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Ci dispiace Mogol, ma neanche tu fai musica italiana

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Finalmente ci siamo lasciati alle spalle Sanremo! Strano ma vero, è andata proprio come avevamo sperato: "Soldi" di Mahmood non è uno di quei classici pezzi in cui i soliti furboni stuzzicano le pruderie patriottiche del popolino. Ebbene, invece di sviluppare le eventuali polemiche o dibattiti musicali, questa volta il tumulto post-Sanremo si è concentrato su un argomento che la musica se la mette proprio sotto i piedi. Non è il caso di ricordarvelo, ma il fatto che Alessandro Mahmoud, italiano al 100 percento, abbia un padre egiziano ha scatenato da una parte gli elogi perché a Sanremo finalmente vince il meticciato (cosa tra l’altro neanche vera, basta studiare un po’), e dall’altra i sovranisti hanno delirato sul fatto che “la musica a Sanremo deve essere italiana”, come a dire che la carta di identità non vale nulla se il "sangue" (lol) è mezzo egiziano. Che se ne ritorni al suo paese! (Ovvero Milano). Mi chiedo se qualcuno di costoro si ricorda, tanto per fare un esempio, di James Senese, forse il più importante musicista della storia della musica italiana contemporanea, il quale davanti a tali obiezioni tirerebbe il sax in testa a entrambe le compagini.

Così ecco la campagna promossa dall’ex direttore di Radio Padania Alessandro Morelli, oggi presidente della commissione Trasporti e telecomunicazioni della Camera: un disegno di legge per obbligare le radio italiane a dedicare “almeno un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia, distribuita in maniera omogenea durante le 24 ore di programmazione”. Se non avete sputato il caffè sul computer la prima volta che lo avete letto, forse è il caso di ricordarvi che stiamo parlando di una persona che dirigeva una radio secessionista. "La vittoria di Mahmood dimostra che grandi lobby e interessi politici hanno la meglio rispetto alla musica”, ha dichiarato Morelli. E sulle lobby e gli interessi posso anche essere d'accordo, ma, se questa proposta diventasse legge, "Soldi" sarebbe trasmessa ancora di più, visto che la canzone è prodotta in Italia, è opera di autori e di un artista italiano, è incisa in Italia e ha vinto lo stramaledetto Festival della Canzone Italiana.

Lo sappiamo tutti che il problema delle radio italiane non è la quantità di musica italiana, quanto la qualità. Siamo abituati a stupidaggini di questo tipo, ma non ci aspettavamo una reazione entusiasta di chi la musica italiana l'ha rappresentata per anni. Sto parlando del boss della SIAE Giulio Rapetti, in arte Mogol. Che una persona con una tale storia e cultura, in questo periodo storico, con questo governo, scelga di appoggiare un'idea tanto male informata, come se in radio passasse soltanto Fela Kuti 24 ore su 24, mi stupisce e insospettisce. Non è che con La Buona Vecchia Musica Italiana™ come la intende questo governo, Mogol e i suoi colleghi hanno qualche conflitto di interesse? Ma il problema non è solo questo. C'è una questione di coerenza.

I più ferrati in storia della musica ricordano Mogol per i suoi lavori con Cocciante, Celentano e Mango, ma per il 90 percento degli italiani la sua carriera è solo quella da paroliere di Battisti. Ho un'informazione che forse ai più sfugge: gran parte delle storiche hit di Mogol non sono affatto scritte da italiani, né cantate da italiani: sono proprio meticce. Non ci credete? Allora scopriamo questi altarini.

Dik Dik

La carriera di paroliere di Mogol inizia nel 1965 con "Non dire le bugie", cantata da Rosy e musicata dal francese Armand Seggian. Nello stesso anno si crea una discreta visibilità con "Ho rimasto" di Don Backy (tra l’altro IN ITAGLIANO SBALLIATO!1!), cover di Emile Ford and the Checkmates, inglesi doc dediti a un rock'n'roll/doo wop che di italiano non ha proprio nulla. Ma il botto arriva nel 1966, anno nel quale il nostro inanella una serie di successi vestendo in italiano canzoni straniere che diverranno poi capisaldi della nostra cultura. Uno di questi è "Sognando la California", cantata dai Dik Dik, una band alla quale ho dedicato un episodio di Italian Folgorati. Alla fine dell’anno diventa il disco più venduto in Italia. Ma quale Italia? È una cover dei The Mamas and the Papas, statunitensi! L’originale è "California Dreamin'", brano leggendario in tutto il mondo. Fu lo stesso Mogol a far sentire il pezzo ai Dik Dik, i quali gli affidarono subito il testo da adattare.

Non finisce qui però, visto che nel 1967 i nostri porteranno al successo un’altra cover, "Senza luce", che altri non è che "A Whiter Shade of Pale" dei Procol Harum, e chi risulta autore del testo in italiano? Mogol, avete indovinato. È interessante notare che a cantarla, in una versione alternativa, c’era anche Wess, famoso per i suoi duetti con Dori Ghezzi (oggi vedova De André): un afroamericano naturalizzato italiano.

Equipe 84

La band di Maurizio Vandelli si distinse per uno sviluppo clamoroso verso la visionarietà più totale, così come un’aderenza allo stile psichedelico che pochi avevano nel pop italiano, tanto da produrre anche dischi assurdi e anticommerciali. All’epoca sperimentavano suoni in studio cercando di competere con le nuove trovate anglosassoni, a volte riuscendoci pure. Ma tra le hit della band, come era comunissimo all'epoca, molte sono cover di canzoni straniere. Mogol scrisse il testo di "Resta" ("Stay" degli americani Maurice Williams and the Zodiacs) e quello del grandissimo successo "Io ho in mente te" ("You Were On My Mind", originariamente scritta da Silvya Tyson e cantata da Barry McGuire con enorme successo negli USA). I testi, come potete capire dai titoli, sono praticamente delle traduzioni.

Nell'album successivo, Stereoequipe, oltre ai pezzi originali della premiata ditta Battisti-Mogol e di Guccini, ci sono altre cover sulle quali Mogol mette le mani. Si tratta di "Un anno" ("No Face No Name No Number" dei Traffic) e "Un angelo blu" ("I Can’t Let Maggie Go" degli Honeybus), anche qui cercando il più possibile di rimanere aderente all’originale. Stranamente questo non avverrà con "Ragazzo solo ragazza sola", un bizzarro adattamento di "Space Oddity" per il mercato italiano cantato proprio da un impacciato David Bowie, tutto inglese com'era. Grazie a queste cover italianizzate, gli Equipe diverranno uno dei gruppi più influenti in Italia, nonché guarda caso i più “British” del lotto.

Rokes

I Rokes erano un gruppo inglese che è tra i pochi ad aver trovato l’America in Italia. Il mitico leader Shel Shapiro non riusciva nemmeno a smorzare il suo accento inglese (cosa che lo rendeva, e lo rende ancora, molto sexy). Forse l’unico vero gruppo beat in Italia proprio perché non italiano, trova in Mogol un alleato nel portare al successo due cover di Bob Lind, un cantante folk americano. Prima con "Ma che colpa abbiamo noi" ("Cheryl’s Going Home"), poi con "È la pioggia che va" ("Remember The Rain"), i Rokes fanno il botto e diventano il più famoso gruppo italiano, ma a livelli proprio di beatlemania (allora, giustamente, a nessuno importava che fossero naturalizzati o meno). Tra l’altro proprio grazie a questi testi la gioventù italiana cominciò a orientarsi verso il '68, la protesta, una visione delle cose finalmente un minimo moderna in linea col resto dei movimenti antagonisti europei, non certo alla conservazione dello status quo italiota.

Mogol continuerà a cimentarsi con gli adattamenti in italiano insieme ai Rokes anche con "Eccola di nuovo", stavolta un pezzo di Cat Stevens, "Here Comes My Baby". I Rokes poi si scioglieranno incontrando un lento declino, ma i loro brani restano dei classici del beat italiano che l'Italia canta nei karaoke di tutte le pizzerie della penisola, senza sapere che tutta quella nazionalpopolarità è in realtà importata. Vergogna!

Caterina Caselli

Passiamo a Casco d’Oro, la megadirettrice galattica della Sugar, una delle donne più potenti della musica italiana. Anche il suo successo è dovuto, tra le altre cose, alle cover di canzoni straniere adattate proprio da Mogol. Si inizia nel 1966 con "Puoi farmi piangere", una cover nientepopodimeno che del nerissimo Screaming Jay Hawkins, e si prosegue nel 1967 con il brano-bomba "Sono bugiarda", ovvero la cover di "I’m a believer" dei Monkees (sì, quella di Shrek), in quel momento le maggiori popstar d'America. Dopo questo exploit Mogol proseguì con "Il volto della vita", cover di "Days of Pearly Spencer" di David McWilliams. La Caselli, come tutte le grandi popstar italiane dei Sessanta piano piano cambierà direzione perdendo di popolarità (come ho già raccontato), ma le versioni italiane di successi esteri continueranno a spopolare nelle radio e in TV fino ai giorni nostri, spacciati per Vera Musica Italiana™.

Fausto Leali

È il 1966 quando anche Fausto Leali raggiunge il successo, e lo fa con un pezzo americano: "Hurt", di Roy Hamilton. "A chi", questo il titolo della sua leggendaria versione, gli varrà l'epiteto di "n***o bianco" (erano altri tempi) per la sua voce piena di anima e di blues. Anche questo testo è, come potete immaginare, di Mogol, che stravolge la metrica originale, operazione che dà alla versione di Leali maggior appeal rispetto ad altre cover precedenti come “Ferita” di Milva, che nel 1962 non riuscì ad avere successo. C’è da aggiungere che "Hurt" era un brano del 1954 e vederlo in classifica in Italia nel 1966 fa un po’ strano, più che altro perché l’arrangiamento non sembra particolarmente innovativo. Ma che importa? Se ci fossimo affidati al Genio Italico probabilmente si sarebbe cantato ancora di papaveri e papere.

Mal

I Primitives erano una band che si spartiva il primato delle classifiche italiane negli anni Sessanta insieme ai Rokes. La band era inglese (il batterista poi fondò i Dire Straits), ma operava praticamente solo in Italia. Mal era il frontman e spopolava tra le ragazzine, fino a mettere il resto dei Primitives nell'ombra. Mogol scrisse i testi di due brani usciti nei Settanta e interpretati da Mal: "Sole pioggia e vento" e "Non dimenticarti di me", entrambi presentati a Sanremo, rocckeggianti e cantati con una pronuncia esageratamente inglese e a volte poco comprensibile. D’altronde Mal prenderà la cittadinanza italiana solo nel 1989, eppure a Mogol non sembrava importare.

Little Tony

A Little Tony, già dal soprannome, tutto interessava fuorché sembrare italiano. E pensare che da italiano all'estero aveva sfiorato il colpaccio in Inghilterra sulle orme del suo mito Elvis, ma non pago decise di portare il rock in Italia e a diventarne una colonna portante. Fra i tanti autori di testi con cui il nostro Tony collabora c’è anche Mogol, con il quale realizza la hit clamorosa "Riderà", un adattamento di "Fais la rire" di Hervè Villard, anno 1966. Stiamo parlando di un pilastro della musica italiana, che è in realtà un pilastro della canzone d'autore francese.

Cicciolina

"Lascia l'ultimo ballo per me", uscito nel 1979 sul primo LP di Ilona Staller (ungherese naturalizzata italiana), è un'altra cover adattata da Mogol, in questo caso di "Save the Last Dance for Me" dei Drifters. Cicciolina non si era ancora data alla pornografia vera e propria, rappresentava già un “inferno rosa" capace di scardinare la morale rigida e bacchettona del Bel Paese. In questo caso, è come se Mogol si schierasse dalla parte del rinnovamento e dell'apertura mentale, in diretta opposizione al Mogol che abbiamo visto sui giornali negli ultimi giorni.

Potremmo andare avanti all'infinito, citando il ricco background musicale, lirico e di esperienze di un mostro sacro come Mogol. Potremmo citare una clamorosa apparizione a Sanremo 2009 di Pupo, Paolo Belli e Youssou N'Dour in gara con “L’opportunità”, della quale Mogol curò il testo. Un testo che parla di accoglienza, integrazione, fraternità tra i popoli e tutte queste belle cose nelle quali “la soglia del 33 percento” non è contemplata.

Finito l'excursus, è evidente che il problema della musica "straniera" non esiste. L’ibridazione tra musica italiana e input “esteri” ci ha arricchiti. Mogol, segui i tuoi stessi consigli: “non dire le bugie, meglio dir la verità”.

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo: Italian Folgorati.

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In Italia non c'è nessuno come i 72-HOUR POST FIGHT

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Pronti all'iperbole? Sono abbastanza convinto che in Italia non ci siano band come i 72-HOUR POST FIGHT e che la loro esistenza possa fare bene alla musica italiana. Il motivo è che fanno musica e sono appassionati di musica, e questo è un valore. Il motivo è semplice: chi fa, scopre e gestisce musica di successo in Italia tende ad avere un gusto inquadrato in confini ben definiti ed è raro trovare, per esempio, un rapper che si emoziona con gli American Football, un cantante indie che vola con i Portishead, un chitarrista rock che si gasa i BROCKHAMPTON.

Prima di essere una band, il cui album di debutto esce oggi, i 72-HOUR sono quattro amici nati e cresciuti tra Varese e Milano. Uno è Carlo aka Fight Pausa, che suona la chitarra. Lo stesso faceva prima con i Leute, un piccolo grande gruppo emo che condivideva con Luca Galizia, cioè Generic Animal, e con Andrea, che allora come adesso suona la batteria. Poi c'è il suo compagno di università a fisica, Adalberto, che suona il sassofono. E infine Luca aka Palazzi d'Oriente, che è il nome con cui fa il produttore e musica elettronica, ed è amico di Carlo dai tempi del liceo.

72 hour post fight

Resta che è difficile fare un riassunto di tutte le cose che fanno i 72-HOUR. Carlo lavora con NO TEXT AZIENDA, cioè i ragazzi che hanno girato La Nuova Scuola per noi, il video di "XO Tour Llif3" di Lil Uzi Vert e collaborano regolarmente con Off White. Luca è amico d'infanzia di Massimo Pericolo e ha prodotto a nome Palazzi d'Oriente il beat del suo nuovo singolo "Sabbie d'oro". Ma dato che vengono (per semplificare) il primo dall'emo e il secondo dall'elettronica danno alle persone con cui lavorano - soprattutto in ambito rap - un soffio vitale per svecchiare e innovare la scena italiana.

La loro musica è infatti un mistone apprezzabile da chiunque. Si sente che Carlo e Luca fanno e soprattutto ascoltano musica insieme da una vita - musica, non rap, elettronica, indie o qualsiasi cosa. "Uno dei primi ricordi musicali che ho è Carlo che portava l'iPod di suo padre e ci ascoltavamo i Battles, i Belle & Sebastian, Aphex Twin", mi racconta Luca, "Questo disco puzza del sudore della nostra amicizia." 72-HOUR POST FIGHT nasce come una performance per chitarra ed elettronica eseguita alla presentazione di un singolo dei Leute: "solo dopo ci siamo resi conto che era una bomba e volevamo provare a 'farla', a crearci un universo attorno", dice Carlo.

72 hour post fight

A generare questo universo sono state le percussioni di Andrea e il sassofono di Adalberto, protagonisti melodici sul palcoscenico del disco. Entrambi hanno registrato le loro parti in una lunga sessione di improvvisazione, cristallizzata sul momento: "Gli abbiamo messo in mano delle cose che erano completamente non-musica", spiega Luca, "ma in qualche modo sono riusciti a trovarci una linea pop, e ci riescono anche quando improvvisiamo dal vivo."

Nello specifico, la presenza di Adalberto influisce sull'idea che i 72-HOUR percepiscono ci si faccia all'esterno su di loro: dice Carlo, "Ci mettono sotto categorie come 'elettronica' o 'nu jazz', il che ci può stare, ma solo perché c'è il sax alla fine". Ed è difficile dargli torto, sebbene l'equazione sax = jazz sia solo una convenzione e non una verità incontrovertibile. Adalberto ha infatti studiato strumento, ma si è presto reso conto che gli piaceva di più cazzeggiare e sperimentare che fare solfeggio. Parlando, cominciamo a tirare fuori linee di sax epiche e lui cita "Destination Calabria" di Alex Gaudino, "Talk Dirty To Me" di Jason DeRulo, "Mr. Saxobeat" di Alexandra Stan - tutte hit che gli è capitato di suonare esibendosi in discoteche, dove anche involontariamente si è fatto l'orecchio a forza di suonare il sax sulla melodia di "Despacito".

72 hour post fight

Questo aneddoto è un'ulteriore conferma di quanto i 72-HOUR nascano da un'idea di totale condivisione musicale, un'orizzontalità di ascolti che rifiuta il concetto di guilty pleasure. "Prendi i BADBADNOTGOOD, che suonano alla sfilata di Louis Vuitton, ai festival musicali e al Toronto Jazz Festival", dice Carlo. "Da noi se vieni percepito come uno che fa musica sperimentale suoni solo nelle case, nei posti strani. E viceversa se apri a MYSS KETA ti si chiudono altre porte. Perché deve essere così?"

E infatti non c'è motivo perché lo sia, e i 72-HOUR lo dimostrano con i fatti. Dal vivo spesso improvvisano, indipendentemente dal pubblico che hanno di fronte. "Accostarci a realtà che tendono a essere considerate pop, o di nicchia, per noi ha un significato", dice Luca. "[Artisti come MYSS KETA e Any Other] sono nostre amiche prima di essere musiciste, entrambe sono venute sotto palco a chiederci di aprire i loro concerti. Noi non volevamo fare un disco 'strano', volevamo fare musica insieme. Non definiamo dove va la nostra musica, non definiamo una bolla. Abbiamo la possibilità di condividere, di far arrivare la musica ad ogni livello, sarebbe stupido chiudersi."

72 hour post fight

Lo stesso pensiero deve avere fatto uno dei mentori del progetto: Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti, che pubblica l'album con La Tempesta. Mi viene da pensare che lo stesso abbia fatto Simone Trabucchi, fondatore del collettivo milanese Hundebiss, specializzato in cose sperimentali, che ha invitato i ragazzi a suonare—e improvvisare—a una serata dell'etichetta. L'impressione è che la musica dei 72-HOUR possa unire idee, generazioni, scene: si tratti di gente che pubblica dischi di dancehall sperimentale o indie italiano, di ragazzi che si gasano con l'emo trap o con le svisate di sassofono. "Siamo tutte persone attive, ci piace lavorare nella musica, fortunatamente abbiamo tanti amici e tutti con tante idee diverse. Se facciamo musica è perché comunichiamo con loro", dice Luca.

"Io sono super dentro l'hip-hop," aggiunge Carlo, "come ascolti e lavori che faccio. Abbiamo un background comune ma abbiamo preso direzioni diverse, e questa cosa è linfa vitale." Luca prosegue: "Magari un rapper con cui lavoriamo può attingere da noi rumori e suoni, e viceversa. In America è così da sempre, pensa ai Beastie Boys e ai Run-DMC. Io odio gli album dei rapper che non sono dischi, ma compilation di testi. Perché passi da una traccia con la chitarrina alla trap a un pezzo boom bap? Sono il primo a essere contento se questa cosa inizia a cambiare."

72 hour post fight

È quindi uno sforzo gioioso, quello dei 72-HOUR: attraversare confini, rendere un po' più vera quell'idea di fine dei generi musicali che da anni serpeggia tra le pieghe del cervello musicale collettivo. Fa sorridere anche anche il loro nome, nato da un meme, evoca un'idea di sforzo. Carlo racconta: "C'è questo meme nato attorno a un energy drink per camionisti, postato da inzane_johnny... era un energy drink per farti rimanere interessato al jazz per tanto tempo! Lo avevo messo come immagine profilo di Whatsapp, e il nome si è auto-generato con le storpiature".

Il tocco finale è arrivato da Luca: "Quando poi ho sviluppato e visto la foto che è finita sulla copertina mi sono reso conto che era proprio post fight." La foto raffigura due persone che si abbracciano, stanche, dopo essersi pestate: altri due loro amici, Massimo Pericolo e Sagga—cioè i protagonisti del video di "Sabbie d'oro" di Pericolo. "Il fatto di aver loro in copertina è il pacchetto più bello che potevamo avere per questo disco", mi dice, e sempre lui dà un ottimo assist per chiudere le fila sul disco: "E c'è un'idea di fatica anche dietro al disco, che in fondo è nato da una performance unica. La divisione in tracce è stata un po' forzata, di per sé era un viaggio negli svarioni che abbiamo. Alla fine i pezzi sono inframmezzato da cornici, che sono come dei momenti di riposo dopo una serie di salite. C'è un'idea di sollievo, nel disco come nel nome, che dice tutto."

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Ascolta 72-HOUR POST FIGHT su Spotify cliccando sulla copertina qua sotto:

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Lazza è l'anima rap della Nuova Scuola

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Quando entro in uno studio Machete completamente rivoluzionato dalla costruzione di una sala adibita al gaming, manca ancora qualche giorno all’uscita di Re Mida. È la terza volta che entro qui per incontrarmi con Lazza, la prima fu qualche giorno dopo la firma con la 333 MOB, proprio per farmi spiegare cos’avesse in mente. Era un periodo di grande cambiamento, in cui non si capiva che strada avrebbe preso né lui né la scena che gli stava attorno.

Oggi, due anni dopo, il percorso di Lazza è così chiaro che può permettersi di tornare con un singolo estivo ("Porto Cervo"), riconfermarsi con una cafonata come “Gucci Ski Mask” e poi ingannare l’attesa del disco con un pezzo aperto come “Netflix”. Ed è proprio da qui che iniziamo a parlare.

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La copertina di Re Mida. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Come sono stati recepiti i due singoli usciti più recentemente?
Lazza: Data l'impronta personale che ho sempre voluto dare rappando, speravo meglio. Il pezzo con Gué è andato bene comunque: una roba mega rap, che sembra una versione 2.0 delle mie solite cose. Il mio pubblico un po’ più grande ha recepito bene. Solo mi aspettavo che anche i piccoli si gasassero un bel po’. Comunque a livello di numeri è andato benissimo.

Sì, però lo sappiamo che in Italia le cafonate…
Sì, ma tanto sarà sempre così. Quando proponi un pezzo con un certo mood, ne vogliono un altro, quando proponi un altro mood ne vogliono un altro ancora. Se rappi vogliono l’autotune, se metti l’autotune ti chiedono perché non rappi con la tua bella voce. Non sono mai tutti d’accordo. Comunque alla fine la stragrande maggioranza per il pezzo con Gué mi ha dato ragione, per me poi è una soddisfazione personale non da niente. La strofa di Cosimo è una bella ciliegina sulla torta. "Netflix", invece, che è un pezzo un po’ più aperto, mi sta dando dei bei frutti.

E la gente capisce la citazione di Drake?
C’è qualcuno che urla al plagio, ci sono molti che si espongono per spiegare la differenza tra plagio e citazione. Anche perché io sono un artista con una bella visibilità, sarebbe anche controproducente per me copiare Drake, no? Quando scrivo sono molto istintivo, mi è venuta da fare quella cosa lì, e mi sono detto: “perché no?”. Fine.

Poi questa volta, a differenza di Zzala, ho voluto fare un disco molto vario. Il primo era mega compatto, ora c’è di tutto e secondo me ha tre pezzi (se consideriamo anche “Porto Cervo”) molto spiazzanti.

La differenza tra Zzala e Re Mida si vede anche nelle collaborazioni. Dopo un bel biglietto da visita personale, sei andato a pescare quelli che credo essere le tue ispirazioni e gli amici di una vita.
Tu che mi conosci sai del mio periodo a Genova, del mio rapporto con Izi e Tedua, sai quanto sognassi di fare questi pezzi e finalmente ci siamo riusciti. Aspettavo da tempo di fare delle cose con loro, è stato un piacere ospitarli in studio, c’è stato un rispetto e una velocità incredibile. Il featuring poi è valido se c’è un rispetto reciproco. L’artista se è felice di collaborare con te ti dà un bel feedback, e infatti i due pezzi sono due cannoni, ognuno a modo loro.

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Lazza (foto di Vincenzo Ligresti)

Ma queste sono le differenze per gli ascoltatori, per te quali sono le differenze tra i due lavori?
Sicuramente c’è una crescita mia personale, sia a livello di età che a livello di bagaglio culturale che di esperienze. Il primo disco mi ha fatto ingranare molto, sono stato dal posto importante a Milano, al club da 300 persone in un paesino sperduto. E se prima avevo l’impellenza di uscire per farmi conoscere, con questo ho preferito prendermi del tempo: è molto più riflessivo, ho voluto cercare i mood giusti, i featuring giusti. Volevo dare qualcosa di nuovo ai fan, volevo essere contento. Non ho aspettative, ma ho la speranza di andare sopra il mio primo lavoro.

Un’altra cosa che mi ha colpito è che nonostante le sonorità più pop, se così vogliamo definirle, tu non abbia perso il tuo interesse per la parola, per la punchline. E soprattutto che, nonostante anagraficamente tu sia nuova scuola, con i featuring si percepisce che il tuo modo di essere e di rappare sia un link tra le mentalità dei vari Luché, Fibra, Gué e quella di Tedua Izi, ecc.
Non sei il primo a dirmi questa cosa. Io sono coetaneo dei ragazzi della trap a livelli di età, una sonorità che piace anche a me, eh, ma io a livello di background vengo dal rap duro e puro. Ho grande rispetto per chi c’è stato prima, sono fan di molti, da chi c’è nel disco, fino a Salmo, Bassi Maestro, Jake… Ce n’è veramente una sfilza. Mi sono sempre piaciute le rime, mi ha sempre stupito la rima fica, originale. Questa cosa ormai un po’ si è persa, conta molto più la vibe del pezzo.

Tu hai molta attenzione alla vibe, ma appunto quello che cercavo di dire è che questo non sacrifica la punch.
Sì, ma ho anche capito che non dev’essere forzata. Una cosa che ho imparato rispetto a quando avevo 16/17 anni, quando la punch doveva esserci per forza, è dosare le rime fiche. La punch deve arrivare al momento giusto.

Com’è cambiato il tuo approccio al lavoro, dunque?
Uno si autovaluta, se è in grado di farlo. Un artista deve saper riconsocere cosa non va nel proprio lavoro e migliorarlo. Io ho dovuto cercare la via di mezzo tra l’impressionare e l’essere immediato, semplice. Scontato mai, perché non mi piace, non mi appartiene, ma potenzialmente intellegibile a tutti. Non sono ancora arrivato al top, se oggi una nonna si ascolta il mio pezzo per lei è ancora ostico. Poi, non è necessariamente un mio obiettivo, ma se senza snaturarmi riuscissi ad arrivare a farmi capire persino dalle nonne, be’, vorrebbe dire che ho vinto.

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Lazza (foto di Vincenzo Ligresti)

A livello di melodie come hai ragionato?
Da musicista mi viene abbastanza spontaneo pensare al rap come melodia. Tante melodie comunque le vedo proprio come melodie, non è che sono cose fatte con l’autotune a caso. Ne parlavo con Low Kidd qualche giorno fa: la gente è convinta che usi l’autotune se non sai cantare. Io l’autotune non lo sto neanche più usando come un correttore di voce, perché io sono anche abbastanza intonato: io uso l’autotune proprio come uno strumento. Se tu senti una take di voce cantata intonata, ma senza autotune, magari non capisci neanche cosa dica, perché l’ho proprio pensata con quello strumento specifico. La gente non capisce una cosa: l’artista sono io, mi fate fare il cazzo che voglio?

Mi sembra il riassunto più efficace.
Torniamo a Gué, per farti capire. C’è gente che mi ha scritto: “Gué è più forte di te”. E grazie al cazzo, lo so anche io, la sfida è proprio arrivare dov’è lui. Il featuring è anche competizione, se competessi con gli scarsi che senso avrebbe? Poi sembra che sia andato male da quanto ne parlo, ma sono solo molto autocritico.

Secondo te è vero che sta tornando il rap? Cioè che le melodie e la roba happy sono tutte cose molto belle, ma siamo a un punto in cui le barre tornano a prendere il sopravvento?
Io mi auguro per gli altri di no, perché in quel momento vorrà dire che mi tocca fare più soldi di tutti.

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Solange non è più solo "la sorella di Beyoncé"

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Nonostante il suo esordio discografico risalga a diciassette anni fa, prima dell’uscita di A Seat at the Table nel 2016 il talento di Solange Knowles è stato comprensibilmente messo in ombra dall’ingombrante presenza di una sorella come Beyoncé. Un po’ per le affinità sonore, un po’ per la somiglianza fisica, Solange è a lungo rimasta nota ai più come la sorella minore di Queen B e come la ragazza che ha cercato di picchiare Jay Z in un ascensore. Forse anche per la sua vita privata meno “regale” di quella della signora Carter (un matrimonio e una gravidanza all’età 17 anni, il divorzio solamente tre anni dopo e il profondo sud degli Stati Uniti quasi sempre preferito ai riflettori di Los Angeles e New York), “Solo” ha impiegato del tempo prima di trovare la propria voce; ma da A Seat at the Table in poi è riuscita molto velocemente ad affermarsi come una delle artiste più influenti della black music degli ultimi anni. Se quel disco che ha cambiato la sua carriera era una sorta di canone di perfezione per il nuovo R&B, il suo ultimo lavoro When I Get Home rappresenta un passo avanti decisamente coraggioso.

Come accaduto per Frank Ocean con Blonde, anche in questo caso la maturazione artistica è passata attraverso la ricerca del minimalismo e l’esclusione di tutto ciò che potrebbe essere visto come virtuosismo fine a sé stesso. I testi dei brani si sono ridotti a pochissime frasi che si ripetono ossessivamente e ad immagini semplici ma comunque di forte impatto. Il concept assume un significato più chiaro attraverso i vari interludi del disco, che campionano le voci di diverse donne provenienti da Houston (città natale di Solange) o in generale dal sud degli USA, dalle poesie di Vivian Ayers e Pat Parker (“S McGregor” e “Exit Scott”) alle presunte proprietà curative della Florida Water elencate dalla youtuber Goddess Lulu Belle (“Nothing Without Intention”), passando per un’intervista a due rapper della crew di Atlanta Crime Mob (“Can I Hold the Mic”).

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La copertina di When I Get Home. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Ad eccezione dell’unica vera hit del disco “Stay Flo”, realizzata con Metro Boomin, il resto l’album necessita un ascolto concentrato per essere pienamente apprezzato. Tutto When I Get Home è un viaggione spirituale con delle influenze molto chiare: il jazz, o meglio il cosmic jazz degli anni Settanta, e il chopped and screwed della sua Houston (oltre ai riferimenti alle low rider viola della scena slab, molti dei beat prodotti da Solange usano soluzioni ritmiche tipiche del genere). Per capire meglio da dove sia arrivata l’ispirazione per questo disco vi basterà ascoltare la selezione musicale di questa puntata del programma radiofonico Stay Inside di Earl Sweatshirt, in cui l’ospite Solange passa da brani cult di Doug Carn, Archie Shepp e Womack & Womack alla trap chillata di Wintertime e Tierra Whack, fino a rallentare e dipingere tutto di viola con una traccia choppata di Screwston. Facendo caso in particolare all’uso quasi fantascientifico del piano di Carn, al groove di Shepp e all’afrofuturismo dei coniugi Womack, si può capire la ricerca sonora che sta dietro al lavoro di Solange come producer, prima ancora che come cantante. Non a caso i numerosi ospiti illustri del disco (Pharrell, Tyler, The Creator, Playboi Carti, Abra, Sampha, The-Dream, Earl e i suoi amici degli Standing On The Corner) sono relegati al ruolo di semplici comparse. L’unico che riesce un po’ ad emergere è Gucci Mane, al quale Solange dedica interamente la prima strofa di “My Skin My Logo” prima di lasciarlo rappare.

Se siete nel giusto mood e avete 40 minuti da dedicare interamente all’ascolto del disco, dimenticatevi le atmosfere lievi ed eleganti di brani come “Don’t Touch My Hair” e “Mad” e immergete mente e corpo nel bellissimo trip di When I Get Home. Vi assicuro che ne uscirete rigenerati come dopo una cura idratante a base di Florida Water.

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È morto Keith Flint, il cantante dei Prodigy

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L'articolo è stato aggiornato alle 14.40 con la causa della morte.

Keith Flint, cantante dei Prodigy, è morto. Aveva 49 anni e aveva fatto la storia del rock e dell'elettronica, principalmente con la hit "Firestarter". La notizia, riportata da diverse testate, arriva direttamente dalla polizia dell'Essex, la regione del Regno Unito in cui Flint viveva.

"Siamo stati contattati per venire a Brook Hill, North End, a controllare lo stato di salute di un uomo alle 8:10 di questo lunedì", hanno dichiarato le forze dell'ordine. "Sfortunatamente un uomo di 49 anni è stato trovato deceduto. I suoi parenti sono stati informati."

Tramite l'account Instagram ufficiale della band, Liam Howlett dei Prodigy ha comunicato che si tratterebbe di suicidio: "Le notizie sono vere, non posso credere di starlo dicendo ma il nostro fratello Keith si è tolto la vita questo fine settimana. Sono sotto shock, fottutamente arrabbiato, confuso e col cuore spezzato. R.I.P."

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Il live di Ketama126 indica la strada al rap italiano

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Andare ai concerti la domenica sera, a un certo punto della vita, comincia a non essere proprio un prospetto allettante. Tutto a un tratto il venerdì e il sabato, insomma, ti bastano. Cominci a pensare alle ultime ventiquattr'ore prima del lunedì come a un magma fatto di lenzuola, lunghi scrolling con la schiena sulle suddette lenzuola, caffè della moka, caffè americani pagati tre euro presi al bar di un museo e altre amenità. Insomma: stai cominciando a darti una calmata.

È per questo che quando il mio cervello ha pensato "mmmm" alla proposizione Vuoi venire al concerto di Ketama126 al Fabrique domenica sera mi sono un attimo preoccupato. Venerdì avevo fatto le quattro e mezza. Sabato anche. Magari potevo cucinarmi un cous cous un po' abbondante, così mi facevo anche la schiscetta di lunedì. C'era Juve-Napoli. Potevo andare avanti con il libro che sto leggendo. Ho già visto Ketama dal vivo almeno quattro volte. Magari potevo... stare a casa?

E invece no. Invece ho preso un tram e una Car2Go e sono andato al Fabrique a vedere Ketama126, autore di uno degli album rap italiani più originali, influenti e semplicemente belli usciti l'anno scorso. Era il suo concerto più grande a Milano finora dopo una serie di showcase e concerti, un'occasione per celebrare la fine del ciclo di Rehab con una grande festa. Forse il mio invecchiamento poteva aspettare un'altra settimana.

ketama126

La prima volta che ho sentito dal vivo la chitarra che anticipa lo "STRONZI, TROIE / NON ABBIAMO PAURA DELLA MORTE" con cui comincia "Rehab" è stata al release party del disco in uno scantinato. Non c'era un palco: c'erano solo dei CDJ, un microfono e un bel po' di birre. Ieri sera, invece, le ho gridate assieme a un sacco di gente. Non ero in mezzo a loro ma le ho viste dall'alto aprirsi sotto una luce bianca, creare un buco, cominciare a correrci in mezzo man mano che la canzone si preparava ad esplodere con quel k per sentirsi meglio. E poi, quando la luce si è fatta colorata, li ho guardati saltare e schiantarsi l'uno contro l'altro, come se su quel palco ci fossero gli Slayer e non un ragazzo che rappa. È una cosa che mi ha colpito e mi ha fatto fare un pensiero: non importa tanto quanta gente ti ascolta, ma quanto quella gente ci crede.

Ci pensavo già da un po', dato che negli ultimi tempi ho visto altri due concerti al Fabrique - entrambi sold out - i cui pubblici reagivano in modo molto diverso a quello che succedeva sul palco. Il primo è stato quella della Dark Polo Gang, apertura del tour di Trap Lovers: un concerto inaspettatamente ben fatto, dato che le altre volte che avevo visto la Dark dal vivo era tutto gioiosamente a cazzo. Stavolta Wayne, Tony e Pyrex avevano una scaletta, dei costumi, dei visual, degli stacchetti, degli ospiti: hanno fatto un live di cristo, ma di fronte a ragazzi che erano più lì per vederli che per cantare con loro, sbattersi, muoversi, farsi venire mal di gola.

Il secondo è stato quello di Vegas Jones, data di chiusura del tour di Bellaria. A fronte di uno spettacolo ugualmente ben costruito, i ragazzi presenti hanno accompagnato l'intera serata con un'energia impressionante. Fin dall'apertura di Giaime non c'era bisogno di imboccare la folla con i vari "un grido per mio fratello x" o "Milano ci siete o no" - le risposte arrivavano spontanee, i testi venivano gridati, i corpi si muovevano. Sebbene la mobilità del proprio pubblico non sia minimamente un indice di successo, né dell'artista né del singolo concerto, il live di Vegas mi ha fatto sentire parte palpitante di un corpo, non un osservatore di quel corpo. Lo stesso mi è successo ieri sera al concerto di Ketama, sebbene la gente fosse la metà.

massimo pericolo rapper live

Il concerto di Ketama non è stato solo un concerto di Ketama. È stato uno show della Love Gang tutta, con Drone126 a mettere i pezzi e Franco126, Pretty Solero, Ugo Borghetti e Asp126 a salire sul palco liberamente per eseguire i loro pezzi, non necessariamente insieme al protagonista della serata. Ed è così che il pubblico del Fabrique si è potuto vedere dal vivo un pezzo di storia della 126 come "Tarallucci e vino", la posse track "CXXVI", "Caffé Illy" di Asp, "Buste Nike" di Solero - e "Ansia" di Ugo Borghetti e Massimo Pericolo.

Ecco, Massimo Pericolo. Il giovane rapper di Brebbia è stato l'unico ospite sul palco, insieme a Generic Animal, a non essere legato in qualche modo alla Love Gang. Ma è stato accolto - dai membri della crew e dal pubblico - come se fosse sempre stato uno di loro. "Fumo l'erba per l'ansia ma c'ho l'ansia per l'erba", ha cantato, mandando in delirio tutti i presenti. A pezzo finito, dopo il bestemmione di Ugo Borghetti, ha alzato l'asticella: a petto nudo, ha fatto per la prima volta "7 Miliardi". Sentire tutte quelle persone gridare insieme quelle parole, quello "schiaffo alla scena", è stato come essere testimoni della nascita di qualcosa di grande, inaspettato. Come un bombardamento benigno.

Ad ergersi come una colonna in mezzo alla distruzione, però, c'è sempre stato Ketama. Con un giubbotto dei Mötley Crüe come mantello e una tuta rossa sulle gambe, ha condotto il pubblico come se fosse la sua orchestra: da "Lucciole" a "Sporco", da "Pantani" ad "Angeli Caduti", Kety ha creato ordine nel caos del pogo che si trovava di fronte, unico punto di riferimento per i corpi stanchi e sudati che calpestavano il pavimento del locale, e si davano una mano a risalire quando le gambe cedevano e a terra restava la schiena.

ketama126 generic animal

Quando sono tornato a casa mi sono reso conto che non andare sarebbe stato un errore. Il concerto di ieri sera è stata un'affermazione delle triadi che portano avanti il sistema filosofico della Love Gang: CUORE / SANGUE / SENTIMENTO. SESSO / DROGA / AMORE. Un rap viscerale, sentito. Melodioso ma greve, maledetto ma tendente al cielo. Musica che crea concerti, veri scambi tra artisti e pubblico, e non semplici - per quanto piacevoli - spettacoli.

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A$AP Rocky in concerto in Italia

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A$AP Rocky ha annunciato un concerto in Italia, il suo primo di sempre. Il rapper di New York si esibirà al Circolo Magnolia di Milano il prossimo mercoledì 17 luglio per la rassegna Music Is My Radar, organizzata da Radar Concerti.

In apertura del concerti di Rocky, impegnato nel tour del suo nuovo album TESTING, ci sarà uno dei più grandi talenti della scena inglese contemporanea: Octavian.

Qua sotto la locandina del concerto, cliccaci sopra per tutti i dettagli sull'evento e acquistare i biglietti. Le prevendite sono attive dalle ore 10 di domani, 6 marzo 2019.

asap rocky concerto milano italia biglietti

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Keith Flint ha sempre fatto quello che gli pareva, compreso morire

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Sono rimasto sconvolto quando ho scoperto che Keith Flint si è ammazzato a casa sua, nell’Essex, in un paesino da poche migliaia di anime. Non solo per il dispiacere nel sapere che se n’è andata una delle figure più iconiche della musica mainstream che ha cresciuto la mia generazione, ma anche e soprattutto perché la mia bacheca Facebook sembrava all’improvviso diventata un fan club dei Prodigy. Per quanto io mi ci sia divertito parecchio e in UK sia stato il sesto loro album su sette a finire in cima alle classifiche, l’anno scorso No Tourist non aveva particolarmente scaldato gli animi qui da noi, eppure il pensiero che le punte più acuminate di tutti i capelli d’occidente si siano abbassate per l’ultima volta ha risvegliato un’intera generazione dal torpore.

Il quantitativo di “così se ne va la mia adolescenza” o “insegna agli angeli gli anni Novanta” da cui mi ritrovo circondato in queste ore, oltre ad essere la solita marchetta di attentionwhorismo da social su cui iniziano addirittura a svilupparsi studi accademici, mi dà l’idea di quanto effettivamente i Prodigy abbiano dato e detto a tutti quanti. Ma veramente TUTTI, ché se è normale che nella mia bolla ci sia gente che ascolta gli zarri da rave, magari lo è un po’ meno che i principali quotidiani nazionali piazzino la notizia in homepage appena dopo l’ennesimo cosplay del Capitano dell’interno.

Eppure così forte è stato l’impatto dell’immagine di Flint, tanto magnetico il suo sguardo incastrato tra quella tuta a stelle e strisce che sa di camicia di forza e quella pettinatura assolutamente improponibile ancora oggi come ventidue anni fa. Perché alla fine, volenti o nolenti, il motivo principale per cui tutti si ricordano di lui è perché è difficile scordarsi il video di “Firestarter” una volta che l’hai visto (anche quello della cover di Gene Simmons, ok, ma in modo diverso). O quello di “Breathe”. Il fatto più divertente è che Keith componeva relativamente poco, anzi, quasi niente, e addirittura aveva iniziato la sua carriera dicendo a Liam Howlett “Tu porta sul palco la tua musica, che io la ballo”. Così sono nati i Prodigy, con un musicista e degli squinternati attorno a lui che si agitavano. Il confine tra icona pop su scala mondiale e Mauro Repetto d’Albione è una lama sottilissima.

Al contrario della metà migliore degli 883, Keith Flint è riuscito non solo a trovare la sua dimensione all’interno di una delle macchine sparahit più forti degli ultimi trent’anni, iniziando poi a cantare proprio su “Firestarter” prima e su quasi tutto The Fat Of The Land poi, ma anche a diventarne il volto, a raccoglierne e catalizzarne l’immagine. Proprio l’album di “Breathe”, nel suo libretto, dà una chiave di lettura importante dell’economia che il tatuato frontman rivestiva all’interno del gruppo, allora un quartetto: nella pagina centrale c’è un’illustrazione cartoonesca della band con Thornhill, Maxim e Howlett tutti e tre belli schiacciati nella metà sinistra del disegno. La metà destra è interamente riempita dal ghigno malefico di Keith, dai suoi occhi allucinati e impestati di eyeliner e da quel taglio doppio mohicano da sciroccato.

prodigy fat land booklet cd

Va da sé che nessuno dei Prodigy abbia mai dato un’immagine particolarmente puritana, ma se qualcuno poteva essere immediatamente identificato come protagonista nel vituperato video di “Smack My Bitch Up” diretto da Jonas Åkerlund, qualche minuto di soggettiva allucinata tra droghe, bassifondi e violenza notturna, era ovviamente Flint. Uno che non si è mai fatto problemi, anche a quarant’anni suonati e sostituite le punte con una più sobria coppola, a dire che a vent’anni non aveva un posto dove andare, dormiva sul divano dell’allora fidanzata di Howlett e voleva tantissimo diventare parte della scena rave, finché un bel giorno “ho preso un po’ di acidi, un po’ di ecstasy e non mi sono più guardato indietro”.

Howlett rincarava la dose già nel 1996, durante le riprese di “Firestarter”: “Dicono che Keith ultimamente sembri pazzo. È pazzo da anni [...] solo che la gente ha iniziato ad accorgersene ora perché si tinge i capelli”. “I momenti migliori”, rispondeva il diretto interessato, “sono quando faccio stagediving e mi fingo morto. Si preoccupano tutti, pensano che sia in overdose, e quando mi risollevano e sono a peso morto torno in vita. Di solito lo faccio vicino a qualcuna con una bella scollatura”. Ma questa non era una maschera, non era una versione di Keith riservata al suo personaggio sul palco con il resto dei Prodigy.

Molti anni dopo lo shooting di quel video galeotto si sarebbe raccontato al Guardian dicendo che “spesso la gente pensa che tutta quell’energia sia roba solo per il palco, ma quello sono io”, dicendosi “quel tizio che è saltato sul palco durante un concerto e non è mai stato sbattuto giù”. Nella perenne e infinita battaglia contro il potere costituito, da vero raver, Flint si è scagliato contro qualsiasi forma di ordine: “[i politici] sono tutti degli imbroglioni, sono solo persone che cercano di mantenere il proprio posto di lavoro. E no, non voterei per nessuno di loro”. Anzi, ha preso ulteriormente le distanze da qualsiasi forma di controllo da parte della società occidentale: “Quando salgo sul palco [...] è come una piccola rivoluzione per me, sapere che non lavoro per nessuno”.

Che a quarantanove anni, con alle spalle una carriera di successo e una vita in cui ha potuto scegliere liberamente di fare tutto ciò che voleva, Keith Flint abbia deciso di andarsene, è una notizia triste. D’altra parte, che un personaggio così carismatico e fuori dagli schemi abbia preteso di decidere il modo e momento per lasciare questo mondo è perfettamente coerente. E a noi non resta che ricordarlo così, con tutta la sua body art e lo sguardo allucinato, che diceva: “Mamma? Oh, mamma adora i miei capelli”.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Albertino ha fatto bene o male alla radio italiana?

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Noi italiani abbiamo un brutto vizio: ci affezioniamo alle cose e non sappiamo accettare il cambiamento. Quanti cantanti continuano a vendere dischi anche se oramai non hanno nulla da dire? Quanti cambiano rotta (in senso negativo, perlopiù) e il pubblico, dopo un iniziale e sacrosanto sgomento, poi decide che vabbè, è sempre lui, andiamo comunque al concerto, collezioniamo i suoi inutili cofanetti di cover, ecc. Insomma, abbiamo il prosciutto sui bulbi oculari.

Questo spiega bene la reazione disperata di molti alla notizia che Albertino ha traslocato da Radio Deejay alla truzzissima m2o. In effetti Albertino è una colonna portante della storica emittente milanese, ma dalle sue stesse parole la decisione di abbandonare è dovuta a una mancanza di stimoli e di obiettivi. Il che ci sta, anzi, era abbastanza prevedibile: quello che però realmente vogliamo capire è se questa specie di “lutto collettivo” rispetto all’operato di Albertino in tutti questi anni da disc jockey abbia un senso o se c’è un equivoco.

Se penso ad Albertino non posso che ritornare con la mente ai primi vagiti di Deejay Television, con la sua classifica dei migliori video su Deejay Parade. Per dei ragazzini di otto anni, in una situazione nella quale VideoMusic era ancora un’utopia (farà capolino solo il primo aprile del 1984, mentre Deejay Television andava in onda già nel 1983) e vedere MTV era praticamente impossibile, Deejay Television ha rappresentato un modo per capire cosa stava succedendo nella musica mondiale.

La cosa interessante era che non c’era coerenza in quello che mandavano in onda: potevi beccare il video fico come la pacchianata, ma di base a noi non fregava nulla, volevamo solo musica e avere più input possibili. Lo spazio video di Albertino era quindi di importanza fondamentale, soprattutto se volevi capire cosa andava forte tra i tuoi coetanei, ma soprattutto nel giro dei fratelli maggiori perché erano loro che andavano alle feste, noi al massimo gli rubavamo i dischi per i compleanni. E poi io un fratello maggiore non ce l'avevo, quindi dovevo arrangiarmi, appunto, con Albertino. Che ti piacesse o meno, non c’era scampo: Deejay Television era una delle poche fonti con le quali costruirsi un gusto, capire e saper discernere cosa andava bene e cosa non faceva per te.

Albertino, forse più di tutta la Deejay’s Gang, ha avuto un impatto importantissimo (nel 1997 l'Accademia della Crusca lo ha premiato per la sua capacità di comunicare ai giovani, chissà quanta polemica farebbero in merito oggi). Ma oltre a questo aspetto positivo, abbiamo anche l’altra faccia della medaglia, cioè che Albertino ha sdoganato roba commerciale assolutamente terrificante, mescolando genericamente musica fica con porcate assurde. A Deejay Television trovavi i Public Enemy confusi insieme ai Bros, e cosa ancora più drammatica venivano spinti senza ritegno i pupilli e i prodotti della radio, rendendo anche un fenomeno imbarazzante come Jovanotti un personaggio di culto.

Posso vantarmi di non aver mai acquistato For President, ma quando uscì fu un evento di proporzioni enormi, cosa che aveva a che fare più con un vero e proprio bombardamento mediatico che con l’effettiva qualità del prodotto. Si potrebbe sostenere che sia stata proprio Radio Deejay a creare il “massacro di senso” per cui i più giovani oggi non riescono ad ascoltare la stessa musica per più di una settimana, e cambiando successi come calzini (atteggiamento deplorato da Albertino stesso in un'intervista con Rockit, nonostante sia stato uno di quelli a dare il via a un modo di consumare la musica come fosse una Goleador).

Altro dilemma: è vero che Albertino è stato un apripista per generi come l’hip hop, la house e la techno da rave, oppure no? Molti storcono il naso: perché sostenere che il rap sia stato portato in Italia da Radio Deejay significa ignorare l'importanza prima di tutto di gente tipo i Raptus, che uscivano per Attack Punk e che nel 1985 incominciarono a sperimentare queste cose nella semi-indifferenza generale, e in secondo luogo di tutto il restante humus di una cultura che veniva senza dubbio dalla strada.

Senza Venerdì Rappa, One Two One Two e il famoso Hip Hop Village, tutte cose fondate da Albertino, forse il rap non sarebbe uscito così presto dalle periferie e dalle case popolari; ma d'altra parte, ci saremmo risparmiati le hit da classifica degli Articolo 31. Albertino dice che tutte queste situazioni correlate erano nate per dare spazio a tutte le realtà rap e da una sincera passione per l’hip hop. La storia però ci insegna che furono le scorribande dei milanesi a Roma (Jovanotti in primis) a importare e accaparrarsi qualcosa che invece sul suolo romano era già ben radicato e aveva un successo innegabile: la differenza era di mezzi economico-mediatici. Roma non aveva rivali a livello di house, techno, rave culture e hip hop, come racconta Lory D nella nostra intervista su Noisey, ma la scena non riusciva a fare breccia al di fuori del Grande Raccordo Anulare con la stessa forza di quella milanese, più agganciata, più volgare, meno originale e più commerciale. Di sicuro, insomma, ci troviamo di fronte ad un modo diverso di intendere la fruizione della musica e il suo scopo. Da un lato la purezza dell'underground, dall'altra un DJ che, pur aiutando alcuni artisti, questa purezza la contamina e la diluisce dentro al terribile calderone "dance", con il suo contorno di locali imbarazzanti e ossessione per i soldi. Dove sta la verità?

Per ripercorrere il ruolo di Albertino nella musica italiana, ho chiesto una mano a un mio caro amico e socio che queste diatribe le conosce bene: Hugo Sanchez, che molti ricorderanno per essere il mattatore di eventi romani come Discolooser, Tropicantesimo, Pescheria e il suo progetto house Front de Cadeaux, del quale potete vedere in rete svariate Boiler Room.

Mi dice Hugo: “Io ho ascoltato Deejay Time dall’87 fino al '91, circa, nel periodo d’oro. Ho ancora tutte le puntate registrate, tutte le Deejay Parade del sabato, sono le cose che mi hanno fatto venire la voglia di mixare. Se pure in classifica c’erano gli A Tribe Called Quest a 80 bpm e Corona o Adamski a 130 bpm, facevano tutti questi passaggi che non so come ottenevano, forse coi campionatori, ma rallentavano piano piano e introducevano le canzoni più lente e io pensavo che fosse divertentissimo. Perché io già sentivo i DJ mixare nelle discoteche, ma i bpm dei dischi erano sempre gli stessi, sovrapposti. Con Deejay Time invece no, era diverso, è lì che ho flippato. Albertino si inventava tutte queste cazzate tipo 'gli amici della cassettina', che era riferito a noi che ci registravamo le puntate, oppure slogan come 'lento ma violento', la sua rubrica che preferivo, con Gigi D’Agostino. Il concetto di lento violento mi accompagna ancora oggi, tanto che al Fuse di Bruxelles, dove abbiamo suonato un mesetto fa, uno è venuto da noi e ci ha chiesto se ci piaceva Gigi D'Agostino, e noi contentissimi. Riconosco quelle cose come un’influenza”.

albertino gigi d'agostino
Uno screenshot dal video di "Super" di Albertino e Gigi D'Agostino, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

Albertino però a differenza di tanti altri DJ si è cimentato poco con la produzione di brani originali, le dita di una mano sono addirittura troppe per contarli. Ma secondo Hugo c’è un motivo ben preciso: “Albertino ha fatto più cose tipo jingle allungati, a differenza di Gigi Dag che partiva dai modi di dire della radio ma poi ne faceva dei brani veri e propri. Albertino, secondo me, non era niente di ché nemmeno come DJ da discoteca, e l’ho sentito. Però come divulgatore è stato sicuramente pazzesco”.

Il ruolo di divulgatore, quindi, ad Albertino non si può negare: rimane però il problema dell’originalità, tra accuse di plagio da emittenti più piccole e di appropriazione culturale di molte cose “sotterranee”, soprattutto nel periodo di svolta verso la rave culture. Divulgazione, sì, ma fatta commercializzando e togliendo forza a un messaggio che era invece nato per essere tanto dirompente quanto universale.

Tra le invenzioni di Albertino c'è la classifica italo dance (attenzione, non italo disco), che conteneva vari progetti che erano tutti delle stesse quattro o cinque persone che incidevano sotto vari nomi per non farsi sgamare. "Recentemente ho letto un articolo di Impellizzeri sui primi dischi house e si parla molto dell’Italia, del progetto Gino Latino, un parto di Radio Deejay che fece il botto. Era stato venduto come il progetto dance di Jovanotti, ma in realtà erano sempre loro, gli stessi di Ramirez o di 'Ti sei bevuto il cervello', che infatti fu pubblicata da Albertino con il nome Control Unit. Siccome uscivano solo su vinile, un passaggio su Radio Deejay significava tremila copie vendute”. Ecco spiegato lo stratagemma di infilare in alti posti della classifica prodotti della stessa Radio Deejay in modo che, anche se magari non era ancora vero che erano al top, poi diventavano per forza dei bestseller.

Allora stesso tempo, però, c'era un lato positivo a questo mischione: accanto a cose come gli Articolo 31, potevi ascoltare roba davvero di qualità, e di mille generi diversi. E si insegnavano anche ai ragazzi le questioni tecniche, tipo come mettere i dischi, le tecniche per loopare su vinile: “Mi ricordo che quando facevano la Deejay Parade spiegavano tutti i passaggi, tipo Molella che rallentava un pezzo per farlo combaciare con un altro, e lì mi partiva la fantasia, era una figata. I DJ house erano fighi, ma loro in radio mischiavano tutto, non solo un genere", continua Hugo.

Albertino quindi ha influenzato generazioni di ascoltatori e di musicisti. Comunque lo si voglia prendere, è una persona che sa di cosa parla. A leggere le sue interviste, dice di venire dal rock, poi ammette che la sua carriera si è sviluppata "campionando" quello che sentiva in giro. Ammette che di tutto quello che passava su Deejay time la roba veramente buona era un 50/60 percento. E, nonostante sia il re della "commerciale", la promuova e praticamente viva di quella, dice anche che odia i centri commerciali e il modo in cui il commercio rovina la musica, così come la fruizione usa e getta che ne hanno oggi i nativi digitali.

Quindi Albertino è un sincero profeta della musica o paraculo sottilissimo? Un personaggio in evoluzione o un'icona sempre uguale a se stessa? Non lo sapremo forse mai. L'integrità, in musica, è più sfuggente di un'anguilla. Per cui, forse, la vicenda di Albertino può diventare un giro di boa anche per quelli della nostra generazione, quella che dalle sue trasmissioni è stata plagiata inconsapevolmente a canticchiare anche quello che in fondo sa fare schifo, eternamente rinchiusa in un limbo tra qualità e monnezza.

Grazie a Marta Rissa e Valerio Mattioli per i sereni confronti sul tema.

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo: Italian Folgorati.

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Guarda The People Versus Tauro Boys

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I Tauro Boys vengono da internet e fanno rap. Secondo noi sono tra i nuovi prospetti più eccitanti del rap italiano, ma non tutti sono d'accordo: quindi gli abbiamo chiesto di mettersi a leggere i commenti dei loro hater su YouTube.

Yang Pava, Maximilian e Prince si sono destreggiati tra trappate con le stampelle, sostanze bianche e rime aperte. Guarda il video qua sotto e leggiti l'intervista che gli abbiamo fatto qualche tempo fa.

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Future non si è presentato a un live ma Zaytoven l'ha fatto lo stesso

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NPR Tiny Desk è una delle serie video più belle di YouTube. La fa la stazione radio americana NPR, che invita artisti a eseguire qualche brano a una scrivania nel loro ufficio. E quando gli invitati sono rapper la loro musica risulta spesso trasformata. Suonate in un contesto così intimo e con una strumentazione ridotta all'osso, le canzoni rap spesso rivelano un sorprendente lato nascosto. Qualche esempio? I live del Wu-Tang Clan, di T.I. e di Big Boi.

Quindi potete solo immaginare come sarebbe suonato un concertino di Future in un contesto simile. Potete letteralmente solo immaginarlo, dato che il nostro amico non si è presentato all'appuntamento che aveva preso con la radio per promuovere il suo nuovo album The WIZRD. Ma c'è stata una bella sorpresa, come potete vedere dal video qua sopra: Zaytoven, il suo beatmaker e uno dei padri della trap, ha deciso di fare lo stesso il concerto.

Come ha scritto Rodney Carmichael di NPR, la band - tastiera, chitarra, batteria e flauto - era pronta a suonare ed era in attesa di Future da ore, con Zaytoven a dirigerla. Quando è arrivata la certezza che Future non si sarebbe presentato, Zay ha preso in mano la situazione e ha condotto i suoi strumentisti in un medley di beat di Future che comprendeva "Lay Up", "Peacoat" e "Mo Reala". E insomma, è venuta fuori una piccola figata. Grazie per aver paccato, Future!

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Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.

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Un altro pop è possibile: liberiamoci dei Canova

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Vi ricordate di Boris 3? La stagione della serie cult in cui allo sfigatissimo regista René Ferretti sembrava essere capitato finalmente tra le mani il progetto della vita, Medical Dimension, tutto ultramoderno e concentrato sulla qualità? Ecco, Medical Dimension era la promessa dell'esplosione indie. Finalmente nelle classifiche italiane avremmo trovato musica che pescava dalla scena urban, dalle novità straniere, dal fermento delle periferie (intese come vere periferie e periferie musicali, insomma, l'underground), che fornisse una piattaforma per identità sottorappresentate.

Ma sappiamo che fine fa Medical Dimension in Boris 3: prima viene fatta fallire da un'industria che vuole dimostrare che l'unico metodo di fare la fiction è quello tradizionale; poi si ritrasforma in Occhi Del Cuore, la sua sorella scema e nazional-popolare. È questo ciò che ci troviamo davanti con album come Vivi Per Sempre dei Canova.

canova vivi per sempre
La copertina di Vivi Per Sempre. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Che cos’è che fa annoiare così tanto il serpente della musica italiana da costringerlo a mangiarsi la propria coda in un gesto disperato? Il pop in Italia assomiglia a una mappa terrapiattista, con un muro di ghiaccio invalicabile attorno e una forza centripeta che trascina tutto come lo scarico di un lavandino. Al centro dello scarico, immagino, il terribile mostro dei ghiacci: Luciano Ligabue. O qualcosa del genere.

Non dovrei nemmeno stare qui a spiegarvi perché il nuovo album dei Canova mi ha spinto alle riflessioni riportate qua sopra, tra l'altro appuntate sul mio iPhone mentre, in preda alla febbre e all'insonnia, tentavo di ignorare la giostra del mio cervello alle 4 di mattina. Dovrebbe essere lampante. Basta premere play su ognuna delle nove canzoni dell'album e skippare avanti di circa 55 secondi per trovare, invariabilmente, un ritornellone in cui Matteo Mobrici sale di tonalità, mentre il resto della band ci dà dentro per suonare qualcosa di trascinante e liberatorio. A volte c'è un "la la la". In alcuni casi si sente lo spettro degli Oasis, in altri quello dei Coldplay, in altri ancora quello di Cesare Cremonini (e c'è una mezza citazione di Lucio Dalla). È tutto molto noioso.

Ma sono sicuro che i Canova in questo disco hanno messo molto di se stessi, e sono anche perfettamente consapevole che si tratta di un gruppo amato dal pubblico. Forse sono io che sono arido e che non riesco a farmi conquistare, eppure quando azzeccano il "ritratto" lo colgo, per esempio in "Shakespeare", una canzone senza ritornello, dritta, con un testo che è una piccola poesia. Il problema è il resto dell'album, che scivola addosso come la radio in autogrill, senza quasi fare attrito. Sono i testi che sembrano prodotti da un generatore automatico di romanticismo all'italiana (sì, anche quello che in teoria parla della gentrification di Londra), è l'idea di queste voci educate che gorgheggiano nei dischi "rock" italiani da tempo immemore e che, con gli "spostati" della nuova generazione indie, pensavamo di esserci lasciati alle spalle—e invece. Tutti a scuola di canto sono andati.

L'appello che Noisey Italia vuole lanciare, prendendo a pretesto l'album dei Canova, è quello per un pop non più pop. Basta con i canoni, basta con la tradizione, basta con i bravi cantanti. Un altro pop è possibile, un pop sguaiato, spontaneo, rumoroso, imprevedibile. Noi vogliamo crederci.

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Il tuo incubo peggiore viene da Roma e si chiama Metro Crowd

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I Metro Crowd sono una sorta di all-star band dell'underground romano, con membri di Holiday Inn, Hiroshima Rocks Around, Mai Mai Mai, Sect Mark, e altri. Ne avevamo già parlato in occasione del loro primo EP, quando li avevo paragonati allo scivolo di un aquapark negli anni Novanta: fangoso, buio e pieno di insidie. Il 22 marzo uscirà su Maple Death Records il loro secondo LP, Planning:, che io sto ascoltando in anteprima—e sono felice di annunciarvi che i ragazzi hanno fatto il salto di qualità.

Non è una novità che una certa fetta di umanità negli ultimi tempi si senta intrappolata in uno scenario distopico, nel quale lo scopo della vita e delle azioni che compiamo quotidianamente diventa sempre più evanescente. È una storia complicata, che ha a che fare con la politica internazionale, la tecnologia, la burocrazia, l'ambiente, e, ovviamente, con i poteri occulti che muovono le tessere del puzzle. Scherzo. Giuro. Ma anche se non siete dei paranoici ossessivi, entrare nell'atmosfera di Planning: è un'esperienza quantomeno curiosa.

Il fatto che il cantante Gian Luca sia fumettista, infatti, fa sì che abbia un modo di concepire le canzoni molto particolare: ognuna ha una piccola trama, a volte talmente piccola che si potrebbe rappresentare con un'unica vignetta. Tutto sembra basato sul rapporto tra individuo e moltitudine: parte dal disgusto provato per i passeggeri dello stesso vagone (ricordiamo che il nome Metro Crowd è un ironico "tributo" alla Metro C di Roma), passa per l'osservazione della gente che va a farsi le lampade in mezzo allo smog e al freddo, per futuristici incubi a base di crioconservazione umana e arriva a teorizzare una massa umana informe, priva di identità, dedita soltanto al lavoro per una patria che la disprezza. La colonna sonora di questo delirio febbrile è un post-punk industrializzato, psichedelico e iper-tecnologico, il cui principale punto di riferimento è sicuramente la San Francisco di Residents, Chrome e Subterranean Records, ma anche la no-wave newyorkese e il primo suono industrial-rock di gente come i Ministry.

Oggi, grazie a Maple Death, vi facciamo ascoltare "Gas In A Wagon", la traccia che apre il disco e che ci immerge subito nel lago scuro e melmoso dei quattro romani. La storia è semplice: dentro il vagone della metropolitana, a fine giornata, i passeggeri non riescono a trattenere il disgusto verso i compagni di viaggio, e si lanciano in una silenziosa ma letale gara di scoregge. Uno dei pezzi più rumorosi e assurdi del disco, a metà tra dub e noise, tutto ricoperto da un phaser assassino. Le sensazioni che dà questo pezzo, e che vi darà il disco quando potrete ascoltarlo, non sono sensazioni che vorrete provare per sempre. Ma quando avrete bisogno di un giro nelle caverne, di una favola terrificante che non vi faccia dormire, saprete a chi rivolgervi.

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No, la techno non è "tutta uguale"

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Nella migliore delle ipotesi, le prime immagini che la cultura di massa associa alla parola "techno" sono un club buio, musica a tutto volume e, ovviamente, l’immancabile cassa in 4/4 che scandisce 130 battiti al minuto. Nella peggiore, invece, presumo che assuma le fattezze di quella pericolosa entità informe descritta dall’ormai leggendario giudice di Forum: "la media della musica tecnico sono 170 BPM al minuto [...] e non può essere seguita se non si è alterati! Perché diventa fastidiosa!". Insomma, l’idea è quella di una musica martellante, ripetitiva e che non presuppone una grande inventiva artistica. Come direbbe mio padre: “un bumbumbum tutto uguale”. Ma è davvero così? No, sebbene il mese scorso siano successe un paio di cose che hanno dato per un attimo ragione al giudice di cui sopra, e a mio padre.

I confini della musica techno oggi sono labili ma i suoi natali sono univocamente definiti, almeno nel dove e nel quando: “La techno è un genere musicale nato a Detroit, negli Stati Uniti d’America, negli anni 80”. E proprio lì e allora che inizia la carriera di Jeff Mills, colui che lungo gli anni Novanta ha scritto un capitolo del movimento e ne è diventato una colonna portante, prima con lo storico collettivo Underground Resistance e poi in solitaria. Jeff Mills l'alieno. Il Mago. Il genio che poco tempo fa ha pubblicato per sbaglio a nome suo la traccia di un altro produttore.

Prendetevi un secondo per pensarci: uno dei padri fondatori di una cultura musicale si è trovato lì un CD senza etichetta, lo ha ascoltato, ha pensato "hey, figo!", non si è reso conto che fosse roba scritta da un'altra persona, l'ha pubblicata a nome suo. Inizialmente speravo si trattasse di un semplice errore burocratico; e invece no. Lo ha ammesso il suo entourage: "Mills riceve spesso demo di artisti [...] e a volte ne fa dei CD per testarle mentre è in tour. Su un CD senza etichetta e a causa di similitudini nello stile di produzione, Mills ha erroneamente considerato la traccia come qualcosa che aveva prodotto tempo fa, procedendo poi col pubblicarla”. I diritti sono stati subito riconosciuti allo svedese Julien H. Mulder, il vero autore del pezzo, ma ciò non toglie che questo siparietto abbia regalato un argomento in più a chi considera la techno tutta uguale. Talmente uguale che persino le leggende non sanno più distinguere i propri dischi da quelli degli altri.

Mentre trent'anni fa Jeff Mills bombardava Detroit a colpi di Roland Tr-909, in Italia Donato Dozzy scopriva la techno e muoveva i suoi primi passi nella seminale scena romana. Oggi “il Professore” è uno dei produttori e DJ più eclettici e stimati nel mondo e, personalmente, uno dei miei preferiti. Anche lui, però, settimana scorsa è stato al centro del techno-gossip. Sul profilo Facebook di Spazio Disponibile, l’etichetta che Donato gestisce insieme a Neel, infatti, è stato pubblicato un post che metteva in dubbio l’originalità di una traccia dei Beat Movement (associata a questo pezzo dei Crossing Avenue), e una di Judas (accostato a questo remix di Dozzy). Il risultato è che si è generato un piccolo vespaio.

Il parapiglia social ha portato poi i Beat Movement a giustificarsi mostrando, con tanto di prova video, come quel disco fosse stato prodotto genuinamente, smentendo di fatto le voci di plagio. Anche qui pace è stata fatta, ma il nocciolo della questione rimane: veramente siamo arrivati al punto in cui ogni traccia techno prodotta può essere ricondotta ad un’altra già esistente? Veramente gli stilemi della techno sono talmente rigidi da pilotare, anche senza volerlo, tutte le sonorità verso un indefinito calderone di “già sentito”?

Se pensi che la risposta è "sì" allora vuol dire che, anche senza volerlo, hai dentro una qualche sorta di pregiudizio. Per sfatarlo si possono percorrere più strade. La più semplice è quella dei sottogeneri, dei tangenti e derivati: acid, trance, minimal, deep, electro, derive house e chi più ne ha più ne metta. Questi hanno da sempre apportato variazioni al tema di Detroit, un sound che ha dimostrato la propria versatilità (forse proprio perché così semplice?) e si è declinato in numerose sfumature, ognuna delle quali vive di ciclici picchi di fama o infamia, revival e più o meno gradite rivisitazioni.

C'è però una faccia nascosta del prisma che è la techno. È difficile da definire, dato che è lontana dai paradigmi della cassa dritta e abbraccia invece il suo lato più "umano", se vogliamo. È fatto di sperimentazione, cultura, territorialità e del contesto sociale in cui tale musica prende vita. Insomma: se, fino a qualche anno fa, “techno” è sempre stato sinonimo di Detroit, Berlino e Ibiza, da un po’ di tempo a questa parte stiamo assistendo al florido sbocciare di scene in ogni angolo del pianeta. E questo, secondo me, è abbastanza per poter affermare che la techno non è "tutta uguale."

Mi spiego meglio: la cartografia della techno sta venendo messa in discussione, i paletti del genere stanno venendo abbattuti e il classico muro di drum-machine Roland e cassa in quarti sta venendo scavalcato. Il merito è di un brulicare di artisti africani, asiatici e sudamericani, che si stanno facendo largo nel circuito mondiale a forza di progetti localizzati e, al contempo, impegnati. Il risultato è che il classico suono techno ne esce rinvigorito, un po' più lontano dal rischio dell'appiattimento.

Molti di questi melting pot si trovano dall'altra parte del Mediterraneo, lungo le coste dell'Africa. Un ottimo esempio è Maghreb United, pubblicato nel 2018 dal produttore tunisino AMMAR 808. Si tratta di un racconto in salsa afro-futurista delle difficoltà di una terra che sogna unità e giustizia, simbolicamente rappresentate dalla comunione di musica sahariana e derive elettroniche occidentali. Sulla stessa scia viaggia anche il collettivo Disco Halal, etichetta di Berlino ma con radici a Tel Aviv, che unisce i battiti teutonici al sound della Terra Santa. Ritornando in Tunisia va citata anche Deena Abdelwahed e il suo Khonnar, un lavoro che parte dalle categorie della club music e sfocia in una sperimentazione veicolata da sonorità della tradizione; è un'opera che si presta alle danze ma allo stesso tempo critica la società araba e il modo in cui essa viene percepita nel mondo, contro omofobia e disuguaglianze.

deena abdelwahed khonnar
La copertina di Khonnar di Deena Abdelwahed, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Un percorso simile lo ha esplorato Tzusing, un ragazzo malese che nel 2017 ha fatto un disco intitolato Dongfang Bubai in cui ha affrontato la questione dell'identità sessuale tra industrial e melodie orientali. Dongfang Bubai, spadaccino della tradizione che si evirò per apprendere le arti marziali, è infatti il simbolo delle lotte LGBTQ cinesi.

Se ci spostiamo in Giappone troviamo anche la DJ Powder e il suo Powder in Space, interessante album-mixato uscito qualche settimana fa. Divisa tra un impiego d’ufficio a Tokyo e la possibilità di fuga notturna che le offre la musica, Powder fa convivere nel suo mix rimandi alla sua terra (vibrafoni, percussioni, elementi naturali) e ritmiche berlinesi. E così in un colpo solo esorcizza le paure del giorno e mette in discussione il dancefloor attraverso un djing creativo.

C'è poi il Sud America ma non c'è così bisogno di parlarne, dato che il rinascimento digitale delle tradizioni sudamericane è sotto gli occhi di tutti - o è comunque quello più accessibile a un pubblico non abituato a pensare alle implicazioni dell'elettronica che va a ballare. Il merito è principalmente dei rilavoratori della cumbia, iniziata al mainstream da Nicolas Jaar, che l’ha poi riversata su temi politici, sdoganata da Nicola Cruz e avvicinata al clubbing occidentale da Matias Aguayo, la cui storia ed estetica raccontano migrazioni, inclusività e cultura queer.

tzusing dongfang bubai
La copertina di Dongfang Bubai di Tzusing, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Insomma, questi esempi dimostrano che la techno e i suoi sottogeneri possono diventare veicolo di movimenti sociali, se vengono messi in atto in luoghi in cui sono forti le necessità di fuga, ribellione e riappropriazione identitaria. Ma possiamo anche andare oltre il lavoro dei singoli artisti e guardare a quello di diversi collettivi in giro per il mondo: il party anticapitalista Mamba Negra a San Paolo, l’isola di pace che è la scena underground palestinese, la lotta all’oppressione dello Cxema a Kiev, ma anche l’Herrensauna di Berlino che ha saputo riportare il clubbing a un’idea DIY e alla totale libertà. A sottolineare la portata e l’importanza che tali eventi stanno acquisendo anche fuori dalle loro nicchie è l’interesse via via crescente che la stampa internazionale sta manifestando nei loro confronti: a queste scene controculturali contemporanee si sono interessati molti siti, specializzati e non, e Boiler Room ha addirittura dedicato loro un format.

È bene fermarsi qui, ma solo perché la lista potrebbe continuare all’infinito e non ho neanche voluto toccare il filone post-club. Gli esempi che ho fatto non sono "techno" nel senso più integralista del termine, ma il punto è che non vogliono esserlo. Ed è questa volontà che demolisce la credenza che la techno sia “un bumbumbum tutto uguale”. Il sound originale si sta svecchiando anche grazie a queste ibridazioni etniche, si sta evolvendo e ci fa definire "techno" ciò non lo è mai stato.

A Ibiza i DJ fanno sempre le loro pose tech-house, a Berlino i puristi vestiti di nero dalla testa a piedi continuano a fare l'alba, ma i paradigmi della techno si stanno disgregando e reinventando. Il bello è che intanto stanno ricomparendo anche i principi fondamentali del movimento, quelli professati trent’anni fa proprio da Jeff Mills e dall’Underground Resistance, quelli che hanno contribuito a donargli una forte identità e che spesso sono sembrati perduti: unione, ribellione e impegno sociopolitico.

Donato Dozzy ha detto che, in vent’anni di attività come DJ, non è ancora riuscito a comprendere la vera utilità sociale di ciò che sta facendo, ma ne ha osservata la funzione terapeutica. Volete vedere che forse, piano piano, stiamo ritrovando il tassello mancante?

Simone è producer/DJ e scrive di musica per DeerWaves, Zero e Noisey. Seguilo su Instagram.

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Ci siamo rotti il ca**o dei servizi di Striscia contro Sfera e la trap

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Se tuo figlio si droga, non è colpa di Sfera Ebbasta. E questa cosa inizia a essere ridicola…

Sono mesi che vorrei scrivere quanto segue ma, nel mare magnum di opinioni e opinionisti, mi è sempre sembrato più corretto rispettare il silenzio di chi era direttamente coinvolto. Oggi, però, questo silenzio si è rotto e pertanto ho pensato che potesse essere corretto che lo rompessi anch’io.

In questi mesi, in realtà, su Noisey non siamo stati proprio zitti: qui abbiamo invitato a concentrarci “su altro”, peccando forse un po’ di benaltrismo—che a volte è necessario—qui abbiamo deriso chi credeva che davvero nei testi di Sfera ci fosse il demonio. La realtà è che a tratti ci è quasi sembrato ridondante sottolineare quale fosse il giusto atteggiamento da assumere in questa situazione, sicuri che le polemiche più bigotte si sarebbero spente, persino in questo circo tutto italiano.

Ecco, forse siamo stati ingenui, e con un po’ di ritardo ci va di dire che ci siamo rotti il cazzo. Nel dibattito mainstream italiano si sono fatti così tanti errori che è probabilmente arrivato il momento di far sentire anche un’altra voce, con la speranza che per una volta esca dalla nicchia di chi sa di cosa si sta parlando e arrivi anche a chi passa le proprie serata ad appassire davanti a Striscia la Notizia e compagnia bella.

Proprio Striscia, dopo la recente e ributtante campagna di odio costruita attorno a "Rolls Royce" di Achille Lauro, ha trasmesso un servizio sulla purple drank in cui i testi di Sfera Ebbasta (come quelli di diversi altri rapper) vengono accusati di ispirare i bambini a bere sciroppo. L'inviata procede poi a sbattere un microfono in faccia a dei bambini e a chiedergli se sanno che cos'è la codeina, e in che canzoni l'hanno sentita nominare.

Ecco, questo è stato troppo anche per Sfera, che ha condiviso su Instagram una risposta alle numerose polemiche costruite attorno alla sua musica negli ultimi mesi. "Sono mesi che mi sveglio ogni giorno e trovo il mio nome su qualche giornale in cui vengo diffamato gratuitamente", dice Sfera, per poi interrogarsi sul perché i suoi testi vengano presi di mira.

Colgo lo spunto e mi unisco alla sua riflessione. È davvero assurdo cercare di riempire questo spazio bianco, perché mi sembra a tratti di essere pedante e didascalico, ma forse è necessario così, quindi procederò per punti:

SE SONO MORTI SEI RAGAZZI NON È COLPA DI SFERA EBBASTA

Eccoci. È molto spinoso parlare di questo argomento, perché se si parla di morte e non di colpevoli sembra sempre di essere insensibili. E per quanto per me sia scontato, sto per dire una cosa che sembrerà una bestemmia in Vaticano: è molto triste che siano morte sei persone, per di più molto giovani, ma non per questo il responsabile deve essere Sfera.

A Corinaldo, nel locale, quando tutto è accaduto, Sfera Ebbasta non era neanche presente. Se avete più di una certa età e non sapete la differenza tra dj set/showcase e concerto—il che è legittimo—eccola qua, in soldoni e semplificando: nel primo caso delle persone completamente esterne al management dell’artista organizzano un evento che viene arricchito dalla presenza di un ospite (senza il quale l’evento esisterebbe lo stesso). Nel secondo a volte è l’organizzazione che sta dietro all’artista che occupa una location e organizza una data completamente incentrata sull’artista, in altre è una produzione esterna che si adopera affinché si organizzi un evento completamente incentrato sull’artista.

Nel primo caso, quello che coincide con Corinaldo, Thaurus—l'agenzia di Sfera—si è solo accordata con un organizzatore di eventi (il proprietario del locale o anche solo un ragazzo che decide di crearsi la serata che più lo diverte per guadagnare due soldi), e ha delegato completamente l’organizzazione del tutto a chi lo fa di mestiere. È impossibile conoscere OGNI locale della penisola, e per questo si delega. Funziona così in ogni ambito lavorativo, e anche nella musica. Quindi, al di là di ciò che potrà dire Fedez sul Fatto Quotidiano o Anastasio chissà dove, Sfera non deve insegnare niente a nessuno: il suo lavoro è impugnare un cazzo di microfono e far divertire le persone.

Possiamo stare a discutere per giorni sul fatto che lui si sia esposto troppo tardi, con parole troppo fredde, in maniera troppo sbrigativa ma la realtà è questa: Sfera non è entrato in un locale con un mitra e ha sparato sulla folla, né ha raccolto delle persone in un posto che crollava per poi disinteressarsi delle loro sorti. Ha avuto la sfortuna di essere bookato nel posto sbagliato, il giorno sbagliato. Al suo posto potevano esserci Riccardo Fogli come Roger Waters. Per quanto nel nostro mondo migliore tutti amiamo il nostro prossimo, Sfera avrebbe potuto benissimo disinteressarsi della faccenda, non esporsi. Lui non era nel posto, lui non aveva organizzato niente, quelle persone lui non le ha (e non le deve) avere sulla coscienza. Poi lo ha fatto, perché è umano, perché eticamente era anche giusto così e perché sì, ma fine.

E davvero, è straziante leggere di una madre che ha perso un figlio e racconta la propria esperienza in merito, ma una persona coinvolta emotivamente non è il miglior giudice possibile. E se è comprensibile che una madre urli il proprio dolore, fa molto schifo che Repubblica o chi per loro decida che questa DEVE essere una notizia. Una madre che piange la morte di un figlio e accusa altre persone è solo una persona non capace di intendere e di volere che urla il proprio dolore. È da aiutare, ma darle un megafono non è certo un aiuto.

Quindi, se fino ad adesso non fosse chiaro, la cosa è molto più semplice di come sembra: se quei ragazzini sono morti ci sono mille cose che si possono fare, l’unica che non è utile è prendersela con Sfera. Perché se il fato ha deciso di rovinare la vita a sei persone, non capisco perché i media dovrebbero rovinare quella di una settima.

SE TUO FIGLIO SI DROGA NON È COLPA DI SFERA EBBASTA

“Pensare che tuo figlio non si sia mai fatto una canna è come pensare che tua madre non abbia mai fatto un pompino”. Quest’iperbole di Massimo Pericolo è di una potenza inaudita, perché racconta al meglio lo spirito cattolico dell’Italia, dove tutte le donne sono troie tranne la mamma e dove tutti i nostri familiari sono santi.

Sfera Ebbasta parla di droga nei testi—tra l’altro neanche così esplicitamente—e quindi? La droga esiste, è un fatto. L’ho vista girare nel miglior liceo della mia città, che ho frequentato, alle feste del cinema romano con la meglio gente, ma anche in studi sgangherati e tra i disperati. E giuro su Dio, non ho mai sentito nessuno dire “Oh zi fammi fare un tiro di canna che Gemitaiz dice che è così buona”.

Ci si avvicina alla droga—almeno, parlo per me—per noia, per mancanza di alternative, perché ti va e basta. Il mondo che mi e ci si prospetta davanti è un mondo fatto di cariatidi, di zero possibilità, una vita di stenti, perché cazzo non devo cercare rifugio dove meglio credo? Io Sono cresciuto ascoltando rap, eppure:

• Non ho mai preso la patente per investire Albertino ("Sono il disco macchina che investe il motorino con sopra Albertino / Faccio marcia indietro e lo sopprimo.")

• Non ho il porto d’armi ("Entro in disco con un mitra e ammazzo tutti, prendo la percentuale sopra i lutti.")

• So coniugare perfettamente ogni tipo di verbo ("Io sono uno che se c’avrebbe un prezzo / vennerebbe pure a monnezza").

È disarmante dover spiegare che—come dice giustamente Sfera nel proprio intervento video—se deve essere un modello per qualcuno, Sfera è molto più “uno che ce l’ha fatta” che un “consumatore di droghe”. Sfera Ebbasta ce l’ha fatta dal niente ed è una grossa speranza per chi nel niente c’è ancora: punto.

FA SCHIFO USARE DEI DODICENNI PER COMPIACERE DEI SESSANTENNI

Qui non mi dilungherò troppo: guardate il servizio di Striscia La Notizia sulla purple drank in cui si attacca Sfera (e DrefGold, e Izi, e altri ancora). Ditemi se non è molto più infame coinvolgere dei ragazzini interrogandoli sulla droga che cantare della propria vita in cui, sì, c’entra anche la droga. Ditemi se per soddisfare l’ego di un sessantenne che pensa che i bei tempi siano finiti da un pezzo usare dei bambini non è disgustoso.

Spoiler: lo è.

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Billie Eilish viene dallo spazio

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Mi piacciono le cover, da morire. Ascoltare il modo in cui una voce inedita prende possesso di una melodia già conosciuta, percepire la sensibilità con cui sceglie di lasciarla incontaminata o plasmarla secondo l’istinto: credo che interpretare il pezzo di qualcun altro dica molto sull’artista che lo fa. Per questo, il mio cover radar è completamente impazzito quando, circa un anno fa, gironzolando su YouTube sono finita qui:

Mi sono chiesta come fosse possibile che una ragazza così giovane potesse appropriarsi di un classico come "Bad" con questa consapevolezza, e da quale pianeta di una galassia lontana provenisse una voce del genere. Così, da quel momento di circa un anno fa, ho deciso che Billie Eilish fosse un alieno.

Devono averlo sospettato anche i suoi genitori, entrambi attori e musicisti, quando diciassette anni fa hanno deciso di dare a questa incredibile creatura il nome di Billie Eilish Pirate Baird O'Connell. Un nome impegnativo, che va assecondato. E così è stato: a soli undici anni Billie ha iniziato a creare le sue canzoni affiancata dal fratello Finneas, che nel 2016 ha pensato di farle cantare un pezzo che aveva scritto per la sua band ma che trovava più adatto a una voce femminile, "ocean eyes". La fama di Billie è esplosa quando la traccia è stata caricata quasi per caso su SoundCloud, una piattaforma che ha portato alla luce tanti nomi che in vario modo hanno contribuito all nuova wave musicale che stiamo vivendo in questo momento. Non a caso, la stessa Billie ha dichiarato “SoundCloud è perfetto. Trovo lì tutta la nuova musica. È ciò che mi ha portato fin qui: chi ha talento magari non ha le risorse per condividere la sua arte, ma SoundCloud lo permette.”

E con SoundCloud rapper come XXXTentacion e Lil Peep l’artista losangelina non ha in comune solo le modalità di debutto online, ma anche una tendenza all’introspezione che spesso sfiora l’abisso: nel suo dark pop minimale, le parole sussurrate raccontano sentimenti oscuri ed esperienze dolorose con cinismo e onestà. Si tratta di una tendenza alla malinconia che un’età brutale come l’adolescenza non può che rendere più pura, ma c’è di più: l’urgenza espressiva di Billie, soprattutto dal vivo, è così cristallina e magnetica da spezzare sistematicamente il mio cuore d’adulta con performance come questa, in cui tutto—la presenza scenica, l’empatia con il pubblico, il dolore—è totale e totalizzante.

Quiet when I'm coming home and I'm on my own
I could lie, say I like it like that, like it like that

È sincera, Billie Eilish: il suo rapporto con depressione e ansia non è mai stato un segreto, e ha recentemente reso pubblica la difficile convivenza con la sindrome di Tourette dopo l’uscita di alcuni video in cui i suoi tic erano stati raccolti in discutibili compilation. In effetti, essere lei non deve essere semplice: amatissima da una quantità impressionante di teenager di tutto il mondo (meno di un mese fa il suo sold out milanese), in diverse interviste ha raccontato senza ipocrisie le pressioni derivate dalla sua fama. Il suo account Instagram conta 14 milioni di follower ed è inutile girarci attorno: viviamo in un’epoca in cui tutto è esposto, tutto è narrato e i DM hanno abbattuto ogni limite tra fan e artista.

Deve essere davvero faticoso essere Billie Eilish, quindi, ma soprattutto vivere sotto così tanti riflettori il momento in cui il mondo intero si rende improvvisamente conto di quanto tu sia un alieno. Mentre scrivevo questo pezzo, mi sono imbattuta in almeno dieci articoli che la definivano “il futuro del pop.” Dave Grohl, oltre ad aver inaspettatamente suonato "idontwannabeyouanymore" insieme alla figlia, ha detto di lei: "Le sta succedendo esattamente quello che successe ai Nirvana nel 1991. Ci si chiede se il rock sia morto, ma quando guardo gente come Billie Eilish capisco che il rock non è ancora morto." Non solo: è stata la musa del noto artista giapponese Takashi Murakami per una recente cover del magazine Garage, mentre il regista Alfonso Cuarón l’ha scelta per comporre un pezzo ispirato al suo film Roma, vincitore di tre premi Oscar. Niente male per una ragazzina, no?

Ciò che rende Billie Eilish così speciale, oltre a un innegabile talento, è anche la sua capacità di incarnare perfettamente un certo zeitgeist estetico. È molto distante dall’essere una Lolita iper-sessualizzata come, per intenderci, la Britney Spears di "...Baby One More Time": i suoi vestiti oversize mostrano pochissimi centimetri di pelle e la collocano, così come il suo atteggiamento, oltre ogni stereotipo di genere. In una recente intervista, ha dichiarato: “I don’t fuckin’ wanna be a girl, bro. I mean, I am. But I don’t wanna be like… A GIRL.” E io, che alla sua età pensavo esattamente la stessa cosa, non posso che supportare questa diciassettenne appassionata di streetwear che cita come massime fonti di ispirazione due nomi agli antipodi come Tyler, The Creator e Lana Del Rey. Questa volta l’industria musicale dovrà trovarsi un’altra bambolina, perché Billie Eilish non sembra davvero oggettificabile.

Il vero giro di boa sarà l’album When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, in uscita il 29 marzo a due anni di distanza dall’EP di debutto dont smile at me. Gli enfant prodige non hanno mai avuto vita facile, si sa, e la vera sfida per Billie sarà riuscire a lasciare il segno senza perdersi, per diventare molto di più di una next big thing e coltivare il suo talento come il prezioso dono alieno che è. Perché se amo così tanto un’artista che ha circa dieci anni meno di me, o sto invecchiando benissimo (e lo spero in ogni caso) o siamo davvero davanti a una fuoriclasse.

Giada è la social editor di VICE. Seguila su Instagram.

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Madame è il modello di rapper che vogliamo

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Scoprire nuovi artisti è come uscire per la prima volta con una persona. A volte capita il colpo di fulmine, altre scatta un lento corteggiamento che può portare a rose o a spine, altre ancora tutto finisce accantonato nel dimenticatoio con un “mèh” spiaccicato sopra. Ma spesso accade che ci ritroviamo con occhi nuovi ad ammirare la novità per sbaglio scartata e, proprio come un vecchio spasimante che rincontriamo dopo tanto tempo, ecco che all'improvviso sentiamo fiorire un sentimento nuovo.

Questa premessa per dire che, probabilmente, avete provato una sensazione simile quando avete ascoltato “Sciccherie” di Madame, che si chiama Francesca, viene da Vicenza e fa la rapper. È un brano, prodotto da Eiemgei, che a un primo ascolto può causare reazioni scomposte - storture di naso, occhi strabuzzati, magari anche risate. Eppure, Madame ha un qualcosa che sfugge ma che conquista.

Madame ha diciassette anni ed è già una tipa tosta. Avete presente Daniel di Karate Kid? Aveva sempre avuto la forza dentro di sé, ma aveva bisogno del maestro Miyagi, e di tanto allenamento dai-la-cera-togli-la-cera, per tirarla fuori e spaccare il culo ai bulli. Ecco, Madame è così. Ha gli ingredienti giusti per spaccare e diventare non la prossima rapper del momento, ma un nuovo modello di rapper. E questo perché non assomiglia per niente a tutte le rapper del momento. Il suo punto di forza è proprio il suo essere sopra le righe, un elemento di rottura nella scena, con la sua genuinità e il suo anticonformismo in punta di piedi.

madame
Screenshot dal video di "Sciccherie" di Madame, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

“Sciccherie” è il suo secondo singolo, uscito lo scorso dicembre. Il cantato è a tratti incomprensibile, può sembrare un dialetto (ma in un'intervista smentisce che lo sia) ed espressioni ormai inflazionate come “bibbi” e “money” appaiono qua e là, ma senza arroganza da bad girl di strada, piuttosto come parole di un dizionario assimilato e utilizzato con naturalezza. Tutto questo, se a un primo ascolto può sembrare addirittura ridicolo, è in realtà più innovativo di quanto crediate: parole spezzate, accenti sballati e neologismi—vedi “ficcatine”, che richiama il verbo dialettale “ficcare”, per intendere "sveltine”—si prestano al servizio del flow e della musicalità del brano, e si plasmano col beat in un fluido armonico.

Il suono prima di tutto, quindi, ma visto che le parole di “Sciccherie” si trovano facilmente online è giusto dargli un'occhiata. Ancora una volta, Madame sorprende con un testo introspettivo e malinconico quanto basta per alzare la qualità del brano. Avrebbe potuto giocare facile con l'ennesima canzone incazzata contro gli uomini, il girl power da strada, qualche volgarità tagliente e una manciata di “bitch” per fare colpo, invece no. Apre il suo cuore e ci parla delle sue insicurezze, paranoie da ragazza in cui però chiunque può immedesimarsi, come un amore che ci fa dannare—“La saliva che non metti sopra le cartine / La sprechi a dirmi ciò che non voglio sentire”—e la sensazione di sentirsi inferiore rispetto ad altre ragazze —“Uscire con l'abito nero e sciccherie / Mentre metto cose per sembrare come quelle un po' più fighe”.

L'originalità della scrittura di Madame era già palese nel suo precedente singolo “Anna”. Uscito lo scorso settembre. È un brano intimo e complesso, con figure retoriche e una metrica che vanno oltre la media dei brani rap in circolazione—non a caso, Madame dice di essersi ispirata niente meno che a Dante per la realizzazione di questo brano. L'Anna del testo è una persona più grande dell'artista che è diventata il suo punto di riferimento, una sorta di idolo che possiede tutto ciò che Madame non ha, ma che vorrebbe: occhi azzurri, capelli biondi, eleganza e ricchezza d'anima.

Tutto ciò che sappiamo di questa amica/idolo viene sussurrato tra le righe (“Sembri una foglia che si sveglia all'alba / Mentre i tuoi biondi viaggiano nell'aria”) e anche il rapporto tra le due assume tinte fantastiche. Quasi viene il dubbio che Anna sia frutto dell'immaginazione dell'artista, che riversa su di lei i suoi bisogni e le sue insicurezze—“Però trova il tempo per amarti / Trova il tempo per truccarti / Che sei bella se cerchi i miei sguardi, trova il tempo per guardarmi”. Un testo, quindi, più simile a un sonetto che a una canzone rap, eppure, proprio per la sua diversità, riesce a fare breccia.

madame sciccherie
Fotografia promozionale.

Insomma, Madame è un bug nel sistema musicale italiano. Se già musicalmente ha tutti gli elementi giusti per essere un bello schiaffo alla scena rap italiana (vedi come ironizza sull'uso delle droghe quando canta “Io non mi drogo, sciolgo le pastiglie digestive” in “Sciccherie”), anche la sua immagine è un bel pugno nell'occhio del sistema. Capelli corti, una chioma di ricci capricciosi, viso acqua e sapone, occhi dolci e un abbigliamento casual fanno di Madame l'anti-eroina per eccellenza in un mondo di Cardi B e Nicki Minaj. La sua immagine colpisce proprio perché in netta opposizione a tutto ciò che adesso in Italia le etichette spingono di più, ovvero Barbie stereotipate dalle pose plastiche, abiti provocanti e volutamente volgari, e quella bad attitude ormai sempre più cliché che vera personalità.

Madame non si nasconde dietro tutto questo: si mostra per quello che è, che vi piaccia o no. E deduco che anche lei voglia un po' giocare sporco, visto che nel video di “Sciccherie” si intravede una non-troppo-velata frecciatina all'estetica dominante. Il videoclip, infatti, si apre con Madame vestita di tutto punto secondo le regole della migliore scuola trap: occhiali da sole enormi, collane sul collo, orecchini e anelli scintillanti, una pelliccia d'ordinanza e qualche capo griffato. Tutto da manuale, anche troppo, al punto che perfino io ho pensato “poraccia, ma chi l'ha vestita così male?”. Invece, sorpresa sorpresa, durante i 3:33 minuti del video Madame si spoglia di ogni fronzolo inutile (e ridicolo) rimanendo, alla fine, solo con 'nu jeans e 'na maglietta. Un gesto metaforico per esprimere il suo mettersi a nudo e mostrarsi per quello che è attraverso la sua musica, ma anche un'elegante provocazione alla scena rap per definire la sua posizione di contrasto.

Dunque, Madame sembra sfuggire alle attuali etichette di genere che vogliono “le rapper” in un determinato modo e con un determinato stile. Un’anomalia del sistema che, proprio per la sua originalità e il suo anticonformismo, può rappresenta un nuovo punto di vista del fare rap. Prova del fatto che il suo talento non sta passando inosservato è data dalla sua partecipazione a un evento di Nike nello store di Milano, dove è salita sullo stesso palco di Ghali e della DJ Peggy Gou. In un’industria musicale che plasma i nomi emergenti secondo un immaginario preconfezionato, Madame resta fuori dal solito gregge platinato. È come quando la mattina al bar ordini sempre lo stesso cornetto al cioccolato ma un giorno, per sbaglio, ti danno quello alla nocciola. All’inizio ti incazzi, ma poi ti piace, e forse di più, anche se non era il solito gusto.

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Madame si esibirà sabato 16 marzo a Milano all'Apollo per NICE Club.

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Se la house music è queer dobbiamo dire grazie (anche) a Honey Dijon

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Chicago, fine anni Settanta. La Capitale dell’Illinois assiste alla nascita di uno dei momenti di massimo splendore della storia della musica. La disco è ormai al tramonto, l’urgenza di un nuovo sound si fa largo insieme a quella di un cambiamento sociale in risposta a decenni di emarginazione della comunità latina ed afroamericana, soprattutto omosessuale. Nell’area di Southside viene inaugurato un nuovo club, il Warehouse, da un tale chiamato Frankie Knuckles: quel luogo, quell’uomo, avrebbero dato per primi alla house music il suo nome. Prima di questo momento, i club rispecchiavano la segregazione fra oppressi, esclusi e benestanti; al Warehouse, che tu fossi bianco, nero, ispanico o di uno specifico orientamento sessuale non avrebbe fatto differenza, la differenza l’avrebbero fatta i dischi.

Concepita per far ballare la pista, l’house affonda le radici nel gospel, nel soul, nel funk e nella salsa sudamericana. Rappresenta nello spirito e nell'estetica il grido di protesta di chi domanda libertà e costruisce la propria comunità attraverso la danza, come massima espressione di integrazione. Al Warehouse si poteva ascoltare qualcosa di totalmente innovativo, un misto di classici 70's ed elettropop europeo in una selezione tanto ampia da essere fuori da ogni categoria.

Frankie Knuckles e Chicago di Honey Dijon sono stati genitori affettivi: un background tanto fervido non avrebbe potuto non influire sull’educazione artistica e personale di una delle sue figlie. Proprio nel Southside Honey Redmond cresce, all’interno di una giovanissima famiglia afroamericana che non è ancora pronta ad appendere le scarpe da ballo al chiodo. Organizzano feste, tengono la radio sempre accesa—Curtis Mayfield e Minnie Riperton nell’aria, portano i piccoli ai negozi di dischi insegnando loro la parola "Motown" e, soprattutto, si scambiano consigli.

honey dijon
Fotografia promozionale di Yann Weber.

È così che avviene un passaggio di testimone generazionale fra soul e R’n’B vecchia scuola e Larry Heard. È un’epoca d’oro in cui la musica trasmette la voce del Movimento per i Diritti Civili. Si canta d’amore, fame di vita e di lotta: un sound consapevole e carico di messaggi sulla connessione fra gli esseri umani e le loro specialissime storie e, in misura ancora maggiore, una via di fuga dalla vessazione del ghetto, specialmente per un adolescente queer.

Honey comincia a entrare nei club a soli dodici anni, armata di documenti falsi, e questi diventano per lei un tempio di celebrazione esistenziale. Dall'inferno della marginalizzazione entra nel paradiso della liberazione sessuale, dei costumi, dell’espressione tutta. A guidarla c'è un maestro di cerimonia che schiude le porte dell’unione attraverso il suono, Deus ex machina ancora ben lontano dall’essere riconosciuto come una celebrità, nascosto al fondo della stanza o al di sopra della pista come invisibile forza naturale. A Chicago quel che conta sono tecnica e talento, prima della selezione: se tutti possiedono gli stessi album, a determinare la gloria sono cuore e impegno.

Miss Dijon non sa ancora bene chi sia, ma sa chi desidera essere. Ammira gli scatti di Mapplethorpe e guarda ai modelli gender-bending di Annie Lennox e Grace Jones, punti di rottura a dimostrare che si possa essere donna, uomo, anima e artista, fuori dai convenzionali canoni di bellezza e forti di geometrie asimmetriche. Suo zio è un sarto, ed accompagnando il padre a confezionare i propri abiti scopre l’universo celato dentro le pagine di Vogue. Nel bookstore del leggendario negozio di dischi Wax Trax! trascorre ore divorando libri e riviste d’arte e moda, comprendendone la devastante portata culturale e il potere di far di se stessi un’opera maestosa. Ogni elemento è interconnesso a creare un’unica coloratissima tavolozza: fra Keith Haring, John Coltrane, Mozart e Basquiat non c’è spacco, ma comune celebrazione del bello e della vita.

Cambia nome, sceglie Honey Dijon ("come Prince opta per un simbolo al posto delle lettere”), rifiuta di essere ricordata soltanto per la propria identità di donna trans afroamericana. Conosce a scuola Lori Branch, protetta di quel Frankie Knuckles che sta scrivendo la storia e dal Warehouse va e viene parlando di questa incredibile novità a Chicago, la house music. Un giorno prende un autobus per seguire il consiglio di un amico, arriva al negozio di dischi in cui lavora il DJ Derrick Carter e si sente a casa come mai prima. Si lascia introdurre alla realtà underground dei parties e del Djing—in principio suona per campare, per il primo set prende cinquanta dollari. Le congiunzioni astrali, poi, brillano sempre più forti: si trasferisce a New York e scopre che il mondo corre anni luce più veloce che a Chicago.

honey dijon
Fotografia di Jake Lewis via VICE.

È una tribù selvaggia quella della Grande Mela, che la catapulta nel circuito delle ballroom queer afro-latine e nel cosmo delle drag alla serata Jackie 60. Lì incontra David Morales, che i più giovani ricorderanno come giudice con Guè Pequeno del talent Top DJ. Nel Meatpacking District c’è un club, il Twilo, in cui un nome si afferma su tutti divenendone resident: Danny Tenaglia, che eredita la residency proprio da Knuckles. È lui a regalare a Honey il suo primo vero mixer e, di fatto, a cambiarle la vita.

La scena di allora era in maggioranza bianca, maschile ed eteronormativa: l'esistenza di Honey fa evolvere il quadro, porta coscienza e rispetto per artisti queer e transessuali e la afferma come modello. Apre la strada a Steffi, Tama Sumo, Prosumer, pensando alla musica come ad un teatro in cui i riflettori si centrano sulle esperienze di ogni singolo protagonista. Viene scelta da Antony Hegarty per un progetto che combina fotografia, video, musica e recitazione a celebrare lo straordinario fascino di performer transessuali. Tiene una classe al MoMa sull’identità di genere nella musica elettronica accanto a DJ Sprinkles e Genesis P-Orridge. Insomma, diventa ambasciatrice delle infinite sfaccettature dell’essere umano attraverso il suono.

La sua attitudine al party non va intesa come segno di minore attenzione verso produzione e Diing. È vero che sia la preferita dagli stilisti—non perde un evento di Balenciaga, Hermès, Givenchy, è amica di Riccardo Tisci, Naomi e Kate, Virgil Abloh, e Kim Jones le affida assieme a Moroder la colonna sonora della sfilata uomo di Louis Vuitton. Ma quel che conta è, per lei, la persona oltre l’etichetta, la moda come comunicazione piuttosto che abbigliamento. Prende forma il sogno di quella teenager che a Chicago sfogliava incantata le pagine di ELLE e si immaginava al centro di una vita scintillante.

Honey si presenta come un animale da festa perché è l’ambiente che l’ha formata, ma è autentica ed onesta e, soprattutto, priva di preconcetti. Non avrebbe altrimenti acquisito il favore dei colleghi berlinesi, dove si è mossa, fino a guadagnare quattro ore della scorsa line up di fine anno al Panorama Bar. Per fare un esempio, è una delle amiche più intime di Matrixxmann, che ne declama le doti camaleontiche e di mixaggio techno, house, pop e disco. Nella Boiler Room che ne ha consacrato la notorietà mainstream a Melbourne, un orecchio attento noterà in un cambio di pochi minuti un’intro di Stevie Wonder, un remix di Erick Morillo, il campionamento di una traccia di Bjarki e “Hey Hey”, hit 2000s di Dennis Ferrer, il tutto sotto lo sguardo divertito di Gerd Janson in prima fila.

Una notte di musica può cambiare un’esistenza, ribaltare quanto creduto impossibile sino a quel momento. Quel che conta è chi ne sia la guida, quale spirito infonda nel fare del suono una missione. Honey Dijon è una persona affascinante con una splendida mente e ha alle spalle un percorso densissimo. C’era quando tutto è iniziato, c’è oggi a raccontarlo, in un entusiasta inno alla vita.

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L'Italia dovrebbe accorgersi di Sequoyah Tiger

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C’è stato un momento esatto, durante il concerto di Sequoyah Tiger di fine 2017 al Tunnel di Reggio Emilia, in cui quella cosa che stava accadendo sul palco ha smesso di colpo di essere strana e straniante, ed è, invece, diventata perfetta: è stato quando in scena sono comparse le bandiere, di cui una con su scritto “classic”, a dirci che eravamo tutti lì per fare il tifo per un comune senso di libertà. Lì s’è accesa l’emozione ideale, e cioè quella che ti gasa, eppure allo stesso tempo ti commuove fino al midollo, sciogliendo nodi che nemmeno immaginavi di avere, e alla fine ti fa stare bene. Ma per arrivarci s’è dovuto superare un primo momento di rigidità mista a imbarazzo e pudore dovuto a quella performance così aliena, fatta di musica, ginnastica, danza, mimica e posizione fisiche allo stremo, il tutto eseguito a muso duro davanti a poche decine di persone.

sequoyah tiger parabolabandit
La copertina di Parabolabandit di Sequoyah Tiger. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Bandcamp.

Leila Gharib, che ha il papà iraniano ma è nata e cresciuta a Verona dove ha iniziato a fare musica nella band post punk Bikini The Cat, non la si può capire se non la si vede live, perché è lì che, accompagnata dalla ballerina Sonia Brunelli, dà forma a uno show essenziale nella strumentazione, ma più che robusto nel suo intreccio tra dimensione musicale e dimensioni emotive, statuarie, geometriche, animalesche, simboliche. I corpi e il suono passano da una dimensione all’altra, in una dinamica che, come he detto lei stessa in un’intervista a Kalporz, “conduce ad un’apertura dei sensi percettivi”. E lo fa eccome, tant’è che le facce del pubblico quella sera di dicembre, si sono come sciolte, rilassate, distese, libere finalmente dalle paresi sociali (che diventano somatiche) che ci imponiamo; se non è potenza dell’arte questa allora non so proprio che cosa possa esserlo.

Non c’è nulla di provocatorio nel modo che Sequoyah Tiger ha di presentare dal vivo i suoi pezzi: dalle movenze che richiamano gesti atletici agli scatti robotici fino al look sportswear ma in versione retrò, tutto è così perché è mosso da una sincera voglia di esplorare, di spostare/annullare i limiti dell’arte, e di farlo, o comunque provare a farlo, insieme al pubblico, e questa genuinità me l’ha fatta amare moltissimo. Ancora di più di quanto già non la amassi mentre fagocitavo il suo primo album Parabolabandit, uscito per l’etichetta tedesca Morr Music con cui aveva già pubblicato l’EP Ta-Ta-Ta-Time.

Mi sono sempre chiesta perché diamine non parlassero tutti di quel disco. E me lo chiedo ancora, visto che pezzi come “Punta Otok”, puro synth-pop metallizzato, “A place Where People Disappear” con il suo crescendo vertiginoso, ansiogeno, irresistibile, il perfetto agrodolce di “Cassius” o i tropicalismi inaspettati e matti di "Lemur Catta" non hanno, a mio avviso, granché da invidiare ai lavori di artisti come Grimes o i Beach House a cui spesso viene paragonata.

Eppure Sequoyah Tiger è rimasta un po’ nell’ombra, altamente sottovalutata forse per l'utilizzo dell'inglese, usato (cosa rara) con grande credibilità. Del suo talento si è detto poco proprio nel momento in cui tutti si esaltavano per il momento d’oro della musica italiana - purché facilmente etichettabile, che fosse itpop, trap, indie, sexy pop, urban, vaporwave. Sembra che in Italia ci sia quasi un sospetto per chi, per natura e non per posa, proprio non rientra in alcuna categoria, e Leila è la scheggia impazzita per eccellenza, un’artista che fonda il suo equilibrio sulle dicotomie, quando, per esempio, anche all’interno dello stesso pezzo (come accade in “A Place Where People Disappear”) ribalta più volte l’ambiente sonoro, cambiando metrica e, di conseguenza, l’emotività del momento.

Leila è una musicista che frulla i generi, senza aggressività ma con competenza, e li fa brillare di nuova luce. Troppo "alta", come musica? No, perché se lo vogliamo propio riassumere all’osso la parola più giusta da usare sarebbe pop, tanto più che lei stessa dice che “nel pop ci sguazzo”, anche se poi aggiunge che la sua “sperimentazione è quella di spingere a fondo le leve classiche ed attraverso la composizione e la produzione del suono cerco di far precipitare i pezzi in zone inaspettate”. Un pop, dunque, imprevedibile, coraggioso o, come ha raccontato a Freeda “timoroso ma comprensibile, ma è solo una questione di abitudine”, che ora ti accarezza e ora ti strattona, ma che non ti fa girare a vuoto: se ascolti Sequoyah Tiger, stai sicura, da qualche parte arriverai. Dove, però, non dipende più da lei, ma da te e da quanto sei disposta a lasciarti andare.

Carlotta è su Instagram.

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Recensione: Aftersalsa - Concrete

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Perché cominciare un disco con le parole "Fuck me like you always had / Don't spoil it, I said"? Probabilmente perché vuoi evocare un senso di freddo sensuale indietronico, un po' come quello che gli xx hanno sdoganato con enorme successo ormai una decina di anni fa e da lì è stato ripreso da orde di band mezze tastierose mezze chitarrose. Ma anche perché gli Aftersalsa sono persone che ascoltano un sacco di musica inglese e americana più o meno così, ci si ritrovano dentro e vogliono farla anche loro. E la fanno in quella lingua, perché così gli gira.

Questa è una mia ipotesi, a penso sia abbastanza fondata dato che che ho letto l'articolo uscito su DLSO in cui la band di Milano elenca i dischi che l'hanno ispirata nella produzione di questo suo album, Concrete, uscito da poco. C'è il dream pop dei Beach House, il glorioso synthpop ottantiano dei Lust For Youth di International, l'elettronica da clubbing-da-concerto di Trentemøller, lo zarropop tutto retrò dei Jungle. E anche cose che ci sono meno, nelle loro note, ma non nei loro cuori: quel paxxo di Oneohtrix Point Never, quel post-DJ visionario di Nicolas Jaar. Il che è tutto bello, ma anche un po' un problema.

aftersalsa concrete
La copertina di Concrete degli Aftersalsa, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

È bello perché significa che c'è gente che ascolta un sacco di musica straniera, se la lascia passare nel filtro della mente e delle dita fino a renderla il succo del proprio prodotto creativo. Viviamo tempi in cui per un maschio bianco è molto semplice fare musica di medio successo: basta fare pop normalissimo, avere un cognome nel nome, cantare in italiano di amori un po' così, di Roma e Milano, del mare e del sole e del vento e del sorriso e del pianto. Si chiama itpop e produce roba ok e anche robaccia. Band come gli Aftersalsa, mi sembra, rifiutano tutto questo e fanno musica non-localizzata, notturna e sognante, che guarda alle eccellenze europee più che ai fenomeni di casa nostra.

Ma è anche un problema, perché sono fermamente convinto che per band come loro cantare in inglese sia un freno. Non perché abbiamo una tradizione che va rispettata, PERDIO, ma semplicemente perché 1) di band che fanno musica così e cantano in inglese ce ne sono 978917891278912312 in tutto il mondo e quindi 2) farlo in italiano sarebbe un valore aggiunto che li farebbe spiccare sia nel nostro paese così scarso con le lingue straniere, magari prendendo dentro anche gente che si gasa per l'itpop di maniera. Ci metto anche un 3), dato che cantare in una lingua che non è l'inglese non è più un limite, anzi, e all'estero una band che canta in italiano può risultare particolarmente figa da raccontare.

Detto questo, questi sono miei ragionamenti che non toccano il valore e/o gli intenti degli Aftersalsa, che fanno il loro lavoro egregiamente. L'estetica stradaiola delle loro foto spacca, "Oscar" è un pezzo con un gioco di melodie che se fosse uscito in UK sarebbe fisso nella playlist della Rough Trade East a Londra, lungo il corso del disco ci sono un sacco di momenti che fanno fare su e giù alla crapa e poi la toccano piano piano con delle carezzine. Però c'è come il senso che se tutto questo fosse cantato in italiano, o anche se fosse strumentale, potrebbe uscire più facilmente da Milano, dall'Italia, dai blog e dai media di settore come noi. Se lo meriterebbero, i ragazzi.

Elia è su Instagram.

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