progetto Neon Indian nel 2008, quando aveva vent'anni, in un periodo di sperimentazioni sonore e attesa per il suo ingresso al corso di cinema dell'Università di Austin. I suoi pezzi caricati un po' a caso su Internet, in poco tempo, fecero esplodere il caso di questo ragazzino messicano di base a New York, e Alan cavalcò alla grande la prima ondata di chillwave (o glo-fi, come alcuni lo chiamano), insieme a Toro Y Moi, Washed Out eccetera eccetera.

Sei anni più tardi, con due album nel sacco e un terzo, VEGA INTL. Night School, in uscita il 10 ottobre per Mom + Pop, Neon Indian è riuscito a traslare il gusto ossimorico e, giustamente, indie, del moniker che si è scelto in musica, svolgendo alla perfezione il mestiere di alfiere dell'acid pop elettronico. L'ho incontrato facendo obiettivamente fatica a gestirmi di fronte ai suoi occhioni neri e abbiamo parlato del suo background musicale, di droghe, hotline e del suo nuovo disco.

Noisey: È passato un bel po' di tempo dalle tue ultime release, e ora sta per uscire VEGA INTL. Night School. Per quello che abbiamo potuto sentire finora, sembra che tu ti sia lasciato alle spalle un po' di malinconia, mi sbaglio?
Neon Indian:
Il mio secondo disco è stato difficile da partorire, anche perché era la prima volta che ero sotto pressione creativa, che lo sentivo come il mio lavoro. Dicono che "Hai la vita intera davanti per scrivere il tuo primo disco, ma solo sei mesi per fare il secondo". E questo è verissimo: il secondo disco l'ho scritto in giro, nelle camere d'hotel, è stato molto complicato. Non avevo alcuna pretesa per il primo album, tanto che allo stesso tempo stavo tentando di entrare a una scuola di cinema ad Austin, l'avevo vissuto come un passatempo. Per il secondo avevo già gente intorno, altri strumenti, era tutto diverso, c'erano più pressioni. Quindi per fare il terzo ho deciso di prendermi il mio tempo: ho pensato ai miei idoli musicali contemporanei e mi sono reso conto che non si mettono ansie, così ho pensato di fare la stessa cosa. 
 
Mi parli del processo creativo di quest'album?
Allora, stavolta ho collaborato con mio fratello—abbiamo lavorato insieme per la prima volta e ora fa parte della mia live band. Per scriverlo ci ho messo un po', ho fatto con calma. In generale è stato un processo gradevole, ho incamerato un sacco di influenze e sperimentato abbastanza. Ho messo su uno studio in casa e ho registrato la maggior parte delle cose lì. Altre le ho registrate nello studio di DFA. Quando entrai per la prima volta lì dentro ero parecchio intimidito, tutto era etichettato, il che me lo faceva sembrare serissimo [ride]. La batteria di "Slumlord" l'ha registrata Nick degli Holy Ghost. In generale volevo ci fossero più collaborazioni e più influenza di gente che amo. Prendi questo disco come un collage di tutto quello che mi piace, soprattutto per quanto riguarda la dance music. 

Prima di comporre quest'album hai fatto un bel periodo da DJ. Pensi che questo abbia influito sul tuo nuovo materiale?
Sì, decisamente, quel periodo di tempo mi è servito per recuperare la buona abitudine di cercare musica e di ascoltare roba nuova. È stato un esercizio che mi ha aiutato a convogliare il suono che volevo dare a questo disco: mi sono dedicato per un po' all'ascolto ed è stato importantissimo per la riuscita dell'album.

C'è qualcosa in particolare della tua libreria musicale di cui vai fiero?
Impazzisco per gli YMO, una band giapponese, tipo i Beatles nipponici. In questo momento il mio pezzo preferito è degli Unknown Cases e si chiama “Masimbabele”. I miei ascolti mi hanno portato a voler mettere più percussioni, su quest'album. Volevo che il suono fosse più immediato, dare la sensazione a chi mi ascolta di avere davanti una band. Un altro producer che mi piace parecchio è Shadow, in particolare il suo pezzo “Let's Get It Together” è fighissimo, ascoltalo.

Lo farò. C'è un pezzo che senti particolarmente del tuo VEGA INTL. Night School?
Che domanda complicata... a volte il pezzo che preferisco è l'ultimo che ho scritto, ma solo perché non mi sono ancora stancato di ascoltarlo. Però adoro "Slumlord", anche se risale al 2011, e anche "Street Level" — ha una storia strana. Vuoi sentirla?

Raccontamela.
Appena dopo aver chiuso il pezzo, ho perso il laptop. È successo appena dopo il mio ultimo tour. La cosa mi ha abbacchiato, non poco. Qualche tempo dopo andai su YouTube a riguardare un mio set, e il caso ha voluto che trovassi un video in cui suonavo proprio quel demo, cosa che non faccio mai. A partire da quella registrazione sono stato in grado di ricostruire il pezzo. Ho messo la registrazione da quel video su Ableton e ci ho aggiunto, uno a uno, gli elementi che la componevano. Il pezzo mi piace da morire. Un'altra traccia che adoro è “Dear Skorpio Magazine” perché credo sia il pezzo più nerd [ride].

Hai fatto una pubblicità per il synth analogico che hai creato, il PAL198X, e ora hai utilizzato lo stratagemma di creare una hotline per dare informazioni sul tuo nuovo album. È un modo di prendere per il culo i metodi tradizionali di promozione? 
Sì, [ride] in un certo senso, ma è anche un modo per evitare un lancio tradizionale, che mi avrebbe annoiato. L'idea della hotline è nata dal mistero attorno alla figura di Annie: chi è Annie? Ovviamente non te lo dico: perderebbe tutto il fascino. In generale non mi piace percorrere vie già battute, e mi piace creare storie che chi mi segue possa scoprire piano piano, tramite artwork, video e quant'altro. Che senso ha tirare fuori un disco se non ci si diverte? Se fai le cose come sempre, non sarà nulla di significativo. 


Foto di Daniel Patlán. 

Hai mai chiamato seriamente una hotline?
Sì, le pubblicità che passavano negli anni Novanta mi appassionavano particolarmente. Una volta ho chiamato uno di quei numeri con mio fratello, per divertirci, ma non siamo stati molto al telefono, dato che la chiamata costava 9 dollari al minuto e non avevamo molti soldi da spendere [ride]. Abbiamo provato a richiamarlo da un telefono pubblico e siamo arrivati a sentire l'elenco delle ragazze, ma quando ne abbiamo scelta una ci hanno chiesto di inserire il numero di carta di credito, che non avevamo, quindi abbiamo mollato il colpo. 

Qual è il miglior nickname per una ragazza dell'hotline?
Kim, secondo me è un nome molto porno. Mi piace [ride]. O Nicky, mi piace anche quello.

Nell'artwork dei tuoi singoli ci sono delle droghe... Non voglio indagare troppo sul tuo rapporto con le sostanze, però ti chiedo: se il tuo album fosse una droga quale sarebbe?
Forse qualcosa a metà tra DMT e MDMA: estatico, ma incredibilmente astratto.


Immagine tratta dall'Instagram dei Neon Indian.

C'è qualche domanda che non ti ho fatto e ti sarebbe piaciuto ricevere?
[Ride] Be' già questa è una bella domanda. Parli di te o di cose che nessun giornalista mi ha mai chiesto?

Quello che vuoi.
Forse il problema sta proprio nel fatto che tutti ti fanno le stesse domande, e la cosa dopo un po' non ti sorprende più. Tutti mi chiedono da dove arriva il mio nome o se mi sento più Statunitense o Messicano [ride] — Non mi piace nemmeno quando mi chiedono di spiegare la mia musica, perché è una cosa che deve spiegarsi da sola. Però mi è piaciuta quest'intervista. Mi sono divertito con te. 

VEGA INTL. Night School uscirà il 16 ottobre via Mom+Pop, ma potete preordinarlo qui.  

Se invece siete interessati a parlare con l'hotline, cliccate qui.  

I Laibach sono stati il primo gruppo rock occidentale a esibirsi in Corea del Nord

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Tutte le foto sono di Valnoir.

Valnoir è il baffone incazzato francese le cui arti grafiche in passato comprendevano anche poster disegnati con sangue umano (per non parlare di quando ha utilizzato le ossa per il nostro amico King Dude). Il ragazzo ha già passato, anni fa, del tempo in Corea del Nord a girare video in cui gente del luogo riproponeva "Take On Me" degli A-Ha. Non era che l'inizio: il losco Valnoir è tornato a Pyongyang tre settimane fa, per accompagnare i Laibach, ovvero il primo gruppo rock occidentale (con annesse allusioni marziali) a esibirsi in Corea del Nord. Gli abbiamo chiesto di raccontarci di questo viaggio totalmente assurdo.

Continua sotto...

Noisey: Com'è nato il progetto? Come ti sei ritrovato a portare i Laibach a Pyongyang ?
Valnoir:
È da un bel po' che lavoro con NSK e Laibach. Ho fatto per loro qualche poster, alcune T-shirt. Poi, nel 2012, ho fatto una mostra assieme a un artista norvegese che si chiama Morten Traavik, di cui ho adorato lo stile, e ho sentito che lavorava parecchio in Corea del Nord. Ci siamo messi a parlare (in realtà è stato uno scambio di mail) e lui mi ha immediatamente proposto di andarci con lui. Questo ragazzo era un super fan dei Laibach. Gli ho spiegato che ero in contatto con loro, e lui mi ha semplicemente chiesto: non credi che sarebbe interessante portarli a suonare in Corea del Nord? L'idea che avevo inizialmente era di far girare loro un videoclip là, cosa che poi non è mai successa. 

Invece, Morten si è incaricato della regia del video di "Whistblowers", che ha marcato l'inizio della sua collaborazione col gruppo. Un anno dopo, Morten ha convinto i coreani a far suonare i Laibach nel loro Paese. Ha cominciato a negoziare nel 2014. Non credo che ci sia stato mai contatto diretto tra coreani e Laibach, ha fatto tutto Morten, perché già conosceva le loro logiche di trattativa. Ci sono stati parecchi ostacoli, per esempio il fatto che la Corea del Nord avesse chiuso ogni frontiera a causa dell'ebola, quindi un sacco di viaggi sono stati annullati. Ebola in Corea... un film che hanno visto solo loro... Comunque, tu potevi andare lì, ma a costo di passare sei settimane in isolamento, in ospedale, in un Paese in cui non c'è Internet e c'è un solo canale televisivo che passa sempre la stessa identica cosa per 12 ore... 

Invitante. Com'è possibile che il regime nord-coreano abbia dato il lascia passare per un progetto del genere? l
Allora, anziché di regime si dovrebbe parlare di comitato. Abbiamo lavorato insieme al Comitato delle Relazioni Culturali Internazionali della Repubblica Democratica coreana. Non sarebbe stato possibile far nulla, senza l'aiuto di queste persone. Il loro ruolo è gestire le richieste di interventi culturali che provengono dall'estero. Valutano la fattibilità, che si tratti di sport, scienza, arte, qualsiasi cosa. Morten lavora sempre con loro, anche perché non si può fare altrimenti. Alla fine abbiamo fatto amicizia, si è creato un legame di fiducia, cosa molto importante. Se non si fidano di te, non puoi fare nulla.

Ma qual era il loro interesse per la storia?
Penso che volessero cambiare un po' l'immagine e la percezione della Corea nel mondo dello spettacolo, metterla in una luce favorevole, allontanarla da ciò che viene visualizzato sistematicamente da media stranieri, che spesso si allontana dalla realtà. Volevano dimostrare che il Paese è più aperto di quanto pensiamo, che possono anche avere scambi costruttivi con l'estero. E poi, portare anche qualcosa di nuovo nel loro Paese, dare una nuova immagine.

Come sono avvenuti gli scambi coi Laibach? Loro erano gasati da subito o all'inizio erano titubanti?
I Laibach erano entusiasti di partire. Erano attratti da quest'idea abbastanza assurda, devo dire. E attorno a loro c'erano persone che conoscevano bene e di cui si fidavano. Se avessero voluto farlo da soli non ci sarebbero mai riusciti. Quindi sì, erano felicissimi, anche se si tratta di persone il cui entusiasmo non è immediato: con tutto quello che hanno visto, conosciuto, sperimentato nella loro carriera, anche cose come questa forse rientrano in una sorta di normalità. Comunque non è un gruppo facile con cui lavorare e viaggiare, questo è ovvio. Sono i Laibach. Ma le avventure più interessanti non sono mai le più facili. Abbiamo dovuto appianare alcune questioni riguardo ai pagamenti e ai finanziamenti, dato che non è un progetto da pochi soldi. Abbiamo certamente avuto degli impicci, ma sia Morten che i Laibach stessi che il Comitato hanno fatto il possibile per risolverli. 

Non avevano paura che le accuse che avevano ricevuto in passato, in particolare quella di apologia dei totalitarismi, potessero aggravarsi?  
Al contrario, credo che avessero molta moltissima voglia di sollevare altri polveroni. Jani [leader del gruppo] l'aveva anche affermato in un'intervista: "Non andiamo in Corea del Nord per provocare i coreani, ci andiamo per provocare il resto del mondo." A loro piace fare così, amano le controversie, è un modo che con loro funziona. Ed è anche il motivo per cui riescono a riuscire sempre a sollevare dibattiti e riflessioni: la gente proietta sui Laibach quello che ha voglia di proiettare, che il più delle volte sono paure. E a loro questo piace. Come a noi piace tirar fuori qualcosa di nuovo innescando una polemica. 

Come ti spieghi che altri gruppi non ci abbiano provato prima? Non che manchino le band "sovversive" a questo mondo... 
C'è stato tanto lavoro di riflessione a monte di quest'operazione, un sacco di viaggi andata-ritorno in Corea... Non è stato semplice, per niente. Se nessuno l'aveva fatto prima, è perché in molti lo ritengono impossibile. O forse nessuno ci aveva provato seriamente: bisogna conoscere a fondo i meccanismi della cultura coreana, sapere chi contattare, e così via. Penso che non ci siano mai stati ponti tra band occidentali e Corea del Nord; nessuno si è mai nemmeno chiesto come crearli. Morten è uno dei pochi occidentali a voler intervenire nell'arte contemporanea di quel Paese. 

Avete avuto problemi di censura? Mi hai detto che hanno fatto questioni sui testi, ad esempio. 
Infatti, i testi sono stati un problema: li abbiamo dovuti tradurre in coreano perché il pubblico potesse capirli. Gli ufficiali venivano alle prove, hanno esaminato i testi e le scenografie. Il problema grosso però è stato con le proiezioni, che abbiamo modificato o addirittura eliminato. 

Come mai?
Stranamente, non era tanto per ragioni politiche, quanto perché i nordcoreani sono un popolo molto pudico, per quanto riguarda la nudità o la sfera privata. Su un pezzo avevamo messo immagini di statue classiche, quindi c'era del nudo, ma per noi è normale, non c'è niente di erotico, quindi non ci eravamo nemmeno posti la questione. Vedi una scultura di Rodin ma non pensi che sia una donna nuda, la vedi come una statua, punto. E invece loro non hanno questa tradizione, quindi è stato un problema. 

A livello musicale, non ci sono stati grandi tagli al repertorio dei Laibach. Abbiamo avuto più problemi con i pezzi coreani. All'inizio dovevano esserci tre brani del luogo, ma poi ne hanno suonato solo uno, "Arirang". I coreani sono estremamente sensibili e puntigliosi per quello che riguarda la loro cultura e le interpretazioni che gli occidentali possono farne. Hanno mostrato delle reticenze in questo senso, per cui alla fine il tutto si è ridotto a un solo pezzo. Ma alla fine, tutto sommato, avrebbero potuto essere più severi, invece non ci abbiamo perso i capelli, ci aspettavamo che non sarebbe andato tutto liscio. 

Com'è andato il concerto?
La cosa meno sorprendente di tutta questa storia è stato il concerto in sé. Hanno suonato "The Final Countdown", "Life is Life"... Poi, Mina [la tastierista e cantante del gruppo] ha letto un brano in coreano, per accordarsi i favori del pubblico. A loro non piace che uno arrivi a casa loro e gli sbatta in faccia il proprio prodotto occidentale, fregandosene di tutto il resto. È importante che ci sia uno scambio. L'ideologia Juche è basata sull'autosufficienza, la Corea del Nord sostiene che sia possibile prodursi da sé tutto quello di cui il territorio necessita, anche a livello culturale. Quindi è sempre bene prendere anche elementi che appartengono a loro. In ogni caso il concerto è stato, diciamo, classico. Un bellissimo concerto, per loro. Abbiamo tutti versato una lacrimuccia, anche perché è stato un momento storico. 

E il pubblico? Dalle foto non sembra che ci siano stati lanci di reggiseni o robe del genere... 
Be', suonavano anche alle 5 del pomeriggio... È sempre rock'n'roll, ma non c'è bisogno di perderci la testa, soprattutto in Corea del Nord. La sala ha iniziato a riempirsi con una mezz'ora di anticipo, e nessuno, tra il pubblico, sapeva che aspettarsi. Le immagini di concerti coreani che avevamo visto erano pieni di gente in giacca e cravatta, donne da un lato e uomini dall'altro, ognuno con il suo bel paletto nel culo. Invece lì c'era gente normalissima, la middle-class coreana, gente che era appena uscita dal lavoro. Gruppi di persone che ridevano, scherzavano, chiacchieravano... L'ambiente era un po' quello di una serata a teatro da queste parti. Non c'erano proletari, non c'erano borghesi, non c'erano ragazzini. I posti erano numerati, immagino che non ci fosse nemmeno modo di far casino. Durante il concerto ci sono stati alcuni applausi, forti ma contenuti, niente delirio. Il tutto è durato abbastanza poco: circa 55 minuti. 

C'erano solo coreani in sala?
Su 1500 persone presenti, il 90% erano coreani, e un po' di stranieri, che probabilmente facevano parte di ambasciate, ONG, o erano turisti accorsi per l'occasione. C'erano anche personalità della politica internazionale, come l'ambasciatore siriano. Ecco, lui se n'è andato dopo due canzoni, salvo ritornare sul finale, lamentandosi che quella roba era una tortura. È siriano, quindi deve saperne qualcosa. L'inviato dell'ambasciata austriaca ha tentato di spiegargli che aveva appena assistito a uno degli eventi più controversi della storia moderna della Corea del Nord, ma lui era completamente allucinato. Per lui era assurdo che una cosa del genere fosse arrivata fin lì, era fuori da ogni sua logica. 

E a parte il concerto non c'è stato nessuno choc culturale tra i Laibach e i locali? 
La prima sera ci siamo trovati a un buffet con un sacco di gente importante. Abbiamo mangiato benissimo, c'è da dire. Ma per un caso strano dell'assegnazione dei posti mi sono ritrovato, insieme al fonico dei Paradise Lost e Jani dei Laibach, faccia a faccia con il vice ministro nordcoreano della cultura. E diciamo che da quelle parti si beve parecchio. Alla fine questo tipo ci ha raccontato, non so in che modo, perché non parlava una parola d'inglese, che è un compositore. E Jani, così per gioco, gli ha chiesto che cosa sia, per lui, il rock'n'roll. Il tipo allora si è messo a gesticolare, e abbiamo capito che stava mimando una batteria. Ecco cos'era per lui il rock: una batteria che ci dà dentro un po' più forte. Una buona melodia la puoi mettere giù in tutti gli stili che vuoi, ma se hai una batteria aggressiva, quello è rock. Non abbiamo voluto proseguire su quella strada. Per il resto, avevamo un programma abbastanza intenso, e puoi immaginarti che per un gruppo di 25 freak è difficile andare in giro sciolti per Pyongyang, quindi abbiamo limitato le pubbliche relazioni.

OK, i Laibach sono stati il primo gruppo occidentale a suonare in Corea del Nord. Che musica ascoltano da quelle parti?
Quando vai in giro ne senti un bel po', di musica. Ce n'è dappertutto. È un Paese molto più sonorizzato rispetto al nostro. Là c'è un gruppo famosissimo che si chiama Moranbong, ed è la cosa più simile a un gruppo rock che tu possa trovarci. È tipo una girl band formata da cinque ragazze. Hanno un singolone che si sente sempre, dappertutto, e si chiama "We will climb to Mt. Paektu!". Entri in un negozio, in un ristorante, in un hotel, ovunque, e passa quel pezzo. È insostenibile, malato. E lì adorano quella canzone! E giuro che è molto peggio di "Gangnam Style". 

Secondo te ci sarà un'apertura verso la musica occidentale? Alcune cose riescono ad arrivarci?
Roba russa, più che altro. La musica popolare sovietica ha una grossa influenza sulle radici della musica nordcoreana, lo vedi in primis dalla diffusione della fisarmonica (altrimenti detta "il pianoforte del popolo", che gli operai potevano portarsi in cantiere, al contrario del piano "borghese") e poi dalle melodie... La particolarità della loro identità musicale è che è un incrocio assurdo tra queste influenze e la musica tradizionale coreana. 

Invece quello che fanno alle loro accademie musicali è indescrivibile. Hanno un misto di strumentazione tradizionale e cose da piano bar, il che rende il risultato tipo un pop zuccheroso, liquoroso, condito con synth, chitarre e slapping di basso... Una roba assurda. La nostra guida, che è cresciuta in Russia, ci ha saputo citare un po' di nomi di gruppi occidentali. Sappiamo che alcuni film che girano ora in Nord Corea hanno dentro anche riferimenti al K-pop, ma niente di più.

Nessuno vi ha attaccato per la scelta di andare a suonare in un Paese sotto regime totalitario? Non hanno accusato i Laibach di "piegare la testa al regime"?
No. Solo un tipo, uno di un gruppo industrial belga, mi ha attaccato in maniera completamente isterica e irrazionale, senza la minima intenzione di discutere. Sosteneva che i Laibach andassero in Corea per lucidare le scarpe al regime, e che la band sostenesse l'ideologia nord-coreana, i campi di lavoro, queste cose qui... Per il resto, ad esempio la stampa slovena e quella norvegese sono state terreno di critica, perché il gruppo viene da quei Paesi. Forse lì c'è stato un po' più di dibattito. 

Ma per il resto, che sia la stampa anglosassone, francese o di altri luoghi, credo che, nonostante l'assurdità, si sia capito il progetto. Il direttore del Comitato dei Diritti dell'Uomo in Corea del Nord ha raccontato che in Romania, Paese in cui è nato sotto Ceausescu, le cassette degli Scorpions, dei Metallica, etc, che venivano distribuite illegalmente negli anni Ottanta hanno contribuito alla presa di coscienza della popolazione su quello che stava succedendo fuori dal proprio Paese. E quindi per lui questo progetto andava nella stessa direzione. Sono abbastanza d'accordo con lui: è stato un segno più di apertura che di sottomissione all'ideologia Juche.

E tu? Non ti sei posto la questione, a titolo personale e morale, di cosa comportava andare là e organizzare un evento così? 
Ce la siamo posta tutti! È giusto fare una cosa del genere o no? Come cittadini, come artisti, come difensori della libertà di espressione... Certo che ti poni la questione. Stai facendo il loro gioco o stai lavorando in un altro senso, per un'apertura? Per me era chiaro che fosse qualcosa di costruttivo e positivo. Non mi sono fatto troppe domande. Anche se è chiaro che, una volta che sei lì, bisogna alzare bandiera bianca e dar prova di rispetto a quel popolo, che ti accoglie e lo fa gentilmente, oltretutto. Sei obbligato a rendere loro qualcosa. A mostrare almeno un minimo di rispetto allo Stato. Si chiama diplomazia. 

Siamo rimasti dritti nelle nostre corsie, non abbiamo fatto più compromessi di quanti fossero necessari per fare in modo che l'evento si tenesse. E poi io ho un problema con il flusso di stronzate che si sentono oggi con la Corea del Nord. Per fare clickbait, o cose del genere. È come mettere la faccia di Hitler sulla copertina della tua rivista per racimolare un po' di vendite. È il fantasma in forma cartone animato delle dittature. La realtà non è così grottesca: è un regime totalitario e siamo tutti d'accordo, ma non è nemmeno giusto parlarne senza alcun raziocinio. Per questo credo che non sia un male andare in una direzione in cui le tensioni si possano allentare. Perché altrimenti li si offende e infastidisce, ed è comprensibile.

E se tu potessi portarci un altro artista, chi ci faresti suonare? 
Pensa, ce lo siamo chiesti davvero. Ci siamo scervellati. Merda, a parte i Laibach, chi sarebbe divertente portare lì? Per noi loro erano tipo l'unico gruppo in grado di sostenere una roba del genere. Ma io ti direi Boyd Rice. Mi farebbe scassare vederlo suonare in quel contesto. Dai, vada per Boyd Rice, maledetto!

 

S-S Records: viaggio sul pianeta dei robopunk

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Se fossi uno che prende sul serio la STORIA DEL RUOCK, definirei S-S Records, label californiana di Sacramento in attività dal 2001, Importante. C’è da dire che lo stesso Scott Soriano, fondatore (insieme a Sakura Sanders, che abbandonò l’impresa dopo pochi anni) e unico dipendente dell’etichetta, ammette candidamente, in una bella intervista su Rubberneck, di ambire a un posto nel sacro pantheon delle etichette indipendenti insieme a Dangerhouse, Flying Nun, Rough Trade e compagnia.

Il megadirettore è un uomo misterioso e irraggiungibile, pragmatico e dalla visione artistico-affaristica molto nitida. Alla fine degli anni Novanta ha già fatto il funerale alla sua prima etichetta Moo-La-La, con la quale aveva pubblicato mini-figate di Sacramento quali Lil Bunnies, Karate Party e FM Knives, ma nel 2001 il suo dirimpettaio Chris Woodhouse registra in salotto gli A Frames e a Scott torna il prurito, così fonda S-S. Nel frattempo è arrivato Internet, che usa per saziare la sua sete di musica sconosciuta, anche di paesi lontani, e per diffondere le sue scoperte tramite i blog Crud Crud e Static Party (oggi inattivi) e collaborando con la webzine Terminal Boredom, sempre mantenendo i piedi piantati nel mondo reale producendo la fanzine (oggi materiale da collezione) Z-Gun. La nozione di genere, punk rock, garage, post punk che sia, lo interessa sempre meno. S-S Records sarà libera da tali pedestri preoccupazioni, e si dedicherà a far uscire dischi sulla base dell’energia che trasmettono, senza cercare d'ingraziarsi questa o quell'altra scena. Infatti la maggior parte del corpus a oggi è composto da esordienti o da dimenticati, la forbice stilistica è tra le più ampie del giro e ogni album rappresenta un piccolo mondo a parte. Il seguito di S-S è solido, preparato e fedele.

Continua Sotto.

Qualche tempo fa parlammo dell'LP di Andy Human & the Reptoids. Oggi pubblichiamo una selezione esclusivamente basata sul mio insindacabile gusto personale (e confesso di non possedere proprio ogni singola uscita delle oltre ottanta in catalogo), a partire dai tre album che saranno lanciati il prossimo 23 ottobre: le ristampe rimasterizzate dei primi due LP degli A Frames e il secondo album dei Life Stinks, You'll Never Make it, di cui offriamo per primi alcuni pezzi in streaming. Non basterà un articolo ad analizzare in profondità la produzione di questa etichetta, ma spero di mettervi sulla strada giusta.

 

A FRAMES - S/T (SS002, 2002) - 2 (SS006, 2003)

Ci sono casi in cui la musica è legata al settore produttivo di una regione. Come, infatti, l’Inghilterra del Nord negli anni Settanta ha partorito la musica industrial, la Seattle della bolla dot-com ha prodotto il punk al silicio degli A Frames. Eppure la band è rimasta confinata in una nicchia piuttosto angusta dopo la breve consacrazione di un album di addio su Sub Pop (Black Forest, 2005), mentre il batterista Lars Finberg è invece da molti anni sulla cresta dell’onda garage con i suoi Intelligence, che in fondo in fondo hanno qualcosa in comune con le strutture spigolose degli A Frames. La differenza tra i due gruppi è però lampante: mentre gli Intelligence ti fanno l’occhiolino e ballano il twist insieme a tutta la famiglia, gli A Frames non sono affatto interessati a farsi degli amici. Se provo a immaginarmeli, vedo colossi di plastica con grandi occhi vuoti e la pelle fredda e grigia. Gli strumenti a corda sembrano costruiti con un metallo extraterrestre, la voce pare un incrocio tra Mark Mothersbaugh e Graham Lambkin; i testi ripetono ossessivamente nozioni scientifiche e ignorano i sentimenti umani, tipo l’inno al disagio esistenziale “Sensation” che parla, appunto, di sensazioni fisiche come se si trattasse di malattie e poi finisce in uno sclero che sembra suonato da un gruppo di HAL9000 morenti. L’unica volta in cui esprimono un po’ di umanità è una trappola per spiarti: “surveillance camera, surveillance camera, I am in love with ya”. Questi due album, nella foto di famiglia del punk di inizio secolo, stanno proprio al centro, di fianco a Jay Reatard e ai suoi Lost Sounds.

 

LIFE STINKS - YOU’LL NEVER MAKE IT (SS082, 2015)

MOMENTO PREMIERONA: Ho chiesto a Scott Soriano un assaggio dell'album da inserire in questo post e il nostro eroe ha prontamente provveduto. Siamo orgogliosi di farvi ascoltare per primi tre canzoni tratte da You'll never make it

Per capire i Life Stinks bisogna… aspetta, che cazzo c’è da capire? I Life Stinks sono un gruppo punk di San Francisco che si chiama LA VITA FA SCHIFO (cit.) e sono sicuro che, a questo punto, chiunque si sarà fatto un’idea abbastanza chiara di come suonano. Visto che si tratta di S-S Records, comunque, si può approfondire senza paura. Il debutto (s/t, SS075, 2013) di questi ragazzi e ragazze del sole me lo immaginavo registrato in un banalissimo seminterrato, probabilmente in frettissima per passare meno tempo possibile in compagnia di quello stronzo del cantante, che continua a fare una pessima imitazione di Iggy e a rompere il cazzo con teorie insensate sui cimiteri. Per il seguito l’approccio è meno deragliante e più focalizzato: San Francisco, ex-mecca degli alternativi e ora vasca di squali hi-tech, ci ha masticati e sputati sul marciapiede; non che prima ce la passassimo particolarmente bene, del resto. Meglio serrare i ranghi e costruirci attorno solide pareti di riff da due note fregati dai cassetti mentre mamma Asheton non guardava, battere il tempo come cavernicoli e farci due risate. Il lato A è il più serrato, culmina in “I’m A Weed” che è un bangerone Killed By Death d’altri tempi e si sfalda sul finale con una nuova versione da sei minuti e mezzo di “Portraits”, anche più minacciosa di quella del 7” su Total Punk; magari ho troppa fantasia, ma mi sembra un incubo distopico in cui le foto profilo dei techies con i loro denti perfetti fanno a brandelli la città sulla Baia. Sul lato B, invece, l’approccio è meno monolitico e c’è spazio per il rock’n’roll tossico alla Royal Trux di “People Say I Should Check It Out” e per una ballata al tramonto sotto il Golden Gate, punzecchiando con un ramo il cadavere di Lou Reed, contemplando un posto che non si ama più.

 

MONOSHOCK - RUNNING APE-LIKE FROM THE BACKWARDS SUPERMAN (SS011, 2004) - WALK TO THE FIRE (SS070, 2012)

Una delle caratteristiche più affascinanti di questa etichetta è che riesce a ripescare dal dimenticatoio band incredibili, passate inosservate durante il loro periodo di attività, trasformandole a volte con anni o decenni di ritardo nel punto di riferimento che avrebbero dovuto essere. I Monoshock erano una manica di capelloni bruciati che amava gli Stooges, Albert Hoffman ed era totalmente disinteressata a qualunque altra cosa. Tra il 1988 e il 1995 hanno pubblicato tre 7" e un doppio LP che nessuno ha comprato, e sono scomparsi dalla circolazione. S-S nel 2004 dà alle stampe un CD che raccoglie singoli e demo dei Monoshock, Runnin’ Ape-Like from the Backwards Superman, a cui avrebbero dovuto allegare un paio di guanti in PVC, dato che è talmente acido che rischia di portarsi via le tue impronte digitali. È principalmente composto di veloci bastonate lo-fi intrise di fuzz dalla classica struttura strofa-assolo-vaffanculo-morte, corredato di cover di Radio Birdman e Hawkwind e occasionali intermezzi sul tema “falegnami ubriachi che giocano con i sintetizzatori”. Qualche anno dopo urge una ristampa per il loro doppio LP, il vero capolavoro Walk to the Fire, uscito originariamente nel 1996. Far partire questo disco assomiglia un po’ a entrare in una casa in fiamme mentre cinque diversi impianti stereo sparano il lato B di Funhouse a tutto volume, e altri tre il lato A. Anarchico, selvaggio, drogatissimo: forse il disco che i Mudhoney avrebbero registrato se fossero scomparsi in Messico per sei mesi. Ma non è tutto ruock quello che luccica: l’amante della patafisica che vive nel mio cervello mi dà sempre di gomito quando parte “Astral Plane (Take me away)”, malinconica e artisticamente storta; la title track mi ha fatto riappacificare con un amico che avevo sfanculato perché non la smetteva di parlare degli Spacemen 3; “Leesa” secondo me ha mandato un brivido di piacere su per la schiena di Tom Lax della Siltbreeze.

 

CHEVEU - S/T (SS035, 2007)

Il debutto del trio parigino Cheveu è uno dei miei dischi europei preferiti di sempre, se mi è concesso di inventarmi questa categoria. Synth-punk a basso budget e ancor più bassa fedeltà, reso buffo da chitarre garage minimaliste e svisate hip hop da terza elementare. Alla voce c'è un tizio di nome Olivier, che passa dallo sputare fuori a macchinetta una poesia di Rimbaud come se stesse cercando di venderti delle paste in discoteca, al baritono da crooner americano esattamente nell'accento che ti aspetteresti. Un disco che conferma l’approccio giocoso alla musica sperimentale che S-S Records aveva già dimostrato producendo dischi degli altri mattacchioni francesi Crash Normal, dei pionieri noisepunk di Roma Est Hiroshima Rocks Around (è Toni Cutrone/Mai Mai Mai alla batteria), dei torturatori di sassofoni Antennas Erupt!

 

SPRAY PAINT - RODEO SONGS (SS074, 2013)

L’uscita di questo disco è stata un evento fantastico per me. Nel 2013 suonavo in un gruppo che, lo riconosco, forse non aveva nulla a che vedere con gli Spray Paint, ma nella mia testa ci assomigliava tantissimo. Questi tre texani erano i nostri gemelli d’oltreoceano: compatti, scordati, sferraglianti, influenzati tanto dalla no wave di quarant’anni fa quanto dal punk mutante degli A Frames, in aggiunta a una sensibilità pop unica. I tre componenti degli Spray Paint infatti cantano sempre tutti e tre contemporaneamente, seguendo una straniante cantilena un po’ recitata; se chiudo gli occhi mi sembra di essere davanti a una tabaccheria con tre adolescenti che mi chiedono insistentemente di comprare loro le sigarette. Lo so che non sembra piacevole. È personale, ipnotico, divertente. I dischi successivi a questo, in particolare l’ultimo Punters on a barge uscito quest’anno per l’australiana Homeless Records, mostrano una crescita che me li fa paragonare agli Sleaford Mods: minimalisti, severi, per niente accomodanti, adottano una formula rigida ma si rendono conto che per non annoiare non c’è bisogno di perdere la propria identità, basta scrivere belle canzoni. Tra l’altro hanno un disco pronto per l’uscita il 23 ottobre su Monofonus Press. È il secondo che pubblicano nel 2015, e sono riusciti anche ad andare in tour in Australia e Giappone. E io che mi lamento se devo fare la spesa e la lavatrice nello stesso giorno.

 

BONUS TRACK: HIS ELECTRO BLUE VOICE - FOG / DAS (SS024, 2007)

Come non parlare del 7” di debutto (tecnicamente è il secondo, ma il primo era uno split) del nostro orgoglio nazionale His Electro Blue Voice, anche loro “scoperti” da Soriano. Fu uno shock. Si rifiutavano di suonare dal vivo e Avant! Records era ancora in fasce, quindi per molti fu un fulmine a ciel sereno. Arcigno come uno sbirro tedesco, violento come un divorzio con figli, esagerato come una rissa tra adolescenti, questo piccolo 45 giri è una mazzata. La vera perla è il lato B, “Das”: cantata in italiano con accento Great Complotto, si sviluppa attorno a un riff ossessivo di due note (ancora marchio di fabbrica HEBV sette anni dopo) e, sbrigata la formalità del cantato, prima si ferma, poi riparte al doppio della velocità e si sfracella contro un muro, scatenando una scarica da due minuti di ferraglia, vetri rotti, elettricità statica e, a cazzo di cane, flauto dolce, prima di zittirsi definitivamente e lasciare spazio a un carillon solitario. Una fotografia perfetta di quello che ti può succedere se hai la sfortuna di nascere in provincia di Como. 

IL RESTO DEL CATALOGO

Chi si prenderà un po' di tempo per ascoltare il resto della produzione S-S sarà premiato, qualunque sia la sua droga preferita: no wave free jazz dal Sud Africa? Celo. Garage rock inglese in doppio LP con le canzoni anti-hipster? Celo (vedi sopra). Demotape hardcore italiano del 1983? E me lo chiedi? In fondo non posso che darti un piccolo assaggio. Sta a te sbatterti un po', è questo il bello, e anche la linfa vitale, della musica underground.

Segui Giacomo su Twitter — @Generic_Giacomo

 

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