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Sono stata al concerto di Noname con Madame

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Capita, in realtà quasi mai, che scrivendo un’intervista si immagini/auspichi per essa un destinatario ben preciso. Chiacchierando con Madame, 17 anni da Vicenza (dato anagrafico questo che, nello sfortunato caso in cui fossi stata una teen-mom, avrebbe potuto fare di lei mia figlia) ho sentito crescere il desiderio di fare leggere quanto segue non tanto ai suoi, quanto ai miei coetanei. Perché mi pare, avendoci talvolta mio malgrado a che fare, che tra quest’ultimi serpeggi un sorta di repulsione a priori (diffusa, per altro, a tappeto anche tra gli over 40, ma a ben guardare anche in una buona fetta di ventenni, insomma, un casino) nei confronti degli adolescenti. Perché la trap, i social, la trap, la trap, bla bla bla.

E così tocca sentire gente non qualunque, ma che lavora nel settore, incensare Cosmo, per esempio, e allo stesso tempo rifilarti il pistolotto moralizzatore sui vari Sfera e Capo Plaza perché “parlano di droga”. Tocca, davvero, beccarsi il mugugnare di DJ, musicisti e organizzatori di eventi che rimpiangono Manu Chao e respingono in blocco un intero genere, dicendo, non senza una certa fierezza, che "io quella roba non l’ho mai neanche ascoltata”. Ecco, a queste persone, a cui sfugge l’innegabile equazione per la quale il modo più rapido e senza ritorno di invecchiare è quello di terrorizzarsi e fare muro davanti ai giovani e alle loro passioni, vorrei far leggere le parole di Francesca in arte Madame.

Nemmeno maggiorenne, Madame ha già trovato il coraggio di buttarsi in una mischia in stragrande maggioranza maschile, senza accodarsi a suoni e temi già canonizzati, ma con un linguaggio del tutto nuovo, che per ora ha preso forma prima nelle pieghe sinuose di “Anna” e poi in quella bomba ipnotica che è “Sciccherie”. Con quel singolo, che ci ha fatto puntare gli occhi dritti su di lei e la sua chioma selvatica, facendoci pensare, come abbiamo scritto qualche mese fa, di avere davanti “non la prossima rapper del momento, ma un nuovo modello di rapper. E questo perché non assomiglia per niente a tutte le rapper del momento. Il suo punto di forza è proprio il suo essere sopra le righe, un elemento di rottura nella scena, con la sua genuinità e il suo anticonformismo in punta di piedi”.

Ora che anche Sugar ha captato le frequenze ad altissimo potenziale di questa artista, scoperta in primis dagli Arcade Boyz, i mesi a venire saranno di sicuro densi di cose; quali e quando, però, in teoria, era l’unico argomento da skippare, in un’intervista all’insegna della massima libertà. In origine credevo e un po’ temevo che io e Madame saremmo state attentamente sottoposte a vigilanza multipla, perché mi avevano avvisata che si sarebbe presentata in Santeria con genitori e amica del cuore al seguito. Ma il suo addetto stampa Luca è stato parzialmente preso in ostaggio dalla logorrea del sempre meno misterioso fotografo di Noisey, mentre mamma e papà non avevano alcuna intenzione di ascoltare la sottoscritta chiacchierare con la figlia, ma solo di cenare il prima possibile. Ho, invece, ritrovato parecchie puntate di Concertini, da Roshelle a Ghemon, presenti, così come moltissimi altri musicisti (Mahmood, Francesca Michielin, Tommy Kuti) all’unica data italiana della queen di Chicago, Noname. E proprio da lei, che è da poco uscita dall’anonimato con quel gioiello di disco che è Room 25, sono partita a parlare con la Madame.

madame intervista concerto
L'autrice e Madame

Noisey: Stasera si esibisce Noname: sei sua fan o sei qui più per curiosità?
Madame: La seconda. Mi piace scoprire gli artisti di primo impatto, senza conoscerli in modo approfondito, per vedere che effetto mi fanno. Oggi, comunque, ero in studio da Don Joe e Roshelle, che è presa benissimo dal live di stasera e m’ha fatto ascoltare dei pezzi di Noname. M’è sembrato una bella bomba.

Ti capita spesso di andare a concerti?
Sinceramente no, perché sono un po’ un lupo solitario. A volte scherzando dico che ho scelto di fare l’artista per non stare in mezzo al pubblico, ma per stare sul palco, da sola. Scherzi a parte, il motivo principale per cui non vado a così tanti concerti è che c’è troppa gente, la ressa mi dà un senso di soffocamento.

Sei claustrofobica anche tu?
Abbastanza.

Piccolo test di misurazione del livello di claustrofobia della Madame: ti chiudi a chiave nei bagni?
Molto spesso, sì.

L’ascensore lo prendi?
Dipende. Quello di casa sì, quelli super vecchi, con le corde a vista che vanno su e giù, mi fammi impressione e se posso evito. Diciamo che più degli spazi chiusi accuso la folla.

Okay, allora stasera stiamo in fondo.
Sempre!

Senti, mi racconti come sei stata accolta, così giovane e femmina, nella scena rap italiana?
Molto bene. Innanzitutto, va detto, sono stata introdotta da due youtuber, che sono gli Arcade Boyz, che ho corteggiato a lungo mandandogli bozze e pezzi, finché non sono riuscita a farli innamorare di “Sciccherie”. Da lì sono entrata in Arcade Army Records, e da quel momento i numeri hanno iniziato davvero a crescere. Il primo artista che mi ha scritto per complimentarsi è stato Garfo, poi ha iniziato a seguirmi Night Skinny, e poi è diventato tutto incredibilmente veloce, un piccolo passo alla volta sì, ma ogni passo era sempre più violento, in senso buono, e infatti il mio motto è proprio “lenti ma violenti”.

Me lo spieghi?
Fare le cose senza fretta, ma che siano quelle giuste, precise, che colpiscano. Un modo di vedere la musica che condivide anche Tredici Pietro, il terzo in ordine di tempo che mi ha scritto per dirmi che apprezzava “Sciccherie” e che è diventato un mio grandissimo amico, e questa è una delle cose più belle successe finora.

madame sciccherie
Uno screenshot dal video di "Sciccherie", cliccaci sopra per vederlo su YouTube.

Quindi non hai avvertito chissà che machismo tra i tuoi colleghi?
No, per nulla, ma io non sono esattamente la femmina… Femmina. Sono un po’ a metà: per dire ho sempre giocato a calcio, ho sempre ascoltato rap, ho sempre avuto amici maschi, non sono mai stata nella categoria “donna che sta con le donne”, e penso che questa cosa mi abbia parecchio aiutata a stringere buoni rapporti con i rapper. Faccio subito ballotta con i maschi, e loro, forse, non mi vedono tanto come una possibile partner, ma come una sorella. Pregiudizi nei miei confronti non li ho mai avvertiti, anzi, a volte mi sembra quasi di essere la più elogiata, proprio perché dicono “wow, è donna è fa ‘ste cose, ma spacca”. Io me la vivo proprio bene questa diversità dal genere predominante sulla scena.

Invece come vivi il cambiamento che, immagino, la notorietà ha portato nel tuo quotidiano?
Non parlerei di notorietà, perché non sono famosa, sono conosciuta da un po’ di gente che ama il genere che faccio. Spero di diventarlo, ma per ora volo basso, anche se sì, la mia vita è cambiata tantissimo. C’è un lavoro, ora, che fa parte in modo massiccio delle mie giornate, e da quando questo è diventato un lavoro mi sono sentita davvero catapultata in un’altra dimensione rispetto alle mie coetanee.

Ti senti più adulta?
Sicuramente. Ma quello già da prima della “notorietà”, forse perché vengo da una famiglia con genitori quasi sessantenni e ho un fratello di 25 anni, e sono sempre stata con i più grandi. Non ho fatto la prima elementare, e sono passata direttamente in seconda perché secondo le maestre sarebbe stato un anno sprecato.

Nessun effetto collaterale?
Per me è stato fantastico, anche se l’anno scorso sono stata bocciata perché mi sono presa un anno sabbatico dal liceo di scienze umane, abbandonandomi alla vita [ride].

E com’è un anno sabbatico a 15 anni?
Durissimo, in realtà. Un anno di tribolazioni vere e di ossessione per la musica. La musica è sempre l’origine di tutto, nella mia vita. Quell’anno, in sostanza, avevo trovato uno studio a Vicenza, con persone prese benissimo da quello che facevo e quindi ho iniziato a fare musica tutti i weekend e durante la settimana pensavo solo a quello. Di studiare, in quella fase lì, non me ne importava granché.

Facevi già rap?
Sì, sì. Poi dal rap sono passata alla trap ma la trap mi ha fatto schifo. Cioè, spiego: mi faceva schifo parlare di cose finte solo perché i temi che andavano erano quelli e dovevo adeguarmi. Mi faceva ridere fare delle canzoni dove parlavo di, per dire, vestiti che non avevo e magari manco mi interessava avere. Le mie canzoni trap finivano sempre per essere conscious, mentre il mio produttore di allora voleva che rimanessi sui soliti stereotipi, perché era proprio il momento di boom di Sfera, Dark Polo Gang eccetera. Poi sono andata in studio con Anna, nel senso che lei è proprio venuta con me fisicamente perché è un persona vera in carne e ossa, e volevo scrivere una canzone per il suo compleanno e, ovviamente, è venuta fuori “Anna”. Quel pezzo mi ha fatto capire con più chiarezza il genere che sentivo come mio. Scusa, sono logorroica. Per tornare alla domanda sull’anno sabbatico: se paragono il lavoro di oggi al “lavoro” di due anni fa, c’è una distanza abissale, quindi ti rispondo onestamente dicendoti che scrivevo quando ne avevo voglia, il resto del tempo dormivo, guardavo Netflix, fumavo. Ora basta, ho chiuso quella parentesi e ne ho aperta un’altra.

Oggi hai capito come gestire la scuola e la musica?
Abbastanza. Mi sono concessa quella pausa, e poi mi sono detta “okay, a posto, ora c’è da tirarsi su le maniche e fare tutto, sennò sono guai”. Poi da quando è arrivata Sugar ho capito che si stava facendo sul serio, e che non potevo più cazzeggiare in nessuno dei due ambiti. Sai, quando senti il nome di Caterina Caselli ti dai una bella raddrizzata. Persino mia mamma, che non ha mai creduto in questo percorso, grazie a lei s’è convinta che stavo davvero realizzando qualcosa.

madame intervista concerto
L'autrice e Madame

Quindi ora i tuoi accettano che farai musica nella vita?
Di più: supportano e apprezzano. Mio padre è il mio fan numero uno, mia madre inizia ad entusiasmarsi, il che è un risultato incredibile, dato che lei non ascolta mai musica.

Non sei cresciuta in mezzo ai dischi, dunque?
Sì, mio padre suona chitarra e pianoforte e sa tutto il repertorio di De André a memoria e mi ha passato questa passione per la musica italiana, per i cantautori. E di fatti ascolto ancora pochissima roba americana e moltissima italiana. E quando ho voglia di spararmi un capolavoro, torno parecchio indietro nel tempo, perché tra le cose contemporanee di capolavori non ce ne sono granché. A parte le cose di Izi e Rkomi, che sono i miei idoli assoluti.

Izi sta per tornare con un disco che mi dicono essere molto intimo, con dentro molta spiritualità. Che effetto ti fa?
Mi gasa moltissimo. Quando una canzone è introspettiva magari piace meno al grande pubblico, ma alle persone a cui arriva può cambiare la vita. Sia in Fenice che in Pizzicato le mie canzoni del cuore sono quelle con meno ascolti su Spotify.

In uno stand up di Netflix un comico italiano che si chiama Francesco De Carlo ha detto che la religione ammazza la nostra spiritualità, imponendo, vietando, mettendo tutta una serie di dogmi da rispettare che travisano il messaggio. Sei d’accordo?
Io sono nata in una famiglia cattolica, i miei sono credenti, anche se mio padre è più scettico (io, infatti, sono molto più simile a lui che a mia madre), domani che è Pasqua andranno a messa, io no. Però non sento di non avere alcuna spiritualità. Prima ho parlato di De André: lui era molto religioso, ma era al contempo anche super spirituale, e lo era facendosi mille pare mentali, mettendo in discussione quello che la Chiesa diceva, ma dandole, alla fine, anche ragione. Perché è vero che ci sono i dogmi, le regole, gli obblighi, ma in fondo c’è sempre un messaggio di amore: amare l’altro, amare se stessi. E secondo me quando si impara ad amare, le regole diventano automatiche, perché di base dicono non tradire, non rubare, non ammazzare e queste cose si fanno di conseguenza all’amore. Io, se si può dare come definizione, sono super pro-amore. Non credo in un Dio, ma se devo analizzare quello che dicono le scritture, beh, il messaggio è davvero forte, davvero bello. La Chiesa spesso lo corrompe. D’altronde la religione, come lo Stato, è sempre servita a controllare i popoli, non a far prevalere su tutto l’amore, che, se ci pensi, è il motore di tutto.

Avrebbe senso che anche la religione, come molte altre cose, oggi diventasse più fluida?
Sì, esatto, proprio così. Che non significa diventare tutti ignavi, per citare Dante, e non voler seguire nessuna bandiera, ma aprire la mente, rielaborare i concetti secondo il proprio senso del giusto e del bello, pescare un po’ di qua e un po’ di là e costruire il proprio senso delle cose. Che per me sarebbe, se non dovesse essere chiaro sufficientemente, che l’amore costruisce spiritualità e la spiritualità costruisce l’amore.

Sentendoti parlare mi chiedo ancora di più come mai ci sia tra gli “adulti” così tanta paura e così tanto discredito verso gli adolescenti. Tu che spiegazione ti dai?
Credo che la mia generazione stia portando tanti messaggi positivi, dal “se ci credi ce la fai”, che sento molto più forte e, appunto, credibile di prima, al fatto che c’è un’apertura mentale atomica, su grandi temi, come la sessualità, la razza, tutto, e questo è super positivo. Poi, magari, siamo parecchio individualisti, non crediamo tanto nella famiglia, nei valori tradizionali, ma smaniamo per raggiungere i nostri obiettivi.

E le ragazze come le vedi?
Le vedo belle concentrate. Non sognano più il matrimonio da principessa, ma sognano di diventare importanti, di fare politica, di diventare chirurgo. Non c’è più quel senso di “obbligo”, per esempio, del dover diventare madre: molte mie coetanee dicono tranquillamente che non lo vorranno mai essere, e questo in passato secondo me accadeva meno.

Rimanendo su tema femminile, che cosa ti chiedono di più le tue fan?
Mi chiedono soprattutto come si fa ad avere la forza per fare quello che faccio io. Poi mi dicono, più che chiedermi, anche se capisco che dietro a un “ti stimo per quello che hai fatto” c’è un sottinteso che dice “ma come ci sei riuscita? Dove hai trovato le palle per fare una roba così, a buttarti in un mondo così, andando contro corrente?”. Ecco, la domanda che in realtà mi fanno, senza farmela, è “dove hai trovato le braccia per nuotare contro corrente”. Questa scrivila perché è bellissima.

Certo. Però dimmi dove le hai trovate.
Ti rispondo con una farse fatta, anzi fattissima, ma vera: la risposta è dentro di noi. Non si tratta di conoscere le proprie potenzialità, perché secondo me uno quelle le conosce, perché se giochi a calcio e sei tu a segnare e non le tue compagne, lo sai che sei forte, no? Secondo me si tratta più di capire: “mi piace il calcio o mi piace la musica? Che cosa voglio davvero fare nella vita?” Guarda che questa cosa qui, per la mia generazione, che ha davanti mille possibilità, è difficile. Non si sa a cosa ambire. Si fa fatica e trovare un punto preciso e mirare solo a quello. Si tratta di andare alla radice della propria identità, chiedersi “Madame, ma tu fai musica per farla vedere a tutti quelli che ti hanno bullizzata da piccola, o perché ti piace davvero?”.

E c’è, una componente di rivalsa rispetto al passato in quello che stai facendo?
Sì. Non c’è solo un motivo per cui faccio le cose, ma ce ne sono tantissimi, intrinsechi, nascosti nel subconscio. Poi io studiando psicologia so quanto è incasinato il nostro cervello, e so che esiste anche una voglia di rivalsa nella mia musica.

E com’è la Madame quando sale sul palco?
Molto emotiva. Non riesco tanto a controllare le emozioni e le sensazioni. Per dire: se entro in una discoteca e c’è una persona che mi fa paura, io non ce la faccio a stare in quel posto, me ne devo andare. Prima dei live, passo mezz’ora a stare malissimo. Però dopo, sul palco, mi sento diversa, l’ansia c’è ancora, e a me arriva proprio quando la gente inizia a cantare la mia canzone, perché mi emoziono così tanto, sono così incredula che penso di non reggere. Poi respiro, riparto, mi inebrio e mi sento fattissima, tant’è che quando finisco chiedo a tutti com’è andata, perché io non mi ricordo niente. E pensa che ci arrivo lucidissima, in realtà, perché non bevo e non fumo, se non sporadicamente.

Lo fa per goderti tutto appieno?
Sì, mi prendo tutta la parte di merda e tutta la meraviglia. Perché se sei fatta mentre ti dedichi alla cosa che più ami, non stai neanche vivendo. Cazzo, sto facendo quello che mi gasa di più, e lo faccio stordita, intorpidita, sballata, che poi manco me lo ricordo? No, grazie.

Quando uscirà nuova musica?
A maggio. Vuoi sentire?

madame intervista concerto
Madame e l'autrice mentre ascoltano un suo nuovo pezzo

Ovviamente ho detto di sì, ho sentito, ma altrettanto ovviamente di questo non posso dire nulla, se non che ci ha dato spunto per riflettere sulla necessità o meno di spiegare la musica e in generale l’arte. Quando dico a Francesca che MYSS KETA, sempre in un passato concertino, mi ha detto di non avvertire più il pericolo di essere fraintesa, perché pensa che nel momento in cui si genera un’opera poi la si affida al mondo, che deve accoglierla e interpretarla, lei si dice ammirata, “perché ci vuole davvero molta sicurezza e maturità per non temere di essere male interpretati. Io ancora quella paura ce l’ho, tant’è che ho fatto un video con gli Arcade Boyz in cui spiegavo tutto “Sciccherie”, però, certo, capisco perfettamente il senso delle parole di MYSS e ambisco molto a raggiungere quella libertà. Deve dare una bellissima sensazione”.

Mentre entriamo in Santeria Social Club, sold out, e ci sistemiamo, come promesso, in fondo, vediamo Mahmood sgattaiolare verso il palco, e allora domando a Francesca se quest’ultimo Sanremo le ha fatto venire voglia di provarci, prima o poi, a salire su quel palco, e lei in un nano secondo mi ha già risposto che “sì, quello è un grande sogno. Cazzo, Sanremo, ci pensi? Sarebbe fighissimo”. E non faccio in tempo a risponderle, che le luci si spengono, per riaccendersi su un placo che Noname ha voluto bello affollato, perché il suo è un live tenuto su non solo dal suo flow e dalla sua personalità (che avercene, comunque) ma da una band più tre coristi che hanno subito portato il live su registri jazz, blues, soul. E mentre la voce di Fatimah ci racconta ora cosa brutali, ora violente, i suoi interludi con il pubblico sono, invece, pura gioia, puro divertimento, come quando, mio momento preferito, dice alla platea (che non l’ha mollata un secondo) di non giudicarla, “perché lo so che siamo nella capitale della moda, ma me non frega davvero un cazzo, per cui sono vestita così, this is my shit, non me ne vogliate”.

noname live milano
Noname

Noname porta un vero concerto, suonato, raccontato, rappato e cantato, vagamente Lauryn Hill, 100 percento Chicago, e avverto, dal senso di trepidazione di Francesca, che non è propriamente il suo. Così, alla fine, le faccio la domanda di rito che conclude il format, e le chiedo se le è piaciuto. “Sono felice di averlo visto", mi risponde mentre fumiamo l’ultima, prima di salutarci, "perché ho amato la sua intensità, il modo con cui ha comunicato di continuo con il pubblico, preso benissimo, e quella è una cosa su cui vorrei lavorare tanto anche io, che aspiro a parlare tanto sul palco, ma sento di non essere ancora pronta al 100 percento. Musicalmente mi sono mancati i momenti davvero esplosivi, le manate in faccia. Avrei voluto una zampata in più, mentre, pur essendo molto di classe e molto cool, per me è rimasto tutto troppo 'ambient'. Dovessi dare una sorta di giudizio finale, ti direi che sono molto felice di aver visto lo show di un’artista così elegante e comunicativa, ma mi è rimasta la voglia di sentire dell’arroganza, dell’aggressività”.

roshelle madame ghemon
Roshelle, Madame e Ghemon al concerto di Noname

Le chiedo se andrà a sentire Massimo Pericolo. “Sì, lui sicuro, mi piace tantissimo, e mi piaceva pure prima che esplodesse. L’unica cosa che mi chiedo su di lui è: ora che hai raccontato tutto il disagio, la depressione, la galera, la droga, eccetera, di che cosa parlerai ne prossimo album? Lo so, guardo sempre avanti e poco al presente, ma sento di vivere in un momento dove gli artisti vanno su e giù in un lampo, per cui non riesco a fare a meno di tenere ben salda la prospettiva”. Parola di Madame, 17 anni.

Carlotta è su Instagram.

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La line-up definitiva del Primavera Sound 2019

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All'annuncio della line-up del Primavera Sound 2019 ci eravamo esaltati: era la prima volta nella sua storia che chiamava così tanti artisti hip-hop e c'era un perfetto equilibrio di genere. Nel frattempo sono arrivate nuove conferme, e quindi abbiamo pensato di fare un attimo il punto su tutto quello che succederà al Parc del Fòrum a Barcellona dal 27 maggio al 2 giugno.

Qua sotto, intanto, trovate la line-up al completo: c'è da notare che Cardi B ha annullato il suo concerto ed è stata sostituita da quella superstar del pop che è Miley Cyrus.

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Una breve selezione di cose che dovreste notare: ci sono giganti della black music (Nas, Future, Erykah Badu, Danny Brown, Pusha T, Solange Knowles, Rosalía, Kali Uchis) ed esordienti coi fiocchi (Jpegmafia, Little Simz, Tierra Whack, Slowthai, Rico Nasty, 070 Shake, Cupcakke, Lizzo, la Gothboiclique, Flohio). Un intero palco, sponsorizzato da SEAT, è dedicato al rap: ci si esibiranno sopra, tra i tanti, Yung Beef e Junglepussy.

Viene dato largo spazio al reggaeton nelle figure di chi l'ha creato, chi l'ha reso inclusivo e chi l'ha portato nel mondo intero: rispettivamente DJ Playero, Ivy Queen e J Balvin. C'è poi l'avanguardia inglese nelle figure dei Sons Of Kemet e di Kate Tempest, c'è l'elettronica (Apparat, James Blake, Yaeji, Neneh Cherry, Sophie, Laurel Halo, Modeselektor), ci sono i titani dell'indie (Tame Impala, Mac DeMarco, Built To Spill, Courtney Barnett, Big Thief, Deerhunter, Guided By Voices, Dirty Projectors), ci sono il punk e il rumore (Jawbreaker, Shellac, Fucked Up, June of 44), c'è la storia della musica ambient (Terry Riley, Midori Takada). Insomma, ce n'è per tutti i gusti.

Tutto questo nei tre giorni di festival, perché nei giorni precedenti ci saranno oltre 40 concerti gratuiti di artisti del calibro di Big Red Machine, HOMESHAKE, Cate Le Bon ed Efrim Menuck dei Godspeed You! Black Emperor.

A tutto questo si aggiunge una programmazione fitta per il PrimaveraPro, incontro per gli addetti ai lavori che si svolge in concomitanza con il festival, a cui si esibiranno anche tre artiste italiane: Birthh, HÅN e i Malihini.

Se volete darvi la carica in questo mesetto che ci separa dal festival potete inoltre ascoltare una Radio esclusiva curata dal festival, che trasmette sul loro sito ufficiale. E non dovreste dimenticarvi l'esistenza del NOS Primavera Sound di Porto, che si tiene appena dopo e porta tutta la magia del festival sull'oceano Atlantico.

I biglietti per il Primavera sono in vendita sia come giornate singole che come abbonamenti.

Chi è Christina Vantzou, prodigio dell'ambient che ha cominciato per caso

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Chrstina Vantzou si esibirà a Milano lunedì 6 maggio per la rassegna Inner Spaces.

La mamma di Christina Vantzou lavorava in un museo a Kansas City. Quando non poteva starle a dietro la lasciava in un magazzino pieno di cose per fare arte—e lei le prendeva e ci faceva cose. Continuò a prenderle e a farci cose finché non si rese conto, ancora adolescente, che magari poteva farci qualcosa di serio. Studia disegno e dipinge, si guadagna una borsa di studio in belle arti all'università di Baltimore, fa ricerca a Edimburgo. Figlia di un'americana e un greco, Christina ha una doppia cittadinanza che le permette di viaggiare spesso in Europa. È nel suo cuore che avviene l'incontro che le cambia la vita.

Un'estate a Bruxelles, in Belgio, Vantzou conosce Adam Bryanbaum Wiltzie. Americano, nel 1993 Wiltzie aveva fondato insieme all'amico Brian McBride un duo chiamato Stars of the Lid e lo aveva usato per esplorare i meandri spugnosi dell'ambient armato di chitarre e pedali, un sacco di pedali. La loro escavazione, però, ha funzionato al contrario di quelle che facciamo noi uomini. Invece di andare verso il basso e il buio loro lì hanno cominciato, e si sono fatti strada verso la luce.

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La copertina di ...And Their Refinement Of The Decline degli Stars Of The Lid, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Music For Nitrous Oxide, uscito nel 1995 e registrato su nastro, è infatti un’opera nera, composta da suoni che vivono sì d’aria, ma chiusa tra le pareti di un cunicolo che sembra farsi sempre più stretto. La distanza che lo separa da Stars Of The Lid And Their Refinement Of The Decline, uscito nel 2007, è la stessa che quel cunicolo percorre per tornare sulla superficie e farsi accarezzare dalla luce.

La musica degli Stars of the Lid non è localizzata, è una nube di suono suddivisa da titoli che evocano stati emotivi, gesti, entità. Se volessimo giocare a mettere da qualche parte la loro metaforica miniera, il vincitore la metterebbe in Texas. È lì che Wiltzie si trasferisce e comincia a vivere di musica insieme a McBride, è da lì che il gelo di un ospedale psichiatrico, il nome di una contea o di un’intera parte dello stato si fanno strada nei significanti del duo.

L'unico altro luogo citato da Wiltzie e McBride è dall'altra parte dell'oceano. Si tratta dell'Atomium di Bruxelles, monumentale ricostruzione di un atomo di ferro, artefatto più riconoscibile della città dove Wiltzie si trasferisce nel 2000. Scrive musica e chiede a Christina, sua nuova amica, di farci dei video. Quello che ne esce è un duo a tutti gli effetti, una collaborazione audiovisiva con cui Wiltzie dà l'addio alla sua vecchia vita: The Dead Texan, il texano morto. In quello della conclusiva "The Struggle", tra cieli e tetti di Bruxelles, torna lui, l'Atomium, segno di ricerca scientifica e bellezza delle geometrie.

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La copertina del disco dei The Dead Texan, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

L'unico album dei Dead Texan, uscito nel 2004, prende l'ambient degli Stars of the Lid e lo complica quel giusto che basta con voci, tastiere e chitarre da poterlo chiamare "post-rock", ma di quelli liminari—quello dei Labradford, dei Pan-American più destrutturati. Wiltzie chiama questi pezzi "piccole sinfonie", Vantzou scrive dei libretti visivi per ognuna di esse. Volti stupiti e forme geometriche rassicuranti in "Aegina Airlines", geometrie d'acqua scintillante in "The 6 Million Dollar Sandwich", una ragazza e ricordi sfocati di palme in "Beatrice Pt. 2", corpi che si cercano e si mancano in "Taco Me Manque".

Quando i Dead Texan devono cominciare a suonare dal vivo, nel 2005, Wiltzie chiede a Vantzou di eseguire delle parti di tastiera. Prima di allora lei non aveva mai suonato nulla. È il primo seme della sua carriera solista: "Cominciai a sperimentare con i MIDI e i sample e a costruire una libreria di suoni campionati da me. Man mano che cresceva, ho cominciato a usarli per comporre". Usava Reason e per tre anni "non aveva idea di quello che stava facendo". Ma non importa, perché Bruxelles è per lei un luogo in cui trova "un bozzolo" per rilassarsi e lavorare, lontana dalla sovrastimolazione di grandi città come Londra, Parigi o New York, una comoda base da cui partire in furgone per girare l'Europa con Wiltzie e suonare dal vivo. Nel 2007 i Dead Texan vanno in tour con quei maestri di malinconia che erano gli Sparklehorse di Mark Linkous, e per Vantzou è come "un lampadina che si accende in testa".

Quando Vantzou arriva ad avere abbastanza materiale per un disco, chiede consiglio a un amico e collaboratore, l'irlandese Dustin O'Halloran, che anni dopo fonderà insieme a Wiltzie gli A Winged Victory For The Sullen. Chi ha voglia di lavorare in un modo non convenzionale e può aiutarla a scriverla su pentagramma e registrarla? Lui le passa il contatto di una ragazza americana con cui ha lavorato, figlia di immigrati coreani, che sta cominciando a diventare una figura di riferimento a San Francisco per gli incontri tra musica classica e cultura contemporanea. Si chiama Minna Choi e la sua orchestra si chiama Magik*Magik.

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La copertina di No. 1 di Christina Vantzou, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Insieme Vantzou e Choi trasformano i suoni e i campioni raccolti in quegli anni in un disco. Si chiama No. 1, esce su Kranky nel 2011 ed è eseguito da un'orchestra di sette elementi. È pensato come una sinfonia divisa in dieci parti e non come una collezione di pezzi, e ha una controparte visuale pensata per essere fruita nella sua interezza. Dentro non ha nemmeno un elemento percussivo o una parola. I titoli evocano, come nelle creature musicali di Wiltzie, immagini, concetti, stati, gesti, persone: "Montagne fatte in casa", "Preludio per Juan", "I tuoi cambiamenti sono stati inviati", "Piccolo coro". Si tratta di una lunga e lentissima serie di onde di suono, interrotte solo da brevi eccitazioni di melodia: un metallofono, una breve accelerazione d'archi.

No. 2 arriva tre anni dopo, nel 2014, pagato dal lavoro della Vantzou come assistente di matematica all'università di Bruxelles. Stavolta gli elementi dell'orchestra diretta da Choi sono dodici e i piacevoli disturbi nel flusso d'archi sono più variegati: c'è un pianoforte, un sintetizzatore, ci sono strumenti a fiato, c'è un'arpa. Wiltzie ci lavora come ingegnere del suono, mettendo la firma sul mix finale. Se nel primo album Vantzou aveva "camminato a occhi chiusi tastando con le mani", guidata da Choi, stavolta il processo è più scorrevole: "Mi fidavo di lei ed era come se potessi esplorare certe cose più a fondo, anche se continuavo a non saper scrivere e leggere la musica."

I toni di No. 2 sono più tesi di quelli del suo predecessore, sebbene le due opere siano state create con lo stesso modus operandi e dalle stesse persone. "Vancouver Island Quartet" alterna archi in tensione e lontane voci di sirene ammalianti che si risolvono in stasi, "VHS" è una complicazione di rumore bianco spezzata in due dall'entrata di un basso roboante, "Brain Fog" evoca in forma orchestrale e concentrata la caduta libera nella demenza senile che Leyland Kirby esplorerà anni dopo nei campionamenti della serie Everywhere At The End Of Time.

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La copertina di No. 3 di Christina Vantzou, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

No. 3, pubblicato nel 2015, è l'apice del percorso intrapreso dalla Vantzou fino a questo punto. La musica abbandona il pentagramma e diventa libera di crearsi da sola, per tentativi. Lei si sente più a suo agio "a lasciare che le cose evolvano lontane dal foglio", a "capire insieme ai musicisti che cosa fare". Il disco viene registrato ancora una volta in Belgio, ma tutto è un gradino più alto: stavolta l'orchestra ha 15 elementi e una nuova persona entra nel processo creativo, il californiano John Also Bennett, che suona il sintetizzatore nei Seabat.

L'ispirazione più grande per questo terzo disco, dice Vantzou, è The Expanding Universe di Laurie Spiegel, classico dell'elettronica passatole da un'amica: "Ascoltandolo ho sentito immediatamente un'affinità tra di noi." Ad affascinarla è il modo in cui usa il "tempo", "una semplice fonte di suono che diventa lentamente un ritornello, con un sacco di strane complessità e sovrapposizioni". Lei tende a "lavorare in uno spaziotempo più liquido", ma "tutti i cambiamenti nella musica di Spiegel [...] sono fluttuazioni complesse, basate su algoritmi da lei ideati per creare la sua musica. Abbiamo approcci diversi, ma è stata una grande fonte d'ispirazione."

Il punto è quindi la presa di coscienza del "linguaggio" con cui è "parlata" la propria musica: grazie alla matematica di Spiegel, Vantzou capisce che il suo fare musica è guidato dalla libera interpretazione nello spazio e nel tempo. E così alla Spiegel intitola un brano in cui si indovinano le sue cascatelle di synth, spalmate su una serie di piani di suono che si sovrappongono e interrompono liberamente. "Valley Drone" sembra espandersi lentamente, come una pozzanghera che si fa lago, i fiati e gli archi a creare onde sulla sua superficie. Non si tratta più di trasformare in spartito e sinfonia un piccolo esperimento personale basato su MIDI e campionamenti: si tratta di creare in libertà.

vantzou no 4
La copertina di No. 4 di Christina Vantzou, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify

Prima di mettersi a lavorare a No. 4, Vantzou dice di sentire "come il bisogno di riportare le cose a una dimensione più piccola, di lavorare con pochi collaboratori a me vicini". L'impalcatura della sua musica deve continuare a sfilacciarsi, a ridursi all'essenziale, così da lasciare spazio al suono puro, all'istinto: "Il modo in cui compongo è sempre lo stesso, ma il modo in cui il tutto viene interpretato continua ad allentarsi, e c'è più spazio per respirare".

Quando arriva, nel 2018, No. 4 si rivela essere un disco fatto di menti che si conoscono e si cercano attraverso l'esecuzione di suoni, seguendo tracce e suggerimenti silenziosi. Bennett torna al sintetizzatore, a lui si aggiungono altri nomi: Angel Deradoorian dona la sua voce a "Glissando For Bodies And Machines In Space", Steve Hauschildt versa i suoi prismi sbrilluccianti di synth su "Remote Polyphony", membri del gruppo belga Echo Collective—già turnisti per gli A Winged Victory For The Sullen di O'Halloran e Wiltzie—lavorano alla strumentazione classica, Beatrijs De Klerck al pianoforte. Tutti, però, sono liberi di fare ciò che vogliono con la loro musica: aggiungerla e toglierla, plasmarla come credono.

Non si tratta di improvvisazione, un termine che paradossalmente rischia di evocare un suono molto codificato, quanto di libertà creativa: "Abbiamo avuto abbastanza tempo in studio per creare molte cose aperte," ha detto Vantzou, "ma anche di farne di più provate, con più input compositivi da parte mia." Ai nostri colleghi americani ha spiegato i dettagli di questo processo: "Avevo scritto qualche nota, qualche semplice idea grafica, e abbiamo ascoltato insieme certi album per trovare ispirazione. Da lì ogni musicista ha arrangiato le proprie parti, senza un direttore d'orchestra o uno spartito da seguire."

Dalle basse frequenze di avvertimento con cui il disco comincia fino al gentile sfarfallio elettronico con cui si conclude, No. 4 è un inno alla libera associazione. "Some Limited And Waning Memory" evoca la dolce malinconia di un passato acquoso, "Doorway" un senso di sospensione in un non-spazio, "Lava" un borbottio primordiale, "Garden Of Forking Paths" la tensione della scelta.

"Voglio solo che le mie decisioni creative e le mie scelte rimangano organiche", dice la Vantzou ora che è giunta al termine di un nuovo ciclo creativo. "Quando faccio musica vengo trascinata verso certe direzioni, e non so perché. Ma mi fido del mio istinto, indipendentemente da tutto. Mi sento come se fossi più una custode che si prende cura delle proprie idee, così che siano ordinate e ci sia spazio quando una nuova direzione si palesa." Perché è lei che arriva, nessuno la decide.

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Il ventennio di Wallace Records, età dell'oro dell'underground italiano

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"Non è il ventennale, ma il ventennio di Wallace Records che si festeggia", specifica subito Mirko Spino, prima ancora di sederci a uno dei tavoli del bar del Bronson di Ravenna. Precisazione tutt'altro che casuale, perché quello che si sta celebrando in questo inizio di 2019 non è un compleanno, ma è una storia lunga vent'anni che ha acquisito importanza disco dopo disco, concerto dopo concerto. "L'unico ventennio che conta", come recita il manifesto della festa, dove si gioca tranquillamente con i font tipici del ventennio, l'altro ventennio. Una scelta irriverente come tutta la storia di quest'etichetta, che è entrata ormai in quella vecchiaia che poche label raggiungono in Italia, ma è pur sempre nata un 26 di aprile. E in vent'anni ha fatto (soprattutto) cose buone.

wallace records 20 anni
La locandina di WRXX

La nascita di Wallace Mirko l'ha già raccontata in diverse occasioni, anche a Noisey, e incredibilmente le versioni collimano: qualcosa di vero deve esserci, "anche se non ho aneddoti da aggiungere". La provincia a cavallo tra Milano e la Brianza vissuta con i sogni e la forza dei vent'anni o poco più, la musica underground, quella fatta di pavimenti da pulire e suoni da inventare. E la voglia di buttarcisi in mezzo, di fare qualcosa per quella che forse non era una scena, o forse sì, tanto è infinito il dibattito su cosa sia una scena. Di certo, se qualcosa c'è stato e si è mosso, una buona parte di merito va anche a Wallace Records. Per Mirko, titolare unico di questa one-man label, l'etichetta era il modo di far parte di quella cosa, passare dalla fascinazione allo sporcarsi le mani, o di mettere le mani in pasta, dipende dal punto di vista.

La missione è sicuramente compiuta, se si considera l'elenco di nomi clamorosi che hanno avuto almeno un disco con la faccia di Marsellus Wallace sopra. Basta scorrere il catalogo per avere un compendio dell'underground italiano, quanto meno dal versante "rock" (da intendersi inevitabilmente tra virgolette e a 360°), degli ultimi due decenni. E non solo italiano, a dire il vero, se si considera che già solo alla quarta uscita compariva in catalogo una band come gli Oxbow. "Già, ai tempi ero bravo. E comunque mettersi d'accordo con Eugene Robinson è proprio facile. Ci arrivai attraverso i White Tornado: ero in contatto con loro, avevano una registrazione con gli Oxbow, poi sono andato a New York a vederli dal vivo e via. Peraltro il programma era: ore 19 Oxbow, ore 20 Arab On Radar. Dopo non mi ricordo più niente, e non mi importa neanche. Il ricordo successivo è essermi seduto qua oggi, vent'anni dopo".

Stranamente, ma non troppo, le uscite straniere arrivano subito e si diradano dopo: l'undicesima sono i croati Uzrujan, la 13esima gli Old Time Relijun, la 23esima i Rollerball. La direzione più locale arriva col tempo, ma non è una vera e propria scelta. Forse solo un caso. "Non sono partito con un'idea chiara. I gruppi che mi piacevano e con cui ero in contatto, li pubblicavo. A tutt'oggi, se ci fosse un gruppo straniero che mi piace e potessi fargli un disco, lo farei. Non è cambiato nulla, è solo che ai tempi ascoltavo più musica, ero più curioso e soprattutto più entusiasta della nuove scoperte. Anche oggi ascolto una marea di gruppi nuovi ma non mi esalto a tal punto, e non sono nemmeno più così teenager da scrivergli: 'ciao, il vostro disco è bellizzimo, mi piacerebbe tanto lavorare con voi'. Forse non faccio più questa cosa qua, e sbaglio".

Lavorare con gruppi perlopiù italiani non significa però che le pubblicazioni di Wallace siano rimaste confinate allo stivale. Capita anzi di trovarle dall'altra parte del mondo, di vedere acquirenti americani che si spennano per acquistare uscite a prezzi irragionevoli, di incontrare ascoltatori nei luoghi più inaspettati. "A Santiago del Cile andai a ritirare in aeroporto a ritirare l'auto che avevo prenotato online. L'agente andino dell'autonoleggio compila le scartoffie, guarda il mio indirizzo e-mail e mi chiede se lavoro per Wallace Records. Io ero in jet-lag, erano le sei del mattino, e lo liquido velocemente dicendo che è l'azienda per cui lavoro. Al che mi chiede: 'Pornography?'. Mi preoccupo, siamo pur sempre in frontiera, e specifico subito che si tratta solo di un'etichetta musicale. Lui sorride e dice: 'Yes, the band. Pornography', richiamando addirittura la seconda uscita del catalogo Wallace, anno '99: un disco che mi piaceva tantissimo, ma che credo abbia venduto sei copie in totale. Come una di queste potesse essere arrivata a Santiago non sono mai riuscito a spiegarmelo. Ci siamo salutati con cordialità e mi sono allontanato. Sono rimasto zitto per un'ora".

Il fatto è che con il trascorrere del ventennio Wallace ha saputo costituirsi un'identità chiara, che riesce però a prescindere completamente dai generi. A dare il volto allo stile Wallace sono soprattutto le persone, c'è una specie di comunità che attraversa questi due decenni, ne costituisce un'ossatura. "Sono le prime band, o meglio le prime persone, perché faccio nomi di gruppi intendendo tutti i loro derivati. Se si guardano i primi venti numeri di catalogo, ci sono già dentro i RUNI, i Madrigali Magri, i Bron y Aur, A Short Apnea e tutto il filone Tasaday, in qualche modo anche i Rosolina Mar... e i Sedia/Gerda, gli Anatrofobia. Ce ne sono altri di cui sono orgogliosissimo, penso a Satantango/X-Mary, Agatha, Ultravixen, ma in questi casi non si potrebbe parlare di un filone Wallace. Se pensi ai Bron y Aur, a Xabier Iriondo o a Paolo Cantù, sono nomi che hanno attraversato e generato un'infinità di progetti".

È come se Mirko Spino avesse scovato una miniera d'oro. Il suo "filone" affonda le radici in un luogo e in un'epoca ben precisi. Milano e la sua provincia, gli anni Novanta. Anni che a guardare la Milano di oggi non si potrebbero nemmeno immaginare, quando fermento e collaborazione erano all'ordine del giorno: ci si conosceva, ci si ascoltava, ci si parlava. Wallace è nata da lì, inevitabilmente. Band come i Six Minute War Madness (che stranamente sono entrati in catalogo solo anni più tardi con una ristampa), luoghi come il Bloom di Mezzago, quando la provincia anziché annoiata era creativa. "All'inizio davo una mano ai Six Minute War Madness a cercare le date, in un periodo in cui passavo a casa di Paolo Cantù tutte le sere per rubargli i dischi e a dargli una mano con le date. Con uno di loro avevo pure un lontano grado di parentela, ma in realtà ci siamo conosciuti perché ascoltavo la musica underground".

Il concetto di underground, insomma, più ancora che quello di scena, è ciò che demarca la differenza nell'attività di etichette come Wallace. È uno scopo, uno stile, un'idea... e un dibattito lungo decenni, che affonda le sue radici nel momento stesso in cui la musica è diventata una voce di mercato. "Nella mia storia la musica underground è la metà dimenticata dei Nirvana. Prendo i Nirvana come gruppo simbolico, non per una particolare importanza, ma perché arrivano da quella storia lì e però negli anni Novanta sbarcano su MTV in maniera preponderante, e aprono la strada ai vari Henry Rollins, Mudhoney, persino i Sonic Youth: MTV è disposta a metterli perché la gente sta ascoltando quella roba lì, un mondo vagamente 'nirvanesco'. O così credo io, poi bisognerebbe chiedere a chi faceva la programmazione di MTV, anzi di Videomusic". Un 30 percento dei Nirvana che, nel caso di Mirko Spino, ma si potrebbe ampliare ad un'intera generazione, diventa la porta per arrivare ad ascoltare altro. "Scoprire altri mondi. Che ne so, arrivare alla Epitaph, che per assurdo faceva musica peggiore rispetto ad altri, però era un'etichetta indipendente e da lì era un attimo arrivare all'indipendenza come concetto politico rispetto all'industria. Anche perché in tutto ciò avevo vent'anni e stavo scoprendo la politica".

Un approccio politico alla produzione musicale che oggi forse si troverebbe più facilmente, quando di band dai grandi proclami (spesso destinati a spegnersi nel giro di pochi click) sono pieni i social network. Venti anni fa la situazione era probabilmente la stessa per quanto riguarda i proclami, mancavano però i mezzi per farli. Il ventennio Wallace è anche il passaggio a ritroso dalla sovra-esposizione in rete indietro sino alle scelte dei caporedattori delle riviste. "C'è una copertina di Rumore che mi è rimasta in testa, con i Sonic Youth e i Fugazi. I Sonic Youth avevano appena firmato per Geffen, mentre i Fugazi... lo sappiamo bene. Il tema non era parlare di queste band ma dire: è meglio continuare la propria carriera come i Fugazi oppure han fatto bene i Sonic Youth? Al di là della risposta, che nemmeno ricordo, mi stupiva che si parlasse di questo ai tempi. Ci si chiedeva se sputtanarsi (cosa peraltro che i Sonic Youth non hanno mai fatto, a differenza di quasi tutti gli altri) oppure continuare tagliandosi i coglioni, perché anche per il prossimo disco non avrai tutti gli pseudo-vantaggi che ti garantirebbe la grande industria. Posso capire che oggi questo discorso possa sembrare fuori dal tempo, ma mica troppo. Oggi hai la possibilità di far ascoltare il tuo disco a tutto il mondo, ma il problema è lo stesso: il mondo lo ascolta?". Cambiano i mezzi di produzione e pure quelli di comunicazione, ma la diversità ideale rimane ancora viva, persino per chi produce musica da oltre vent'anni, e magari ha le idee confuse anche più di allora. "Francamente non ho idea di cosa sia la musica underground nel 2019. Di per certo so che non è quello che fa la Wallace. Nel senso che a tutti gli effetti è musica underground, un'etichetta indipendente, ecc... ma di fatto non è musica non commerciale, è semplicemente musica che non si caca nessuno. Che poi è sicuramente un modo per essere non commerciali, in effetti".

Venti anni però sono un'enormità. Le etichette puramente underground in grado di andare avanti a questi ritmi per due decenni non sono certo la normalità. "Un po' si va avanti per inerzia, queste etichette continuano a fare quello che sanno fare. Io continuo a lavorare coi miei collaboratori storici, ma è estremamente difficile che io prenda qualcosa di nuovo. Resto in una comfort zone". A quel manipolo di figure che hanno messo le fondamenta di Wallace in effetti si sono succeduti un gran numero di nomi, eppure da qualche tempo la strada di Mirko Spino sembra essere tornata alle origini. Le proposte continuano ad arrivare, e Mirko sostiene di ascoltarle ancora tutte. I live, quelli sì, sono sempre meno, e il trasferimento nell'entroterra romagnolo forse li ha allontanati ulteriormente, ma non sono mai stati i concerti a far scoprire le band.

I soldi non ci sono (quasi) mai stati, la loro scarsità può forse spiegare qualche rallentamento nel numero di uscite, ma resta il fatto che anche vent'anni dopo Mirko ha ancora voglia di pubblicare dischi. "Se mi dovessi rompere il cazzo smetterei subito. Quello che continua a piacermi è l'eterogeneità. Se dovessero presentarsi dei nuovi Camillas li farei eccome. Così come coprodurrò il prossimo disco di Daniele Brusaschetto, che è un disco metal vecchio stampo, anche perché un catalogo non si può chiamare tale se non contiene almeno un vero gruppo metal. Amo l'eterogeneità, però non riesco ad entusiasmarmi granché per le nuove proposte che mi arrivano, ma questo è un limite mio. Oltretutto non credo di avere la struttura giusta per poter dar loro visibilità. Wallace è un'etichetta che non ha attrattiva per un gruppo che fa una roba veramente nuova, perché non ho il pubblico. Anche se poi se ascolti la nuova compilation vedi che si parte coi Gerda e subito dopo ci sono gli Anatrofobia, l'eterogeneità rimane bella forte. Cosa hanno in comune queste band oltre all'etichetta? Il pubblico di certo non ce l'hanno, solo in quei pochissimi spazi all'avanguardia potrebbero trovarsi a suonare sullo stesso palco, e avrebbero venti persone davanti".

Il segreto della longevità di Wallace Records sta nella solidità delle sue radici. È quello che permette a Mirko di continuare ad andare avanti, c'è un solidissimo legame di fiducia che lo unisce agli artisti con cui è cresciuto l'intero pubblico dell'etichetta. Tanto che capita spesso che le band si presentino con i mix già pronti: Mirko oggi si limita a dare un parere, discutere insieme la grafica e ragionare sulla distribuzione. È un cambiamento importante avvenuto con gli anni, che si percepisce anche osservando la progressiva scomparsa delle collane particolari di Wallace, come i Phonometak e i mini-cd delle Mail Series. "Il punto è che per progetti del genere era l'etichetta a decidere, non gli artisti. Se arrivava uno a dirmi: 'guarda che il mio disco è troppo lungo per la mail series', io rispondevo 'no, col cazzo'. Quello oggi manca perché non ci sono più quel tipo di label. Io queste cose le ho imparate dalle etichette prima di me, ad esempio da Pandemonium, di Marsiglia, che aveva fatto la serie di 7" fichissimi chiamata Erase-yer-Head. E lì mi sono detto: anche io faccio le serie. Oggi non so chi le farebbe".

A complicare le cose c'è anche una crisi della produzione materiale vera e propria. Le fabbriche di dischi spesso non hanno nemmeno più i mezzi per fare i 7" o i 10". E pure per le cose di cui dispongono dei mezzi, non è detto che il risultato riesca. Capita sempre più spesso che le produzioni underground corrispondano a dischi in vinile inascoltabili. "Ma questo è un problema per noi, molto meno per il grosso del pubblico, che tanto non li ascolta. Era uscita una statistica qualche tempo fa, non ricordo dove, che sosteneva che il 60% degli acquirenti di dischi in vinile non ha un piatto. E l'altro 40% non è detto che ascolti il disco. Quindi è possibile che ad ascoltarlo siano il 10% degli acquirenti di un disco, che è oltretutto un formato molto costoso e poco redditizio. Ma il problema non è solo del vinile. Mi è capitato di parlare con una band che ha pubblicato una nuova uscita in cassetta: ne hanno fatte quasi mille e le hanno fatte fuori in un tour. Solo che erano uscite difettate ed erano vuote: sette persone gli hanno scritto. Metticene se vuoi anche altre venti che si sono limitate a mandarli affanculo, solo sette persone hanno chiesto il rimborso o la sostituzione. A essere ottimisti, l'hanno ascoltata in cinquanta".

Lo spazio per sperimentare però resta, magari cambia solo direzione. Si pensi ad esempio al progetto BM10 con cui Boring Machines ha celebrato il suo decennale (o decennio?) lo scorso anno: quattro uscite in edizione limitata, una per stagione, senza alcuna informazione scritta. Le label sono inevitabilmente lo strumento unico per mettere in pratica queste sperimentazioni. "Un'etichetta deve avere già una sorta di credibilità per metterla in pratica. Per dire, io avevo fatto questa roba dell'abbonamento. E aveva persino funzionato bene, in termini di mio autolesionismo almeno. Siccome vedevo che appena pubblicavo i dischi c'era quella ventina di persone che se li compravano tutti, gli ho proposto di prenderli in abbonamento. Mi pagavano un centinaio di euro per una sorta di carnet di 10 uscite. Ogni disco che facevo glielo mandavo, senza nemmeno che me lo chiedessero. Economicamente è stata una minchiata, ho venduto a un prezzo inferiore dei dischi a quelli che me li avrebbero comprati comunque a prezzo pieno, però ai tempi avevo un lavoro, rientrarci dei soldi mi preoccupava meno. Conta che stiamo parlando di 20/25 persone: metà li conoscevo già e l'altra metà l'ho conosciuta, e mi fa piacere che alcuni abbiano partecipato al crowdfunding di Tracce XX nonostante non ci sentissimo da più di 10 anni. L'onda lunga funziona".

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La copertina di TracceXX, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Quello che non si è ancora compreso, forse perché una risposta inequivocabile non c'è, è se il trasferimento di massa sul web sia poi un vantaggio o meno, per sperimentare o anche solo per pubblicare e diffondere. Wallace Records in rete è praticamente un fantasma. C'è un sito curatissimo e basta, persino il Bandcamp ha chiuso. L'obiettivo di Mirko sarebbe ancora più drastico: scomparire dalla rete. "È una cosa a cui penso, credo che potrebbe dare un senso, fosse anche finale o morente, all'etichetta. Il punto è che se io non faccio un disco non servo a niente. E non parlo della musica, che si muove liberamente, ma proprio della materia fisica. Wallace ha vent'anni, morirà con me e probabilmente in tempi anche brevi, e io non sono capace, non amo seguire le vie del digitale. Continuo coi dischi, anche in antagonismo col digitale. Il problema è che scomparendo dalla rete tocca essere super-presenti nella realtà. Io la mia storica valigia del banchetto ce l'ho ancora, ma tanto l'ho sempre abbandonata lì per bere Cynarotto durante i concerti. Quindi magari non sarò io, che non è che posso girare come un ambulante, ma possono girare le band. A un certo punto io avevo preparato il Wallace Box: ad ogni gruppo che girava avevo spedito una scatola con due copie per titolo, 'portate in giro il verbo'. Se funzionava, loro arrotondavano il banchetto e facevamo 50/50. Per un po' l'ho fatto, solo che io ho il mio file excel che gira da solo, la band assolutamente no. E stare dietro a cinquanta Wallace Box era un delirio, però era un buon modo per distribuire".

Si torna inevitabilmente alla dimensione live. Non solo come senso di vita per una band, ma pure come principale canale di distribuzione per una label. Per oltre un decennio Mirko si è visto in prima fila, o più spesso al bar, in quasi tutti i concerti underground milanesi, spesso e volentieri dando il proprio contributo. La sua casa di Trezzano Rosa era il pied-à-terre per tante band di passaggio, anche con esiti particolari, come quella volta che gli anziani vicini di ringhiera rimasero interdetti dalle maschere dei Lightning Bolt appese sul balcone dopo il bagno di sudore del concerto. "Rimasero straniti, da quel momento è scattata la mia fama di satanista o comunque di persona con scarsi valori cristiani". Una fama destinata a peggiorare drasticamente poco tempo dopo, in occasione di un passaggio milanese di Dälek, addormentatosi ubriaco sul sedile posteriore dell'auto di Mirko nel ritorno a casa. "Quando ho tentato di farlo scendere non c'è stato verso di smuoverlo, ha insistito per rimanere a dormire lì. Non aveva calcolato che le notti di dicembre nella pianura padana possono diventare sgradevoli. La mattina prima di andare recuperarlo sono andato a far colazione nel bar dei vecchi di fronte a casa. È lì che ho scoperto che nel bel mezzo della notte Dälek che si è svegliato semi-congelato ed è iniziato a cercarmi per le vie corti dei dintorni. Non sapendo dove abitavo si è piazzato in mezzo alla via a urlare. Potete immaginare il mio vicinato come può aver reagito, tuttora forse credono che ci sia stato un tentato attacco terroristico nel paesello".

Ma al di là degli incontri, spesso fulminanti, il futuro di Wallace non è certamente nell'organizzazione dei concerti. Esperimenti come il Tago Fest, il festival fatto direttamente dalle etichette di cui Mirko fu tra i primi promotori, appartengono ad un'epoca ormai passata. "Ci si incontra meno, si parla meno, si collabora meno. È un normalissimo cambiamento, non una crisi. O forse sono solo cambiato io. Persino le coproduzioni, oggi le lascio del tutto in mano alle band. Una volta quando facevo una coproduzione conoscevo tutti, si formava spontaneamente una cordata: Wallace, Bar la Muerte, Burp, ecc. Farlo insieme dava un'identità al disco. La musica, come il porno, continuerà a esistere e a venire prodotta. Continuerà ad esistere chi fa musica, l'interesse per la musica, è una sorta di bisogno primario. Abbiamo vissuto l'epoca della diatriba tra major e possibili vie DIY eticamente indipendenti, come l'epoca della smaterializzazione. L'etichetta come concetto è destinata a sparire, o a diventare altro. Però immagino che ci sia un motivo se siamo qua a parlare di Wallace e non di qualche altra etichetta giovanissima. E non è solo perché abbiamo 40 anni e passa: dove la leggo un'intervista non a una band ma a un'etichetta di 25enni che pubblicano band di 25enni? Se esiste mandatemi un link perché la voglio leggere assolutamente. Se non esiste, forse è perché questo concetto di etichetta ha chiuso con la nostra generazione, basta".

Il dubbio a questo punto riguarda il futuro più prossimo. Stiamo festeggiando il ventennio di un'etichetta in un'epoca in cui ci si interroga su quale possa essere il futuro delle etichette. E se la produzione e la distribuzione hanno trovato nuovi canali, in diversi casi più "facili", continua ad essere necessario un marchio di riconoscibilità. Il fatto che le abbiamo chiamate da sempre "etichette" non è casuale, ed è in fondo ciò che ancora definisce la diversità dell'underground. "Ogni ascoltatore ha i suoi riferimenti che siano etichette, giornalisti, blogger, account social... e forse al giorno d'oggi più etichette che giornalisti. È il ruolo che un tempo svolgeva l'amico che ascoltava tante cose e aveva tanti dischi. Non è l'ufficio stampa, perché quello è un lavoro, e il guadagno romperebbe il rapporto di fiducia. Io mi posso affidare a te se so che quello in cui tu credi vale, se invece lo fai per lavoro il tuo scopo è monetario. Con la Wallace, così come con tante etichette underground, un rapporto di fiducia lo puoi avere. Idem con tanti blogger o giornalisti, ai quali devo tanto. Sono le persone che ti dicono che cosa potrebbe piacerti, non che cosa ti piace. Quello lo fanno le major".

Questa sera Wallace Records celebra il proprio ventennio con una festa. Al Cox18 suoneranno tanti di quei volti che costituiscono le fondamenta dell'etichetta: Tasaday, RUNI, X-Mary, Anatrofobia, Makhno e Xabier Iriondo. Nomi che si sono affacciati più volte nel corso di Wallace Records Radio, il podcast in 10 puntate ideato e curato da Chiara Mattioli e musicato da Paolo Cantù che si è concluso il 26 aprile, giorno del ventesimo compleanno. Al podcast vengono aggiunte oggi due puntate extra, sono quelle destinate a raccogliere tutti i pezzi di Tracce XX, la compilation che segue, venti anni dopo, quella Tracce che fu la prima uscita assoluta in catalogo. "Non è una celebrazione, è una fotografia di questo momento. Fatta questa guardo già alle prossime uscite e via. È un modo per dire che ci siamo ancora, questi gruppi ci sono, spaccano. Magari è una compilation démodé, ma è ancora fica. Ho scelto io tutti i gruppi, cui ho chiesto pezzi inediti che poi ho associato io, proprio come nella prima Tracce. Per farlo ho sperimentato il crowdfunding, che di fatto avevo già usato nel 2003 per il Kaspar Project, prima che venissero create le varie piattaforme online. Oggi mi ha permesso di testare, capire se vale ancora la pena, ma è ovvio che non è qualcosa che posso ripetere per le prossime uscite. Magari tra dieci anni sì, per Tracce XXX, che ovviamente non sarà audio... ma la serata di lancio sarà molto più interessante!".

Grazie a Cauz, Andrea Marutti e Giallo per le foto.

Filip J. Cauz scrive di musica e ciclismo per questo e per quello, soprattutto per Zero e per Bidon, il magazine di "ciclismo liquido" che ha contribuito a fondare. Seguilo su Twitter o per strada mentre pedala.

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ScHoolboy Q non ha più bisogno di fare il "gangsta"

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All’inizio dell’ultimo decennio, mentre gente come Chief Keef poneva le basi per la più grande evoluzione del rap dei nostri giorni, un gruppo abbastanza eterogeneo di artisti prendeva una strada totalmente diversa per creare un’alternativa percorribile per questo genere musicale. Odd Future, Action Bronson, Danny Brown, A$AP Rocky, ScHoolboy Q, Kendrick Lamar, Mac Miller e Vince Staples (la lista potrebbe proseguire), senza un’apparente missione condivisa, hanno preso ciò che più ritenevano interessante dall’old school e dalle nuove tendenze e hanno costruito una branca dell’hip hop tuttora molto florida, molto difficile da catalogare e che sta circa a metà fra MF Doom e Lil Wayne.

Quasi tutti questi rapper negli anni sono cambiati molto: Tyler, The Creator ha sostituito i gatti e la violenza con i fiorellini e il neo-soul, Kendrick è diventato il guru del conscious rap, Action Bronson sembra sempre più interessato alla cucina e ai programmi TV e sempre meno alla musica, Mac ci ha lasciati. Se però ce n’è uno che ha avuto un percorso di crescita del tutto coerente, quello è sicuramente ScHoolboy Q e il suo ultimo lavoro CrasH Talk sembra rappresentare proprio il disco della maturità.

schoolboy q crash talk
La copertina di CrasH Talk, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Il rapper di Los Angeles, insieme ai colleghi di etichetta K-Dot e Ab-Soul, è stato un elemento cruciale per il successo della Top Dawg Entertainment e con la chiusura dell’accordo tra la casa discografica californiana e il gigante Interscope nel 2014 è arrivo il suo esordio su major Oxymoron. Quel disco mostrava al mondo tutto il potenziale di Q come artista: il singolo “Break The Bank” è a mio avviso uno dei più bei pezzi rap degli ultimi anni e non a caso una parte del testo recitava “tell Kendrick move from the throne, I came for it”. Due anni dopo è stata la volta di Blank Face LP, il suo progetto più ambizioso a livello di promozione, featuring e anche di numero di brani.

La trilogia si chiude con CrasH Talk, che dei tre è forse il disco più orecchiabile, quello che potrebbe intrattenere dall’inizio alla fine anche qualcuno che non è mai stato un grande fan di ScHoolboy Q. Il suo autore ci è arrivato all’età di 32 anni, con una figlia di 10 anni che partecipa attivamente alla sua carriera e, a detta sua, superando una fase depressiva grazie al golf e ai videogiochi (“n***a gotta hit the golf course to get a peace of mind”, suggerisce nella seconda strofa di “CrasH”). In questa presa di coscienza le responsabilità di padre si intersecano a quelle di un artista che deve affermarsi per poter lasciarsi alle spalle il proprio passato e per dare un futuro alla sua famiglia. Questo tema diventa centrale da subito durante l’ascolto, già dai primi due brani: il gangsta rap di “Gang Gang” viene analizzato in maniera più profonda in “Tales” e dalla celebrazione del criminale che ce l’ha fatta si passa in modo molto naturale alle possibili conseguenze negative di questo stile di vita (“probabilmente mancherò al funerale di mia madre, mia figlia farà la puttana, perché l'uomo di casa non è più l'uomo di casa").

La maturazione di Q, però, non si materializza solamente attraverso la sua dichiarata volontà di migliorarsi come essere umano, ma anche e soprattutto attraverso una nuova consapevolezza del suo valore come rapper. Leggendo i riconoscimenti della tracklist di CrasH Talk salta subito all’occhio una differenza sostanziale nella scelta dei featuring rispetto ai precedenti due dischi: se in Oxymoron e Blank Face l’idea era quella di circondarsi di giganti come Kanye West, Raekwon e Kendrick (qui presente solo nei cori e negli ad-lib) per sembrare più alto, gli ospiti di questo album (Travis Scott, 6LACK, Ty Dolla $ign, YG, 21 Savage, Kid Cudi e Lil Baby) lavorano tutti in funzione del protagonista, enfatizzando i suoi punti forti e intervenendo solo quando è necessaria una voce più melodica o semplicemente diversa. Liberatosi di quel possibile senso di inferiorità ScHoolboy Q può finalmente concentrarsi su ciò che gli riesce meglio, che in inglese si direbbe spitting e ogni termine italiano sarebbe riduttivo. Va anche detto che a fare da sfondo all’ottimo stato di forma del rapper ci sono dei beat decisamente all’altezza, grazie soprattutto al lavoro di DJ Dahi che riesce ad alternare il boom bap alla trap e ad aggiungerci pure un riff di chitarra à la Soundgarden (“Dangerous”).

Non so voi, ma se superati i 30 anni dovessi sentirmi un po’ giù le prime cose che farò saranno comprarmi l’ultima PlayStation e iscrivermi al golf club più vicino a casa. Se i risultati sono questi direi che vale la pena provarci.

Tommaso è su Instagram.

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Perché un rapper dovrebbe fare un brand di streetwear in Italia, oggi?

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Il sodalizio moda e musica va alla grande e da molto, molto tempo. Prendiamo, per dirne una, Rihanna: dopo aver conquistato le attenzioni dei brand più fighi in circolazione, grazie anche a uno styling che ogni donna vorrebbe provare almeno una volta nella vita, Riri in parallelo alla sua carriera come artista si è fatta un nome anche nel mondo della moda, prima come direttrice creativa di FENTY by Puma, successivamente lanciando l’omonimo brand di beauty e poi Savage, linea di lingerie super inclusive. Adesso, secondo quanto riportato dalla rivista WWD, starebbe trattando col gruppo LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton per lanciare un nuovo marchio nell’abbigliamento di lusso – evento che non accadeva dal 1987, quando Bernard Arnault, proprietario del gruppo, ha lanciato lo stilista Christian Lacroix.

Negli ultimi anni questo rapporto amoroso ha fatto perdere la testa soprattutto alla scena hip-hop. Chi dei due è stato il primo a fare gli occhi dolci all'altro non possiamo saperlo ma è ormai chiaro che moda e rap sono due realtà che vanno molto, molto d'accordo. Lo stesso Business of Fashion, che è un po’ il Financial Times dell’industria della moda, ne ha attestato longevità e rilevanza culturale in questo dettagliato articolo in cui ripercorre la storia che ha portato il rap a diventare un elemento imprescindibile del fashion contemporaneo. Nell'articolo si ricordano momenti storici come l’apertura della boutique di Dapper Dan nel 1982 ad Harlem, quella volta che i Run-DMC lanciarono il singolo “My Adidas” nel 1986 (guadagnando un endorsement del brand per un valore di 1 milione di dollari), quando Missy Elliott e Madonna divennero testimonial di Gap nel 2003, i suoi “Millionaire Sunglasses” di Pharrell per Louis Vuitton nel 2005.

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I Run-DMC con le Adidas ai piedi nel 1986, foto d'epoca.

Sul perché moda e rapper vadano così a braccetto, la stylist e fashion consultant Aleali May, già collaboratrice di Kendrick Lamar, Lil Yachty e 21 Savage, ci dà un ottimo spunto, dicendo a Bof: “Gli artisti hip-hop raccontano storie e riportano notizie dei loro tempi, e il fatto che l'hip-hop sia il primo genere musicale al mondo dimostra che è lì che si direziona la cultura. E la moda sta dando più attenzione che mai ai suoi consumatori. Insomma, la moda asseconda il bisogno del consumatore e il rap diventa così il suo alter ego, un Super Saiyan di massimo livello che riesce a parlare alle nuove generazioni e a conquistare una fetta di mercato sempre più vasta.

Tutto questo è un bel casino, lo so. I rapper ormai sfilano durante le Fashion Week: vedi Skepta per Nasir Mazhar SS15 o Young Thug per Philipp Plein a New York. Altri, invece, si improvvisano direttori creativi di brand altamente di tendenza – sto pensando a Kanye West col suo brand YEEZY, ma anche a Tyler, The Creator con Golf Wang, a Skepta con Mains. Intanto il merch si fa sempre più curato e accattivante, e diventa così un punto di riferimento nello streetwear globale – qua Highsnobiety cita alcuni dei capi più fighi nel 2018, come quello di Teyana Taylor per il suo album K.T.S.E o quello dei BROCKHAMPTON, presentato con un vero lookbook.

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Una fotografia promozionale dal lookbook dei BROCKHAMPTON.

Molti di voi mi diranno che non è una novità. So anche questo. Basti pensare che già nel 1996 un certo Tupac sfilò per Versace, per non parlare delle varie connessioni tra rapper e abbigliamento che, tra gli anni Novanta e Duemila, sono spuntate come le lentiggini sul mio viso in primavera – ad esempio, nel 1995 il Wu-Tang Clan lancia il proprio brand di streetwear Wu-Wear, mentre nel 2003 Eminem lancia la sua linea Slim Shady.

Oggi, però, qualcosa è cambiato. Non è più la moda che copia la strada, o i rapper che vogliono essere alla moda: dobbiamo parlare di una nuova realtà produttiva di cui è difficile definire i contorni. Il recente boom del fenomeno dello streetwear, che banalmente possiamo definire come tutto ciò che riguarda l'abbigliamento che nasce dalla strada, è stato il Vinavil tra le due realtà—una sorta di Mezzaluna Fertile 2.0 dove moda e rap hanno iniziato a prosperare, creare e vivere in armonia.

Anche l'Italia si è buttata nella mischia. Già da qualche anno anche la moda italiana ha iniziato a corteggiare lo streetwear e ha deciso di stringere forte la mano alla nuova generazione di rapper. Tutto molto bello: abbiamo visto la Dark Polo Gang e Sfera Ebbasta sfilare per Marcelo Burlon (mentre Marracash gli urla “cornuto”), Tedua calcare la passerella di Dolce & Gabbana e Ghali quella di Damir Doma. Anche il merch si è fatto più curato: Noyz Narcos ha la sua Propaganda, con tanto di store in Porta Ticinese a Milano, e ha collaborato col brand milanese Iuter per alcune capsule collection. Sempre con loro anche Gué Pequeno ha stretto amicizia, realizzando insieme una collezione in edizione limitata per omaggiare la data del rapper al Forum di Milano.

Insomma, anche la scena rap italiana ha iniziato a giocare con i vestiti, e sembra cavarsela molto bene, come nel caso di Doomsday. A Salmo, Francesco “Fr3nk” Liori e Andrè Suergiu della moda frega poco: hanno lanciato il loro brand nel 2012, molto prima che i trapper trasformassero il loro merch in linee d'abbigliamento. Lo hanno fatto quasi per scherzo, come una delle tante cazzate che si dicono tra amici, al bar, ma poi ci prendi gusto, e quello che all'inizio sembrava un gioco, alla fine diventa un progetto in cui credere.

Doomsday è un brand in tutti i sensi—quindi attenzione a scambiarlo per il merch di Salmo—ma ai tre amici non interessano i piani studiati al tavolino, le analisi delle tendenze e quant'altro. Ne sono un esempio le grafiche dei loro capi, che richiamano i vecchi B-Movies horror, ma anche lo stile metal e punk-hardcore. È vero che negli ultimi anni i merch dei musicisti hanno attinto molto dall’immaginario metal (vedi quello del “Purpose Tour” di Justin Bieber, ma anche brand di alta moda come Vetements), ma per Doomsday questa scelta stilistica non è dettata dai trend del momento. Si tratta invece di una vera passione che i tre amici nutrono per questo genere, ancora prima di diventare quello che sono oggi. Una linea estetica coerente con tutto l’immaginario, visivamente aggressivo e “hardcore”, che Salmo e Machete in generale propongono e che li contraddistingue da sempre.

È forse questo il vero elemento di rottura di Doomsday rispetto agli altri brand: fare roba punk per lo streetwear. È vero, ci sono tutti i capisaldi del genere, come le felpe oversize, i bomber e i calzettoni in spugna, ma il tutto armato da influenze e contaminazioni lontane da ciò che ti aspetteresti oggi da un brand di streetwear. Non solo, è punk anche nell'attitudine, nel supportarsi tra amici e fare le cose con la propria testa, rischiando di fare qualche cazzata, e fregandosene delle regole del mercato – e, perché no, sfidando un po' i pezzi grossi della moda.

Noisey: Domanda di rito: come avete iniziato a collaborare insieme? E quali sono le vostre esperienze con lo streetwear o con la moda in generale?
Andrè: Un sacco di tempo fa. Fr3nk, il nostro grafico, lavorava già con Mauri [Salmo, nda] per le sue band precedenti. Abbiamo stretto un rapporto ai tempi del suo primo disco, quando lavorammo insieme al merch. Dopo un anno abbiamo deciso di tirare su un brand a cui ci siamo dedicati un po' per gioco ma, ridendo e scherzando, siamo arrivati fino ad oggi.

Perché lanciare un brand?
Salmo: Perché viviamo in Italia. Io sto a Milano da 7-8 anni e anche se non me ne è mai fregato un cazzo mi sono accorto che la moda qui è una cosa grossa. Alla fine in America se parlano dell'Italia non lo fanno per il rap, che ti piaccia o meno finiscono sempre per parlare di spaghetti e di moda. Quindi secondo me provare a fare un proprio brand, soprattutto se di streetwear, è una cosa molto intelligente da fare. E poi, come un disco, diventa qualcosa di tuo. Qualcosa che ti rappresenta, che puoi coltivare e far diventare enorme.

Doomsday è nato nel 2012. Secondo me avete anticipato un po' la tendenza nella scena rap di lanciare brand di moda che è esplosa negli ultimi anni in italia.
Salmo: Dici? [ride] Più che altro, se posso dirlo, siamo stati forse i primi a farlo con questa qualità.
Andrè: C'è molta confusione tra "linea d'abbigliamento" e "merchandising". Noi abbiamo fatto una separazione netta fin dal principio: il merch dell'artista Salmo è rimasto tale dall'inizio, il brand ha una valenza "da brand". Nella musica spesso i brand si riducono all’immagine di chi l’ha creato, addirittura spesso si usano solo foto dello stesso artista per venderlo. Ecco, quello è il merch. Si prendono dei blanks di altri brand, dei premade, ci si stampa la serigrafia sopra. Chiamarlo "brand" è un po' riduttivo, a mio avviso.

Doomsday spicca proprio per questo. È un brand nel vero senso della parola.
Salmo: Diciamo, che all'inizio eravamo un po' merch anche noi, più o meno. Facevamo le classiche maglie...
Andrè: Sì, però il merch è bello pronto, ci stampi sopra e basta. Un capo di un brand invece viene cucito, tagliato da zero, con i propri cotoni, i propri tagli, che è una roba che noi abbiamo fatto praticamente dal principio.

Quanto è rilevante il nome di Salmo per il brand?
Andrè: Tanto! [Risate, nda] È un'idea nostra, collettiva, e va detto che fare un brand senza una persona importante che lo spinge è chiaramente molto difficile. Poi abbiamo avuto la fortuna di avere amici del circuito rap che ci hanno sempre supportato.
Salmo: Però è stata una cosa naturale. Non abbiamo detto ai rapper di mettersi roba nostra per spingerci, alla fine ci siamo sempre fatti i cazzi nostri. Comunque l'immaginario Doomsday è molto legato al modo in cui siamo cresciuti, alla musica che abbiamo ascoltato. Per molti versi ci avviciniamo più alla roba skate-punk che alla roba rappusa, no?
Andrè: Diciamo di rifarci all'idea di "hardcore" nel senso in cui il termine rimanda a una "famiglia" che si aiuta. Non ci siamo mai messi a fare riunioni o piani quinquennali.
Fr3nk: Siamo sempre stati degli scappati di casa!
Andrè: La cosa più innovativa di Doomsday è che è nato durante un'ondata di “no-logo” ovunque. Intorno al 2012 tutti i brand avevano grafiche minimali che strizzavano un po' l'occhio all'America. Noi siamo venuti subito fuori con l'immaginario aggressivo che continuiamo a tenere da allora: le mega stampe, l'all-over... è stato un vantaggio e un rischio allo stesso tempo.
Salmo: Volevamo anticipare anche i giubbotti da motocross ma ce li hanno inculati, ha!

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Salmo, fotografia di Roberto Graziano Moro

Le stampe della collezione SS2019 attingono sia da un immaginario horror da b-movie sia dalle grafiche metal e hardcore. A cosa vi ispirate per le collezioni e che mood volete dare al brand?
Fr3nk: Siamo cresciuti guardando i film dell'orrore, i vecchi film della Universal con Bela Lugosi, i primi Dracula, Frankenstein... i b-movie rimangono una sorgente di immagini da cui attingere, è sempre roba super figa e super trash. "Doomsday" significa "apocalisse", e quindi restiamo in tema con il mood del marchio. Poi io sono un nerd appassionato di vecchi film horror, Salmo è appassionato di copertine di vinili. Attingiamo sempre a fonti "nostre", ecco.

Quindi l'elemento “visivo”, la forza dell'immagine, è fondamentale per il brand.
Fr3nk: Certo. Anche Mauri ha sempre tenuto tantissimo all'aspetto visivo, anche prima del brand. Pensa al palco del suo ultimo tour: è una roba mind-blowing. E poi, anche la sua fanbase è una figata, è un pubblico di piccoli mostri. Tutti disegnano a manetta, tutti presi strabene, è una figata.
Salmo: Hanno seguito l'onda, noi abbiamo dato l'input. Vedere delle persone che riescono a seguirci così, che riescono a capire il nostro linguaggio, è importante. Abbiamo tirato fuori un sacco di mostriciattoli che si danno alla grafica, alla fotografia. Abbiamo anche fatto un concorso per trovare nuovi talenti nelle univeristà e scoperto un sacco di fenomeni.
Fr3nk: Lui non lo dice perché è modesto, ma io posso dirlo: ha una fanbase che è diversa dalle altre perché la incoraggia...
Salmo: Se gli fai vedere in che modo sei fatto, loro poi ti seguono. Diventi una calamita, no? Sai come dice il detto, "Chi si somiglia, si piglia". Quando hai una certa età, come l'abbiamo avuta tutti, sei malleabile. Ti innamori di qualsiasi cosa ti facciano vedere, l'importante è farlo vedere.

Ci sono rapper come Skepta, Travis Scott e alla A$AP Mob, che ha trasformato il suo merch in vere linee d'abbigliamento. Secondo voi questo fenomeno nasce da una vera necessità, da una vera richiesta da parte dei fan di avere un merch più esclusivo e curato, o è un cavalcare l'onda?
Salmo: La seconda [ridono]. Lo fanno con la musica, figurati per i vestiti. Sento molti ragazzi adesso dire "Oh, faccio musica perché voglio svoltare un po' di soldi", quando dovrebbe essere il contrario. Figurati con i vestiti.
Fr3nk: Alcuni dei casi che hai citato erano più collabo con dei brand, come quelle che ha fatto Kanye.
Salmo: A me fa schifo la roba di Kanye West, ha! Con quelle scarpe che piacciono solo perché le indossa lui.

Prendendo il caso di Kanye, cosa ne pensate del rapporto tra moda e rap? Per un rapper approdare in un settore come quello della moda può essere una scelta azzardata e incoerente, che rischia magari di ledere la sua immagine?
Salmo: Secondo me per certi versi è stata un po' una rovina questa storia della moda unita alla musica. È vero che viviamo anni in cui l'apparire è importante, però purtroppo per molti l'immagine è tutto e la musica è niente. Kanye è forte nella moda come nella musica: quando immagine e musica viaggiano alla stessa velocità, hanno la stessa importanza, allora va bene. Però se sai vestirti bene ma la tua musica fa cagare allora probabilmente è meglio che tu faccia moda, ma assurdamente c'è chi ti porta in alto lo stesso. A me da fastidio che la gente non riesce a capire questo concetto e a dare il giusto peso a queste due cose.

Secondo te chi è riuscito a unire moda e musica facendo tutto in modo giusto?
Salmo: Eh, Kanye West. anche perché non mi vengono in mente altri artisti simili...
Fr3nk: Tyler, The Creator! Ha portato un certo tipo di musica, un certo tipo di immaginario, video super curati. E poi ha tirato fuori una linea pazzesca...
Salmo: Vedi, magari adesso lui musicalmente è andato giù e allora continua a fare moda. Probabilmente a un certo punto ha detto "oh la mia musica non va più, proverò coi vestiti..." [risate, nda]

Ma, quindi, questo fenomeno dei rapper che approdano alla moda potrebbe essere interpretato come un segnale che non funzionano più nella musica e allora, per provare a restare a galla, si lanciano in altri progetti, che in questi casi è l'abbigliamento?
Salmo: Sì, probabile, potrebbe succedere anche a me! Magari un giorno la mia musica farà cagare, nessuno se l'ascolterà e allora faremo un brand...

Magari ti vedremo sfilare a Milano!
Salmo: La stiamo già organizzando. Sono andato a tutte le sfilate di tutti i marchi italiani, ovviamente per copiare e capire come funzionano i meccanismi della moda italiana. E poi farla a modo nostro. [risate, nda]

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Salmo sul palco con un giubbotto in pelle a cura di Fr3nk, fotografia di Viviana Edera.

Mi vengono in mente marchi di moda italiani come Dolce & Gabbana e Marcelo Burlon che hanno fatto sfilare noti rapper durante le loro sfilate: come vivete questa apertura della moda alla scena rap anche in Italia?
Fr3nk: Sono belle trovate pubblicitarie.
Salmo: La moda e il rap viaggiano di pari passo, quindi ci sta che brand importanti abbiano chiamato dei rapper... hanno chiamato anche me! Io non ho mai sfilato, e penso che non lo farò perché non ho i requisiti. Come nemmeno gli altri rapper. [risate, nda]

Secondo voi perché proprio la scena rap, che magari può sembrare quella più "lontana" da certe dinamiche di moda, è invece quella più fertile e produttiva nel lancio di brand?
Salmo: Guarda la differenza che c'è tra punk e rap. Il primo è nato in Inghilterra, negli anni Settanta, da figli di borghesi che volevano ribellarsi ai soldi. I rapper erano il contrario. La natura del rapper è avere i soldi e fare la bella vita e quindi, dopo trent'anni di immondezzaio, alla fine sono riusciti ad arrivare a quello che volevano. Infilarsi nella moda, avere bei vestiti. Bling bling, capisci?

Quindi, in un certo senso, per il rap è stata un po' un'evoluzione naturale, ha raggiunto il suo scopo.
Salmo: Mah, è in Italia che i rapper erano vestiti come scappati di casa, in America i rapper del ghetto già andavano a cercare i marchi fighi e già erano in fissa con roba italiana, però non erano abbastanza famosi e non potevano creare un circuito di soldi. Oggi invece sì, ed ecco perché la moda si è avvicinata così tanto alla scena. È stato Kanye West a sdoganare questa cosa. Secondo me, avrà detto "fanculo qualsiasi brand, mo' lo faccio io."
Fr3nk: Che è quello che vuoi fare anche tu, ha!
Andrè: C'è da dire che Kanye è stato anticipato da uno molto più arrogante di lui: Liam Gallagher. Si era fatto un brand molto più stiloso, chiaramente più "inglese", Pretty Green.

Essendo la scena italiana relativamente piccola, che succede con le sponsorship? Non si rischia di saturare il mercato con gli stessi volti? E, soprattutto, non c'è il rischio di "rovinare" la credibilità e l'immagine dei rapper?
Salmo: Mah, oggi i rapper puntano a sembrare tutti venduti. Prima il rapper voleva essere povero, adesso vuole essere ricco e, soprattutto, vuole sembrare ricco. Quindi degli sponsor non gliene frega un cazzo. Molti ragazzi stanno entrando in questa ottica del materialismo e del consumismo, mentre quando ero ragazzino io era tutto il contrario. Prima la gente diceva "non devi flexare, se flexi sei uno sfigato."

Secondo voi citare marchi nei testi rap abbia cambiato le abitudini d'acquisto dei ragazzini?
Salmo: Assolutamente sì. Ma qualsiasi cosa, alla fine le parole hanno un peso. Dipende chi le dice, no? Mi ricordo di quando Fabri Fibra in "Applausi" disse “Questo e' il mio passaparola, questo e' l'anno 'abbasso Vibra!'," un'etichetta di Verona con cui lui era uscito e con cui avevano litigato. Bene: li ha infamati in quella canzone e Vibra è fallita, non si è più sentita. Non so se esiste ancora, ma comunque è morta. Quindi sì, se iniziassi a parlare male di qualche brand sicuramente un danno lo faccio – e poi loro cercherebbero di farlo a me. Volevo poi dire una cosa: mi è capitato di avere tanti vestiti fighissimi, però per l'ultimo live del tour Fr3nk mi ha portato un giubbotto in pelle fatto a mano con una grafica incredibile. Puoi arrivare allo stesso livello dei "veri" brand. Alla fine è solo una questione di nome.
Fr3nk: A me questa cosa dei brand non fa impazzire. È come se avessi visto magari David Bowie, Alice Cooper e Ozzy Osbourne vestiti con la stessa giacca. Secondo me Mauri si deve differenziare da tutta questa roba. È un fatto personale, e quindi mi è partita questa cosa di voler competere con queste grosse aziende e fare le cose fatte in casa. E gli ho fatto un giubbotto dipinto e borchiato da me, insieme ad André e alla nostra stylist Silvia. Però la figata è stato il gesto di Mauri, che ha deciso di indossarla.

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Tempo Reale è il festival dell'avanguardia che stavi aspettando

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Avete presente Luciano Berio? Se la risposta è "sì" saltate questo paragrafo, sennò leggete qua, sennò sappiate che è una delle punte di diamante della storia dell'avanguardia musicale e che nel 1987 ha fondato un centro di ricerca, produzione e didattica musicale che si chiama Tempo Reale. È un archivio di interesse storico che fa il possibile per diffondere quella parte della musica che la maggior parte del pubblico percepisce come "complessa" e in realtà è solo visionaria, diagonale, diversa.

Adesso Tempo Reale sta per organizzare un piccolo festival di musica elettronica e sperimentale che si terrà a Firenze tra sabato 11 e sabato 18 maggio. E niente, succederanno un sacco di cose. Ci sarà un concerto di Stefano Pilia, cioè una delle persone che hanno potuto suonare la sei corde con quel mastodonte dell'alternative rock italiano che sono i Massimo Volume (e non solo). Ci sarà un'esibizione dei Les Percussiones de Treffort, un gruppo francese in cui militano ragazzi con disabilità fondato da Alain Goudard nel 1979. Ci sarà Walter Prati, che è un pioniere dell'improvvisazione in Italia. E molto, molto altro.

Trovate tutti i dettagli del festival sul sito ufficiale di Tempo Reale.

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I blink-182 andranno in tour con Lil Wayne e noi siamo molto felici

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Sono pochi i momenti della storia della musica che vale la pena di inserire nel Grande Libro dei Migliori Momenti della Storia della Musica™ (VICE edizioni, brossura, 17,50€). I Beatles che suonano sul tetto! Woodstock! La canzone di Guè Pequeno con Peppino Di Capri! Insomma, momenti che hanno segnato la vita di chi ha potuto goderli con i propri occhi e le proprie orecchie. E oggi, amici, la vostra vita è il calcio di un fucile e quello che state per leggere ci aggiungerà una nuova tacca.

I blink-182, cioè la band preferita di chiunque è nato negli anni Novanta, hanno annunciato che andranno in tour con Lil Wayne, cioè il rapper preferito di chiunque è nato negli anni Novanta. E per festeggiare la cosa hanno pubblicato un video in cui fanno un mash-up di "What's My Age Again?" e "A Milli" palesemente migliore delle originali che vi causerà una scarica di adrenalina lungo il corpo (o un'inondazione di bile, se non vi sapete divertire e/o pensate che i blink dovevano sciogliersi nel 2012). Lo potete guardare qua sopra.

Le date del tour sono tutte negli Stati Uniti, un posto facilmente raggiungibile dietro l'acquisto di un biglietto aereo. La prima sarà il 27 giugno a Columbus, Ohio, dove potete atterrare dopo circa 13 ore se partite da Milano. Nell'attesa del concerto potete fare una passeggiata nel pittoresco Battelle-Darby Creek Metro Park, dove potrete conoscere undici simpatici amici pelosi, cioè un piccolo gruppo di bisonti che dal 2011 vaga libero per i prati del parco.

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Con il senno di Giorgio Poi

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La prima volta che ho ascoltato una canzone di Giorgio Poi è stato un anno prima dell’uscita di Fa Niente, durante una serata alcolica finita a casa mia. Tra i presenti c’era anche Calcutta che ha tirato fuori una chiavetta con un pezzo inedito. Aveva appena registrato le tracce vocali della canzone e voleva farlo ascoltare in anteprima a tutte le persone presenti per chiedere un parere. Quel pezzo era "Oroscopo". Credo di non avergli detto qualcosa di così originale: il pezzo era più commerciale rispetto alla roba di Mainstream—che era uscito da pochi mesi—quindi, avrebbe ricevuto delle critiche, ma di sicuro sarebbe anche diventato una hit. Insomma, DOVEVA pubblicarlo.

Sempre sulla stessa chiavetta, c’era altra musica inedita, tra cui un pezzo di un nuovo progetto. Calcutta mi ha fatto notare quanto erano fichi i versi di quella canzone: "I sogni degli altri / Che noia mortale / Doverli ascoltare / I miei / Non il racconto mai.” Il pezzo si chiamava “Paracadute” è sarebbe uscito più di un anno dopo nel primo lavoro di Giorgio Poi in italiano.

In quel caso ho pensato che Bomba Dischi aveva per le mani, bè, un’altra bomba. Quel tipo sapeva come si scrive una canzone, il pezzo era intriso di quella malinconia italiana che unisce autori diversissimi come Battisti e Luca Carboni. E in più il sound giocava su un certo gusto per lo squilibrio che faceva intuire ascolti legati alla musica che unirei sotto il termine-ombrello-acchiappatutto di ”weird”. Insomma, prevedevo un grande futuro per questo Giorgio che stava a Berlino.

La conferma che "Oroscopo" fosse una hit è arrivata quando è diventata uno dei pezzi dell’estate 2016, così come la conferma che quel Giorgio Poi avesse veramente qualcosa di speciale è arrivata dopo l’uscita del suo esordio. ”Wow, allora ne capisco davvero qualcosa di musica. Posso fare il talent scout anche io!” mi ripeto, pensando a quella serata. Ma in effetti sto solo giudicando il suo percorso usando il famoso senno di poi.

giorgio poi ludovica de santis

Il ”senno di poi,” ”errore del giudizio retrospettivo” o ”hindsight bias” è la tendenza a credere di aver saputo prevedere correttamente un evento, dopo che l'evento è già avvenuto. Forse quella sera non ho saputo prevedere veramente che Giorgio sarebbe diventato una delle voci più interessanti dell’itpop e sto ricostruendo tutto questa storia a posteriori con il senno di poi.

In realtà le due chiacchierate che ho fatto con Giorgio Poi per preparare questa intervista mi hanno perlomeno confermato che i traguardi importanti come il suo secondo album Smog, appena uscito, non nascono dal nulla.

Credo che non riuscirò mai a farmi raccontare cose sconvolgenti da Giorgio. Non è proprio il tipo da lasciarsi andare a spacconate. Ma un po' come funziona con la sua musica, che ha sempre qualche piccolo dettaglio, di nuovo, weird: bisogna badare ai dettagli di quello che dice.

”So che la cosa che mi piace di più è scrivere canzoni. Ma per scrivere canzoni e suonarle in giro bisogna lavorarci. È da quando ho 20 anni che lavoro verso questo obiettivo. Non ho bruciato nessuna tappa,” mi ha spiegato. E allora passiamo al racconto di quali sono le tappe che lo hanno portato a Smog.

giorgio poi

Giorgio Poi è nato a Novara. Per sua fortuna, però, ci ha abitato solo fino ai due anni. Poi, la sua famiglia si è spostata tra la provincia di Pisa, Lucca, Roma e L’Aquila. Il suo primo approccio con la musica suonata è stato conflittuale: c’è di mezzo il suono sgradevole del flauto dolce. La sua prima insegnante di musica delle medie era fissata con la lettura della musica, ma Giorgio non aveva tanta voglia di leggere lo spartito: ”Ascoltavo quello che facevano gli altri e lo ripetevo. In realtà, era una cosa positiva ma lei si arrabbiava e mi impediva di suonare. Io ero contento. Odiavo il flauto.”

Messo con le spalle al muro in terza media da una nuova insegnante di musica che non può lasciarlo tranquillo mentre i compagni torturano le orecchie di tutti con il flauto dolce, Giorgio la convince a lasciargli suonare la chitarra: ”Una sera mio fratello mi ha insegnato il giro di Do e sono impazzito. Per i giorni seguenti, non volevo fare altro. Non vedevo l’ora di tornare a casa per provare i miei accordini. Da lì non è più finita.”

E ancora: ”Più o meno in quello stesso periodo, ho trovato una cassetta da 90 minuti sempre di mio fratello con registrati sopra due album dei Nirvana. Nevermind sul lato A e In Utero sul lato B. Sono stati un folgorazione. Era tutto misterioso. Non capivo come fosse fatta quella musica. Ad esempio, non capivo bene come riusciva la batteria a tenere in piedi un pezzo. Ricordo il momento in cui ho capito 'Ah, questo è il charlie…'”

Giorgio iniziare a tirare giù le canzoni a orecchio in poco tempo e progredisce tecnicamente a buon passo: “Avevo trovato una cosa che mi veniva naturale da fare e in cui riuscivo bene. Quando sono arrivato al liceo, la prima cosa che ho fatto è stato trovare qualcuno per formare una band. Avevo iniziato a suonare con un batterista.” Una cosa poco usuale erano i suoi ascolti di quel periodo: ”Mi sono avvicinato al jazz e a sassofonisti come Lester Young e John Coltrane. In quel periodo prendevo anche lezioni di sassofono.”

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Una cosa che viene spesso sottolineata di Giorgio Poi è che è l’unico musicista della scena itpop con una preparazione accademica alle spalle. Gli chiedo di raccontarmi del periodo in cui ha deciso di studiare musica a Londra. ”La musica è fatta di suoni. Quando senti dei suoni che ti piacciono, li vuoi rifare e li vuoi capire. Anche se non sto troppo a pensare agli aspetti teorici—mi piace suonare a orecchio—ho scelto di iscrivermi al Conservatorio perché volevo costringermi ad andare a fondo. È stata una forzatura utile: un mucchio di cose le mie orecchie le hanno capite per la prima volta lì dentro.”

Gli chiedo se lì ha imparato a suonare la musica modale citata all’inizio del testo di "La Musica Italiana", il duetto con Calcutta contenuto anche nel suo ultimo album. ”Nel jazz modale, come quello di Coltrane o Miles Davis, hai l’impressione che la melodia galleggi sopra le linee di accordi. Quella musica è nata per un’esigenza di suono. Quando impari una tecnica musicale più che rifletterci su dal punto di vista teorico, assimili un suono. Ad esempio, con la sostituzione di tritono con una chitarra, metti dentro alle tue orecchie quel suono lì, perché anche le orecchie si allenano. Quando metti nelle orecchie un certa sonorità o una progressione di accordi, stai capendo a livello inconscio il funzionamento di quella cosa. Questo ti aiuta a creare un legame anche emotivo con quella sonorità.”

Ma torniamo alla nostra cronistoria. Finito il liceo, Giorgio si iscrive al Conservatorio in Italia, ma dopo un anno si sposta a Londra. “Non volevo fare il jazzista, ma mi interessava capire come funzionava la faccenda. Volevo scrivere canzoni ed ero a Londra per imparare l’inglese e scrivere in inglese.”

E qui entriamo finalmente nella parte di carriera musicale di Giorgio di cui ci sono testimonianze registrate: “La mattina studiavo e, al pomeriggio e alla sera, cercavo di applicare nella mia musica quello che imparavo. In questo modo, sono nati i Vadoinmessico. All’inizio eravamo un messicano, un inglese, un austriaco e due italiani.”

La musica dei Vadoinmessico è molto influenzata dagli Animal Collective: ”Quando ho ascoltato Sung Tongs è stata una rivelazione". In quel periodo, però, Giorgio va in fissa con una delle band dalla fine degli anni Sessanta ha segnato uno standard delle canzoni orecchiabili ma strambe: i Tyrannosaurus Rex. I primi album della creatura di Marc Bolan, prima che si trasformasse in una superstar glam abbreviando la ragione sociale della band in T.Rex, sono caratterizzati proprio da quel tipo di produzione musicale squilibrata—in realtà squalificata dal produttore che l’ha creata Tony Visconti come una semplice questione di produzione fatta con pochi soldi—che crea un senso di mistero e che si ritrova anche nella musica di Giorgio.

”Ci stanno queste chitarrine che restano piccole e invece dei bonghetti minuscoli sparati a cannone nel mix. Si sente tantissimo il nastro e tutti i suoni sembrano galleggiare in una specie di brodo. E poi [Marc Bolan] aveva questa voce strana che mi piaceva, forse perché anche io avevo la voce strana.” E ancora: ”Queste band facevano del pop, delle canzoni semplici, scritte bene con degli elementi di arrangiamento inusuali. Abbiamo usato questo approccio. Ad esempio, all’inizio la batteria la facevamo solo con i timpani e per arrangiare usavamo un sacco di oggetti." Solo più tardi ha iniziato ad apprezzare la capacità di inventiva negli arrangiamenti sfruttando gli strumenti classici del pop.

L'album dei Vadoinmessico esce nel 2012. La band suona a diversi festival in tutto il continente e divide il palco con band di riferimento per la sua scena come i già citati Animal Collective e Mac DeMarco: ”Era il momento di fermarsi e registrare un altro album. All’inizio abbiamo pensato di andare a Berlino perché costava meno di Londra. E lì è nato il secondo progetto, i Cairobi.”

Chiedo a Giorgio qual era la visione musicale dei Cairobi: ”The Antique Blacks di Sun Ra era il genere di cosa che mi faceva impazzire in quel periodo. Non era chiaro cosa succedeva. Volevo creare una versione ordinata e pop di quel tipo di confusione.”

Le vite degli altri membri della band prendono altre direzioni mentre Giorgio, il più giovane del gruppo, continua a lavorare sull’album per due anni. ”I tempi per fare uscire il disco si sono dilatati così tanto che alla fine l’album dei Cairobi è uscito un mese prima di Fa Niente. Forse è ancora un po’ una ferita aperta per parlarne serenamente.” E allora andiamo avanti.

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”Avevo lavorato al disco dei Cairobi tutti i giorni per due anni e mezzo ma la situazione era immobile. Così, un po’ demoralizzato, ho iniziato a scrivere Fa Niente. Ho dovuto prendere in mano lo stomaco: sono venuto qui per finire un disco ma ho capito che non uscirà o chissà quando uscirà, oggi inizio a farne un altro. È stato abbastanza difficile. Non sapevo che cosa stessi facendo a Berlino e della mia vita", mi racconta Giorgio del periodo in cui è cominciata la cosa che l'ha portato qua, oggi, a parlare con me.

Voleva liberarsi delle complicazioni di suonare in una band, così all'inizio si è dato all'elettronica, ma ha rapidamente capito che non faceva per lui. "Così ho pensato: ora faccio qualcosa di sostenibile, suonabile in tre. Si prende il furgone e si gira in tre. Ho scritto un paio di pezzi e ho provato a metterci dei testi in italiano. Mi divertiva sentirmi cantare in italiano. Mi sentivo a casa. Mi veniva da sorridere.”

Il processo di semplificazione degli arrangiamenti gli fa scoprire una nuova libertà compositiva. "L’idea era di buttarci dentro tutto: unire gli accordoni di chitarra stile canzone da spiaggia e i movimenti armonici più strani. Non volevo avere paura di niente: né del giro di Do né dell’accordo minore con la settima maggiore e la quinta bemolle. Negli arrangiamenti, però, dovevo tenere in conto che le canzoni dovevano essere suonabili in tre persone e che solo la voce poteva suonare la melodia.”

Per il sound di Fa Niente, in particolare quello di batteria e basso, Giorgio cita come influenza le ESG, una band no wave dei primi anni Ottanta formata da tre sorelle del Bronx che hanno registrato un album basato su basso, batteria, percussioni e voce. In seguito hanno guadagnato notorietà perché i loro pezzi sono stati campionati in molti brani hip hop e questo probabilmente le ha portate ad intitolare un loro EP Sample Credits Don't Pay Our Bills.

Dopo aver registrato i primi tre pezzi c'è stato il contatto con Bomba Dischi. Dall’estate 2016 Giorgio ha iniziato a fare avanti e indietro da Roma per provare con Matteo Domenichelli e Francesco Aprili, "che suonano assieme come bassista e batterista da quando hanno 15-16 anni e avevano una band che si chiama Boxerin Club". ”In tre settimane di prove, abbiamo preparato uno spettacolo da un’ora partendo dai pezzi del disco che durava solo mezz’ora. Abbiamo spremuto i pezzi aggiunto delle parti di improvvisazione. Avevamo in mente sempre le ESG e i Can come mondo di suoni. Ege Bamyasi è un altro di quegli album che mi ha cambiato la vita.”

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Tornare all'italiano, per Giorgio, è una folgorazione. "È più interessante un italiano che scrive in italiano. Ci sono cose come le sfumature, il significato culturale di una parola messa fuori posto o termini che hanno significato solo per i tuoi contemporanei. Ad esempio, oggi si dice 'ci volo', tra 20 anni forse sarà ridicolo. Sarà come dire oggi 'bella secco'. Anche se mi risulta che a Roma stiano ricominciando a dirlo.”

Ho chiesto a Giorgio di tirare fuori qualche aneddoto sconvolgente sul tour con i Phoenix. ”Essere a Los Angeles in tour con i Phoenix era già qualcosa di speciale. Tra i ricordi più vividi ci sono quando siamo andati nel deserto, quando ho visto una macchina che prendeva fuoco. Ah sì, nel viaggio di ritorno in aereo, un tipo è impazzito, voleva strozzare suo padre. C’è stato un atterraggio d’emergenza e dieci camionette della polizia sulla pista per arrestare questo tizio.”

Oltre alla cover di "Lovelife" per lo split con i Phoenix, Giorgio ha anche registrato le chitarre per uno degli album più importanti dell’anno scorso: Evergreen di Calcutta. Ma non è l'unica hit a cui ha partecipato: suoi sono il ritornello di "Missili" di Frah Quintale ("Dovevamo proporla a qualcun altro, ma poi l'abbiamo fatta uscire così com'era"), e le chitarre e il basso su Stanza Singola di Franco126 ("Ieri l'altro" è il pezzo di cui va più orgoglioso).

Sempre per ricollegarci al concept alla base di "La Musica Italiana", chiedo a Giorgio se quando era all’estero provava nostalgia per l’Italia. ”Cerco sempre di non usare la parola nostalgia. Direi di più interesse. Nel momento in cui sono andato via dall’Italia, ho iniziato ad apprezzare e interessarmi a musica italiana: Dalla, Battisti, Vasco Rossi. Ho letto la letteratura italiana autori come Calvino, Gadda, Flaiano, Carlo Levi. E ho guardato i film del vecchio cinema italiano: Monicelli, Dino Risi… ho iniziato a scoprire e capire queste cose solo quando ero lontano.”

Per il punto di vista ”esterno” di chi ha lasciato il paese come Giorgio, queste opere condividono la capacità di unire drammaticità e leggerezza. "Anche Lucio Dalla è così. Leggero, ironico, appassionato e coinvolgente a livello emotivo. Nella musica italiana nello specifico, c’è qualcosa di speciale nelle melodia. E per me la melodia è la cosa più importante. Se non c’è la melodia non c’è il testo. Battisti che ho scoperto a 22-23 anni ha questa caratteristica.”

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La prima cosa che mi ha colpito di Smog, il nuovo album di Giorgio Poi, è che il sound è molto più cristallino, non c’è più quel suono weird. Ha cercato forse di trovare una formula più accessibile, più mainstream? ”Quando scrivo non penso a niente. Cerco la soluzione al problema-canzone. Non faccio ragionamenti tecnici, pratici o di fruibilità.”

L’album è stato registrato in casa in quattro mesi, tranne la batteria, che è stata registrata in studio. Poi in Smog ci sono tanti synth. "Visto che possiamo permetterci di girare in tour anche con un tastierista (Francesco Bellani già con I Cani, Calcutta) ho aggiunto questo strumento.”

”Vedo tutto il mio percorso che mi ha portato dal disco dei Vadoinmessico a Smog e poi alle prossime cose come un'evoluzione di quello che ho fatto prima", riflette Giorgio. "Non ci saranno mai un taglio netto o degli sconvolgimenti. Sono solo cambiate le condizioni materiali in cui vivo. Non parlo più in un’altra lingua, sono tornato in Italia, vivo in una città nuova. Tutte queste cose possono finire nel disco a livello inconscio.”

Mentre chiacchieriamo per l’ultima volta al telefono, Giorgio mi dice che è per un po’ a Bologna prima di tornare a suonare in giro. Forse sta scrivendo una nuova canzone. Allora decido che è arrivato il momento di farlo continuare con il suo lavoro. Ecco una persona dotata di senno. Anche se non è per forza il senno di Poi.

Federico scrive, suona, canta e lo puoi trovare su Instagram.

Ludovica lavora per VICE ma la sua vera passione è fotografare rockstar. Anche lei è su Instagram.

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Tutto quello che devi sapere sul MI AMI 2019

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Come ogni anno a fine maggio all'Idroscalo di Milano, negli spazi del Circolo Magnolia, arriva il MI AMI. Mai come quest'anno il rap e protagonista e con un sacco di artisti che ci piacciono, come potete vedere dalla quantità di link che abbiamo messo sui nomi qua sotto: tutti rimandano a nostri contenuti (interviste, recensioni, cose così). Ripercorriamo brevemente quello che succederà, così che capiate da soli perché dovreste andarci.

VENERDÌ 24

Il primo live di Massimo Pericolo vi basta? Se non dovesse bastarvi, sappiate che con lui ci sarà una caterva di artisti che potremmo benissimo mettere tra i nostri preferiti, quelli che consideriamo le punte di diamante del nuovo rap italiano: Speranza da Caserta, Ketama126, i Tauro Boys e i Sxrxxwland da Roma, gli Psicologi al loro esordio milanese.

E poi un sacco di altra gente a cui si vuol bene: i Coma Cose, Franco126, i Gomma, i Fast Animals & Slow Kids, Giorgio Poi. E poi ci saranno esordienti interessanti come Maggio e Jesse The Faccio: entrambi usano le chitarre, ma il primo per rapparci sopra l'emo e il secondo per cantarci sopra l'indie ma quello fatto bene.

SABATO 25

Qua c'è un nome bello grosso al suo primo concerto a Milano da quando ha, ehm, vinto Sanremo: il caro vecchio Mahmood. Restiamo in territori rap con calibri da Novanta come Nitro, Bassi Maestro con il progetto North of Loreto ed Ensi, con un soundsystem a cura di Frenetik&Orang3, con set della regina MYSS KETA e di Chadia Rodriguez, con nuove leve come Venerus, Irbis37 e Fuera.

Allontanandoci dalle rime e dai beat, segnaliamo Motta, Riccardo Sinigallia, gli Uccelli (cioè Pop X), gente dell'underground come i Terso, Le Feste Antonacci, i Dellacasa Maldive.

DOMENICA 26

Per chiudere in bellezza c'è una leggenda e faro dell'itpop come Luca Carboni, che magari una volta nella vita dovreste vedere dal vivo. E poi i bravissimi Any Other di Adele Nigro, Andrea Laszlo De Simone, le bestemmie e il cuore arido di Giorgio Canali, l'unica data estiva di Bugo, gli I Hate My Village, Her Skin e un altro po' di cose molto ok.

Il programma completo, oltre che ai biglietti e alle istruzioni su come arrivare al festival, stanno sul suo sito ufficiale.

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Pace, anarchia, fanculo il sistema: una chiacchierata con i Crass

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Non c'è dubbio che il punk abbia cambiato per sempre il mondo della musica, dalla sua esplosione nella seconda metà degli anni Settanta. Improvvisamente, in cima alle classifiche inglesi, c'erano canzoni dai titoli folli come "Anarchy In The UK". Ma diciamo la verità, l'anarchia come la intendevano i Sex Pistols era poco di più di uno scherzo, una provocazione da ragazzini, una caccola spiaccicata sull'obiettivo di una telecamera. Nulla di male, sia chiaro, ma l'anarchia va ben oltre.

Chi ha davvero portato l'anarchia nel punk è una band, anzi un collettivo, di nome Crass. I Crass erano formati da una ganga composta da ex-hippie con un passato da professori di arte e teppistelli di strada dall'inconfondibile accento cockney, militanti femministe e artiste squattrinate. La loro base era la Dial House, una catapecchia in mezzo agli sconfinati prati dell'Essex, a cui il fondatore e batterista della band Penny Rimbaud aveva levato le serrature, trasformandola in una comune votata alla pace, all'amore e all'anarchia.

I Crass non erano soltanto una band: erano un'unità di sabotaggio per la società inglese. Eve Libertine e Penny scorrazzavano per la rete metropolitana di Londra armati di stencil e bombolette riempendo i muri di messaggi anti-militaristici quando i writer di New York City erano appena agli inizi; nel 1983, in piena Guerra Fredda e durante la crisi delle Malvinas/Falkland, crearono un incidente diplomatico internazionale diffondendo la registrazione di una finta telefonata tra Margaret Thatcher e Ronald Reagan in cui un collage tra le voci dei due leader dell'Occidente faceva sembrare che stessero confessando crimini di guerra e interessi occulti.

I loro concerti e i loro dischi erano agglomerati catartici di affermazione anarchica, pacifista, femminista e animalista. Dietro di loro sventolavano bandiere piene di simboli e slogan. Presto diventarono un vero e proprio culto per i punk di tutto il mondo, a dispetto del loro rifiuto di trasformarsi in simboli e di conformarsi a quello che il pubblico si aspettava da loro. Erano il gruppo più punk del mondo proprio per il loro ostinato rifiuto di essere punk, perché, per citare il testo della loro "Punk is dead" "i movimenti sono sistemi e i sistemi uccidono".

In tutto questo, non bisogna dimenticare che hanno prodotto sette album di musica incredibilmente vitale, che del punk prendeva l'urgenza e l'assalto primitivo ma non rinunciava alla creatività e alla libertà dell'approccio sperimentale, mescolando musica concreta, poesia e, fondamentalmente, qualunque cosa passasse loro per la testa. Questi album oggi stanno venendo tutti ristampati. I primi tre, The Feeding of the 5000, Stations of the Crass e la raccolta di singoli Best Before 1984 sono già usciti e sono distribuiti da Audioglobe in Italia. Gli altri (Yes Sir I Will, Penis Envy, Ten Notes On A Summer’s Day e Christ The Album) usciranno il 28 giugno.

Abbiamo avuto la possibilità di parlare con Penny Rimbaud e ripercorrere la storia di uno dei progetti musicali più improbabili, assurdi, influenti ed esaltanti della storia della musica, la nostra conversazione è qua sotto.

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Penny Rimbaud, fotografato in esclusiva per Noisey/VICE da Hal

Noisey: Come si sono sviluppati i Crass a partire dalla Dial House? Perché proprio un gruppo punk?
Penny Rimbaud: Nulla era intenzionale. C’è stata forse una intenzione, sarà stato il 1970. Ero tornato a casa dopo un periodo passato a lavorare come docente all’Accademia di Belle Arti, ero molto disilluso, stanco, consumato dalle politiche universitarie e dall’atteggiamento poco piacevole di molti professori. Non volevo più averci nulla a che fare, così ho lasciato quel lavoro e ho eliminato le serrature dalle porte di casa mia. E poi mi sono seduto, chiedendomi che cosa sarebbe successo.

Aprire la tua casa è stato il primo passo, quindi.
A dir la verità è stato l’unico passo. Tutto ciò che è successo è stato una conseguenza del vivere con le porte aperte. Ci parlavamo, e magari un dialogo ci portava a piantare delle patate nell’orto, oppure a tagliare la legna, o ad andare a fare una passeggiata, o a formare una band o a guardare un film. Nessuna di queste cose è più importante delle altre. Alcune persone attribuiscono importanza a certe cose successe, ma nella mia vita nessuna è più o meno importante delle altre.

Quindi, la Dial House è diventata quello che è perché non volevo più vivere nella maniera che pensavo mi fosse stata imposta. Mi sembrava che quella che la maggior parte delle persone vivevano fosse una vita a metà. Avevo cercato di seguire una strada convenzionale, come docente e come pittore, ma mancava qualcosa: era la vita. Così ho aperto le porte. Le due persone con cui vivevo ai tempi se ne sono andate, perché non erano d’accordo. L’unica regola era accettare ciò che accadeva, il più possibile. Vivo ancora secondo questa regola. Sono arrivate tante persone, tante se ne sono andate. Una persona che è arrivata, sarà stato sette anni dopo che avevo aperto le porte, era un tizio di nome Steve. Era il fratello minore di un artista che era stato qua per un po’. Aveva vent’anni in meno di me e voleva fondare una band. Avrà avuto 16 o 17 anni, io ne avevo già più di trenta. Insomma, lui fa: “Voglio fare un gruppo”, io dico: “Ho una batteria”. E abbiamo fatto una band. Non ci interessava nemmeno coinvolgere altra gente, eravamo tranquilli soltanto noi due. Gli altri membri del gruppo erano tutta gente che passava di lì, ci aveva sentiti fare casino e aveva detto: “Posso provare anch’io?” Andy, il chitarrista ritmico, non aveva mai suonato la chitarra prima e, nei sette anni passati nei Crass, non ha mai imparato. Non c’era un programma, non c’era ambizione: abbiamo soltanto seguito il flusso degli eventi. Invece di dire “no”, abbiamo detto “sì”. E se dici sempre di sì, ti ritrovi in situazioni fantastiche e imbarazzanti. Abbiamo subito deciso che avremmo detto di no soltanto a ogni tipo di impresa commerciale, perché non volevamo questioni di soldi. Non abbiamo mai fatto un soldo per tutta la nostra carriera, perché li davamo via.

Sulla questione dei soldi, un esempio perfetto è stato il vostro primo singolo Reality Asylum, che vendevate sottocosto…
Già, avremmo fatto più soldi se non ne avessimo venduto neanche una copia, perché per ogni copia venduta perdevamo sempre più denaro. Fa abbastanza ridere l’idea di vendere qualcosa e diventare più poveri, ma sì, diciamo che dimostra più o meno i nostri principi.

Quando si parla dei Crass, l’aspetto estetico e politico sono importantissimi. Personalmente, credo che siate stati in grado di sintetizzare meglio di chiunque altro una specie di ideologia punk che va oltre l’anarchismo, oltre il nichilismo, oltre la protesta. Uno degli slogan più intelligenti, per me, è The nature of your oppression is the aesthetic of our anger (“La natura della vostra oppressione è l’estetica della nostra rabbia”): mai definizione fu più azzeccata per l’anarcho-punk, un movimento che usa un immaginario violento, un’estetica quasi militare, dei suoni che sono quasi quelli di un bombardamento, per parlare di antimilitarismo, pace e resistenza all’oppressione.
È proprio così. Abbiamo deciso di attaccare la narrazione con la narrazione stessa, usando le sue forme contro di lei. Quello è un tipico esempio del nostro approccio, che era essenzialmente dadaista. Quello è uno dei nostri slogan meglio riusciti.

Il passaggio tra The Feeding of the 5000 e il secondo album, Stations of the Crass , è cruciale. Perché se il primo era venuto fuori dal caos, da una band che non era veramente una band, una volta arrivati al secondo disco eravate, anche se contro la vostra volontà, ormai un gruppo ben rodato, con un’identità precisa.
Stations of the Crass è probabilmente il più venduto dei nostri dischi, e secondo me è anche il più brutto. Feeding era un “vaffanculo, facciamo quello che ci pare”, abbiamo detto quello che volevamo dire senza preoccuparci di avere un pulpito, di essere ascoltati. Ma arrivati a Stations, per un breve periodo abbiamo preso la cosa sul serio, ed è venuta a mancare l’essenza. Ha delle belle canzoni, è più facile da ascoltare, molto meno impegnativo. Su Feeding abbiamo creato una definizione che non avremmo mai pensato qualcuno avrebbe preso sul serio, che avrebbe attirato un pubblico, e invece un pubblico è arrivato. E quindi con Stations abbiamo pensato “questa è la gente per cui stiamo scrivendo”, in un certo senso. È un buon album, non fraintendere, ma è stato il punto in cui ci siamo avvicinati di più alla mentalità da “industria musicale”.

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Eppure è proprio su Stations che, in “Punk is dead”, dite “i movimenti sono sistemi e i sistemi uccidono”—un altro brillante slogan che risulta super punk nel suo stesso rifiuto della codificazione del punk.
Sarebbe ridicolo dire che con Stations stessimo “cavalcando un’onda”, ma penso che stessimo sfruttando una situazione invece di creare una situazione nuova. Dopo Stations, mi sento tranquillo e profondamente felice di dire che in nessun modo, mai, abbiamo cercato di conformarci ad alcunché.

A questo punto anche la parte di attivismo della band, l’azione diretta, è diventata fondamentale per la band.
Anche quello lo facevamo già da prima. Eve [Libertine] e io facevamo graffiti in metropolitana già da un anno prima di fondare la band. A quei tempi era un’azione molto radicale, non c’erano graffiti in giro, non penso nemmeno che esistessero le tag nel 1976. Avevamo sentito parlare delle tag in America e io avevo visto i graffiti politicizzati a Parigi, da lì ho tratto ispirazione per farli a Londra. Ogni sabato sera uscivamo armati di bombolette e scrivevamo nelle stazioni del metrò in tutto il centro di Londra. Eravamo molto rigorosi. La band, anzi, rese più difficile tutto questo perché a partire dal 1978 ci tolse molto tempo.

Però il nostro attivismo dimostrava che non era un gioco per noi, che vivevamo quello di cui parlavamo su ogni fronte. I Clash, per esempio, parlavano sempre di creare stazioni radio pirata, e non lo fecero mai, o i Sex Pistols cantavano “Anarchia nel Regno Unito” ma intendevano “Soldi nelle nostre tasche”. Noi eravamo seri. La gente lo sapeva. Non abbiamo mai fatto un soldo dai Crass, nonostante la nostra popolarità, che tra l’altro è in crescita. Non abbiamo mai avuto nulla da nascondere, il messaggio dei Crass lo applichiamo nel nostro stile di vita.

È davvero impressionante come i vostri testi, sempre così specifici, in cui attaccavate situazioni reali facendo nomi e cognomi (“ Margaret Thatcher, come ci si sente a essere la madre di un migliaio di morti? ”) risultino ancora validi e al passo coi tempi. E questo mi porta all’attualissima questione femminista, alla quale avete dedicato un intero album: Penis Envy.
Penis Envy fu una reazione naturale alla situazione che vivevamo. Dopo Stations era nata la Crass Army, un gruppo di giovani perlopiù uomini, tutti vestiti di nero. Pensavano fosse una specie di uniforme, ma il motivo per cui noi indossavamo solo abiti neri era anti-uniforme: ai tempi la “moda punk”, quella creata da Vivienne Westwood e compagnia, era coloratissima. Era una dichiarazione di non-identità, ma inevitabilmente era diventato storico. A ogni manifestazione, c’era un gruppo di persone tutte vestite di nero. Noi siamo parzialmente responsabili di questo, e non ne andiamo particolarmente fieri, perché non hanno afferrato il concetto.

Quindi, come si esce da questa situazione? Beh, avevamo tre voci femminili molto potenti all’interno della band. Eve, in particolare, aveva un fortissimo background femminista, faceva già parte della seconda ondata femminista nei tardi anni Sessanta e primi Settanta, quella di Germaine Greer. Quindi aveva molte cose da dire. Era ovvio che se volevamo distruggere, in un certo senso, tutta la questione dei boot boys e della Crass Army, avremmo dovuto usare la sua voce. Il risultato è probabilmente uno dei nostri album migliori, di sicuro uno dei più eloquenti, magnificamente condotto da Eve. Non mi viene in mente alcun altro album femminista, a dir la verità. Ci sono tanti buoni dischi realizzati da donne, ma nessuno così diretto.

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Foto di Tony Mottram

In Penis Envy rientra anche la straordinaria truffa ai danni della rivista femminile Loving , quando sotto l’alias Creative Recording And Sound Services riusciste a vendere una vostra canzone, “Our Wedding”, come singolo per innamorati allegato alla rivista, con un testo a base di luoghi comuni e terrificanti dichiarazioni di possesso mascherate da amore romantico.
È stata una cosa venuta fuori naturalmente dal nostro interesse. Avevamo passato due settimane a registrare il disco, costantemente immersi nella discussione degli argomenti trattati. Prima di “Our Wedding” c’era un’altra idea. Avevamo deciso di farne una versione di “Lipstick On Your Collar”, un vecchio pezzo romantico anni Cinquanta, intitolata “Lipstick On Your Penis (Tells A Tale On You)”. Eve aveva preparato un testo tutto a base di pompini e cose del genere. Ma il problema era che veniva a tutti così tanto da ridere che non riuscivamo a finire una take. Ho iniziato a pensare che non valesse la pena di rischiare una gigantesca causa per violazione del copyright per una cosa del genere, che non faceva tanto di più che mettere parolacce su una vecchia canzone. A quel punto ci è venuto in mente di fare qualcosa di più radicale, che avesse effettivamente un impatto. All’inizio doveva essere semplicemente un’accozzaglia di tremende banalità romantiche da piazzare sull’album. Eve stava ancora male dal ridere, fondamentalmente, quindi Joy si offrì di cantarla, e lei aveva una voce molto più morbida e delicata. Pete e Joy si sono chiusi in una stanza a scrivere il testo per dieci minuti, durante i quali hanno buttato giù tutto il peggio del romanticismo da discount che riuscivano a farsi venire in mente. E mentre la registravamo, abbiamo pensato “uhm, questa roba è abbastanza convincente da provare a mandarla a una di quelle riviste rosa”. È stato un gesto politico, sia chiaro. Quelle riviste sfruttano la solitudine, la confusione dei più giovani promuovendo un’idea di amore romantico che è impossibile, irrealistica, irrealizzabile e, in ultima istanza, anche indesiderabile. Il gesto, quindi, aveva un fortissimo valore politico e femminista, ma ci ha anche fatto fare due risate. A Loving hanno abboccato subito, e il resto è storia.

A testimonianza di quanto foste avanti, credo che il problema dell’idea di amore romantico che viene venduta ai giovanissimi sia ancora irrealistica, e ancora pochissimo discusso negli ambienti anche più radicali.
Assolutamente. Penis Envy affronta questo tema in maniera estremamente diretta, in più di una canzone. In realtà Eve e io stiamo pensando di registrare una nuova versione dell’album, ma questa volta in uno stile più vicino all’hip-hop, al rap, al grime. Ovviamente non sarei assolutamente in grado di creare dei beat in stile contemporaneo, quindi mi sono messo in contatto con un paio di persone che potrebbero lavorarci o almeno indirizzarmi nella giusta direzione. Vorremmo creare una versione ancora più radicale di questo album, che è probabilmente il più attuale che abbiamo fatto. La parte più interessante, per me, è l’idea di includere la questione razziale nel messaggio dell’album, ma io, essendo bianco, non sono qualificato per parlarne. Per questo sto cercando di coinvolgere alcuni musicisti di Los Angeles che potranno aiutarci su quel versante.

Riguardo a Christ: The Album , ho letto da qualche parte che voi lo consideravate un fallimento, perché era uscito troppo tardi e gli argomenti che toccava non erano più rilevanti secondo voi.
Christ doveva essere una celebrazione. Le nostre azioni, assieme a quelle di tante altre persone, avevano portato a una totale rinascita del movimento pacifista nel Regno Unito, che nel ’77 praticamente non esisteva più. Nel 1980, era tornato un movimento radicale e potente. Si espandeva in tanti campi diversi: la liberazione animale, l’ambientalismo, un’intera gamma di situazioni che cercavamo di cambiare. Ovviamente il sogno era la rivoluzione, ma sai, quella non si può fare dall’oggi al domani. Quando abbiamo iniziato i Crass, ci sentivamo davvero sicuri di noi, credevamo di vincere, di avere un impatto importante. Eravamo orgogliosi di quello che avevamo fatto, e Christ era una specie di presentazione. Penso che, durante la sua realizzazione, pensassimo anche che sarebbe stato il nostro ultimo album, perché la missione era compiuta, per modo di dire.

E poi è arrivata la guerra nelle Falkland. E in due settimane, quel movimento pacifista così potente è crollato. Allo scoppiare della guerra c’è stato un silenzio terrificante, e noi eravamo una delle poche voci ancora disposte ad alzarsi. Ci sentivamo molto soli, impauriti e perduti, a dirti la verità. L’unica risposta era l’azione diretta, che per noi significava andare in studio domani e registrare velocemente un’invettiva incazzata sulla situazione. Ovviamente c’era anche altro, come il nascente Stop The City. Ma bisognava agire velocemente. Per noi, insomma, era stato un fallimento, non solo perché avevamo pubblicato un disco che non parlava della gravissima situazione di quel momento, ma perché l’intero movimento si era fatto prendere dalla paura.

Qua in Italia, si potrebbe dire che la sinistra parlamentare abbia in diverse occasioni azzoppato la vera opposizione al governo di destra più di quanto abbia fatto la destra stessa. Pensi che sia successa la stessa cosa durante il governo di Margaret Thatcher e la guerra nelle Falkland?
Non direi: il silenzio era assoluto, anche negli ambienti radicali. Certo, si potrebbe dire che la sinistra è sempre stata un ostacolo per il pensiero rivoluzionario in questo paese, nel corso dell’ultimo secolo. Sono stati dalla parte dell’oppressione più o meno sempre. Quello che manca a tutti i politici, e a tutta la politica, è l’immaginazione. Non puoi avere immaginazione e allo stesso tempo tenere in piedi un sistema. È come cercare di costruire una banana a partire da un’automobile, non funziona. Quindi non si può fare la rivoluzione con la politica, ma solo a partire dalla cultura. Per questo io credo profondamente nella rivoluzione culturale. Dada, beat, esistenzialismo francese, rinascimento italiano: queste cose hanno avuto un profondo effetto su come viviamo oggi. Queste erano rivoluzioni, nel bene o nel male. Gli interessi economici e aziendalisti della politica di oggi non hanno alcun effetto sui nostri pensieri, sulle nostre credenze o sulle nostre aspirazioni. La cosa che mi ha sempre dato fastidio della sinistra è che, molto più della destra, crede di parlare con la voce della ragione. E se c’è una cosa che è controrivoluzionaria è la ragione.

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Foto di Tony Mottram

Già che siamo sull’argomento, che idea ti sei fatto dell’ascesa delle destre in Europa?
Non la chiamerei tanto “ascesa delle destre”, quanto “declino delle sinistre”. La sinistra si è dimostrata sterile: non riesce a operare all’interno del paradigma capitalista. Né è disposta a tentare di cambiare davvero, perché il vero cambiamento è una cosa che va molto oltre l’immaginazione di Jeremy Corbin. Non vedo un’ascesa della destra, quindi, ma semmai un fallimento, un fallimento miserabile della sinistra. È per questo che c’è così tanto sconforto, così tanta rabbia, così tanta insicurezza. Non guardiamo ai politici, guardiamo a noi stessi. Perché non sappiamo che cosa fare. La Brexit è un classico esempio di un caos imprevisto e terrificante. Nessuno sa che cosa stia succedendo né cosa fare al riguardo. Nel frattempo c’è un vero senso di insicurezza, evidenziato da un aumento di violenza insensata. C’è un’energia negativa nell’aria, che è dovuta al fatto che la gente è completamente dipendente da un governo efficiente, e gli ordini che sta ricevendo non stanno funzionando. Bel lavoro. Non sono preoccupato della crescita della destra, né in Europa né nel mio paese; quello che mi preoccupa è la mancanza di visione di quella che è storicamente l’opposizione alla destra. Penso che ci siano persone che stanno guardando a nuove conquiste creative che potranno fare da base culturale per un futuro migliore, ma i politici non possono avere nulla a che fare con tutto questo. Cercare risposte nella sinistra è una perdita di tempo, non c’è una sinistra. È finita.

Penso che per sfuggire al clima tossico di oggi la vostra soluzione, quella di una comune basata su principi anarco-individualisti, sia probabilmente la migliore. Ma per seguirla bisogna rinunciare alla visibilità, a tutti quei meccanismi che ci fanno sentire qualcuno nella società odierna.
Più che di visibilità, io parlerei di ego. Bisogna rinunciare all’ego. L’ego è un costrutto, che noi creiamo ma a cui permettiamo di controllarci. Il mio approccio all’individualismo non si basa su “penso dunque sono”; al contrario, se proprio dovessi usare quel tipo di formula direi “io penso quindi noi siamo”. Ma non mi serve farlo, perché siamo in ogni caso, e che io pensi o meno non fa alcuna differenza. Io credo che noi siamo un’unità simbiotica, che ci piaccia o no. Siamo parte di un organismo chiamato Pianeta Terra. La coscienza non ha nulla a che fare con questa roba. La razionalizzazione serve solo a trovare un significato in qualcosa che è totalmente e palesemente senza significato, dare forma a qualcosa che è soltanto il vuoto. È qui che entra in gioco l’illusione cartesiana, “penso dunque sono”. Nel frattempo, il mondo è in pace. Siamo noi a portare la confusione, ma il mondo non ne è disturbato. Il mondo non ha paura di nulla. Al mondo non importa del cambiamento climatico. Ci piace pensare che ci siano un significato e uno scopo in ogni cosa, ma non ci sono.

Quante volte dobbiamo sentirci dire che il mondo è un posto terribile? Non è vero, non lo è! Per come la vedo io, i problemi iniziano quando qualcuno indossa un’uniforme. Ho viaggiato non proprio dappertutto, ma sono stato in tanti posti diversi: dovunque andassi sono stato felice, mi è stato offerto cibo, compagnia, amicizia e amore. Le uniche volte che non avveniva era perché c’era qualcuno con un’uniforme addosso.

Che cosa ne pensi della recente teoria del realismo capitalista? L’idea per cui a questo punto un mondo senza capitalismo sia del tutto immaginabile? La risposta, che mi è stata spiegata da amici più intelligenti di me, sembra essere semplicemente: tutto è immaginabile. Molla quel cazzo di telefonino e immagina e agisci di conseguenza.
Ma non bisogna nemmeno fregarsi da soli. Qualunque cosa tu creda, devi guardare quali sono i suoi problemi e chiederti: “posso accettarli?” E se li puoi accettare, perfetto. Poi alcune cose le abbandoni naturalmente, senza imposizione. Io per esempio da quando ho avuto l’infarto ho gradualmente smesso con la nicotina. Non volevo farlo, mi piace fumare. Ma il mio corpo non l’accetta più. Penso che si chiami “crescere”. L’importante è che tu conosca le implicazioni delle tue scelte. Vuoi mangiare una vacca a settimana e guidare l’auto tutti i giorni? Benissimo. Ma sii a tuo agio con le conseguenze. Protestare contro l’industria della carne non serve. Sai come si fa a convincere la gente a diventare vegan? Gli si offre un pasto vegan buonissimo. C’è troppa negatività nei movimenti bohémien. Ti ricordi come funzionava la moda nel periodo punk? Era terribile, appositamente brutta. Perché? È bello essere belli! I fiori non hanno paura di essere belli, perché dovremmo avercela noi? Solo perché abbiamo una coscienza? Siamo stati costretti a fare nostre così tante stronzate negative: è ora di fare un po’ di ordine. Piano piano, liberati dei pesi morti e ti troverai con una cosa… bella! Penso che più ci si avvicina alla bellezza, più ci si avvicina alla fine della sofferenza. E questo si manifesta nell’arte e nella creatività. Cose che catturino e meraviglino lo spirito umano, questo cerco io.

Ultima domanda per l’ultimo disco dei Crass, 10 Notes on a Summer’s Day.
L’ho appena rimasterizzato, ora finalmente suona esattamente come volevo. Credo che sia stato il modo migliore per chiudere l’esperienza della band. È stato un progetto molto intimo per me, non volevo finirla senza un messaggio personale. Il testo parla della mia esperienza nella band, dei nostri successi e dei nostri fallimenti. Ci tengo molto. È anche il meno venduto di tutti, in pochi l’hanno capito.

È un disco davvero strano. L’unico paragone che riesco a trovare è in un altro vostro disco, Yes Sir I Will , che ne rappresenta un po’ il lato oscuro.
In entrambi i casi si trattava di miei progetti, a cui ovviamente il resto del gruppo ha contribuito, ma l’idea di base era mia. Il paragone con Yes Sir è perfetto, devo dire: sono due lati di una stessa medaglia avant-garde. Parlano più o meno la stessa lingua ed entrambi hanno un punto di vista molto personale. La genesi di Yes Sir risiede nel terrore della guerra. Una sera sono andato a letto, il conflitto delle Falkland minacciava di estendersi a tutto il mondo, e c’era Eve nel mio letto che piangeva, così le ho detto: “Che succede?” E lei ha risposto: “Ho paura”. Io ho chiesto: “Di cosa?” E lei: “Dell’America e della Russia, di quello che sta succedendo”. E lì ho pensato che è proprio così che vincono. La guerra esiste solo se c’è la paura. La paura è il vero prodotto della guerra, e serve a tenerci sotto controllo. Siamo controllabili perché abbiamo paura. Mi ha dato un tale fastidio vederla così impaurita! Dopo tutti gli anni passati a dire “Non c’è alcuna autorità a parte te” eccetera eccetera, mi spezzava il cuore vedere una persona vicina a me così colpita da questi fatti. La nostra forza, o la forza che pensavamo di avere, non bastava. E in quel momento preciso sono uscito dalla camera da letto, sono tornato da basso e ho scritto il testo di Yes Sir I Will. Quindi la rabbia di Yes Sir I Will non è politica, ma personale. Era per dire: “Fottuti bastardi! State rovinando ogni piccola cosa buona e bella. Lasciatemi in pace!” Ecco di che cosa parlava. Ne vado molto orgoglioso. 10 Notes è un tipo diverso di urlo. Yes Sir era un urlo dalla testa, 10 Notes un canto dal cuore.

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"Ready For War" dei Tauro Boys e Knowpmw è una hit

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"È una hit" è una rubrica in cui uno di noi vi dice perché secondo lui un pezzo è una hit. Poi magari c'è dentro qualcosa d'altro, tipo un video e delle foto come in questo caso, ma il punto è solo uno: questa è una hit.

Durante il boom economico degli anni Sessanta, l'Italia era un mercato bello appetitoso per un sacco di industrie, tra cui quella musicale. E dato che non c'era poi così tanta gente che sapeva l'inglese e i dischi inglesi e statunitensi non è che arrivavano tutti nei negozi in giro per lo stivale, qualcuno ebbe l'idea di prendere le hit del rock and roll e del beat e del folk e di quelle cose lì e di farci delle cover in italiano.

Il risultato fu che molti giganti della musica italiana cominciarono la loro onorabile carriera prendendo una canzone già fatta, mettendoci due modifiche due e cantandole in italiano. "Sono bugiarda" di Caterina Caselli era "I'm a Believer" dei Monkees, "Luglio" di Riccardo Del Turco era "I'm Gonna Try" dei Tremeloes, "Pregherò" di Celentano era "Stand By Me" di Ben E. King. Se guardate il canale YouTube della splendida e buongiornista Radio Birikina ce ne sono un sacco, evidenziate nella loro rubrica 50/50.

Oggi le canzoni invece sono ovunque subito e in tutto il mondo, ma noi siamo ancora qua a prenderle e rifarle nella lingua che ci piace e col testo che ci piace, e magari a farle diventare un po' senza volerlo un ariete per sfondare le orecchie e il cuore di chi sta all'ascolto. Guardate, per dire, gli amici di Napoli con il reggaeton.

E così hanno fatto i Tauro Boys, che con la loro cover di "Erase Your Social" di Lil Uzi Vert cantata da Prince hanno sfondato i miei. Quella melodia ipercatchy cantata in italiano, ripetuta con gioia, intrisa di cazzonaggine vaporosa, era davvero perfetta per trasformarsi in uno di quei vermiciattoli che strisciano nel timpano e lì si fanno il nido. Poi l'hanno quasi rifatto, i Tauro, con "Dieci Ragazze", che non è proprio una cover del vecchio Lucio ma ci strizza l'occhio, e la seduce, e la porta in viaggio nel mondo del rap che vive su internet e gioca con le chitarre.

tauro boys ready for war
L'artwork di "Ready For War" dei Tauro Boys e Knowpmw, cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify.

"Ready For War" insieme a Knowpmw, di cui esce oggi il video ufficiale, è la dimostrazione che Maximilian, Prince e Pava hanno assimilato le componenti fondamentali di queste mezze cover—la melodia memorabile, l'effetto nostalgia delle chitarre—e le hanno messe, per la prima volta, in una canzone interamente loro, e ci hanno aggiunto un enorme senso di coralità.

Il ritornello di Maximilian è costruito come quelli che di solito, ai concertoni di una volta, facevano alzare gli accendini, facevano battere le mani al ritmo di una lenta marcia—chessò, quella di "We're Not Gonna Take It", quella di "We Will Rock You". Il suo perno, come capita spesso nei Tauro, è l'amore disperato ma abbastanza cheeky da non risultare sdolcinato: ci sono i messaggi lunghissimi e un'eclissi da comprare, sì, ma c'è anche un all you can eat su una bitch.

Attorno ci ruotano le strofe di Prince e Pava, esempi da manuale di quella "scrittura pop" che dava valore al TauroTape2. Il ruolo di Knowpmw, nel pezzo, è invece quello di dare tensione prima del crescendo finale: a lui viene affidato il bridge, cinque frasi in croce che sono candido bragging col sorriso (cioè il suo valore—le stesse cose, dette in modo diverso, sarebbero banali) e si trasformano in puro suono quando viene tirato in mezzo Yves Saint-Laurent.

Senza una struttura musicale sensata, però, "Ready For War" non sarebbe quello che è - cioè una hit. Ma lo è perché Close Listen, producer dei Tauro, e Peppe Amore, producer di Knowpmw, condividono lo stesso viaggio musicale: la ripresa delle chitarrine pop punk e dell'emo più mainstream degli anni zero, e la conseguente nostalgia dolceamara nei loro confronti—sottolineata dall'"Io e lei, Marissa e Ryan" di Maximilian nel ritornello.

Tutto questo, però, non è applicato a una forma rap; è il cantato rap che si appoggia su un pezzo "da band", con la batteria che si prende le luci dei riflettori all'inizio dell'ultimo ritornello, il bridge di Pmw che crea tensione e il finalone con quattro voci che si affastellano e confondono fino a creare un glorioso senso di liberazione. Ed è per questo che "Ready For War" è una hit.

Qua sotto, in mezzo alle foto tratte dalle riprese del video, trovate due parole di tutti i ragazzi sul pezzo che ci siamo fatti mandare.

tauro boys maximilian

Maximilian: "Ready for War" è il nostro ritorno dopo il Tauro Tape 2 ed il nostro primo tour ufficiale. È una canzone nata molto spontaneamente dopo aver beccato Peppe e Knowpmw, con cui ci siamo trovati subito. Ci siamo beccati in un periodo in cui stavamo producendo tanta musica, gasati dai risultati del tour e del tape. Adesso stiamo tornando con delle tracce in un certo senso più mature e che per me rappresentano un approccio nuovo, più consapevole, a tutto ciò. Personalmente sento che le cose iniziano a cambiare, che io mi rapporto diversamente alla musica e che i mezzi che abbiamo a nostra disposizione sono sempre di più.

tauro boys prince

Prince: "Ready for War" è una traccia molto energica, più complessa delle solite tracce nostre. A due settimane dall'uscita sto capendo ora la sua vera portata. Parlando della mia strofa, ho deciso di darle un taglio “trap” nonostante sia un pezzo con le chitarre e batterie rock.

knowpmw ready for war

Knowpmw: "Questo pezzo nasce perchè siamo amici e ci siamo trovati la nostra wave. Ci piace uscire il venerdì e fare sex appeal, bellalalww."

tauro boys yang pava

Pava: "È il coming back dei Tauro, che sono tornati per rompere il culo a tutta la scena italiana. Stavamo a casa, è passato Marcus con Peppe, ci siamo messi a fare la traccia ed è uscita una cosa molto naturale. Abbiamo mixato la base bella cattiva con le chitarre con tutti i nostri pezzi molto differenti, e la nota trap melodica di Pmw. Per la mia strofa ho fatto una cosa molto personale."

tauro boys

Peppe Amore: "Con questo brano ho definito concretamente il mio sound, è il brano che più mi rappresenta e che evidentemente rimanda alla vita dei teenager nati negli anni novanta. Un mood ripreso da classici intramontabili dei primi anni 2000 come American Pie, Jackass, Project X, Scary Movie ed ovviamente sound del momento pop punk, che ha subito forti influenze da tutta la wave Disney Channel... come High School Musical. Sto vivendo un bel periodo, sto ricevendo un bel po di richieste di produzioni da parecchi artisti in Italia soprattutto emergenti. Ho sicuramente progetti futuri ma continuerò a collaborare ancora per un po' esclusivamente con Knowpmw e Tauro Boys, con i quali uscirà sicuramente roba nuova a breve."

knowpmw

Close Listen: "Il pezzo per me rappresenta un mix di esperienze che vanno dalla nostra preadolescenza ad oggi, e testimonia la nostra crescita e che ad oggi siamo pronti a tutto. È un momento positivo per il mio/nostro presente, siamo molto carichi."

tauro boys prince

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Tutti i concerti di #MUSICISMYRADAR

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È arrivato un momento che attendevamo da un po'. Oggi Radar Concerti ha annunciato la sua rassegna estiva, #MUSICISMYRADAR, che tra maggio e luglio porterà a Milano alcuni dei nostri artisti preferiti per una serie di concerti che chiamare imperdibili è ovvio, ma anche doveroso.

Si inizia il 17 maggio con Blank Banshee, uno dei pionieri della vaporwave, al Santeria Social Club e si finisce il 17 luglio con l'incredibile accoppiata di A$AP Rocky e Octavian al Carroponte. In mezzo, ci sono bombe come Empress Of, Metronomy, Kamasi Washington e Deerhunter. Tutte le informazioni e i link per acquistare i biglietti sono sul sito di Radar, guarda la line up completa sulla locandina qua sotto.

musicismyradar
Clicca sull'immagine per informazioni e biglietti

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Vieni alla festa di Noisey e Iuter allo Skate & Surf Film Festival

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Questa settimana allo spazio BASE di via Bergognone 34, a Milano, c'è lo Skate & Surf Film Festival. Il programma del festival è ricco di proiezioni ed eventi fichissimi e potete consultarlo sul sito ufficiale. Ma visto che gli amici di SSFF di musica e moda se ne intendono, hanno chiesto a Noisey e Iuter di curare i concerti per la festa del weekend. Ovviamente non potevamo dire di no.

Venerdì 10 e sabato 11 maggio, quindi, preparatevi a due serate di fuoco, gratis, senza registrazioni o acrobazie virtuali. Dovete solo venire lì e godervi lo spettacolo.

Venerdì avremo due eroi del rap italiano che porteranno due concerti di culto: uno è Chicoria e non ha bisogno di presentazioni: ex-In The Panchine e Truceklan, porta in giro il suono delle strade di Roma dai primi anni Zero. L'altro è Metal Carter, il solo e unico Death King della scena italiana. Sempre venerdì avremo i 72-HOUR POST FIGHT, una band che gioca con elettronica, jazz e hip-hop, e DJ set a cura di Funclab Collective e Federico Sardo.

Sabato invece ci sarà il live acustico di Generic Animal, chitarrista di fiducia di artisti come Ketama126 e Rkomi. E poi il rap della morte dei Francesca97 con la loro scarica di violenza audiovisiva, e un DJ set di Sonia Garcia.

Come dicevamo sopra, non serve registrarsi da nessuna parte. Ci vediamo venerdì e sabato!

Il futuro fa paura, il presente fa paura, e allora balliamo: intervista a Holly Herndon

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Parlare di Holly Herndon è un’impresa titanica, e ce ne eravamo già resi conto con Platform, nel 2015. Pochi altri, infatti, sono riusciti ad indagare il presente con un approccio così sincero e sfaccettato, multitematico, lungo un percorso in cui la musica è certamente un mezzo necessario, ma non sufficiente (nemmeno un mese fa, per esempio, si è laureata all’università di Stanford, al Center for Computer Research in Music and Acoustics). Nel suo nuovo album PROTO, in uscita il 10 maggio su 4AD, Holly continua questa urgente ricerca in un’era ormai governata dai protocolli (di rete, personali, politici, ecc.) chiedendosi chi e cosa siamo, per cosa ci battiamo e verso dove ci stiamo dirigendo.

Se dovessimo individuare un punto focale nel percorso artistico di Herndon, iniziato nel 2012 con Movement, questo sarebbe sicuramente il rapporto tra uomo e macchina e le sue ripercussioni nella contemporaneità sociopolitica. In questo senso, PROTO rappresenta il livello successivo: la maggior parte del disco, infatti, è stata creata in collaborazione con Spawn, un’intelligenza artificiale ospitata in un PC per videogame modificato a cui è stato insegnato come apprendere e rielaborare degli input sonori, per generare output totalmente originali. Tutti questi studi si sono tradotti in un percorso musicale unico, tanto tortuoso quanto incredibilmente riuscito, in cui si alternano umano e digitale, freddezza e sentimenti viscerali, momenti estatici e ombre grezze, sperimentazioni e melodie pop.

Come dicevo, parlare di Holly Herndon richiede un grande sforzo, ma parlare con lei si è rivelata un’esperienza semplice e naturale, un’esperienza che mi ha fatto capire perché Holly è una delle personalità artistiche più importanti della nostra epoca.

holly herndon proto
La copertina di PROTO di Holly Herndon

Noisey: Ho percepito PROTO come la terza fase in un percorso di analisi del rapporto tra tecnologia e uomo. In Movement (2012) la macchina prevaleva come un’entità ancora incomprensibile. In Platform (2015) si svelava e tu imparavi a conoscerla, in uno scambio bilanciato ma imprevedibile, con distinzioni nette. In PROTO svetti come il demiurgo che padroneggia la materia ed è impossibile tracciare la linea che separa la persona dal cyborg: è un essere ormai completo. Pensi che il cerchio di questa analisi sia in chiusura o, per sua stessa natura, non si chiuderà mai?
Holly Herndon: Già in Movement utilizzavo la mia voce per bilanciare presenza umana e macchine digitali in musica; con Platform ho portato il rapporto allo step successivo, inserendo Internet nell’equazione. PROTO continua su questa scia, provando ad andare ancora oltre. La mia volontà è sempre stata quella di far interagire i due mondi cercando un equilibrio e sono felice che si percepisca una sorta di avanzamento nel processo, ma per me non è assolutamente un punto di arrivo. Ti ringrazio molto perché ciò che dici di PROTO lo vivo come un complimento, significa che piano piano stiamo facendo dei passi sul cammino verso l’obiettivo, ma siamo ancora distanti dalla chiusura del cerchio e tutto è in divenire.

Parliamo un po’ di Spawn, l’intelligenza artificiale con cui hai creato l’album. Nel comunicato che accompagna l’uscita di "Godmother" l’hai definita "un mezzo per superare i limiti del corpo" e hai accennato alle questioni etiche legate alla tecnica del sampling. Vorrei approfondire il tuo pensiero sui problemi etici che potrebbe invece sollevare una macchina che non solo lavora con te ma che, concretamente, crea per te. Mi spieghi un po’ meglio questo paradosso?
Definirlo “paradosso” è riduttivo, direi che siamo saltati a piè pari in un vero e proprio pantano etico, quindi è meglio andare per gradi. Il modo in cui la maggior parte delle persone si interfaccia con le intelligenze artificiali in campo musicale è quello di tradurre dei valori in file MIDI (con indicazioni di tempo e tonalità, per esempio), più facilmente processabili dalle macchine, per creare delle composizioni automatiche. Io ho rigettato questo approccio per diversi motivi: innanzitutto mi sembrava ci fossimo arenati in un circolo vizioso che continua a riproporre il passato; in secondo luogo penso che un approccio del genere elimini, o quanto meno nasconda, il lavoro umano che sta dietro tutto; infine, semplicemente, era un procedimento noioso.

Noi abbiamo usato il suono come materiale grezzo, mantenendo le voci delle persone che hanno preparato l’IA; abbiamo lasciato una “sporcizia umana” di fondo, rifiutando quella perfezione tipicamente sci-fi ormai kitsch e superata. Questo ci ha aiutato a creare anche un’estetica narrativa e un linguaggio sonico insieme a Spawn, che noi consideriamo un* performer, dunque parte del nostro ensemble. In esso Spawn reinterpreta gli input ma allo stesso tempo interagisce con i musicisti: non sta solo creando per noi, anzi, il suo scopo principale è di integrarsi nel nostro gruppo, nel nostro mondo. Entrambe le parti, umana e digitale, cercano una simbiosi.

Durante le registrazione abbiamo processato la mia voce per fornire degli input a Spawn, e questo mi ha portato a riflettere spesso sulle potenzialità delle IA e delle banche di dati audio: magari un giorno potremo creare un nuovo catalogo di Aretha Franklin dal nulla, o far risorgere le voci dei nostri parenti per puro intrattenimento. Negli anni Settanta Miles Davis definì il sampling “necrofilia” [in realtà fu un percussionista che lavorò con lui a dirlo nde]; ovviamente è un’espressione dura, quasi offensiva e che non condivido perché il sampling apportò qualcosa di nuovo nel panorama musicale. È anche vero però che, se applicata agli odierni algoritmi di produzione musicale automatica, questa critica sembra acquistare un certo senso.

Abbiamo parlato della nascita di cyborg umanoidi e di potenzialità ed eticità della tecnologia. In questi concetti vedo molto, rispettivamente, Ghost In The Shell e Akira, e in generale tutto quell'immaginario distopico abitato da sospetto e paura. È un’associazione diretta, ma allo stesso tempo mi rendo conto che stiamo parlando di opere di trent'anni fa. Secondo te come dovrebbe evolversi la concezione che l’uomo ha delle macchine?
Ovviamente adoro la colonna sonora di Akira e di Ghost In The Shell, e anche tutta l’estetica che questa comunità cyber-punk ha generato. All’epoca si trattava di tematiche nuove ed era molto importante che, a livello di coscienza sociale, si mettessero al centro della discussione le tecnologie che si stavano sviluppando e le loro potenziali conseguenze ed implicazioni etiche. Sono stati lavori cruciali, sì, ma come hai detto tu sono opere degli anni Novanta, la cui visione andrebbe aggiornata. Rifarsi al radicalismo di un’altra generazione non significa essere radicali. Da amante della narrazione distopica, penso che oggi sia importante non arrenderci ai poteri forti, bensì considerarci attori in grado di cambiare concretamente le cose, perché possiamo farlo. In questo le IA, e la tecnologia in generale, potrebbero giocare un ruolo fondamentale, a patto che esse non vengano considerate “aliene” e lontane da noi e che non nascondano il nostro potenziale umano.

Nel presskit che accompagna il disco, in effetti, tu non parli di distopie ma descrivi il rapporto tra uomo e macchina come “bellezza”. Il risultato visivo che dai, però, tra il video di "Eternal" e la cover del disco, non è molto confortante…
Ha, è vero! Ma nell’ascolto dell’album si alternano momenti di bruttezza e ruvidità a momenti di estasi e bellezza. Siamo soliti catalogare le cose del mondo come belle o brutte, ma ci sono tante sfumature. Questo si accentua se prendiamo in considerazione le intelligenze artificiali e la loro complessità; per analizzarle e carpirne l’essenza dobbiamo pensare in maniera sfaccettata, rapportandoci ad esse da ogni prospettiva, senza pregiudizi. Penso che la copertina di PROTO rappresenti questo binomio: io la vedo bella nel suo essere grezza… non so come dire… bella come un bambino ricoperto di fango che gioca nelle pozzanghere.

È come se la bellezza fosse lì sotto, e noi stessimo iniziando a scoprirla. Mi piace questa interpretazione.
Sì, esatto, ma dobbiamo scoprirla insieme.

È palese che ogni tuo disco sia figlio del suo tempo. Nel 2015, quando uscì Platform, tutti parlavano di accelerazionismo, cyberfemminismo, Snowden e il rapporto tra privacy e social media. Oggi l’opinione pubblica è concentrata sulla rinascita delle destre populiste, sulla piena automazione e lo xenofemminismo, sul cambiamento climatico e i meme. In PROTO sono presenti questi temi? C’è qualcosa di particolare che ti ha mosso consapevolmente in questi tre o quattro anni al di là del rapporto con le IA?
Assolutamente, certo. Considera che, tra il 2013 e il 2015, quando ho scritto e pubblicato Platform, la privacy dell’individuo nell’era digitale era un argomento fondante nel mondo accademico, ma non nel mondo musicale né tanto meno nella quotidianità. Oggi, invece, alcuni di quei topic sono diventati persino scontati. Anche in PROTO abbiamo analizzato il presente sociopolitico, ma da un altro punto di vista. Abbiamo cercato di trasporre in musica le interconnessioni e le interdipendenze che esistono tra gli esseri umani: un ensemble che dialoga costantemente con un IA è una metafora dei nostri tempi, del senso comunitario che andiamo cercando e di cui abbiamo bisogno. Questo, poi, si riversa su cambiamento climatico, piena automazione, politica online e tutti gli argomenti che hai nominato. Abbiamo anche portato avanti le vecchie tematiche, analizzato cosa significa vivere in un mondo dominato dai protocolli, un mondo in cui chi ha i server più grossi ha accesso a più dati e quindi più potere, un mondo in cui platform capitalism e IA si intrecciano costantemente in un processo di evoluzione.

E noi dove siamo in tutto questo?
Siamo come Davide contro Golia. Non avremo mai la disposizione di risorse dei potenti e ne siamo consapevoli, eppure il nostro apporto DIY alla causa, per quanto piccolo, può essere estremamente politico. Le grandi aziende trattano i dati in maniera anonima e non consensuale, de-umanizzando i processi legati alle macchine. Al contrario in PROTO, come accennavo prima, noi abbiamo reso visibili gli uomini e le donne che hanno interagito con la macchina, abbiamo pubblicato i loro nomi, le loro voci sono udibili, le interconnessioni manifeste. Penso che questo sia molto politico.

Sì, è vero, e il tutto traspare anche a livello musicale: PROTO suona estremamente corale, nel senso di grandioso e universale, con la voce al centro del processo.
Mi fa molto piacere che si colga. Avere a disposizione non solo la mia voce ma addirittura un coro ha aumentato la ricchezza e le potenzialità di scrittura. Durante la composizione, poi, abbiamo dato molta importanza alla voce, e proprio considerando la sua interazione con le macchine abbiamo voluto studiarne le declinazioni nei diversi periodi storici e nelle diverse aree geografiche del mondo, ricostruendo una sorta di mappatura di culture.

Nella tua lecture per Ableton Loop definivi “Sacro Graal” il connubio perfetto tra “impegno sociale” e “impatto viscerale” all’ascolto, come se fosse un’utopia, ma forse ci stiamo arrivando…
Dici? Grazie! Per me è bello che una composizione musicale sia godibile, ma è fantastico quando dietro al “godibile” ci sono dei layer concettuali, impegnati.

A tal proposito: nel 2015 c’è stato un boom per la cosiddetta musica sperimentale. Su VICE, nel 2017, abbiamo affermato che la musica del futuro si è fermata in quell’anno. Io, invece, l’ho vista tendere verso una maggiore fruibilità finale, sia con un recupero di un senso di umanità sia con un avvicinamento al pop (Arca, Amnesia Scanner, OPN, SOPHIE). Allo stesso tempo ho visto la musica pop muovere piccoli passi verso gli sperimentalismi (Low, Bon Iver, Billie Eilish). Stiamo forse viaggiando verso un punto d’incontro, una sorta di magma indistinguibile? Se sì, pensi sia un bene?
Non so se queste etichette funzionino ancora come decenni fa. Oggi è tutto molto più sfumato, gli artisti sono liberi di ispirarsi a più mondi contemporaneamente. Penso sia importante però avere una sorta di infrastruttura divulgativa e un archivio che possano salvaguardare le origini delle idee. Vedo molto spesso idee della mia comunità underground venire assorbite dal mainstream senza alcun riconoscimento, senza un credito, e penso che questo sia un problema. Di sicuro è bello che ci siano ispirazioni incrociate e un terreno in cui le idee circolano liberamente, ma occorre tutelare chi sperimenta da un’industria musicale a struttura piramidale. Il giudizio sul cosiddetto poptimism è ancora sospeso.

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Fotografia di Boris Camaca

Facendo un attimo brainstorming al di fuori della musica, però, penso alla recente (e preziosa) movimentazione riguardo il cambiamento climatico guidata da Greta Thunberg. È stata estremamente “pop”.
Nel senso di “popolare”, certo, ed è stata molto bella. Penso che ad essere sbagliato sia l’atteggiamento delle persone nei confronti di ciò che viene definito sperimentale e ciò che viene definito pop. Io amo fare musica pop! e amo anche fare musica sperimentale!

Spesso però si parla di musica sperimentale, e quindi anche della tua arte, abbinandola al concetto di “musica del futuro”. Penso sia controproducente perché in realtà la stiamo vivendo oggi, è la musica del presente. La percezione che ne ha la gente sembra decontestualizzata. Spesso leggo e sento dire che Holly Herndon è “troppo avanti” o “futurista”, ma io penso che Holly Herndon sia qui e ora. Ci hai mai pensato? Come si fa ad annullare questo bias cognitivo, creando consapevolezza e utilità sociale attraverso l’arte?
Ci penso sempre! Il mondo musicale è ancora estremamente nostalgico e sembriamo talmente impantanati in un’idea di futuro dal gusto retrò, tra minimalismo e Barbarella, che quando si prova a dipingere un ritratto effettivo dell’attualità questo viene spesso percepito come “avanti”. Quando siamo in grado di generare nuove idee, estetiche e sentimenti attorno a questo contesto storico, mi rendo conto che stiamo facendo qualcosa di concreto che non sia una mera ripetizione del passato. Non sono così naïf da pensare che la storia e il progresso viaggino su una linea continua, non è tutto così semplice. Pensa se fossimo destinati a ripeterci all’infinito… mi deprimerei! Sono tempi difficili, matti, ansiogeni e sentimentali che hanno bisogno di essere espressi, ma anche percepiti, in un certo modo. Ti dirò di più, a me il futuro non interessa, o almeno non in questo senso. Non mi interessa “predire” qualcosa, perché tanto finirei con lo sbagliare. Io cerco di rappresentare il presente, di viverlo e metterlo in musica, e vorrei che questo venisse percepito: non sto cercando di essere futurista, sto cercando di essere attuale.

Proverò a farlo trasparire da quest’intervista allora: Holly Herndon è qui e ora!
Fantastico, sì, grazie!

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È il 9 maggio, quindi è arrivato il primo album di LIBERATO

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Stamattina siamo venuti al lavoro e, come ogni mattina, abbiamo consultato il calendario di Frate Indovino appeso sul muro della redazione per leggere i santi e il proverbio del giorno. Oggi, 9 maggio, è Sant'Isaia, morto martire sotto il Re Manasse; e il nostro amico Indovino ci ricorda che "il pane ha buon sapore se è frutto di sudore."

Dopo aver sorriso per questa piccola perla di saggezza e aver detto la nostra preghierina del mattino ci siamo seduti al computer per cominciare la nostra giornata quando, all'improvviso, ci siamo fermati e guardati negli occhi. Nel nostro cranio ha cominciato a rimbombare, lontana, una vocina azzurra come la maglia di Dries Mertens: m'hê scurdato... t'hanno visto ca turnave 'nzieme a 'n'ato...

Niente, ragazzi, è il 9 maggio e al pelo, alle 23:59, ecco che è tornato LIBERATO. Con un disco intero, che si intitola LIBERATO, e CINQUE VIDEO UFFICIALI.

Vi ricordiamo che il 22 giugno ci sarà un suo concerto a Roma.

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Sottosopra è il festival definitivo del rap italiano

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Ehi ciao, ti piace il rap? Ti piacciono i concerti dal vivo? Ti piace il mare? Ecco, perfetto, allora hai svoltato le vacanze per quest'estate. C'è un festival itinerante che si chiama Sottosopra, che si svolge in vari locali a Gallipoli e a Lecce tra luglio e agosto, così di giorno vai in spiaggia e la sera ti becchi i concerti di (fa' un respiro profondo) Tedua, Gemitaiz, Madman, Nayt, Massimo Pericolo, Dark Polo Gang, Gianni Bismark, Luchè, Carl Brave, Achille Lauro, Sick Luke, Capo Plaza, Guè Pequeno e Rkomi.

Tutte le informazioni sono sul sito del festival, i biglietti sono in vendita su CiaoTicket e TicketOne. Ti consigliamo di non perdere tempo perché con una location così e dei nomi così il rischio di sold out è piuttosto alto. Noi stiamo già mettendo in valigia il costume da bagno e la crema protezione 30.

Per comodità, vi riportiamo anche qui sotto le date:
27 Luglio - Tedua @ Ten (Gallipoli)
30 Luglio - Gemitaiz @ Praja (Gallipoli)
04 Agosto - Madman + Nayt + Massimo Pericolo @ Praja (Gallipoli)
08 Agosto - Dark Polo Gang + Gianni Bismark @ Ten (Gallipoli)
10 Agosto - Luchè @ Praja (Gallipoli)
13 Agosto - Carl Brave @ Pala Live - Piazza Palio (Lecce)
14 Agosto - Achille Lauro + Sick Luke @ Pala Live - Piazza Palio (Lecce)
16 Agosto - Capo Plaza @ Praja (Gallipoli)
17 Agosto - Guè Pequeno @ Ten (Gallipoli)
20 Agosto - Rkomi @ Ten (Gallipoli)

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Abbiamo chiesto ai FASK di mettere in classifica i loro stessi dischi

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I Fast Animals And Slow Kids sono una cosa strana. Loro sono uguali al primo momento in cui hanno messo le dita sugli strumenti, ma è cambiato tutto quello che li circonda in quanto band: la quantità di gente che li ascolta, che lavora con e per loro.

La prima volta che li vidi dal vivo fu a Filago, un paese in provincia di Bergamo. Non avevano fuori nemmeno un album ma solo un EP di quattro pezzi. Erano di Perugia ma giravano già tutta Italia. Erano simpatici sul palco, sudavano un sacco e facevano pezzi molto distorti ma anche molto catchy. Li ideavano a partire da cose in inglese come i Fucked Up, i Titus Andronicus, i Replacements, ma anche da cose emo e punk in italiano come i Dummo, che all'epoca erano loro compagni di etichetta.

E oggi fanno la stessa cosa, però hanno dietro la Warner, e hanno i concerti foderati di gente, e stiamo parlando sulla terrazza di un palazzo in centro a Milano e non, per dire, sulla ghiaietta di un piazzale dopo un concerto in un posto lontano dalle cose. Però è come se in realtà un po' lo fossimo, perché parlare con loro è un ridere un scherzare e un diventar seri e un lasciarsi prendere la mano anche se poi dopo di me ci sono altre 819738192 persone che devono parlare con loro e vengono da posti come TGCOM24.

Il loro nuovo album Animali Notturni esce oggi ed è un distillato di tutto ciò che sono sempre stati (cioè quattro cazzoni che fanno quello che gli pare e credono molto nel potere curativo della musica), registrato per la prima volta dopo anni in uno studio vero e non in quella casa sul lago di Montepulciano dove è nata buona parte della loro discografia. Che è ormai abbastanza lunga da poterla mettere in fila, dall'album che gli piace di meno a quello che gli piace di più.

6. Cavalli (2011)

fast animals slow kids cavalli
La copertina di Cavalli dei Fast Animals And Slow Kids, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Andiamo subito a infrangere il luogo comune per cui il primo disco è sempre il migliore.
Aimone [Romizi, voce]: Per noi il primo disco vero è stato drammatico. Siamo arrivati in uno studio di registrazione che non sapevamo neanche che cosa fosse.
Alessio [Mingoli, batteria]: Eravamo veri scarponi della musica. Prima facevamo tutto con i nostri tempi, poi ci siamo trovati in una situazione megaprofessionale e una settimana di tempo per registrare, con l'ansia che se per caso la prendi lunga sei fottuto e il disco rimane a metà.
Aimone: Ogni volta che sentiamo quel disco sentiamo tutti i difetti e basta, io penso di non averlo mai più ascoltato.

Ma com'è che accadde il passaggio dall'EP a "facciamo il disco"?
Aimone: Dovevamo suonare a Italia Wave, era il 2010, un periodo veramente felice. Attacchiamo a suonare con l'idea che non saliremo mai più su un palco così e dai 20 minuti che avevamo abbiamo provato a suonare più tempo possibile. Al ventiseiesimo minuto ci staccano. C'era uno da fuori che faceva "BASTA! BASTA!" da ore, noi che ci buttammo a terra, io che non mollavo il microfono. Ci portarono via per i piedi! Appino [degli Zen Circus] vide questa cosa e decise di farci fare un disco. Ha pagato tutto lui, però giustamente a 'sti quattro schifosi gli ha pagato otto giorni di registrazione. Con Giulio Ragno Favero, che ai tempi era sulla cresta dell'onda come producer.
Alessandro [Guercini, chitarra]: Lui stava per rientrare nel Teatro Degli Orrori, era ancora il periodo in cui c'erano Manzan e Mantelli.

Voi vi rendeste conto subito di non essere soddisfatti di come suonava Cavalli?
Alessandro: Sì, era una sensazione che avevamo lì per lì. Sembrava che Favero non volesse lavorare con noi, aveva un distacco a cui eravamo totalmente impreparati.
Aimone: Abbiamo sempre lavorato con amici, non siamo mai stati abituati a gestire il rapporto con il "professionista", che nel caso perlomeno deve essere uno che capisce che siamo un gruppo di compagnoni e ci mette a nostro agio. Non è scontato, e non lo devi fare per forza, ma a noi serve per stare meglio. Poi eravamo anche tanto giovani e non sapevamo come funzionava lo studio.

Mentalmente come stavate, in quel periodo?
Alessandro:
Abbastanza in ansia. Per quanto piccola, c'era comunque una strana attesa attorno a quel disco. venivamo da un EP che si erano cacati in quattro... però se l'erano cacati. Un'altra cosa brutta è stata che lo abbiamo registrato a febbraio e mixato ad agosto, con dei concerti di mezzo.
Alessio: Avevamo già cominciato a scrivere Hybris, eravamo già andati avanti.
Aimone: Alla fine Cavalli era una compilation di canzoni slegate tra loro, fatte a caso da una band che sta iniziando a suonare. La nostra stessa coscienza di band era in divenire.

In "Lei" dicevate "Forse convieni con me che la banalità di un testo d’amore è solo paragonabile a quella di un testo politico". Bene, come la mettete oggi con l’itpop?
Aimone: Quello è dei pezzi peggio capiti della storia dei FASK. Ci distruggeva.
Alessio: C'era gente che sentiva "Senza lei da solo non ce la farei" e pensavano fosse una canzone d'amore. Quando nel testo si diceva il contrario!
Aimone: Da qua abbiamo capito che dovevamo essere molto chiari se volevamo dire qualcosa. Ero contro alle canzoni sdolcinate e inutili a caso, contro la banalità d'amore e il testo politico buttato lì con gli slogan. È bello essere mossi, ma la ricerca banale e non è riconnessa alla persona mi uccide.

Da allora sono passati otto anni. Come la mettete oggi con l'itpop, che è proprio in buona parte testi d'amore e testi politici?
Aimone: Secondo me Calcutta è una figata. Spacca perché canta roba sentita. Una volta che qualcosa funziona tutti ci si buttano e poi è manierismo, ma è la storia dell'arte. Non dobbiamo incazzarci, basta capire che sono testi vuoti e non sanno di un cazzo. Tutti noi ci rivediamo in alcuni immaginari di Calcutta, perché sono oggettivamente potenti. Non è la cosa banale di cui parli a rendere banale un testo, è la connessione uomo-penna-scrittura. E c'è un completo distacco in alcune produzioni che sono invece uomo-penna-mercato.
Alessio: Un artista che inizia con il suo primo disco può anche non trovare subito la propria strada e si rifaccia a stereotipi di cose che ascolta. Su Cavalli eravamo un po' spaesati. Eravamo in fotta col Teatro Degli Orrori, e con il tempo abbiamo trovato il nostro canale, che si sente da Hybris in poi.
Aimone: C'è anche meno tempo, magari esplodi con il primo pezzo e sei quello. Noi abbiamo vissuto un periodo anche d'oro, in cui la nostra musica non se la cacava nessuno e avevamo tempo di parlare di musica con quelli che se la cacavano.
Jacopo [Gigliotti, basso]: Fare un primo album che non ci ha soddisfatti per primi ci ha aiutati a rimetterci in gioco, a farci mille domande e capire come fare meglio.
Aimone: Hybris è nato così, ci siamo trovati bene a fare le preproduzioni in una casa davanti al lago di Montepulciano. E ci siamo trovati così bene che ci abbiamo fatto tre dischi.

5. Questo è un cioccolatino (2010)

Questo è un cioccolatino
La copertina di Questo è un cioccolatino dei Fast Animals and Slow Kids, cliccaci sopra per ascoltarlo su Rockit, che è l'unico posto online dove c'è ancora.

E quindi poi mettiamo il vostro primo EP, o demo, o chiamiamolo come vogliamo. Come mai?
Aimone:
È il vero DIY, quello di cui si parla nelle interviste. E noi a dire "Cosa facciamo? LO ANDIAMO A DARE ALL'ETICHETTA! AL LOCALE! SENTI IL MIO DISCO!" Ricordo che stampammo 800 CD Verbatim a mano. Facevamo le sessioni coi computer, avevamo comprato i timbri "Questo è un cioccolatino" e "FASK", uno faceva i CD e uno impacchettava. To Lose La Track ci aveva fatto tutta la custodietta aperta che dovevi reimpacchettare per fare un cubetto di cartone.

Ecco, quell'EP ve lo fece Luca Benni con la sua etichetta To Lose La Track.
Aimone: Tu pensa che culo anche noi, nasci vicino a un Luca Benni, ai Dummo, a una scena in divenire incredibile... ci vedevamo i Fine Before You Came che cantavano in inglese davanti a 20 persone. Fu Luca a dirci di fare l'EP, non avevamo i soldi e lui mise una cosa come tre, quattrocento euro per pagarci i pezzi di cartone.
Alessio: Anche le prime magliette ce le fece lui.
Aimone: E ha fatto così, "tò, andate". Sei un grande. Insomma, a questo EP ci siamo molto vicini ma da un punto di vista musicale però, ragazzi, è acerbo in culo.
Alessandro: Però preferisco le versioni di quell'EP rispetto a quelle di Cavalli. Sono più grezze ma più vere, suonano peggio ma meglio.

All'epoca vi eravate comunque già girati mezza Italia, nonostante aveste letteralmente quattro pezzi.
Jacopo: Infatti li suonavamo più volte la stessa sera! Magari piacevamo a qualcuno, questi chiamavano i loro amici e noi rifacevamo il concerto. E provavamo continuamente pezzi nuovi, che tanto non interessava a nessuno.
Aimone: La cosa più figa era il fatto che ai tempi non ce ne fregava un cazzo di dove suonavamo, di dove dormivamo, di niente. Per questo abbiamo fatto così tante date. Ci dicevano vieni a suonare a casa de Mario, domani sera, semo in cinque. E noi "SÌ! SÌ! PARTIAMO!" Facevamo le pause per riprenderci dal peso dell'amplificatore che ci tenevamo addosso in macchina.

4. Hỳbris (2013)

fast animals and slow kids hybris

E poi abbiamo Hỳbris. Come mai è in questa posizione?
Alessandro:
Ho dei bellissimi ricordi legati alla registrazione e al tour di quel disco, anche se arrivavamo dal periodo nero di Cavalli. Era la prima volta che registravamo un disco con i nostri tempi, ed era particolare, strano e bello. A livello musicale magari lo riascolto e ci sento qualche difetto qua e là. Per esempio in "Calce", che secondo me è un pezzone, quando arriva il ritornello ripetiamo un TANANA-NANA-NANA quattro volte. Ma a che serve?
Aimone: C'aveva quelle parti lunghissime che oggi diciamo "MA PERCHÉ"? È che ci divertivamo! Insomma, il bello era la libertà di registrarti un disco da solo con i tuoi amici con i tuoi tempi. Uno cucina, uno suona, si gioca a Risiko la notte... in termini di ricordi è forse il disco più bello.
Alessandro: Anche la timbrica della tua voce mi dà fastidio.
Aimone: Su Cavalli era l'apoteosi, sembravo un bambino. Non sapevo cantare e non che ora sia un king. Nel corso del tempo ho imparato a modulare la voce e allora non sapevo far uscire i suoni. Il problema è che di fondo abbiamo sempre avuto i suoni di quelle bandone...

Volevate suonare come i Titus Andronicus, i Fucked Up, i Replacements, gli Husker Du.
Aimone: Sì, ma anche più mainstream! Io penso tipo a Bruce Springsteen, quei suoni belli! L'avrei registrato ancora meglio.
Jacopo: La batteria che ti arriva al petto! Che poi è una cosa a posteriori, perché lì per lì eravamo soddisfatti di quello che avevamo fatto.

All'epoca quando lo sentii "pensai meno male che sono riusciti a fare una cosa con lo stesso pugno che avevano prima di Cavalli".
Aimone: Certo, perché eravamo andati avanti per i cazzi nostri. Quella scelta ci diede un modus operandi, cioè che la musica vince, quello che piace a noi vince su tutto. "Uniti forti, per noi stessi, fino alla fine" è il manifesto più vero che abbiamo cantato rispetto a noi quattro.

Quando uscì, come venne percepito?
Alessandro:
Io ricordo solo reazioni positive, lo leggevi in faccia alla gente che veniva a vedere i concerti. È venuto bene per essere un disco indie rock di quegli anni lì.
Aimone: Rispetto agli standard di oggi post-Calcutta sarebbe un fallimento, ai concerti venivano 50 persone. Abbiamo avuto culo, siamo usciti in anni in cui non c'erano pretese, abbiamo fatto un disco che ci piaceva e basta.
Jacopo: Nessuno era al primo disco, esploso dal nulla.

Aimone, anni fa dicesti “Avremmo voluto essere più ironici, ma di fronte a un completo disastro comunicativo nel quale la gente iniziava a prenderci come la band dei deficienti e non ascoltava davvero il testo, abbiamo deciso che era il caso di spiegare esplicitamente cosa volevamo dire.”
Aimone: Confermo, ed è lo stesso principio che ti dicevo prima. Ci sono cose accadute a questa band che ci hanno fatto capire che comunicare è la cosa più importante. Non si deve avere paura di cadere nel banale se hai qualcosa da dire. Meglio che tu lo dica molto chiaro che evitare di dirlo in modo criptico, così che tutti ti interpretino in modo vago. Siamo quattro rincoglioniti, ma
Alessio: Non siamo mai stati molto criptici ma era chiara l'intenzione. Il mood e il contesto dei testi erano molto chiari. Cavalli era comunicato in un modo che poteva essere frainteso. Ci dicono che siamo compagnoni, facciamo morire dal ridere, siamo allegri: "e perché i vostri dischi sono così tristi?"
Aimone: Per questo! Perché lo possiamo scrivere in un testo. La musica è terapeutica. È un'autoanalisi all'aria aperta.

3. Forse non è la felicità (2017)

forse non è la felicità
La copertina di Forse non è la felicità dei Fast Animals and Slow Kids, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Erano passati tre anni da Alaska. Come mai una pausa così lunga?
Aimone: Io ho cominciato a viaggiare e fare delle fricchettonate, e il tour di Alaska era stato infinito.

Aimone, hai detto che "Di sicuro è una delle cose più 'non tristi' che abbiamo mai pubblicato."
Aimone: E invece era triste! Però, come dire, c'era una presa di coscienza un pochino più potente rispetto a tutti i dischi precedenti. La musica iniziava ad avere veramente un apporto nella mia esistenza che mi calmava, e anche rispetto alle mie problematiche io le pensavo in musica. È un disco che sono riuscito a cantare guardandomi, uscendo da me, una cosa che negli altri dischi c'è meno. È un altro passaggio nello scrivere i pezzi. Poi siamo sempre stati egocentrici e alla fine parliamo delle nostre merdate. A me piacerebbe descrivere questa bellissima piazza che ho davanti, ma mi viene una merda! Parlo di emozioni, e quindi tutti i dischi sono un continuo scavare e scavarci. Lottammo internamente in maniera grave perché io volevo dire "È crusca per le bestie."
Alessandro: E io non ero un grande fan!
Aimone: E io pensavo alla crusca che davo ai cazzo di animali da bambino... lotte che prima di allora non c'erano mai state. Perché eravamo più coscienti dell'importanza della musica nelle nostre vite, avevamo voglia di portare avanti questa essenza della band, che è una roba che in questo periodo storico manca in maniera drammatica.

È in questo periodo che vi siete resi conto che la musica era diventata il vostro lavoro?
Alessandro:
Ce ne rendemmo conto alla fine del tour di Alaska. Ci abbiamo sempre sperato e quindi è stato molto bello realizzare che eravamo arrivati a questo sogno senza senso che hai fin da piccolo.
Aimone: Però in termini di vita tutti questi cambiamenti una band come la nostra, che vive in provincia, tutti insieme... è sempre stato così. Il nostro giro è sempre lo stesso, nelle nostre vite non è cambiato un cazzo. È solo che ai concerti ci sta un bordello di gente e la tua vita è la musica.
Jacopo: Però cominci a vivere della cosa che ami, e non è poco per un cazzo.
Aimone: Per un cazzo. Ora ascolto un disco non solo perché mi dà gusto ma perché POSSO PERCEPIRE LA MUSICA! È bello alzarsi con la consapevolezza che andrai in sala prove, che è una prigione merdosa, ma imbraccio la chitarra e parliamo dei nostri problemi al mondo e c'è qualcuno che ci ascolta. E totale.

In un'intervista avevate detto "Un’altra cosa che abbiamo fatto mentre scrivevamo questo disco è stata tagliare tanti riff superflui. Una volta li buttavamo tutti dentro mentre su Forse non è la felicità siamo stati un po’ più attenti."
Alessandro:
Secondo me è vero fino a un certo punto. A livello di struttura dei pezzi è un disco molto cervellotico e forse è questo perché non è nei primi due. Ci sono cose che adesso mi disorientano un secondo. Quando lo stavamo registrando, rispetto ad Alaska che ha pezzi con non so quante sovraincisioni, abbiamo un po' ristretto il campo sonoro.
Aimone: Cercavamo un suono più chiaro e preciso. Puntavamo alla limpidezza. Lo abbiamo scoperto piano piano, studiando: l'effetto più potente del mondo, più del delay e dell'octaver, è il mute. Sonale tutte, ma poi mettile tutte in mute finché PAM! È un processo essenziale affinché i pezzi raggiungano la purezza di suono, la forma che hanno le canzoni più belle del mondo, perché lì devi puntare. Sennò che cazzo scrivi a fare?

C’è qualche pezzo di quel disco che si è perso tra le righe?
Aimone:
"Giovane" proprio ciao. A me piaceva molto quella canzone.
Alessandro: Anche "Montana". E sono contento che sia stata molto ascoltata "Tenera Età" anche se non era un singolo.
Aimone: Che poi non è che sappiamo davvero quanto la gente ha ascoltato cosa. Ma neanche ce ne frega un cazzo. La scaletta la facciamo sempre in base a come realizziamo i pezzi tecnicamente dal vivo. Quelli che ci vengono meglio e sono più rappresentativi li facciamo. "Con chi pensi di parlare", di Alaska, l'abbiamo riarrangiata mille volte e siamo riusciti a portarla dal vivo solo durante il tour di Forse non è la felicità. Perché c'era una persona in più, il Ghianda, che ci aiutava a farla. Sennò veniva ridicola, ed è una delle mie nostre canzoni preferite di sempre.

2. Alaska (2014)

fast animals alaska
La copertina di Alaska dei Fast Animals and Slow Kids, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Aimone, cito una tua vecchia intervista: "Alaska era un disco chiuso in se stesso, un mattone che se ne stava fermo, immobile".
Aimone:
Forse ci piace molto quel disco perché eravamo accomunati da un periodo molto buio che ci era capitato. Ricordo che provavamo "Te lo prometto" dentro gli hotel...
Alessandro: Fu un disco scritto molto in fretta, durante il tour di Hybris. È strano il fatto che sia venuto bene un disco così, fatto sulla scia di un altro e alla svelta. E invece è venuto proprio bene, pensato come disco dall'inizio alla fine. E invece fu un miglioramento.
Aimone: Era sì un mattone, ma per questo riuscimmo a costruirlo meglio, a dargli un senso di "disco". Siamo vecchissimi su questo, mettiamo i pezzi come hanno senso per noi. "Forse non è la felicità" è un singolo ma è alla fine della tracklist, 'sta cosa 'n se fa. Ma non ce ne frega un cazzo, perché era la chiusura del nostro cazzo di disco che riascolteremo tra quarant'anni.
Alessandro: Facciamo dischi per chi vuole ascoltare i dischi. Ed è per questo che facciamo finaloni di cui siamo convinti.
Aimone: Alaska è un'entrata nell'oblio e una piccola fuoriuscita dal buio. Fu un periodo buio che si è ripetuto negli ultimi anni, tra l'altro, e ci ha portati ad Animali Notturni. Sono due dischi con la stessa forza emotiva, che colloco bene nello spazio della nostra vita.
Alessandro: Poi mi son proprio divertito, ci sono linee di chitarra a cannone. Ricordo che mi avete fermato quando stavo mettendo una roba con lo scratch del plettro sulla chitarra su tutto "Grand Final" e non aveva senso! Ma io ero carichissimo.

Cosa c’era dietro a "Come reagire al presente"? Dietro a parole come "Ricordatevi di noi fra trent'anni / Che avremo bisogno di voi / Sarete l'orgoglio di tanti / Ma solo un appiglio per noi"?
Aimone: La verità è che è un "voi" riferito alle persone care, a tutto ciò che abbiamo intorno. Nel momento in cui canti e suoni musica che parla di te in maniera così profonda come le nostre canzoni, tutto quello che è legame personale rientra lì dentro. Noi non sentiamo la musica e basta quando riascoltiamo i dischi, quella orba parla della nostra vita. Del bello, del brutto, del bruttissimo. Ci muove dentro, ed è per quello che lo facciamo ed è per quello che la suoniamo con forza ed energia. Se ti dicessero, "Tu che cosa scriveresti sulla tua lapide?" Io me lo domando ogni giorno. Ogni volta che facciamo una canzone penso che potrebbe essere l'ultima, e che cosa ci scriverei? Come mi dovrebbero ricordare? Come sono adesso, perché io sto morendo ora, in questo istante. Ed è così per ogni disco.

1. Animali Notturni (2019)

fast animals animali notturni

In “Canzoni Tristi” cantate “Per tanti anni pensavo fosse alternativo fare il punk / Ma oggi ho trent’anni, vorrei soltanto dire quello che mi va."
Aimone: Stamattina si faceva un'intervista in furgone e ho pensato a questa cosa: ma tu ti rendi conto che non mi sono mai permesso di scrivere "cuore" o "amore" anche se parlavo proprio di quello perché ne avevo paura? Ma vaffanculo! Ma io parlo di quello che cazzo mi pare e suono quello che cazzo mi pare, sennò faccio un altro lavoro. Io sono qua per essere libero. La scelta della cicala è fondamentale per il musicista, noi bruciamo adesso, facciamo le cose che sono valide adesso. E questa è una roba di cui parliamo spesso, poi io vado con l'io perché sono il cantante, ma sono robe condivise.
Alessio: Sono ragionamenti che facciamo di continuo.
Aimone: Animali Notturni aggiunge un altro tassellino alla ricerca di purezza, spontaneità e comunicazione che abbiamo da sempre.

Un'altra mazzata, in "Novecento", è "Strappo i poster degli artisti che non sarò mai / Ma dimmi che è giusto".
Aimone: Non si tratta di dimenticare quegli artisti, è dimenticarne il senso. Io voglio essere me stesso.

Sì, è un po' come dire che ormai siete voi e basta, e non dovete più guardare a nessuno.
Aimone:
Ma stiamo facendo le nostre cose! È la dignità artistica, non so come dire. Sentirsi artisti senza tremare nel dirlo, che è una roba che abbiamo sempre fatto ma vaffanculo, non è così.
Alessandro: Non lo vogliamo più fare.
Aimone: Bisogna fare un atto di fede nei confronti delle nostre coscienze. Possiamo scavare ancora, vediamo fino a dove arriviamo. Magari non arrivi fino al centro della terra, ma fai una bella buca.

Perché non siete tornati a registrare alla casa sul lago?
Alessandro:
Perché l'avevamo già fatto, tre volte. La prima è una. figata, la seconda ti assesti, la terza già senti che c'è qualcosa. Vuoi fare un salto nell'inaspettato, nel vuoto.
Jacopo: Sono state tre figate ma a un certo punto ti manca qualcosa, capisci che per arrivare a quello che vuoi devi staccarti da quello a cui sei abituato.
Aimone: Era ripetersi, e allora che ricerca è? E abbiamo lavorato con un produttore, Cantaluppi. È quello dei Thegiornalisti, per farti capire. È il quinto che abbiamo provato per questo disco e non avevamo mai pensato che sarebbe stato quello giusto, e invece ci ha fatto scoprire gente assurda. È un grande cultore della storiografia pop e rock moderna.
Alessio: Avevamo tentato di lavorare con produttori più vicini a i nostri gusti, eppure non eravamo soddisfatti. Arrivati a quest'ultimo tentativo ci eravamo quasi detti "fanculo, torniamo da soli".
Alessandro: Lo avevamo scelto proprio per definire un limite, "lì non ci andiamo ma proviamolo, mettiamoci in gioco".

Insomma, avete voluto uscire dalla vostra comfort zone.
Aimone:
Si dice sempre questa cosa qua, sembra una banalata, ma se non ti metti in gioco sei finito.
Alessandro: Su questo livello lo sento molto vicino a Hybris, dato che anche stavolta abbiamo fatto un disco diverso da quello che la gente si aspettava. Allora venivamo da Cavalli, un disco tutto basso, batteria e chitarra. Invece noi andammo lì con le trombe e i violini a fare quel cazzo che ci pareva. Anche oggi, la gente nel 2019 si aspetta una certa cosa dai FASK.

Io, personalmente, mi aspettavo la fotta che avete sempre avuto. C'è ancora, ma è più... aperta?
Alessandro:
Ci sono sempre gli accordi aperti, i grandi paesaggi dati da un accorto aperto. E un disco più... preciso? E c'era voglia di fare, c'era alchimia, eravamo tutti molto focalizzati.
Aimone: Io me lo immagino come un concerto da stadio di Springsteen. Voglio fà sentì 'sta chitarra che te fa coglione! ONE, TWO, THREE! Capito? C'è quella fotta, e musicalmente parlando finalmente sona.

E che cosa si aspetta la gente dai FASK nel 2019?
Aimone: Io spero che nel corso del tempo abbiano capito che è la libertà quella che devono aspettarsi. I FASK gli promettono che faranno sempre, a tutti i costi, come cazzo gli pare. So che è egocentrico e stronzo, ma non possiamo ragionare così perché saremmo finiti. Dobbiamo ragionare rispetto a quello che muove noi cinque quando siamo in sala prove, cazzo. Dobbiamo suonare i pezzi ed essere felici come la prima volta che siamo saliti sul palco. Sennò arriveremo lì e saremo spenti, e piano piano ci spengeremo, saremo una fiammetta stupida. Non deve essere così. Io non voglio tutelare il castelletto, che salti in aria, che ci sia il caos, che bruci tutto, vaffanculo! Però che si facciano le cose che hai dentro, che te fanno stà bene.

Mi dicevate che Animali Notturni nasce da un momento buio, ma a me è sembrato un disco abbastanza speranzoso.
Aimone: Perché dopo arriva. Mentre in Alaska si vede solo un bagliore alla fine, qua è metà e metà. L'animale notturno è quello che fa la serata in riviera, che sta lì in discoteca a vivere la sua nottata senza pensare a niente di quello che ha accanto. Ma è anche quello che sta in casa, si fa le sue seghine, suona. Ed è un dualismo che succede in tutte le persone secondo me. In questo disco più di altri c'è un'anima duplice, c'è stato un grosso periodo buio...
Alessandro: Uno sceglie la tracklist del disco anche in base a come stanno meglio i pezzi uno dopo l'altro, però sarebbe bello dargli una cronistoria musicale. "Cinema" o "Un altro ancora" le abbiamo scritte per prime...
Aimone: Se io penso a "Cinema" me vie da piagne.
Alessandro: Mentre "Novecento" è un pezzo più recente, e anche sensatamente è stato messo come ultimo.
Aimone: Sono fasi di vita che tutti vivono. Ci sono grandi vuoti che poi in maniera assolutamente strana si risolvono, e tu ne parli.

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Il Messaggero dovrebbe smetterla di prendersela col rap

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Il titolo "Alcol e droga al rave nell’università: in duemila per l’evento illegale" è più o meno tutto sbagliato. Si riferisce a Teppa Fest, un festival organizzato dal collettivo Teppa - Resistenze Metropolitane, organizzazione antifascista informale legata agli ambienti universitari, che si è svolto dal 9 all'11 maggio negli spazi dell'università Sapienza di Roma. L'articolo che porta quel titolo è stato pubblicato ieri da Il Messaggero, e usa toni apocalittici per descrivere la festa.

La serata clou è stata quella del 10 maggio, con un live di presentazione del nuovo album Dead Poets II di DJ Fastcut, che ha visto alternarsi sul palco una bella fetta della scena rap locale, tra cui Gast, Il Turco, Sgravo e anche Claver Gold. Dev'essere stata una bella bomba, peccato non esserci stati. Ma del fatto che circa duemila persone si siano riversate negli ambienti dell'università per celebrare la vivissima scena capitolina Il Messaggero ha scelto di non parlare.

Secondo l'autore del pezzo, il giornalista Marco Pasqua (criticatissimo dai rapper romani per le sue prese di posizione nei confronti della cosiddetta "movida" e di tutto quello che gira attorno alla vita notturna e giovanile della città), la festa sarebbe stata "un rave [...] in spregio a ogni legge". La festa viene chiamata "celebrazione della teppaglia", si parla di "alcol e droghe da acquistare liberamente", dell'ingresso a tre euro ("ovviamente neanche la Siae è stata contattata"), dell'assenza di buttafuori e della presenza, fra gli organizzatori, di "tshirt e felpe nere, tutti già visti nelle manifestazioni di antagonisti e centri sociali".

Siamo nel 2019 e sappiamo tutti che parlare di rap porta traffico online; sappiamo anche che la destra conservatrice vive il suo momento di maggior popolarità. L'articolo di Pasqua mette insieme le due cose, è perfetto, tanto che ne stiamo parlando anche noi. Ma a un attacco tanto meschino non si può non rispondere.

Lo ha fatto DJ Fastcut con un post su Facebook e Instagram, in cui si scaglia contro gli interessi politici di chi usa la scusa della legalità per portare avanti un'agenda politica. "In un periodo in cui i ragazzi nn hanno lavoro,abbandonati dalle istituzioni e da chi dovrebbe aiutarli per avere un presunto futuro migliore", scrive Fastcut, "in un periodo in cui il lavoro TE LO DEVI INVENTARE,avete il coraggio di infangare uno dei migliaia di collettivi studenteschi universitari che cerca di autofinaziarsi per sostenere le spese che ALTRI DOVREBBERO ADDOSSARSI e tutto questo per cosa?? per due canne?? per la musica alta?? per dei ragazzi che studiano h24 nel weekend si divertono?".

L'articolo del Messaggero sceglie di ignorare ogni aspetto umano e sociale dell'evento del weekend scorso, applicando alla lettera formule e giudizi. "Si chiama Teppa Fest quindi è la festa della teppaglia", deduce, senza chiedersi se forse il nome è stato scelto proprio per parodiare il linguaggio di chi non ammette forme di espressione fuori dall'ordinario. Punta il dito contro il consumo di droghe senza ragionare sulle fallimentari politiche proibizioniste che nel corso dei decenni hanno ottenuto l'unico risultato di rendere le droghe ancora più pericolose. Appiccica etichette di "abusivo" e "illegale" a musicisti che, rifiutando le logiche istituzionali, mantengono in vita il sottobosco culturale di questo paese che altrimenti sarebbe strangolato dalla burocrazia.

Per concludere, voglio ricordare a tutti che i movimenti politici e culturali "illegali" sono state le maggiori spinte al cambiamento della storia non soltanto di questo paese, ma di tutta la civiltà occidentale. E anche se non vuole ammetterlo, anche il giornalista del Messaggero sa che di un cambiamento abbiamo drammaticamente bisogno in Italia.

Giacomo è su Instagram.

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L'unica intervista italiana a Mac DeMarco

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Mac DeMarco non ha idea di chi sia Lil Nas X.


Non gliene si può fare una colpa, ma dice molto di quello che vuole dalla sua vita e dalla sua carriera, oggi. Dato che il suo album si chiama Here Comes The Cowboy, rompo il ghiaccio chiedendogli che cosa ne pensa dell'amore per il country che sembra aver colpito gli Stati Uniti al di fuori della bible belt. Gli cito le grida di esaltazione dell'intera stampa internazionale per Kacey Musgraves e, appunto, il caso di Lil Nas—rapper sconosciuto che, con un pezzo che campiona i Nine Inch Nails e un bel cappello in testa, ha sfondato prima su TikTok e poi le classifiche scatenando una discussione su cosa è country e cosa non lo è. Insomma, anche quell'avvoltoio di Diplo si è appena messo un paio di Wrangler per non perdere il treno.

Bé, lui non mi sa dire niente e mi dice che "non userebbe proprio il termine 'country' per definire il suo album." E quindi lo interrompo, gli spiego che era solo per ragionare un pochetto su uno dei temi più attuali del mercato musicale delle sue parti. Ma capisco subito che non è cosa, e che Mac preferirebbe parlare di altro. Potevo aspettarmelo, data la sua reazione alla polemiketta nata quando qualcuno gli ha fatto notare che un altro grosso album indie uscito l'anno scorso aveva "cowboy" nel titolo e un singolo intitolato "Nobody".

"Non sono per niente bravo a restare al passo con nulla", ha detto Mac a proposito. E ad ascoltare il suo disco, e a parlargli, sembra proprio vero. Here Comes The Cowboy è un disco a cui si vedono le costole, risultato di una dieta fatta di paraorecchie e indifferenza alle cose del mondo. "Sei stanco di stare in città, ficcato in mezzo a tutta la bella gente / Hai bisogno di una vacanza, di un posto in cui nessuno sognerebbe mai di andare", canta in "Finally Alone". Chiedo quindi a Mac quanto di lui ci sia in questa voglia, detto terra terra, di levarsi dalle palle. "Sono tre anni che sono a Los Angeles ma saranno almeno dodici, da quando ho cominciato a suonare, che vivo una situazione di alti e bassi rispetto a dove mi trovo", mi spiega.

mac demarco another one
La copertina di Another One di Mac DeMarco, una foto di lui sull'acqua a Far Rockaway. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Prima Mac stava a Far Rockaway, ai confini di New York City, in una casa sull'acqua piuttosto normale dove aveva invitato i suoi fan a venirlo a trovare con un messaggio inserito alla fine di Another One, il suo ultimo EP. "Mi ero trasferito lì perché, in un certo senso, volevo una vita normale. Era un bel posto, lontano da tutto, con l'aeroporto vicino. Ma dopo un po' io e la mia ragazza ci siamo guardati negli occhi e ci siamo resi conto che ci voleva un'ora e mezza di treno ogni volta che volevamo andare in città. Quando ho deciso di comprare casa con lei, quindi, abbiamo pensato di cambiare ogni cosa. E a New York oggettivamente costava troppo."

Il punto è che Mac ha trent'anni e, come tutti i ragazzi della sua (e della mia generazione), ha iniziato a dover gestire gli esaurimenti che la maturità nel 2019 porta con sé: gli affitti esagerati, gli effetti deleteri dei social media sulla propria tranquillità, i gratuiti toni guerreschi dell'opinione online. In "Preoccupied" lo dice in modo piuttosto esplicito: "Hai aperto la mente / E l'hai riempita di stronzate / Hai chiuso a chiave il tuo cuore / Senza nemmeno saperlo / Deve essere un segno / Dei giorni in cui viviamo / Siamo preoccupati / E nessuno lo nasconde".

"Quelle parole parlano di quello che stanno diventando gli esseri umani, in particolare per come internet ci sta cambiando", mi spiega Mac. "Penso che molti di noi si stiano facendo fregare a livello emotivo, proviamo cose che non ci sarebbe mai venuto in mente di provare se non fossimo lì a scrollare o a farci fregare dal clickbait. È come se ci fossero dei trucchetti sempre pronti a fregarci, e il trucchetto più grande sta nel fatto che nessuno pensa di essere lui quello che sta venendo fregato". Sono parole che sento molto, dato che con internet e le sue logiche gridate ci lavoro e la cosa ogni tanto mi fa stare male.

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Fotografia di Coley Brown

"Io non ho più Instagram", mi risponde Mac. "C'è un sacco di gente che ha la mia, la nostra età e non ha la minima idea di come muoversi su internet, ma sono più i ragazzi più giovani e la gente più vecchia a preoccuparmi. I primi hanno conosciuto solo questo internet più... pubblico? E i secondi, invece, si sono solo lanciati su questa strana cosa che tutti stavano usando senza pensarci troppo". Per Mac, e per me, internet era "un posto strano per gente strana dove guardavi solo cose strane e parlavi con altra gente come te", adesso è solo "un'enorme macchina pubblicitaria che fa stare male la gente perché OMMIODDIO NON HO PRESO ABBASTANZA LIKE SU INSTAGRAM!"

In tutto questo, spiega Mac, trova un centro di gravità permanente nella sua ragazza, Keira, a cui dedica la dolcissima "K": "Man mano che il vento soffia via gli anni, baby / Più mi conosco / E man mano l'amore che provo per te cresce". Per Mac l'amore non è slancio verso un oggetto desiderato, è reciproca conoscenza e miglioramento: "Non so davvero perché / Resti al mio fianco / Ovunque io vada", cantava anni fa Mac su "My Kind Of Woman", a suggerire il bisogno di una spalla a cui appoggiarsi man mano che il suo cazzeggiare con gli strumenti diventava una carriera.

Nell'ombra del minchione senza un dente che si infilava una bacchetta di batteria nel culo si poteva già indovinare la persona che Mac è oggi. "Chamber Of Reflection" era, per esempio, un pezzo contemplativo arrotolato attorno a un dubbio: se sto bene quando mi guardo dentro, non è che sono solo un reietto? Non è che sto allontanando tutto quello che sta fuori? Il problema, secondo Mac, è che molti si sono fermati alle goliardate da palco e alle interviste buffe.

mac demarco here comes the cowboy
La copertina di Here Comes The Cowboy di Mac DeMarco, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

"Penso che la mia carriera non rispecchi proprio alla perfezione la persona che sono oggi. In questi anni ho notato che non sono stato io a 'scolpire' la mia reputazione, l'idea di ciò che sono in quanto individuo. È la gente definisce che cos'è la mia musica, definisce me in quanto persona, e una volta che questa immagine si è formata del tutto è difficile modificarla", mi dice Mac. È quello che intende quando dice "Non puoi tornare a essere nessuno" in "Nobody". Il mio pensiero torna a Far Rockaway: magari invitare i suoi fan era un modo per mostrargli il vero Mac, e non quello di cui si erano fatti un'idea ascoltando i suoi pezzi?

A quanto pare, no. Mac voleva incontrare le persone che avevano capito quello che era e che quindi si sarebbero fatte lo sbattimento di andare fino alla sua porta. Non quelle che lo seguivano su Instagram "per farsi due risate. Non voleva "mostrare il vero me", voleva "conoscere loro". Mac va avanti: "Dietro c'era anche la voglia di eliminare quell'idea del musicista come cool guy, del tipo che suona in una band... sono idiozie. Ero solo un tizio normale che viveva in una casa di merda in periferia a New York. Credo che la mia missione, da qualche tempo, sia diventata spiegare alla gente che io e la mia band non siamo niente se non degli strambi canadesi ubriaconi, sovrappeso e non proprio affidabili [weird overweight sketchy drunk Canadian guys, nda]."

Chiedo a Mac se la sua identità italiana c'entra qualcosa con tutto questo—magari come tanti stanno facendo in questo periodo storico ha esplorato il passato della sua famiglia, in cerca di una guida? "In questo periodo storico qua in Canada e negli Stati Uniti ci stiamo tutti facendo domande sulle nostre origini, essendo tutti di terza e quarta generazione", ribatte lui. "Ci sono anche situazioni un po' così, tipo gente che scopre di essere al 15% di qualche parte del mondo e all'improvviso HA UN'IDENTITÀ CULTURALE! Non è molto cosa mia, anche se la capisco e la apprezzo". Ad ogni modo, Mac pensa che la sua famiglia sia napoletana. Non ha mai incontrato suo nonno e dice che sua nonna "faceva finta" di essere una "New York Mama che ti riempiva di cibo".

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Fotografia di Coley Brown

A tendere fili tra l'Italia e Mac c'è però la nostra storia musicale. Qualche tempo fa Mac usò un classico dell'italodsico, cioè "Dolce Vita" dell'italianissimo Ryan Paris, nel suo documentario Pepperoni Playboy. Il vecchio Ryan se ne accorse e registrò un messaggio in un inglese splendidamente imbarazzante per ringraziare Mac, e lui rispose proponendogli di collaborare e dandogli la sua mail. Ancora, però, i due non si sono incontrati: "Abbiamo cominciato a scriverci ma non ci siamo mai incontrati di persona, non so bene dove viva ma quando siamo venuti in Italia non c'è stata occasione," mi spiega.

Voglio però capire meglio che cosa abbia attratto Mac a "Dolce Vita": "Sono attratto dai testi così", continua. "Sono strani, quasi non hanno senso, è come se li avesse scritti un ragazzino. Ma grazie a questo hanno una certa bellezza e innocenza. Ascolto molti artisti giapponesi che quando cantano nella loro lingua se ne escono con cose iper poetiche, e poi quando si danno all'inglese ti viene da dire... ma perché hanno scelto queste parole? Ed è figo, è anche liberatorio in un certo senso." Colgo l'occasione per parlargli delle band punk giapponesi che cantano in italiano. Lui, da cultore della zona, sembra interessato.

L'ultima cosa che chiedo a Mac è di spiegarmi come vive il tempo che passa. Non così male, mi sembra, ad ascoltare "All Of Our Yesterdays": "Tutti i nostri ieri se ne sono andati / E non significa che il tuo sogno sia finito / E il tuo cuore non ha rallentato / È un peccato lamentarsi / Una volta che tutti i nostri ieri se ne sono andati via". "Sono anni e anni che faccio 'sta roba e mi sembra di aver compresso un sacco di esperienze di vita in uno spazio molto piccolo," spiega lui prima di salutarmi. "Sono stato in un sacco di posti, ho fatto un sacco di cose e conosciuto un sacco di persone. Ed è successo tutto così velocemente che quasi non me ne sono reso conto. Quando mi metto a scrivere i miei dischi mi chiedo sempre a che punto sono arrivato, 'Che cazzo è successo? Stavolta forse questo sentimento mi è arrivato addosso un po' più forte di prima. E dirlo mi fa stare meglio."

Mac DeMarco suonerà al Circolo Magnolia di Milano lunedì 8 luglio.

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