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Esiste una cover ucraina di "Soldi" di Mahmood

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Dopo averlo incoronato vincitore della giuria di Noisey a Sanremo, e dopo aver vinto la nostra scommessa anche sul palco dell'Ariston, Mahmood continua a donarci una gioia dopo l'altra. Ok, in questo caso lui c'entra poco, il merito è di un certo Olag "Oli" Lachman, youtuber ucraino specializzato in cover, che un paio di giorni fa ha caricato sul suo canale una versione tradotta nella sua lingua di "Soldi", il brano vincitore di Sanremo 2019. La segnalazione è arrivata dal blog BitchyF.

Ok, gli handclap non sono esattamente potenti e a tempo come quelli dell'originale, e le spigolosità dell'ucraino non suonano esattamente vellutate come le parole di Mahmood, però è un tale sollievo vedere una canzone di Sanremo finalmente in grado di attraversare i confini nazionali senza essere la solita italianata. In vista dell'imminente contest internazionale Eurovision nel quale Mahmood rappresenterà l'Italia, Olag ci ha fatto prendere decisamente bene. Per non parlare del bisogno di vicinanza che abbiamo con il resto dei nostri fratelli e sorelle europei, con il clima politico che si respira negli ultimi tempi.

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Chadia Rodriguez ci ha ridato Jake La Furia

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Uno dei più grandi crucci della vita di un fanboy del rap post Club Dogo è la carriera di Jake La Furia. Non perché nella carriera di Jake dopo i Dogo ci sia qualcosa di sbagliato, intendiamoci: è molto più probabile che ci sia qualcosa di sbagliato in me (fanboy del rap italiano, per l’appunto).

Vedere Jake divertirsi con La Profunda Melodia è qualcosa che al contempo mi rende felice—se è felice uno dei rapper migliori della storia italiana, perché non dovrei esserlo io?—e triste—proprio perché uno dei migliori rapper della scena italiana sempre più spesso smette i panni del miglior rapper della scena italiana e veste quelli di Pitbull.

Ora, non andrò ad analizzare la SIAE di Jake post Dogo né le sue scelte artistiche, ma gioirò con voi nel notare che le ultime tre strofe di Jake mandano a casa chiunque abbia qualcosa da dire e confermano che se Jake volesse tornare a rappare con costanza, be’, non ce ne sarebbe per nessuno. Quindi alla fine è meglio così per la scena tutta, e soprattutto il mercato.

Ho una mente molto scientifica, nonostante io abbia fatto il classico, e sono sempre convinto che ad azione corrisponda reazione. E non mi viene in mente nessun termine migliore di reazione per definire il ritorno alle barre di Jake. Quindi, qual è l’azione che ha scaturito questa reazione?

Per capirlo forse dovremmo prendere l’esempio di un altro rapper ex Dogo Gang: Marracash. Siamo nel 2015, "King del Rap" è solo un lontano ricordo, non si hanno molte notizie di Marra se non quella che si è fatto le treccine grazie a un post sui social, finché un bel giorno non esce il video di "Real Royal Street Rap".

Le treccine ci sono ancora, ma la cosa che traspare più di tutti è il sorriso a un milione e mezzo di denti sulla faccia di Marra mentre rappa, lui che quasi ci aveva abituati a una condizione di scazzo perpetuo. Alla prima occasione utile, in un’intervista alla radio che vi linkerei ma che non ritrovo, gli chiesi conto di questo gioioso ritorno allo street rap. Lui mi rispose così:

“C’è stata, da una parte, una sorta di maturità per cui a un certo punto ho deciso di imboccare una determinata strada. La mia attitudine di partenza è il rap street, di attaccamento al quartiere, che mi piace fare nonostante non attecchisca nel nostro paese. Lauro, in tutto ciò, ha avuto sicuramente un ruolo. Quando l’ho conosciuto ho rivisto me stesso alla sua età, sia a livello umano che artistico. È anche grazie a lui se ho ritrovato un certo entusiasmo”.

Siamo nel 2019 e se oggi queste parole ora sembrano strane allora erano perfettamente in quadra: negli occhi di tutti Marra era “rinato” (non che fosse mai morto, infatti notare le virgolette) anche grazie ad Achille. E può fare strano che Jake si riveda in Chadia: sono due persone diverse, partendo dal sesso fino ad arrivare a quello che sappiamo della storia personale di entrambi. Ma da quando Chadia e comparsa sotto l’ala protettrice di Big Fish e, per l’appunto, Jake, anche quest’ultimo è tornato felice di spaccare il culo a tutti con le barre e gli incastri. Non che avesse mai smesso, intendiamoci, ma come "Testa o Croce" con Egreen erano più chicche per nostalgici che strofe da mostrare al mondo esterno con orgoglio.

Nell’ultimo annetto, invece, sono comparse cose come la strofa con Nerone, il recente feat in “3G” di Chadia, quello con Mostro in "Non Ti Devo Niente" di DJ Dropsy e, questa notte, "Torcida", il primo singolo del disco di Big Fish, sulla cui base rappano Fibra, Emis, Chadia e ovviamente Jake. Ecco, se non siete fan del Jake danzereccio e festoso (male, perché è solo l’evoluzione del Jake di “Weekend”, contenuta un disco fin troppo sottovalutato ma fatto di sole hit), qui l’autore di "Serpi" vi dimostra cosa cazzo voglia dire scrivere una strofa rap. E lo fa senza urlare, senza extrabeat, senza citazioni ad altri se non a sé stesso. Che bello.

Su ogni barra si potrebbe scrivere un trattato, ma non mi dilungherò. Jake torna con il suo nuovo personaggio da vendicatore del rap fatto con la erre maiuscola: se la prende con questi mezzi g che non hanno mai visto una pistola, così come in "3G" se la prendeva con le scelte stilistiche non proprio in linea con il new era e il look total black a cui ci ha abituati. Ha un po' l’amaro in bocca (“In questo rap game ho più scarpe che amici”) ma anche orgoglio, perché sappiate che lui di questo rap italiano ha scritto l’ABC—barra sua. Se tutto ciò non bastasse, allora, vi propongo solo di piangere sentendo Jake, nel 2019, dire “Mio Dio, sporchi crimini nella mia bio”.

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Cicciolina è una popstar, non solo una pornostar

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“Sanremo, che delusione.”
Cicciolina su Instagram, febbraio 2019

Appena ho visto questo post della Ilona nazionale sul mio feed, le ho dato subito ragione. Voi direte: ma che ne sa una ex pornostar di una roba come Sanremo e compagnia bella? Dovete sapere che Cicciolina non era solo una pornostar, ma anche una pop star a tutti gli effetti. Di Sanremo può parlare eccome: nel 1978, ci ha quasi partecipato in coppia con Franco Franchi, con un brano dal titolo "Cappuccetto Rosso", nel quale i due con maliziosa ironia trasportavano la famosa favola ai giorni nostri (inutile dire che Franco Franchi era il lupo).

Il pezzo era proprio opera del comico palermitano e di Vito Tommaso, già autore per Mia Martini, che poi si buttò a scrivere sigle italiane per mecha giapponesi epocali quali Space Robot e Gackeen, ma l’allora patron del Festival Ravera non se la sentì di far calcare a Cicciolina il palco dell’Ariston. Questo perché all’epoca l’immagine pubblica della Staller, pur non essendo ancora nel campo del porno hardcore, era quella della rivoluzionaria, che ad ogni apparizione suscitava scandalo e sfidava l’Italia inibita, bigotta e ipocrita di quel periodo creando un sacco di casini.

Tralasciando il suo passato, dall'infanzia passata in povertà al titolo di miss Ungheria, modella pubblicitaria e poi spia del suo paese (una storia da 007 che meriterebbe un approfondimento), ci basti pensare che Ilona, prima del tentativo sanremese, partecipò alla trasmissione C’era due volte del geniale Enzo Trapani. Una parodia delle favole, in cui Cicciolina mostrava per la prima volta agli italiani un corpo femminile appena velato in televisione, che fu penalizzata immediatamente dalla censura. Cicciolina era infatti una mina vagante spregiudicatamente anarchica: già quando recitava in film erotici al confine col soft porno, nei primi anni Settanta, osava scene di lesbismo all’epoca sicuramente di un certo peso. Ma più che le scene era proprio la sua naturalezza nell'interpretarle a essere dirompente, una “innocenza del peccato” che non aveva nulla a che fare con la recitazione.

Cicciolina si cimenta col canto in maniera spontanea—anzi, spontaneista, quasi come una Annarella dei CCCP versione pop. Non è digiuna di musica, suona tutti i giorni il violino e la sua voce flautata, dopo aver eccitato un’intera generazione parlando ai suoi cicciolini attraverso la trasmissione radiofonica erotica su Radio Luna, non poteva che meritare maggiore attenzione dai media. Il suo primo disco, Ilona Staller (1979), è una specie di anticamera della italo disco che verrà, un prodotto della serie “sexy sound” come anche i Chrisma prima della svolta punk. Ahimè, molti pezzi geniali come “Bambina cattiva” o altri brani presenti nella trasmissione di Trapani non trovano spazio qua dentro (saranno raccolti solo più tardi nella raccolta dall’ovvio titolo C’era due volte), ma l’estrema popolarità del personaggio le permette di raggiungere ogni angolo del mainstream. Tutti crollano ai piedi di Cicciolina, non c’è politico o autorità che riesca a fermarla, anche i sacerdoti tengono i suoi santini sul comodino.

La sua spalla è Riccardo Schicchi, suo amante segreto e fotografo dall’occhio sopraffino che produrrà il suo debutto musicale e che si lancerà con Ilona nella sfida della pornografia anni Ottanta, dopo aver in qualche modo aiutato a sdoganare un certo concetto di nudo in Italia. A differenza di quello di celebri colleghe come Moana, l'immaginario della Staller non era esattamente accessibile, anzi. I film in cui recita sono quasi tutti allucinanti, al limite con la psichedelia. Roba come Porno Poker non si dimentica facilmente, così come i giochi erotici con il suo pitone Pito Pito o Orgia Nucleare, praticamente un film distopico e semi-pedagogico che, tra le altre cose, mostra la differenza oceanica tra il borghese stupratore e chi pratica il sesso libero (quello che oggi chiameremmo forse poliamore)—tutto questo con lo spettro di un bunker antiatomico alle spalle.

In questo film Cicciolina suona il violino, e non è il solo della sua filmografia in cui la musica è presente. Le sette note erano già una componente fondamentale di alcune pellicole della Cicciolina pre-pronografia: ricordiamo Inhibition di Paolo Poeti, regista che più tardi sarà la cifra estetica del Renato Zero di Zerofobia e Ciao Nì , entrambi opera sua. Per poi passare al film nippo-italiano Dedicato al mar Egeo, in cui compare il famoso brano di Morricone scritto per lei, “Cavallina a cavallo”. Sono inoltre una componente fondamentale nei suoi spettacoli, corredati da canzoni ad hoc che vengono pubblicate in maniera indipendente e vendute durante serate in cui succede il finimondo: forze dell'ordine la prendono di peso, denunce a pioggia, esibizioni pagate profumatamente per essere viste da un solo spettatore.

Insomma, Cicciolina era una persona che spingeva l’acceleratore contro il sistema. In un vecchio numero di Frigidaire, la nostra eroina confessò che “la pornografia non esiste in quanto tale, perché queste immagini non sono altro che la fantasia della gente, anche quelle più hard, più dure.” Date queste premesse, è normale che il suo passo musicale successivo, pubblicato a un paio d'anni dall'inizio della sua carriera come pornoattrice, fosse un disco che andava oltre il concetto di gusto. Sto parlando di Muscolo Rosso, un disco leggendario uscito nel 1988 e solo in Spagna.

Sono in tanti ad aver parlato di questo disco, tra cui anche i colleghi e amici di Orrore a 33 Giri. Ma le analisi esistenti sono volte in senso dispregiativo, come se trattassero un prodotto squisitamente trash, involontariamente comico più che erotico. Ebbene, secondo Italian Folgorati costoro stanno prendendo un granchio. Chi pensa che il comico non possa fare coppia col sesso forse la pensa come Fassbinder, per il quale esso è principalmente privo di gioia e di aspetti ludici, quasi una punizione, ma volendo questo disco può essere anche una penitenza. Muscolo Rosso è avanguardia: è porno pop ma in senso puramente "turbo". Qui si getta il sesso oltre l’ostacolo e si arriva quasi al concetto di Carmelo Bene sul porno come "l’aldilà del desiderio", ma applicato alla canzone. Ci troviamo in un territorio in cui il bello e il brutto non hanno più ragione di essere. Ma ascoltiamolo dettagliatamente.

Il disco inizia con una cover apocalittica di "Russians" di Sting, costruita su una base in alcuni punti persino dissonante, con Ilona che pronuncia il testo in un inglese completamente (e forse volutamente) fuori fase, quasi come inglobata in una Babele di senso—un po' come fa Battiato nelle cover di Fleurs. Ilona aggiunge solo una frase in italiano all'originale: "E adesso anche i russi vogliono / la guerra atomica / anatomica / ma spero che arriverà / l’amore vero per l’umanità". E quando la ripete nella seconda parte, al posto dei russi c'è Reagan. Un'inizio straniante, un messaggio chiaro: "Ragazzi, qua c’è la guerra atomica in arrivo, forse è il caso che pensiate a fare l’amore liberamente invece di giocare ai soldatini". Le performance video di questo pezzo parlano chiaro nel loro disarmante deserto futuribile e il messaggio è uno solo: disarmatevi.

"Inno" è una specie di ballata italodisco orchestrale, un po’ Alphaville, un po’ Sparks moroderiani e un po’ alla Gazebo, completamente midizzata, con dei bassi FM ostinati e cori di plastica. Ilona canta "Un inno alla trasgressione è come un angelo / È come un Ranxerox nel suo Frigidaire / È come un angelo che corre lungo la strada / Mi schizza in faccia e vola via". Solo per questa citazione del mitico turbocoatto di Tamburini dovremmo urlare alla poesia, e infatti lo facciamo. Il brano è un invocazione a seguire le proprie inclinazioni perverse per combattere un mondo in cui ci sono "Radiazioni sui nervi per morire di più / Attentati omicidi per un mondo più scuro più blu". Ancora una volta, nonostante il romanticismo, la liberazione sessuale è la soluzione.

Ma poi ecco il primo capolavoro, una cover di "Satisfaction" per la quale sia i Devo che i Residents possono tornarsene beatamente a casa: ricordate i loro dischi MIDI? Ecco, qui la programmazione è in uno strato superiore di caos, con strumenti che ti arrivano addosso come pietre e percussioni demenzialmente artificiali. La cosa più devastante è però il testo, oramai entrato nella leggenda: "È vietato masturbarsi / Far le seghe, ditalini / E pompini ai bambini / Ai più grandi ai piccini". Qualcosa di estremo, insomma, con una ciliegina finale: “Ye-eh-eh / Cerco un cazzo per me”. Mettiamoci anche i vari urletti di godimento della nostra eroina, una coda di voce maschile con un delay spastico a pronunciare un "Cum, cum Ilona” e un arsenale di strumenti a caso: il risultato è surreale e grottesco, proprio come i dialoghi dei porno.

Si riparte con "Telefono Rosso", una ballata correlata all'omonimo film di Schicchi che è tipo uno specie di cool jazz meets Spandau Ballet, ma completamente stravolto da suoni sfasati e da un andazzo della serie suoniamo quello che ci pare come cazzo ci pare (soprattutto i pad percussivi da spaccare il cervello). “Tu e io tra schizzi di sperma / ci bagniamo insieme / tra le nostre emozioni / lussuria e godere / mi spruzza nel culo il piacere / e non finirà mai”: un testo che è un manifesto e un tentativo di riportare l’Aretino in un campo sintetico-anarcoide. Un brano che potrebbe essere cantato e arrangiato dai Ride e non se ne accorgerebbe nessuno, non fosse per il testo.

"Black Sado" inizia con un pleonastico “maiala” pronunciato da voce maschile con delay, ma anche con un intro incredibilmente HD che pare Croatian Amor in vacanza premio sulla luna, con campionamenti di voci e di gocce di liquido atte ad evocare gli umori sessuali, creando come una delirante caverna porno psichedelica da brividi. Poi parte un basso micidiale e un rullante che è una frusta campionata potentissima, con chitarre midi degne di James Ferraro e sequencer completamente arrotolati a cori campionati stile PC Music. “I guerrieri sado” qui sono omaggiati alla grande: “sotto le nere catene la mia fica morbida”. Un brano che è veramente una hit clamorosa, di cui tra l’altro gira un videoclip originale su XVideos (ovviamente NSFW) che definire vapor ante litteram è un eufemismo.

"Goccioline" attacca con vocette campionate che spennellano il cervello, sembra la nuova wave del medioevo digitale interpretata da Lorella Cuccarini. Xilofoni, contrabbassi e suoni alla dark crystal per un’ode al pissing: “goccioline di pipì sono tutto quello che vorrei” accostate a poetiche libellule e nuvole soffici. "Godere, pisciare e masturbarmi insieme a te": queste parole forti sono accostate a un celestiale pad di cori finti e botte di timpani sintetici. Nella canzone si respira un'aria drogata, sicuramente in preda all'estasi finché le vocette malefiche fanno capolino cambiando l’armonia in un discorso poco rassicurante. Un brano che non lascia sicuramente indifferenti per la sua “palette”.

"Perversion" inizia con un glide stortissimo di synth e una voce vocoderata: è subito delirio robotico sperimentale, in cui Cicciolina recita e grida in ungherese. È una allucinazione come se gli Yazoo si mettessero a fare la roba di Egyptrixxx. È un grandissimo pezzo, completamente insensato, ottima colonna sonora per un amplesso condotto in maniera originale (c’è da dire che ricorda anche alcuni stacchi particolarmente arditi di coevi album di Prince). Non mancano voci maschili che ridono a caso e campioni martellanti quasi industrial, dissonanti, ossessivi, che Trent Reznor potrebbe studiarseli, ma nello stesso tempo quasi new age sotto pasticche. Forse il brano che meglio interpreta il concetto di “pornoavantmusik” per le masse.

Se ti chiedessero di fare l’amore con un cavallo?
Misure permettendo, lo farei. Non ho dei limiti a priori. Non ho l’idea di qualcosa che non si può fare, ma provo tutto quello che mi piace.

Usiamo questo frammento di intervista a Cicciolina da parte di Sparagna per introdurre un altro brano leggendario del disco: “Animal Rock”, che senza mezzi termini allude al sesso con il miglior amico dell’uomo. Ma ascoltando il pezzo si scopre che è soltanto una metafora: l’intro delirante a base di voci pitchate che storpiano “nella vecchia fattoria“ in “nella vecchia fotteria”, a parte incutere più timore che imbarazzo, ci introducono in un ambiente grottesco (Elio e le Storie Tese un anno dopo faranno una cosa chiaramente ispirata a questo con “Nella vecchia azienda agricola”). Un nitrito di cavallo e una serie di campionamenti di cani sono il corredo del concetto del fottere in maniera “automatica”: ”tutta questa notte / come un cane / ti farò sborrare / animale”; “io ti fotterò / il tuo sperma mi berrò”, grandi versi immortali impreziositi da assoli di cani al campionatore e un gran finale di grugnito di maiale. Un brano chiaramente tra il serio e il faceto, e uno dei più “pop” del lotto. D’altronde non diceva anche Tozzi “fatti un po’ prendere in giro / prima di fare l’amore”?

Presentata candidamente alla storica trasmissione Colpo Grosso come una canzone “sovversiva”, "Nirvana" è un brano lirico, con un solo di violino (non è chiaro se sia proprio Cicciolina a suonarlo) e un giro di piano che pare il Calcutta di "Paracetamolo" (altro che Paolo Conte). In realtà il brano non ha un testo tale da potersi dire sovversivo, se non nel significato di libertà assoluta. E tutto sommato è anche una delle tracce più semplici, a parte le voci che sono completamente allucinate nelle loro sovrapposizioni. È una sorta di porno-cantautorato new age che in natura probabilmente non esiste. Ma se è una perversione, allora questo disco è il suo posto.

L’ultimo brano lo conoscono anche i sassi, è il mitico "Muscolo Rosso": “voglio il cazzo / vestito di pelle / il cazzo / più duro del muro / il cazzo / nel buco del culo / il cazzo che mi sfonderà / insieme a me schizzerà / in mio potere sarà”. Manifesto del Cicciolina-pensiero, neanche troppo velatamente femminista (e sappiamo che con le femministe andava a braccetto, incontrandole e sostenendo le loro iniziative), uscì nel 1987 ed ebbe un discreto successo in Francia a causa del fatto che nessuno capiva le parole. Una clamorosa esibizione circola in rete, clamorosa soprattutto per lo straniante uso del playback. La cosa bella è che lo studio televisivo è pieno di vecchie e che il pubblico batte le mani a tempo. Il disco diventò una chicca per collezionisti poiché in Italia fu bannato per il contenuto altamente osceno, arrivando a quotazioni estreme nel mercato di contrabbando. Incredibile ma vero, anche nel collezionismo Cicciolina portò la pornografia, d’altronde non è forse perversione anche quello?

Muscolo Rosso è realizzato e suonato da un fantomatico Jay Horus, stesso pseudonimo che si ritrova nelle colonne sonore dei porno prodotti dalla Diva Futura di Schicchi: in realtà si tratta di Paolo Rustichelli, figlio del grande compositore Carlo. Un jazzista con tendenze progressive (scrisse un album, Opera Prima del 1972, in cui sperimentava abbondantemente con i primi synth) nel cui curriculum ci sono collaborazioni con Santana, Miles Davis e la sensuale Jill Jones, protetta di Prince. Nella sua produzione porno sperimenta un modo di sonorizzare completamente straniante, con un'attitudine free form antitetica a quello che si sentiva prima nei film hard, e questi esperimenti sono riportati pari pari nell’album.

Ancora oggi Muscolo Rosso rimane un esperimento folle, weird, disturbante ma nello stesso tempo pop, un ibrido probabilmente insuperato. Il singolo "Muscolo Rosso" coincide tra l’altro con l’entrata di Cicciolina in parlamento, col partito Radicale (tanto che era addirittura scritto sulla copertina), cosa che amplierà ancora di più questa idea di “metapornografia” sperimentata in ogni campo. Nella sua carriera politica si è battuta per la libertà sessuale dei carcerati, contro la censura e le violenze, per l’educazione sessuale nelle scuole, per la depenalizzazione delle droghe leggere e per tante altre cosucce di stampo libertario per cui probabilmente merita il vitalizio più di tanti altri parlamentari. Anche perché ha fatto quasi tutto, tranne Sanremo. E del resto perché perdere tempo sul palco dell'Ariston quando lo si può occupare praticando l’amore libero? Meditate, cicciolini, meditate.

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Diplo è a Roma e si sta pompando Massimo Pericolo

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Pensate di essere annoiati a letto cercando una motivazione per alzarvi e vi arriva un messaggio che recita "Ohh ma questo Diplo che si pompa Massimo?”. Ancora assonnati, andate a vedere se “Massimo” sia davvero QUEL Massimo.

Ebbene sì, Diplo è a Roma, non so per quale motivo se non per scartare regali di Bulgari, e pertanto ha deciso—in linea con le volontà della Lega—di pomparsi musica italiana. Ha iniziato soft con "Pablo", italiana solo per metà, e poi la sorpresa: davanti a Piazza del Popolo si sente un beat bello distorto e qualcuno che urla "non conosco la lingua dei porci”. È "7 Miliardi", ed è Massimo Pericolo.

Riassumendo: Diplo è a Roma, qualcuno gli ha fatto ascoltare Massimo Pericolo, lui si è preso bene e ha deciso di far prendere bene anche i propri followers. In realtà vista la presenza di un nome come Crookers non è neanche così strano che questa musica sia arrivata a lui, ma quanto sarebbe più romantico se se la fosse pompata il suo autista in un moto di libertà e Diplo avesse preso appunti?

Ora sogno il remix di “Electricity” con Massimo Pericolo che entra sul beat e annienta Dua Lipa. Si può fare? Mi accontento anche di una "Genius" parte 2 con MP nel roster. Se volete conoscere meglio Massimo Pericolo qui trovate la nostra intervista e sappiate che stiamo spendendo così tante parole per darvi una notizia così che scrollare abbia un minimo di senso. In fondo il tutto si poteva riassumere in: “Diplo è a Roma e si sta pompando Massimo Pericolo” che, ehi, è proprio il titolo.

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Siamo stati nel backstage del concerto di Vegas Jones

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"Sul mio zainetto scritto col bianchetto tra quei banchi,
Non ci credevo, Jake lo aveva preso tra le mani,
Ero arrivato a quel concerto sei ore prima degli altri".

Tra le tracce di Gran Turismo, riedizione del suo nuovo album Bellaria, ce n'è una che mi sembra particolarmente importante per capire chi è Vegas Jones. Si chiama "Tocca a me" e contiene le parole che trovate qua sopra: è il ricordo di una di quelle giornate che ogni adolescente in fissa con la musica ha sperimentato almeno una volta. Nel caso di Matteo si era trattato di una trasferta a Legnano per vedere i suoi idoli, i Club Dogo, e per vederli in transenna: "Io sacrifico il mio tempo per voi, e sono fisicamente qua per voi", sembrava dire.

La stessa frase passa oggi nella mente dei ragazzi e delle ragazze che riempiono il marciapiede di via Gaudenzio Fantoli, sotto la tangenziale est di Milano, e lì attendono il suo concerto. Salteranno, canteranno e scruteranno il loro idolo, che salirà sul palco proprio insieme a Jake La Furia. E magari tra dieci anni uno di quei ragazzini farà lo stesso, e si esibirà accanto al suo idolo Vegas Jones. "Il primo è arrivato alle 7 di stamattina", mi dice lui nel camerino del Fabrique. "Ha battuto il mio record, minchia! È una cosa strana, che ci sia gente qua fuori e qua dentro che lavora per far sì che il mio spettacolo sia bello e ben riuscito".

"Sento una responsabilità nei loro confronti", continua. E come si sta preparando al momento in cui metterà piede sul palco? "Canto e basta. Salgo sul palco, spacco per forza e basta. Che cosa posso fare? Non ho particolari ansie, ho solo voglia di suonare. Suonerei tre volte stasera".

vegas jones fabrique milano camerino
vegas jones fabrique milano camerino

Ho incontrato Vegas Jones due volte nella mia vita prima di oggi, entrambe negli ultimi mesi: la prima in un barbiere in Piazza Gae Aulenti per parlare di Bellaria, la seconda al concerto di Eminem a Rho. In entrambi i casi mi aveva dato l'idea di essere una persona sveglia, lucida e soprattutto decisa: un rapper duro e puro, cresciuto con un'idea di rap come valore e condivisione di principi. Oggi ritrovo la stessa persona, ancora intatta e solida nonostante i folgoranti meteoriti della fama abbiano cominciato a cadergli attorno e addosso.

In "1000 Domande" e "Angeli & Demoni", entrambi inediti scritti per Gran Turismo, questo Vegas traspare chiaramente. Nella prima prende i dubbi che la gente insinua sul suo conto e li annulla con la forza dell'espressione, nella seconda racconta: "Potevo vendere l'anima al diavolo per un successo più rapido / E ti giuro che stavo chiudendo l'affare, raggiungere il top in un attimo." Gli chiedo di quest'ultima frase, e Vegas mi dice che racchiude il senso della sua carriera: "Mi faccio sempre i cazzi miei, che non sono aggrappato a nessuno, che se domani il mondo crolla io comunque sono lì con quello che mi sono costruito, ed è la cosa che mi dà più sicurezza e soddisfa di più."

E ancora: "È che ho avuto occasioni in cui avrei potuto accostarmi a qualcuno. Avrei fatto un passo indietro con l'orgoglio ma non l'ho fatto, non sarebbe stata la strada che volevo. Per me tutto questo è una grande sfida: il vendere più o meno di un altro è una conseguenza del lavoro che fai, non l'obiettivo principale. Magari faccio le cose più piano ma le faccio di qualità, gradino per gradino".

giaime rapper milano fabrique
giaime rapper milano fabrique live

Il backstage del concerto di Vegas Jones è una festa di amici e colleghi, più che uno spazio privato in cui isolarsi prima di un bagno di folla. Don Joe e Boston George - il beatmaker dei Dogo che ha creduto nel loro giovane fan e il ragazzo che gli ha dato un'identità sonora - fanno avanti e indietro per uno stretto corridoio. Young Slash e Giaime si preparano a salire sul palco per scaldare il pubblico (e ci riusciranno, creando uno scambio con il pubblico tutto tranne che scontato in un'apertura). Si attende l'arrivo degli ospiti: tra quelli annunciati ci sono Nayt, Emis Killa, Jake La Furia, ma spiando la scaletta si vedono anche i nomi di Madman e Gemitaiz.

"Quando ho conosciuto Emis era uguale a quello che mi immaginavo ascoltando i pezzi, proprio come Jake", mi dice Vegas quando gli chiedo del collega di Vimercate con cui ha registrato "Gucci Benz" e "Claro". "Champagne e Spine, Keta Music... è roba con cui la mia generazione nei blocchi è cresciuta. Tutti conoscono quei dischi di Emis perché era il rapper zarro. Era come noi, e la cosa non tornava. Minchia, era troppo una figata. I testi erano mega real, proprio come lui." Tra i due c'è chimica, insomma, e anche la condivisione di una certa diffidenza da parte del pubblico per l'apertura a collaborazioni al di fuori del rap.

jake la furia emis killa backstage
madman gemitaiz 2018 fabrique milano

"Emis è capitato nel periodo più di merda per quella roba", mi dice Vegas quando gli chiedo di "Parole di Ghiaccio". "A me rompono ancora i coglioni, mi è successo per la collaborazione che ho fatto con i OneRepublic. Io dico: minchia, è una roba che probabilmente a te nella vita non capiterà mai. A me è capitato, e va bene, magari me lo sono guadagnato. Ma è come se io vengo da te, hai fatto la cosa della vita e ti dico che fa schifo. E ti lamenti sono perché non è rap? Qua ce n'è tanta di strada da fare."

Lo stesso gli è successo per "Immortale", con i Måneskin ("gente che è capace a fare musica", li chiama). "La cultura musicale in Italia è difficile, nei giovani bisogna impiantarla bene questa cosa. Servono amore, lavoro e farsi i cazzi propri. Allora andate a dire a Kendrick Lamar che non deve fare il pezzo con gli Imagine Dragons. Cos'è, sei Diplo e fai un canzone con Wiz Khalifa e non va bene?"

boston george concerto vegas jones fabrique milano
don joe concerto fabrique milano

L'eco di queste parole riverbera nel testo di "1000 Domande", in cui Vegas dice di volere "rispetto" per quello che rappa, rivendica il valore degli "argomenti" e conclude il ragionamento portando un esempio che confermi la validità di quello che sta facendo: "Un ragazzo sentendo 'Trankilo' s'è alzato dal letto / Sono riuscito a salvare qualcuno, mentre cerco di salvare me stesso." Gli chiedo di contestualizzare le sue parole e lui comincia a parlare con l'impeto di un fiume:

"È una storia vera, quella. A Monza c'è un istituto, il San Gerardo, dove stanno ragazzi malati di leucemia o in riabilitazione. Mi hanno detto che alcuni di loro erano miei fan, ed erano impossibilitati a muoversi, e se posso aiutare con quello ce faccio...sono robe che magari non si vengono a sapere. Finché non lo dico nel pezzo tu non me lo vieni neanche a chiedere, ma lo dico lo stesso perché è una roba figa. Un ragazzo che era in cura da dodici mesi, dopo che ha sentito 'Trankilo' e io sono andato lì a trovarlo, dopo una settimana è uscito, guarito. Quella roba lì l'ho vista con i miei occhi."

young slash rapper milano
young slash rapper milano

"Trankilo", che Vegas eseguirà con Nitro quella sera causando una reazione devastante all'interno del Fabrique, è un pezzo cardine della sua discografia e un buono spunto per spiegare quanto Vegas è cresciuto negli ultimi mesi. "Parlo solo di soldi perché i miei drammi più grandi / Non ho nemmeno coraggio di raccontarli", rappava. E nella nuova “Frecciarossa”, collaborazione con Nayt, riprende il tema mostrando di essere più a suo agio con quello che gli passa dentro: “Amo la roba che scrivo, nei giorni di dramma divento un poeta / In quelli felici spendo la moneta, in quelli grigi ci fumiamo un deca”. Che cosa è successo?

"Quella frase è vera: tutto il brutto della mia vita non l'ho mai raccontato, ci ho sempre girato intorno. Arriverà un disco in cui probabilmente ce la farò. Però .è difficile, non mi è ancora venuto da farlo. Forse non sono abbastanza maturo", mi spiega Vegas, che però rivendica la maggiore consapevolezza che ho riscontrato nelle sue nuove tracce. "Ho capito come veniva recepita dagli altri la mia musica e ho visto quali sono i pezzi che funzionavano di più, sia a livello di suono che di argomenti. Mi hanno guidato pezzi come 'Trankilo', 'Yankee Candle', 'Aifon', 'Malibu'. Quando ho cominciato a fare rap scrivevo tutto quello che mi succedeva. Poi uno cresce e capisce che ha una responsabilità nei confronti del pubblico, che non sono più solo i ragazzini ma anche le nonne, i quarantenni."

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Vegas continua allargando il discorso: "Sono attento, soprattutto in un periodo molto delicato per il rap italiano in cui le strade sono divise in due: chi vuole farlo per fare i soldi e chi perché lo deve fare. Il mio caso è il secondo, i soldi sono una conseguenza e ti aiutano a crescere. Ma il messaggio che non deve passare ai ragazzini che si approcciano a questa cosa è che tu devi fare musica per comprarti il Rolex o la Mercedes. Sennò escono buffonate che magari funzionano pure, perché l'Italia è un paese predisposto a 'ste cose".

E ancora: "Ma quando mi hanno detto che ho fatto sold out qui ho detto cazzo, ho 400k follower su Instagram e ci sono riuscito con le mie forze quando l'anno scorso facevo i Magazzini Generali e due anni fa non potevo fare neanche cento persone. E quindi davvero la musica è la cosa più importante, e forse la gente capisce perché ho comprato la collana, la macchina o l'orologio. Cose che magari gli altri rapper fanno più di, ma io ci tengo che il significato del gesto non si perda."

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A vedere la loro risposta quando sale sul palco, mi sembra che i fan di Vegas abbiano capito perfettamente chi hanno di fronte. Invece di restare fermi a filmarlo saltano e cantano. Quando gli viene chiesto di gridare per chi c'è sul palco eseguono, e a pieni polmoni, ma griderebbero anche senza essere imboccati. C'è un raro senso di comunanza, di collettività all'interno del Fabrique. Deve essere stato bello per Vegas, che prima di esibirsi mi aveva parlato del valore che un concerto ha per lui: "Un live rap deve essere un live rap, preferisco avere 3000 persone che vengono a cantare i miei pezzi che 10000 persone che vengono a guardarmi perché ho i follower su Instagram."

E ancora: "Io voglio rispetto dalla gente, non voglio fare il buffone. Piuttosto ci metto un po' di tempo in più. Il Fabrique non lo fanno tutti, e l'abbiamo fatto pure bene. Per dirti, la mia compagnia sono venti persone, tutti a dirmi che avrebbero comprato il biglietto... e alla fine ho dovuto fare i magheggi dopo per farglieli avere! Mia madre ne ha comprati tipo sette. Nessuno si aspettava il sold out, insomma. Vorrei che i ragazzi si portassero a cassa emozioni, da stasera. Che non se lo dimentichino più. Voglio che mi vedano stasera come mi hanno immaginato mentre ascoltano i miei dischi. E da parte mia farò di tutto perché sia così."

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Yung Lean ha pubblicato un disco indie folk in segreto

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A un certo punto del 2015, Yung Lean si è ritrovato in un ospedale psichiatrico. Comprensibilmente, lui non ha mai voluto spiegare esattamente cosa fosse successo, ma i fatti sono stati resi noti dalla polizia di Miami. Mentre si trovava in Florida per le registrazioni di Warlord, secondo quanto riporta The Fader, Yung Lean è sprofondato nella dipendenza da un mix di sostanze: xanax, cocaina e marijuana. E, ovviamente, lean. È stato un periodo difficile, di dipendenza quotidiana.

Dopodiché, ovviamente, come sempre accade, le cose hanno iniziato a farsi sempre più bizzarre. In un’intervista del 2016, Yung Lean ha detto a The FADER che aveva iniziato a travestirsi da infermiere. Per qualche motivo, poi, aveva sempre con sé un coltello. Ha scritto un libro sui topi ispirato allo zodiaco cinese. In un momento di massima euforia e di totale scollamento dalla realtà, ha detto al giornalista che aveva anche iniziato a distruggere il suo appartamento, sfasciando i mobili e rompendo i vetri. E così, alla fine, il suo amico Bladee ha chiamato l’ambulanza. Lean è stato portato in ospedale. Aveva a malapena 20 anni.

Parlare di internet e di quanto ci stia uccidendo ormai è demodé, ed è anche diventato noioso, ok, ma a volte, come in questo caso, è molto importante. Yung Lean è arrivato anni prima dell’attuale ondata di Soundcloud rapper con i capelli colorati, ed è stato altrettanto controverso. Nel momento in cui si affaccia sulla scena, Yung Lean è un giovanissimo rapper svedese, un ragazzino, che si ispira alla cultura americana e la reinterpreta a modo suo. Il primo singolo "Ginseng Strip 2002" è inquietante al primo ascolto, ma ha segnato la storia del pop in un certo senso—come quando ascolti Jai Paul, o fka twigs, o Burial per la prima volta; è quel genere di musica che prende riferimenti storici diversi e li trasforma in un suono che sa di futuro. Dal punto di vista della produzione, il team di Lean con Yung Sherman e Yung Gud ha molto in comune con tanti artisti che sono nati da, e che non sarebbero sopravvissuti senza la cultura del blogging di metà anni Duemila. Per esempio l’intera scena cloud rap guidata da Clams Casino (che ha scritto l'archetipo del genere insieme a Lil B), che comprendeva anche il primo A$AP Rocky quando prendeva meno acidi (senti “Purple Swag” o “Peso”). Si tratta di suoni confusi, inebrianti e fluttuanti, quel genere di roba che ascolti quando sei fatto di potenti antidolorifici, lean e roba che ti ralleeeeeentaaaaaa.

Ma a differenza di molti altri, Yung Lean aveva qualcosa di particolarmente intrigante, come se in qualche modo il suo vero talento, ben oltre la novità del “ragazzino bianco dalla Scandinavia che rappa”, dovesse ancora emergere ma fosse lì, pronto a esplodere (e su questo torniamo tra poco). Una volta gli ho chiesto cosa gli piacesse della musica e quale messaggio volesse mandare: “Fanculo il messaggio. Odio quando la gente prova a spiegare la musica. La cosa migliore della musica è il fatto che è invisibile” – cioè, ci rendiamo conto? E questo succedeva nel 2014, all’inizio della carriera di Lean. È lui che ha riportato in voga il bucket hat. Il suo album di debutto Unknown Memory gli ha aperto le porte della fama, ma è stato anche l'inizio di un periodo complicato fatto di morte, dipendenze e lontananze.

Eppure nonostante tutto—la sparatoria che ha colpito il suo tour bus a Pittsburgh nel 2017, la morte del suo manager Barron Machat nel 2015—Lean è andato avanti. Oltre a pubblicare musica con la sua band punk, i Död Mark, ha pubblicato altri due album: Warlord nel 2016 e Stranger nel 2017. “Red Bottom Sky”, singolo estratto da Stranger, ha fatto riemergere un nuovo Yung Lean, ancora triste ma con quel piglio magnetico nella scrittura che l’aveva reso celebre agli inizi; nella penultima traccia, “Agony”, Yung Lean rivela il suo reale stato mentale in modo autentico e pulsante. È un pezzo dall’atmosfera quasi gotica. Canta su note dolci e basse, e dice: “Prendi una pillola e vai a dormire / Rincorro streghe per la strada / Sono l’ultima pagina del tuo libro / non riesco a scrivere una canzone, scrivo solo ritornelli”. Nonostante il suo lavoro precedente sembrasse ironico, ma non lo era, le emozioni oscure e alienanti di Stranger sono reali e ti colpiscono fortissimo.

Nel 2018, il concerto di Yung Lean alla Brixton Academy a Londra è andato sold out. Non so se lo sapete, ma quando suoni alla Brixton Academy vuol dire che sei arrivato, ce l’hai fatta. O almeno ce l’hai fatta agli occhi dell’esclusiva platea che è venuta allo show. Di spalla c'erano un bel po' di artisti, tra cui Yves Tumor, uno degli artisti sperimentali più osannati del momento che ha pubblicato lo scorso anno Safe In The Hands Of Love, meravigliosamente distorto. In molti hanno parlato del concerto come di uno spettacolo pazzesco. Poi a gennaio è arrivato questo: un album solista intitolato Nectar, pubblicato con lo pseudonimo di Jonatan Leandoer127 (il suo nome di battesimo è Jonatan Leandoer Håstad) che suona un po’ alla Bob Dylan.

In realtà, suona come molte cose diverse. Ci sono sonorità alla Lou Reed, poesia beat, Beck e, in “Wooden Girl”, del pop dolce quanto assurdo. Sembra un album degli anni Sessanta, ma anche degli anni Novanta, se la narrazione psichedelica di “Off With Their Heads” potesse mantenere i suoi riferimenti a Orwell ma si liberasse delle parti che parlano di iPhone e social media. In un breve comunicato della label sull’album, Nectar viene descritto come l’album in cui Jonatan “vaga nel panorama sonoro del passato recente della musica contemporanea per ricostruire i propri ricordi frammentari e la propria conoscenza, liberandosi di strati di emozioni ed espressioni lungo il percorso”. E per quanto questa frase sia soltanto un ottimo comunicato stampa, un fondo di verità c’è. Nectar è lontano un secolo da qualsiasi altro album di Yung Lean, viene da un universo e un tempo completamente differenti. In questo disco, Yung assomiglia molto più a Jonatan, la persona vera e propria dietro il personaggio che è diventato famoso prima dei vent’anni.

Una fonte vicina a Lean e alla sua crew dice che l’album sarebbe stato registrato e scritto in una sola settimana. Lean ascoltava qualche accordo e poi ci improvvisava sopra i testi (c’è una traccia che infatti s'intitola “Tangerine Warrior (Freestyle)”) o si lanciava nel momento su pezzi come “Porcelain”, finendo su uno stile beat. Ad ascoltarli oggi, è come se lo spirito di Dylan, quel Dylan che scrisse “Bob Dylan’s 115th Dream” si fosse trasferito nel corpo e nella mente di Lean e del compositore danese Fredrik Valentin che ha scritto con lui le nove tracce di Nectar.

Ma questo non è un disco di Dylan, anzi. È un disco di Jonatan Leandoer Håstad. Suona vagamente come l’album della guarigione, da cosa non si sa, che sia la dipendenza da droghe, le situazioni della vita o la scoperta di sé. Quello che posso dire per certo è che sono stato recentemente in analisi e ho capito che il termine “recupero” non presuppone obbligatoriamente una dipendenza, può anche voler dire risollevarsi da qualsiasi situazione difficile tu abbia incontrato nella tua vita. E il processo può essere lungo; ci vuole accettazione. Quando Jonatan canta “Ho maledetto me stesso / ho fatto un incantesimo alla mia salute” nella traccia di apertura “Razor Love”, si sente una nota di risentimento freddo. Fortunatamente, non c'è solo negatività. Quando dice, non senza rassegnazione e consapevolezza: “Sono felice / sono felice di essere qui” in “Moth”, si sente anche questo. La stessa cosa vale per “Scelsi di fare questo lavoro così potevo fingere” in "Wooden Girl", forse un riferimento agli album precedenti.

Forse Yung Lean era solo un esperimento, forse si trattava solo di un teenager che ha pubblicato della musica che esisterà per sempre online con o senza il suo consenso, o forse è stato reale. In qualunque caso, cercare di capire non ha importanza, la sua musica è qui, è invisibile e non se ne andrà mai. Ma c’è qualcosa in Nectar che suggerisce che Yung Lean stia cercando di liberarsi della sua vecchia immagine per realizzare il proprio vero potenziale. Pensate a come sarebbe stato vedere il vero Bowie che stava dietro i dischi che faceva a 15 anni. Paragonare i due artisti sarebbe assolutamente banale. Il punto è che oggi Jonatan è cresciuto. E io sono proprio curioso di scoprire quale sarà la sua prossima mossa.

La versione originale di questo articolo è uscita su Noisey UK.

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Gianni Bismark, storia di un vero romano

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Una delle ragazze di Universal che lavorano con Gianni Bismark mi dice che è uno degli artisti più gentili con cui ha mai avuto a che fare. Lui le ha appena tenuto la porta aperta e ha insistito perché entrasse prima lei. Siamo in redazione, dove l'ho invitato a parlare con me. L'ho conosciuto solo un paio di settimane prima, a Roma, quando sono sceso a girare un'intervista video a Franco126 (presto fuori su YouTube! Fine pubblicità). Mi ha dato immediatamente l'impressione di un pezzo di pane, ma bello abbrustolito dal fuoco della vita.

La sua carriera è legata strettamente a quella della Dark Polo Gang: amico di lunga data di Tony, scoperto da Sick Luke—come mi racconterà nel dettaglio durante la nostra conversazione—Gianni è comparso su "Latte di suocera" nel 2016 e ha ospitato sui suoi brani le parole di Tony, Wayne e Pyrex. La terra da cui sono cresciuti è la stessa, la grande madre che è Roma, ma sono piante molto diverse: la DPG è il risultato di un seme extraterrestre, Gianni una saggia quercia scheggiata.

Il suo è un rap fatto di valori antichi, tradizionalisti e maschi: "Mi dispiace ma stasera me gioca la Roma / Senza cattiveria ma lo sai come funziona / L'amicizia, la mia squadra, poi c'è la mia donna", rappa in "Ci vedo lungo". Grezzo come la vita che ha avuto e gli amici che lo hanno accompagnato, quelli che onora a ogni occasione possibile nelle sue barre e in cui trova conforto. Si percepisce un bisogno di fratellanza nelle sue parole, così forte che quando canta un amico morto si crea un cortocircuito tra la genuina commozione che trafigge le sue parole e i particolari brutali, violenti e sbagliati che dettaglia nel testo.

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Gianni Bismark a casa di Drone126, immagine tratta da Noisey Meets Franco126.

"Da bambino stavo a San Giovanni, davanti a via Sannio", mi racconta Gianni quando gli chiedo di parlarmi della sua infanzia. "Vivevo in una cantinetta con le finestre sulla strada che mio padre aveva fatto diventare una casa". Il primo ricordo che gli viene in mente, e mi butta addosso con un entusiasmo contagioso, è l'apparizione di Francesco Totti: "Er capitano veniva sempre lì ar grattacheccaro, mi citofonavano e io scendevo in mutande e ciabatte pe' famme fà la firma. Ero piccolo, avrò avuto sei anni".

Il piccolo Gianni, che in realtà si chiama Tiziano, cresce con il pallone nel cuore - concepito, anch'esso, come ferreo sistema di valori e comunanza più che come un gioco. "Ancora me ricordo, per metteme in punizione mio padre 'n me portava allo stadio", dice nelle parole che chiudono il suo primo vero album, che si chiama Re Senza Corona. Gli chiedo di andare più nel dettaglio: "Mia madre andava a parlare con i professori e porella, è una persona tanto carina... 'Te sei la madre de Menghi? 'N ce credo!', le dicevano. Tornava a casa tutta abbacchiata, perché le dicevano de tutto." E quando la scuola andava male, all'Olimpico il padre portava solo il fratello: "Mio padre mi ha insegnato a vivere, quando sbagli hai da pagà".

Dopo qualche anno, la famiglia di Gianni abbandona la cantinetta e si trasferisce a Tor Marancia. Suo padre, che l'aveva fatta diventare una casa a tutti gli effetti ("per mettere le chiavi avevo la bocca della verità, spietata come cosa!"), la vende e con i ricavi compra casa in periferia. Sarà lì che Gianni continuerà a formarsi, esplorando le strade della Garbatella e scontrandosi con l'autorità sotto forma dei professori.

"Le mie medie sono durate sei anni, calcola che mi hanno bocciato in prima. Ma te rendi conto? Pensa che danno che ero! Nun me puoi boccià in prima media! Poi mi hanno bocciato due volte al secondo. Mi hanno mandato via da scuola. Un macello. Certe sospensioni che a casa c'era da ride." Gianni, insomma, non è uno studente modello. Ma se ripensa a quel periodo, dice, rifarebbe tutto: "Dai danni alle cose fatte bene. È quello che ti segna, in fondo."

Gianni descrive la Garbatella come un paese dove "le signore lasciano la porta aperta" e "tutti si salutano", un concentrato di pura romanità. È lì, per strada, che fa l'incontro che gli cambierà la vita: "Ci stava Sick Luke che girava per la zona mia. Quando l'ho visto l'ho fermato e gli ho detto che mi piacevano un botto le sue basi. Io sto in fissa per i beat, mi sono appassionato al rap per DJ Premier, e lui faceva 'ste melodie... e a un certo punto pure lui, e il padre, mi chiedono perché non inizio a cantare."

Gianni non aveva mai davvero scritto in vita sua: "Ai temi, a scuola, andavo proprio male. Infatti non l'avrei mai detto. Non ho mai avuto un professore che mi abbia davvero capito." Ad accendergli dentro una scintilla è la presa di coscienza di una mancanza, che esprime nel testo di "Lucifero: “Me so messo a scrive i testi / Solo perché il rap italiano de nascosto me li ha richiesti”. "Era il periodo che tutti iniziavano a dire stronzate sul beat e quindi mi sono un po' risentito", mi spiega, "Io sono cresciuto col Chicoria, Gente De Borgata, Matt Er Negretto. Gente che aveva dei valori e diceva cose originali. Io ho iniziato a rappare perché non sentivo più quella cosa ruvida, di strada, e mi sono detto 'mò lo faccio io'".

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Gianni Bismark, fotografia tratta da Noisey Meets Franco126.

Prima del rap, Gianni passava le giornate a "fare cose": "Da regazzino, vennevo er fumo pe n'paro de squalo", esordisce in "Mentre invecchio", uno dei pezzi più emotivi della sua produzione, raccolta di istantanee di una vita di strada, tra "imbruttite", "scazzottate tra quartieri" e un padre che, se tornava "gonfio" a casa, gli "dava er resto" per farlo crescere. "Ero un gran fijo de na mignotta", mi dice, "Me sentivo più sveglio degli altri. Magari vedevo mio fratello più grande che faceva certe cose e io le facevo tre anni più piccolo". A cambiare la sua vita, e la sua personalità, è stato proprio il rap: "Perché invece di sfogarmi sugli altri non mi sfogo su un paio di note?"

In “Pensieri", pubblicata nel 2015 nel suo mixtape d'esordio, Gianni cantava “Scrivo da poco / Ma bello io col rap nun ce gioco”. Gli chiedo quanto fosse quel "poco" e ci rimango un po' quando mi dice che aveva davvero cominciato a mettere insieme parole dieci giorni prima di registrare quelle di cui gli chiedo conto. "Io mi vergognavo. Prendevo in giro chi faceva rap, anche i miei amici, perché facevi rap criminale anche se non lo eri. Poi invece un giorno mi sono imboccato da Luke con due o tre canzoni registrate sul telefono e lui c'è andato in fissa."

Da lì in poi la musica di Gianni e la sua persona sono cresciute assieme, di pari passo: "A calmarmi è stato il rap. Mi ha dato proprio una mano, mi ha tirato su." Di pezzo in pezzo costruisce un immaginario di pura romanità i cui mattoni sono la Maggica ("Adesso cor destino nelle mie mani / Non posso sbagliare / Come er rigore de Ciccio Graziani"), le scorribande con gli amici ("La prima cosa che ho fatto insieme alla mia squadra / È rubarmi un frietto") e il senso di comunanza ("La tua mano non la voglio, la fiducia è ciò de cui ho bisogno"). "All'inizio pensavo che la romanità potesse dare un effetto macchietta", mi dice. "Avevo cominciato a cantare in italiano, a pensare di fare cose un po' per tutti. Ma poi mi sono chiesto, perché cambiare? Io sono arrivato qua per quello che sono, non perché sono uno dei tanti".

Prima di salutarci, chiedo a Gianni come la sua famiglia ha reagito alla sua crescita personale e artistica, all'arrivo di un contratto con una major. "Io non sono uno che parla molto, nemmeno coi miei, mi sfogo più sulla musica. Con mia madre e mio padre ce la siamo sempre vissuta così, per me sono come fratelli. Magari imboccavo a casa con le mani rotte, mio padre rosicava, non gli dicevo niente. Ma da quando feci una canzone su Totti già mio padre aveva capito. Quando gli ho detto che andavo da Universal a firmà mi ha detto 'Ma Universal chi? Quella d'ii firm?'"

Bè, no, quella è un'altra. Ma non meno importante.

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Sembra che la RAI non voglia Sfera Ebbasta come giudice di The Voice

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È del 14 febbraio la notizia che la nuova edizione di The Voice, talent show prodotto dalla RAI, avrebbe avuto un parco giudici quasi interamente legato alla scena hip-hop italiana e, nello specifico, a BHMG. I nomi che erano stati fatti erano infatti quelli di Guè Pequeno, Elettra Lamborghini, Sfera Ebbasta e Morgan.

Ora però, come riporta Repubblica, sembra che l'amministratore delegato della RAI abbia posto un veto sulla figura di Sfera. I motivi sarebbero due: la gestione della comunicazione da parte di Sfera dopo la tragedia di Corinaldo e i testi delle sue canzoni, ritenuti poco adatti per un programma RAI. Come scrive Rolling Stone in questo momento sarebbe in atto un "braccio di ferro" tra i vertici del servizio pubblico e Simona Ventura e Carlo Freccero, direttore di Rai2, entrambi a favore della presenza di Sfera.

Partendo dal presupposto che i testi di Sfera, Guè ed Elettra condividono spesso temi, immaginario e vocabolario - e che sono assolutamente in linea con il linguaggio hip-hop contemporaneo, che pervade internet e la società - ci sembra piuttosto pretestuoso basarsi sulle parole del rapper di Cinisello per giustificare una sua eventuale esclusione dal programma. Inoltre, la tragedia di Corinaldo è stata così assurda, inaspettata e caricata arbitrariamente di significati che è un peccato che venga utilizzata nel dibattito pubblico per giustificare o meno la presenza di un artista a un programma televisivo.

Vi terremo aggiornati sugli sviluppi della situazione.


Sono stata al concerto dei Subsonica con Gabry Ponte

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Il team di Concertini è tornato dopo un periodo di riflessione durante il quale i suoi membri, ovvero chi scrive e il misterioso fotografo Kevin Spicy, hanno valutato forme alternative di sostentamento. Ma dato che l’ultimo Festival di Sanremo mi ha ricordato che in quanto giornalista faccio parte di un’élite radical chic talmente accecata dalla brama di Moleskine e biglietti per i concerti di Bon Iver da non riconoscere in Cristicchi il nuovo San Francesco, ho deciso che questa rubrica doveva tornare a splendere. Non grazie a me, sia chiaro, ma grazie al mio ospite: Gabry Ponte, re dell’italodance, colui che ha incastonato nella storia della musica di casa nostra dei pezzi generazionali come “Geordie”, “Figli di Pitagora” e, ancora prima con gli Eiffel 65, “Blue”.

Oggi Ponte è un artista voracissimo di musica, che si prende bene per gente come Mèsa e Venerus e che liquida la faccenda “quote tricolore” in radio proposta dalla Lega dicendo che “è facile dirlo adesso, in un momento così florido. Lo avessero tirato fuori sei-sette anni fa gli sarebbe toccato più o meno solo Il pulcino Pio”. È di questo che parliamo mentre ci avviamo a essere testimoni della prima data del tour dei Subsonica, torinesi come il mio ospite. È da lì, dalla band che nel 1997 ha portato un suono suo sulla scena, descritto benissimo su questo sito come “alt-rock all'italiana con improvvise ritmiche derivate dalle sottoculture elettroniche underground inglesi, lente sezioni narcotiche, pizzichi di dub e chitarrine in levare” che parto a chiacchierare con Gabry, finendo, però, a ragionare su cose diversissime: dall’importanza della gestione del successo, alle recenti polemiche su Sanremo, passando per la sua collaborazione con Pop X, fino a una certa shitstorm che gli si è riversata addosso ai tempi di Amici.

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Gabry Ponte e l'autrice (foto di Kevin Spicy)

Noisey: Partiamo dai Subsonica: è la prima volta che li vedi dal vivo?
Gabry Ponte: Sì, è la prima volta, nonostante tra di noi ci sia un legame geografico, essendo tutti di Torino, e “temporale”, avendo iniziato a fare musica più o meno nello stesso periodo. Li conosco artisticamente e personalmente, ma non come performer, quindi sono molto curioso.

Che pensiero hai sul loro ultimo disco, 8?
L’ho ascoltato due volte, una quando era uscito e una qualche giorno fa, per arrivare preparato stasera. Credo che sia da un lato volutamente vicino alle loro sonorità originarie, ma dall’altro anche aperto alla ricerca di cose nuove. Non sono un profondo conoscitore della loro musica, conosco per lo più i singoli, ma ho apprezzato tanto i lavori da solisti sia di Boosta che di Samuel. C’è un pezzo nel disco di Samuel, “La luna piena”, che è di una bellezza disarmate. Non so come abbia fatto a non diventare un tormentone.

Succede che pezzi eclatanti non emergano mai: a te è capitato?
Oggi penso che succeda molto di più, perché di musica ce n’è tantissima e lo spazio, nel mondo diciamo “mainstream”, è limitato, quindi sempre di più mi accade di scoprire musica bella che rimane nel sottobosco.

Chi ha già visto lo show dei Subsonica ha parlato di un pubblico decisamente adulto, diciamo dai trenta in su: è anche il tuo, o ti seguono pure i giovanissimi?
Ci riflettevo l’anno scorso, quando dai club, popolati da giovani, sono passato a fare serate anche nelle piazze, o in location più grosse, come i palazzetti, dove le dinamiche sono diverse, come, banalmente, l’orario anticipato di inizio rispetto a una discoteca. Ecco, lì vedo che a sentirmi ci sono tre generazioni: quelli che mi ascoltavano con “Blue” (di cui quest’anno festeggiamo il ventennale) che portano i figli che mi conoscono per “Che ne sanno i Duemila”, e quelli in mezzo. Molto figo come mix, mi piace un sacco.

GABRY PONTE
Gabry Ponte e l'autrice (foto di Kevin Spicy)

Mi capita ogni tanto di mettere i dischi nei locali, e spesso dei giovanissimi mi chiedono, per dire, Sfera e poi "Geordie": che effetto ti fa essere un riferimento così importante anche per gli adolescenti?
Ringrazio ogni giorno San YouTube! Io sono del ’73, quindi sono cresciuto senza Internet, il mio primo Mp3 l’ho visto a 27 anni, prima di quello la musica che io potevo conoscere era quella che potevo comprare nei negozi di dischi o che mio padre mi faceva ascoltare ed era per forza di cose limitata. Ma tornando ai ragazzi, mi fa letteralmente venire la pelle d’oca vederli che cantano canzoni uscite quando loro non erano nati. Per me è una cosa pazzesca, gigantesca, mi rende genuinamente felice.

Che qualità servono, a tuo parere, per rimanere sull’onda, quando tutto cambia così tanto?
Ah, una dote incredibile, si chiama culo.

Dai.
No, allora, sicuramente una caratteristiche che ho e che credo sia vitale è la curiosità. Ho sempre voglia di ascoltare musica nuova e questo probabilmente fa sì che, anche in modo inconscio, io assimili qualcosa che non appartiene al mio background e che, invece, mi avvicina alla nuove tendenze.

Quello che hai fatto con Pop X, per esempio, è indice di grande desiderio di sperimentare.Com’è andata tra di voi?
Come ho già detto, io ascolto quintali di musica, specie la mattina quando vado in palestra e vado a correre [Gabry Ponte, apro e chiudo parentesi, è più in forma del 99% delle persone che conosco, ed è uno straight edge vero, no fumo, no alcol, che crolla solo di fronte ai dessert, nda] e metto Spotify o YouTube per scoprire artisti che mi possano piacere e che poi mi vado a sentire per bene. Mi è, così, capitato di ascoltare “Cattolica” di Pop X, che subito mi ha lasciato stranito e perplesso, ma che al contempo mi ha fatto venire voglia di riascoltarlo. E poi ancora e ancora, tanto che poco dopo mi stavo sparando tutto il suo repertorio.

Sono andato in fissa per un mese e mi sono detto che volevo provare a collaborarci, per cui mi sono presentato a un loro concerto, per conoscere Davide e i suoi amici e per proporgli, oltre al remix di "Cattolica", di fare una cosa del tutto nuova insieme. Qualche giorno dopo Davide è venuto nel mio studio a Torino e mi fa “io ho quest’idea da un po’, hai una tastiera?”, gliel'ho data, ha suonato, poi mi ha chiesto un microfono e ci ha cantato su la top line mentre io registravo e poi ha preso ed è scappato. In tutto sarà rimasto 15 minuti, nei quali mi ha lasciato quella che poi è diventata “Tanja”. Che, pur essendo qualcosa fuori da ogni regola di mercato, ci piaceva da impazzire.

Ha anche un video fighissimo, avete lavorato insieme anche a quello?
No, al video ho lavorato io dando degli spunti a Francesco Fracchioni, che lo ha realizzato. Mi sono ispirato tantissimo alle cose di questo artista russo che si chiama Little Big, uno che sta davvero spaccando, un altro matto vero. Comunque ho sempre seguito anche la parte video, mi piace e la trovo quasi parimenti importante rispetto alla musica.

Dicevi che di primo acchito Pop X è stato quasi respingente per te, ma che poi hai avuto voglia di approfondire: anche questa è una dote non di tutti.
Perché tutto ciò che è fuori dagli schemi, l’essere umano tende a respingerlo, per stare nella sua comfort zone. Pensa alla trap: molti nemmeno provano ad ascoltarla, catalogando un intero genere musicale come spazzatura, mentre, come in tutti i generi, ci sono le cose wow e le cose mediocri. Io ascolto molta trap, magari mi stufano un po’ i testi eccessivamente monotematici, ma non si può dire che “Cupido” di Sfera non sia un pezzo bellissimo. “Mmh ha ha ha” di Young Signorino è anch’esso un pezzo originale e molto efficace. Quindi, nella trap, che oggi è un movimento fortissimo, ci sono artisti molto forti che sanno distinguersi e altri che vivono di luce riflessa ma che sono destinati a sfumare.

Credi che quello di Young Signorino sia un esempio di cattiva gestione del successo?
Credo sia presto per dirlo. Se ti dovessi descrivere YS in un aggettivo ti direi "antesignano", e quindi vedremo che cosa succederà. Certo, se a quell’età ti ritrovi così tanta visibilità e attenzione, il rischio che la cosa ti esploda in mano è alto.

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Gabry Ponte e l'autrice (foto di Kevin Spicy)

Anche voi Eiffel 65 siete esplosi, livello mondiale, che eravate molto giovani: com’è stato dover gestire quella situazione?
Io ero fortunato, perché avevo di fianco una persona che sapeva tenermi coi piedi per terra, ed è cruciale perché onestamente un po’ ti parte la brocca. Hai 25 anni, ti trattano da rockstar, vai in giro per il mondo, suoni con Bon Jovi e le Destiny’s Child, mentre il mese prima eravamo in uno scantinato, beh è ovvio che inizi a perdere il contatto con la realtà. Il nostro produttore, Massimo Gabutti, aveva come priorità assoluta tenerci tranquilli, lucidi, normalizzando il più possibile quello che ci stava succedendo. Poi ci sono anche persone che per come sono fatte non sanno reggere a quel tipo di pressione: penso ad Avicii, tu hai visto il documentario?

Sì, ti volevo proprio chiedere di questo.
Io l’ho visto dopo la sua morte, ed ero distrutto. In più, facendo questo lavoro, so che tutti i meccanismi di cui parla e che l’hanno triturato sono reali e in parte, nel mio piccolo, li ho vissuti anch’io. Capisco perfettamente che una persona fragile ci possa rimanere sotto, specie se, appunto, non “protetta” da chi gli sta intorno. Mi ha fatto una tenerezza enorme vedere quanto ha sofferto per una cosa che in teoria doveva essere meravigliosa.

Ti è capitato di vivere quella l’ansia da palcoscenico oppure il down che colpisce quando si sta fermi per un po’?
No, questo no, perché io sono molto regolare, suono tutte le settimane e non lo faccio solamente per il rapporto con i fan o per una questione economica ma anche: io durante i live provo. Provo cose nuove, che magari in studio funzionano, ma devo capire se lo fanno anche in pista, se la muovono o la inchiodano. Da lì nascono i dischi. “Che ne sanno i Duemila”, per dire, è stata una base strumentale che ho suonato 4 anni in discoteca e che vedevo che su quel drop faceva saltare i ragazzi come molle.

Quindi in ogni tuo show c’è un margine di sperimentazione?
Molto alto, sì. E più o meno ogni fine settimana abbandono un progetto e ne porto avanti un altro.

Abbandoni quando capisci che è uno svuota-pista?
Più o meno, perché in realtà anche “Blue” è stato uno svuota-pista. Pensa che quando avevamo finito "Blue", abbiamo deciso di provare il pezzo in un locale in provincia di Torino, chiamando tutti i nostri amici. Ho iniziato a suonare, andava tutto bene, poi ho messo "Blue" ed è stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita: spariti tutti.

In questo preciso momento, invece, intorno a cosa stai sperimentando?
Ho un bel po’ di bombe pronte per lo show del 2 marzo al Fabrique, e in una è coinvolta MYSS KETA che credo conosciate piuttosto bene.

L’anno prossimo tu e MYSS a Sanremo, che dici?
Guarda che se vanno avanti così è anche possibile. Quest’anno il Festival mi è piaciuto davvero tanto, una fotografia perfetta del panorama musicale, senza paura di rischiare, senza pregiudizi, con la voglia di essere super in linea con la contemporaneità. Il vincitore è vincitore meritato, al netto delle polemiche, e Baglioni, dopo un primo anno di warm up, ha sperimentato di brutto.

Che ricordi hai, invece, del Sanremo degli Eiffel 65?
Le gambe che tremano. E io non facevo un cazzo, eh, schiacciavo i pulsantini, mi immagino per un cantante che cosa deve essere.

[Interviene il manager di Gabry: "Non è vero, hai suonato il piano".]
Ah già, lì ero in paranoia secca. Perché non mi sento chissà che musicista, ma per regolamento dovevamo fare il pezzo in versione acustica, e un pezzo come il nostro acustico era assurdo. Ero super teso e la cosa strana è che noi in quegli anni lì venivamo dal tour in America. Avevamo inanellato una serie di cose davvero gigantesche, specie per un gruppo italiano, ma quando raccontavo a mio padre, che so, di un live nello stadio dei Dodgers, mi cagava sì e no; quando invece gli ho detto di Sanremo, a momenti si mette a piangere. Tutto quel che si dice sul fatto che è un palco a sé, insomma, è vero.

Con Sanremo siete passati all’italiano, com’è avvenuto quel passaggio?
Grazie al fatto che sono un tamarro. Prima del progetto con gli Eiffel facevo una serata al Naxos di Torino dove facevamo solo musica italiana ed era una serata dove la gente si divertiva un casino, e tutti cantavano tutto, dalle robe anni Sessanta a quelle di allora come Nek, i Gemelli Diversi, eccetera. C’era un’atmosfera bellissima che mi sono cullato dentro. Così, dopo il tour in America, ho iniziato a fare delle cose mie, come "Geordie", e ho visto che funzionava un sacco e che era un po’ quello che la gente voleva.

Perché, credi?
Perché abbiamo una tradizione musicale pazzesca, e vedo che i ragazzi sono legati profondamente ad essa. Se metti “Sere Nere” remixata, impazziscono. Così come con i Ricchi e Poveri.

Ma che effetto ti fa sapere che molti ragazzi possano pensare che "Geordie" è tua e non di De André?
In realtà non è nemmeno di De André, è ben più antica, è una ballata celtica che in originale è, ovviamente, in inglese. Io, certo, l’ho conosciuta con De André, perché mio padre me lo faceva sentire sempre, sono davvero cresciuto con tutti i suoi album e li amo immensamente. Comunque, per tornare alla domanda, come tutte le cover di successo, è normale associare il pezzo all’artista che te lo ha fatto conoscere, e in questo caso è un peccato non che non sappiamo che "Geordie" è di De André, ma che i giovani non conoscano De André.

Quindi la musica delle tue radici sono i cantautori?
Sì, su tutti Fabrizio De André ed Edoardo Bennato, con cui ho fatto un disco che uscirà tra pochissimo e che è un autentico life goal, perché di Bennato sapevo tutto a memoria. Poi Renzo Arbore, Celentano. Quando ho avuto un minimo di potere decisionale, ho iniziato ad ascoltare la musica elettronica, in particolare la dance, che iniziava a passare su Radio Deejay, tipo Depeche Mode, Kraftwerk, poi Mororder e la house dei club di Chicago. Mi sono appassionato a questo mondo, e alla fine, credo, i due mondi si sono incontrati e mischiati.

Senti, prima, a registratore spento, mi parlavi di quanto ti sta a cuore la corretta gestione dei locali, a livello di rispetto delle norme di sicurezza. Qual è il tuo pensiero su quanto accaduto al concerto di Sfera Ebbasta a Corinaldo?
Io un pensiero ben chiaro ce lo avevo ben prima di quella tragedia. Avevo anche scritto diverse lettere alle autorità, per dire che per cortesia si facesse qualcosa per arrestare il fenomeno degli spray al peperoncino. Purtroppo m’è successo diverse volte di dover fermare una serata perché qualcuno aveva spruzzato, la gente si sentiva male, scattava il panico e tutti si riversavano fuori. Avevo preso una posizione netta, perché non mi sembrava normale che queste armi bianche potessero esser vendute nei supermercati senza un minimo di controllo. Purtroppo però non s’è mai riuscito a smuovere niente, perché, si sa, in Italia le cose diventano serie solo dopo le tragedie. E quello che è successo al concerto di Sfera mi ha fatto salire una rabbia folle.

Nessuno ti ha mai risposto?
Qualche gestore di locale sì, però il problema successivo era: “e noi che cosa possiamo fare?”. Sai, se a te trovano lo spray, non credo te lo possano sequestrare, perché se poi ti accade qualcosa, ti aggrediscono, la responsabilità è loro. Quindi la faccenda è complessa. Certo una cosa su cui non si può più chiedere un occhio è la capienza di un posto, che va rispettata, e chi non lo fa deve essere sanzionato, senza pietà.

Ha avuto senso, secondo te, parlare di responsabilità di Sfera in quanto accaduto?
Sfera non ha alcuna responsabilità di nessun tipo. Hanno detto che veicola messaggi sbagliati, così come lo hanno detto di Achille Lauro a Sanremo, e io la penso, in questo, come Morgan: sti benpensanti borghesi hanno rotto il cazzo. Oggi parliamo della trap, e santifichiamo De André, che nella versione non censurata di "La canzone di Marinella", diceva cose crudissime, super esplicite. Io ascoltavo i Doors, i Rolling Stones, i Beatles che parlavano di droga, e non mi sono mai drogato. Troppo facile prendersela con l’artista nuovo di turno, capro espiatorio perfetto, perché così esposto. Io detesto queste gogne mediatiche, forse perché m’è capitato di finirci dentro.

Quando è successo?
Quando avevo appena fatto Amici, e stavo vivendo un momento di grande visibilità. Un ragazzino che aveva un blog goliardico ha pubblicato una mia foto, scattata a una serata tempo addietro dal mio fotografo, che nell’originale mi mostrava con il braccio sinistro alzato rivolto alla gente. Lui ha preso lo scatto, lo ha girato con Photoshop e ha scritto un pezzo dicendo “Gabry Ponte a un concerto fa il saluto romano, suona un remix di 'Faccetta nera' e scatta una rissa in pista”. Tutto inventato di sana pianta: nessuna di quelle cose era mai successa. Io ho letto l’articolo, mi sono fatto una risata e ho chiuso il computer. Il giorno dopo un giornale on line ha ribattuto la notizia senza nessuna verifica, e così è partito l’effetto domino con 50 articoli che mi davano del fascista. Non sapevo più cosa fare, anche perché la gente veniva a insultarmi sui social. Una cosa violentissima.

Ci aveva raccontato una cosa simile anche Dolcenera. E tu che hai fatto?
Nulla, sono stato zitto aspettando che passasse. Perché qualunque cosa dici è peggio, perché sembra che ti devi giustificare e via dicendo. Quindi è meglio, ho imparato da quella triste vicenda, lasciare che la cosa scemi. E infatti nessuno ne parla più.

subsonica

A questo punto, il fatto che avessimo iniziato l’intervista con la luce e che ormai fosse buio sui Navigli milanesi ci ha suggerito che fosse ora di abbandonare lo studio di registrazione di Casa Etna, dal quale avrei volentieri trafugato praticamente tutto perché era bellissimo, e dirigerci verso il Forum di Assago. Anche perché voci di corridoio ci avevano rivelato che lo show sarebbe durato due ore e mezza. E infatti. Samuel, Boosta, Ninja (clamoroso, come sempre), Max Casacci e Vicio se li sono, però, palleggiati bene, quegli oltre 120 minuti di live, pensato quasi come un fiume unico di suono, a tratti quasi claustrofobico (come quando hanno praticamente sparato una via l’altra "Discolabirinto", "Up Patriots To Arms" di Battiato e "Nuova Ossessione", o ancora quando hanno fatto un mash-up di "Punto Critico", "Liberi Tutti", "Perfezione"), cosa che ha reso i momenti soft più godibili del previsto.

subsonica live milano

Da spettatrice, quello che mi è sempre mancato nei live dei Subsonica è un filo di ironia o giocosità in più, mentre anche stavolta li ho trovati molto legati all’impeccabilità della performance. Vi ricordate quando in una puntata di Concertini abbiamo raccontato degli MGMT che hanno mixato “Kids” con “Never Ending Story?” Ecco, forse al posto della lunga citazione di “Boys Don’t Cry” dei Cure, i Subsonica, dopo 20 anni di carriera, avrebbero potuto colpirci al cuore coverizzando, butto lì, "Sorry" di Justin Bieber, in un gesto auto dissacrante che i tanti successi e gli anni sui palchi gli avrebbero tranquillamente permesso di compiere. Quel che m’è parso, al netto di vagheggiamenti tutti miei sulla scaletta dei Subsonica, è che quello di lunedì al Forum di Milano fosse il pubblico che li segue da “Microchip Emozionale”, o addirittura dal disco omonimo precedente. Come ho detto a Gabry, la reazione dei tantissimi presenti, in ogni settore, alle vecchie hit e ai nuovi brani è stato parecchio differente, in favore dei primi.

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Prima di lasciarvi con la recensione di Gabry Ponte al live dei Subsonica, faccio una menzione d’onore alla scenografia, perché l'unica cosa che ha superato la bravura dei cinque di Torino, che suonano come dei draghi, è stato l'incredibile set: un carosello di schermi LED appesi al soffitto sempre in movimento grazie a carrucole motorizzate, mentre il palco era fatto di moduli in grado di spostarsi avanti e indietro, indipendentemente l’uno dall’altro, e in grado di cambiare così la geometria della scena. Tanta roba davvero.

Ecco il commento finale di Gabry Ponte allo show dei Subsonica: “Le hit e i pezzi dell’ultimo album si sono susseguiti tenendo sempre la tensione alta e con un’energia fortissima. La scenografia ha creato un contorno suggestivo, molto efficace. Ho visto un concerto degno di una band internazionale, che tiene alto il nome della musica italiana”.

Carlotta è giornalista freelance e DJ. Seguila su Instagram.

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Drone126 è il cuore della Love Gang

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Ogni tanto ci penso, a questa cosa della Love Gang. Perché è un fenomeno davvero assurdo in questa scena italiana. Si potrebbe quasi giocare a paragonare la crew di Trastevere al cast di Trainspotting. Franco, è Mark Renton, il ragazzo fragile che cerca l'amore e si perde nella noia, ma capace di una tagliente (auto)ironia; Ketama invece è Spud, lanciato a tutta velocità verso l'autodistruzione; Pretty Solero è Sick Boy, per cui ogni momento passato senza compagnia femminile è un momento sprecato. Manca (per fortuna) il Frank Begbie del gruppo, ma si sa che le metafore sono una cosa imperfetta: non volevo forzare Ugo Borghetti o Asp nel ruolo dello stronzo violento solo per infiocchettare bene questo paragrafo. Non me ne volete. Ma se Roma è la loro Edimburgo e piazza San Calisto la loro Leith Walk, Drone questo libro lo ha scritto.

Cuore Sangue Sentimento è il primo album di Drone126 ed esce oggi per Asian Fake. Contiene undici pezzi che riescono ad abbracciare molte delle sfaccettature della gang dello scalone, fotografando in maniera finalmente definitiva la loro poetica. Una poetica fatta di strada e di noia, ma anche di valori: "L'amore m'ha imparato a non chiamare le donne cagne / Il tempo a rispettare davvero mio padre / E mio padre che chi ruba è un infame / E gli infami che in questo mondo di merda la lealtà è un diamante" rappa Asp126 in "Caffè Illy". Poche tracce più su, Ketama faceva la danza dei soldi, mentre Ugo Borghetti affogava la sua solitudine in una spirale di alcol e droga.

Il lavoro di regia fatto da Drone è impeccabile, uno stile eclettico che riesce a mettere insieme sample di sapore old school con le basse striscianti e oscure della trap, condendo il tutto con effetti psichedelici e un gusto cinematografico per la dinamica delle canzoni. Alcuni di questi pezzi li abbiamo già sentiti nel corso dell'anno scorso, ma è un vero trip ascoltarseli uno in fila all'altro.

Ho chiamato Drone per parlare del disco, della sua storia, di Roma e della sua crew.

drone126 cuore sangue sentimento
La copertina di Cuore Sangue Sentimento. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Come hai iniziato a fare musica?
Drone126: Ero al liceo. Avevo un cugino raver che mi aveva spinto a fare musica elettronica, quindi all’inizio facevo roba tipo drum’n’bass insieme a Ketama, che conosco fin da quando eravamo bambini. Abbiamo cominciato così a scaricarci i programmi e a smanettare con la musica, poi dopo relativamente poco ci siamo spostati sul rap, un po’ anche perché a Roma mancava la scena d’n’b mentre invece quella rap stava prendendo piede. Uno dei primi dischi che ci ha fomentati è stato In The Panchine, che a Roma è culto. Quando è uscito ci ha sconvolti perché era totalmente underground, suonava quasi fatto in casa. Era un po’ una rottura col passato.

Così abbiamo iniziato a produrre per un gruppo rap che ora non esiste più, in cui tra l’altro Carl Brave faceva l’MC, i Molto Peggio. Dopo poco tempo si sono messi a rappare più o meno tutti i membri della nostra comitiva storica, e da lì è nata la 126. Sarà stato il 2010.

Dopo la scuola mi sono trasferito a Berlino, dove ho studiato da fonico e lì ho conosciuto Il Tre, che ai tempi aveva già prodotto roba di Gemitaiz; siamo andati a vivere insieme e da lì ho cominciato a prendere tutta la faccenda un po’ più sul serio. Tramite Il Tre ho anche fatto un pezzo con Davide [Gemitaiz], si chiama “Rap Doom”… una deep cut [ride]. Poi sono arrivati tutti i progetti 126, a partire da Ketam City.

Quindi è stato più o meno quando tu sei tornato da Berlino che hanno iniziato a uscire i dischi dei vari progetti 126…
Sì, pochissimo dopo c’è stato il primo piccolo boom con Carl Brave X Franco126, poi è arrivato Oh Madonna di Ketama.

Parlando di Cuore Sangue Sentimento, varie tracce erano già uscite come singoli nell’anno precedente. Quindi si tratta più di una raccolta di cose a cui hai lavorato, o l’hai pensato proprio come album?
In origine era partito proprio così, nel senso che avevo una serie di tracce che erano rimaste “sfuse” e le volevo raccogliere in un unico contenitore. Poi nel corso del tempo il progetto si è un po’ espanso, e dalla seconda fase ho iniziato a ragionarlo più come un disco coerente, che rispecchiasse il mio suono ma anche il gruppo nell’insieme, perché non era ancora successo che fossimo tutti insieme sullo stesso progetto.

È difficile per un producer fare un disco che porti il suo nome in copertina visto che il tuo ruolo è quello più “in ombra”, insomma, banalmente non canti.
È stato un bel casino, infatti. Anche perché il periodo della lavorazione è stato ricco di avvenimenti e colpi di scena, tutte cose positive naturalmente, ma è cambiato molto dall’inizio al momento in cui l’abbiamo chiuso.

In effetti, dal mio punto di vista, il momento chiave per il tuo lavoro è stata l’uscita di Amor Vincit Omnia, il video che hai realizzato con Trash Secco che racchiudeva tre tracce in un’unica narrazione. Quello è stato il punto in cui il tuo nome è diventato più centrale.
Senza dubbio. Avevo voglia di un progetto in cui potessi avere un maggior potere decisionale, pur contando che quando lavoro con quelli del mio giro la sintonia è sempre fortissima. Però avere davvero in mano la direzione artistica di un disco è una cosa nuova per me e ci tengo molto.

Com’è nata la collaborazione con Trash Secco?
Io sono fan di Trash Secco da molto tempo, fin da quando aveva girato il film Mostro di zona, che per me è un capolavoro. Mi è piaciuto subito per il suo approccio indipendente, quasi di guerriglia, una roba mega underground, forte ed estrema che comunicava bene un certo tipo di “disagio romano”. Da lì in poi ho iniziato a seguirlo da vicino come artista. Poi ci siamo conosciuti quasi per caso a Trastevere, e la collaborazione è arrivata in maniera abbastanza spontanea, lui si è appassionato ai nostri progetti e da lì è nata questa idea di fare questo trittico. Mi piaceva l’idea di creare un’unica opera che mostrasse le diverse sfaccettature di Franco, Pretty Solero e Ketama.

A proposito di “disagio romano”, è interessante vedere come abbiate definito un’estetica molto precisa che mescola il TruceKlan con Franco Califano e Gabriella Ferri. È una scelta consapevole? Come siete finiti in fissa con questa roba?
Quello secondo me, nel bene e nel male, è un prodotto della città in cui siamo cresciuti. Per come la vedo io, e in questo mi ha aiutato anche vivere all’estero per un periodo, ci sono proprio delle cose che segnano lo spirito con cui si vive in questa città all’età nostra. È una cosa che, in modo più o meno consapevole, abbiamo sentito tutti noi, una reazione al nostro ambiente.

Roma, soprattutto negli anni della nostra adolescenza, è stato un posto complicato nel quale vivere e nel quale immaginare una maniera di vivere che fosse sensata e soddisfacente; è una città che vive una condizione di forte stagnazione. A parte il bagaglio storico che si porta dietro, dal punto di vista creativo è stata una città molto importante, pensa solo al cinema romano di qualche decennio fa; ma quando eravamo ragazzini noi avevi un po’ la sensazione che di tutto questo fossero rimaste solo le briciole, le macerie. Per cui, sì, stai in mezzo alla Grande Bellezza, ma hai anche l’impressione che sia un posto in cui le cose non funzionano, non si muovono, ristagnano, soprattutto per i giovani. Secondo me tutta la nostra produzione artistica deriva dal fatto che avevamo bisogno di crearci uno spazio nostro, per esistere come volevamo, perché altrimenti non l’avremmo trovato facilmente.

Questa idea di immobilismo io la ritrovo anche nei vostri testi, in cui pare che non ci sia scampo dal trascorrere le giornate a buttare giù Peroni nelle piazzette di Trastevere, unica via di fuga le eventuali sostanze che vi ritrovate in tasca. Che non ci sia altro da fare che perdere tempo.
Sì, è la sensazione di essere in un limbo, sospesi. Quando uscì “Pellaria” di Carl e Franco, ricordo che alcune persone l’avevano interpretata proprio così: una condizione di sospensione, a metà, senza poter andare né da una parte né dall’altra. Quello che cerchiamo di fare è trovare il lato, diciamo, “figo” o almeno romantico di questa condizione.

Una cosa che mi sono trovato a pensare, dopo aver ascoltato questo disco, è che praticamente la Love Gang è un nuovo modello di posse. Sei d’accordo? È una cosa importante per voi o vi è semplicemente capitato?
Sono assolutamente d’accordo. Penso che questo sia il grande punto di forza del nostro collettivo. È bello vedere progetti molto diversi, come Polaroid e Rehab, uscire dallo stesso gruppo di persone e trovare un pubblico anche in parte condiviso. Questa della posse, come dici tu, o della crew, è sempre stata una mia ossessione: il mio gruppo preferito in questo senso è il Wu-Tang Clan, ma ovviamente siamo stati anche molto influenzati dal TruceKlan.

Per esempio, In The Panchine, che ti citavo prima, era una cosa fichissima perché aveva da un lato una componente quasi satirica, si vedeva che si prendevano meno sul serio degli altri rapper, ma dall’altro c’erano i pezzi di Chicoria che parlavano di realtà sociali toste, di emarginazione e di tossicodipendenza erano molto più reali di tutte le cose che si erano viste in giro fino a quel momento. Il fatto che queste due dimensioni coesistessero in un unico prodotto è una cosa che mi ha sempre fomentato, secondo me quella è la forza del rap. Per come la vedo io, il rap è il genere della contraddizione, come il classico rapper che viene dalla strada ma poi fa la canzone sulla maglietta firmata. Sono contento se queste contraddizioni si ritrovano anche nel mio disco.

A proposito del Chico, in “2008” c’è anche lui sulla traccia insieme a Ketama, suona un po’ come una benedizione. Il vostro legame con Chicoria è noto e risale agli inizi della Love Gang, ma mi racconti com’è nata questa collaborazione?
Abbiamo registrato quasi tutto il disco a casa mia, che nell’ultimo anno ho condiviso con Pretty Solero e Ketama, quindi c’era sempre un certo viavai. Chicoria è stato uno dei primi a supportare il nostro progetto, tanto che la mia prima produzione l’ho fatta per lui e Gast, “A tavoletta”, e poi con la sua etichetta Smuggler’s Bazaar ha prodotto Ketam City. Per me tra l’altro è uno dei rapper più sottovalutati della scena, è stato davvero innovativo, sia per il genere di tematiche che per la tecnica, un po’ “assurda” ma super riconoscibile. Per un paio d’anni, qualunque ragazzino si mettesse a fare due rime per gioco su una base si ispirava proprio a lui.

Lui non chiudeva le rime prima che andasse di moda!
[Ride] Esatto! E poi era il king delle sporche, anche se non gli viene riconosciuto molto spesso. Quindi sono super contento che ci sia, poi ci tenevo a mettere nel disco almeno un beat più old school, più simile alle cose con cui ho iniziato prima della trap, e con “2008” ce l’ho fatta.

A proposito del suono, in che direzione ti sembra stia andando il rap italiano e che evoluzione vedi per te come producer nel futuro?
Ho già visto un paio di momenti in cui il genere si è evoluto, sia a livello di immagine, sia di dimensioni del business, che di suono. Mi sembra che già ora sia molto diverso da com’era quando è iniziato. Io naturalmente cerco sempre di tenermi al passo e aggiornarmi senza tradire il mio stile. Diciamo che il suono trap, che ha rappresentato un momento fighissimo per la scena italiana, ha forse già fatto il suo tempo, ha raggiunto la saturazione, anche per una banale questione numerica. Però vedo già degli spunti interessanti in giro, per esempio parlando del nostro gruppo l’unico vero disco trap duro e puro è stato Oh Madonna di Ketama, mentre già Rehab va oltre e ora con Ketama sto lavorando a tracce sempre meno rappate e più cantate.

Però c’è anche da dire che tra i produttori rap c’è spesso l’idea che l’evoluzione naturale e l’obiettivo massimo sia quello di via via avvicinarsi alle cose più pop. Anche produttori che mi piacciono tantissimo, ogni volta che faccio qualcosa di un po’ più melodico, cantato o pop subito gridano al capolavoro; il che ovviamente mi fa piacere, sono anche d’accordo, però mi piace anche cercare i fenomeni più rozzi, più lontani dai classici canoni di melodico e ballabile che tirano. Negli ultimi tempi ho visto diverse cose fighe in Italia: mi vengono in mente i Sxrrxwland, che sperimentano con sonorità distorte e dissonanti, e poi mi piace tantissimo Massimo Pericolo, che voi conoscete bene. Sono sempre attratto dallo “sporco”, dall’amatoriale, diciamo. Quella è sicuramente un’area da esplorare insieme al versante più pop della faccenda.

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Guarda Noisey Personal: Mahmood

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La vittoria di Mahmood dell'edizione 2019 del festival di Sanremo è stata una bellissima sorpresa. La sua "Soldi", scritta insieme a Dardust e Charlie Charles, è un pezzo perfettamente contemporaneo, l'opera di un ragazzo che non ha mai voluto essere etichettato, una vittoria per la musica italiana. L'Italia intera gli ha messo però subito gli occhi addosso.

I media e la politica, specialmente nella figura del ministro dell'interno Matteo Salvini, gli hanno infatti creato attorno numerose polemiche. "Soldi" è stata raccontata come una scelta delle èlite che non ha rispettato il valore della volontà popolare, che avrebbe fatto vincere Ultimo. Sono state discusse pretestuosamente anche la sua identità egiziana, che ha ereditato dal padre, è la sua sessualità.

Mahmood è venuto a trovarci in redazione, a otto giorni da quando è sceso dal palco dell'Ariston con in mano il primo premio, per raccontarci come ha vissuto questo enorme cambiamento nella sua vita, la storia della sua famiglia, la sua identità tra Italia ed Egitto.

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Il mondo sta finendo, ascoltiamo black metal

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All’occhio poco attento, il metal in generale e il black metal in particolare possono sembrare ambiti ben poco attinenti all’indagine filosofica. Stiamo pur sempre parlando di gente che quando va bene si fa crescere i capelli e veste di spandex e quando va male si trucca da panda e dà fuoco alle chiese immersa nel welfare scandinavo. Eppure, al netto di tutti gli Abbath di questo mondo, le menti fini vicine alla musica del diavolo non sono mai mancate, e nemmeno quelle studiate. Da Don Anderson degli Agalloch, ricercatore e docente di letteratura, a Dave “V.I.T.R.I.O.L.” Hunt degli Anaal Nathrakh, PhD in filosofia all’università di Birmingham, l’underground estremo è un insospettabile coacervo di dottoroni del disagio.

Quando ho sentito parlare di Eugene Thacker e del suo Tra Le Ceneri Di Questo Pianeta (recentemente tradotto e pubblicato in Italia da NERO) per la prima volta, quindi, il mio stupore è stato solo parziale: un filosofo che per teorizzare la sua visione del mondo si appoggia a Transilvanian Hunger dei Darkthrone è certamente inusuale ma, considerando l'assurdità del male in cui ci troviamo ad affogare, nemmeno così impensabile. Gli aneddoti su Thacker non si limitano alla costruzione dei suoi paradigmi filosofici ma vanno ben oltre, bucano la quarta parete dall’esterno verso il palco. Nic Pizzolatto, la mente dietro quel capolavoro indiscusso che era la prima stagione di True Detective, ha più volte menzionato Tra Le Ceneri come una delle sue fonti d’ispirazione nella creazione del personaggio di Rust Cohle, interpretato da Matthew McConaughey. Ricordate quei pipponi su quanto l’essere umano non debba esistere e sia un errore della natura? Ecco. Quella è la farina che esce al sacco di Eugene Thacker. Farina che sull’onda dell’entusiasmo per il detective pessimista è stata poi presa e cucinata anche dallo star system hollywoodiano, da Jay Z a Lily Collins, con tanto di magliette dedicate.

Una situazione paradossale, considerando che le centottanta pagine del libro del 2011 sono un concentrato di concetti che solitamente fanno a pugni con il mondo dello spettacolo ma anche con il mondo in generale. Tra Le Ceneri Di Questo Pianeta si suddivide in tre parti, nell’ordine: I. Tre quæstio sulla demonologia, II. Sei lectio sulla filosofia occulta, III. Nove disputatio sull’orrore della teologia e nessuna di queste, per quanto divulgative, è particolarmente prona alla massificazione da show business. Senza spoilerare la trama di questa atipica speculazione filosofica, Thacker riprende alcuni concetti basilari della filosofia moderna:

1) Tra l'uomo e tutto il resto c'è un confine insuperabile;
2) La finitudine della condizione umana non permette la comprensione di ciò che umano non è;
3) Il mondo in quanto tale non sarà mai conoscibile da noi poveri stronzi per il solo fatto che siamo poveri stronzi, tra l’altro autocoscienti.

Quindi: qualsiasi input che ci arriva dall'esterno - dal cosmo, dalla natura, da qualsiasi questione umana - è filtrato dal nostro essere uomini finiti, e quindi l’esterno in quanto tale ci è alieno e inconcepibile. Una questione vecchia come il mondo, che però Thacker arricchisce di una serie di spunti derivanti dall’orrore. Nella sua accezione più ampia, nel senso di genere, ma anche di strumento, che permette all’uomo di esorcizzare le proprie paure e di riconoscere i propri limiti.

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La copertina di Tra le ceneri di questo pianeta. Cliccaci sopra per acquistare il libro.

Nel libro l’autore di Seattle parla di un "orrore della filosofia", cioè quel momento in cui la filosofia rivela i propri limiti e il pensiero si scontra con le sue possibilità: "come faccio a pensare ciò che non posso conoscere, e che quindi non posso pensare?" Una risposta c'è: attraverso un linguaggio non filosofico, fatto di riferimenti culturali che "spieghino" attraverso il concetto di orrore quello che all'uomo è ignoto. E nel libro di questi riferimenti ce ne sono molti, più o meno conosciuti.

C’è un’analisi del Faust (sia quello di Goethe, che il racconto popolare in sé), delle allegorie all’interno delle diverse versioni della storia che rimandano al cerchio magico e della funzione di questo come mezzo di comprensione, protezione e conoscenza del mondo non-umano. C’è una lettura della demonologia come materia di studio per accedere al mondo delle origini, quando ancora l'uomo non esisteva. C’è una lunga analisi dell’Inferno di Dante con tanto di illustrazioni di Gustave Doré (che guarda un po’ dai blackster è stato saccheggiato nel corso degli anni, tipo quando i Mörk Gryning scelsero come copertina di Tusen År Har Gått una parte dell’immagine del Canto XXI) in cui viene affrontato il problema della vita dopo la vita.

Soprattutto, c’è una delle domande di partenza del libro che indaga il significato che il “nero” assume all’interno della cultura black metal, tracciando un percorso che parte dal satanismo dei Venom negli anni Ottanta, si differenzia nel paganesimo dei Bathory di primi Novanta e Duemila e arriva a un pessimismo cosmico contemporaneo. Il libro è stato scritto nel 2011, ed è improbabile che Thacker sapesse come si sarebbe sviluppato il black metal nell’ultimo decennio, ragion per cui è ancora più inquietante notare che le sue più recenti derive portano proprio al cosmic black metal.

Il filosofo si spinge poi oltre: e se la narrativa horror, con particolare riferimento a quella di H.P. Lovecraft (un corpus letterario particolarmente caro al metal estremo, probabilmente secondo solo a quello tolkieniano), non fosse altro che un modo per spiegare il mondo-in-sé, e tutto l’orrore fosse "solo" quella parte di mondo a noi estranea in quanto incomprensibile all’uomo? Ciò non significa che domani arriverà la fine del mondo dagli abissi e R'lyeh diventerà una meta turistica per i survivalisti più benestanti, ma che “per raggiungere l’essenza della realtà esterna, sia essa il tempo, lo spazio o le dimensioni, è necessario dimenticare l’esistenza di cose come la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e di tutti quegli altri attributi locali di un’irrilevante e transitoria razza denominata umanità”. E le parole sono di Lovecraft stesso, vergate di suo pugno in una lettera del 1927. La linea di confine tra supercazzola e intuizione geniale è sottilissima: se il concetto stesso di male non fosse altro che qualcosa al di là della nostra comprensione?

Questo quesito porta ad un’inversione di prospettiva assoluta nei confronti, beh, di qualsiasi cosa. Come diceva Rust Cohle: “Tutti incappiamo nella trappola della vita”. Ed è qui che Thacker certifica il suo completo attaccamento al black metal come concetto di pessimismo cosmico: “Se l’orrore − per come è stato finora discusso – è un modo per pensare sia il mondo in quanto impensabile sia i limiti della nostra posizione all’interno di questo mondo, allora il vero spettro che infesta l’orrore non è la morte, quanto piuttosto la vita”. E si sa, il black metal con la vita non va troppo d’accordo, tanto che Claudio Kulesko (che di Tra Le Ceneri Di Questo Pianeta tra l’altro è il traduttore) arriva a proporre la musica del male come araldo “dell’abolizione totale della vita e dell’ordine nella notte anticosmica”. Teatrale, non del tutto immediato, ma… E se? Del tipo: non succede, ma se succede?

La ricerca di senso esistenziale perseguita il genere umano dal giorno zero, tanto vale accettare che questo senso non ci sia. Il che porta Eugene Thacker a farsi la domanda chiave di tutto il libro: “cosa accadrebbe se l’«orrore» riguardasse meno la paura della morte che l’angoscia della vita?” Se vi pare di aver già sentito tutto questo è perché sì, l’avete già sentito: Leopardi, Schopenhauer, Nietzsche sono lassù (o laggiù, o dove ti pare) che guardano e ridacchiano soddisfatti, ma non si può negare a Thacker un fascino dettato dall’aver riletto simboli e archetipi ormai buoni solo per un’industria culturale di appassionati in chiave molto più alta. Ché non è da tutti spendere sei pagine per un excursus sulla nebbia e sulla melma per chiarirne il significato metafisico.

Poi io non lo so se davvero ci estingueremo nei prossimi cento anni a causa dell’antropizzazione, anche se un po’ lo spero, non lo so se il pianeta debba essere salvato oppure no perché tanto se la caverà benissimo dopo che ci saremo levati dai coglioni, l’unica cosa che mi è chiara è che Funerals From The Astral Sphere di Midnight Odyssey è uno dei dischi black metal migliori degli ultimi dieci anni, e tanto felice non è.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Siamo stati al "concerto" di Smokepurpp a Milano

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Sono le 2.40 e sto sconsolatamente accendendo l’ennesima sigaretta, mentre Elisa mi lancia un’altra occhiataccia, che presumo contempli un maleficio di qualche tipo. Dell’ospite d’onore non sembrerebbe esserci alcuna traccia, la folla inizia a spazientirsi, gli animi tendono a scaldarsi. All’improvviso, però, arriva una sfavillante Bentley.

Riavvolgiamo il nastro. Mercoledì sera, mentre ero ai Magazzini Generali ad ascoltare tutt’altro, ho ricevuto un messaggio col quale Noisey mi chiedeva se mi andasse di intervistare Smokepurpp in occasione della prima data italiana del suo tour europeo, giovedì 21 febbraio al Gate di Milano. Ero pieno di curiosità per un artista di quel tipo: come vive il movimento rap dalla sua posizione, se avesse idea di cosa succede nella scena italiana, eccetera eccetera. Così ho accettato la proposta e ho coinvolto Elisa, un’amica e collega, nonché ottima fotografa, che da quel 21 febbraio nutre uno sterminato rancore nei confronti miei e di Smokepurpp, ma questa è un’altra storia.

Prima di giovedì conoscevo Smokepurpp soprattutto per “Fingers Blue”, traccia contenuta nel suo primo progetto ufficiale Deadstar, con la collaborazione del semidio Travis Scott. Oltre al corposo Deadstar e a diversi singoli su Soundcloud, ha all’attivo anche Bless Yo Trap, progetto realizzato col produttore Murda Beatz. La musica di Smokepurpp non si dissocia molto da quello che è il filone sonoro del Soundcloud rap, di cui è stato uno dei pionieri, e della trap, della quale riprende fortemente anche l’immaginario e lo stile. In sostanza, mi trovo di fronte ad un artista abbastanza monodimensionale, ma in grado di sorprendere con elementi di ricerca musicale tutt’altro che banali, grazie anche al suo lavoro di beatmaker oltre che di rapper.

L'intervista è programmata per il post-concerto, attorno alle 2.30, ma Elisa e io decidiamo comunque di arrivare al Gate attorno a mezzanotte, in modo da poterci guardare intorno. Mi interessava particolarmente capire che tipo di pubblico potesse essere attirato da uno show come quello di Smokepurpp, visto anche che l’evento è stato fortemente promosso all’interno della cornice della Milano Fashion Week, il che mi ha portato a pensare che moltissimi dei presenti sarebbero stati più o meno legati al mondo della moda e dello streetwear e attratti più che altro dall'hype: previsione avveratasi in pieno. Aggirandosi in pista durante il DJ set, saltava subito all’occhio la totale assenza di quello che potremmo definire il classico “rappuso”, rimpiazzato da tanti classificabili come clubber.

Bevuti un paio di gin tonic e fumate fin troppe sigarette, l’attesa iniziava a farsi spasmodica. Erano ormai le 2 inoltrate, la mezz’ora di ritardo fisiologica era sfociata nell’ora abbondante, in pista i brani iniziavano a ripetersi. Tanti volti noti avevano iniziato ad affollare il backstage: Dark Polo Gang, Lazza, Enzo Dong, Ghali, Roshelle, Chadia Rodriguez. E per fortuna che c'erano loro a intrattenere i fan, scambiando chiacchiere e foto, rendendo più sopportabile un’attesa che diventava sempre più surreale.

Sono le 02.40 e sto sconsolatamente accendendo l’ennesima sigaretta, mentre Elisa mi lancia un’altra occhiataccia, che presumo contempli un maleficio di qualche tipo. Dell’ospite d’onore non sembrerebbe esserci alcuna traccia, la folla inizia a spazientirsi, gli animi tendono a scaldarsi. All’improvviso, però, arriva una sfavillante Bentley. C'è già stato un falso allarme un po' di tempo prima, all'arrivo di Ghali, quindi siamo tutti piuttosto diffidenti. Quando però un “ESKEREEE” urlato a pieni polmoni squarcia il rimbombo dei bassi provenienti dalla sala, non sembrerebbe esserci più alcun dubbio: Smokepurpp è arrivato, accompagnato da Sfera Ebbasta. Alla sua corsa nel backstage segue la corsa dei presenti in sala. Gli ultimi ritocchi alla logistica, qualche ulteriore pezzo scelto ad hoc per scaldare la pista, l’apertura ad opera dei rapper che lo stanno accompagnando in tour. Ormai ci siamo.

smokepurpp live milano

15 minuti dopo, 20 a voler arrotondare per eccesso, è tutto finito. Un live brevissimo e molto poco “live”: il grosso lo ha fatto il DJ, lui si è limitato di tanto in tanto a chiudere le doppie alla sua voce registrata, non viceversa. Su “Fingers Blue” sembrava intenzionato ad invertire la rotta, rappando decisamente di più, ma la cosa si è rivelata un fuoco di paglia. Quando è salito sul palco Sfera per cantare "Pablo" sembrava un inizio col botto, e invece era già quasi la fine. Dopo aver suonato un paio di pezzi del compianto amico XXXTentacion, Smokepurpp ha abbandonato il palco, lasciando praticamente la totalità del pubblico piuttosto sgomenta. Abbiamo aspettato due ore per questo?

sfera smokepurpp live milano

La folla si è presto riversata fuori, esternando il proprio malumore nelle forme di (altri) cocktail, (altre) sigarette, (tantissime) imprecazioni. Una manciata di minuti dopo, Smokepurpp è uscito dal backstage ed è salito sulla Bentley: mentre si allontanava, scomparendo tra le strade di Milano, qualcuno lo rincorreva col cellulare puntato in faccia, altri gli urlavano dietro insulti in una lingua che non capisce. Temo che l'intervista sia annullata. Io ed Elisa, piuttosto confusi, cerchiamo di fare il punto della situazione con i ragazzi dell’organizzazione, che sembrano però più confusi (e decisamente più stressati) di noi. Stanchi e rassegnati, privi di energie ma carichi di rancore, decidiamo di battere in ritirata, aiutati da un amico che ci ha miracolosamente riaccompagnati a casa evitandoci un’odissea di mezzi notturni.

sfera smokepurpp milano live

La mattina dopo, ancora rincoglionito per la nottataccia e i gin tonic, ho trovato un messaggio degli organizzatori sul cellulare: ovviamente loro ci sono rimasti ancora peggio di me, ma ci tengono a farmi sapere che hanno provato a farmi avere l'intervista che mi era stata promessa—solo che Smokepurpp è scappato via sostenendo di non avere "i capelli in ordine".

Mettendo per un attimo da parte la frustrazione per la (non) intervista, non posso fare a meno di pensare a come si sono sentiti tutti i presenti. Al netto degli sforzi e dei buoni propositi dell'organizzazione, che cosa permette a certi artisti di comportarsi in questo modo? Per il pubblico italiano l'arrivo di un artista come questo è un sogno che si avvera, ma la realtà finisce troppo spesso per essere piuttosto grottesca. Non parlo tanto della qualità della performance (anche Playboi Carti al Fabrique si era limitato a saltare sul palco ma lo aveva fatto con puntualità, per un’intera ora, davanti ad un pubblico davvero gasatissimo), quanto proprio dell’approccio da lega minore con cui questi artisti arrivano nel nostro paese. Ha davvero senso continuare a rassegnarsi a eventi che poi si rivelano dei siparietti? A rigor di logica sembrerebbe assurdo, eppure i biglietti continuano ad essere venduti. Gli stessi che se la prendono per la pessima situazione sono lì anche la volta dopo, e quella dopo ancora.

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Con 'Father of 4' Offset dimostra di essere il migliore dei Migos

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Parlando dell’ormai sterminato universo trap, i Migos meritano di certo una menzione d’onore. Da Versace (2013) ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti: una marea di mixtape, l’endorsement di Childish Gambino che sul palco dei Golden Globe li definisce “i Beatles di questa generazione”, e la loro esilarante comparsata in Atlanta, la fantastica serie TV di Glover stesso. E poi i tre dischi, uno più fortunato dell’altro, gli infiniti featuring, la cima delle classifiche e i premi. Con il crescere della notorietà, intanto, cresce anche la credibilità dei singoli componenti del gruppo, ormai non più considerato un indivisibile cerbero, bensì una creatura che vive di complementarietà. Di pari passo, nell’ultimo anno, è salito anche l’hype per gli album solisti di ciascuno dei tre.

Se Quavo è il leader, molto appariscente ma poco convincente nel suo QUAVO HUNCHO, e Takeoff quello schivo e abile nel flow, come ha dimostrato in The Last Rocket, Offset rischiava di essere ricordato come quello degli adlib, quello di "Bad and Boujee” o, peggio ancora, come l’eterno (ex?) marito di Cardi B. Proprio a causa delle pene d’amore (con tanto di concerti pateticamente interrotti, ma che comunque ora paiono risolte), infatti, il rapper ha ritardato l’uscita del suo lavoro in solitaria, inizialmente prevista per il 2018. Comunque, dopo mille e più peripezie di gossip, e al netto di una copertina imbarazzante (se ve lo steste chiedendo: no, i bambini non sono photoshoppati), siamo finalmente qui a parlare di Father Of 4, il disco che rischia di chiudere definitivamente la diatriba su chi sia il migliore dei tres amigos.

Father Of 4 ripercorre la vita di Offset, che ora, dopo numerosi mea culpa, vuole presentarsi come un uomo nuovo, seriamente intenzionato ad essere un marito esemplare e un padre presente per tutti i suoi quattro figli. Considerando i recenti trascorsi del rapper e il titolo del lavoro, era naturale aspettarsi una sorta di album "confessionale" che andasse un po’ oltre il classico immaginario da egotrip che si confà al genere; quel che non mi aspettavo, però, era che spaccasse.

offset father of 4
La copertina di Father Of 4. Cliccaci sopra per ascoltarlo.

Il mood corale è quello di un conscious rap notturno e melodico, con quel sentimento mellifluo conferito dal buon flow di Offset e da un autotune mai esagerato. Partendo da questo presupposto, le basi esplorano diversi territori (Metro Boomin e Southside sono una garanzia), e i testi spaziano: la famiglia e i buoni propositi ("Father of 4"), la perdita, seppur temporanea, dell’amata moglie ("Don’t Lose Me") e gli alti e bassi della vita ("Red Room"); cruciale è poi il tema del successo in ogni sua sfaccettatura, dai lati positivi quali soldi ("Quarter Milli" e "Lick") e sesso ("On Fleek"), sino a quelli negativi ("Clout"). Ricorre anche la consapevolezza del proprio percorso artistico, sempre in bilico tra la gratitudine per le conquiste presenti, raggiunte partendo dal nulla del passato, e la costante volontà di lasciare un segno futuro nel rap game ("How Did I Get Here", "Legacy", "Came A Long Way"). Ad arricchire il pacchetto c’è, chiaramente, la solita valanga di featuring: da quelli di mestiere (Quavo, Travis Scott, 21 Savage e Gucci Mane) a quelli più inaspettati e riusciti (J. Cole, Gunna, CeeLo Green e, proprio lei, Cardi B).

Sembrerebbe tutto giusto, se non fosse per la presenza di momenti ripetitivi, quando la spocchia diventa esagerata, e per i 60 minuti di durata, durante i quali è impossibile non distrarsi. È la croce dei dischi di questo genere.

Father Of 4, in definitiva, è un altro album nel firmamento trap che forse dimenticheremo ma che, per il momento, ha il pregio di brillare di luce propria in più di un’occasione. Un po’ a sorpresa, non lo nego, questo lavoro incorona Offset come il migliore dei Migos, come un supereroe che, scalfito dalle difficoltà, ha saputo ridimensionarsi, riscoprendo i lati positivi dell’essere un comune mortale.

Simone è producer/DJ e scrive di musica per DeerWaves, Zero e Noisey. Seguilo su Instagram.

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Il nuovo album di Lil Pump è davvero brutto

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Non oso nemmeno immaginare quanto debba essere dura chiamarsi “Lil Qualcosa” in un mondo abitato da 8000 “Lil Qualcos’altro”. Me li figuro, tutti i Lil, perennemente indaffarati a sgomitare per una fetta di successo, per arrivare in cima prima che quel nomignolo diventi un controsenso anagrafico. Nell’infinita gara verso la notorietà sono ovviamente pochi quelli che riescono a differenziarsi dagli altri, ad emergere nel marasma. Tra questi, uno che ce l’ha fatta è sicuramente Lil Pump.

Forte di un’estetica bubblegum con tatuaggi in faccia e treccine colorate, ma forte soprattutto di una filosofia molto vicina al mantra “bene o male, purché se ne parli”, nell’ultimo anno e mezzo Lil Pump si è spesso ritrovato sulle homepage musicali di mezzo mondo. Nel 2017, ancora minorenne, è uscito dai confini di SoundCloud grazie al singolo "Gucci Gang", ormai spedito verso il miliardo di visualizzazioni su YouTube; ha poi lanciato il meme “eskeddit”, ha fatto arrabbiare la Cina, è finito in prigione e sul cartellone del Coachella 2019. In mezzo a questa baraonda ha trovato anche il tempo per pubblicare su Warner l’omonimo mixtape d’esordio che, nonostante le importanti collaborazioni, era “uguale identico a trecentomila altri mixtape che avete già sentito e altri cinquecentomila che sentirete”. Se qualcuno nutriva la speranza che tutto ciò potesse essere solo un rodaggio, un trampolino di lancio per fare di meglio, beh, ci ha pensato Harverd Dropout a troncare le poche e già flebili aspettative.

lil pump harverd dropout cover
La copertina di Harverd Dropout. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Lil Pump ha diciotto anni ed è pieno di soldi, di visualizzazioni, di follower; gli basta schioccare le dita per avere tutto ciò che vuole: diamanti, donne, featuring coi Migos, 2 Chainz e i migliori Lil (Wayne e Uzi Vert), persino una collaborazione con Kanye West in un video che vede Spike Jonze nei panni di produttore esecutivo. Ciononostante, Harverd Dropout arranca e proprio non riesce a funzionare. I beat sono banali e i synth di plastica, le melodie e i contenuti non pervenuti, così come le abilità nel rap (comunque mai millantate dall’artista stesso, anzi). Ad aggiungere benzina sul fuoco ci ha poi pensato Geoff Barrow dei Portishead, accusando Pump di aver campionato un suo pezzo per creare “una canzone fottutamente sessista”, chiamandolo “misogino” e augurandosi “da padre di due ragazze, che questa merda [la trap sessista] vada affanculo”.

Al di là dell’assenza di valore artistico in senso stretto, ampiamente preventivata prima dell’ascolto, ciò che colpisce di più di Harverd Dropout è però un’altra cosa, un’assurdità che si palesa canzone dopo canzone. La sensazione costante è quella che Lil Pump non abbia mai sognato di fare il rapper: è annoiato, svogliato, fuori posto sulle basi come un Richie Rich isolato nella sua magione, ormai incapace di divertirsi e, quindi, di divertire. Di 16 pezzi si salva forse solo "Racks on Racks", buona giusto per qualche party, mentre tutto il resto suona preconfezionato, creato a tavolino da un sistema in cui Pump è solo l’ultimo ingranaggio necessario per fare soldi, ma non per fare arte. L’effetto sorpresa e la novità del personaggio sono ormai svaniti e Harverd Dropout è, di nuovo, un lavoro “uguale identico a trecentomila […] che avete già sentito e altri cinquecentomila che sentirete”, ma non solo.

L’album, infatti, è anche metafora ed emblema del vuoto pneumatico di un’industria che, per macinare dollari, dà visibilità a gente senza talento, a dei meme viventi. A lungo andare, però, i meme stancano, smettono di far ridere e vengono accantonati. Non si sa bene come, perché né quando questo accada: semplicemente, nel tacito consenso dell’internet, accade.

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Gunna è un grande ma non ha niente da dire

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Quando mi trovo davanti Gunna rimango un po' stupito. Sono anni che parla di "drip", cioè di quanto è pieno di gioielli e vestiti costosi, e invece ha addosso solo una tuta e una pelliccia di visione così lunga che tocca terra. Entrambe sono verde fluorescente—forse una strizzata d'occhio involontaria al colore dello "slime" del suo mentore Young Thug, che nel 2016 gli ha offerto un contratto sancendo l'inizio della sua carriera? È una domanda a cui non avrò mai una risposta, ma in fondo le mattine di gennaio a New York vanno affrontate comodi, non pieni di gioielli.

L'ascesa di Gunna è stata molto veloce, concentrata tutta nel 2018 dopo un paio di anni passati nelle retrovie della scena di Atlanta. Il suo mixtape Drip Season 3 è andato molto bene e ha generato ben 11 singoli entrati nella classifica Top 100 di Billboard. Ad aprile è arrivata "Sold Out Dates", la sua prima collaborazione con un'altra stella nascente della trap locale, Lil Baby. Ad agosto Gunna è comparso insieme a Nav su "YOSEMITE" di Travis Scott e ancora insieme a Baby su "Chanel" di Young Thug, aggiungendo a entrambe una forte dimensione melodica, liscia e burrosa.

L'anno di Gunna si è concluso con l'affermazione definitiva della sua voce artistica sulla scena nazionale: il merito è stato di Drip Harder, il suo progetto insieme a Lil Baby, in cui gli stili dei due—le melodie di Gunna, lo street rap di Baby—si sono intersecati alla perfezione uscendone rafforzati. Tra novembre e dicembre, infine, altri tre featuring di livello: uno su "Space Cadet" di Metro Boomin, uno su "Stay Long Love You" di Mariah Carey e uno su "Unicorn Purp" di Future. Gunna è quindi diventato, nel giro di dodici mesi, una voce riconosciuta come valida da titani della trap come da popstar famose in tutto il mondo.

Ma prima di scegliere il suo nome d'arte, Gunna si chiamava Sergio Kitchens ed era solo un ragazzo di College Park, un quartiere di Atlanta come tanti altri. Aveva cominciato a scrivere barre quando era ancora un ragazzino, aveva finito a fatica il liceo e aveva avuto qualche piccolo screzio con la legge poco prima dell'esame finale. La sua vita cambiò nel 2015 quando Keith Troup, uno storico rapper di Atlanta che lo aveva preso in simpatia, lo portò alle riprese di un video di Young Thug e glielo presentò. "Ma quando [Troup] è morto è cambiato tutto," ha detto Gunna in un'intervista a Complex, "Siamo andati tutti al funerale assieme, ed è lì che abbiamo legato." E poi è successo tutto quello che avete letto nei paragrafi qua sopra.

"È da Drip Season 3 che sto lavorando sul mio album," mi dice Gunna. Mentre parliamo non ci sono ancora molte informazioni certe su Drip or Drown 2, uscito venerdì scorso, ma una cosa la vuole dire: la lunghezza del progetto, il doppio rispetto all'originale Drip or Drown, è completamente intenzionale. "Avrei dovuto mettere più canzoni sul primo progetto. Se il tuo nome non è ancora uscito del tutto devi continuare a buttare fuori roba, non devi mai fermarti ad aspettare. Devi continuare a droppare pezzi."

Per la maggior parte del disco Gunna fa tutto da solo. Le uniche eccezioni sono tre cari amici: Young Thug su "3 Headed Snake", Lil Baby su "Derek Fisher" e Playboi Carti su "Same Yung Nigga". I momenti migliori sono quelli in cui si percepisce la chimica tra di lui e i due produttori esecutivi del progetto, Wheezy e Turbo, i momenti di genio in cui tutto sembra al posto giusto. Un esempio sono le parti di chitarra di "Sold Out Dates", il modo in cui i beat di "Out the Hood" e "Who You Foolin" danno cuore alle melodie di quartiere di Gunna, la precisione millimetrica delle proporzioni tra voce e percussioni di "Speed It Up".

I testi del disco si interrogano su come la fama ha cambiato e cambierà la vita del loro autore. Gunna fa bragging duro e puro, e ci sono tratti in cui sembra che ogni barra faccia a gara con quella che la segue a chi riesce a tirare in mezzo più brand. Gunna ricorda l'acquisto di una tuta di Balmain da 2000 dollari con lo stesso trasporto con cui ricorda il giorno in cui ha fatto il suo primo milione, come se i soldi fossero ormai la normalità. Ma un pensiero va anche ai suoi figli, e a come la loro vita verrà toccata da questa ricchezza totalizzante.

Ed è del disco che comincio a parlargli quando ci sediamo uno di fronte all'altra: a conversazione finita mi rendo conto che non ci siamo detti poi molto, ed è strano che un artista possa essere così bravo a mettere parole sulla traccia, così affascinante, e che abbia così poco da dire. Ma il suo è uno di quei casi in cui il come vince sul cosa.

gunna drip drown 2
La copertina di Drip or Drown 2 di Gunna, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Hai passato un anno fantastico da quando è uscito Drip Season 3 lo scorso febbraio. Qual è la lezione più importante che hai imparato in questo tempo?
Gunna: Ho ancora la stessa fame. Il 2018 è stato l’inizio di una nuova vita.

Hai detto che quando c'è stato il leak di “Sold Out Dates” sei stato costretto a vedere il tuo stesso potenziale. Che cosa è stato ad aiutarti?
Quando la canzone è scappata fuori, ho iniziato a prestarle davvero attenzione. È stato lì che ho detto: “devo pubblicare sta canzone perché sta andando troppo bene”. Nessuna delle persone che seguono la mia musica ogni giorno l’aveva ancora sentita. Solo la gente che cercava su internet. Loro l’hanno beccata velocemente, gli hacker.

Come descriveresti le differenze fondamentali tra i Drip Season e Drip or Drown?
Con Drip Season, ti faccio vedere cosa posso fare con lo stile di oggi, sul momento. Drip or Drown lo prendo più sul serio, tutto l’anno. Ecco perché con questo vado verso un livello tutto nuovo. Voglio che la gente sia in grado di vedere più che ascoltare la musica. Voglio visualizzare tutto. Voglio che vediate che cosa vedo io quando faccio la musica.

Hai dichiarato che il tuo suono non cambia mai ; migliora solo. Come sai quando è il momento di salire di livello?
Penso che Turbo mi abbia aiutato a crescere. Andiamo d’accordo in un modo particolare. La sua mente è programmata per fare beat per il mio flow e il mio sound. Non è un ingegnere, ma sa registrare. Quando abbiamo iniziato non c’erano soldi. Non avrei potuto pagare un ingegnere, quindi lui si è rimboccato le maniche e si è messo sotto con me. Così facendo, ha cominciato a capire come mi sarei appoggiato ai suoi beat. Praticamente abbiamo sviluppato il mio modo di rappare insieme. Direi che è così che migliora. C’è un legame. Lui cerca di aiutarmi a migliorare, e io cerco di aiutare lui. Quando lavoriamo sodo tutti e due, la cosa cresce.

Tutti vogliono un feat di Gunna ora. Come affronti il lavoro con persone con cui non hai lo stesso legame?
Devi essere il migliore. Devi essere in grado di adattarti. Ora, alcuni artisti lo capiscono e sanno che mi devono mettere sul ritornello. Mi mandano una canzone dicendo “mi servi su sto pezzo”. Pensano: “Se riesco a fargli cantare il ritornello, o riesco a coinvolgere Turbo per metterci il suo stile, svolto”. È così che sono finito su “YOSEMITE”.

Hai appena detto di essere “il migliore”. Anche Future ti ha definito "il migliore" , quindi dev’essere la verità, giusto?
Lo sai che se lo dice lui è vero.

Come ti sei sentito quando ti è giunta voce che Future aveva detto che tu e Baby siete i migliori della trap?
È una bella sensazione quando lo dice il migliore di tutti per davvero. Shoutout! Non voglio più sentire niente.

Raccontami il tuo lavoro su The WIZRD di Future. Come sono andate le registrazioni?
Facile. Mi ha chiamato e mi ha detto “Yo!” Io e Thug eravamo nel suo studio ad Atlanta, tra l’altro. Lui era a LA. Bro, abbiamo fatto talmente tanti pezzi insieme, noi tre… c’è un album praticamente.

Potrebbe uscire un album?
Non scherzo. [Future] mi ha chiamato e mi ha detto: “Ora sto facendo questo Wizrd. Ho una wave per voi. Vi mando della roba”. Era un girono come un altro. Abbiamo sempre delle bombe così. Sempre. Se non siamo insieme, lui è da qualche parte e noi da un’altra… specialmente Thug fa “Dobbiamo mandare sta roba a Future”.

Hai scritto su Twitter che non ti interessa chi ha coniato il termine “drip” perché tu fai hit. Stai pensando di abbandonare “drip”?
Dripperò per sempre, ma non mi voglio concentrare solo su quello. Non sarà il titolo di tutti i miei album. Il drip sono io. È la mia firma. Non potrei mai abbandonare questa roba, ma ho molto altro in serbo a parte il drip.

Torniamo a Drip Season 2. In che “fase” ti senti adesso?
Sono lo sfavorito…

Non puoi essere lo sfavorito e il migliore allo stesso tempo. Non funziona così.
Dici? Come pensi che si faccia notare lo sfavorito? Essendo il migliore. Mi hanno quasi messo in cima con tanti altri, ma ancora non lo sento. Mi sembra di essere soltanto all’inizio. Ma c’è molta gente che pensa che io sia già arrivato.

Cosa ti manca per sentirti davvero riconosciuto come il migliore?
Penso che il prossimo progetto sarà quello decisivo.

Molte persone ti identificano come un motivatore , per esempio, per il messaggio che si trova nelle tue canzoni e per come hai incoraggiato Lil Baby a rappare. Se tu sei il motivatore, chi motiva te?
Al momento mi incoraggio da solo, man, grazie a tutte le conquiste e ai fan che sto guadagnando e il nome che mi sto costruendo. Mi motiva a tenere duro. È tutto dentro di me ora.

Una versione di questo articolo è apparsa originariamente su Noisey US.

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Recensione: Quercia - Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo

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La scena emocore e suoi derivati italiana non se n'è mai andata, semplicemente avevamo smesso di farci attenzione - come diceva il titolo ormai storico di un articolo che, nel 2013, ragionava sul cosiddetto "emo revival" americano. Fatto sta che negli ultimi tempi sembra essere sorta una nuova, piccola, ondata di band come Riviera, Futbolín e Batién, generata da un mare che vogliono solcare anche i Quercia. Basta leggere il nome del loro nuovo album, Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo, che si rifà allo stile noto dei nomi lunghi e mesti, tradizione che in Italia è stata preservata da gruppi come STORM{O} e Raein.

I Quercia nascono in Sardegna nel 2016 e quello stesso anno pubblicano un primo album, Non è vero che non ho più l’età, un condensato di momenti punk e (fin troppo) pop oggi quasi del tutto scomparsi: un netto cambio di tono verso termini come "-core", "screamo" e addirittura "metal". Lungo il corso del disco ci sono infatti momenti in cui è lecito interrogarsi sul ruolo nel suono del disco della mano di "Paso" Pasini, autore di centinaia di missaggi del metal italiano.

Ad ogni modo, su Di tutte le cose non c'è più spazio per la felice adolescenza di un brano come "Mida"; è un album nero nella sua interezza, a partire dalla copertina, su cui compare un’automobile rovesciata su di un lato, come a richiamare un incidente stradale (forse una strizzata d'occhio a chi li conosce, dato che nel 2017 pubblicarono una cover in italiano di "The Night I Drove Alone" dei Citizen). Ma come si esplicita questo nero lungo il corso delle tracce?

quercia di tutte le cose
La copertina di Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo dei Quercia, cliccaci sopra per ascoltarlo su Bandcamp.

Ad aprire le danze c’è una canzone che si chiama "Buio" e dice “La tua mano è più vuota ora che non sono lì”. Insomma, siamo in una zona di sicurezza che conosciamo bene, e per "noi" intendo sia i trentenni che hanno vissuto in prima persona l'esperienza dell'emo italiano di dieci anni fa sia i ragazzi che solo oggi stanno cominciando lo stesso percorso di ascolti. E manco a farlo apposta I Quercia sono così emo che hanno vinto la prima edizione di San Emo, un festival-gag dedicato all’emo italiano.

Indipendentemente da questo, i Quercia suonano bene. Le chitarre hanno riff e assoli brillanti, come in "Finestra", e i momenti rilassati dell’album precedente son stati rimpiazzati da intermezzi che si rifanno alla storia del post-rock, come la strumentale "Altalena", una botta di nostalgia tra delay e accordi in acustico. In "Pozzanghere" si avverte anche un frammento di American Football. Ma soprattutto i Quercia hanno testi “sentiti”, che poi è la cosa più importante del genere. Immagino per esempio che "Torri" sia stata scritta dal componente della band che vive in Emilia: parla proprio degli stati d’animo che si vivono all’ombra delle alte costruzioni medievali di Bologna, di quella libertà tipica di un fuorisede che si riscopre prigioniero di una gabbia di emozioni e rimorsi familiari.

A chiudere l’album c’è il trittico composto da "Muro", come quello di chi nasconde i propri sentimenti ma anche quello di chitarre che esplode dopo una dolce introduzione. Poi c’è "Bivio", forse è il pezzo più melodico, che parla delle occasioni mancate e dichiara l’appartenenza della band alla provincia-unita-dell’-emo-italiano ("Siamo nati dove non esiste la pianura, e l’asfalto si spacca ogni tre giorni”). Attaccamento che viene ribadito in "Ridevamo", conclusione dedicata al tempo che passa e ammazza i piccoli mondi quotidiani (“L’aereo è atterrato in ritardo, e la videoteca ha chiuso. Questo posto non è più lo stesso, ma ogni volta qua nulla è cambiato“).

Se con il loro debutto c’era il rischio di scambiare i Quercia per un gruppo indie, adesso non ci sono più dubbi: non lo sono. I Quercia voglio urlare e suonare, preferibilmente con il potenziometro del drive al massimo.

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Vai a vedere i Quercia dal vivo:

Giovedì 7/3: Bronson, Ravenna, w/ Screaming Females
Venerdì 8/3: La Tenda Live, Modena, w/ Cabrera
Sabato 9/3: All In, Villa Vicentina (UD)
Domenica 10/3: Circolo Ohibò, Milano, w/ Cabrera
Venerdì 15/3: Trenta Formiche, Roma
Sabato 16/3: Casa del Popolo Spartaco, Caserta
Domenica 17/3: Mikasa, Bologna, w/ Regarde

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Con ‘Eton Alive’ gli Sleaford Mods sono ancora i più veri sulla piazza

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Mi ricordo il 2006 o il 2007, quando era ancora lecito arrabbiarsi con il governo e quelle robe lì. Mi ricordo che dicevamo cose tipo “se solo potessimo liberarci di…” e qualche nome di politico, sottintendendo che una volta eliminati questi sarebbe stato tutto ok. Quanta fiducia mal riposta, quella in noi stessi. Sono passati poco più di 10 anni, la situazione è grottesca, e lo stronzo che ci ha traditi è nello specchio. Se fossimo onesti, come minimo gli disegneremmo qualche cazzetto in faccia. Per fortuna ci sono gli Sleaford Mods, armati di metaforico pennarello, ad attendere che ci addormentiamo troppo presto sul divano perché abbiamo passato tutto il giorno a sforzarci tantissimo di prenderci sul serio.

Aspetta, che sto andando troppo in là con i voli pindarici: Eton Alive (Eton è il college dove ha studiato gran parte della classe dirigente inglese; il gioco di parole è con eaten alive, mangiati vivi) è il quinto album degli Sleaford Mods (tecnicamente è tipo il decimo, ma per comodità consideriamo solo quelli con la coppia Williamson/Fearn). È anche il debutto della Extreme Eating, etichetta fondata dal gruppo stesso, dopo la parentesi dello scorso album con Rough Trade.

sleaford mods eton alive cover artwork
La copertina di Eton Alive. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

C’era una cosa che il famoso DJ radiofonico John Peel diceva della sua band preferita, The Fall: “sempre diversi, sempre gli stessi”. Lo stesso si può dire degli Sleaford Mods, che ancora una volta dimostrano di sapere esattamente che strada prendere: quella della sperimentazione discreta, del piccolo aggiustamento, un’evoluzione lenta e costante che con Eton Alive raggiunge la forma più matura e coerente della loro carriera.

A colpire, più che il familiare abbaiare di Jason Williamson, sempre punteggiato di sorprendenti momenti cantati ma anche rutti, insulti e siparietti di vari gradi di aggressività e sarcasmo, sono finalmente le basi di Andrew Fearn. Il silenzioso producer del gruppo, qui, ha trovato la chiave del Tardis: come l’astronave del Doctor Who, questo album è più grande dentro che fuori. Azzecca un pop modernissimo su “When You Come Up To Me”, che sembra quasi PC Music; in “OBCT” è capace di prendere un pezzo di quell’indie rock che il suo socio non ha mai smesso di prendere in giro e trasformarlo in una base strisciante e minacciosa, con la tensione che tocca a Williamson rilasciare sul finale a colpi di kazoo; “Big Burt” è elettronica lo-fi da manuale, mentre subito dopo “Discourse” pompa un basso funk e campionamenti che sembrano provenire dalla scuola di Fela Kuti o qualcosa del genere. È un lavoro impressionante.

Williamson, allo stesso tempo, continua a essere il cantante più vero sulla piazza. Ogni sillaba è carica di aggressività, sarcasmo, amara riflessione e una sincerità disarmante. Con i suoi testi, sempre in bilico tra il flusso di coscienza, la poesia e l’insulto di strada, dipinge uno scenario tetro e morboso in cui le classi subordinate si arrampicano fuori da un buco soltanto per scavarsene un altro, nell’eterna catena alimentare che ci mangia, digerisce ed espelle dal "Culo del Potere" (parole loro). Se “Graham Coxon [dei Blur] sembra un Boris Johnson di sinistra”, Jason Williamson assomiglia solo a se stesso—e a tutti noi, ma senza l’ipocrisia.

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Guarda Noisey Meets Franco126

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Ogni scusa è buona per andare a Trastevere a passare una giornata con la Love Gang, e questa volta ne avevamo una davvero ottima: l'uscita del primo album "da cantautore" di Franco126.

Siamo stati a trovarlo a Roma, allo Spazio Cerere a San Lorenzo e, in compagnia di Drone126, Ugo Borghetti e Gianni Bismark, abbiamo parlato della sua storia, degli inizi rap, dell'influenza di In The Panchine e del TruceKlan, e dell'evoluzione che lo ha portato a Stanza Singola.

La serata è terminata a casa di Drone126 tra Peroni, pizze e supplì, e poi allo storico Bar San Calisto, dove Franco ha girato uno dei suoi classici: "Tarallucci e Vino", con Asp126.

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È il momento di parlare del SoundCloud rap italiano

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Lo scorso giugno Side, smarcato definitivamente da una Dark Polo Gang pronta a firmare il suo primo contratto con una major, ha lanciato su SoundCloud il suo debutto solista, il singolo “Medicine”. La sua è stata una scelta singolare, inusuale per un rapper italiano del suo calibro, e infatti i singoli successivi sono comparsi su YouTube e Spotify. Ad oggi sulla sua pagina non possiamo ascoltare altro che quel primo brano, ma quello è bastato a cambiare qualcosa.

Quando la riproduzione di “Medicine” finiva, il sito arancione con la nuvoletta bianca reindirizzava infatti al brano “Rieti chiama” di una allora sconosciuta crew romana chiamata FUCKYOURCLIQUE. A soli tre mesi da questa fortunata coincidenza il gruppo ha organizzato un festival agli Ex Magazzini di Roma, FUCKYOURPARTY, che radunava una serie di rapper emergenti che si aggiravano su SoundCloud. Un mese dopo si è esibito ad un evento importante come il Roma Brucia, e ora “Rieti chiama” conta 130K stream (che, considerando la media italiana, per la piattaforma sono davvero tanti).

Tra gli ospiti del FUCKYOURPARTY sono diversi i rapper da tenere d’occhio. Il membro onorario della crew, RADICAL, è tra gli esponenti più interessanti del SoundCloud rap italiano e, nonostante sul suo conto si sappia ancora poco, il suo EP TRASHBIN VOL.1 è un ottimo esempio di come usare delle produzioni più tradizionali e con più sample per esplorare dei territori che la trap italiana non ha ancora colonizzato. Lil Rumore è quello che ha seguito il percorso più singolare: ha partecipato alla scena emo partenopea, ha fatto indie americano a nome Unhappy, musica elettroacustica a nome Radford Electronics (e l'ha pubblicata sulla sua piccola etichetta Körper / Leib). Ora sembra avere accantonato il rap per dedicarsi a un nuovo progetto che c'entra con il city pop e il cantautorato. Lil frostee, come conferma la sua ultima pubblicazione “R.I.P FROSTEE”, fa invece un’emo trap priva di cliché sullo Xanax e sulla depressione.

Questi nomi sono solo la punta dell’iceberg di questa comunità che sta utilizzando la piattaforma di streaming per creare una scena unita da elementi estetici comuni (il SoundCloud rap italiano è tempestato da immagini e riferimenti a manga, anime e alla vaporwave) e da numerose collaborazioni, ma in cui ognuno cerca di colmare in modo diverso, con il proprio suono, i vuoti presenti nel rap italiano. Ne è un ottimo esempio il duo YoungNami x NastyG.og, uno dei pochissimi progetti al femminile presenti sulla scena che ha già collaborato, sul brano “Mi chiami”, con Close Listen, il producer dei Tauro Boys (trio che all'estetica e alle sonorità SoundCloud Rap deve molto). Sempre a Roma opera Zyrtck, che un mese fa ha pubblicato una raccolta di brani intitolata my illness e che se siete fan del rap un po’ preso male e lo-fi dovreste andare a recuperare. Due progetti a cui invece SoundCloud potrebbe iniziare a stare stretto, a giudicare dalla qualità e dai numeri dei loro video su YouTube, sono il ligure Jack Out, che potete trovare qua mentre flexa in piscina insieme a Young Slash, e i Thelonious B, che nel loro ultimo singolo “DRXGA” giocano ad avvicinarsi al pop punk.

Questi ultimi due esempi pongono una questione importante, ovvero quella del pubblico su SoundCloud. Esistono canali-aggregatori, come Lil Electrocardiogram, HOTLiST ITALIA e NUVOLASUONO, che ripostano regolarmente brani di rapper emergenti; ma per capire lo svantaggio da cui partono questi utenti scegliendo di operare su SoundCloud basta fare caso ai numeri: tutti i canali dedicati ai repost e a “spingere la cultura rap (italiana)”, come si legge nella bio di Lil Electrocardiogram, non hanno più di qualche centinaio di follower e questo vale anche per molti dei rapper e delle crew che vengono condivisi.

Se pensiamo a come i video dei singoli vengano utilizzati nel rap per cercare la viralità e se facciamo un paragone con un canale come DISCOVERY CHANEL, che ha la stessa funzione di repost ma su YouTube conta 2700 iscritti, è lecito chiedersi perché qualcuno stia affidando l’avvio della propria carriera ad una piattaforma che in Italia è poco frequentata, o è frequentata da persone che non ascoltano un certo tipo di rap italiano. Una risposta plausibile è che molti di questi giovani artisti sono più influenzati dalla musica statunitense rispetto a quella italiana (non a caso rapper come Lil $adape e lo stesso RADICAL spesso cantano direttamente in inglese) e di fatto stanno cercando di ricreare un fenomeno che negli USA è già ampiamente affermato.

Un po’ come era accaduto nel primo decennio del 2000 con MySpace—cioè il motivo per cui artisti come Arctic Monkeys, M.I.A. e Adele hanno una carriera—la stragrande maggioranza dei nuovi "Lil" e "Young" sono diventati noti grazie alla visibilità raggiunta sul sito svedese. Il successo di rapper come XXXTentacion, 21 Savage, Lil Yachty, Lil Uzi Vert e Lil Peep ha fatto sì che intorno ad etichette come “mumble rap” e “cloud rap” si creasse un macrogenere che in America nessuno si imbarazza a definire SoundCloud rap, contenitore che accoglie indistintamente le varie anime del rap, dall’emo agli schiaffoni di distorsione, dal bragging tamarro al melodico-introspettivo.

Va però ricordato che prima di questa nuova ondata di artisti che ha rivoluzionato la storia recente del rap, su SoundCloud ci è passata gente come Vince Staples, Chance The Rapper, Mac Miller, la Odd Future di Tyler, The Creator. Tutti questi hanno sfruttato al meglio le potenzialità della piattaforma prima di affermarsi sui canali mainstream, pubblicando mixtape su mixtape (messi contemporaneamente in free download su DatPiff.com) che sicuramente sono stati decisivi nella formazione del loro pubblico. Questo ha iniziato ad associare SoundCloud ad un tipo alternativo di rap, senza filtri, senza la preoccupazione di rispettare determinati canoni e molto distante da ciò che si ascoltava in radio: quello di tape come Acid Rap o Delusional Thomas. E sono stati questi artisti, oggi nominati ai Grammy, ad aver spianato la strada alla nuova wave che sta influenzando anche il nostro paese.

A differenza di quanto è accaduto negli Stati Uniti, la quasi totalità dei nuovi grandi rapper italiani ha usato canali più tradizionali per raggiungere il successo. Forse proprio in mancanza di una vera cultura del mixtape (con alcune eccezioni), in Italia si è puntato sin dagli esordi su singoli video su YouTube, che oltre ad avere un impatto più diretto non comportano la necessità di scrivere un certo numero di brani per centrare l’obiettivo. Se pensate al vostro rapper italiano preferito e alla prima volta che lo avete ascoltato, probabilmente vi verrà in mente il primo video che avete visto, non la prima volta che lo avete cercato su SoundCloud; e non a caso artisti come Sfera, Ghali o la Dark Polo Gang hanno spinto subito sull’estetica dei loro singoli progetti e si sono dedicato solo più tardi alla qualità dei loro dischi, una volta raggiunto un pubblico adeguato.

Non è quindi un caso se il nome di Lil Kaneki, che opera da tempo su SoundCloud, ha cominciato a girare su gruppi Facebook come Diesagiowave solo alla pubblicazione di un video su YouTube insieme a Drast, "PSICOLOGI / DIPLOMA": un brano che al momento in cui scrivo ha quasi 70k visualizzazioni, guadagnate grazie a un'estetica stradaiola malinconica e una chitarrina che può ammaliare anche un pubblico che considera Polaroid di Carl Brave x Franco126 la cosa più rap che ascolta.

Considerato che in Italia si parla di SoundCloud rap relativamente da poco è impossibile prevedere i suoi sviluppi o fare paragoni con altre scene. Il segnale più incoraggiante per ora è la coesione che sembra esserci tra i rapper di diverse città italiane, che collaborano tra loro, organizzano eventi corali e si spingono a vicenda per guadagnare un po’ di visibilità. Magari la prossima volta che state per far partire la playlist Rap Italia: Battle Royale di Spotify fermatevi un attimo, cambiate app e provate a dare una chance a questa scena sotterranea.

Tommaso è su Instagram.

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