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Liberato non ha rotto le palle, voi avete rotto le palle

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Devo dire la verità: il nove maggio ho sperato che non succedesse nulla. Sarà che vivo un po’ troppo immerso in questa bolla, ma mi annoiava l’idea che ancora una volta ci sarebbe stato il solito meccanismo dell’uscita a sorpresa, prontamente ricondivisa da decine di contatti e accompagnata da infiniti commenti e discussioni. Più che altro perché questo tipo di modalità, per quanto sia da manuale della creazione dell’hype ai nostri tempi, a mio avviso rischia di mettere sempre più in secondo piano l’aspetto musicale del progetto, che invece ho sempre apprezzato.

Al di là del discorso sull’immagine, potentissimo e realizzato magistralmente, Liberato mi è piaciuto fin da subito per la sua specificità musicale. Sarà per il mio amore per il canto napoletano in generale, o sarà per il tentativo di svecchiare il panorama pop italiano, ancora troppo legato a sonorità vecchie e scontate (soprattutto in ambito mainstream).

liberato album cover

La copertina dell'album di Liberato, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

In una visione un po’ romantica speravo anche quasi che Liberato si fosse ritirato, che si fosse stufato, che non avrebbe più fatto niente (anche se una data romana già in programma non faceva propendere per questa ipotesi): sarebbe stato un gesto molto umano, in barba a tutti quelli che hanno voluto vedere solo il marketing all’interno di questa storia. Dopo avere tastato una volta per tutte la qualità del progetto assistendo a un ottimo live al Club To Club dell’anno scorso, mi sembrava un peccato che il tutto rimanesse legato a sortite molto estemporanee, da consumare sull’onda della sorpresa del momento, e senza dare prove di una solidità più duratura.

Ma queste sono le divagazioni di un vecchio di merda, di uno che ancora si dispiace quando un bel disco non esce in formato fisico (per esempio The Life Of Pablo, o elseq 1-5 degli Autechre), insomma non certo i pensieri del pubblico medio. Ora anche uno come me può rallegrarsi del fatto che dal mondo Liberato è finalmente uscito un disco, un album intero, come piace a noi.

In coda all'uscita non sono mancati i soliti commenti: da un lato gli innamorati dell'hype che si esaltano acriticamente per ogni cosa, dall'altro gli eterni scettici che considerano il progetto un'operazione commerciale senza valore. Ma cosa succede se invece si ascolta il disco, senza tante sovrastrutture?

Il disco, per chi è cresciuto in un’epoca di album della durata di un’ora di cui all’uscita conoscevi al massimo due pezzi, ha lo stesso difetto di altri ottimi lavori pubblicati quest’anno (Scialla Semper di Massimo Pericolo e 40 di Quentin40): sei pezzi su undici li conoscevamo già, o cinque se vogliamo considerare inedita la riedizione in chiave acustica di “Gaiola Portafortuna”; detto questo, però, i difetti sono finiti. Se i brani già editi ci avevano fatto intuire la qualità e lo spessore del progetto musicale, le novità non fanno che confermarlo, andando anzi ad aggiungere nuovi livelli di profondità.

“Oi Marì” e “Tu me faje ascì pazz’” sono due hit sulla scia di quelle già uscite, ottimi pezzi che non hanno nulla da invidiare ai successi già noti, e che come quelli faranno un’ottima figura sul dancefloor; “Guagliò" è il momento in cui si osa di più dal punto di vista delle sonorità, compreso un notevole impazzimento jungle finale; “Niente” è una splendida ballata emozionante e evocativa, che conferma un grande talento anche in quella che è puramente la fase di scrittura, anche al di là di sonorità, produzione e arrangiamenti (cosa che fa anche la nuova versione di “Gaiola", per chi non avesse avuto modo in precedenza di soffermarsi su quell’aspetto).

Il pezzo più interessante secondo questi parametri di giudizio (quelli più puramente legati alla produzione) è invece la lunga traccia-monstre “Nunn’a voglio ‘ncuntrà”: il brano parte rarefatto e atmosferico, diventa man mano più epico per poi diventare una specie di “Coro delle lavandaie” (lavoro della Nuova Compagnia di Canto Popolare del 1976 diventato in anni recenti un must sui dancefloor di tutto il mondo) in cassa dritta, virare quasi eurodance, rallentare di nuovo sull’epico, reintrodurre la cassa, interrompersi improvvisamente, scalare mostruosamente i bpm, introdurre un bridge evocativo e pacato, far partire un beat, virare su un intermezzo astratto che introduce al ritorno del simil-“Coro delle lavandaie”, e andare a chiudere di nuovo in terreno dance.

Non so chi sia o chi siano le persone dietro le produzioni di Liberato, ma sono tra i più grandi talenti che ci siano in Italia in questo momento, e questo disco è a un livello incredibile, forse l’unico nel genere a poter essere tranquillamente esportabile e fare impazzire gli ascoltatori di qualunque parte del mondo. Se il suo pubblico di riferimento è esattamente lo stesso dell’itpop/nuovo indie italiano, c’è però un abisso tra la sua proposta e quella standard di un genere che tende molto a ripiegarsi sul già sentito e sul dare all’ascoltatore qualcosa a cui il pubblico italiano è già abituato da decenni.

Sono pochissimi i nomi (mi viene in mente Cosmo) che in quell’ambito e non in quello urban stanno davvero provando a svecchiare il pop italiano, e non semplicemente a dare un nuovo packaging a sonorità vecchie di decenni. RnB contemporaneo, house, disco: in questo lavoro di esordio si mescolano mille sonorità e atmosfere con eclettismo, originalità e personalità, dimostrando in maniera definitiva che Liberato è uno di questi nomi e che lo è in modo assolutamente credibile. Marketing o non marketing.

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Confrontational è il prodigio sardo della Synthwave

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Pian piano stiamo finalmente iniziando ad apprezzare la synthwave anche qui in Italia e cominciamo ad avere qualche evento dedicato ai suoni sintetici dei ruggenti ‘80 anche da queste parti: Perturbator è già passato un paio di volte e a novembre avremo i Mayhem aperti da Gost. La comunità di appassionati rimane ristretta come qualunque comunità di appassionati di musica in questo Paese, ma pian piano la nostalgia sintetica propugnata da NewRetroWave sta cominciando ad avere un minimo sindacale di esposizione.

In questo clima quanto mai incerto ed embrionale, tuttavia, la synthwave italiana può contare su un artista che non teme il confronto (passatemi il pessimo gioco di parole) con i più blasonati autori internazionali: Confrontational.

Massimo Usai, sardo per nascita ma assolutamente internazionale per vocazione, dal 2015 ha pubblicato tre album uno più convincente dell’altro: A Dance Of Shadows, Kingdom Of Night e The Burning Dawn, e al momento sta lavorando al rilascio di Under Cover Of Darkness, una raccolta di cover reinterpretate nel tipico sound di Confrontational, a ogni uscita più sfaccettato e personale. Dopo una rielaborazione di “Profondo Rosso” dei Goblin risalente allo scorso autunno, “Happy Children” è il primo vero estratto del nuovo lavoro, e noi ve lo presentiamo in anteprima con la presentazione di Confrontational stesso.

Under Cover Of Darkness è frutto della mia esigenza di tracciare la linea che unisce a filo doppio l'Italodisco alle atmosfere del thriller Italiano: un trait d'union che nella mia visione porta linearmente da “Profondo Rosso” a “Boys (Summertime Love)” - perchè dai Goblin a Sabrina il passo è veramente breve.

Voglio far conoscere ai miei ascoltatori le origini del suono Confrontational con una serie di cover ed un occhio di riguardo per i brani provenienti dall'Italia, che negli anni '80 ha rappresentato l'avanguardia assoluta nel genere. La scelta di aprire le danze con “Happy Children” - col suo testo così attuale - è diretta proprio in questo senso, e sono felicissimo che l'autore originale del pezzo, P. Lion, abbia ascoltato il brano in anteprima ed approvato la nuova veste sonica. Il suo feedback è stato fondamentale anche per il video, scaturito da una ricerca durata 3 mesi: una mia interpretazione della pagina "Search" di Instagram, un presente costante, convulso ed oscuro come nei peggiori incubi di Romero e Carpenter.

L’assolo è opera del nostro amico Adrien Grousset, ovvero il chitarrista dei francesi Carpenter Brut, che avrà una partecipazione anche in un brano successivo. Under Cover Of Darkness verrà pubblicato via Bandcamp un brano alla volta lungo l'estate 2019 con un artwork curato ancora una volta da Branca Studio, studio grafico di Barcellona che ha collaborato con Black Sabbath, QOTSA, The Obsessed e moltissimi altri.

Il primo show con la nuova formazione live di Confrontational avrà luogo il 1 Giugno a Bologna (DECADENCE).

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Il nuovo album dei Vampire Weekend è un casino, ma in senso buono

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I Vampire Weekend suoneranno al Circolo Magnolia di Milano il 9 luglio. Clicca qui per acquistare i biglietti.

Pochi giorni prima di Natale 2014, Ezra Koenig dei Vampire Weekend ha fatto uscire una strofa rap. Dopo Modern Vampires of the City, uscito nel 2013, che ha vinto un Grammy e ha debuttato in prima posizione sulle classifiche di Billboard, la band era più famosa che mai. Quindi riemergere in un remix di “Down 4 So Long” di iLoveMakonnen è parsa una scelta curiosa (al di là dei paralleli con le prime avventure musicali di Koenig). La strofa è distaccata, buffa e decisamente ancorata al suo tempo, con i suoi riferimenti allo scandalo delle foto leakate da iCloud e alla Shmoney dance. Ma se si va oltre i vari strati di ironia, sembra che Koenig, successo a parte, non sia del tutto a suo agio con se stesso. "Odio me stesso, penso che gli americani facciano schifo", mormora. "Ma gli altri paesi mi fanno sentire strano come un pisolino pomeridiano".

“Down 4 So Long (Remix)” è troppo poco e troppo poco seria per essere considerata un momento importante della leggenda dei Vampire Weekend, ma evidenzia una fastidiosa incertezza di Koenig, che contrasta con l'aria di infallibilità che la band aveva acquisito dopo Modern Vampires. Ho pensato a quell'incertezza di tanto in tanto nei cinque anni che sono passati, in cui la band è stata perlopiù assente dalle scene internazionali. E mi è tornata in mente di nuovo ascoltando Father of the Bride, il lungamente atteso quarto album dei Vampire Weekend che è uscito venerdì. FOTB non è insicuro; al contrario, è meno accomodante di qualunque altra cosa la band abbia mai fatto. Ma la band ha deciso di ignorare qualunque direzione particolare in favore di una sorta di irrequietezza artistica. Rimbalza tra sonorità in maniera quasi disorientante, in un netto tentativo di evitare quel tipo di pop conciliante che a volte segue un successo colossale come quello di Modern Vampires.

Le dinamiche della band sono state mescolate dall'inizio della pausa nel 2013. Koenig ha lanciato un programma radio su Beats 1 e creato una serie animata su Netflix. Smontando una canzone degli Yeah Yeah Yeahs, ha creato un ritornello classico istantaneo per Lemonade di Beyoncé. La sua fidanzata Rashida Jones ha dato alla luce il loro primo figlio la scorsa estate. Nel frattempo, il batterista Chris Tomson ha pubblicato un album solista e il bassista Chris Baio ne ha pubblicati due.

L'avvenimento più importante, però, è stato l'abbandono di Rostam Batmanglij all'inizio del 2016. Rostam ha prodotto i primi tre album della band ed era molto coinvolto nella scrittura delle canzoni. Ha lasciato per lanciare la propria carriera solista e concentrarsi sulle collaborazioni (la più degna di nota con Hamilton Leithauser dei Walkmen per il sottovalutato album I Had a Dream That You Were Mine).

Rostam è rimasto in buoni rapporti con la band—qui contribuisce a due canzoni—ma la sua uscita segna una forte deviazione dalla grandeur di Modern Vampires. FOTB è libero e peculiare, e saltella dal loro tipico pop barocco al rock al country al folk, piegando ogni nuovo suono alla sua volontà. Contiene esperimenti volubili ("My Mistake") e psichedelia disordinata e nervosa ("Sunflower"). Contiene ben tre duetti con Danielle Haim: uno sembra una canzone Disney in senso buono ("We Belong Together"), un'altro in senso cattivo (“Married In a Gold Rush”); il terzo accentua le sue strofe con un bellissimo sample preso dalla colonna sonora di Hans Zimmer per La sottile linea rossa.

Nonostante la reputazione da band con una tecnica limitata, i Vampire Weekend sono sempre stati vari e hanno sempre operato all'interno di un raggio tematico ampio. In pochi anni, si sono evoluti dalle prese di posizione sull'utilizzo delle virgole a scambi di sguardi con Dio senza strappi. Il terreno esplorato da FOTB sta paradossalmente tra l'avanzata e la ritirata. La palette della band si è ingrandita, anche quando la capacità tematica si è ristretta.

Modern Vampires era soprattutto determinato dalla fissazione di Koenig per la morte, che non è più l'unico fuoco in Father of the Bride. Eppure la scrittura dei testi è ancora densa e piena di intento. Koenig riempie le canzoni di campioni, riferimenti ed enigmi da decifrare. “Sympathy,” uno dei momenti più sontuosamente sinceri dell'album, è venata di umorismo nero e caustico; “Spring Snow” e “Unbearably White” sono vividi ritratti pieni di pathos. “Jerusalem, New York, Berlin” affronta un classico argomento della musica pop, la Dichiarazione di Balfour del 1917 (che ufficializzava il supporto britannico alla Palestina come "casa nazionale delle persone ebree", un fatto che conoscevo perfettamente senza dover consultare Wikipedia). Koenig sa ancora essere laterale e sfuggente, ma quello che fa qui può dare grandi soddisfazioni se l'ascoltatore si prende il tempo necessario a comprenderlo.

Ma al di là di tutta questa pesantezza, Father of the Bride risulta ottimista e fresco. A volte troppo fresco, addirittura; pseudo-interludi come “Bambina” e “2021” funzionano bene ma non lasciano il segno, viene da chiedersi se non potessero essere sviluppati meglio. Sono porzioni stranamente minori, come se il disco volesse levarsi di dosso la pelle da Grande Album-Evento™ (e probabilmente è proprio così: “Nell'ultimo disco, avevo questa leggera sensazione che fossimo diventati un po' troppo famosi", Ezra ha confessato a GQ poco tempo fa). Koenig spesso suona più tendente a contenersi che a impegnarsi sul serio. Quando, all'inizio di “Sympathy”, Ezra dice: “Penso di prendermi troppo sul serio... non è così serio", sembra di sentire le sue ambizioni sgonfiarsi. Simili momenti di autocritica si affacciano in quasi tutto Father of the Bride; Koenig ha reclutato Jerry Seinfeld per il video di “Sunflower”, ma le sue nevrosi sembrano più vicine a quelle di George Costanza.

Ma la sua leggerezza finisce per caratterizzare FOTB; non resti mai troppo a lungo in nessun punto. C'è uno slancio che neutralizza quella fastidiosa sensazione che l'album sia circa un quarto più lungo di quanto dovrebbe essere. Che funzioni o meno, dipende. L'ingombrante portata di FOTB—18 canzoni e un'ora di durata—fa spazio a tutta la sua varietà. Funziona anche da limite per la sua efficacia, facendo prevedere un successo meno dirompente.

Quello che funziona, qui, tuttavia, è piuttosto innegabile. Il singolo "Harmony Hall" è una sintesi quasi perfetta del fascino dei Vampire Weekend, composto perfettamente e ricco di emozione. "This Life" è una delle canzoni pop più puramente piacevoli dell'anno. "Stranger" è similmente immediata, con dei fiati che non suonerebbero fuori posto in Moondance. “Hold You Now” e “Unbearably White” sono sottili e bellissime. La incalzante e spagnoleggiante “Sympathy” e la cangiante “Flower Moon” ribollono di energia nervosa. Il pop rassicurante che emerge di tanto in tanto in FOTB funziona da polizza di assicurazione contro le digressioni dalla formula canonica dei Vampire Weekend; ogni esperimento avventato (come il pesante lounge di “My Mistake” o la stucchevole “Married In a Gold Rush”, che adotta una cadenza country e la veste di electro-pop) è accompagnato da una scarica più diretta verso i centri del piacere dell'ascoltatore.

Father of the Bride usa gli echi del passato per legare con chi ascolta. “Harmony Hall” richiama e amplifica il disperato refrain di “Finger Back”: “Non voglio vivere così, ma non voglio morire”. Più avanti, Koenig ammette che l'età e il tempo non possono procurarti la sicurezza di cui hai bisogno; le battaglie della vita non si vincono, ma evolvono. “Baby, lo so che l'odio aspetta sempre alla porta, pensavo solo che l'avessimo chiusa a chiave quando ce ne siamo andati stamattina", canta in “This Life” (che cita iLoveMakonnen, tra l'altro). In un certo senso, è un po' quello che diceva in "Step" nel loro ultimo disco: "La saggezza è un dono ma la scambieresti per la giovinezza... l'età è un onore, ma lo stesso non è la verità". È un difficile riconoscimento del fatto che l'età e il successo non hanno aiutato Koenig a capire il senso della vita. Molte cose sono cambiate negli ultimi sei anni, ma molte cose sono anche rimaste uguali.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata su VICE US.

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'Relapse' di Eminem compie dieci anni e dovremmo celebrarlo

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Il rap di Eminem è sempre stato auto-analisi. Quando era un ragazzino metteva in rima la merda della sua vita passata, infuriato; oggi affida ai beat le paranoie che il suo cervello genera, preoccupato dagli anni che avanzano e da come il mondo lo percepisce. Il passaggio tra queste due modalità espressive non è stato netto, ma c'è un pezzo che sembra aver segnato una svolta nella voce artistica di Em: "Not Afraid", pubblicata nel 2010 su Recovery.

Come fa notare HipHopDX, su quel pezzo Eminem si scusava con i fan per la scarsa qualità del suo lavoro precedente, Relapse: "Questa è per i fan, non vi deluderò mai più / Sono tornato, e prometto di non tradire mai 'sta promessa / A proposito, devo essere onesto, Relapse non era questa gran cosa". Dopo anni passati a raccontare di smembramenti, violenze, morti e psicosi sociali intrecciandoli alla sua vicenda personale, Eminem aveva cominciato a concentrarsi solo su sé stesso e la sua eredità.

Bene, oggi quel disco che non era "questa gran cosa" compie dieci anni e quel disco, nonostante quello che dice Eminem, aveva un valore. Encore, pubblicato nel 2004, fu il primo mezzo passo falso della sua carriera: andò benissimo a livello di vendite e partorì hit del calibro di "Like Toy Soldiers" e "Mockingbird" ma ebbe un peso fortissimo sulle spalle del suo autore. Dopo la sua pubblicazione Em venne infatti colpito da un durissimo blocco dello scrittore e sviluppò una dipendenza da sonniferi. Per uscirne gli ci vollero cinque anni.

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La copertina di Relapse di Eminem, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Relapse significa letteralmente "ricaduta"—nel buio della dipendenza, nel marcio dell'anima. Dopo un disco relativamente "normale" come Encore, Marshall Mathers lasciò di nuovo spazio allo Slim Shady, il suo alter ego fuori di testa che non si faceva problemi, per esempio, a rappare cose del genere:

Sono nato con un cazzo nel cervello, sì, sono pazzo
Il mio patrigno mi diceva che a letto facevo schifo
Finché una sera non si è infilato sotto le lenzuola e mi ha detto
"Andiamo sul retro, voglio che mi succhi il cazzo nel capanno degli attrezzi.
Ma non possiamo giocare con un orsacchiotto?
"Dopo che ti avrò scopato nel culo e mi avrai fatto un pompino
Sborrerò e mi riposerò", e il giorno dopo mia madre diceva
"Non so che cazzo ha 'sto ragazzino,
'Sto bastardo manco mangia la roba che gli diamo.
Si è impiccato in camera sua, è morto!"

È con queste parole che si apre "Insane", un pezzo in cui Eminem parla di stupri e suicidi con una naturalezza agghiacciante. Ed è questo il valore di Relapse: è l'ultimo disco in cui Eminem ha scritto le cose più malate che gli venivano in testa, creando così un'opera che genera un misto di disgusto e fascino—come certi di film di Lars Von Trier, certi dipinti di Schiele.

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Eminem, fotografia via VICE

Prendiamo per esempio "Same Song & Dance", un pezzo dal beat che è pura malinconia, è scritto dalla prospettiva di un rapper violento che pesta la sua donna. Nella seconda strofa, il protagonista immagina di uccidere Lindsay Lohan: si infatua di lei quando le vede il culo, si innamora quando capisce che anche lei ha bisogno di andare in rehab come lui ed è lì che la uccide. Nella terza strofa, invece, tocca a Britney Spears. Il narratore impazzisce per lei, sogna di mandarle un orecchio come Van Gogh e si infila nella sua villa di notte, dove le stacca la pelle per farsi una maschera.

Tutto questo fa schifo, ma uno di quegli schifi consci di esserlo - come quello di Ketama126 o del vecchio Fabri Fibra, per intenderci—ed è contornato da una buona quantità di narrazione personale, così da non risultare una semplice e debole provocazione. Il pezzo più adatto per cogliere questo lato di Relapse è "Deja-Vu", più un autoscatto impietoso della dipendenza di Eminem che una semplice canzone. Nel flusso della narrazione compare anche la figlia Hailie, che chiede a mamma perché papà "è strano", lo spaventa, mangia cibo spazzatura e si addormenta in macchina alle tre del mattino.

I punti più deboli del disco sono quelli in cui Eminem mette da parte l'introspezione: "Must Be The Ganja" e "Crack A Bottle" con Dr. Dre e 50 Cent sono banger da finestrino abbassato che spezzano la tensione del disco, piccole distrazioni all'interno di uno stato di equilibrio precario. Sentire 50 che rappa di tipe e champagne poco dopo che Eminem ha descritto il terrore che prova a prendere in mano una bottiglia di birra, terrificato dalla possibilità di cadere nell'alcolismo, è straniante a dir poco.

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Screenshot dal video di "3am" di Eminem, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

Relapse aveva una bonus track intitolata "Careful What You Wish For", un pezzo in cui Eminem si rendeva conto per la prima volta di quanto ciò che aveva sempre sognato era diventato una gabbia di dolore: "Stai attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo / E poi rischi di non sapere cosa farci", diceva nel ritornello. Dopo aver buttato fuori tutto il blob purulento che aveva marcito nel suo cervello negli anni di stop dopo Encore, Marshall Mathers si sentiva finalmente lucido. Non gli piaceva affatto quello che i suoi occhi ora vedevano quando si guardavano allo specchio: un uomo stanco, drogato, orgoglioso del proprio status ma conscio della sua fragilità. Ma sapeva anche che non aveva senso piangersi addosso.

Oggi Eminem è una versione più vecchia e stanca di quella stessa persona. Continua a rappare come ha sempre fatto, conscio della sua importanza per la storia della musica e protetto da orde di fan adoranti, ma è sempre sospeso tra paranoia, condivisione e ambizione. Scrive dischi che vengono criticati e poi, mosso dalla furia emotiva che ha sempre alimentato la sua creatività, ne butta fuori altri in cui sputa fuori il suo livore nei confronti dei critici. E quindi rischia di non fare più dischi come Relapse, fantasie nere create per sé stesso, pagine di diario che rivelano il loro valore solo quando cominciano a ingiallire.

Elia è su Instagram.

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Aletheia di Izi è una lezione di maturità per la nuova scuola

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Siamo nel 2019 e un beat di Charlie Charles ha vinto Sanremo, il nuovo singolo di Rkomi passa in heavy rotation su Radio Deejay, Sfera Ebbasta si è trovato al centro di un caso di cronaca nazionale, la Dark Polo Gang è accasata sotto l’ala protettrice di Fedez. Insomma, i riflettori sono puntati sugli alunni di quella ormai non più nuova scuola, impegnati a consolidare il successo ottenuto con i loro primi lavori. È in questo contesto che Izi, uno dei primi a svecchiare il rap italiano, ha deciso di prendere una decisione tanto drastica quanto coraggiosa: fuggire lontano senza mai voltarsi, alla ricerca di un rifugio in penombra, alla ricerca della propria Aletheia.

Aletheia (ἀλήθεια) è una parola greca traducibile come “verità”, “rivelazione”, “dischiudimento”, ed è il titolo del terzo album di Izi. Il suo significato è un suggerimento rispetto a quelli che sono i contenuti del disco, ma a colpirmi particolarmente è stata un’altra cosa. In un periodo storico in cui la capacità di catturare l’attenzione del pubblico in una manciata di secondi è un fattore cruciale, la scelta di un titolo che obbliga già in partenza ad una ricerca, ad un ragionamento, risulta emblematica, nonché rappresentativa dell’approccio da assumere durante l’ascolto.

Izi torna dopo due anni di silenzio segnati da una depressione profonda, attacchi epilettici e solitudine. Proprio per questo Aletheia suona tormentato, intricato, ma anche aperto al futuro nel suo essere una presa di coscienza spirituale, un consapevole traguardo raggiunto dopo una autoanalisi matura. È un lavoro difficile, che si svela dopo numerosi e attenti ascolti e acquista spessore se inteso come un nuovo passo all’interno del percorso tanto di Izi musicista quanto, o forse soprattutto, di Diego persona.

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La copertina di Aletheia di Izi, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Il rap di Izi comincia a farsi largo nei carruggi più di cinque anni fa (con Macchie di Rorschach, tape registrato insieme a Sangue, quando ancora si faceva chiamare Eazyrhymes), ma è nel 2014 che il suo nome inizia ad entrare nei radar della scena nazionale grazie al mixtape Kidnapped. Un lavoro acerbo, figlio della struggle, ma che lascia presagire del talento; non a caso contiene versioni germinali di “Chic”, suo cavallo di battaglia riedito due anni dopo, e di “Dammi un motivo”, presente proprio in Aletheia, quasi a sottolineare come i capitoli di questa storia non possano mai considerarsi del tutto chiusi (“Ricordati che il tempo non esiste (ah)/È soltanto una cosa triste”).

Un anno dopo, con Julian Ross Mixtape, le sonorità si spostano verso la trap ma non ne rimangono schiave, anzi: si aprono a ricerche melodiche che sfociano nelle insenature pop di Fenice (2016), il suo primo vero album solista uscito per una major. Al di là di ottimi picchi qualitativi, attorno al progetto aleggia una sensazione di incompiutezza, dovuta principalmente al fatto che il disco sia stato ampiamente influenzato da Zeta (2016), film di Cosimo Alemà che vede Diego nei panni del protagonista, un giovane rapper che cerca di sfondare nel mondo della musica. Per sua stessa ammissione, però, il cinema non è stata l’esperienza che si sarebbe aspettato: “non c’è stato molto rispetto per quello che sono io, a livello artistico. Non gliene fregava niente a nessuno di Izi. Izi lì non esisteva”.

In un cammino inverso rispetto a quello dei colleghi, quindi, Izi decide di dare un colpo di coda al mainstream pubblicando nel 2017 sempre su Sony quello che possiamo considerare il suo primo vero album maturo. Pizzicato è un successo nonostante la (o grazie alla) sua anima oscura e opprimente, rappresentata già dalla cover: una sorta di inferno dantesco abitato dai demoni quotidiani che l’artista mette in musica. Di primo acchito Aletheia, con il suo occhio mistico in copertina (“Guarda l'occhio, dopo prova a definire una persona, dai / Se ha l'ombra dentro oppure gioia, oppure ‘cosa c'hai?!’”), potrebbe sembrarne la prosecuzione, ma è con un ascolto più attento che l’album si rivela per quello che è. Cioè la summa di tutte le anime passate e presenti di Izi, un ragazzo che non è mai mutato radicalmente ma che è cresciuto, portandosi dentro le cicatrici del cambiamento.

“Il più grande errore è credere che l’uomo abbia un’unità permanente / Un uomo non è mai uno, continuamente egli cambia / Raramente rimane identico, anche per una sola mezz’ora”.
- da "Zorba"

L'arte di Izi si è sempre fondata su una multiformità, ma è in Aletheia che essa esplode manifestandosi su più livelli. Dal punto di vista musicale, ovviamente, è espressa dalla folta schiera di produttori chiamati in studio. Davide Ice (talvolta coadiuvato da Marco Zangirolami), beatmaker storico di Izi, ormai si destreggia su qualsiasi tipo di mood. A lui si aggiungono Charlie Charles, riconoscibile tra mille, il giovane Tha Supreme e MACE, già dietro a “Chic”. Ci sono anche contributi internazionali: Maaly Raw coi suoi bassi abrasivi già al servizio di Lil Uzi Vert e Meek Mill; Frankie P e Bijan Amir, il primo spesso al lavoro con A$AP Ferg e il secondo dietro a “Ric Flair Drip”; Josh Rosinet e Heezy Lee per un tocco di trap d’oltralpe, che sfocia in un featuring cantato in francese. Oltre a loro, per quanto riguarda le parti vocali, si contano solo altre due collaborazioni: Speranza in “OK” e Sfera Ebbasta in “48H”, ovviamente due hit.

Musica a parte, è però un momento ben definito l'apice creativo del disco e sua chiave di lettura: “Dolcenera”, cover di Fabrizio De André, è un azzardo gigantesco. A confermarlo è Izi stesso: “Avevo paura a farla uscire, mi sembrava una bestemmia”. Già qualche anno fa si ventilava una possibilità del genere, da quando il rapper aveva dichiarato che, se una virata nel pop era da escludere, un futuro da cantautore l’avrebbe abbracciato volentieri “avendo Genova una tradizione cantautorale immensa”. Sembra assurdo pensare che, soltanto l’anno scorso, l’accostamento tra Faber e la trap si era tradotto in un fuoco di paglia ironico.

Il risultato, sia sonoro sia simbolico, del pezzo è qualcosa di così unico che non può lasciare indifferenti. È l’incontro rispettoso di due generazioni che troppo spesso abbiamo visto scontrarsi a causa di incomprensioni e difficoltà comunicative. È il giusto tributo di un artista alle sue radici, alla sua città (il pezzo vuole essere un pensiero per le vittime del crollo del Ponte Morandi) e ai suoi idoli. Sulla base c’è un rapper che si scrolla di dosso le etichette per sbocciare definitivamente, abbracciando con coraggio la propria anima cantautoriale e fregandosene di quello che il pubblico della “scena” si aspetterebbe da lui. È un segnale forte e non mi stupirei se tra qualche anno saremo qui a parlare di “Dolcenera” (ma anche di quella “Bad Trip” contenuta in Pizzicato) come di un momento di svolta nella carriera di un Izi ormai uomo, songwriter libero e consapevole.

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Fotografia di Alessandro Treves

A contraddistinguere Izi sin dagli esordi, e a differenziarlo dagli altri artisti della scena, sono stati un flow unico, strascicato, ed un coraggioso uso della metrica. In una situazione di stallo apparente in cui la lingua del rap italiano sembra essersi fermata, Izi riparte da sé, dai suoi punti di forza, migliorando il proprio stile con nuovi spunti creativi. Come abbiamo già visto, le sue personalità sono molteplici e rivivono nei differenti mood del disco. Questo aspetto, però, diventa ancor più lampante se prendiamo in considerazione l’atteggiamento del rapper nei diversi pezzi. Meditativo, spaccone, arrabbiato: uno nessuno e centomila Izi si avvicendano sui beat, tra sussurri (“Pasta e molliche”) e grida (“Volare II”), spoken word (“Zorba”) e flussi di coscienza inarrestabili (“Il nome della rosa”, “Pace”, “Grande”), linguaggio e riferimenti ricercati e turpiloquio, parole troncate e persino delle barre in inglese più che convincenti (“Weekend”).

La narrazione di Aletheia procede, come in passato, per immagini e simbolismi potenti, talvolta mistici, forte però di un arricchimento lessicale e di una dizione mai così chiara e scandita, drasticamente perfezionata. E proprio come accade per il comparto musicale, anche quello vocale trova il suo scheletro nella melodia, elemento essenziale per rendere fruibile il significato di un’opera densa di messaggi, di un rap in cui la parola ricopre ancora il ruolo primario.

Le parole in Aletheia sono tante e spesso pesanti, proprio come i contenuti che veicolano. Sulle basi Izi abbandona filtri e distanze, aprendo il proprio animo lungo una narrazione sincera in cui le debolezze spiccano e diventano fulcro degli scritti. La solitudine (“Io sto in mezzo alla gente, ma mi sento da solo”) e la depressione (“Odio ridere, depresso, sto ore al cesso”, “Ok, dico ‘Ok’ / Sempre sì, ma ok / Io non sto ok fra la gente”), così come il diabete e i coma, da sempre croce del rapper (“Vorrei farcela, ma so che ho tanto / Mania del controllo e poi ti svengo affianco”) sono analizzati senza scadere in una sofferenza romanzata, né tantomeno in un crogiolo di malessere poser.

A Izi non piace fingere, e proprio per questo non è interessato a palliativi transitori come sesso e denaro. In un certo senso anche le canne sembrano assumere definitivamente una connotazione diversa: se è vero che l’erba è un tema centrale sin dai tempi dei primi mixtape, in “Fumo da solo” essa diventa esplicitamente “bella a metà”, compagna di solitudine (“Mi attacco alla mia erba che resta nel vaso / Che è tutto ciò che mi resta nel caso”) ma anche di paranoie da cui sarebbe bello liberarsi, un giorno (“Tornerò da te ma da capo proprio / Come ti promisi / E morirò con te ma da capo e sobrio / E ora mi sorridi”).

izi aletheia
Fotografia di Alessandro Treves

Aletheia è un disco concentratissimo sul presente, quasi disinteressato al futuro (“Perché solo Dio la sa la mia strada”) e poco incline a guardarsi indietro. Certo, Izi nomina la sua città d’origine con malinconia (“In città a Cogoleto / Abbraccio i fan a Cogoleto”, “Non mi dispiace questo hotel / Ma io ho il ricordo della stanza mia (Cogo)”), dedica un paio di shoutout alla sua crew (“Faccio gesti molesti come un orango / Un po' come Tedua, un po' come uno strambo”) e ricorda i tempi in cui era ragazzino (la prima strofa di “Grande”). A prevalere, però, è la visione dello stato attuale delle cose e della vita, con la voglia di curare il dolore (“Prendo i nodi del mio pettine e li divido”, “Io voglio solo [...] un poco di pace per me”) e la speranza che, in un modo o nell’altro, l’umanità possa migliorare (“Se siamo fatti a tua immagine / Chiamaci a corte, rifacci compagine”).

Credo sia sbagliato approcciarsi ad Aletheia considerandolo una rinascita, una guarigione, un nuovo inizio. Izi sa benissimo di non stare bene. Sa che l’oscurità fa ancora parte della sua vita, come sottolineano le singole parole presenti alla fine di alcuni brani, che se riordinate danno vita a un messaggio cifrato: “Ma un bambino ha paura del buio quando possiamo comprendere la verità”. In questo senso il lavoro rappresenta qualcosa di ancor più grande. Se le tematiche trattate nei pezzi non sono di certo nuove, a colpire è la sensazione costante che Izi sia finalmente in controllo, conscio della sua arte, del suo percorso e della sua persona. Imbrigliare una psiche così complessa non è semplice, ma l’accettare questa condizione senza più mascherarla potrebbe tramutarsi in un aiuto per lui stesso e per chi lo ascolta, un altro terapeutico avanzamento verso la serenità e la consapevolezza di un io multiforme, tanto affascinante quanto complicato nella sua fragile umanità.

Avevamo lasciato Izi in fuga dai riflettori, alla ricerca di un rifugio in penombra. Oggi Diego è pronto a uscire dal buio, ma sempre memore che la tenebra non lo abbandonerà mai.

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Tutto quello che c'è da sapere sul nuovo album di Logic

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Il quinto album è un traguardo importante per Logic. Il suo successo continua a crescere, finalmente è riuscito ad avere il suo idolo Eminem sulla traccia (“Homicide”), ormai è abituato alla brezza che soffia ai piani alti della classifica. Eppure, tutto questo successo si porta dietro una bella dose di nevrosi e preoccupazioni. Confessions of a Dangerous Mind le contiene tutte, messe in fila nello stile tecnico e fluido a cui Logic ci ha abituati, ma contiene anche momenti di humor, un “featuring” di suo padre e una strofa in giapponese, perché è importante sapersi divertire e perché lo sapete che Logic non sopporta che gli si dica che fa sempre la stessa cosa.

Vediamo un po’ nel dettaglio i punti più salienti e curiosi di questo nuovo disco.

logic confessions of a dangerous mind
La copertina di Confessions of a Dangerous Mind, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

C'È UN FEATURING CON UN COMICO AMERICANO CHE IMITA EMINEM

Vi ricordate quando Eminem aveva rappato contro Trump ai BET Awards, scatenando un bordello tanto per il contenuto quanto per lo stile a metà tra freestyle e slam poetry, senza base? Tra le varie cose bellissime che quella strofa aveva prodotto c’era anche un video-parodia del comico Chris D’Elia, famoso stand-up e podcaster americano, che scimmiottava lo stile di Em rappando di dove parcheggiare la Porsche e divorziare da Harrison Ford (le rime erano un po’ a caso, in effetti). La parodia è esilarante ed è rapidamente diventata virale, tanto che Logic e Eminem hanno deciso di inserirla in chiusura di “Homicide”, per la felicità del comico e nostra. Se vi è piaciuta, vi svelo un segreto: c’è una seconda imitazione di Eminem fatta da Chris D’Elia, e fa altrettanto ridere (anzi forse un po’ di più, considerato che in un angolino compare un cane dall’aria stupefatta). La trovate a questo link.

C'È UN FEATURING ANCHE CON SUO PADRE, ANZI DUE

Dopo lo skit che apre “Homicide”, Smokey Legendary, padre di Logic, torna in “BOBBY”. Il rapporto tra i due non è stato facile. Smokey ha avuto problemi di droga, e Logic è nato da un rapporto extra-matrimoniale, soltanto uno di tanti figli avuti da tante donne diverse in una vita passata sulla strada, intrappolata in logiche di quartiere dalle quali Bobby è riuscito a tirarsi fuori. E l’orgoglio di suo padre emerge dalle sue parole, in mezzo a un po’ di sano bragging:

Man, sai, nessuno è come lui
Sai perché?
Perché voialtri dite solo stronzate
E non vivete quello che dite
Perché la vostra bocca dice una cosa
E le vostre azioni ne mostrano un’altra
Quindi non potete provare nulla
Quindi che cazzo pensate di fare?
Questo è il papà di Logic, questo è Bobby Smokey Hall
E lui è uscito dalle mie palle

LOGIC DICE CHE KANYE WEST GLI FA DESIDERARE DI ESSERE BIPOLARE

È in “Yikes” che Kanye ha infilato i famosi versi sulla sua condizione mentale: “Questa è la mia roba da bipolare, tipo, e allora? / È il mio superpotere, non una disabilità! / Sono un supereroe! Sono un supereroe!” Evidentemente questi versi sono risultati convincenti per Logic, che in “Pardon My Ego” riflette sul rapporto tra creatività e malattia mentale, prima parlando di Kid Cudi (“Mi sento un po’ come Kid Cudi / Un po’ pazzo, ma dimmi, quale genio non è un po’ fuori?”) e poi sputando un verso incredibile su Kanye:

Non sono bipolare, Kanye mi fa desiderare di esserlo
Perché quel livello di genio è il più peso
Nessuno può discutere ‘sto flow

DÀ LA COLPA A INTERNET E AI MEDIA PER LA DEPRESSIONE DEI RAPPER

In diversi punti del disco, Logic si scaglia contro i media e il clima che si respira su Internet. Sembra davvero che per lui, che già in passato aveva parlato molto apertamente di depressione, ideazione suicida e altre questioni di salute mentale, i social media e la cultura del clickbait siano una vera piaga per la psiche. In “Confessions of a Dangerous Mind” rappa:

Fanculo i social media
Mi dicono chi dovrei essere e come dovrei rappare
Mi paragonano sempre agli altri
E cercano di mettermi contro i miei fratelli
Secondo te perché così tanti rapper vanno in overdose?
Perché la gente non li lascia in pace

Mentre in “clickbait” è ancora più esplicito e lancia accuse a chi lo vuole ritrarre come un personaggio bidimensionale:

Dovrei svuotarmi l’intera boccetta in bocca come Peep
Andare in overdose, diventare immortale
Mentre i media usano la mia morte per monetizzare

C'È WILL SMITH CHE CITA IL PRINCIPE DI BEL-AIR IN UNA STROFA

Sarebbe già una notizia che Will Smith abbia partecipato seriamente a una canzone seria di un vero album rap, alla sua età e con la sua carriera alle spalle. Ma spesso ci dimentichiamo che al di là del suo successo come attore e delle prese in giro per il suo rifiuto di dire parolacce quando rappa (vabbè), Smith è anche capace di mettere in fila un paio di rime come si deve. Ma questo non importa, perché se pensiamo a Will Smith che rappa, la prima cosa che ci viene in mente è sempre la stessa, ha la voce di Edoardo Nevola e inizia così: "Questa è la maxistoria di come la mia vita è cambiata..."

In "Don't Be Afraid To Be Different" Logic affida l'apertura del pezzo proprio a Smith, che attacca: "Giocando a basket con gli amici sono cresciuto..." procurandoci un attacco di cuore, ma poi si ferma e sbotta "fan***o sta roba" (scrivo fanculo censurato perché è censurato anche nel disco) e passa a elencarci tutte le sue vittorie nella vita. Ok Will, lo sappiamo che sei miliardario e pieno di positività, ma puoi ripartire per favore da dove ti eri fermato? "Me la sono spassata, wow!, che fissa ogni minuto..."

C'È UNA STROFA IN GIAPPONESE

La canzone che chiude l’album è “Lost In Translation”, che fondamentalmente è un pezzo in cui Logic dice che è l’unico rapper con personalità: “Sono una sceneggiatura originale in un mondo di remake”. Sul finale, in riferimento al film che dà il titolo al pezzo, ambientato in Giappone, compare una voce che recita un testo in giapponese. Per fortuna Genius l’ha tradotto in inglese, così noi possiamo tradurlo in italiano per voi:

Grazie per esservi uniti a noi nell’ascolto di Confessions of a Dangerous Mind. È stato meraviglioso, vero? Spero che vi sia piaciuto. Tuttavia, se non vi piace Logic, siete pregati di coprirvi le orecchie o andarvene. Ma in realtà non potete fare a meno di amare Logic, giusto? Ogni giorno non potete evitare di pensare a lui. Vi ha preso un’ossessione senza che ve ne rendeste conto. RattPack in tutto il mondo, abbiamo lasciato un marchio nella storia insieme. Vi amerò sempre e sono felice che esistiate. Dal Maryland al Giappone, con amore. RattPack, motherfucker.

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A.Chal è pieno di contraddizioni, come la latin trap

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Game Of Thrones è la cosa più famosa del mondo, o comunque se la gioca con i film della Marvel dato che c'è gente disposta a pagare 15.000 dollari per vederlo in anteprima. Non c'è quindi da stupirsi se chiunque ha l'opportunità di farne parte, in qualsiasi forma, lo fa. Soprattutto se si tratta dell'ultima volta che lo può fare, dato che al termine di questa stagione i nostri amici di Westeros ci faranno ciao ciao una volta per tutte. Ed è per questo che oggi sono qua a parlare di For The Throne (Music Inspired by the HBO Series Game of Thrones), un frullato di superstar della musica mondiale che si divertono a fare canzoni che mezzo c'entrano mezzo no con gli svisceramenti, gli amori incestuosi e i tradimenti sanguinolenti della loro serie preferita.

Ci sono momenti un po' maldestri: dubito che Lil Peep stesse pensando a Arya Stark quando ha scritto le parole "She wanna make those fuckers cry" e non so bene che cosa c'entri Ty Dolla $ign che ricorda il suo amico scomparso Fredo Santana con le vicende di Westeros. C'è un pezzo orchestrale cantato da Matt Bellamy dei Muse che si alterna al microfono con una ragazza che canta in alto valyriano. Ma dopo che Ed Sheeran aveva messo il suo bel faccione roscio sullo schermo e si era messo a fare il menestrello nell'ultima stagione non è che potevamo non aspettarci un'operazione del genere.

Presi di per sé, i pezzi di For The Throne oscillano dal "meh" al "carino" al "divertente", con di mezzo qualche bomba a mano. Una di queste si intitola "Me Traicionaste". La cantano Rosalía, che probabilmente ben conoscete per come ha preso il flamenco e l'ha ribaltato come un calzino rendendolo una figata ipercontemporanea, e A.Chal, che probabilmente conoscete di meno. E anch'io non lo conoscevo bene finché non mi si presentasse la possibilità di incontrarlo a Milano.

A.Chal è un ragazzo peruviano che ha vissuto fin da quando era piccolo a New York e lì si è reso conto di volersi guadagnare da vivere scrivendo canzoni, nonostante la sua famiglia - mi spiega - gli avesse consigliato di trovarsi "un lavoro un po' più umile". E invece lui, sulla forza dei pezzi rap che scriveva da quando aveva 12 anni, decise di trasferirsi a Los Angeles per tentare la fortuna. Lì si guadagnava da vivere scrivendo canzoni per altri finché le sue, messe in un EP oggi mezzo svanito intitolato Ballroom Riots—un prodotto di R&B scuro che grida il nome di The Weeknd—gli regalarono un contratto discografico. I nostri colleghi americani lo definirono "la manifestazione sonora di un miliardo di notti tarde a L.A. alimentate da una tonnellata di droghe".

Da allora A.Chal ha buttato fuori un disco all'anno: Welcome to GAZI nel 2016, ON GAZ nel 2017 e un EP, EXOTIGAZ, nel 2018. Come è successo a molti ragazzi sudamericani, il suo successo nella parte nord del continente è stato confermato una volta che altri artisti si sono messi a remixare sue tracce. Il primo fu un maestro di questa forma d'arte, French Montana, che mise una sua strofa su "Round Whippin'"; e poi arrivarono 2 Chainz e Nicky Jam a dare una rinfrescata a quella scura ballatina in levare che era "Love N Hennessy".

A.Chal si sente abbastanza a suo agio, in tutto questo, e mette la sua carriera prima di ogni altra cosa. "So che si parla molto di appropriazione culturale in casi come il mio", mi dice. "Un artista sudamericano che sfrutta i suoi colleghi americani per diventare famoso e viene a sua volta sfruttato da loro, che si succhiano i suoi numeri. Ma quando mi prendevano per il culo da ragazzino perché ero peruviano io volevo solo fare musica. E non erano solo gli statunitensi a farlo, erano anche gli altri ragazzi immigrati come me."

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Fotografia promozionale, credit: Rando

La sua musica, in fondo, è infatti relativamente poco localizzata: se non cantasse in spagnolo, spesso A.Chal potrebbe benissimo passare per un ragazzo di Toronto, di Atlanta, di Los Angeles: restando nel contesto dei suoi ultimi brani, "INDIGO GIRL" e "DÉJALO" potrebbero essere benissimo uscite dalla scuderia OVO da quanto sono fedeli alla narrazione sensuale-notturna lanciata da Drake e The Weeknd anni fa, mentre "PUMP FAKE" è pura trap illuminata da un luminoso cantato pop. "È quello che ascolto, è quello che faccio," mi dice lui, "ma penso sia fondamentale non dimenticare le mie origini."

Che cosa significa, esattamente, questo? "Lavorando come autore ho avuto a che fare con un sacco di gente che non ha la minima idea della varietà di tradizioni dell'America Latina", mi spiega lui. "Per dirti, ho un rapporto viscerale con una musica che sento "mia" come la chicha, la cumbia peruviana. È quello che ho sempre ascoltato in famiglia. E quando mi sono trovato di fronte gente che metteva tutte le culture musicali del mio continente sotto un unico ombrello di 'musica latina' mi sono impuntato, e incazzato, per fargli capire che si stava sbagliando."

È fondamentale, secondo A.Chal, che ci sia un sentimento comune tra la sua gente - una voglia di cambiare il sistema musicale dall'interno sulla forza dell'unità. "Ho parlato con dei ragazzi che lavoravano qua quando sono arrivato", dice muovendo il dito intorno alla lobby dell'hotel in cui ci troviamo. "Ragazzi latini che mi sembravano soli. Sono andato lì, gli ho chiesto come stavano, mi sono fatto raccontare un po' di loro, di cosa ascoltano, di come vanno le cose qua. Posso diventare famosissimo, ma per me resterà sempre fondamentale mantenere un rapporto umano, toccare fisicamente le persone, parlare."

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Fotografia promozionale, credit: Rando

Chiedo ad A.Chal, quindi, come fa a mantenere l'equilibrio tra ambizione e umanità nei suoi pezzi. D'altro canto, questa persona che mi parla con gioia di comunità è la stessa che su disco sembra concentrata quasi solo su sé stessa, si tratti di affinare il suo rap o conquistare una donna. Lui mi risponde citando "Maradona", il pezzo che apre il suo esordio, manifesto di questa voglia di prendersi tutto: "Proprio come me, anche Diego era un ragazzo latino che ha fatto tutto quello che poteva per affermarsi come il migliore nel suo campo. Sto cercando di fare un po' la stessa cosa: fare il grosso su disco, restare umano nella vita reale. Lui era l'idolo di mio padre, e quindi anche il mio. È una persona che ha superato confini".

Tra i nomi che hanno messo la loro firma su EXOTIGAZ c'è anche quello di Rvssian, che dalle nostre parti conosciamo bene per essere stato il cavallo di Troia con cui Sfera Ebbasta ha iniziato a mettere il suo nome nel mercato della latin trap prima e della scena statunitense poi. A.Chal riconosce di essere fortunato ad aver lavorato con lui ("Quel beat, quella chitarra, è un dono di Dio") ma ha un rapporto abbastanza "conflittuale" con i significanti tipici del mondo musicale che evoca: il sesso, le donne, l'alcool.

"Ho pochi ricordi di quando ero piccolo, ma uno è il tetto della casa dove vivevamo in Perù. Per un paio d'anni avevo la paglia a coprirmi", spiega A.Chal, "e da quando ci siamo trasferiti negli Stati Uniti tutto ha cominciato a cambiare. Non sono mai stato davvero male, ma trasferendomi a Los Angeles ho cominciato a conoscere il culto del denaro. C'è gente che vive solo per quello, e anche se ormai ci sono dentro fino al collo devo ancora un po' capire come fare a sopravvivere." Nel frattempo, però, quel mondo notturno ed esclusivo lo canta più che bene. Ora l'obiettivo è riuscire a mettere anche in musica le belle sfumature emotive che trasmette di persona.

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Possiamo ancora definire Tyler, The Creator "un rapper”?

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Tyler, The Creator è sempre stato un personaggio atipico all’interno della scena rap statunitense, lo abbiamo capito tutti da subito, dalla prima volta che abbiamo guardato il video di “Yonkers” in cui divora un insetto gigante e poi si impicca davanti alla telecamera, ed è proprio per questo motivo che è anche un personaggio fondamentale per la sopravvivenza di un rap anticonvenzionale e estraneo ai canoni del momento. La genialità di questo artista ha però attraversato diverse fasi molto eterogenee e vale la pena ricordarsele per capire il punto in cui si trova adesso con l’uscita del suo sesto album IGOR (che per la cronaca si pronuncia igor all’italiana e non aigor come in Frankenstein Junior).

Tutto è iniziato nel biennio 2008-2009, anni in cui usciva il primo mixtape del collettivo Odd Future e il primo lavoro solista di Tyler, Bastard; per la prima volta ci si è trovati davanti a questa accozzaglia di rapper, produttori e skater, che apparentemente avevano poco in comune ma che presi tutti insieme scatenavano una forza sovversiva che ha pochi precedenti nella storia di questo genere. Tutti sembravano essere dei veri nerd della musica, con dei riferimenti chiari, delle amicizie giuste all’interno della scena underground di Los Angeles e con un talento genuino; ma la cosa che più li accomunava era l’essere costantemente sopra le righe in una maniera così aggressiva da rischiare di attirare “una comumità di incel”, come ha sostenuto uno dei suoi ex-membri più importanti, Earl Sweatshirt, in una recente intervista.

Così in poco tempo è diventata la prassi che tantissimi teenager bianchi canticchiassero frasi tipo “kill people, burn shit, fuck school” o “the thought to rape you really turns me on”. Per fortuna però questo aspetto della musica di Odd Future si è rivelata presto essere una scelta di facciata, volta soprattutto a far parlare di sé il più velocemente possibile. Nonostante la rabbia fosse la benzina che alimentava la crew (tra stage-diving kamikaze e pogo spezza-ossa i concerti del collettivo avevano poco da invidiare ai live di molte band hardcore) è sempre stato presente anche un enorme layer di ironia, che si rispecchiava nella scelta di far rappare anche membri come Jasper e Taco che avevano ben poco a che fare con la musica. In generale la qualità delle produzioni e il talento dei singoli componenti sono sopravvissuti alle conseguenze di quella fase punk: oltre a Tyler, godono ancora di ampio successo i membri di The Internet, Frank Ocean ed Earl Sweatshirt, mentre Left Brain, Domo Genesis, Hodgy Beats e Mike G sono rimasti più legati alla scena locale californiana.

odd future
La Odd Future al gran completo, fotografia via i-D

Con il passare degli anni quasi tutti i componenti di Odd Future hanno preso le distanze dal progetto corale imboccando spesso strade più tradizionali, e lo stesso è stato per il suo leader. Di Odd Future Wolf Gang Kill Them All è rimasto solo “Golf” e Tyler è stato furbo a riconvertirlo in un brand di streetwear che non ha più nessun collegamento col passato. Per un periodo è sembrato addirittura che si fosse stancato di ciò che stava facendo, in diverse occasioni ha dichiarato di voler smettere di rappare per dedicarsi solo ai beat o alla regia di video e in moltissimi casi è sembrato che le sue iniziative imprenditoriali stessero lentamente prendendo il sopravvento (oltre a Golf, Tyler ha provato a creare una sua piattaforma mediatica, una radio, qualche programma televisivo e persino un cartone animato); ma alla fine questa rottura con la musica non è mai arrivata.

A livello stilistico i primi cambiamenti si avvertono già dopo i primi due album Bastard e Goblin: già in Wolf i torni si erano in parte placati e Tyler sembrava intenzionato a fare dell’introspezione più ragionata e meno violenta. Cherry Bomb, forse il disco in cui Tyler ha messo meno energie (si tratta di un album stilisticamente confuso e mixato oggettivamente molto male) è il momento di transizione che porta alla sua vera rivoluzione artistica: Flower Boy. Innanzitutto è il primo disco in cui Tyler riesce a portare finalmente a compimento un’idea che aveva da tempo, ovvero quella di allontanarsi parzialmente dal rap nonostante i suoi limiti vocali, e ci è riuscito circondandosi di artisti di spessore come Toro Y Moi e Steve Lacy e di belle voci come quella di Kali Uchis e Anna Of The North, che intervengono per rendere credibile un disco neo-soul fatto da uno che fino a pochi anni prima urlava frasi misogine a petto nudo.

La scelta di rendere più melodica e ricercata la sua musica va inoltre di pari passo con quella di parlare più approfonditamente dei suoi sentimenti. Flower Boy non a caso coincide con l’implicito/esplicito coming out di Tyler, che scioccando tutti in “I Ain’t Got Time” dichiara che “è dal 2004 che bacia ragazzi bianchi”. Nonostante la morbosità con cui molti media si sono concentrati su questo argomento ignorando totalmente il resto del disco non ha impedito all’artista di costruirsi una nuova immagine, quella di un musicista-imprenditore-fashion designer non più arrabbiato con il mondo, ma che in modo quasi infantile vuole costruire un mondo esteticamente perfetto insieme ai migliori artisti che incontra sulla sua strada.

tyler the creator igor cover
La copertina di IGOR, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Restando in tema collaborazioni, gli ospiti di IGOR (anche questa volta più o meno relegati al ruolo di coristi) ci aiutano a capire che fase artistica ha attraversato Tyler mentre realizzava questo disco annunciato a sorpresa solo un paio di settimane fa. Nei vari brani, con l’aiuto di Genius, possiamo incontrare in ordine sparso: King Krule, Solange, Slowthai, Kanye West, Santigold, il cantante dei Mild High Club, Jack White, Pharrell Williams, Kali Uchis, Lil Uzi Vert, Playboi Carti, Al Green, CeeLo Green, Frank Ocean e A$AP Rocky. Nonostante questo invidiabile roster è lo stesso Tyler ad aver scritto, prodotto e arrangiato tutte le tracce del disco, dimostrando che la sua crescita come produttore si è tutt’altro che interrotta.

Dopo i primi due brani svanisce anche la preoccupazione che, nonostante il suo talento, l’artista sia schiavo dell’immaginario (sonoro e concettuale) che si è recentemente costruito, limitandosi ad un mondo fittizio e bidimensionale un po’ come in un film di Wes Anderson (per citare una delle sue dichiarate ispirazioni). IGOR è in realtà pieno di colpi di scena, cambi di beat improvvisi e scelte stilistiche che finora non facevano parte del suo repertorio, e il pensiero è che la definizione di "rapper" comincii a stare stretta al nostro Tyler. I brani in cui si avverte di più questa svolta sono la danzereccia “I THINK”, “RUNNING OUT OF TIME” con i suoi synth spaziali, la distortissima ma in qualche modo orecchiabile “NEW MAGIC WAND”, il bellissimo singolo soul “A BOY IS A GUN” e “GONE GONE”, che inizia con una chitarra acustica e ha un ritornello che sembra cantato dai Jackson 5.

I testi dei brani sono coerenti sia con le rispettive atmosfere musicali che con le storie che Tyler ha raccontato nei suoi ultimi lavori, anche se questa volta molto spesso vengono snaturati dal pitch alto della voce (altro elemento di rottura con la voce bassa e distorta degli esordi). Il tema più ricorrente del disco è l’amore non corrisposto—di un ragazzo eterosessuale che Tyler sostiene stia mentendo a sé stesso, pare. La cosa non è esplicitata ma suggerita: un riferimento a Call Me By Your Name qua, un "togliti la maschera, lei deve andarsene" là, e l'esistenza di Flower Boy fa il resto.

Disseminate in alcuni brani ci sono diverse reazioni dell’artista a questo rifiuto. “Togliti la maschera / voglio lei fuori dal quadro / togliti la maschera / smetti di mentire per questi n***i / smetti di mentire a te stesso / conosco il vero te”, recita ossessivamente la seconda strofa di “RUNNING OUT OF TIME”. In “NEW MAGIC WAND” arriva addirittura a minacciare di fare fuori entrambi se lui non prende una decisione: “La tua metà evapora, festeggiamo / sei sotto giuramento, ora scegli da che parte stare e se non scegli vi prenderò entrambi”. “PUPPET” è invece un inno alla sottomissione, in cui Tyler continua a ripete di essere il suo pupazzo e di essere sotto il suo controllo. Dopo aver affrontato l’argomento anche in senso metaforico durante “GONE GONE” (“Hai iniziato a costruire un ponte e lo hai trasformato in un recinto / poi il mio edificio è stato demolito per colpa della tua nuova inquilina”) nel brano di chiusura l’artista continua a domandare rassegnato se i due potranno almeno rimanere amici.

Non è chiaro che tipo di percorso abbia attraversato Tyler, The Creator per passare dall’essere accusato continuamente di omofobia per i suoi primi testi all’essere un esempio di come parlare di amore omosessuale su un disco che parte dal rap e sembra lasciarselo dietro, ma ovviamente la cosa non ci riguarda. Merita attenzione però la maniera senza filtri con cui racconta fatti presumibilmente estratti dalla sua vita privata senza preoccuparsi dei tabù e del giudizio di una scena che ancora sembra avere molti problemi con il machismo e l’intolleranza. Probabilmente il segreto risiede proprio nell’infantilità di un artista che banalmente ha iniziato a chiamare le cose con il loro nome e ha iniziato a lavorare su sé stesso partendo dal proprio concetto di amore. Questo rischia di allontanare alcuni fan puristi del “vecchio” Tyler? Probabilmente sì, ma finché la sua musica suona come quella di IGOR sono decisamente loro a rimetterci.

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Le Feste Antonacci hanno il nome più bello d'Italia (e di Francia)

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Mi sono alzata presto una mattina, diversa. Come tutti i giorni mi sveglio e, mentre faccio la doccia, accendo Radio Nova. È una radio francese—come me—nota per essere un po' fuori dagli schemi e dove puoi ascoltare ogni tanto qualche chicca che ti svolta la giornata. Ed è proprio quello che mi è successo quella mattina.

Mentre cercavo di non sboccare i gin tonic che avevo bevuto la sera prima parte un pezzo un po’ pazzo, un po’ retro e anche po’ fresco, con un testo… in italiano! Non saprei spiegarvi bene il perché, ma mentre l'ascolto gioisco tantissimo. Capitemi, ma sulla radio francese non ci sono molte occasioni di ascoltare musica italiana, a parte quando parte quella voce da Nutella che si trova Eros Ramazzotti e gli strilli di Laura Pausini.

Quella mattina era una di ottobre dell'anno scorso, e avevo appena ascoltato "Diverso" delle Feste Antonacci. Curiosa di capire chi c'era dietro questo progetto avevo cominciato a cercare informazioni su internet ma avevo trovato ben poco, a parte un fantastico video che mi ha conquistata per sempre (e potete vedere qua sotto) e un EP intitolato Grandi Successi.

Io però non mi davo pace: chi c'era dietro alle Feste Antonacci? Erano davvero italiani? O era un gruppo francese nostalgico dell'italodisco alla Pino D’Angiò? Ma, soprattutto, qualcuno li conosceva in Italia? Magari vivevano qua a Milano. Chiedendo a colleghi e amici italiani, nessuno li aveva mai sentiti. Il mistero si infittiva.

Un giorno, però, vedo un annuncio sulla loro pagina Facebook: “Saremo a Milano dal 30 al 2 febbraio. Chiunque voglia incontrarci è il benvenuto”. Qualche settimana dopo ero seduta a un tavolo insieme a Giacomo e Leonardo e i loro rispettivi bicchieri di grappino e Coca-Cola. Finalmente ero riuscita a mettere un volto su questo progetto musicale di due italiani espatriati a Parigi.

Noisey: Da dove venite? Cosa facevate prima di vivere la vita mondana parigina?
Leonardo: Io sono di Siena e vivo Prima stavo a Firenze e facevo jazz. Poi ho avuto un problema alla mano e quattro anni fa sono andato a Parigi a studiare con un maestro di composizione. Una volta superati i miei problemi fisici ho ripreso il piano che suonavo da bambino.
Giacomo: Io sono Genovese e sono a Parigi da più di dieci anni. Ci sono andato per fare una scuola da ingegnere del suono ma non l'ho mai finita perché ho iniziato uno stage a Radio Nova. Sono andato ad una loro festa e, essendo un ragazzo zelante, sono andato a parlare con il loro storico ex-direttore, Marc H’Limi. Gli ho detto “Zio, devo fare uno stage in questa radio" e insomma, mi hanno preso.

le feste antonacci
Le Feste Antonacci mentre girano il video di "Vacanze Romane", foto per cortesia degli artisti

E io vi ho sentiti per la prima volta proprio su Radio Nova. Com'è la situazione lì?
Giacomo: Conta che tutto questo è successo un po’ di anni fa, prima che la radio fosse venduta a Canal+. Prima era proprio chi ci lavorava che scopriva le cose, H’Limi era un personaggio incredibile e aveva carta bianca dall’ex-proprietario. Ora le cose sono un po’ calate, forse perché si è ristretto il mercato musicale in generale. Oggi Nova è una radio privata che però almeno rifiuta i deal con le case discografiche per passare i pezzi. Però lo spirito di scoperta c’è ancora, altrimenti non avrebbero mai passato in onda “Diverso”.

Quindi oltre alle Feste Antonacci, lavorate nel mercato musicale?
Giacomo: Sì, scriviamo musiche per pubblicità e colonne sonore. Di recente, abbiamo fatto la colonna sonora di una serie televisiva pre adolescenziale per Disney Channel per esempio. Non ne siamo molto orgogliosi... Ma prima di viverci ci ho messo 3 anni di lenticchie e pedalate.
Leonardo: È un mercato molto prolifico perché ormai si produce materiale foto e video per qualsiasi cosa. Però è difficile entrarci.

Come siete arrivati a conoscervi ed iniziare un progetto insieme?
Leonardo: Ci siamo conosciuti a un matrimonio di un amico comune, qua in Italia. Il fatto è che abbiamo questa coglionaggine che ci unisce, vogliamo entrambi scrivere in italiano e ce la caviamo entrambi bene come musicista. Quindi c’è subito stata un’intesa. Però ci facciamo autoanalisi terribili, è come in una relazione. Siamo persone che riflettono molto e hanno idee molto precise, ma è chiaro il beneficio che questo porta.
Giacomo: La seconda volta che ci siamo visti, Leonardo è arrivato con un giro di pianoforte. L’ha suonata e a un certo punto mi ha detto “Mi sono alzato presto questa mattina, diverso”, e da lì è nata "Diverso". E poi tutto il resto.

le feste antonacci diverso
La pancia che Le Feste Antonacci volevano usare come loro immagine profilo, tratta dal video di "Diverso".

Come vi è venuto in mente il nome Le Feste Antonacci?
Leonardo: Guardando i video di Biagio, che di solito mostrano una situazione di festa. C’è sempre solo Biagio insieme a delle donne. Abbiamo iniziato a pensare ad alcune melodie chiedendoci, ma questo groove secondo te passerebbe a una festa di Biagio Antonacci? E questo? Allora elaboriamo.

E come mi sono ritrovata a sentirvi su radio Nova una fredda mattina di ottobre?
Giacomo: Abbiamo mandato la prima mail a Radio Nova a giugno 2018 e non ci hanno risposto. Ma non abbiamo mollato e ad ottobre hanno passato il pezzo in radio. Da lì abbiamo avuto un picco di views su YouTube, è questo che ci ha lanciato. Poi un canale musicale, Délicieuse Musique, ha pubblicato "Mi Piace lo Sport". E da lì è stata un’escalation.

L’EP era già pronto?
Giacomo: Sì. Abbiamo iniziato il progetto a giugno 2017. I pezzi che sono usciti li abbiamo finiti un anno e mezzo fa e sono tutti stati registrati in una cantina di 6 metri quadrati a Porte de Clignancourt.

Come ha reagito il pubblico francese? Erano tutti esaltati come me?
Leonardo: Molto meglio di quello che ci aspettassimo. Quando è uscito il pezzo avevamo un po’ perso le speranze, ci sentivamo abbandonati a noi stessi. E invece è stata una bella sorpresa. Alla Francia piace l’esotismo.

Invece chi è l'uomo del video di "Diverso"?
Giacomo: È un mio amico, il concetto del video nasce da lui. Ero andato ad una festa di Halloween a cui lui era venuto vestito da meccanico. Inoltre, è un grande appassionato di parrucche. Ho passato la serata a guardarlo e ridere dicendomi che dovevo fare qualcosa con questo personaggio, che aveva una forza comica incredibile. Tra l’altro, all’inizio ci piaceva tenere una certa riservatezza, e pensavamo di usarlo come il volto delle Feste Antonacci. Poi in realtà era una cosa troppo elaborata e difficile da portare avanti.
Leonardo: Evolvendoci diventava un freno, perché si scontrava con l’energia che emergeva dai nostri brani e dalla nostra sinergia musicale. Quando il volto vuole manifestarsi deve essere libero di farlo.

I video sono una parte importante e integrante del vostro lavoro, mi sembra di capire. Oltre a Diverso è uscito anche quello di "Vacanze Romane", cover dei Matia Bazar. Come avete fatto a girare questa pazzia?
Leonardo: L’abbiamo girato in un giorno con un nostro amico che faceva l’operatore. L’idea era che due gladiatori romani, data la saturazione del mercato nella loro città, decidessero di andare a Parigi per trovare lavoro. Quindi abbiamo noleggiato dei costumi, che tra l'altro sono stati utilizzati per il film di Asterix, e siamo andati in giro per Parigi nei posti turistici. La gente si incazzava quando dicevamo no alle richieste di foto perché pensava che fossimo gente pagata dal Comune per fare animazione.

Avete già fatto dei live in Francia?
Leonardo: Abbiamo debuttato in un kebab per il collettivo Sauce Blanche. Qualche settimana più tardi abbiamo fatto il nostro vero esordio come una band a questo festival electro di Nantes, il Paco Tyson. Evento che ha ufficialmente visto la nascita de Le Feste Antonacci Expérience, da pronunciarsi rigorosamente alla francese, il nostro alter ego live con band che francamente ci entusiasma.

Io vi conosco perché in Francia ormai siete un nome che sta girando, ma ai miei amici milanesi ho dovuto introdurvi io. Ora state facendo i primi passaggi: Radio Raheem, Carlo Pastore, suonerete al MI AMI... com'è successo?
Giacomo: Giorgio Valletta ha sentito "Mi piace lo sport" e l'ha passata su Radio Raheem. Poi ci ha contattato Carlo Pastore per passare il pezzo durante Babylon su Radio 2. E durante il nostro passaggio a Milano, durante il quale abbiamo fatto un mini live a Radio Raheem, siamo andati al concerto di Auroro Borealo, uno dei primi in assoluto ad averci contattato in realtà, e abbiamo salutato Carlo Pastore che ci ha parlato dell’eventualità di suonare alla prossima edizione del MI AMI. Ovviamente ci siamo subito gasati accettando a qualunque condizione.
Leonardo: Inizialmente il piano machiavellico era cercare di avere visibilità in Francia per poterci legittimare in Italia. Capita spesso che se un progetto viene accettato all’estero poi funziona subito anche da noi. È ancora presto, però si percepisce una buona energia comunque. E Milano sembra anche il posto giusto dove essere.

Le Feste Antonacci mentre girano il video di
Le Feste Antonacci mentre girano il video di "Vacanze Romane", foto per cortesia degli artisti

Qual è il vostro rapporto con la musica italiana in generale? Qua va tantissimo la trap da un paio di anni.
Leonardo: Seguiamo veramente poco la musica italiana. Gli unici che ci vengono in mente in questo periodo sono i Nu Guinea, che spaccano i culi. Non siamo grandi fan della trap. Anche in Francia va tantissimo, comunque. Ogni quartiere di Parigi ha il suo rappresentante. Il problema di questo genere è che ha come target i giovanissimi e mette sul tavolo misoginia, soldi, apparenza. Il rap di denuncia sociale non esiste più.
Giacomo: Però facendo musica per la pubblicità di trap ho dovuto farne parecchia, e devo dire che per trovare l'ispirazione ho dovuto aumentare il mio consumo d'erba.

Qualche artisti francesi che consigliate per le orecchie?
Giacomo: Jacques Brel, anche se è belga. Serge Gainsbourg, l’album Mélodie Nelson. C'era questo gruppo che si sentiva un po’ di tempo fa, i FAUVE. E Pablo Padovani, che faceva il turnista e ha suonato come chitarrista con i Tame Impala, e ora ha deciso di fare questo progetto che si chiama Moodoïd. La differenza tra la Francia e l’Italia è che in Francia c’è una via di mezzo tra l’underground e il mainstream. Cosa che in realtà adesso sta cominciando anche in Italia, nonostante il processo che stava portando l'indie a essere questa cosa qua si è un po' corrotto.
Leonardo: Questi trentenni che hanno nostalgia del Maxibon a me fanno proprio incazzare. Come la nostalgia dei mondiali del 2006.

Per il futuro, che avete in mente?
Giacomo: Per ora vogliamo lasciar tempo ai quattro pezzi dell’EP di vivere.
Leonardo: La cosa più surreale sarebbe suonare a un concerto di Biagio. Oppure farci invitare a suonare a una sua festa. Così ce l'avremmo fatta.

Le Feste Antonacci suoneranno al MI AMI di Milano sabato 25 maggio.

Gabrielle sarà sotto palco al MI AMI a difendere le Feste dai rapper che avranno letto l'intervista, ed è anche su Instagram.

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Tutta la verità su Don Joe

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Incontriamo Don Joe, al secolo Luigi Florio, negli studi di Dogozilla, la sua creatura che lo impegna a tempo pieno tra produzioni e etichetta dopo la pausa a tempo indeterminato dei Club Dogo. È l’occasione per ripercorrere tutta la sua carriera, e in qualche modo anche la sua vita: una delle storie più importanti nell’hip-hop italiano degli ultimi decenni.

Dagli esordi pionieristici al grande successo dei Dogo, fino alla recentissima “F.A.K.E.”, quello di Don Joe è stato un percorso caratterizzato da mille collaborazioni, una grande attenzione per “la musica che gira intorno” e uno sconfinato amore per quello che fa, che ci ha portato nel corso della conversazione a inoltrarci anche in territori pericolosamente nerd. Ma cominciamo dall’inizio.

Noisey: Tu sei nato a Milano ma sei cresciuto a Bresso, giusto?
Don Joe: Sì, proprio la provincia. La provincia prossima, perché è quella della cerchia dei primi paesi intorno a Milano. Con una mezz'oretta si arrivava in centro.

Avevi un po' il mito di Milano?
Assolutamente. Bresso ha una vita sua fatta di piazze e compagnie, ma nel weekend con i motorini ci trasferivamo a Milano dato che non c'era granché come discoteche o locali, e nulla come luoghi di aggregazione per l'hip-hop. Già non era facile trovare quel mondo a Milano, figurati fuori. Frequentavamo una piazza di Bresso dove c'erano dei portici e facevamo tutto lì: freestyle, sentire musica... però per i cazzi nostri, con i miei amici, non è che ci fosse una scena.

Come hai scoperto l’hip-hop?
Grazie a mio fratello, che è più grande di me. A fine anni Ottanta, quando hanno cominciato a arrivare le prime cose electro, vendevano una collana di cassette in edicola con il meglio dell'electro, e lui i primi brani li sentiva da lì. Li comprava per ballare la breakdance, c'erano i tutorial... fa un po' ridere raccontato adesso, ma non è che ci fossero molte alternative ai tempi. Il primo album che mi ha sconvolto completamente è stato quello dei Beastie Boys, quello con l'aereo in copertina [Licensed To Ill, nda]. E anche quello arrivava da mio fratello. Io poi della musica ho fatto un lavoro, mentre lui ha seguito un'altra sua grande passione, ed è diventato cuoco.

Quindi hai conosciuto l'hip-hop a 360 gradi a partire da una piazza di Bresso.
Avevamo creato un gruppo che si chiamava La Casa Nostra, ed era fatto da amici della compagnia e qualcun altro che arrivava da fuori. Io ero producer, da subito, e facevo anche il rap. Ho mantenuto per un po' questa doppia veste. Ma in realtà in qualche modo non ho mai smesso di entrare anche nelle produzioni con i ritornelli, anche con i Dogo, però in linea di massima ho scelto di fare il produttore: mi è sempre piaciuto fare musica, creare le basi.

Eravamo in quattro all'inizio, poi con il tempo la cosa si è un po' persa, anche perché io a un certo punto mi sono trasferito a Milano e ho cominciato a frequentare i luoghi culto come il Muretto, o i centri sociali dove la musica si stava evolvendo. Lì ho conosciuto tutti i vari personaggi che gravitavano intorno al mondo dell'hip hop a Milano, compresi Jake, Gué e Vincenzo da via Anfossi. E già nelle Sacre Scuole in qualche modo collaboravamo: non era un mio progetto ma ci sono comunque due episodi di produzioni mie.

La Casa Nostra era un gruppo, mi dicevi. Pensando alla tua carriera in generale hai sempre amato circondarti di altre persone. Penso a alcuni producer che invece si limitano a mandare la base a questo, la base a quello, e fanno tutto per conto loro. Nella tua carriera ci sono stati poi i Dogo e la Dogo Gang, e anche in seguito un disco insieme a Shablo (Thori & Rocce, 2011), uno solista con tanti ospiti (Ora o mai più, 2015), e ora Dogozilla.
Nonostante sia un produttore che lavora molto da solo sulla creazione dell'idea, poi mi piace lavorare in un gruppo. Lavorare con altri ti aiuta a superare dei limiti personali. All'inizio magari era meno frequente, mentre ora lavoro proprio quasi completamente con i ragazzi che stanno con me. Siamo una decina di produttori, ci sono tante teste, e si può fare qualcosa di molto diverso da quello che può fare un singolo. Quando all'inizio inizio facevo parte del team di produzione di Irene Lamedica, ed era lo stesso periodo di Sacre Scuole, eravamo quattro produttori: Robi Baldi che faceva la musica pop, Steve Dub che faceva reggae da DJ, dancehall e R&B, e poi Stefano Fontana che faceva elettronica, house. Il mio lavoro è sempre stato circondato da altri, come stare sempre in una factory, con altre persone che portano qualcosa. Ma per me è anche una delle fondamenta dell'hip-hop in genere: ognuno porta una vibra. Che sia musicale, o un'idea sul testo o qualcos'altro.

Mi dicevi che la folgorazione è arrivata con i Beastie Boys. Quali sono stati gli altri primi amori che ti hanno fatto capire che magari questa cosa della musica avrebbe avuto una parte consistente nella tua vita?
I grandi gruppi di quel periodo come Run-DMC o i Public Enemy. Sono stato per un gran periodo estimatore della West Coast: Eazy-E, N.W.A., i primi dischi di Tupac, poi Snoop... Dr. Dre è uno dei miei produttori preferiti, da cui ho preso tantissimi spunti. Anche l'idea di produttore che ho in testa, come icona, è proprio la sua. Poi un po' più tardi sono arrivato a New York, con B.I.G., la Bad Boy, Pete Rock, Premier, Diamond D: tutti quelli che facevano classic, con campionamenti a manetta. Ma la mia scuola è sempre rimasta quella: la west coast dove si campionava poco e semmai si rifacevano i brani con i musicisti. Non sono mai stato tanto un produttore da campione e breakbeat, ho sempre cercato di metterci altro, il synth per esempio, e così di farlo mio. È così che nasce il suono dei Dogo.

club dogo mi fist
La copertina di Mi Fist dei Club Dogo, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Il lavoro con Irene Lamedica quando è cominciato?
Presto, quattro o cinque anni prima di Milano. Avrò avuto 19 anni. Le Sacre Scuole li ho conosciuti bene proprio lì in studio da Irene. Prima magari ci conoscevamo di vista, ci vedevamo agli stessi concerti, ci salutavamo ma finiva lì. Poi loro vennero in studio con Caneda e Chief, che era il loro manager all'inizio, e iniziammo a fare delle cose insieme. Guè e Jake sentirono le produzioni che stavo facendo e mi chiesero di fare delle cose insieme, dato che le Sacre stavano finendo con la separazione da Dargen. A un certo punto qualcuno ha detto che poteva essere proprio un gruppo, non mi ricordo neanche di chi è stata l'idea. Abbiamo deciso di cominciare a mettere giù dei brani. Mi Fist è proprio un assemblaggio di quelle cose lì, non è neanche stato un lavoro del tipo "adesso dobbiamo fare un album".

Tu prima però eri molto incentrato sul fare il rap. Mi ricordo il periodo in cui ti chiamavi Donjoevanni, anche il pezzo sulla compilation di DJ Enzo, Tutti x Uno.
Quello di Irene era anche quel momento lì. Infatti “Quello per cui vivo”, che è il pezzo che sta in quella compilation, era proprio fatto con lei. All'epoca stavo anche lavorando proprio a un disco, solo che la situazione era un po' confusa. Irene e compagnia bella erano firmati con SoleLuna, l'etichetta di Jovanotti, e nello stesso tempo cercavano artisti da produrre. Io già lavoravo lì come assistente di studio e produttore e loro cercavano artisti da spingere. E c'ero io, c'era un ragazzo che faceva R&B, c'erano dei progetti, una bella crew. Quello con Irene però era un lavoro molto intenso da fare: le produzioni erano sessioni su sessioni, un sacco di musicisti. Mi portava via tantissimo tempo, e quindi le cose che scrivevo e registravo alla fine erano poche. C'erano cinque o sei pezzi, che tra l'altro sono rimasti là nell'hard disk del Ti Tratto Meglio Studio, chissà che fine hanno fatto. C'era l'idea di uscire ma poi dopo quel periodo, che è durato cinque o sei anni, a un certo punto mi sono staccato e ho preso uno studio insieme a Danti. Loro cominciavano a fare le loro cose come Two Fingerz, e io mi sono messo a fare Mi Fist.

Le Sacre Scuole le hai viste da vicino ma senza farne parte.
Sì, perché ero proprio assistente di studio lì dove registrarono. Mi ricordo che arrivò Caneda con questo MPC e io feci il lavoro di trasferire tutti i file nel Mac e iniziammo a lavorare, però non ero coinvolto se non per quello. Poi lavorandoci venne fuori questa strumentale con il campione di Saturnino, a loro piacque, e tirarono in mezzo me come produzione e Irene come featuring. Da lì è iniziata, e fondamentalmente non ci siamo mai lasciati. Ed è stato tutto liscio finché è durata [sorride, nda].

Su Mi Fist la produzione era ancora abbastanza classica. C'erano molti campioni: Premier, Pete Rock.
Sì, era il mio periodo New York. Che ha preso il sopravvento, perché da lì in poi ho fatto solo quella roba: campionamenti, batterie. C'era già l'uso della batteria programmata, non era solo breakbeat e campione, c'era già l'idea di produrre in un certo modo, che è diventata poi la produzione più odierna. Nel periodo delle posse non c'era ancora questa cosa di frazionare il campionamento, io da lì iniziai a usare questa tecnica e feci i primi beat che poi andarono a finire in Mi Fist.

All'epoca come vi percepivate? Immagino che non vi aspettaste le dimensioni che poi i Dogo hanno raggiunto, però l'idea era di fare qualcosa di serio o era ancora molto un divertimento?
Era molto divertimento. Era anche un periodo difficile per il rap in Italia, era sparito tutto. Quelli grossi cambiavano genere, alcune cose andavano a spegnersi. Noi arrivavamo da esperienze da mixtape, super underground, e spingevamo per fare delle cose iper cazzute. Mi Fist non è nato come progetto per fare un disco di un certo tipo. Ci piaceva il reggae, ci piaceva la dancehall, ci piaceva il rap tradizionale... Abbiamo messo insieme tutto, facendo dei brani un po' per volta, con l'idea di fare delle serate, di andare in giro e farci sentire.

Tutta la faccenda all'inizio era legata a centri sociali, a un mondo underground. Non aspiravamo a andare a suonare nei club, nelle discoteche, mentre i gruppi grossi già lo avevano fatto. Finché non è arrivata la major non ci si aspettava nulla del genere. Un giorno però siamo andati a fare una serata in un centro sociale fuori Milano, siamo andati lì con i nostri amici e nel backstage ci dicono che il posto è pieno, che stanno lasciando la gente fuori. Noi non ci credevamo. Ci siamo affacciati e in effetti c'erano tipo seicento persone, che per noi all'epoca era come se fossero diecimila. Arrivavamo da serate dove se c'erano cento persone era andata molto bene. Da lì abbiamo capito che stava succedendo qualcosa.

Di Dogo Gang si può cominciare a parlare dopo Mi Fist?
Sì, tra Mi Fist e Penna Capitale. Durante la lavorazione di Penna Capitale abbiamo cominciato a allargare la crew e creare questo brand, con gente che faceva musica ma anche non necessariamente. Avevamo il mito del Wu-Tang Clan, quel tipo di gruppone allargato. Volevamo rappresentare un suono e Milano. Eravamo tutti amici, non era come adesso che fai scouting. A volte aiutavi anche amici che non avevano mai pensato di fare rap a provarci.

C'è stato anche un mitico pezzo in cui ha rappato Emi.
Sì, "Italia 90". Un'esperienza incredibile, con Emi che non andava a tempo. Ci siamo divertiti un sacco.

Dopo Mi Fist quindi tanta gente ai live, come primo segnale.
Sì, e l'attenzione di tante realtà come all'epoca poteva essere Vibra Records, etichette indipendenti che funzionavano in quel momento. Avevamo un nostro amico come manager, Tave di Area di Contagio. Lo avevamo tirato in mezzo finché non è arrivata la proposta da Vibra, però all'epoca era ancora una via di mezzo tra un hobby e una cosa più impegnativa. Io all'epoca lavoravo ancora, in Stazione Centrale, in un negozio tipo mini market, poi ho cominciato a lavorare all'IKEA. All'epoca lavoravamo tutti, e conta che Mi Fist l'abbiamo fatto tutto a mano, da portare a stamparlo fino a distribuirlo, dando i CD alla gente alle serate, andando in posta.

Staccarmi dall'avere uno stipendio e pensare "adesso mi metto a vivere di produzione" non era un'idea molto percorribile all’epoca. Adesso sì, il ragazzo di vent'anni può pensare che sia una cosa possibile, quantomeno hai degli esempi. All'epoca praticamente non c'erano dei precedenti. Mentre abbiamo cominciato a lavorare con Vibra io ho cambiato lavoro e ho cominciato a gestire un negozio in via Anfossi, Move Out, insieme a Supa di Sano Business. Era sempre un lavoro in un negozio ma era comunque nella musica, in un certo ambiente al cento per cento. Era anche un bel polo quella zona all'epoca, perché c'era la serata fortissima al Rolling Stone con Max Brigante, Five Stars, ed era tutto lì nel giro di tre vie: io smettevo di lavorare e andavo in discoteca, andavo poi a lavorare e di nuovo in discoteca, a casa ci andavo solo a dormire. Era un periodo un po' confuso [ride, nda].

All'epoca c'era ancora un forte elemento di cazzeggio e di divertimento, no? All'inizio uno può fare il concerto ubriaco, mentre poi quando c'è gente che investe su di te è tutto più delicato.
Sì, diciamo però che la major, che è entrata tra Penna Capitale e Vile Denaro, comunque ha preso il gruppo per quello che era. Non hanno mai messo il becco nelle produzioni o nei pezzi, volevano il gruppo com'era: anche sfasciato, come eravamo noi. Clubber ma anche di strada.

Sono stati anche loro a venirvi a cercare, non a prendere dei ragazzi e farli diventare famosi. Voi eravate già diventati famosi grazie a YouTube, alla gente che vi ascoltava indipendentemente da qualsiasi mercato.
La nostra fan base iniziale era la strada, e facevamo un sacco di serate. Allo sbando proprio. Una volta siamo andati a Lecce con la mia Ypsilon 10 e siamo tornati in nottata. Andavamo dove ci chiamavano, senza hotel, a mangiare negli squat. Guidavamo sempre io o Enzo, colpi di sonno, cose impossibili. È un miracolo se siamo ancora vivi. Vibra Records ti gestiva soprattutto editorialmente. All’epoca con loro ho fatto un disco di Grand Agent [Regular, 2005, nda], ed è stato il primo episodio da producer fuori dal gruppo. Per me lavorare con uno come lui era quasi essere arrivato, anche se in realtà non è che abbia poi fatto molto: già andava poco l'hip hop italiano puoi immaginare quello americano... È un bel disco di culto che è rimasto là. Intanto però ho iniziato a vedere che stava succedendo qualcosa.

E i Dogo crescevano, ci hanno cercato le major e abbiamo fatto quella scelta a posteriori un po' sbagliata, perché non sapevamo niente. Siamo andati su EMI, che nel giro di un anno è finita, e dopo sei mesi si stava già sfasciando tutto mentre avrebbero dovuto essere nel pieno del lavoro sul disco. Ci avevano messo i soldi ma loro stessi non è che avessero grandi aspettative, era un esperimento. Non c'era un vero mercato: nessuno sperava di fare trentamila copie, un disco d'oro. Noi poi eravamo degli ignoranti, ci impressionava già il fatto di andare in un posto dove c'erano degli uffici. Solo che non ci sono stati dietro, abbiamo fatto un paio di video ed è finita lì. Per noi è stato un disco importante e ci sono delle cose storiche, però l'abbiamo fatto in sei mesi.

A livello di produzioni è stato un passo ulteriore.
Per tutti i dischi dei Dogo ho rappresentato man mano un diverso decennio della musica: Settanta, Ottanta, Novanta, sempre a salire. Seguendo quello che mi è sempre piaciuto come riferimenti, anche personali, anche per amore personale, senza stare troppo a pensare a cosa avrebbe funzionato.

Come funzionava all'interno del gruppo la dinamica interna? Tu non ti limiti a mettere la base ma fai anche molta direzione artistica, dici anche all'MC “questa frase proviamo a farla in questo modo”, sei molto presente. Funziona anche al contrario? Quanto feedback ti davano loro sulle basi? C'era un confronto aperto?
Io non ho mai voluto fare troppo lo scienziato che fa il beat e lo manda e fine, a me piace fare proprio il produttore del gruppo, alla Dr. Dre. Fai la produzione, ti avvali anche di altri musicisti, collaboratori, ma comunque ne segui tutto l'iter, fino alla canzone finita. Il beatmaker fa il compito e lo manda, il mio è un lavoro molto più allargato. Facevo la strumentale all'inizio, poi ci si mettevano le liriche e ci ritrovavamo in studio. Oppure direttamente venivano in studio, sceglievano delle basi e si cominciava a lavorare per esempio su un ritornello, o su che argomento affrontare su quella base. A volte mi è capitato di partire da un loop, fare la scrittura, e poi cambiare la strumentale completamente.

Se non ricordo male c'era un retroscena su “Puro Bogotà”.
Sì, c'era un sample di un gruppo funk che aveva dei brass, una parte proprio di orchestra e di fiati che andava dritta. Un giorno, pensando al fatto che il campionamento forse non potevo usarlo così sportivamente, ho provato a fare questa prova di mandarlo all’incontrario. E funzionava più che tenendolo dritto!)

Per non far sgamare il campione è un grande classico.
Anche la cosa più facile da fare, senza spezzettare troppo.

Basta schiacciare reverse.
Sì. Anche se all'epoca era ancora un po' uno sbatti. Adesso sì, è reverse. Feci questa cosa e quel beat divenne culto.

Se doveste fare un concerto dei Dogo domani quella non può mancare.
Assolutamente. Io faccio DJ set dove è tipo “Albachiara”, la canta tutta la gente. Anche i più piccoli ormai: è diventata un po' una cosa che "devi sapere" del rap. Credo sia anche una delle nostre tracce più rappresentative, visto che ci sono anche Marra e Vincenzo.

Lì era proprio piena Dogo Gang: mi ricordo il video girato all'autolavaggio dove adesso c'è la Fondazione Feltrinelli.
Tutti: la posse, con le moto davanti. Piena Dogo Gang. C'è anche la storia del viaggio a Budapest con il carro armato, fa troppo ridere. Avevamo quell'attitudine là, ci piaceva quel mondo.

All'epoca riuscivate ancora a tenere insieme l'essere party animal e avere una dimensione sempre più professionale?
Noi siamo sempre stati dei cazzari e dei clubber, però sulla lavorazione dei dischi siamo sempre stati delle macchine da guerra. Mixtape, dischi... Facevamo uscire un sacco di cose. Anche con i mezzi che avevamo cercavamo di fare tutto per bene. Benvenuti Nella Giungla o Roccia Music sono nati proprio nella soffitta dove abitavo, con le voci fatte a cazzo di cane, però sono rimasti un culto. PMC Vs Club Dogo uguale. Tutti quei dischi lì, nonostante siano stati fatti con l'idea di mixtape, li prendevamo comunque molto seriamente. Ogni dettaglio, i beat, pure gli skit, era tutto pensato. Stavamo attenti a cosa mettere, non c'era niente di fatto a cazzo di cane. E la gente forse se ne è accorta.

Come impatto portavate avanti un discorso molto di strada.
Sì, sia dal punto di vista sonoro che lirico. Il linguaggio era di strada, ma essendo Gué e Jake degli appassionati anche di cinema o libri raccontavano delle situazioni di quel tipo ma con immagini forti. Il sound era forte, diverso da quello che c'era prima. L'unione di queste due cose era la nostra forza e una cosa abbastanza inedita.

I Dogo poi hanno cominciato a parlare di temi che il rap fino a lì non aveva trattato troppo apertamente. Facevate discorsi sulla droga, e non solo le canne, e sono arrivate anche molte critiche.
Sulla droga ci hanno criticato per anni. Non essendo frontman l'attenzione andava più a chi stava al microfono. Quella cosa è stata spiegata mille volte: noi siamo sempre stati dei cronisti, non degli educatori o dei maestri di vita. E comunque non abbiamo mai smesso di farlo: la nostra musica è sempre stata cronaca di quello che succedeva in strada. È subentrato anche l'intrattenimento ma non ci siamo mai lasciati andare solo a quello. Abbiamo sempre parlato anche di corruzione, di politici, di ribellione. Messaggi forti su tutti i fronti.

Il problema poi ce l'hanno i media, non certo i ragazzi. I ragazzi sono sempre stati così, la gente si è sempre drogata a prescindere dal rap. Noi poi non siamo mai stati degli spacciatori, al massimo raccontavamo quello che vedevamo. E lo stesso vale per i rapper di oggi, magari sono cambiate le droghe. I media continueranno a criticare, i ragazzini continueranno a fare quello che vogliono, e gli artisti a raccontarlo. L'unica differenza che c'è adesso è che alcuni si sentono quasi in dovere di fare vedere, per esempio, che si fanno lo sciroppo. Questo a me non piace, però è anche vero che magari sono gente di diciotto o diciannove anni e io lo valuto come una persona che ha il doppio della loro età. Secondo me il discorso più importante è quello dell'educazione che ricevi dalla famiglia. Non certo dai rapper.

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I Club Dogo all'epoca di Club Privè, fotografia promozionale

All'interno del gruppo, essendo quello un po' meno esposto e anche un po' più grande, sei sempre sembrato quello più tranquillo.
Magari il periodo più pazzo l'ho fatto quando questa cosa non era ancora esplosa. E forse è stato un bene, perché ero anche meno esposto mediaticamente. Si vedeva un sacco in Club Privé [il reality sui Dogo andato in onda su MTV nel 2012, nda]: loro tra strip club eccetera, e io studio e famiglia. Io con la vita da party ho dato tra i 17 e i 24 più o meno, poi ho mollato molto. Più avanti ho avuto anche dei problemi di salute piuttosto gravi e ho dovuto lasciare proprio qualsiasi cosa. Meglio così.

Con i Dogo la popolarità cresce sempre di più. Abbiamo citato anche il reality del 2012 su MTV.
Il super boom popolare è stato quello. A livello della signora che al supermercato ti guarda e pensa “questo l’ho già visto”. Una volta che vai in televisione c'è il cambiamento grosso. Perfino per i miei genitori è stato quello il momento in cui si sono accorti che ero diventato famoso. Avevo già fatto anni assolutamente da professionista, però uno come mio padre non aveva mai pensato a me come uno che era diventato famoso. "Sì, sta facendo la musica", ma neanche si informava, non sapeva niente. Quando ha visto il programma in televisione mi ha chiesto "ma allora sei famoso?". In realtà se arrivi a fare un reality vuol dire che te l'hanno chiesto, quindi qualcosa devi avere già combinato, non è che hanno fatto un programma TV su dei ragazzini esordienti. Lui pensava che la musica non mi avrebbe mai dato cento lire, invece vivevo già di musica da anni.

E come l'hai gestita questa popolarità? È gestibile o ti rompe i coglioni?
Penso di averla gestita bene. La gente ti fermava e non potevi andare in centro perché se no dovevi farti continuamente foto, però a parte quello ero solo contento. Tendenzialmente il produttore è molto meno esposto, ma io sono stato uno dei primi a mostrarsi tanto: fare i ritornelli, essere sempre presente nei video. Quindi per strada mi percepivano comunque più o meno come un rapper.

So che uno dei vostri album preferiti, a cui siete molto legati, è Dogocrazia. Forse è il disco dei Dogo preferito da Gué.
Sicuramente è anche uno dei miei preferiti. Ha segnato un bel momento, di popolarità e di crescita, ma non so se è il migliore. Il massimo del lavoro dietro a un disco è stato quello per Non siamo più quelli di Mi Fist. A livello proprio di lavoro, di costruzione, di qualità dei brani. Riascoltando Dogocrazia comunque cambierei delle cose, anche se è stato una consacrazione.

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I Club Dogo nel 2009, anno di uscita di Dogocrazia, fotografia promozionale

I dischi della consacrazione a livello pop e di collaborazioni invece sono probabilmente Che bello essere noi e Noi siamo il club. È anche il periodo in cui il pubblico più storico magari ha cominciato a criticarvi, a dire "sono diventati commerciali".
Sì, indubbiamente. Noi siamo il club su tutti, grazie a “PES” che ci ha sdoganato ovunque.

Secondo me erano dischi molto avanti, che non sono stati capiti del tutto. Ripenso a quando è uscita “Spacco Tutto”, a anticipare Che bello essere noi: ho pensato "Ok, è forte, è una hit, ma questo non è più rap". Se invece la riascolto adesso era solo molto avanti. Il rap è diventato molto più simile a quella cosa lì, è ancora un pezzo fresco e potente.
Da quando ho iniziato a vivere di musica, da subito, sono riuscito a fare molti viaggi e a frequentare gli Stati Uniti, dove la percezione della musica è totale: nei club, nei taxi, per strada. Mi piace fare molta ricerca prima di iniziare a lavorare su un disco. Quindi cercavo di trovare dei sound che magari sarebbero arrivati da noi soltanto dopo. Era roba che all'estero si respirava già: un certo tipo di elettronica che si mischiava al rap, il riff elettronico. “Spacco Tutto” riprende un super classico della techno, di cui da giovanissimo ero mega fan. E in America in tanti lo facevano già di riprendere con l'808 il classico della dance o della techno. Quando feci quella base un po' tutti rimasero spiazzati, "che cazzo è sta roba".

L'ascoltatore rap che nasce ascoltando i Sangue Misto ancora con una “Puro Bogotà” ci si può relazionare abbastanza tranquillamente, ma con una cosa del genere no, non ce la fa.
Mi ricordo che la barra dei like di YouTube all'inizio era completamente rossa. Ma è successo per vari pezzi nostri all'inizio, sono stati capiti un po' dopo. “Spacco Tutto” è stato un episodio proprio di totale cambiamento. Anche la ritmica, la parte lenta a 71 bpm... era bello pesante da sopportare. Però poi è stato il la per tutto quello che è arrivato dopo, dalla dubstep alla trap. Ci sono degli episodi del genere anche in Noi siamo il club, tipo “Collassato”, che era trap. Anche “Ragazzo della piazza”. Di tutta quella roba, di quel sound, noi siamo stati un po' pionieri. In Italia la gente ancora non lo capiva, non lo conosceva.

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Club Dogo, fotografia promozionale

I tuoi soci su queste cose ti hanno sempre seguito?
Assolutamente. Abbiamo sempre fatto musica con un pizzico di incoscienza. Lì c’è anche un pezzo più electro un po' alla francese, con la cassa dritta: “La fine del mondo”. Qualche rischio ci è sempre piaciuto prendercelo, non ci siamo mai voluti mettere in coda a quello che già andava forte nel rap in Italia. Ho sempre preso senza problemi una strada un po'... sterrata. Lascia stare “PES”, che alla fine è reggae. Che poi se pensi alle produzioni di Takagi e Ketra... il levare in Italia è una cosa che piace. Ma non ho mai fatto una produzione pensando di fare il pezzo dell'estate. "Mi hanno detto che" è un rifacimento di un classico di Dr. Alban. Ero in viaggio a Praga con Gué, l'abbiamo sentita messa da un DJ a cazzo di cane in un club. "Minchia te la ricordi questa? Era una bomba". Siam tornati in Italia e l'abbiamo fatta.

Tu hai fatto per tanto tempo anche il DJ nei club, e questa è una dimensione importante. Se io penso a Don Joe oltre a pensare ai Dogo penso anche a "serate hip-hop di Milano".
Lo faccio ancora, quando posso. È un bel metro di misura, soprattutto per capire cosa piace alla gente. Anche per non perdere un contatto con i più giovani. Per esempio prima ballavano tutti, adesso si balla molto meno e ci si mette di più a fare la ripresa con il telefono, oppure stanno in pista e muovono solo la testa mentre guardano il telefono. Per loro è ballare, quello; mentre per noi era diverso.

Don Joe è stato "solista" sempre fino a un certo punto. I tuoi due album principali fuori dai Dogo, a oggi, sono un disco in collaborazione con Shablo e un sacco di ospiti, e un altro che è quello che guarda più al mondo del pop, che ancora una volta ha un sacco di collaborazioni.
Sì, tutti amici e artisti con cui avevo voglia di lavorare.

Adesso arriverà un nuovo capitolo, visto che è uscita “F.A.K.E.”, con Jake La Furia e Marracash?
In realtà con le esperienze precedenti ho capito che fare un disco da producer è abbastanza difficile in Italia. Magari la nuova generazione fa cose più complete, io ho provato a farlo in un periodo in cui magari non è stato capito molto. Poi se pensi a quello che è successo dopo, tipo DJ Khaled, è andata, però all'epoca... boh. Adesso invece voglio fare delle cose singole, one shot. E poi vediamo cosa succede.

don joe
Don Joe, fotografia promozionale

Quindi “F.A.K.E.” non è l'anticipazione di un nuovo album.
No, “F.A.K.E.” è l'inizio di questo lavoro, per cui non mi sono dato una scadenza. Voglio mettere insieme dei pezzi e poi al massimo farne una playlist, tanto ormai oggi con lo streaming va così. Prima dell'estate uscirà un altro episodio, e un altro ancora dopo l'estate. Diciamo che nel giro di un anno sarà compilabile, ma senza grandi pretese e senza dover fare un pezzo al mese. Tanto molte cose che volevo fare ormai le ho fatte, non devo neanche più dimostrare troppo a livello discografico. Ho un lavoro, uno studio da gestire, ho le serate da DJ, sono impegnato e sereno, non ho la para di dover fare il disco.

Che cosa invece dopo una carriera così ricca pensi che ancora ti manchi?
Produrre qualcosa di un po' più grosso all'estero, e ora è il momento giusto. Penso ai produttori giovani che sono in giro, vanno a Los Angeles, stanno un mese, beccano i rapper della loro età… fare cose di quel tipo oggi è molto più semplice. Quella roba lì magari oggi mi piacerebbe provarla: vai sei mesi negli Stati Uniti e provi a tirar dentro della gente e fare delle cose. In senso molto personale, senza grandi mire espansionistiche. Tirar dentro dei nomi eclatanti: lavorare con Dr. Dre a una traccia, che cazzo ne so, una roba del genere! O avere Jay Z su un pezzo. Sono sogni, però perché no. Se senti le cose che escono oggi non è neanche così impossibile.

Le cose ora stanno succedendo a livello globale molto più in contemporanea di quanto fosse mai successo. Una volta magari in Italia le cose arrivavano dopo, cercando di imitare. Ora Sfera va in studio con Diplo o becca J Balvin.
Noi Dogo siamo stati un po' gli apripista di tutto questo, spero. Io continuo a fare le mie cose ma ora tocca a loro farla diventare ancora più grossa. Cerco di trovare artisti con cui lavorare per dare un plus rispetto a quello che hanno già. Per dire, uno come Vegas Jones conosce un sacco di musica, non è che non ha cultura. Noi che abbiamo più esperienza magari serviamo a portare le cose oltre anche dal punto di vista più manageriale della faccenda. E faccio ancora produzioni perché sono molto appassionato di musica. Tanti avrebbero anche smesso di farlo per limitarsi a crescere talenti. Solo che mi piace talmente tanto fare musica, e la musica, che ancora proprio non riesco a staccarmi del tutto.

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Perché il reggaeton è una bomba

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Ivy Queen, DJ Playero e J Balvin suoneranno al Primavera Sound 2019, dove suoneranno anche un sacco di artisti che dovresti vedere dal vivo.

Una volta la mia amica Marella mi chiede una cosa: "Se potessi cancellare un genere dalla faccia della Terra, quale sarebbe? E perché proprio il reggaeton?" E poi si mette a ridere fragorosamente. Rido pure io, ma mi viene anche da fare un pensiero. Ho l'impressione che la parola "reggaeton" crei nella mente di buona parte della gente che la sente un'idea ben definita: un tamarro in canotta che ti fischia dalla macchina sul lungomare, culi strusciati sulla sabbia al tramonto, dancefloor brutti e bar che vendono roba annacquata.

Personalmente ho cominciato a prendermi bene con quel ritmo lì quando ho scoperto Ozuna. "Síguelo Bailando" si è ficcata nella mia mente con la sua linea vocale tutta brilluccicante, il suo beat carezzevole e gli "eh-eh-eh" del ritornello piacevoli come fiocchi di neve che si sciolgono sulla lingua. E poi è arrivato uno specifico passaggio di "Corazon" di Maluma: "Sin tanta pena, ahora te digo goodbye / Muito obrigado, pa' ti ya no hay", parole che hanno cominciato a rigirarmi in testa nonostante il mio livello di spagnolo mi permette al massimo di ordinare una copa o una caña quando vado in vacanza coi miei amici.

Non è possibile, credo, spiegare perché mi piace il reggaeton: è una questione di pelle, come quella che diventa d'oca dai brividi di terrore di chi si fa salire l'anticristo quando si sente invadere le orecchie da quel ritmo sbilenco su cui è costruito l'intero genere. Ma credo, al contempo, che conoscere una cosa possa renderla più... normale, interessante, sfumata e complessa, soprattutto se appesantita da uno stereotipo.

despacito
Screenshot dal video di "Despacito" di Luis Fonsi e Daddy Yankee, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

Insomma, per ogni persona che crede che il reggaeton sia la versione sonora di una piña colada con troppa batida de coco ce n'è una che considera la techno "un bumbumbum tutto uguale", la trap un tappetone ripetitivo tutto skrrr, ghiaccio e bitch, il punk un ammasso di tipi brutti e sudati che fanno casino, e così via. E la cosa che mi ha fatto andare oltre questa idea superficiale è un video che ho trovato su YouTube cercando "history of reggaeton".

Si tratta di "Roots of Reggaeton", registrazione di una lezione tenuta dal professor Wayne Marshall all'università di Berkeley, in California, nel 2015. Lungo il corso di poco più di un'oretta si ripercorre l'intera storia del genere, dalle sue origini in Giamaica fino al momento in cui il mercato musicale occidentale si è reso conto che, hey, stava succedendo qualcosa di interessante in America Latina e ha cominciato a prendersene dei pezzetti.

Tutto comincia con una canzone, "Dem Bow" di Shabba Ranks, che forse avete già sentito nominare dal signor A$AP Ferg. Il titolo significa "Si piegano": ma chi? Bé, la risposta non è delle migliori: gli omosessuali, e tu che ascolti vieni chiamato a "saltare attorno alla tua tipa se non ti pieghi". È una questione complessa, ma la mascolinità è uno dei temi centrali del colonialismo—come spiega bene uno studio di un'accademica italiana, Sonia Sabelli, la sessualità è stata uno dei campi su cui si è combattuta in Giamaica e nei Caraibi la battaglia per la preservazione dell'identità culturale dei popoli locali nel momento in cui si sono visti toccati dall'Occidente.

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Shabba Ranks, screenshot dal video della sua "Ting-a-Ling", cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

"Dem Bow" esce nel 1990 ed è particolarmente interessante per due motivi. Il primo è che è un esempio da manuale di questa logica: quelli che "si piegano" non sono solo gli omosessuali, ma anche gli individui che chinano il capo di fronte alle ingerenze occidentali e imperialiste. Il secondo è che il ritmo che la sostiene sarebbe diventata la prima pietra su cui si è costruito l'intero reggaeton. Ma come?

Semplificando, quando una canzone veniva messa su un disco in Giamaica sul lato A si stampava il pezzo, sul lato B invece una sua versione strumentale—il cosiddetto "riddim"—su cui chiunque poteva mettere la propria linea vocale. E così sulla stessa base possono nascere centinaia di pezzi, e il "dembow" si rivela essere con il passare degli anni uno dei più fortunati.

Nel frattempo però sta succedendo un'altra cosa: a Panama c'è un canale da costruire e a farlo sono un sacco di giamaicani, che lì si trasferiscono e portano la loro musica con sé. Alla gente del luogo prende bene, e cominciano a venirne fuori delle cover in spagnolo: nasce il reggae español, termine reso celebre dall'omonimo album del cantante panamense Nando Boom, stella locale insieme a El General, entrambi espatriati poi negli Stati Uniti.

È dall'incontro di questi due fenomeni—il dembow riddim e il reggae español—che nasce il reggaeton in una versione embrionale di quella che conosciamo oggi. Le versioni in spagnolo di "Dem Bow" sono moltissime ma quella che ha il successo più grande la fa proprio Nando Boom, che registra a New York un pezzo intitolato "Pension". I ragazzi giamaicani nello studio con lui, che non parlano spagnolo, gli chiedono di che cosa sta cantando, gli rivelano il vero messaggio della canzone—omofobo, anti-imperialista—e lui ne registra un'altra versione dal testo più fedele all'originale, "Ellos Benia".

A dare una svolta al significato del dembow arriva El General, con la sua "Son Bow", il cui testo lancia un messaggio di fratellanza internazionale: il testo cita Panama, il Canada, Puerto Rico, Brooklyn e la Colombia, in una sorta di "Gozadera" primordiale. Va citata anche la versione di Bobo General e Sleepy Wonder, giamaicani di stanza a New York, che registrano "Pounder": sul lato B ce n'è una versione strumentale a cura di Danny The Menace ed è quella a influenzare definitivamente la comunità musicale portoricana, quella da cui nascerà il primo grande successo internazionale del reggaeton, oltre che il termine "reggaeton" stesso.

Quel successo si chiama The Noise ed è un collettivo creato nel 1992 dal portoricano DJ Negro per dare forma a una comunità di artisti che si esibivano in un omonimo club da lui aperto a San Juan. Le serate organizzate da Negro, che aveva chiamato una serie di rapper, producer e DJ del luogo, sfociano preso in una serie di mixtape intitolati al collettivo. Al secondo partecipa anche DJ Nelson, che nel 1995 si inventa il termine "reggaeton" con una sua compilation intitolata Reggaeton Live, Vol. 1.

Nel DNA dei The Noise ci sono il dembow elettronico di "Pounder", l'hip-hop newyorkese degli anni Novanta, la tradizione dancehall e, soprattutto, un principio di rifiuto nei confronti di qualsiasi sottotesto machista. A incarnarlo è Ivy Queen, che si unisce al collettivo per il Volume 5 delle compilation. Dopo aver vissuto anni a New York tornò a Puerto Rico con tutte le sue influenze e si trovò nel garage di DJ Negro per un'audizione: "Tutti mi dissero che sembravo un uomo. A me sembrò una maledizione, ma era una benedizione. Era diverso, io ero diversa. Unirsi ai The Noise o lavorare con DJ Playero era il sogno di qualsiasi aspirante rapper. Loro erano i DJ al top, e io sono la prima donna a essere stata accettata in quella crew".

Ecco, DJ Playero: è lui, autore di un'altra serie di mixtape intitolata Underground Reggae, l'altra testa dietro alla diffusione del reggaeton. È su Playero 34 che sputa le prime rime uno dei rapper migliori della storia dell'America Latina e non solo, Daddy Yankee. Lo stesso vale per un altro gigante come Nicky Jam, nato a Boston e trasferito a Puerto Rico quando aveva solo dieci anni. "Le strade ne avevano bisogno", ha detto Playero spiegando perché i suoi mixtape ebbero un successo così grande: "Ai ragazzi serviva un modo per buttare fuori la frustrazione che provavano per il loro stile di vita. Mi dissero che i miei tape stavano venendo piratati, e fu allora che venni contattato da Don Pedro Merced della BM Records, il padrino di quasi tutti i più grandi del genere". Il passaggio da musicassette stampate in edizione limitata a fenomeno discografico fu breve.

La miccia che accese la passione per il reggaeton all'interno della scena hip-hop fu uno specifico progetto. Si chiamava Boricua Guerrero: First Combat, un epico album mixato ideato da DJ Playero e dal produttore Nico Canada nel 1997. I due passarono mesi in uno studio di New York creando incontri tra gli MC reggaeton delle loro terre e i più grandi talenti della Grande Mela nel suo periodo di maggior splendore: Q-Tip, Nas, Busta Rhymes, Fat Joe e Big Pun. A coltivare il terreno connettivo tra Caraibi e Stati Uniti arrivarono anche i The Noise, unendo dembow e boom-bap in video che visti oggi sono pura nostalgia per la golden age dell'hip-hop della East Coast. Era la gemma da cui sarebbe sbocciata, vent'anni dopo, la latin trap.

boricua guerrero first combat
La copertina di Boricua Guerrero First Combat, cliccaci sopra per ascoltarlo su YouTube.

In tutto questo, come ben spiegato da Remezcla, il governo portoricano aveva cominciato una campagna di criminalizzazione del reggaeton basandosi sull'effettivo contenuto dei testi di buona parte della scena: violenza, sesso, armi. Il governatore Pedro Rosselló ordinò sequestri di cassette e CD, spaventato dalla popolarità che il reggaeton aveva ottenuto nell'intera società locale: non più appannaggio delle periferie disagiate, anche le classi medio-alte avevano cominciato ad appassionarsi al dembow. La soluzione fu, ovviamente, la censura: sotto la presidenza di Rosselló il reggaeton era considerato alla stregua di un'arma o una droga.

Questo gesto oscurantista non fece nulla per interrompere l'ascesa del reggaeton, che affondò invece le sue radici ancora più nel profondo della terra culturale dei Caraibi: molti artisti cominciarono ad ampliare il ventaglio delle tematiche che trattavano nei testi e molti produttori cominciarono a mischiare il sound giamaicano del dembow a strumenti e soluzioni più tipicamente "latine". Fu un passaggio fondamentale nell'accettazine del genere da parte dell'opinione pubblica portoricana: per quanto sia triste pensarlo oggi, fu un passaggio da "música negra" a “reggaeton Latino".

Esempi di questa svolta furono Mas Flow Vol. 1 di Luny Tunes e El Abayarde di Tego Calderòn, seguiti a breve giro dai primi grandi successi internazionali del reggaeton: "La Gasolina" di Daddy Yankee (2004) e "Oye Mi Canto" di N.O.R.E., sempre con Daddy Yankee (2006). E qua comincia l'era contemporanea, in un accrocchio splendido di tradizione giamaicana, portoricana, latina, statunitense, di quel mischione musicale che oggi chiamiamo "reggaeton"—che è Luis Fonsi, ma è anche la latin trap mezza emo di Bad Bunny, e la liberazione sessuale di Ivy Queen, e il perreo spagnolo di BadGyal, e il superpop ibrido di J Balvin, e un sacco di altre cose. Un genere complesso che, insomma, ridurre a un ritmo tamarro è decisamente un peccato.

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Com'è triste Samuel Heron

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Parte del mio lavoro da autrice consiste nella scrittura di video interpretati da persone che hanno voglia di parlare davanti a una telecamera. Uno di questi video era un monologo molto semplice che parlava di tristezza. Detto così suona un po’ strano. È che ultimamente, a causa di questo lavoro, mi trovo a contatto con persone parecchio più giovani di me, persone con cui parlo e che ascolto avidamente perché sono la chiave per intuire una generazione che sembra così vicina alla mia ma che in realtà non lo è affatto a causa dell’assenza di ricordi pre-Instagram che la caratterizza.

Se si è nati nella prima metà degli anni Novanta, si fa parte di una delle ultime scie umane che si ricorda com’era fatta l’industria musicale prima degli mp3, com’era fatto un telefono fisso e che è ancora in grado di passare un paio d’ore a non fare assolutamente niente. Oggi le cose sono molto cambiate per chi è nato già invischiato nella palude dei social, e magari mi sbaglio, ma una delle cose che mi sembra più profondamente mutata è l’elaborazione collettiva sentimentale: se una volta i sentimenti erano ambivalenti, bui, complessi e articolati, oggi i sentimenti che vengono cantati, esposti e codificati sembrano aver perso il loro spessore in nome di uno schema fisso povero e scordato. Credo che in larga parte di questo fenomeno sia dovuto alla cultura dei social, e in particolare a Instagram, che più di tutti è stato usato implicitamente per creare una narrazione bidimensionale di chi siamo come esseri umani, uno spazio in cui – legittimamente – non c’è posto per la complessità, ma che ha sostituito lentamente tutti gli spazi che invece erano concessi a quest’ultima.

Questo per dire che questo video sulla tristezza, così come altri video che scrivo, cercano ingenuamente di riportare un po’ di tridimensionalità a chi ha voglia di ascoltare e sente la necessità che gli venga ricordato che esiste un’ampia gamma di sentimenti non sempre positivi, anche in un universo in cui sembra che nessuno sia più legittimato a sentirsi infelice.

La cosa buffa è che questo video sulla tristezza è stato intercettato da Samuel Heron, musicista e ballerino ligure, noto anche per essere un abile intrattenitore e per avere sempre avuto un’immagine leggera per il suo pubblico, che in parte lo ha fatto sentire intrappolato in una figura spumosa, tintinnante. Ecco, Samuel dopo aver visto questo video sulla tristezza ha chiesto di poter chiacchierare con il team con cui lavoro perché la faccenda è questa: il suo disco appena uscito si chiama Triste. Per questa ragione ci siamo incontrati in occasione dell’uscita del disco e abbiamo chiacchierato per il tempo che avevamo a disposizione di Triste, di crisi identitarie, ma soprattutto di irrequietezza.

samuel heron triste cover

Una cosa che mi è saltata subito all’orecchio ascoltando il tuo disco è che noto solo due o tre pezzi aderenti al titolo Triste: "Facebook", "Papi Chulo" e "Londra". Le altre tracce sono estremamente leggere. Mi spieghi un attimo la geografia di questo disco rispetto alla comunicazione che ne è stata fatta?
La mia comunicazione del titolo non è per forza da collegare ad alcuni pezzi. Perché poi non rispecchia quello, cioè non ci sono pezzi tristi o cupi o malinconici. A parte "Londra" e "Facebook". Il titolo esprime la mia voglia di mettere un po’ le mani avanti e di far capire che non sono solo quello che la gente si aspetta che io sia. Ma non per colpa loro, ma solo perché ho dato sempre e solo una parte del mio carattere. Ora è arrivato il momento di dare altro. Tu mi dici che però non vedi questa cosa.

La rivedo a tratti.
Sì, esatto. Comunque questo è l’inizio di un percorso ed è l’inizio anche per me, però insomma, con calma! Devo anche far capire alle persone che c’è altro in maniera intelligente ed educandole a recepire quello che sono io, quindi di botto io non posso, non voglio andare a scardinare quello che ero prima. Mantenere qualcosa di ciò che ero prima è importante, perché sono tratti caratteriali, caratteristiche del personaggio e della persona molto forti. Il fatto che io sia un ballerino, il fatto che io sia un intrattenitore durante i live... Questo mi piace che si mantenga e che sia ancora un punto forte e focale della mia musica. Quindi ti dico il fatto di essere triste è più un discorso personale. Cioè il titolo è più legato alla persona Samuel che non ai pezzi. Se non a tratti. È un po’ il pagliaccio triste...dietro l’apparenza si nasconde una realtà diversa. Io ho un po’ cercato di farla vedere. Però non per forza nei pezzi.

Ti sono arrivati feedback rispetto a questo rivelazione?
Dalle persone più interessate sì. Però diciamo che dal pubblico più leggero sui social, dove gli passano davanti centomila cose, no. Secondo me non si sono posti la domanda perché non hanno ancora ascoltato i pezzi. Perché secondo me, a prescindere dal titolo, si aspettano ancora il Samuel Heron del passato. Quindi secondo me non sanno ancora cosa li aspetta in realtà. Però il titolo attualmente può dire niente e può dire tutto a una persona che non sa niente.

Mi racconti questo cambiamento identitario e artistico che hai affrontato?
È frutto di svariati mesi di trita, di negatività. Legati a dei problemi che mi sono capitati. Da eventi esterni, situazioni esterne che hanno influito sul mio percorso. Mi sono fermato un attimo con la musica, il che mi ha portato a pensare—e pensare, per una persona come me, vuol dire uccidersi, perché ho un carattere molto sensibile, quindi recepisco tantissime cose, soprattutto quelle negative. Io poi sono una persona estremamente profonda. Vivo tutto molto intensamente, sia le cose belle che quelle brutte. Quindi sono sempre in conflitto e angosciato. E io sono sempre stato così. Semplicemente ci ho ragionato su e ho detto "perché?". Perché alla fine l’ho anche soffocato un po’, perché alla fine ho sempre fatto vedere determinate cose di me legate all’intrattenimento e alle cose frivole, il ballo e via dicendo. Ecco, secondo me si è creata una situazione artistica di stallo perché avevo paura che se fossi uscito con qualcosa di diverso le persone non avrebbero apprezzato, e allo stesso tempo io non riuscivo a fare le stesse cose, perché nel mentre ero cambiato. Per me è arrivato il momento di mettermi a nudo: questo disco è il risultato di questo tempo, di questo periodo negativo, del lavoro e della costanza ovviamente. Soprattutto il mio team, i miei produttori, sono le persone che mi hanno raccolto e mi hanno dato la possibilità e la consapevolezza musicale che avevo perso.

samuel heron
Samuel Heron, foto promozionale

Hai mai provato a darti una risposta sul perché sei così irrequieto?
Secondo me uno ci nasce. Fin da ragazzino mi sono sempre sentito distaccato dagli altri e dalle situazioni che gli altri vivono con leggerezza. E io mi chiedevo perché mi sentivo così diverso. Perché pretendo anche dagli altri cose diverse?

Quali cose diverse?
Anche solo nei rapporti umani, io pretendo molte attenzioni, molto rispetto. Infatti questo mi rende molto impegnativo per gli altri. Poi io do tanto. C'è una serie di cose che ho analizzato durante gli anni. Da ragazzino non sai bene. Io ho incanalato questo malessere ballando, inizialmente. Questa cosa mi ha aperto alla società, agli amici. Io fino ai 12 anni non avevo amici. Mentre tutti gli altri miei amici erano al mare io ero a casa a fare i beat, io passavo i miei giorni a cercare sample per le basi, poi piangevo da solo quando trovavo un pezzo bello. Allora mi sfogavo.

Ti succede tuttora?
No. Cioè in realtà sì, mi è successo, però ho perso un po’ quella magia. L’ultima volta che mi sono commosso ascoltando un pezzo è stato con De André, di recente, "La domenica delle Salme". Stranamente non è uno dei pezzi più popular, però l’intensità... C’è qualcosa dentro quel pezzo. Io piango molto eh, però negli anni ho smesso un po’. Perché ora ho lo sfogo! Incanalo quel malessere in qualcosa. Prima mi chiedevo continuamente perché fossi triste... mi auto-escludevo, mi auto-emarginavo. Non sono mai riuscito a far presa sulle persone. Ecco, la musica in questo mi ha aiutato.

Perché secondo te facciamo così tanta fatica ad accettare i sentimenti negativi sia propri che altrui?
Anche solo a livello di amicizia è più facile avere qualcuno di simpatico, divertente, con cui ti bevi una birra rispetto a uno che espone i propri pensieri sul mondo, sull’universo, le proprie ansie e le proprie cose. Ora che nessuno ha voglia di parlare di cose serie, la gente non ha voglia delle cose importanti che richiedono attenzione e impegno.

Che cosa è successo secondo te?
I social. Il fatto che sia tutto smart: like e scorro, scorro la story, cancella... Tutto usa e getta. Solo che anche i rapporti umani sono diventati usa e getta, per quello che io magari non ho tante amicizie nell’ambiente hip hop, perché non riesco a entrare nella mentalità per cui sei piramidalmente più alto di me e quindi ti sfrutto così facciamo il featuring o la foto. E quindi mi escludo io automaticamente. Però, ecco, quando poi trovo le mie persone, quelle mi restano per 50 anni.

Qual è la tua canzone preferita del disco?
Come canzone "Londra". "Facebook" mi piace perché non è una canzone, cioè non lo è secondo i canoni della trap e del rap. È uno sfogo! Non è nata volontariamente dicendo “Ora faccio una canzone chitarra e voce”. Un giorno stavo male in studio, e mi son dovuto sfogare. Allora ho registrato su una base che ho fatto io e solo dopo abbiamo messo la chitarra. Quindi non è un pezzo scritto per chitarra e voce. Poi ci siamo rivisti con Andrea Gargione (amico e chitarrista) e l’abbiamo rifatta. Infatti è tutta imprecisa, perché malgrado lui sia un chitarrista della madonna, io gli ho detto proprio che la volevo tutta storta. C’è il rumore di una sedia trascinata a un certo punto. Poi vabbè, l’abbiamo impreziosita con il sax di Stefano Baraldi. È rischioso come pezzo a livello discografico. Però ecco, come sfogo è il mio preferito. Ci sono davvero tutte le cose personali che mi sono venute in mente. Pensa che a un certo punto nel testo cito Gianluca, uno dei miei più cari amici con cui non parlavo da cinque anni. E il mio team mi ha rimesso in contatto con lui grazie a questa canzone. Pensa che anche lui ballava, era il mio mentore, avevamo una compagnia. Io sono stato molto egoista e lo ammetto. Quando fai questo mestiere a volte rischi di diventare molto egoista, perché lavoro e persona coincidono. Ma mi sembra che questa distanza di cinque anni ci abbia resi ancora più uniti.

Questo disco è uno statement, almeno in parte. A parte la questione della tristezza, c’è un altro pezzettino della tua visione che volevi far trasparire?
Sono una persona che ricerca la felicità. Ecco, io mi crogiolo nei sentimenti negativi, però in realtà non me li cerco. Non faccio cose per essere triste. Sono triste ma non voglio esserlo! Quindi secondo me questo è il punto principale. La ricerca della serenità.

E cosa te la dà in questo momento?
Oggi. Oggi è un giorno sereno.

Irene è autrice e host della serie La Prima Volta su VICE. Seguila su Instagram.

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Tutti i dissing dovrebbero essere come “Re: Inoki” di Pippo Sowlo

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“Lirico alchimista, chi cazzo ve prende in giro / Inoki sei un vecchio, porcoggiuda sei finito / Sicurezza per favore andategli a levare il micro / Se tu sei Rap Pirata io sono Capitan Uncino”. Pippo Sowlo, maestro delle cose che fanno ridere e Drake della capitale, ha pubblicato un video incredibile: si chiama “Re: Inoki” ed è una risposta immaginaria a un dissing di Inoki. Ma, dato che come ci ricordava Marco Pannella “l’odio è per i poveri stronzi”, Pippo ha pensato di fare qualcosa di particolare.

Dopo una prima strofa in cui parla male di Inoki, Pippo si pente: “Inoki tu hai ragione su tutta quanta la linea / Sono un cazzo di sfigato, un fallimento che cammina / Sono pure megafan, zi te seguo da ’na vita / Concerti a Pietralata stavo fisso in prima fila”. A che serve dissare quando puoi ribaltare completamente l’idea di dissing e, semplicemente, gridare “SCUSA, INOKI SCUSA”? E magari chiedersi come fare a “quittare questo approccio post-ironico”? Consigliamo la visione del video, il link è in bio e nelle storie, e se non ridi hai il cuore di pietra.

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Dall’Emilia all’Europa, i CCCP avevano predetto il futuro

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Tempi moderni nuovi forti interessanti, volevo dirvi: Ferretti ritorna a casa. La citazione, per i non iniziati, è di un brano minore dei CCCP Fedeli alla Linea, "Hong Kong". In qualità di cantante e ideologo di questa storica formazione, negli ultimi anni Giovanni Lindo Ferretti ha pensato bene di lasciare i suoi cavalli e il suo eremo e tornare a cantare il suo passato con una serie di concerti commemorativi del repertorio dei CCCP.

Ammetto che appena ho scoperto questa cosa sul suo Facebook l’ho mandato pesantemente affanculo nei commenti, però me ne sono pentito quasi subito. Perché alla fine il mio non è vero odio: è un sentimento negativo, certo, ma nasce da un grande amore. Quello per una formazione come i CCCP che con le sue varie derive, vedi i CSI, ha trainato per vent'anni circa la musica alternativa italiana. Era quasi l’unico faro in un mare di merda, diciamolo. Poi però un bel giorno il nostro Ferretti ha avuto un brutto male, è sopravvissuto ed è diventato un fervente cattolico. Come tutti sapete, ha fatto le sue comparsate da personalità della politica e del giornalismo di destra italiano.

Che il nuovo Ferretti canti i brani di quello vecchio non è una bestemmia, ci mancherebbe. È, però, l’annullamento totale del significato di quei brani, la loro neutralizzazione assoluta, il modo per distruggere la credibilità di un percorso poetico. In poche parole sembra essere l’atto finale di autodistruzione di un ex punk ora venduto, come direbbe Johnson Righeira. A parte tutte le menate che scrive Ferretti col suo classico piglio affabulatore a proposito di questa operazione, forse la verità è che il suo obiettivo è quello di togliere al suo ex-compagno Massimo Zamboni l’esclusiva di suonare certi pezzi con i suoi Post CSI. La cosa frutta, non c’è dubbio. A tal proposito viene subito in mente un brano dei CCCP: “Fedele alla Lira?”. Era contenuto in un disco controversissimo, il famigerato Canzoni Preghiere Danze Del II Millennio - Sezione Europa, uscito nel 1989. Quest’anno cade il trentennale, noi di Italian Folgorati siamo quindi pronti ad analizzarlo col senno di poi.

cccp canzoni preghiere danze
La copertina di Canzoni Preghiere Danze, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

"Fedele alla Lira?" è un inno power pop dall’ironico gioco di parole ai danni dei fan incalliti che all'epoca li accusavano di essere diventati commerciali e di essersi venduti alle major. Dopo anni di militanza underground a infiammare i palchi con le loro provocazioni estreme (ricordiamo Fatur che lanciava oggetti contundenti tra il pubblico) e le loro chitarre grattugiate, i CCCP di Canzoni Preghiere Danze sembrano irriconoscibili. A livello sonoro e mediatico, la situazione gli è sfuggita di mano. La crescente popolarità della band porta la Virgin a trasformarli in un vero e proprio prodotto nazional-popolare. Sono eccentrici, certo, ma una volta che ti ritrovi su Topolino e su Famiglia Cristiana, per quanto la cosa sia buffa, qualcosa non va. Nemmeno l’exploit con Amanda Lear, quella geniale cover tossica di "Tomorrow" con tanto di apparizione a Saint Vincent, non era andato giù ai seguaci del gruppo. Con il nuovo album, i CCCP vanno orgogliosamente controcorrente.

Il chitarrista Carlo Chiapparini, ex degli storici RAF Punk, comincia a frequentare il giro di Luca Carboni e infatti il bassista di Carboni diventa il nuovo fonico dei CCCP. Ignazio Orlando, il bassista e programmatore delle drum machine nei CCCP, nello stesso anno scivola con naturalezza a suonare nel disco di Carboni Persone silenziose. Sembra assurdo, ma c’è più Luca Carboni in questo disco che in quelli di Luca Carboni stesso: i suoi musicisti e i CCCP si scambiano gli strumenti, c’è una strana e imprevedibile simbiosi. Non che la commistione tra pop mainstream e punk sia in sé un male (ricordiamo che il chitarrista di Carboni dal '92 in poi è stato quello dei grandissimi Luti Chroma, dai quali proveniva anche Orlando), ma i ragazzi in questo disco non sono a loro agio, sembrano dei pesci fuor d’acqua.

Eppure, dopo trent'anni, possiamo dire che è il principale pregio del disco, perché parla a noi poveri mortali di cosa sta accadendo nel 2019. Strano a dirsi, ma sembra scritto oggi. Ascoltare il brano di apertura è inquietante nell'Italia di oggi. Ferretti canta a cappella, tra i fischi del pubblico di Arezzo Wave, un canto degli alpini della prima guerra mondiale, “Il testamento del capitano”. È un'apertura che già profuma di fine, di morte, di guerra imminente.

Il concept del disco, in soldoni, è che il mondo moderno non esiste, è una balla. Siamo in un Medioevo perenne in cui l’uomo non sa cosa succede, cosa fare e dove andare. Ricordiamo che il 1989 è l'anno della caduta del muro di Berlino e il disco, appunto, tenta di fare un'indagine antropologica su un'era che si sta sgretolando, come salvare delle fotografie o dei libri dal fuoco, facendo diga contro l’oblio del progresso. In maniera inedita, i CCCP si spostano verso un campo spirituale prima poco o per nulla battuto: in copertina c’è una madonna mutuata dall'iconografia ortodossa, un'ortodossia ben diversa da quella del loro omonimo disco. La speranza di Ferretti & co. è lo sviluppo di un sogno eurasiatico basato su un insieme di culture socialiste tolleranti nate dalla fine delle dittature comuniste e l’avvento di un discorso nuovo e irrazionale, che vada contro quella razionalità occidentale che ha creato la bomba atomica e i lager. In questo senso la “religiosità” ha un valore che trascende il concetto di Dio: è un sentimento di riassetto interiore, un reset dell'animo umano.

CCCP Amanda Lear
I CCCP con Amanda Lear

Reset che non può non partire dall’Apocalisse: "Svegliami" è un brano manifesto di questa confusione, con chi “è post senza essere mai stato niente” e quella ricerca di quelle “qualità che non valgono in questa età di mezzo”. Le liriche, stupende, soprattutto oggi sono un invito ad aprire gli occhi quando la terra si apre, invece di girarsi dall’altra parte. Il nuovo mondo parte da un punk patinato nato dalla scoperta dell’Occidente come quello di "Huligani Dangereux", in cui è descritta la trasformazione della gioventù sovietica verso qualcosa di indefinito ma che ancora una volta stacca in modo violento col passato, anche con quello delle subculture. Oggi non possiamo che pensare a un'Europa dell’Est che sta effettivamente trovando una strada nuova su tutti i livelli. Ferretti idealmente ripone in quelle terre la speranza di nuove aperture e possibilità che trainino il mondo.

Ma nuovo significa anche rischio: da questo momento l'album inizia una serie di “massacri” musicali. La versione originale di "B.B.B." si può ascoltare nella raccolta Live in Punkow che uscirà nel '96 ed è indubbiamente più incisiva e minimale, mentre qui Ferretti si sforza di cantare goffamente in maniera quasi pacata, normalizzata (rivelerà poi che era stata un’idea del produttore Orlando). Lo stesso problema si ritrova in "È vero", originariamente chiamata "U.N.", che nella prima versione è di un’intensità micidiale mentre qui sembra annientata da un'interpretazione zoppicante. Sono brani in cui c’è la consapevolezza che gli orrori del mondo “moderno” vanno riconosciuti senza inventarsi menate ideali o ideologiche. Il mondo è solo uno e non cambierà, siamo noi a dover cambiare lo sguardo su di lui.

C’è poi la celebrazione del comunitarismo socialista che potrebbe essere una soluzione, in "Roco, Roço, Rosso", altro picco testuale per Ferretti: “Ardi divina tenaglia sul mondo / brucia tornio d’amore”. La parte strettamente spirituale appare in “Palestina” (scritta dopo la Dichiarazione di Stato da parte di Arafat) e soprattutto in "Madre", nella quale Ferretti tira fuori la sua sedimentata cultura cattolica cantandola all'inizio come una preghiera e subito dopo alzando la tonalità di un’ottava, gridando come fosse una bestemmia (che poi in effetti sono la stessa cosa). È la confusione sopra e sotto il cielo.

Il momento danzante è rappresentato da "And the radio plays" e "La qualità della danza", che esprimono un altro tassello importante del disco: la riscoperta del corpo in chiave mistica, una specie di sufismo mescolato con il paganesimo, nel quale la liberazione dei corpi è la porta principale per la riscoperta dello spirito in un olismo puro.

Chiudono il disco però due punte assolute in cui si affronta l'argomento del progresso tecnologico che si vuole mangiare l’uomo e trasformarlo in dati e della resistenza a questo processo. La prima è la grandiosa "Vota Fatur" in cui, in un delirio di elettronica futuribile, il nostro artista del popolo denuncia grottescamente politici e imprenditori italiani che fanno turismo sessuale coi minori in Thailandia. Si drogano senza ritegno, buttano quattrini, il tutto in una decadenza senza precedenti: i Sex Pistols di "Pretty Vacant" buttati in un cassonetto accelerazionista. "Reclame" invece è lo spazio dedicato a Annarella, che elenca i credits del disco (“ecco i miei gioielli”) su una base incredibilmente vicina alle ultime derive “new age” di Logos e compagnia.

Dopo trent'anni possiamo dirlo: Canzoni Preghiere Danze, nonostante sia considerato debole e poco ispirato dalla maggioranza del pubblico e anche dai suoi stessi autori, è il disco più coraggioso dei CCCP. Un insieme di punk digitale, di computer music quasi pre HD, di pop patinato, di sapori arabo-elettronici che non starebbero male in un disco di Islam Chipsy, di “chitarre grafiche”, di effluvi latini e spagnoleggianti, un cortocircuito da post-punkettoni che cercano di fregare il mercato sul suo stesso campo tramite una produzione ipertrofica, fallendo. Canzoni Preghiere Danze potrebbe uscire dai laptop di Amnesia Scanner tra qualche anno: perché prima di loro ha descritto il Medioevo digitale in cui la parola caos la fa da padrone, in cui la musica di oggi è fatta di macerie del mondo precedente.

C’è però un altro brano, che lasciamo alla fine per ovvi motivi: "Conviene". Il pezzo parla di trasformismo, di convenienza economica, una frecciata al modus operandi capitalista. Ebbene, a mio parere, Ferretti è diventato proprio quello di cui parla la canzone. Non ce l'ho con lui perché è incoerente: i CCCP lo sono sempre stati e per questo ci piacevano. Un ensemble di scoppiati in cui convivevano i testi di Ferretti pieni di filo-sovietismo, filo-islamismo, cristianesimo, ebraismo ed esistenzialismo, il fascismo urbano e il futurismo delle prime entrate in scena di Fatur, la moda postmoderna e post-hippie di Annarella, l’anarcopunk di Zamboni, le grafiche dada di Chiapparini e la professionalità quasi da nerd isolazionista di Orlando. Insieme facevano un reparto di psichiatria in musica: c’era tutto e il contrario di tutto, piacevano da sinistra a destra perché aprivano le coscienze come vasi di Pandora. Ora ce l’ho con Ferretti proprio perché non è più incoerente: ha deciso di farsi ingoiare dalla bestia senza fare resistenza, mentre la sua è sempre stata resistenza umana prima di tutto, contro ogni certezza e dogma. E sotto elezioni europeee questa bestia ci ride in faccia dalla "sezione Europa": speriamo che Ferretti sappia che c'è un solo candidato da votare per salvarsi da questo scempio. Giovanni Lindo, ascoltami questa volta. Vota Fatur.

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Tutti i dettagli di Club to Club 2019

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Club To Club è una delle gemme della scena concertistica italiana e l'edizione di quest'anno, a quanto possiamo vedere dalla line-up, non fa che confermarlo. L'headliner è James Blake, autore quest'anno del suo disco più romantico e vicino all'hip-hop di sempre. Insieme a lui si esibiranno però un sacco di altri artisti decisamente ok, che trovate qua sotto in ordine alfabetico:

Black Midi / Chromatics / The Comet Is Coming / Desire / Flume / In Mirrors / Kelsey Lu / Let's Eat Grandma / Mormor / Napoli Segreta / Nivhek / Nu Guinea / Skee Mask / Slikback / Slowthai / Visible Cloaks

Qua sotto il cartellone ufficiale. Il festival si terrà sempre a Torino dal 30 ottobre al 3 novembre. Trovate tutte le informazioni sul sito del festival, e anche i biglietti.

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'Mediterraneo' è l'evento imperdibile che celebra la contaminazione

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La bassa Val Padana non è il posto più bello del mondo: è pieno di zanzare, l'umidità è costantemente sopra l'80% e per un paio di mesi all'anno è invasa da una nebbia densa e grigia che striscia tra le ruote delle biciclette dei nonni come il Blob. D'altra parte, è palese che una qualche legge di equilibrio cosmico faccia sì che in un posto tanto inospitale abitino persone gentili e aperte. Anche nel momento buio che stiamo vivendo, nella Bassa si può contare su un sorriso accogliente, un accento morbido e una fetta di qualche variante di quello che da me si chiama bisulàn, magari intinta nel Lambrusco, come da tradizione.

Tutto questo preambolo mi serve per dire che a Soliera, in provincia di Modena, da giovedì 4 a domenica 7 luglio non ci sarà la nebbia e ci sarà il festival Arti Vive. Nel segno dello spirito della Bassa, non conterrà soltanto la bella musica di Anna Calvi, Cloud Nothings e Sharon Van Etten, ma anche una performance unica intitolata Mediterraneo, ideata dal producer Machweo insieme al circolo Mattatoyo di Carpi come allegoria dello spirito di scambio e accoglienza incarnato dal mare che le dà il nome.

Mediterraneo sarà sabato 6 luglio e sarà irripetibile. Sul palco ci saranno dieci musicisti, alcuni dei quali non avranno mai suonato insieme agli altri, e improvviseranno liberamente, sperimentando così in diretta davanti al pubblico l'importanza della comunicazione, della coesistenza, del riconoscere gli spazi, le caratteristiche e le espressioni degli altri. E soprattutto, si tratta di dieci musicisti fortissimi. Due gli ospiti stranieri d'eccezione: James Holden, che nella sua brillante carriera ha sperimentato con la musica in tutte le sue forme, dalla freddezza dell'elettronica allo spiritual jazz più bruciante; ed Emma-Jean Thackray, polistrumentista e compositrice che si è fatta notare come una delle voci più singolari del new-jazz londinese. Tra gli ospiti italiani, oltre a Bienoise, la sassofonista Laura Agnusdei (Julie's Haircut, Any Other), il pianista jazz Giulio Stermieri, e Flu, componente del duo indietronico Inude.

A dirigere tutto sarà Machweo, con la sua sezione ritmica di fiducia composta da Antonio Rapa e Dario Martorana. Il compositore e producer italiano aveva già esplorato questo modus operandinel suo ultimo disco Primitive Music, un unico viaggio meditativo che usa la ripetizione per ipnotizzare e l'approccio improvvisato per dipingere uno scenario spaziale.

A partecipare all'evento ci sarà anche il DJ, producer ed esploratore geo-musicale Populous, che nei suoi album ci ha fatti viaggiare dal Sahara alle Ande. Per capire un po' che cosa c'è dietro a questo progetto, ne abbiamo parlato con lui e ci siamo fatti preparare una playlist in esclusiva che interpreta in vari modi il concetto di Mediterraneo.

Noisey: Qual è la prima cosa che hai pensato quando sei stato chiamato a partecipare a Mediterraneo? Hai accettato subito?
Populous: La prima cosa che ho pensato è stata che sono molto più vicino a Tirana e a Zante che non a Pordenone. Potevo mancare ad un evento chiamato Mediterraneo? Io credo di no.

Mediterraneo è un progetto dal forte sottotesto politico. Come ti trovi in questo contesto? Senti una responsabilità, come artista? Pensi che più musicisti dovrebbero prendere posizione su temi controversi come quello dell'immigrazione?
Solitamente non parlo molto di politica. Tuttavia stiamo vivendo davvero un momento molto buio, desolante, avvilente. Non schierarsi pubblicamente in questo periodo storico sarebbe una grave mancanza nei confronti di una nazione che ha bisogno di aiuto.

Qual è il tuo rapporto con l'improvvisazione? È una pratica che hai già usato in passato o si tratta della prima volta?
Ragazzi, suono tutti gli strumenti. Tutti malissimo. Forse con la chitarra riesco a suonare "Polly" dei Nirvana. Ma tanto posso sempre fare delle note a cazzo e dire che faccio jazz! Scherzi a parte, per non rovinare la performance dei ragazzi credo che suonerò il triangolo. O le maracas.

Farete qualche prova prima del live o sarà una specie di salto nel buio?
Anche se suonerò delle percussioni ho chiesto comunque di fare delle prove tutti assieme.

C'è qualcosa per cui provi più curiosità e più paura rispetto alla performance?
Ho totale fiducia in Giorgio [Machweo] e so che non mi avrebbe mai coinvolto in nulla di minimamente approssimativo.

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Il flyer di Mediterraneo, cliccaci sopra per avere più informazioni

Qual è stata la situazione più strana e stimolante in cui hai suonato dal vivo?
La più strana è quando mi sono rifiutato di suonare in una discoteca (perché appunto era davvero troppo discoteca) e i proprietari mi hanno minacciato, buttato fuori dal locale, sequestrato l'auto e molte altre cose terribili. La più stimolante sicuramente andare a suonare musica sudamericana in Sudamerica. Cioè mi sono chiesto mille volte: cosa penseranno i messicani di un italiano che è lì a suonare musica messicana?!? È andata super bene, dunque non mi interessa più conoscere la risposta.

Il tuo lavoro di ricerca è noto, sei un famoso "digger". Che suoni ti attirano di più di recente?
Uno dei sottogeneri più interessanti che mi sia capitato di ascoltare è il future reggaeton. In generale sono molto triste quando vedo gli italiani che buttano merda sul genere solo per aver ascoltato due o tre pezzi. Io ci ho sempre visto delle potenzialità notevoli. Poi è chiaro che oggettivamente alcune cose siano di pessimo gusto. Ma bisogna scavare e studiare prima di giudicare. Grazie ad alcuni amici king del settore mi capita sempre più spesso di ascoltare baile funk, dove all'interno si possono scoprire soluzioni ritmico-sonore davvero innovative.

Quindi dobbiamo aspettarci molto reggaeton e baile funk nei tuoi nuovi lavori? Stai preparando un nuovo album, puoi dirci qualcosa su quello che ci sarà dentro? Stai collaborando con altri artisti?
In realtà mi sto un po' allontanando da tutto lo spirito festaiolo di quelle produzioni. Azulejos è stato un disco preso bene che rifletteva un momento preso bene della mia vita. Gli ultimi tempi non hanno avuto lo stesso impatto benefico sulla mia musica. Sarà un disco sempre esotico, ma molto più dark e spettrale. Dentro ci saranno solo featuring femminili. Io e un esercito di ragazze!

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Quella volta che Neffa intervistò Franco Battiato su MTV

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Nel 1998 Neffa aveva già pubblicato i due dischi che avrebbero inciso il suo nome nella pietra della musica italiana, Messaggeri della Dopa e 107 Elementi. A breve avrebbe fatto quella pazzata di Chicopisco, poi "La Mia Signorina" e sarebbe diventato uno di quei musicisti che anche tua nonna conosce.

Nel frattempo però Neffa fece anche il presentatore. MTV Italia lo chiamò a dirigere Sonic, un programma in cui essenzialmente era chiamato a intervistare persone. Nel video che abbiamo trovato qua sopra, uno dei pochi sopravvissuti al passare degli anni, la persona con un microfono in mano è Franco Battiato.

I due parlano di come scrivere testi difficili e farli comunque cantare alla gente, di cosa succedeva nell'Italia di vent'anni fa, di come tenere l'equilibrio: sia tra musica leggera e di ricerca, sia a livello emotivo. Non male, dato che abbiamo ancora freschi nella memoria quegli anni bui in cui i rapper venivano fatti comparire in TV solo per farli sembrare dei tamarri che facevano yo yo.

Oggi le cose vanno meglio, nonostante qualche battaglia contro i mulini a vento di Striscia La Notizia e simili. I rapper fanno i giudici ai talent show e vengono intervistati come gli artisti veri che sono, ma è bello pensare che vent'anni fa MTV decise di dare a un MC un microfono in mano e fargli, semplicemente, fare una bella intervista a un Battiato in grande spolvero, come dimostra questa classifica delle cinque migliori frasi da lui pronunciate nel video:

1) "Devi essere ben misero ad avere invidia del talento di un altro."
2) "L'Italia è dai tempi dei Gesuiti il popolo degli inganni, dei sotterfugi."
3) "Non sono un nostalgico, amo il presente... ma parli anche di secoli passati? Di questa vita?"
4) "L'unica certezza che ho è che non mi piacciono né il sadismo né il masochismo."
5) "A volte credi di avere un successo reale ma non è quasi mai reale. E questo è molto divertente, non è traumatico."

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Hanno leakato un pezzo di Kanye West e Post Malone, "Fuck The Internet"

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Post Malone e Kanye West hanno collaborato per la prima volta in "Fade", il pezzo di chiusura (prima che arrivasse "Saint Pablo") di quel capolavoro che fu The Life Of Pablo, un brano sudato e danzereccio. Adesso una loro nuova collaborazione è stata leakata online ed è ascoltabile, per il momento, a questo link.

Come riporta Genius, il brano era già stato fatto circolare un paio di anni fa ma era svanito. È leggermente ironico che nel testo Post dica letteralmente "Da quando hanno leakato la mia roba sono in paranoia, mi chiedo sempre se uscirà su internet". Ops! Sempre che non si tratti di un'operazione commerciale architettata dai due. O di un'interferenza degli hacker russi per distogliere l'attenzione da qualche malefatta di Donald "Treezy" Trump.

In ogni caso, la canzone non è niente male. Post Malone è zuccheroso e ironico, Kanye West distaccato e cool, i ritornelli fanno sognare e la produzione abbonda di scintillanti muri di synth riverberati. L'unica cosa che non si capisce è perché sembri prodotta alla perfezione e pronta per uscire, ma la strofa di Kanye sia scritta a metà, con molti versi riempiti con suoni a caso e "bla bla bla". All'interno della redazione si è creato un dibattito tra chi crede che la strofa sia finita così e sia la solita trollata di Kanye e chi crede che abbia messo giù del nonsense a caso in attesa di scrivere un vero e proprio testo, e il leak sia uscito a canzone non finita.

Tra una cazzata e l'altra su quanto le donne apprezzino la loro dotazione genitale, comunque, entrambi ci tengono a farci sapere che Internet è una cosa che ci fa diventare stupidi. "Instagram eccetera, si fanno la spia da soli / Bla bla bla come ti senti e io lo so / È troppo, ancora oh no no no mi ricorda / Ma probabilmente sarò l'ultimo a saperlo / Perché non guardo più internet" rappa Kanye, che a me viene da dire "amplia un po' il concetto" ma chi sono io per mettere in discussione il genio. E poi si capisce, dai.

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Quanto ci piacciono gli Uccelli

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C'è questo canale di YouTube che si chiama Superblutone. A schiacciare "pubblica" sui video che ci puoi trovare c'è Davide Panizza, un ragazzo che da una decina d'anni fa musica un po' da solo e un po' con i suoi amici, e si chiama Pop X. Nella mia mente per lui quel canale è come una di quelle scatole da scarpe in cui cominci a mettere le cose che non sai dove mettere ma vuoi tenere lì con te, siano preziose come la lettera di un amore o banali come un biglietto usato.

Da quando Pop X è uscito da internet ed è entrato nella vita di un sacco di persone (cioè dal 2016, anno di uscita di Lesbianitj per Bomba Dischi e di quella hit che è stata "Secchio") Superblutone è rimasto un luogo per pochi. Quelli che si gasano a vedere, per esempio, Davide suonare in sala prove versioni da 9 minuti dei suoi pezzi. Lì sopra c'è un video, registrato a Montecchio in provincia di Pesaro e Urbino, che si chiama Uccelli "Live Session": al suo interno Davide suona dei suoni strambi insieme a Niccolò Di Gregorio aka Barbara, membro del suo gruppo, e un ragazzo che si chiama Gioacchino Turù e fa musica molto pazza e bella.

Loro tre, insieme, sono appunto gli Uccelli. Un progetto parallelo a Pop X che può partorire mine eurodance come esplorazioni a tentoni nel buio dell'improvvisazione. Fino a qualche tempo fa vivevano solo sui palchi, gli Uccelli, lì a sfregiare il cielo del suono con le loro traiettorie un po' sghembe. Ora stanno cominciando anche ad appollaiarsi in studio: prima hanno fatto uscire un pezzo che si chiama "Body Sharing", e ora uno nuovo che si chiama "Red Sex" e potete ascoltare qua sotto. Appena dopo potete leggere la chiacchierata che ci siamo fatti quando sono venuti in redazione a presentarcelo. È la prima che fanno tutti assieme.

Noisey: Ho come l’impressione che Uccelli sia una cosa che non ha tanto bisogno di interviste. Cioè, che andare a problematizzare o superanalizzare quello che fate sia contrario al suo spirito.
Niccolò Di Gregorio:
C'è anche voglia di fare un certo tipo di musica, non è proprio caos totale. Ma fare improvvisazione con degli strumenti senza usare computer è una scelta.

C’è stato un momento in cui gli Uccelli si sono staccati da Pop X?
Davide Panizza:
Gli Uccelli sono nati indipendentemente da Pop X, a casa di Gioacchino.
Gioacchino Turù: Sì, da me a Firenze. C'è un locale, il Volume, dove io facevo rassegne. Ero superamico del proprietario. Avevamo bisogno di due soldi quindi un giorno lo chiamai proponendogli di farci suonare. E così quando non sapevamo che cosa fare andavamo a fare Uccelli.
Davide: In quella serata ci inventammo un setup ad hoc per poter giustificare... il nostro guadagno! Abbiamo raccolto qualche strumento dalla sala prove di Gioacchino a Firenze e siamo andati a suonare.

Com'è che vi siete conosciuti? Tu, Davide, sei di Trento. Gioacchino è di Firenze. E di mezzo c'è anche Pesaro, se non sbaglio.
Davide:
Sono tutte storie abbastanza antiche. Io avevo incrociato Gioacchino ormai dieci anni fa, in una serata metal in un locale a Pesaro. Lui suonava con il suo progetto Gioacchino Turù e Vanessa V. e io suonavo come Pop X, era il periodo in cui eravamo solo io e Walter Biondani. Il collante poi è stato Mirko dei Camillas. A lui piacevano i nostri progetti singolarmente e a un certo punto ha deciso di farci suonare, dato che aveva in mano diverse serate nella zona di Pesaro. Chiamava ogni tanto me, ogni tanto Calcutta, ogni tanto Gioacchino...
Niccolò: Anche noi con i Mela! Roba di nicchia della zona proprio. E Le Rose, Flavio Scutti da Milano...
Gioacchino: E gli Istituto Luce! E i Chewingum di Senigallia, quelli del ragazzo che ora è Colombre.

uccelli pop x
Fotografie di Luca Babic

Per uno che non l’ha vissuta quella scena di Pesaro sembra una sorta di cosa assurda e pazza ma piena di musicisti che poi hanno cominciato davvero a dettare la linea.
Gioacchino: Mirko si auto-definirebbe "un generatore di luce". Che poi il loro primo gruppo erano gli Aerodynamics e facevano elettronica abbastanza... dance.
Davide: E in più Mirko aveva questo negozio di dischi, il Plastic, che era un po' un luogo di ritrovo anche culturale. Il motivo per cui sono uscito da Trento è stato lui, che mi chiamava a suonare. Era arrivato via internet alle mie cose, mi ospitava giù a casa sua, facevo concerti, mi dava un po' di soldi. Era un giro un po' per poveri, ma gente che comunque stava crescendo al di fuori di logiche di mercato.
Niccolò: C'erano quasi più concerti a Pesaro che a MIlano all'epoca. Non era ancora venuto fuori l'indie.
Gioacchino: Che poi gli Uccelli sono un po' anche i Free Willy.

I Free Willy? E chi erano i Free Willy?
Davide:
I Free Willy eravamo io, Niccolò e Calcutta. Abbiamo delle cose online, la cover di "Bailando" dei Paradisio...
Gioacchino: La più bella è "Free Jazz", un cazzo di capolavoro.

Torniamo agli Uccelli: che cosa sono, tecnicamente, gli Uccelli per voi? E a cosa vi servono?
Gioacchino:
Uccelli a un certo punto era anche qualcosa di abbastanza libero, chi trovavamo suonava.
Davide: Chi voleva veniva, si attaccava con il suo strumento e suonava insieme a noi.
Niccolò: È che viviamo lontani, ognuno porta avanti le sue cose, e quando ci troviamo sfoghiamo i nostri percorsi personali.

Chiedevo perché magari da quando Pop X è diventato una cosa più grande, Davide, ti è venuto fuori il bisogno di buttare da qualche parte le cose più weird che ti escono.
Davide: Ma è una missione culturale la nostra. Magari la musica di Uccelli la potresti mettere all'interno delle etichette di nicchia, di elettronica berlinese, ci assomiglia. Però cerchiamo, al di là del contenitore, di proporre quello che veramente vogliamo proporre al di là dell'ambiente. Abbiamo i contatti per proporlo in questo ambiente qua e quindi lo facciamo, senza problemi, senza cercare l'etichetta del malato...
Gioacchino: Che poi siamo Uccelli liberi, un'etichetta non ce l'abbiamo. E la musica è variabile. Prima facevamo una cosa più weird, e noise.

uccelli pop x
Fotografie di Luca Babic

A proposito, su Superblutone c'è un video di voi che fate una live session. Sotto ci sono i seguenti commenti, rispondiamogli come in un People Versus. 1) “Uccellano Berio ”.
Davide: Ci sta! C'è stato un periodo in cui volevamo dare un'immagine di Uccelli come vecchi compositori in uno studio di fonologia, musica elettroacustica...

2) “Beh, si va tutti a Lugano se il setup è questo. Piero Umiliani viene in macchina con me!"
Gioacchino: Ma infatti in quel pezzo lì c'è un campione di Umiliani!
Niccolò: Le ispirazioni sono quelle, giustamente. Da un lato questa musica un po' più colta, del Novecento, e dall'altro la sperimentazione elettronica più moderna.
Davide: Dipende un po' anche dagli strumenti.
Gioacchino: In fondo Uccelli è un po' come uno standard jazz. Siamo come anziani che si ritrovano a suonare il jazz, ma con le macchine.

Spiegatemi un po' questa cosa. Voi salite sul palco: cosa fate?
Niccolò:
Beh, iniziamo! Abbiamo dei ruoli.
Davide: Negli ultimi live abbiamo tenuto una strumentazione un po' più stabile.
Niccolò: Io suono i synth modulari. Faccio bassi, melodie, ed effetti.
Gioacchino: Io uso YouTube, sia come fonte percussiva sia come sorgente da cui campionare. E poi una vecchia macchina per fare eurodance. Uno Yamaha con quei suoni. Ha dentro tutti i preset acid house, scegli tu cosa dargli e ti crea quei pattern lì. E uso anche i nastri.

Altro che William Basinski!
Niccolò:
In effetti c'è tanto materiale con cui lavorare ogni volta. Quindi non sappiamo mai bene come uscire, improvvisando così tanto vengono fuori sempre cose molto diverse.

E allora come lo mettete giù su disco?
Davide:
Eh! È quello il problema, non ha molto senso farne uno. Abbiamo provato a trovarci un paio di volte a fare delle sessioni di registrazione. Una volta è venuto fuori "Body Sharing", un'altra è venuta fuori "Red Sex".

uccelli pop x
Fotografie di Luca Babic

C’è questo pezzo uscito a ottobre 2018 che si chiama "SCPACE" ed è a nome “AUDI”, Davide e Niccolò. Mi sembra molto simile a Uccelli, anche a livello di estetica.
Niccolò:
Non è che adesso dobbiamo parlare di tutto... AUDI era un parallelo di Uccelli in cui registravamo tutto con il telefono.
Davide: Era nato tutto quando ci eravamo trovati a casa tua, con quel setup con io alla melodia...
Niccolò: C'è un video su YouTube in cui facciamo un pezzo che si chiama "Bangladesh"...

Ragazzi, quella versione di "Bangladesh" è clamorosa. È un capolavoro.
Davide:
Piace anche a mio padre quella! Bè, quella era l'idea di AUDI. Io e Niccolò che lavoravamo insieme dal vivo, ma sul materiale armonico e melodico di Pop X.
Niccolò: Che alla fine sta diventando forse un po' il nuovo live, vuoi o non vuoi.

Quando siete sul palco le cose possono andare male? Come quando un DJ sbaglia una transizione tra due pezzi?
Niccolò:
Quello è un errore. Per noi è un modo di porsi.
Davide: È partire dagli errori e dal caos per costruire. Anche per l'ascoltatore è molto più interessante, alla fine una cosa più è complessa e più l'apprezzi.

Il pubblico davanti lo avete trovato aperto, che assorbiva queste cose?
Luca Babic [che è stato presente fin dall'inizio ma era stato in silenzio, nda]:
Se vuoi ti rispondo io. Per me sono una cosa che forse non mi piace ma da cui non riesco a staccarmi. A guardarli ti viene voglia di scoprire come la risolvono.
Gioacchino: Concerti terribili terribili li abbiamo fatti quando non c'era nessuno.
Davide: Non si può valutare questa cosa, non ti può piacere o non piacere. Devi ascoltarci o far finta di niente, è musica generativa.

Quindi dal vivo può uscire una cosa ballabile come una cosa tutta blip blop.
Niccolò: Certo, ma è un continuo alternarsi tra le due cose.
Gioacchino: A Pesaro al festival del cinema abbiamo suonato davanti a un pubblico seduto, per dirti.
Davide: Stavamo sonorizzando dei visual di Pietro, Superinternet. Lui con noi ha usato un programmino che reagisce all'audio che lanci e continua a generare immagini, con cambi di colore e forme.

uccelli pop x
Fotografie di Luca Babic

Ve lo chiedo perché non so bene come vi prende il pubblico. Magari quattro anni fa a vedervi veniva chi sapeva già cos'era Pop X, mentre oggi presumo arrivi anche gente che vi ha scoperti con Lesbianitj e quindi si aspetta di vedere una certa cosa.
Davide:
Uccelli quattro anni fa non veniva nessuno a vederli! Comunque c'è sempre qualcuno che se ne viene fuori con un "metti su Secchio", però sempre meno.
Niccolò: Spesso vengono a vederci convinti di vedere Pop X. Poi gli spieghiamo che è un'altra cosa e dopo il concerto sono stragasati, perché magari si rendono conto che è più figo andare a un concerto e ascoltare qualcosa di nuovo che non ti aspetti, invece di andare lì per "Secchio". A me rincuora a livello spirituale, fare questi concerti. Uscire totalmente dall'idea di riprodurre un live ad infinitum.
Davide: Poi io nell'ultimo tour, in cui abbiamo suonato dal vivo, mi sono sentito libero quasi quanto con Uccelli. Resta che ripetere le stesse canzoni di serata in serata è disumano.

Voi com'è che, in origine, vi siete presi bene con la musica pazza?
Niccolò: Chi studia musica per forza approda a queste cose. Io ho fatto musica elettronica al conservatorio di Pesaro.
Gioacchino: Io da ragazzino avevo una cassetta dei My Cat Is An Alien, un gruppo noise italiano storico. Ascoltavo quella roba e volevo farla anch'io... insomma, alla fine come ci arrivi? Ascoltandola. Poi che Giacinto Scelsi lo scopri andando a scuola ci sta, diciamolo. O in televisione! Stanno dando su Rai 5 C'è musica e musica di Berio, in questi giorni.
Davide: Andando alla ricerca di cose nuove, volendo alzare l'asticella del tuo ascolto. Non so se ci sarei arrivato se non avessi studiato musica.

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Nostro malgrado, Matteo Salvini è l'uomo del giorno. Ok, l'uomo dell'anno. Ieri la Lega, il partito da lui guidato, si è affermato come prima forza politica in Italia alle elezioni europee, e questa non è una buona notizia se sovranismo e xenofobia non fanno per te.

Ma la politica si fa nella vita di tutti i giorni, non soltanto alle urne, e la musica non è esclusa: per questo, abbiamo preparato una lista dei nostri versi preferiti su Salvini scritti dai rapper italiani. Si va da una splendida similitudine sentimental-secessionista di Rocco Hunt allo stiloso bragging di Ghali, dalla nostalgia di un'Italia diversa evocata da Don Diegoh al futuro multicolore predetto da Tommy Kuti.

L'odio manda in para, quindi resisti e usa l'amore.

Rocco Hunt, “Se Mi Chiami”

“Sono contento che è finita quella storia con lui / Tu che fingevi di amarlo come Salvini col Sud”

Principe, in “Odia Gli Indifferenti” di DJ Fastcut

“Il mio sogno nel cassetto non è stato rimosso / Salvini sappia che a Piazzale Loreto c’è ancora posto”

Nayt, “Se non rappo”

“Vorrei che Matteo Salvini fosse costretto a emigrare / Non posso dire queste cose in un disco ufficiale”

Ghali, "Dende"

“Chi è il migliore? Dillo, tu mi batterai / Il giorno che vedrai Salvini ai miei live”

Nitro, "VLLBLCK"

“La storia dell’uomo nero / Ora porta spavento ai bambini / È l’effetto Salvini”

Tommy Kuti, "Politica"

“Salvini c’hai rotto le palle / Sono un fratello d’Italia / Attraverso il mare, cappello di paglia / Ho preso una laurea / Mentre guardi Temptation Island”

Don Diegoh & Macro Marco, "Sigarette Morbide"

“Da prima che ascoltassi il primo EP dei Cor Veleno / Lontano dall'Italia di Salvini, di Sanremo / A inseguire i sogni con il culo sopra a un treno”

Microspasmi, "Segni"

“Fosse un disegno preciso lo capirei / Se tacesse Salvini e rappasse ancora Mc Eiht”

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