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Come Ariana Grande è diventata la regina del pop

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Luglio 2015, la scena del crimine è un negozio di donuts nel sud della California. Ariana Grande, all’epoca 23enne popstar in erba, fa quello che farebbe ogni ragazzina spensierata della sua età: assaggia una ciambella, la tocca con la punta della lingua e poi non la compra. Ok, fa un po’ schifo, ma non è nulla di così grave. Chi di noi non ha mai dato un morso di prova a un biscotto o bevuto a canna dalla lattina di un amico senza farsi troppi problemi?

Ora, per dovere di cronaca, vi devo ricordare qualche dettaglio in più. Ariana stava all’epoca con il suo fidanzato Ricky Alvarez, anche lui colpevole di aver dato una leccata di troppo a una ciambella di Wolfee Donuts. Il punto è che dopo aver posato il dolce con aria disgustata, Ariana ha affermato “Odio gli Americani e odio l’America”, probabilmente riferendosi all’eccessiva quantità di zuccheri. Per tutta risposta, le è stato revocato un invito ufficiale alla Casa Bianca (che probabilmente riceve solo persone che amano l’America), ma la verità è che dopo aver leccato quella ciambella la sua carriera non sarebbe stata più la stessa.

La scorsa settimana ha pubblicato “7 rings", il terzo singolo dopo il suo album di maggiore successo ad oggi, l’ipnotico e folle sweetener del 2018. Dopo “thank u, next” e “imagine”, questa traccia è l’ennesima conferma che Ariana è la regina pop della generazione Z. Ma ne parliamo tra poco. Adesso, torniamo a quel negozio di ciambelle. Perché nonostante lo scandalo, quel momento ha trasformato la popstar in un essere umano (ora alzi la mano chi non ha mai fregato nulla alle casse automatiche, o rubato manciate di campioncini in hotel). Da quel momento in poi Ariana popstar è diventata anche Ariana essere umano, una ragazza come tante altre che forse in un’altra vita era la tua migliore amica. Ariana, per esempio, suona il corno, da ragazzina metteva le sue canzoni su GarageBand ed è una grande fan degli Imogen Heap (basta ascoltare questo pezzo che sembra quasi una cover “goodnight n go”).

Dall’episodio della ciambella, sembra che Ariana sia molto più a suo agio con il suo lato più bizzarro e irriverente. Poco dopo, ha parlato dell’accaduto durante un’intervista al Saturday Night Live, dove si è esibita in un ormai celebre sketch autoironico in cui imita le sue colleghe cantanti ed è pazzesca. Un anno dopo, ha rilasciato a Billboard un’intervista per il servizio di copertina. È così che Ariana ha iniziato a raccontarsi in un modo tutto suo. Anche se all’inizio i suoi fan erano principalmente i ragazzini che la seguivano su Nickelodeon, con Yours Truly nel 2013 e My Everything l’anno successivo in particolare grazie ai singoli “Love Me Harder” e il featuring con Iggy Azalea “Problem”Ariana ha dato vita a un personaggio completamente nuovo. Per Dangerous Woman, nel 2016, ha creato una sorta di alter ego di se stessa, con completino di latex e orecchiette da coniglio. Dal pezzo su Billboard: “Ogni volta che mi viene un dubbio o rimetto in discussione scelte che dentro di me so che sono quelle giuste, magari solo perché gli altri mi stanno dicendo il contrario, penso, ‘Cosa farebbe quella bad bitch Super Bunny?’ Lei mi aiuta a prendere le decisioni giuste.”

Oggi, Ariana è pienamente cosciente della propria immagine. Questa è Ariana Grande-Butera: una giovane donna che cresce, fiorisce e vince. Ed è proprio questa Ariana che abbiamo visto nel suo singolo “thank u, next ”. Dopo quello che le è successo (e se non sapete di cosa sto parlando vi rimando ai giornali di gossip) si era detto davvero di tutto prima dell’uscita del singolo. Di cosa parlerà il suo prossimo pezzo, sarà sul suo fidanzato scomparso, sulla rottura con quello successivo e se sì, cosa dirà di loro? Tolta dal contesto, la canzone è un capolavoro pop. Ma anche considerato tutto il resto, comprese le parti più incasinate, la reazione rimane la stessa: Wow. Il pezzo ha un testo quanto mai necessario e puntuale. Ascoltandola, è impossibile non provare uno slancio di felicità, come quando fai il tifo per un’amica in difficoltà.

Non solo Ariana ha dimostrato di essere una vera dura, ma allo stesso tempo ha abbracciato e accettato la sua sfortunata situazione sentimentale con orgoglio. “Thank u, next” e “7 rings” sono tra i suoi brani migliori, e non è un caso che entrambi parlino della sua vita personale in modo così intimo ed esplicito. Con il terzo singolo, la storia continua. In questo brano seguiamo Ariana in un giro di shopping con le amiche dopo che ha restituito a Pete Davidson l’anello di fidanzamento. Come ha detto a Billboard, nella sua intervista da Woman of the Year: “Io e le mie amiche siamo andate da Tiffany insieme perché avevamo bisogno di un po’ di shopping-terapia. E sai che mentre aspetti da Tiffany ti danno un sacco di champagne? Ecco, a un certo punto eravamo così ubriache, che ci siamo comprate sette anelli di fidanzamento e quando sono tornata in studio, ho dato a tutti un anello dell’amicizia. Ecco perché li abbiamo tutti uguali, ed è così che è nata l’idea della canzone.”

Per quanto la traccia non sia altro che il racconto (arricchito) di un’esperienza personale, è anche, in un certo senso, una grande prova di forza. Un inno da vera rich bitch. E nonostante questa sfumatura capitalista del testo, c’è una buona dose di energia personale nella traccia; una storia che racconta di come i soldi non siano fondamentali, anche se è proprio quello che potrebbe sembrare in superficie. Come ha detto Ariana su Twitter, "'7 rings' è un inno all’amicizia. A come ti fanno sentire i tuoi amici. L’energia di ‘thank u next’ si è evolve e si trasforma in questo nuovo capitolo”.

Il tema reale è prendersi cura di sé nel modo più opulento possibile, anche se il massimo che puoi fare è sognare quello che racconta Ariana nella storia, che, per diversi motivi, è proprio quello a cui serve il pop: a farci viaggiare e trasformarci, per sentirci un po’ Prince nei suoi momenti migliori, o Adele quando aveva il cuore spezzato, o Lady Gaga scatenata sul dancefloor.

Questo nuovo capitolo della storia va ben oltre la musica di Ariana Grande, e si evolve in qualcosa di inaspettato. Durante il discorso che Ariana Grande ha pronunciato in occasione del premio Donna dell'Anno di Billboard, ha ammesso di aver vissuto un anno intenso, il migliore ma anche il peggiore della sua vita, e ha parlato di come, nonostante non si noti dall’esterno, la giovane popstar non abbia ancora messo ancora insieme tutti i pezzi. Guardarla parlare è uno spettacolo gioioso e traumatico al tempo stesso, perché lei stessa sembra ferita ma anche felice. Ma forse il sentimento che è emerso in modo più evidente è stato una sensazione di presa di potere, di empowerment. “Non lo dico con compassione”, ha detto. “Voglio dire a tutti quelli che mi ascoltano, che se non avete idea di quello che state facendo, non preoccupatevi, non siete soli”. Nel caso di Ariana, conoscendo la sua storia e il suo passato, le sue parole assumono un significato nuovo e autentico. Le sue parole sono fonte d’ispirazione, proprio quello che dovrebbero fare le parole di una popstar di successo come lei.

A parte questo, Ariana usa i social media per trasmettere il suo lato umano, per mostrarsi come una ragazza normale e simile a tutte le altre. Mi ricorda Rihanna che, prima di bombardarci di promo di Fenty, la sua linea make-up, postava su Facebook tutte le foto delle sue vacanze, e su Twitter messaggi tipo “FOTTITI SATANA!!! Vaffanculo!!!”. Anche adesso, in realtà, anche quando posta i prodotti Fenty, riesce sempre a essere simpatica. Rihanna è il modello della popstar diversa da tutte le altre: non è irraggiungibile come Beyoncé, ma anzi in qualche modo sembra vicina, come quell’amica delle medie con cui parli due volte l’anno, o quella tizia simpatica che hai incontrato in serata e ha un senso dell’umorismo assurdo. Ariana segue il modello Rihanna alla lettera, rilascia informazioni a poco a poco, e fa sentire i suoi fan coinvolti e vicini. Ma, come i the 1975, usa il linguaggio di internet, quindi scrive il titolo del suo disco in minuscolo, sweetener, e riposta su Twitter i commenti dei suoi fan usando il classico slang da chat e pieno di emoji.

Ovviamente, anche “7 rings” ha i suoi problemi. Ariana è stata criticata per aver usato un linguaggio inappropriato, per aver riempito il video della canzone di temi rap e Soulja Boy, Big Sean e Princess Nokia l’hanno accusata pubblicamente di plagio e appropriazione culturale. Ora, per quanto questo tema sia profondamente importante, richiederebbe un intero articolo a sé e non è questo il momento giusto per affrontarlo.

Problemi con i colleghi a parte, nella canzone Ariana esprime inequivocabilmente se stessa. È una storia vera, tanto per cominciare. Ma soprattutto, Ariana è una donna che ha il controllo totale sulla sua immagine, sulla sua personalità. Il Donutgate ci ha fatto conoscere la ragazzina spensierata che lecca le ciambelle. Le sue nuove canzoni ci hanno fatto scoprire Ariana Grande, la popstar più rappresentativa di questa generazione.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey UK.

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Cosmo, il Forum e di cosa parliamo quando parliamo di "rave"

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Una precedente versione dell'articolo non esplicitava bene che il termine "rave" non era stato usato personalmente da Cosmo riguardo al concerto di sabato sera. Ci scusiamo con lui e con il suo team.

Vuoi per la Crusca che si destreggia tra un “petaloso” e un “scendi il cane che lo piscio”, vuoi per la Treccani che scopre l’indie, ma ultimamente ho visto le mie sicurezze linguistiche vacillare. No, ok, scherzo; sono sempre stato fermamente convinto che la lingua debba evolversi, mutando di pari passo con il contesto in cui viene utilizzata, proprio perché di quel contesto è mezzo espressivo. Sono però altrettanto convinto che, come diceva qualcuno, “le parole sono importanti”. Declinando questo discorso in ambito musicale, uno degli eventi recenti più significativi per la lingua della critica musicale italiana è stato sicuramente il passaggio dal termine indie al neologismo itpop, di cui abbiamo già intensamente analizzato l’ascesa e i multiformi significati.

Dopo soli pochi anni di presenza nell’industria, l’itpop è divenuto ormai talmente reale (e talmente redditizio) da diventare, a tutti gli effetti, il pop italiano, trainato da meccanismi consoni a una grande macchina dello spettacolo ben più vicini a Sanremo che all’underground degli albori. In questo percorso ormai prestabilito, è evidente che i palazzetti rappresentino una tappa essenziale, la prova del nove per un artista in ascesa che voglia davvero testare la propria caratura. Tra chi è riuscito a sconfiggere queste titaniche figure di cemento ricordiamo Calcutta, i Thegiornalisti, Ghali e Francesca Michielin. Nel weekend, e ve ne sarete sicuramente accorti aprendo i social, è stato il turno di Cosmo. La chiusura del Cosmotronic tour si è svolta infatti al Forum di Assago, il gran visir dei palazzetti: di fronte a migliaia di persone e in un tripudio di ospiti, luci e colori, è stata sancita l’ascesa di Cosmo nell’Olimpo itpop.

cosmo forum milano francesco prandoni
Cosmo al Forum di Assago (foto di Francesco Prandoni)

Fin qui, tutto giusto e meritato. Dove sta, quindi, il problema?

Il problema sta nelle parole. Ciò che mi è sembrato sbagliato è il lessico utilizzato dal pubblico e dai media nell’hype creato prima dello spettacolo stesso. Resta che anche dopo uno show del genere, io avrei continuato a dare per scontato, per l’ennesima volta, che parlando di Cosmo avremmo parlato di itpop. Perché, quindi, si sono scomodati termini come rave, techno e clubbing, Noisey compreso?

Credetemi, è davvero difficile scrivere ciò senza venire tacciati di hating e senza sentirsi un vecchio che grida alle nuvole. Io sono convinto che Cosmo faccia del buon pop e che sia un fan sincero ed entusiasta di tutto quel che concerne il club. Da quanto emerso in questi giorni, però, mi pare di capire che molti convengano sul fatto che quella di Cosmo è techno, che quello di sabato era clubbing, che questa cosa qui è un rave. In questa euforia collettiva accelerata da internet, è davvero facile andare fuori strada, finendo per adorare dei simulacri che fanno perdere di vista le basi imprescindibili e originarie di una realtà fondamentale come la club culture.

cosmo forum milano francesco prandoni
Cosmo al Forum di Assago (foto di Francesco Prandoni)

Per fare techno non basta aggiungere una cassa dritta a un pezzo cantato in italiano (in tempi non sospetti lo ha fatto anche Nek, senza alcuna velleità di riempire il Berghain), e nemmeno occorre sparare coriandoli dai cannoni mentre, a petto nudo e dopo tre cambi d’abito, si guarda una folla adorante. Quella, semmai, è la declinazione più appariscente della questione, presa in prestito dai grandi festival ed esacerbata dagli eventi tech-house ed EDM, col DJ elevato sul palco di una grande scenografia a godersi il suo status di semidio.

Clubbing, in origine, significa condivisione di intenti, comunanza, annullamento delle barriere, e non spalti separati da parterre con tanto di tribune differenziate in base al prezzo del biglietto. Una festicciola in tram non è un rave, è semplicemente una trovata commerciale – ed è, tra l’altro, una cosa che potete organizzare anche voi se avete un po’ di soldi da spendere e un po’ tanto cattivo gusto. Un rave non può dirsi tale senza le componenti irrinunciabili di illegalità e gratuità, a cui naturalmente seguono l’assenza di sponsor e pubblicità in favore di una organizzazione orizzontale e comunitaria. Rave e clubbing, insieme, presuppongono da sempre una ribellione ideologica al pensiero dominante, alla società. Ancora una volta, non sto dicendo "rave = buono / Cosmo = cattivo". Sto dicendo che quello di Cosmo, partendo dall’estetica, passando per i contenuti, sino all’appartenenza culturale, è pop e a quel circuito, giustamente, aderisce. È pop elettronico, danzereccio e ben fatto che ammicca sornione a quel mondo là, ma sempre pop rimane.

Questo video qui sopra, nonostante la buona volontà di trasmettere un sacrosanto sentimento di unione e una coscienza politica abbastanza schierata, rischia di banalizzare, riducendoli a meri slogan, i concetti cardine (coscienza del sé, inclusività, piena automazione) di correnti che ricercano l’eversione delle strutture capitalistiche intrinseche nel mondo contemporaneo. Pur ribadendo i lodevoli input di pensiero, è impossibile non fermarsi a pensare a cosa significa il fatto che una popstar predichi la liberazione degli spazi, dei corpi e delle menti dal palco di un palazzetto davanti a una folla che ha pagato un sacco di soldi per l'ingresso. La musica di Cosmo nasce e prolifera grazie a quelle stesse strutture che finge di mettere in discussione. Il risultato è un generico messaggio assimilabile a “divertiamoci tutti insieme” – in fin dei conti applicabile a qualsiasi contesto di aggregazione e svago. Quel video lì sopra, anzi, rischia di diventare controproducente nel suo successivo culminare, guarda caso, nella proiezione sugli schermi della sigla MDMA, in una narrazione spettacolarizzata di quel “popolo della notte” già troppo spesso stereotipato negativamente in TV.

Sabato sera ho visto amici, virtuali e non, solitamente convinti della classica dicotomia distorta, stigmatica ed errata per cui “musica elettronica = droga”, riempirsi i polpastrelli di techno e clubbing, fare story euforiche di fronte a quattro lettere che stanno per 3,4-metilenediossimetanfetamina sul palco dove a breve si esibiranno Marco Mengoni, Emma Marrone e i Negramaro. Tutto ciò è quanto meno strano, e ancor più strano è la normalizzazione di tale processo. Non molto tempo fa, a proposito dello show di Aphex Twin a Club to Club, ci chiedevamo perché l'underground vada bene solo se è veicolato da un'icona; ora sorge spontaneo chiedersi perché il clubbing vada bene solo se è veicolato dal pop.

cosmo forum francesco prandoni
Cosmo al Forum di Assago (foto di Francesco Prandoni)

Partendo da chi i rave li organizzava per davvero, passando per il compianto DalVerme e un Macao costantemente in lotta, come siamo arrivati al punk evocato da Gazzelle, al tour sopra la techno di Francesca Michielin e alla techno da palazzetto di Cosmo? È così che diventa palese l’accettazione silente di una rottura nella continuità temporale della resistenza artistica in favore di una controcultura ripulita e, ironia della sorte, idolatrata nella sua accezione più scarna e puerile: clubbing e punk per famiglie. Viviamo in tempi strani, tempi in cui un termine come rave si riveste di una patina edulcorata mentre centri di aggregazione socioculturale che propongono valori e programmi concreti sono guardati con sospetto. In tutto questo, intanto, il mainstream continua il suo inarrestabile processo di assorbimento di correnti antagoniste che, in quanto tali, nascono proprio per contrastare lo status quo stesso. E ne estrapola solo alcuni aspetti, riproponendoli alle masse privi di tutte le cause e le implicazioni che stavano alle fondamenta movimenti originari, ormai sempre più destinati alla ghettizzazione e alla scomparsa.

Non è una colpa vivere del sano e spensierato divertimento a un concerto, soprattutto se nel segno di un credo positivo, e men che meno è reato scoprire “il club” attraverso la musica di Cosmo e di Francesca Michielin, o “il punk” attraverso Gazzelle. Ma è sbagliato pensare che questa faccia sbarbata della medaglia sia l’unica disponibile, credendo che clubbing, techno, punk e rave siano quelle cose lì che si fanno nei palazzetti. Questi episodi dovrebbero diventare i presupposti per creare maggior consapevolezza nel pubblico, generando la voglia di risalire la china sino alle radici nascoste da cui la grande entità capitalista attinge costantemente linfa vitale. Considerando la portata gigantesca del fenomeno, però, per rendere possibile tutto ciò, occorrerà ripartire dalle cose più semplici, dalle unità base: le parole e il loro significato. Ritornando a dare al pop quel che è popolare senza scomodare un linguaggio che non gli appartiene, infatti, potremo provare a scongiurare l’estinzione delle controculture.

Simone è producer/DJ e scrive di musica per DeerWaves, Zero e Noisey. Seguilo su Instagram.

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Guarda Noisey Meets Cosmo:

Abbiamo chiesto a un avvocato che cosa rischia 21 Savage

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Domenica 21 Savage, il cui vero nome è She’yaa Bin Abraham-Joseph, è stato arrestato dall'ICE, cioè dall'agenzia per l'immigrazione e le dogane statunitense, con l'accusa di essere un immigrato irregolare. Il portavoce dell'ICE Bryan Cox ha rilasciato una dichiarazione ufficiale sull'accaduto e ha specificato che l'arresto è avvenuto nel contesto di "un'operazione morata" nell'area di Atlanta. Ha inoltre detto che "le procedure di deportazione contro il rapper cominceranno presto in un tribunale federale".

Stando a un certificato di nascita ottenuto dalla celebre agenzia di stampa Reuters, 21 Savage è nato nel 1992 a Londra, nel borgo di Lambeth. Le autorità sostengono che Abraham-Joseph sia arrivato (e poi rimasto) negli Stati Uniti nel 2005 con un permesso temporaneo della durata di un anno e mai rinnovato. A due giorni dal suo arresto 21 è ancora detenuto e gli è stata negata la cauzione. Il che è piuttosto singolare, dato che stiamo parlando di una persona che la settimana scorsa è stata protagonista di un evento prima del Super Bowl insieme a Ludacris e ai Migos, ma proviamo a mettere ordine in tutto quello che è successo.

L'avvocato di 21 Savage, Charles H. Kuck, ha rilasciato una dichiarazione a Buzzfeed News in cui sostiene che l'ICE abbia arrestato il suo cliente "basandosi su informazioni sbagliate riguardo a vecchie accuse penali". Secondo Kuck 21 avrebbe inoltre fatto domanda per una U-Visa, cioè un permesso di soggiorno accordato a persone che hanno subito violenza fisica o mentale sul territorio degli Stati Uniti e può quindi ritenersi legalmente non deportabile. L'avvocato ha inoltre posto dubbi sulle tempistiche dell'arresto, dato che l'Ufficio Immigrazione statunitense sa del suo status legale almeno dal 2017. Ecco la sua dichiarazione:

L'ICE ha arrestato She’yaa Bin Abraham-Joseph, il celebre artista e autore di Atlanta conosciuto come "21 Savage". Lo ha fatto basandosi su informazioni sbagliate riguardo a vecchie accuse penali e ora si rifiuta di scarcerarlo su cauzione, nonostante abbia fatto domanda per una U-Visa (in quanto vittima di crimini) all'Ufficio Immigrazione, e che può ritenersi legalmente non deportabile. Il signor Abraham-Joseph non ha mai nascosto il suo status di immigrato al governo degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Sicurezza Nazionale sa dove vive e conosce la sua storia almeno dal 2017, cioè dal momento in cui ha fatto domanda per la U-Visa, e nonostante questo non ha agito nei suoi confronti fino all'ultimo fine settimana. L'ICE può continuare a tenere in carcere solo persone considerate una minaccia per la comunità, o che potrebbero ragionevolmente scappare dagli Stati Uniti e non presentarsi in tribunale. Ovviamente il nostro cliente non è a rischio di fuga, dato che è ampiamente riconoscibile e un membro importante dell'industria musicale. Inoltre il signor Abraham-Joseph non è un pericolo per la comunità. Anzi, i suoi contributi alle comunità locali e alle scuole dell'area in cui è cresciuto sono esempi del tipo di immigrato che vogliamo in America.

L'ICE non ha accusato il signor Abraham-Joseph di alcun crimine. Quando era un minore la sua famiglia è rimasta negli Stati Uniti anche al termine del loro permesso di lavoro, come quella di quasi due milioni di altri bambini, ed è rimasto privo di uno status legale senza averne colpa. Questa è una violazione dei diritti civili, e la detenzione del signor Abraham-Joseph non ha alcuno scopo se non quello di punirlo senza motivo e provare a intimidirlo, così che rinunci al suo diritto di combattere per restare negli Stati Uniti. Ha avuto successo nonostante le difficili circostanze della sua gioventù e ha dato alla nostra società contributi che rivaleggiano quelli di un qualsiasi cittadino nato in America. Il signor Abraham-Joseph ha figli americani che supporta e può considerarsi esente dalla deportazione. Combatteremo insieme a lui per liberarlo, per la sua famiglia e per il suo diritto di restare in questo paese. Nessuno si aspetterebbe di meno da lui.

Nonostante 21 Savage sia arrivato negli Stati Uniti da un paese che solitamente non consideriamo come un posto da cui la gente scappa, la sua situazione è comunque desolante e sottolinea la natura oppressiva delle politiche di immigrazione degli Stati Uniti. 21 aveva 12 anni quando è arrivato negli Stati Uniti ed era solo un adolescente quando il suo permesso di soggiorno è terminato. Come centinaia di migliaia di bambini che vivono tuttora negli Stati Uniti, è stato portato nel paese sotto circostanze su cui non aveva il minimo controllo. Oggi ha 26 anni e ha passato più che metà della sua vita in una nazione che adesso lo minaccia di deportazione per il comportamento tenuto dai suoi genitori anni e anni fa. Il che è più che ingiusto.

L'arresto di 21 arriva dopo due anni in cui Trump ha aumentato largamente le capacità repressive dell'ICE. Nonostante il direttore della sezione di Atlanta dell'ICE abbia dichiarato che la sua agenzia "sia concentra sull'arresto di persone che pongono minacce alla sicurezza pubblica e nazionale", le statistiche dimostrano il contrario. Sotto Trump, l'arresto di persone non criminali è aumentato del 171%. La dichiarazione pubblica di Cox sull'arresto è in linea con le intenzioni dichiarate dall'agenzia: "Il signor Abraham-Joseph è stato arrestato dall'ICE in quanto illegalmente presente sul territorio degli Stati Uniti, e in quanto pregiudicato". Ma TMZ riporta che il reato del 2014 su cui Cox si basa per definire 21 un "pregiudicato" è stato cancellato. Quella dichiarazione di colpevolezza non appare quindi più sulla sua fedina penale, e 21 non è quindi tecnicamente un "pregiudicato". È a questo che il suo avvocato si riferisce quando parla di "informazioni sbagliate".

Il tentativo dell'ICE di criminalizzare il passato recente di 21 viene controbattuto punto per punto dalla dichiarazione del suo avvocato. C'entra il fatto che supporti tre bambini nati negli Stati Uniti e quindi regolari cittadini, c'entrano i suoi contributi alle comunità locali, c'entra la sua domanda per la U-Visa. Queste ultime vengono accordate molto raramente (solo 121 nel 2015, per esempio), dato un lungo processo burocratico. Una stima del 2017 sosteneva che gli immigrati devono aspettare quasi tre anni prima di essere messi sulla lista d'attesa per le U-Visa, se la loro domanda è approvata. In ogni caso, la domanda dimostra che le autorità erano a conoscenza dello status di 21 Savage e che lui era conscio di non poter restare negli Stati Uniti a tempo indeterminato senza mettersi in regola.

L'ironia è che tutto sarebbe potuto essere molto più semplice. Se 21 fosse stato residente da qualche altra parte nel mondo avrebbe potuto fare richiesta di diversi tipi di visti che gli avrebbero permesso di entrare negli Stati Uniti senza problemi. Ci sono moltissime stelle del cinema, artisti e atleti stranieri che risiedono in America grazie al permesso per "straordinaria abilità", concesso a chi si distingue in una particolare arte o disciplina. I suoi tre figli, al compimento dei 21 anni, avrebbero potuto fare una richiesta ufficiale per portarlo legalmente negli Stati Uniti. Il governo americano offre inoltre la possibilità di pagare per ottenere permessi di soggiorno. Ma la permanenza illegale di 21 sul territorio degli Stati Uniti gli avrebbe probabilmente impedito di seguire queste strade per ottenere la cittadinanza.

Non è chiaro che cosa succederà ora. Gli avvocati di 21 sostengono che debba essere liberato, in attesa del responso alla sua domanda di permesso, e che il suo ruolo e la sua persona non debbano essere considerati "a rischio". L'ICE invece agisce secondo una logica di discrezionalità dell'azione legale e può quindi detenere 21 Savage finché non viene fissata una data in cui svolgere un processo. Le linee guida dell'Ufficio Immigrazione dicono che "il fatto che un reato sia stato cancellato non elimina la relativa condanna" e che non ha "alcun effetto su arresti dovuti a crimini legati all'immigrazione". Solo che, a differenza della stragrande maggioranza delle persone a cui succede qualcosa di simile, 21 ha risorse economiche tali da poter assumere avvocati di prim'ordine e una fama tale che il suo caso è seguito con attenzione da media nazionali e internazionali. Il che ha un peso, negli Stati Uniti del 2019.

Jessica Meiselman è un'avvocato e una scrittrice di New York. Seguila su Twitter.

Una versione di questo articolo è comparsa originariamente su Noisey US.

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Le canzoni più nazional-popolari della storia di Sanremo

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È il 2019 ed eccoci nuovamente travolti dall'onda anomala di Sanremo, che torna sempre nonostante ogni anno lo diamo per spacciato. Ma diciamolo, oramai Sanremo lo guardano tutti, soprattutto chi lo odia. È un paradosso, ma funziona. Mi domando perché questa gente non si guardi, chessò, il circo in diretta o Holiday On Ice. Sarebbe stato bello farlo condurre a Celentano, questo festivalaccio, così magari ci avrebbe risparmiato il suo cartone animato e ci avrebbe invece regalato il mitico numero di far spegnere la TV in contemporanea a milioni di spettatori: così, sì, avremmo raggiunto l’apoteosi, il riscatto, la rivoluzione, altro che il “festival politico“ di Baglioni.

A proposito: ma politico de che? Quando mai a Sanremo c'è stata la volontà di parlare di cose serie? Suvvia, è il festival della canzonetta. A parte rare eccezioni, il livello è quello delle chiacchiere da bar, degli svagheggiamenti da ubriaconi, delle riflessioni durante una partita a carte. Anche uno teoricamente politicizzato come Finardi si è presentato a Sanremo con una canzone su Lara Croft di Tomb Rider. A Sanremo, più che la politica, a farla da padrone è il pressappochismo nazionalpopolare, l'arma più efficace per raggiungere l'unico scopo: vincere. Quale miglior modo per ottenere i favori della maggioranza più ampia possibile che essere superficiali, ambigui e subdoli? Ultimamente gli Of New Trolls (cioè i tre dei New Trolls che non sono in una delle altre cinquantasette band tributo/derivate dai New Trolls) hanno fatto polemica per essere stati esclusi dalla competizione sostenendo che la loro canzone fosse scomoda perché toccava discorsi politici e di attualità controversi, ma se ascolti la canzone ti rendi conto non si pone proprio il problema né a livello lirico né musicale, perché è terrificante. E pensare che i New Trolls, quelli veri, si presentarono al Festival con "Faccia di cane", con il testo scritto da nientepopodimeno che Fabrizio De André. Lì l’argomento emarginazione era trattato in modo serio anche se, ovviamente, non esplicito. Ma almeno in quel pezzo non c’era la parolina magica: Italia.

È questo infatti l'"Apriti Sesamo" per il cuore degli italiani, come dimostra la canzone di Motta in concorso quest'anno. Parliamone bene o parliamone male, di st'Italia, purché se ne parli. E allora adesso vi beccate una sfilza di capolavori del nazionalpopolarismo sanremese, visto che a quanto pare non passa mai di moda.

Elio E Le Storie Tese - "La terra dei cachi" (1996)

Non ve l’aspettavate eh? Invece partiamo proprio dai paladini dello sberleffo intelligente, che in qualche modo hanno sempre cercato di smuovere le acque dei benpensanti musicali e non. Elio e le Storie Tese si presentarono a Sanremo con un brano che prendeva per il culo l'Italia e arrivarono al secondo posto (qualcuno dice anche che ci furono dei brogli per non farli vincere), trasformandosi nell'eccezione che conferma la regola.

Il pezzo è uno dei più amati del loro repertorio, e del resto come potrebbe essere altrimenti? L’arrangiamento ineccepibile e le esibizioni bizzare sul palco dell'Ariston (come quando velocizzarono il brano fino a farlo durare 55 secondi per aggirare l'obbligo di farne ascoltare solo un minuto) sono rimaste nella storia. Ma leggiamo il testo: non è come leggere un gazzettino locale? Non ci sono neanche tante parolacce, nulla che sfidi il buongusto; aleggia semmai una sorta di “sdegnata educazione”, ironica ma anche seriosa. I nostri poi ci presero la mano nella tecnica nazionalpopolarismo al contrario, rientrando dalla porta sul retro con "La canzone mononota”, che ottenne il secondo posto e il plauso generalizzato. Il fatto però è che l’armonia invece era molto complessa. Se l’avessero fatta davvero tutta di una nota sola li avrebbero cacciati a calci, garantito.

Pupo, Emanuele Filiberto, Luca Canonici - "Italia amore mio" (2010)

Altro eroe di questa categoria fu Pupo, il quale si presentò a Sanremo insieme a Emanuele Filiberto, erede di casa Savoia, e lo sconosciuto tenore Luca Canonici, con quella che dovrebbe essere una lettera d’amore all’Italia da parte dell'ex-esiliato di famiglia reale. La cosa assurda è che Filiberto in Italia ci era tornato ormai da un pezzo, poiché gli effetti del provvedimento ai suoi danni erano cessati nel 2002 (con il terribile effetto collaterale della sua trasformazione in “personaggio televisivo”). Con "Italia amore mio", i nostri inanellano una serie di luoghi comuni strepitosi che rendono questo brano un capolavoro del genere.

Studiato a tavolino per dare scandalo, in effetti riuscì ad essere più dirompente di qualunque provocazione degli Elii. Il picco fu raggiunto con l'incredibile operazione di duettare con l’allora allenatore della nazionale Marcello Lippi, tanto per non influenzare nessuno a casa. Si incazzarono tutti: quelli che vedevano nel rampollo dei Savoia sul palco un evidente vilipendio alla bandiera e anche gli orchestrali che lanciarono letteralmente in aria gli spartiti quando seppero che il brano era in corsa per il podio. "Italia amore mio" si classificò seconda, scatenando ulteriori polemiche sul sistema del televoto (e non ci stupisce: d’altronde Pupo aveva già confessato di aver interferito con le votazioni nel 1984). A livello commerciale, il brano non andò da nessuna parte, ma come performance e allegoria della vacuità nazionalpopolare è il massimo. Tanto di cappello.

Pierangelo Bertoli - "Italia d’oro" (1992)

La buonanima di Bertoli, nonostante la fama di cantante impegnato, comunista e incazzato, aveva senso dell’umorismo: nel brano dei soliti Elio e le Storie Tese “Giocatore mondiale” prendeva in giro i luoghi comuni sui disabili e quindi su lui stesso. Nel caso, invece, della canzone di cui stiamo parlando gli rodeva parecchio il culo e non c’è traccia di ironia. Ma ahimè, nonostante dica cose giustissime sulla situazione italiana del periodo le dice in un modo ”militantemente banale”, con una base a mo' di ballata folk inadatta a una canzone di protesta. E nel testo, immancabile, la parola magica "Italia", che ovviamente fa drizzare le antenne al pubblico medio, che infatti premiò la canzone facendola schizzare al quarto posto.

Sfido, è una canzone che mette con una certa enfasi alla gogna il potere, che al popolo è inviso finché non si sfoga tirandogli monetine e sostituendolo subito dopo con un potere ancora peggiore, magari da venerare, visto che non conosce vie di mezzo. "Italia d’oro" è proprio questo, suo malgrado: un inno dell’italiano medio, forcaiolo e voltagabbana. Ma la genialata di questo pezzo, che dovrebbe essere "contro", è l’inno nazionale che entra alla fine del pezzo. Sotto col patriottismo! Stringiamoci sotto la bandiera! Insospettisce poi il fatto che tanti abbiano letto in questa canzone una profezia dello scandalo di Tangentopoli, visto che nel 1992 anche i sassi sapevano che la corruzione dilagava (il Pierino di Alvaro Vitali la denunciava già nei primi anni Ottanta). Si diceva, quindi, l’ovvio travestendolo da provocazione.

E pensare che Bertoli qualche anno prima, nel 1984, aveva previsto con agghiacciante lucidità, amara e pungente ironia, senza facili scappatoie retoriche quello che sta succedendo oggi nel brano elettronico "Nel 2000". Quella sì che meritava il podio.

Lo Stato Sociale – "Una vita in vacanza" (2018)

E sul podio ci arriverà più avanti Lo Stato Sociale con una canzone in cui la parola Italia non si legge, è vero, ma il cui testo è evidentemente modellato sui malcostumi del Bel Paese, senza ombra di metafora. Al suo posto fa capolino l’eroe nazionale e una sfilata di macchiette del nostro paese, dal baby pensionato al disoccupato. E poi ecco il ritornello liberatorio in cui "nessuno ti dice sei dentro sei fuori". La protesta è alla fin fine solo una sfilza di lamentele. Ne avevamo già parlato su Noisey:

Lodo e compagni si sono limitati a fare quello che hanno sempre fatto: scrivere un ritornello ammiccante, dire cose che avrebbero fatto dire al pubblico informe "hey, conosco questa parola!" e fare una baraccata sul palco per sottolineare la pretesa assenza di serietà del loro gesto musicale.

Ecco, la baraccata. Se il freddo elenco di luoghi comuni sulla nostra bella e tormentata Italia non fosse bastato, ecco lo stratagemma della (meravigliosa, quella sì) “coppia di anziani che ballano” di battiatiana memoria, che ha strappato abbastanza voti al pubblico per un glorioso e inaspettato secondo posto.

Tricarico – "Tre colori" (2011)

Personaggio assurdo Tricarico, famoso per il suo verso “puttana la maestra“. Con il suo modo strambo e malato di porsi, nessuno si sarebbe aspettato che potesse cimentarsi in una canzone sulla patria. E invece i tre colori del titolo sono proprio quelli della bandiera! Il testo ribadisce l’amore per il suol patrio e ricorda chi è morto combattendo per difenderne la libertà, e vabbè.

Il pezzo in pratica è una specie di omaggio ai brani di Roger Waters di The Final Cut dei Pink Floyd, una marcetta tutta fiati, solennità e malinconia. Ma la differenza è che Waters narra di disertori, di antimilitarismo. Qua, anche se apparentemente si parla di unità del paese al di là delle ideologie, si canta un’ode a farsi macellare per un’idea. L'occhiolino definitivo al pubblico? "Tre colori" ha partecipato all'edizione del 2011, nel 150ennale dell’unità d’Italia. Capito Tricarico?

Emma – "Non è l'inferno" (2012)

E l’occasione di grufolare nel trogolo della nostra bella Italia non poteva sfuggire a uno che il concetto di paraculaggine nella musica nazionalpopolare l'ha innovato e portato a nuove vette: Francesco Silvestre dei Modà, una band che parla direttamente al minimo comune denominatore del Paese. Nel 2012 scrisse un brano per Emma Marrone, uno dei tanti prodotti di Amici, con un andazzo armonico melodico e un arrangiamento che pare la pubblicità di Intima di Carinzia. È "Non è l'inferno", ma invece lo è: su un tema di base che si può riassumere in "l'italiano non arriva a fine mese", sfila una vera e propria parata di luoghi comuni all'italiana: gli italiani che fanno i sacrifici, gli italiani che hanno fatto la guerra, gli italiani che è sempre colpa degli altri, gli italiani che governo ladro, gli italiani che danno il sangue per il loro paese. Immancabile la svolta finale positiva, perché l'italiano a modo suo ce la fa sempre. Mai formula fu più perfetta per la vittoria.

È lontano lo stile di un grande come Toto Cutugno, che con "L’italiano" metteva in luce le varie contraddizioni di un paese con piccoli spaccati di vita quotidiana (e soprattutto "un partigiano come presidente" che metteva i puntini sulle i). Qua semplicemente si scrive la resa di un paese al suo destino piagnucoloso in attesa del prossimo collasso: lo stesso collasso che rischio io ascoltando questa canzone.

Quindi, come diceva Bennato, sono solo canzonette: ma che politica, che cultura. A Sanremo non vi aspettate colpi di reni, semmai preparatevi alle fitte per l'imbarazzo. E se questo articolo si potesse prendere come guida per individuare in anticipo il vincitore di questa edizione? Chissà che in questa prima edizione dell'era "sovranista" non si sconvolgano le carte e il podio non spetti alle canzoni che non parlano dell'Italia. Che forse, negli ultimi mesi, si è già detto abbastanza.

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo: Italian Folgorati.

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"Rolls Royce" di Achille Lauro è la nuova "Vita Spericolata"?

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Quando a dicembre è uscito il listone dei partecipanti a Sanremo 2019 la prima cosa che saltava all'occhio era la quantità di artisti relativamente giovani che sarebbero saliti sul palco dell'Ariston. C'erano eroi del vecchio indie italiano come Motta, Ex-Otago e Zen Circus, giovani popstar come Ultimo e Irama, rapper-cantanti come Ghemon e Mahmood. E poi c'era Achille Lauro.

Dopo queste prime due serate ho la certezza che l'unico artista in grado di causare una reazione viscerale nel pubblico, o almeno in una sua parte, era proprio lui. La cosa divertente è che ci è riuscito nonostante si sia presentato in una versione molto più pacata e ingessata rispetto a quanto ci ha abituato lungo il corso della sua carriera, sia nell'immagine che nell'immaginario.

"Rolls Royce", la canzone in gara, non è un pezzo spiazzante. È un brano abbastanza lontano dalle più audaci previsioni che si era meritato, e che anche per questo divide. Per Rolling Stone, ad esempio, è l'ennesimo capitolo della "farsa" del rap (o del rock) che va a Sanremo, secondo quella regola per cui gli artisti più sopra le righe si presentano all'Ariston con le migliori intenzioni, ma poi finiscono - puntualmente - risucchiati dall'austerità dell'ambiente circostante, inscenando una versione di sé "normalizzata", più debole di quanto sarebbe legittimo aspettarsi.

Questo è vero: sarebbe stato bello se all'Ariston fosse andato un nuovo episodio di quella che Lauro ha chiamato samba-trap. Invece la scelta di Lauro, Boss Doms, Frenetik e Orang3 è ricaduta su un pezzo rock tradizionale, con poco autotune (tra l'altro impostato con la tonalità sbagliata durante la seconda esibizione) e tante chitarre elettriche. Se il lavoro alla fine è comunque riuscito nel suo intento di sorprendere il pubblico probabilmente il merito sta in due fatti. Uno è l'assoluta distanza originale fra Sanremo e artista, grazie alla quale anche un ravvicinamento del genere non è stato doloroso. L'altro è il parallelo con "Vita spericolata" di Vasco Rossi.

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Vasco Rossi canta "Vita Spericolata" a Sanremo 1983, clicca sull'immagine per guardare il video dell'esibizione su YouTube.

"Voglio una vita spericolata" Lauro lo scrisse su Facebook a luglio 2016. "Rolls Royce" è la realizzazione in musica di quel pensiero e di quella citazione: nel brano ci muoviamo fra citazioni nel riff di "1979" degli Smashing Pumpkins e del testo di Vasco ("Rolls Royce, voglio una vita così", "Non è follia ma vivere" e altri passaggi che già sappiamo tutti). I media, dal Corriere ad Avvenire , non si sono lasciati scappare un gancio così facile: in fondo il riferimento a quel brano storico è esplicito, quasi se ne volesse suggerire una versione aggiornata. E allora vale la pena chiedersi: siamo veramente di fronte alla "nostra" Vita spericolata?

Una prossimità concettuale fra i due c'è: nello spirito con cui sono saliti sul palco, nella tipologia di storie che raccontano e nel sogno che dicono di avere. Nel 1983 Vasco incarnava una realtà fino ad allora sottratta all'attenzione dell'Ariston: lo sguardo perso, l'atteggiamento da reietto appena uscito da Amore Tossico, il desiderio di una vita "come Steve McQueen". Era uno spaccato degli Ottanta portato avanti dai tempi di "Siamo solo noi" e "Fegato, fegato spappolato", e che in quel momento l'ancora-rocker modenese aveva deciso di sbattere in faccia alle televisioni con orgoglio.

Lauro, non so dire quanto consapevolmente, fa qualcosa di simile. Disegna il sogno di una vita "da rockstar" aggiornato al 2019 e lo firma con l'edonismo di cui il suo personaggio è proiezione e quasi paladino. "Rolls Royce", insomma, racconta il mondo di Achille, la trap nell'epoca della diffidenza e dell'ignoranza. Ne ripercorre per molti versi l'estetica del riscatto e dell'ostentazione e si lascia andare anche a un po' di iconoclastia à la Vasco ("non è amore, è un sexy shop"). Non si tratta di un pezzo trap, e neanche di alt-rock, ma di un’alternativa molto più morbida e “sanremabile”.

achille lauro rolls royce sanremo video
Screenshot dal video ufficiale di "Rolls Royce" di Achille Lauro, cliccaci sopra per guardarlo su YouTube.

Al di là di questi compromessi il punto è che c'è affinità fra i due pezzi, ma anche una serie di scostamenti. Se Vasco parlava di un'idea di vita, Lauro fa una lista di vite già vissute. Cita miti, nomi, luoghi comuni sul rock da enciclopedia e fa perno quasi per intero su immagini del passato. Ci sono Elvis, Amy Winehouse, i Doors: riferimenti cristallizzati che siamo costretti a viverci di riflesso. Anche il video, impostato e quasi irreale nella sua coreografia vintage, esprime un'idea di stasi.

Come il Blasco, Achille sembra orgoglioso del suo racconto, ma al tempo stesso è figlio di un altro mondo. Mentre il modenese reclamava spazio per i "suoi", il piglio di "Rolls Royce" è malinconico, più vago e debole, dismesso, persino disilluso e nostalgico di un'epoca che non c'è più, mai vissuta. È più individualista che generazionale. Le chitarre che vanno piano, gli ammiccamenti vintage, i ritmi forsennati di Pour l'amor che si spengono: sembra quasi una richiesta di tregua dagli eccessi, più che un desiderio.

Insomma, "Rolls Royce" può essere la nostra "Vita spericolata", ma solo se ci impegniamo a riconoscere il gioco di richiami organizzato da Lauro e dal suo team di produttori e a costruirci sopra un ragionamento sui tempi che cambiano, sulle discrepanze tra il sogno degli anni Ottanta e la disillusione degli anni che stiamo vivendo. Ad ogni modo, nelle classifiche parziali del Festival Achille Lauro non ha molto brillato; Vasco arrivò penultimo. Si sa mai che a festival finito ci scappi un paragone più concreto tra i due.

Patrizio è su Instagram.

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Nicola Cruz ha trasformato il mondo in un dancefloor senza confini

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"Mi chiedono un sacco come e perché ho inserito ibridazioni nella mia musica. Ogni volta che mi succede me lo chiedo, tipo, 'Come ci sono arrivato?' È che i suoni della tradizione sono ovunque, a Quito".

Così Nicola Cruz, francese di origine ecuadoriana, ha provato a spiegare a Remezcla la radice folk della sua musica elettronica - e non ce l'ha fatta veramente. È che quando facciamo interviste, noi giornalisti cerchiamo spunti interessanti per incuriosire voi che cliccate e quindi ci attacchiamo a ciò che, nella nostra mente, distingue un artista. Ma spesso non riusciamo a farci raccontare questo "qualcosa" perché, semplicemente, è una cosa che c'è.

Uno degli sviluppi più interessanti del mercato musicale negli ultimi anni è stata la fine, almeno nella mente di chi scrive di musica, della supremazia culturale dell'Occidente sul resto del mondo. Man mano che i confini reali si sono fatti più spessi e difficili da attraversare, nel mondo delle note qua tra i giornalisti ci siamo messi a predicarne l'apertura più totale. Le abbiamo chiamate "ibridazioni", abbiamo cominciato a usare un sacco il termine "appropriazione culturale", abbiamo provato a parlare il più possibile di musica non Europea o Nordamericana.

La musica elettronica è stata quella che, almeno nella mia percezione, si è dimostrata più ricettiva a un discorso di questo tipo. Collettivi latini underground come NON hanno beneficiato di questo senso di attenzione generale nei confronti della loro tradizione; scene africane, come quelle costruite attorno alla gqom sudafricana o al mahraganat egiziano, si sono ritagliate spazi nel mercato europeo; il tutto mentre artisti affermati come Nicolas Jaar e DJ-esploratori come Awesome Tapes From Africa accompagnavano un pubblico più generalista verso il medesimo punto d'arrivo.

È grazie a questo clima che il mondo si è accorto di Nicola Cruz, nato a Limoges ma cresciuto a Quito da quando aveva 3 anni. Batterista da ragazzino, affascinato dai ritmi, Nicola si innamora di un disco di proto-hip-hop latino nelle cui percussioni si sente l'eco lontano di quelle che animano la sua musica oggi: Chaco degli argentini Illya Kuryaki & The Valderramas, una sorta di Sangue Misto pucciati in un brodo di bonghi, chitarre languide e trombette. Nel giro di qualche anno la batteria diventa un software per produrre e il suono delle strade di Quito scalza l'hip-hop dal podio dei gusti di Nicola.

Il primo ad accorgersi di lui è proprio Nicolas Jaar, che nel 2012 ha già prodotto da un paio d'anni la traccia che più ha avvicinato le quasi-masse dell'elettronica quasi-erudita alla complessità culturale della musica sudamericana, cioè "Mi Mujer". Fondata un'etichetta, passo praticamente necessario nella carriera di ogni DJ e producer che si rispetti, Jaar assolda Cruz per una compilation e non solo gli ficca nelle carni il suo marchio d'approvazione, va anche a spianare la strada per la sua ascesa.

A cominciare dal suo album d'esordio, Jaar ha steso la pasta del suo suono verso forme sperimentali, strane e politiche, fedele alla ricerca del padre Alfredo. Così facendo ha lasciato a Cruz il compito di dissetare le gole arse di chi voleva solo lasciarsi attraversare dai fiati delle Ande, dai movimenti sussultanti delle cumbie, ma con il supporto di un'impalcatura elettronica downtempo che invitasse al ballo. Il suo esordio Prender El Alma, uscito nel 2015 per l'argentina ZZK Records, lo introduce al mondo nel migliore dei modi: è abbastanza accogliente da far prendere bene chi pensa che la "musica latino-americana" sia una singola cosa, ma al contempo è costruito da una persona che ben conosce la differenza tra un guiro e un cencerro.

I dischi di Cruz sono pieni di spunti perfetti perché i media li citino quando parlano di lui. Digging nei negozi di dischi dell'Ecuador, registrazioni di strumenti tradizionali campionate e rilavorate con l'elettronica, canzoni registrate in grotte artificiali. Più che lo yogurt, però, queste curiosità sono le praline che ci ficchi dentro per farlo mangiare ai bambini; il denso fluido bianco della musica di Cruz è la sua voglia di predicare la normalità del folklore.

Come ha dichiarato parlando del suo nuovo album Siku, "[la gente] si aspetta che arrivi sul palco con un poncho e un cappello di piume, che suoni tutte le canzoni che ho già messo su mille volte, come 'Colibria'. [...] Per me si tratta solo di creare un bel misto, non ci ho mai pensato troppo". La sua musica suggerisce un continente, non lo predica, e così facendo sfida chi ne scrive a non soffermarsi troppo sulle implicazioni dei suoi pezzi. Invita, semplicemente, a chiudere gli occhi e immaginare una Quito personale in cui ambientare il flusso di suono che ci arriva nelle orecchie.

Nicola Cruz si esibirà in un live show a Milano il 21 febbraio ai Magazzini Generali, i biglietti sono già disponibili.

Elia è su Instagram.

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La classifica definitiva di Sanremo secondo Noisey

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Ciao, se avete aperto questo articolo supponiamo che sappiate già che non abbiamo mai preso Sanremo troppo sul serio. Ci piace prenderlo in giro per come tratta i "raccomandati", per la sua endemica anzianità, per il suo nazional-popolarismo e perché le nuove generazioni non hanno nemmeno ben presente che cosa sia. Quindi, ecco, insomma, quando vi diciamo che quella che segue è L'INCONTROVERTIBILE CLASSIFICA OGGETTIVAMENTE CORRETTA DELLE DIECI MIGLIORI CANZONI DI SANREMO 2019, siete liberi di prenderla con le pinze.

Ma quello che abbiamo fatto, visto che non tutti abbiamo guardato la trasmissione in TV in questi giorni (ok, nessuno di noi), è stato attaccare le casse al computer e imporre a tutto l'ufficio che ospita le redazioni di VICE, Motherboard, Noisey e Munchies l'ascolto della playlist Spotify Sanremo 2019. Alla fine, abbiamo raccolto le varie Top Ten, le abbiamo confrontate, e tramite questo processo democratico abbiamo stilato L'INCONTROVERTIBILE CLASSIFICA OGGETTIVAMENTE CORRETTA DELLE DIECI MIGLIORI CANZONI DI SANREMO 2019. Secondo noi.

Pronti per la carrellata? Allora concentratevi sul volto di Beppe Vessicchio e lanciatevi nella lettura.

10. Motta - "Dov'è l'Italia"

Mi fa impazzire che Motta si sia sbattuto a fare due strofe in uno stile piuttosto raffinato che mi ricorda Kurt Vile per poi pigliarle a colpi di accetta con un ritornello che sembra che entri Mino Reitano e gli spacchi la chitarra tipo Bluto in Animal House per rubargli la scena per 40 secondi.
(Giacomo Stefanini, Noisey)

9. Loredana Berté, "Cosa ti aspetti da me"

loredana berté

Ci aspettiamo molto di più da te, Loredana. Eppure, persino la peggiore canzone del mondo affidata alla voce di Loredana diventa una figata. Se aggiungiamo che tra gli autori di questo brano c'è Gaetano Curreri degli Stadio, autore di moltissime hit di Vasco e Lucio Dalla, le aspettative si alzano ancora di più.
(Federico Martelli, Motherboard)

8. Nek - "Mi farò trovare pronto"

Dopo aver sorpreso tutti con la cassa dritta nel 2015 — ispirandosi con mille anni di ritardo agli Arcade Fire — Nek ha sorpreso tutti con un riff che si ispira spudoratamente ai Justice di Audio Video Disco.
(Federico Martelli, Motherboard)

7. Zen Circus - "L'amore è una dittatura"

Lancio un appello perché esca una versione solo strumentale di questa canzone, magari senza titolo e senza copertina. In questo modo i suoi aspetti più fastidiosi scomparirebbero e rimarrebbe soltanto un piacevole tributo a certe colonne sonore da poliziesco all’italiana.
(Giacomo Stefanini, Noisey)

6. Ghemon - "Rose Viola"

Qualcuno ha definito questo pezzo una Neffata. Io ho addirittura intravisto sul palco lo spettro dell'Alex Baroni di "Onde".
(Federico Martelli, Motherboard)

5. Livio Cori & Nino D’Angelo - “Un’altra luce”

livio cori nino d'angelo

Tre motivi: Mi fa tenerezza che Nino torni dall'oltretomba per imitare i suoi imitatori. Spotify la segnala come explicit, credo che quindi questo "famme vedé" alluda a qualcosa. Dice "'ncoppa 'u mare".
(Simone Rastelli, VICE)

4. Achille Lauro - “Rolls Royce (feat. Boss Doms, Frenetik & Orang3)”

Una zarrata rock a cui i media sanremesi hanno abboccato come pesci affamati, tra paragoni a Vasco Rossi e teorie del complotto su significati drogherecci nascosti. Esattamente quello che avremmo voluto da Achille.
(Elia Alovisi, Noisey)

3. Daniele Silvestri - “Argentovivo (feat. Rancore, Manuel Agnelli)”

Un esempio di come canzone italiana e rap possono incontrarsi senza andare in cortocircuito. Silvestri si improvvisa rapper e storyteller mutando forma, intermezzo con il vocoder = futuro, Rancore è una garanzia.
(Elia Alovisi, Noisey)

2. Arisa - “Mi sento bene”

È autoironica, non fa la morale, cita un po’ i Matia Bazar e si lancia su archi e linee di basso paillettate da disco anni Settanta. La mancanza di “innovazione” è compensata dalla totale follia dell’operazione. Non ho nulla di meglio da chiedere al pop massimalista italiano.
(Giacomo Stefanini, Noisey)

1. Mahmood - "Soldi"

È simbolico che la prima volta che abbiamo ascoltato “Soldi” lo abbiamo fatto dopo un cammino di espiazione che comprendeva TUTTI i restanti 23 brani di Sanremo, le gag di Bisio e Raffaele, le canzoni di Baglioni. Come Dante, dopo tutto questo Inferno (che a tratti diventa Purgatorio), ecco, uscimmo a riveder le stelle.
(Tommaso Naccari, Noisey)

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La vittoria di Mahmood è anche di Charlie Charles

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Sono passate quasi 48 ore e ancora non mi sono letteralmente ripreso da quell’emozione che da elettore di sinistra e interista ho vissuto poche volte: aver puntato sul cavallo giusto. Mahmood ha vinto Sanremo e per la prima volta, nella mia banalissima e parzialissima visione da ascoltatore, mi sembra che la rappresentazione massima della musica italiana sia riuscita a imboccare la modernità senza cliché e senza layer d’ironia accompagnati da gorilla.

Si potrebbero riempire inutili pagine con polemiche sul contorno della vittoria di Mahmood, dai commenti di Salvini e di Maio a quelli di Ultimo, eppure è così bello soffermarsi sui vincitori che sarebbe quasi denigratorio per chi da zero è finalmente riuscito a prendersi quello che sembra tutto. Mahmood era infatti il meno quotato per la vittoria secondo i bookmaker, pagato circa 50 a 1.

Nell’unica occasione in cui ho avuto modo di parlare con Mahmood ci siamo confrontati sul luogo in cui entrambi viviamo, la Zona 5 di Milano. Io in questi anni di permanenza mi sono fatto amici nel quartiere e lui, invece, è cresciuto e ci ha fatto le scuole; entrambi viviamo in una città multiculturale, insomma, e l’origine della famiglia di una persona non è un punto su cui discutere. Non vedo quindi neanche il bisogno di sbeffeggiare Salvini con un articolo: chiunque non abbia la testa perennemente ficcata sotto un metro di sabbia può riconoscere quanto siano sterili le sue polemiche.

Ciò su cui vorrei invece soffermarmi, nel commentare il risultato di Sanremo, è l’ondata di innovazione musicale che si è infranta sull’Ariston sotto i nostri occhi, quasi senza che ce ne accorgessimo. Non me ne vorrà Mahmood, infatti, se dico che parte della sua vittoria è dovuta anche alla presenza dell’Eminenza Grigia del rap italiano: Charlie Charles, che si appresta a scardinare i canoni del pop italiano e ha co-prodotto il pezzo con Dardust.

È dal 2015 che tutti teniamo Charlie costantemente sott’occhio. Abbiamo dato per scontato il fatto che avessimo tra le mani un fuoriclasse, ma pensavamo fosse un fuoriclasse di genere. I suoi beat per Sfera e Ghali hanno rivoltato il rap mainstream come un calzino, e lui ne ha conquistando lentamente lo scettro, ma l’impressione era che se re fosse diventato, il suo regno avrebbe avuto i ristretti confini del rap. Nel game per il game. Vincere Sanremo, invece, spalanca porte che pensavamo non si potessero aprire mai.

In questo momento mi sento come un tifoso del Genoa nel 2010 mentre osserva Milito che mette a sedere la difesa del Bayern e consegna la Champions League all’Inter: tutti sapevamo quanto fosse forte El Principe, ma neanche nelle previsioni più rosee del mondo saremmo arrivati a pensare che l’argentino avrebbe riportato dopo 45 anni sul tetto d’Europa i nerazzurri.

mahmood gioventu bruciata ep
La copertina del Gioventù Bruciata EP di Mahmood, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Il percorso di Charlie verso il pop dichiarato era già iniziato con Album di Ghali. Il relativo problema, però, di chi si spinge nel pop partendo dal rap, è sempre quella morbosa voglia di dimostrare ai vecchi fan di saper ancora competere nel gioco. È successo con Emis, è successo con Fedez, e anche Ghali, al di là delle differenze musicali, non è da meno.

Mahmood, invece, è il prototipo di artista perfetto per questo tentativo di scalare il monte della musica pop italiana. Ha un’anima black ma non è un rapper, tanto che nelle interviste dice di voler fare soul. Ha un piede in ogni ambiente che oggi conta, da quello dei fan di Mengoni a quello sporco di Guè Pequeno. E soprattutto ha una storia da raccontare, il che non è scontato nel paese in cui i cantanti pop sono “sfigati, sempre innamorati / una tipa li ha sempre lasciati”. "Soldi" è quasi la parte due della canzone che ha portato Mahmood a vincere Sanremo Giovani, ovvero "Gioventù Bruciata", titletrack dell’EP.

Come poi ha sottolineato Federico Pucci su Twitter, la vittoria di questo brano non è casuale ma è dovuta a una precisa struttura che coniuga i canoni classici con quella che amiamo definire innovazione - un “tocco speciale” che “consiste nella precipitosa dichiarazione del ritmo e della melodia fin da subito, come in certe produzioni firmate Swizz Beatz (da DMX a Drake), come in certe cose 90s (‘Ghetto Supastar’). Segno che l’operato di Charlie non è distruttivo, ma è un piano d’azione in pieno stile rap: prendere ciò che già esiste e funziona, distruggerlo, rimaneggiarlo e farne qualcosa di incredibilmente più adatto ai suoi tempi e funzionale.

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Post Malone ha fatto la rockstar sul palco con i Red Hot Chili Peppers

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Ieri si sono svolti i Grammy, cioè la cerimonia a premi più importante dell'industria musicale statunitense. Sono successe un po' di cose: una è che Childish Gambino ha vinto il premio per canzone dell'anno e composizione dell'anno con "This Is America" e non si è neanche presentato alla premiazione. Un'altra è che il disco dell'anno lo ha vinto Kacey Musgraves, cioè l'unica speranza che la musica country ha per non invecchiare e morire tra le sabbie del Texas e il cemento del muro che Trump sta provando a costruire. Un'altra ancora è quella che potete guardare qua sopra, cioè Post Malone che si esibisce con i Red Hot Chili Peppers.

Non è la prima volta che la televisione americana ci regala incontri tra rockstar che vorrebbero essere amate come rapper e rapper che si sentono amati come un tempo si sentivano le rockstar. Vi ricordate gli Imagine Dragons e Kendrick Lamar? Ecco, ieri sera è successa la stessa cosa, ma è stato tutto molto più bianco e... coerente, in un certo senso, dato che a Post in fondo questa cosa della trap e dell'autotune è arrivata un po' dopo le chitarre.

Post ha infatti cominciato l'esibizione suonando un pezzetto di "Stay" con la chitarra acustica. Ha proseguito facendo - l'avreste detto mai - "rockstar" da solo sul palco, dato che 21 Savage è in carcere dopo che è stato arrestato con l'accusa di essere un immigrato irregolare. E poi si è unito ai Red Hot, con cui ha cantato la loro "Dark Necessities". Sarebbe stato bello vedere Post ritrasformarsi nel ragazzino emo che era a sedici anni e cantare con Kiedis e compagni dei classiconi strappalacrime come "Under The Bridge" o "Road Trippin'", ma dovremo accontentarci di questo.

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Gli HEALTH cantano il declino della civiltà occidentale

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Quando giocai a Max Payne 3 (che alla faccia di tutti i puristi è un action coi controcoglioni, anche se non è Max Payne) non rimasi particolarmente colpito dalla sua colonna sonora. Bella, funzionale, ma non mi sconvolse. Tre anni dopo mi passò davanti il video di “New Coke” degli HEALTH e fu un fulmine a ciel sereno: in un attimo mi ritrovai catapultato nel trip senza fine di Death Magic, senza se e senza ma uno degli album più forti, densi, giusti e rappresentativi degli anni Dieci.

Dal 2015 ad oggi, anziché il consueto disco di remix che aveva sempre riempito le pause tra un album e l’altro, ne sono arrivati ben due, e su DISCO3 e DISCO3+ hanno trovato spazio Purity Ring, Boys Noize, Xiu Xiu, Vessel e un sacco di altra gente fichissima. Nel frattempo Jake Duzsik, John Famiglietti e Benjamin Miller sono rimasti orfani del secondo chitarrista e tastierista, Jupiter Keyes, che da buon fidanzato si è messo a lavorare con la sua dolce metà, una distrutta Alice Glass. Morale della favola, Slaves Of Fear è il primo prodotto della band di Duzsik come trio, e per quanto non sia un album di cesura fortissima come il suo predecessore, ne è la naturale prosecuzione e spacca una considerevole quantità di culi.

health slaves of fear
La copertina di Vol. 4: Slaves Of Fear. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

“Psychonaut” finge per un attimo di riportare il timone verso il noise rock tutto graffiato che aveva fatto impazzire le folle ai tempi di Get Color, ma è un ritorno al passato che dura meno di un paio di minuti, perché via via che il pezzo si srotola i suoni si ammorbidiscono e quella cassa dritta da zarri di South Central inizia a risalire Hollywood Boulevard con lo stesso atteggiamento da capo del ghetto che valse a Denzel Washington quel contestatissimo Oscar. Appena arrivata in cima alla collina arriva qualche break asciuttissimo da Venetian Snares sotto steroidi, un momento di silenzio ed ecco che il volume sale e si aprono le gabbie. Da sotto le letterone di Hollywood iniziano a uscire tutte le cose brutte del mondo, vomitate sulla città degli angeli e sul mondo da Duzsik con quella voce effettata e soave che potrebbe raccontarti dell’amore della tua vita. Invece ti dice che vogliamo drogarci per alleviare il dolore e non sentire il vuoto che ci opprime (“Feel Nothing”), il tutto mentre chitarre, sintetizzatori e beat drum’n’bass inariditi ti esplodono tutt’intorno, sopra, sotto e anche un po’ dentro.

Non è che l’inizio, perché il passo successivo è andare a rompere i coglioni al grande capo: “Ciao Dio, mi odi ancora?” (“God Botherer”). Aspetta che penso un po’ a dove l’ho già sentita… Ah sì, qui e qui, guarda un po’, tutta West Coast. Ma, rispetto a Tom Araya e Tyler Durden, Duzsik è rassegnato, non cerca di reagire, accetta la situazione per quella che è, con un nichilismo degno dei migliori sconfitti: “No one called for me” (“Black Static”). Abbiamo perso, siamo soli, non c’è modo di combattere i disagi che ci portiamo dietro, siamo una generazione seduta a guardare il mondo che brucia dentro di noi (“Loss Deluxe”). E i beat ossessionati e ossessionanti e i break da apoplessia continuano, senza sosta. C’è anche un momento in cui gli Health ci mandano il loro messaggio: “Death is the message / When we're young / We can't wait to grow up / We get old / We can't hope, we can't love / And we play to grow young" (“The Message”). E quella title track, che ti dice chiaro e tondo che vogliamo tutti essere diversi, ma senza fare troppa fatica: “Why do we waste our years? / When there's nothing to fight about / Save your tears / We’re here on our own”. Nessun dolore ha giustificazione, non troveremo nessuno a giudicarci nella prossima vita.

Slaves Of Fear è un album che ha scritto "declino della società occidentale" al neon in ogni solco, ed è quello che succede quando passi l’adolescenza con ”Mr. Selfdestruct” e anziché parlare delle tue ossessioni con un terapeuta qualificato ti droghi come un cammello. Una fotografia nitida e impietosa dei nostri tempi, dove la voglia di reazione e di combattere e di fare qualcosa ha lasciato il passo all’accettazione passiva, alla mancanza di senso e significato.

We're alone
Alone with everyone
We wanna soothe the burn
We wanna dull the hurt
Till we don't feel nothing

Gli HEALTH saranno in Italia per quattro date:
14/03 Milano, circolo Magnolia
15/03 Roma, Traffic
16/03 Bologna, Freakout Club
17/03 Torino, Spazio211

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Foto dai moshpit più selvaggi d'Italia

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Marco Dapino, se sei stato a qualche concerto a Milano negli ultimi anni, lo conosci. È quel tizio alto con i capelli ricci che è sempre il primo a buttarsi nella mischia al minimo accenno di pogo e l'ultimo a uscirne, incurante di lividi, cadute e magliette strappate. Prendendomi una licenza, potrei incoronarlo rappresentante ufficioso dell'underground italiano, quell'idea per cui la realtà musicale è quella che si può sentire sulla pelle, senza transenne e senza il finto contatto di Instagram.

Marco, tra le altre cose, fa anche il fotografo, e in questa veste ha esposto in vari musei, tra cui la Triennale di Milano, e pubblicato due libri. Il suo nuovo progetto si chiama Rat King e ci fa entrare direttamente nella mischia dei più selvaggi concerti in circolazione. La collezione di diapositive, infatti, che verranno proiettate dal 14 febbraio al 29 marzo sui muri della galleria Nowhere di Milano, raccoglie scatti presi durante il delirio del moshpit, talmente dentro l'azione che sembra di sentire l'agitazione del pubblico e il sudore dei corpi.

rat king marco dapino

L'installazione prevede anche una colonna sonora registrata su nastro con un sistema inventato dall'artista che gli ha permesso di immortalare il contatto tra il suo corpo e quello degli altri mattacchioni poganti. Per l’occasione, l'artista punk DIY Francesco Goats ha disegnato una maglietta in edizione limitata ispirata alle foto.

Abbiamo contattato Marco per farci spiegare l'idea dietro a questo progetto e per farci mandare alcune foto in anteprima.

rat king marco dapino

Noisey: Spiegami un po’ meglio questa cosa dell’audio che accompagnerà la mostra. Dove l’hai registrato e come?
Marco Dapino: Sono delle registrazioni fatte ai concerti durante i moshpit con un oggetto un po’ rudimentale. Avevo bisogno di qualcosa che entrasse in tasca facilmente e di poco valore così che nel caso si fosse rotto (cosa successa più volte) sarei riuscito a riparare facilmente o a sostituire senza spendere troppi soldi. Non mi interessava la qualità del suono né quello che usciva dagli ampli delle band che suonavano. Volevo qualcosa che catturasse l’impatto con la gente con cui mi scontravo, rumori di strusciate e di cadute, insomma, con un fastidioso brusio di musica in sottofondo. Quindi ho usato un piccolo registratore a mini-cassette, tipo quelle per le vecchie segreterie telefoniche, e poi ci ho attaccato un pick up per chitarra come microfono. Risultato: un rantolo che sembra uscito dall’inferno.

Fammi qualche esempio di concerti dove ricordi di aver fatto delle foto fighe. Quali sono i posti migliori per questo tipo di lavoro?
Difficile ricordarsi dove ho fatto belle foto. Ho pensato più all’atto performativo di “ballare” mentre la mia piccola compatta scattava foto random e il registratore catturava suoni dentro la mischia. Centinaia di foto le ho fatte senza guardare dentro il mirino e a fine serata non sapevo cosa sarebbe venuto fuori. Ho sviluppato rullini interi di sole foto di piedi, altre volte mi si è aperta la macchina dopo una caduta e si è bruciato parte del rullino, altre volte invece ho preso l’attimo perfetto in cui qualcuno si buttava da un palco.

Le migliori situazioni che ho trovato per realizzare questo progetto sono state a concerti dove non c’era separazione tra palco e parterre. Nel mezzo del caos mentre sopra e sotto di te volano e strisciano corpi impazziti. Tra i miei posti preferiti a Milano ci sono casa occupata Gorizia, T28, il basement di Macao e a Monza il FOA Boccaccio.

rat king marco dapino

A ‘sto punto dimmi anche quali sono i concerti più belli e con i moshpit più deliranti che hai visto nella tua vita, diciamo una top 5.
Anche qui non è facile. Sicuro i Fugazi al Leoncavallo sul finire dei Novanta: ci saranno state duemila persone che dall’inizio alla fine se le davano, incuranti dei rimproveri di Ian MacKaye. Poi mi viene in mente un concerto fulmine dei Melvins a Correggio nei primi Duemila, in un parco polveroso durante una Festa dell’Unità in piena canicola estiva durante il quale entrai letteralmente in trance. I Jesus Lizard una decina di anni fa, con David Yow che stette più tempo a fluttuare sopra le nostre teste che sul palco. Gli Sleep durante lo Psycho Las Vegas di qualche anno fa che pareva di stare dentro ad una partita della NFL. Infine, forse, l’ultimo concerto punk che mi ha veramente spezzato in due in una manciata di minuti: quello dei Warthog durante il Nothing Nice To Say Festival in un piccolo locale di Berlino.

rat king marco dapino

Lo sappiamo che la rappresentazione non è la pipa, però sembra che tra l’idea dell’audio e quella della proiezione su tre pareti tu abbia cercato di creare un’esperienza il più possibile coinvolgente per “far entrare la gente” nella tua opera. Sono io che sovra-interpreto o è anche un modo per avvicinare la gente all’esperienza originale del concerto, un modo per dire “andate a vedere la musica in situazioni DIY e supportate la scena”?
Non sbagli. L’installazione è stata studiata per immergersi il più possibile dentro l’opera con stimoli sia audio che visivi. Nowhere Gallery che mi ospita è una piccola galleria di una stanza. Con Orio Vergani, il gallerista, abbiamo deciso di proiettare più di 200 diapositive su 3 /4 delle pareti cercando di ricreare un re dei ratti, termine consigliato da un amico antropologo che si riferisce ad un raro fenomeno che si verifica tra roditori che rimangono legati insieme per la coda, e vengono ritrovati in questa posizione morti o in fin di vita. Più cercano di districarsi più si impigliano, peggiorando la situazione. Mi è sembrata l’immagine perfetta per raccontare quello che si prova a volte in una cantina sudicia durante un concerto punk con gente che si spiattella sui muri. La musica, soprattutto quella DIY, va ascoltata, ma anche vista, vissuta e supportata.

L'installazione di Marco Dapino Rat King sarà alla Nowhere Gallery di Milano dal 14 febbraio al 29 marzo. Consulta l'evento su Facebook per maggiori informazioni.

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I Sxrrxwland stanno arrivando nella tua città

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Il trio romano dei Sxrrxwland ha un suono e un'estetica talmente irreale e futurista da sembrare quasi un progetto virtuale, come se Vipra (prima voce), Tremila (direttore artistico, seconda voce) e Osore (produttore) fossero avatar che trasmettono messaggi dal futuro per le coscienze distrutte della gioventù di questi anni, preda di ansia e depressione cosmica quanto delle droghe che servono per attutirle.

La loro musica parte da spunti cloud rap e trap e si lancia in un vuoto cosmico, un matrix fatto di profili social sotto cui serpeggia un mondo dilaniato dall'ultracapitalismo. Quando li abbiamo intervistati, in occasione dell'uscita del loro EP Buone maniere per giovani predatori (prodotto da Asian Fake), abbiamo parlato di materialismo, di rassegnazione e del futuro di chi non crede nel futuro.

Ora i tre sono pronti per portare il loro suono sui palchi di tutta Italia, puoi vedere le date confermate sul volantino qua sotto:

sorrowland tour 2019
La locandina del tour. Cliccaci sopra per avere maggiori informazioni.

8/03 Bologna, Locomotiv
5/04 Firenze, Viper
6/04 Milano, Ohibò
12/04 Roma, Monk
13/04 Padova, TBA
24/04 Genova, Balena Festival
3/05 Pisa, Lumiere
4/05 Piacenza, Musici per Caso
7/06 Treviso, Core Festival

Ulteriori date verranno annunciate in futuro.

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Guarda The People Versus Chadia Rodriguez

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Visto che Chadia Rodriguez è una delle rapper più discusse del momento, era inevitabile che le chiedessimo di rispondere di persona ai suoi hater. Così l'abbiamo fatta sedere davanti all'ormai mitico laptop con gli adesivi di Noisey carico di commenti presi dai suoi video "3G" e "Sarebbe comodo" su YouTube per mettere in chiaro un po’ di cose su Jake La Furia, l’autotune e tutto il resto. Guarda il video qua sopra e iscriviti al canale di Noisey Italia per non perderti le nostre prossime uscite.

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Daddy Yankee è uno dei migliori rapper di tutti i tempi (giuro)

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"Gasolina" di Daddy Yankee è una canzone che tutti conoscono. Arrivò nelle radio di tutto il mondo nel 2005 e se in Italia fu percepita solo come una normale hit latina negli Stati Uniti segnò invece un grande cambiamento nonostante in apparenza ebbe solo un successo marginale: da noi arrivò seconda in classifica FIMI, in America invece si spinse al massimo alla posizione 32 della classifica Billboard. Ma fu una svolta epocale.

Se il reggaeton impazzava a Puerto Rico da ormai una decina d'anni, all'epoca gli Stati Uniti non erano poi così aperti a sonorità provenienti dai Caraibi e dalla parte Sud del continente. "Gasolina" riuscì a uscire dai confini della classifica Billboard dedicata alla musica latina ed entrò a gamba tesa in quella generale, segnando l'inizio di un cambiamento che ci ha portato oggi alla Latin Trap e ai miliardi di views macinati da artisti come Ozuna, Bad Bunny e Maluma. Daddy Yankee diventò, insomma, la prima grande superstar globale del reggaeton.

Che tu conosca o meno gli intrighi, le rivalità e tutti i riferimenti culturali della ‘música urbana’, ovvero il nome generico che è stato dato negli Stati Uniti a tutte quelle forme di hip-hop di lingua spagnola, sicuramente sai di cosa stiamo parlando. Daddy Yankee ha fatto finire ben 63 singoli nella classifica latina di Billboard, e dieci di quelli sono arrivati anche nella Hot 100. Tra questi ci sono i grandi classici del reggaeton come “Impacto” e “Rompe,” ma anche hit più recenti come “Dura” e il fenomeno “Despacito”, insieme a Luis Fonsi. In qualche modo tutti questi pezzi dimostrano il suo flow agilissimo, i suoi ritornelli orecchiabili, o entrambe le cose.

Eppure è raro sentire nominare l'artista portoricano tra i grandi del rap. Inspiegabilmente escluso dalla discussione che ormai si riaccende tutte le settimane sui social, Yankee vanta una storia lunga quanto altri colossi come Nas o Jay-Z. Grazie al debutto nel 1992 nell’importantissimo mixtape Playero 34, Yankee inizia la sua carriera negli stessi anni in cui è cominciata quella di tanti grandi nomi: l’unica differenza è che si trovava a San Juan invece che a New York o Los Angeles.

In passato, il reggaeton non aveva neanche un nome. Non aveva lontanamente il successo che ha oggi, ma si limitava a spopolare nella scena underground tra Panama e Puerto Rico, connesso da un lato all’hip-hop americano e dall’altro alla dancehall giamaicana. Ad oggi, la provenienza del genere e del suo nome restano argomenti di dibattito: ci sono alcuni che attribuiscono la nascita a DJ Playero e Daddy Yankee, mentre altri sostengono che a usare per la prima volta il termine ibrido sia stato DJ Nelson del gruppo The Noise.

A prescindere dal merito di aver coniato il termine, Yankee ha dimostrato più di una volta di non essere solo uno dei leader della música urbana, ma dell’hip-hop in generale. Che si esibisca su di un riddim tratto dalla dancehall, un dembow o un beat boom bap, Yankee è un MC pazzesco, punto. Come Eminem, Lil Wayne, KRS-One o chiunque ti venga in mente tra i grandi nomi del rap, anche Yankee ha sperimentato, tentato cose bizzarre e fatto uscire musica di qualità discutibile. Ma sotto sotto, lui sa di essere un G.O.A.T. e non si fa problemi a definirsi tale.

Per fortuna, l’era dello streaming ci aiuta a ripercorre la carriera stellare di Daddy Yankee, decisamente più ricca e variegata del successo mondiale di “Gasolina” e di Barrio Fino, l'album da cui è tratta. Proprio come è successo con tanti altri mixtape degli ultimi 20 anni circa, gran parte dei suoi primi lavori sono rimasti sospesi nell’etere, relegati a qualche rara copia o in qualche bootleg su YouTube. Non tutto è perduto, però, e gran parte della sua produzione musicale è disponibile su iTunes e Spotify.

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Chiunque abbia dubbi sulle skills da rapper di Yankee dovrebbe iniziare con l’ascolto di El Cangri.Com, considerato il secondo album dell’artista dopo No Mercy, prodotto da Playero nel 1995, e una manciata di compilation. Con DJ Blass alla guida, ha un sound più asciutto rispetto alle tonalità sofisticate a cui ci ha abituati Yankee oggi. Quasi tutto il disco si ispira al classico ritmo reggaeton, ma ci sono un paio di pezzi che sembrano tendere verso le sonorità della scena di New York. Stessa cosa accade in uno dei pochi pezzi in inglese, “Like You,” che unisce alla perfezione reggaeton e hip-hop della grande mela. A un paio d’anni di distanza, nel 2005, uscirà Barrio Fino En Directo, un live album con una serie di remix da Lloyd Banks a Snoop Dogg e Paul Wall.

E ancora, nel 2007 arriva El Cartel: The Big Boss con “Me Quedaría”, la cosa più vicina a Jay-Z che Yankee abbia mai fatto. Ma Yankee ha dimostrato di sapersi adattare anche all'onda latin trap con “Hielo” del 2018 e collaborazioni varie con altri artisti del genere.

Playlist: “El Cangri” / “Sigo Algare” / "Like You” / “Machete (Remix)” / “Bring It On” / “Me Quedaría” / “Self Made” / “Hielo” / “Vuelve”

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Ridurre la discografia infinita di Yankee a una manciata di brani essenziali è un esercizio quasi impossibile. Per questo, forse, dovremmo avvicinarci alla sua produzione come hanno fatto quasi tutti i suoi fan nel 2004, con “Gasolina”, il pezzo che ha cambiato per sempre il reggaeton. In quel periodo, poi, Yankee partecipò con un gruppo di musicisti del genere, tra cui Tego Calderón e Ivy Queen, al singolo di Eddie Dee “12 Discípulos”, un successo enorme.

Yankee mantenne alte le energie anche negli anni immediatamente successivi, pubblicando pezzi come “Machucando” e “Rompe”, tratti da Barrio Fino En Directo. Per chi volesse scoprire cosa era successo prima, può ascoltare El Cangri.com e Los Homerun-es. Troverà qui le collaborazioni con Don Omar su “Gata Gangster” e Nicky Jam in “Música Killa”, fino all’indispensabile “Segurosqui”. Il reggaeton è rimasto un elemento fondamentale negli album successivi, fino a “Zum Zum” del 2018.

Playlist: “Segurosqui” / "Lo Que Pasó, Pasó" / “12 Discípulos” / “Machucando” / “Rompe” / “Miss Show” / “Descontrol” / “Zum Zum” / “Gasolina”

Forse ti interessa: Yankee DJ

Il ritmo che definisce il reggaeton si chiama dembow, come la canzone che l'ha generato: "Dem Bow" del giamaicano Shabba Ranks. Daddy Yankee ha avuto un ruolo fondamentale nella diffusione di quel ritmo insieme a DJ Playero, che lo ospitò su una serie di storici mixtape pubblicati lungo il corso degli anni 90 e distribuiti tra Caraibi e Stati Uniti grazie all'apporto delle comunità che lì si erano stabilite. Un classico di quell'epoca è "Yo Nunca Me Quedo Atrás" e basta ascoltarlo per capire quanto Yankee sia legato al panorama della musica giamaicana.

Oggi, a distanza di anni, Yankee rimane affezionato al genere pur avendolo superato, come dimostra il suo remix di “Watch Out For This (Bumaye)” dei Major Lazer e la sua collaborazione alla versione dancehall di “Estás Aqui”. Nel 2018, è riuscito a entrare nella Hot 100 con il singolo “Dura” e più recentemente ha campionato una versione di “Informer” di Snow, intitolata “Con Calma”, con il featuring dello stesso cantante di Toronto.

Playlist: "Donde Mi No Vengas” / “Yo Nunca Me Quedo Atrás” / “Soy Pelon, Muerte Yo Le Doy” / “Shaky Shaky” / “Watch Out For This (Remix)” / “Dura “ / “Con Calma” / “Estás Aqui (Dance Hall Version)”

Forse ti interessa: Yankee popstar

Dopo aver collaborato alla colonna sonora del film Talento De Barrio nel 2008, Yankee è pronto a fare il salto. In passato aveva già goduto di una certa popolarità e il precedente El Cartel: The Big Boss, infatti, conteneva già qualche hit mainstream come “Papi Lover” e collaborazioni con due dei membri dei Black Eyed Peas. Eppure nella colonna sonora di Talento De Barrio, Yankee è riuscito ad approcciarsi all’electro pop patinato con “Pose” e “Pasión”, ma anche alla bachata e alla salsa in altre tracce.

Questa ricerca continua nel 2010, con Mundial, in cui Yankee si spinge fino all’electro house, al merengue, alla soca e molto altro con risultati spesso controversi (meglio non ricordare quella specie di plagio dei Daft Punk che fu “Vida En La Noche”). Con il singolo da dancefloor “Limbo”, Yankee ha raggiunto la vetta della classifica Billboard Hot Latin Songs, mentre con il duetto con Natalia Jimenez e “La Noche De Los 2” è riuscito a soddisfare anche le sue ambizioni pop più fantasiose, culminate con il successo globale di “Despacito” insieme a Luis Fonsi nel 2017.

Nonostante non pubblichi un album vero e proprio da King Daddy del lontano 2013, Yankee ha continuato a fare sentire la sua presenza con singoli, collaborazioni e featuring di ogni tipo. Negli ultimi dodici mesi soltanto, ha riportato in studio Janet Jackson per “Made For Now,” ha collaborato con Anuel AA, star del Latin trap, per “Adictiva”, e ha lavorato al remix di “Inolvidable” di Farruko con Akon e Sean Paul per citarne solo alcuni.

Dopo innumerevoli ritardi dall’inizio del 2017, ad oggi il settimo disco in studio di Daddy Yankee, El Disco Duro, non ha ancora una data di uscita certa, probabilmente dimenticato in qualche cassetto oppure rimandato per continue modifiche radicali e necessarie. Detto questo, se e quando Yankee deciderà di uscire con il nuovo album, sarà certamente il più atteso della sua lunga carriera.

Playlist: “Papi Lover” / “Pose” / "Limbo” / “La Noche De Los 2” / “Daría” / “Havana (Remix)” / “Made For Now” / “Adictiva” / “Despacito (Remix)”

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey US.

21 Savage verrà rilasciato su cauzione

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Il tre febbraio 21 Savage è stato messo sotto custodia dal United States Immigration and Customs Enforcement (ICE) per il reato di clandestinità. Secondo le autorità, il rapper, il cui vero nome è She’yaa Bin Abraham-Joseph, sarebbe un cittadino del Regno Unito entrato negli Stati Uniti nel 2005 e rimasto nel Paese oltre il periodo consentito dal suo visto temporaneo, scaduto nel 2006. È stato detenuto in un carcere federale per nove giorni ma ora, come riportano TMZ e i suoi rappresentanti, gli è stato concesso il rilascio su cauzione a partire da oggi, mercoledì 13 febbraio.

In un comunicato stampa, i suoi avvocati dello studio Kuck Baxter Immigration LLC hanno scritto: “Nelle scorse 24 ore, dopo i Grammy Awards a cui avrebbe dovuto partecipare, il tribunale ci ha comunicato che avrebbe concesso a She'yaa un processo per direttissima. Oggi, 21 Savage ha la possibilità di un rilascio su cauzione. Ha vinto la sua libertà". La nota riporta anche un messaggio di 21 Savage per i suoi fan: "Dice che nonostante non fosse fisicamente presente ai Grammy Awards, era lì con lo spirito e ringrazia per il supporto che gli è arrivato da tutto il mondo ed è più che mai pronto a ricongiungersi con i suoi cari e continuare a fare musica che unisca le persone". La data del processo per direttissima non è ancora stata annunciata.

La storia è scioccante vista la durata della detenzione di 21 Savage e il ritardo nel concedere la cauzione. Come hanno scritto Rashad Robinson e Jose Antonio Vargas sul Guardian, “tenere in carcere Bin Abraham-Joseph indefinitamente per una violazione del visto non ha senso: non è a rischio di fuga né una minaccia per la comunità". Ma è ancora più strano quello che ha detto un portavoce del ICE alla CNN dopo l'arresto di 21 Savage: che “il suo personaggio pubblico è falso" perché era arrivato negli USA "da teenager e violato i termini del suo visto". Questo tipo di dichiarazione così aggressiva da parte di un'agenzia governativa verso un artista è quantomeno allarmante.

Come riporta un certificato di nascita pubblicato da Reuters, 21 Savage è nato nel quartiere di Lambeth, South London, nel 1992 ed è entrato negli stati uniti quando aveva soltanto 12 anni. I suoi avvocati inoltre sostengono che il governo USA fosse al corrente dello status legale di 21 Savage già nel 2017 perché l'artista aveva fatto domanda per un visto U, che viene concesso alle vittime di reati commessi negli Stati Uniti. Nel 2013, infatti, 21 Savage era stato colpito da sei colpi di pistola e un suo amico era stato assassinato.

21 Savage era detenuto nel carcere di Irwin County a Ocilla (Georgia), che Azadeh Shahshahani, ex direttore del Progetto per la Sicurezza Nazionale e i Diritti degli Immigrati all'università della Georgia (ACLU), ha definito "un posto orrendo e uno dei peggiori centri di detenzione per immigrati negli Stati Uniti". L'intervista che Shahshahani ha rilasciato a Rolling Stone dipinge un quadro tremendamente tetro delle condizioni che 21 Savage ha probabilmente dovuto subire in quell'istituto in cui accuse di isolamento, abusi sessuali ignorati, cure mediche inaccessibili e cibo immangiabile sono all'ordine del giorno.

Per capire meglio che cosa è successo a 21 Savage, leggi la nostra intervista a un avvocato.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey US.


YNW Melly è stato arrestato per duplice omicidio

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Ho scoperto da poco YNW Melly. Mi è arrivato, come alle orecchie di tanti, grazie al featuring che Kanye West gli ha concesso su "Mixed Personalities", tratta dal suo nuovo album appena uscito. Ascoltando la sua discografia ho scoperto "Murder On My Mind", un capolavoro di storytelling criminale che fa venire i brividi da quanto sembra reale: è la storia di un morto accidentale, di una mente tormentata dalla colpa e dai propri istinti omicidi.

È quindi piuttosto strano scrivere che Melly, il cui vero nome è Jamell Demons, è stato arrestato insieme al suo compagno di crew YNW Bortlen per due accuse di omicidio di primo grado. Le vittime sono altri due membri della crew del rapper: YNW Sakchaser e YNW Juvy, rispettivamente di 21 e 19 anni, uccise lo scorso 26 ottobre.

Stando alla polizia, le cui dichiarazioni sono riportate dalla testata locale South Florida Sun Sentinel, Melly e Bortlen avrebbero ucciso i loro compagni di crew e avrebbero agito sulla scena del crimine per farla sembrare il risultato di una sparatoria cominciata da un auto di passaggio. Le due vittime sarebbero state colpite da diversi colpi d'arma da fuoco e sarebbero stati portati al pronto soccorso da Bortlen.

Il 31 ottobre l'avvocato di Melly aveva rilasciato una dichiarazione ufficiale sull'accaduto: "È triste, è preoccupato, ovviamente. Erano i suoi migliori amici".

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Le canzoni più romantiche del rap italiano

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Oggi è San Valentino, la festa dell'amore che ci portiamo sul groppone ogni anno da secoli a questa parte. Tutti ci siamo innamorati almeno una volta nella vita, anche chi di noi sembra da fuori più duro e impenetrabile. Quindi non c'è da stupirsi se in questa playlist di canzoni rap d'amore che abbiamo preparato ci sono sia artisti truci che si scoprono teneri che artisti teneri che diventano tenerissimi. Tutti, a loro modo, cantano la bellezza dolceamara del ritrovarsi nell'altro. Tranne Wayne, che è solo un piccolo bastardo, piccolo spezzacuori.

Trovi qua sotto la playlist Spotify delle canzoni più romantiche del rap italiano secondo Noisey, e poi una lista in cui spieghiamo perché le abbiamo scelte. Cliccaci sopra per ascoltarla su Spotify. Seguila, manda i tuoi brani preferiti alla persona che ami e limona duro alla nostra salute.

canzoni rap amore romantiche
Clicca sulla copertina per ascoltare la playlist su Spotify.

NOYZ NARCOS - "MY LOVE SONG"

Prima di "My Love Song" Noyz non aveva praticamente mai mostrato il lato tenero del suo cuore nero, lacerato, gonfio di alcool e sangue. Ma poi è arrivata una ragazza che ha scelto di non chiamare "sgrilla", che gli ha fatto scrivere le parole "Tu non c'hai idea quanto me manni in fissa / Quando te presenti così fica pari la Madonna crocifissa", che ci ha regalato la canzone d'amore più truce della storia d'Italia. (EA)

DARGEN D'AMICO - "MALPENSANDOTI"

Dargen D'Amico scrive di tante cose, e quindi di D'io, e una delle sue declinazioni è l'amore. E quando D'Amico scrive D'Amore lo fa per tutti, e quindi per ognuno di noi, e quindi ha senso - dato che questa classifica l'abbiamo scritta in tanti - che ognuno di noi abbia una propria canzone d'amore di Dargen preferita, e che quindi qua sotto ce ne siano altre.

"Malpensandoti" è la mia: parole di sospensione, una serie di movimenti fisici (da Milano all'aeroporto, percorrendo la tangenziale) e del cuore (che batte più forte man mano che diminuisce la distanza con l'oggetto amato). E poi, quando Dargen la vede, non ci pensa più. E non sa se è lontana o vicina - come i bimbi la TV. Può finire la sospensione, è tornata la terraferma. Sia sotto i piedi di lei che di lui. (EA)

TUTTI FENOMENI - "PER QUANTO TI AMO"

“Per quanto ti amo cancello Tinder” è a mani basse la dichiarazione d’amore più sincera che potrete trovare in una canzone rap italiana, nonché la miglior rappresentazione di cosa significa monogamia nel 2019. Se questa sera vi mancheranno le parole giuste davanti al/la vostro/a partner Tutti Fenomeni è qui per salvarvi. (TT)

PRETTY SOLERO - "MAGLIONE BLU (FEAT. GENERIC ANIMAL & POPULOUS)"

Pretty Solero è il componente più sentimentale di tutta la Love Gang, che a sua volta è la gang più sentimentale della scena rap italiana. “Maglione blu” è un pezzo romantico quanto malinconico: il rapper rimugina su una storia conclusa da un anno dopo aver ritrovato l’indumento che la sua ex gli aveva regalato. Se passerete San Valentino da soli ricordate che “pioveranno petali dal cielo”. (TT)

TEDUA - "ACQUA (MALPENSANDOTI)"

Rieccola: allora non sono il solo ad essermi innamorato di Dargen che ama al terminal degli arrivi. Sarà capitato anche a Tedua, che gli ha reso omaggio ripetendo le sue parole. E le ha usate come cardine attorno a cui roteare la sua educazione sentimentale. Lei si vuole scopare "uno zarro di quartiere", lui è se stesso: "infatti ho fatto Tedua". Ma ora lui è indurito, lei si è fatta più sottile; lui "roccia"; lei "fiore che sboccia". E ora - come in un sasso, carta, forbice del cuore, come bambini - giocheranno a farsi male. (EA)

QUENTIN40 - "FAHRENHEIT"

Questa sembra una canzone che parla della Bovisa, e per la maggior parte lo è. Ma è anche, nell'incipit, un incontro. Le parole sono tagliate perché suonano bene o perché non riescono a uscire? Non è facile offrire da bere a guance così quelle. (EA)

SALMO - "IL CIELO NELLA STANZA (FEAT. NSTASIA)"

“Il cielo nella stanza” è una canzone sdolcinata e imbarazzante. Mi fa sentire talmente a disagio sentirla che è come se mi teletrasportasse fino alla prima superiore, quando limonare era un’attività che ti faceva sudare come una partita di calcio e ti lasciava col mento che colava di bave miste e ascoltare una canzone così avrebbe portato a una lunga sessione di abbracci scomodissimi, con la testa affollata di pensieri. Che cosa terribile e incomprensibile e importantissima che è il primo amore. (GS)

LUCHE - "TI AMO"

Quando Luche parla di una cosa specifica non si ferma mai alla superficie e "Ti Amo" è un manifesto della sua voglia di dettagli, particolari, sguardi approfonditi. Il soggetto è la sua relazione con una donna che gli ha insegnato ad amare: lui si trova di fronte a lei e si arrende all'evidenza, "se sono qui è perché ti amo" - qui, alla foce di un fiume fangoso che comincia a farsi limpido, affascinante e spaventoso come il mare. (EA)

GUÈ PEQUENO - "BRIVIDO"

Ogni tanto anche G mostra di avere un cuore, e che all'amore in fondo tiene più di ogni altra cosa. Tipo un film, un drink, la marijuana, una miss mezza brasiliana, una hit, una suite a Copacabana e un rave in mezzo alla Savana. (FS)

SFERA EBBASTA - "BANG BANG"

La prima frase dice "non è una canzone d'amore", ma a chi vuole raccontarla Sfera? Eccome se è una canzone d'amore, e anche una davvero bella. Certo, l'amore quando si diventa famosi è un bel casino: "Dici che non ho più tempo per noi / Ma se mi cerchi mi trovi, lo sai / Dove vuoi, quando vuoi, ti aspetto giù / Dove andiamo è uguale, decidi tu." (FS)

DARK POLO GANG - "SPEZZACUORI"

In una scena trap in cui conquistare “la tua tipa” è un atto quasi doveroso, “Spezzacuori” è il manifesto definitivo: “Vestito rosso come fosse San Valentino / Baci Perugina, baci a quel poverino.” (GA)

TAURO BOYS - "VIENI CON ME"

Il concetto di tempo è centrale in questa ballatona del TauroTape2: per conquistare la sua amata Prince si prende gioco dei suoi amici che fanno rap da un anno senza successo, ma gli anni diventano dieci quando Maximilian inizia a fare promesse di una vita insieme. Se la ragazza deciderà di andare con lui avrà “sempre qualcosa nel piatto” (e non parla “di steccarci un sasso”). (TT)

ACHILLE LAURO - "PENELOPE"

Di rap ce n’è poco in questa canzone, e anche d’amore: c’è semplicemente la condizione umana, alla costante ricerca di un amore che poi non si sa bene cosa sia, di un Paradiso che non c’è, giorno dopo giorno a tessere una tela di verità che si disfa di notte con le bugie, costantemente dilaniati tra il conoscere se stessi e il voler bene agli altri. Non c’è una certezza che sia una in “Penelope”, ma solo domande, invocazioni e dubbi: difficile dipingere un ritratto più fedele dell’homo innamoratus. (GS)

CARL BRAVE X FRANCO126 - "ALLA TUA"

Tra tutte le canzoni per immagini che compongono Polaroid, "Alla Tua" è la più dolce. La sfiga e la consapevolezza della fine non se ne vanno, intendiamoci. Ma si fanno contorno, e i colori che le riempiono sono accesi, felici: "E mano nella mano / Si incrocia la mia linea della vita con la tua / Com’edere sul muro che si affaccia sulla via", canta Franco nel ritornello come se fosse in una personalissima "Somethin' Stupid" con la sua lei. (EA)

CANEDA - "LA VITA SOGNATA DEGLI ANGELI"

Di Caneda, zarro dal cuore tenero, ho già scritto tanto. Questa è una delle sue creazioni più tenere. Il beat di "A Thousand Miles" di Vanessa Carlton, letto morbido su cui lui si lascia cadere ruvido. Come nei film che si riflettono in lui quando fa musica, le immagini sono nitide: i fiori, il paradiso, il sesso, la dipendenza, le sue conseguenze. E le lettere "Tra cento spose io scelgo te", piano piano, si rivoltano come rulli di una slot e si trasformano in "La legge vieta che due angeli siano felici". Hai perso! Metti un altro gettone, tira la leva. (EA)

DARGEN D'AMICO - "BERE UNA COSA"

E adesso una breve fanfiction di San Valentino. "Bere una cosa" è una canzone che Dargen D’Amico, dal vivo, non canta mai. Una volta gli ho chiesto perché e lui ha lasciato che la mia domanda si disperdesse nell’aria, quindi ho provato a colmare quel vuoto con delle ipotesi, scartata automaticamente quella della disaffezione ("Bere una cosa" è stata reincisa due anni fa nel disco Variazioni, che nei concerti veniva riproposto integralmente, o quasi: "Bere una cosa", no). L’ipotesi che preferisco è questa: la ritrosia di Dargen è dovuta ad un patto stretto con la persona a cui è dedicata la canzone, che gli ha permesso di metterla nel disco solo se non l’avesse mai dispersa cantandola davanti ad un pubblico. Ma allora perché pubblicarla? Perché era troppo bella per rimanere solo il provino allegato ad una email. (MC)

GEMELLO - "PULPEPRE"

È dagli anni Cinquanta che lo diciamo: night time is the right time to be with the one you love. Gemello lo sa, e vola nello spazio su un fottuto battello interstellare, dove il giorno non arriva mai, così può stare con la persona giusta nel momento giusto per sempre. C’è anche un fantastico congiuntivo sbagliato sul finale, e nulla dice amore e passione come un congiuntivo sbagliato. (GS)

GHEMON - "QUALCOSA PER TE (FEAT. KATERFRANCERS)"

La cosa più bella che Ghemon dice insieme a Katerfrancers, in questo frammento di discorso amoroso via telefono, è "non possono dividerci nemmeno dividendoci". Perché è una frase così semplice che contiene il riverbero di tutte quelle che la precedono e seguono, e annulla ogni cosa con un ceffone di dolce evidenza. (EA)

SOULCÈ & TEDDY NUVOLARI - "LASCIAMI ANDARE (FEAT. MECNA)"

Prima di tutto colgo l'occasione per ricordarmi che, nonostante qualsivoglia periodo buio della mia vita, fatico a trovare conforto nelle parole di Mecna come invece capita a un sacco di gente. Ciononostante, essendo lui un lagnoso come in fondo tutti siamo, ha senso che io questa l'abbia sentita: "Parte della mia vita a fare i conti dei danni a parte della tua vita, dettagli. A parte che ormai è finita, a parte che quando parli tu sei me, anche se non se ne accorgeranno mai gli altri." (FN)

NEFFA - "NON TRADIRE MAI (FEAT. AL CASTELLANA)"

Quanto spacca la prima strofa di "Non tradire mai"? Neffa è stato il più grande di tutti, e lo dimostrava anche nel parlare d'amore con tre parole: "Tu sei la parte che mancava / L'elemento del mio rinascimento / Siamo soci in sbattimento." (FS)

CLUB DOGO - "NOTE KILLER"

La cosa buffa di “Note Killer” dei Club Dogo è che il ritornello preso fuori contesto sembra il perfetto inno del fattone. E invece “la droga più potente che c’è” è la ragazza per cui i gangster romantici interpretati da Jake e Guè rubano diamanti e scappano dalla polizia. “Schiverò una pallottola, ma - mio Dio - non sopravviverò al tuo addio”. (TT)

COLLE DER FOMENTO - "MIGLIA E PROMESSE (FEAT. KAOS)"

In un capolavoro che parla della vita a 360 gradi, la strofa di Masito riesce a essere una delle migliori dediche che abbiamo sentito negli ultimi tempi, nonché la prima volta che - in un pezzo fatto di verità pura - si rivolge in un testo alla sua compagna: "Sono triste quando non ti vedo / Ti ho cercata in ogni angolo del mio pensiero / Ho grattato mille volte il nome sopra il muro / Ho imparato a riconoscerti anche nel buio." (FS)

SOTTOTONO - "TRANQUILLO"

Più ancora de "La Mia Coccinella", questa è la canzone rap romantica per eccellenza. Pomeriggi oziosi fatti di amore, la domenica, il letto. Netflix and chill prima dell'esistenza del concetto di Netflix and chill, ma del resto tormento era Drake prima di Drake. (FS)

BASSI MAESTRO - "CAPIRAI"

"Capirai", come dice lo stesso Bassi Maestro nella intro parlata, è una delle poche canzoni d’amore di un rapper dalla discografia ricchissima (e infatti la troviamo ne L’ultimo testimone, uno dei suoi album più sperimentali e riusciti). È un pezzo molto dritto, pochi fronzoli e zero retorica, un po’ romantico un po’ grezzo proprio nello stile di Bassi. “Ti voglio un bene onesto” mi sembra ancora oggi una delle cose più belle da dire a una persona a San Valentino. (MC)

FRANK SICILIANO - "BUONGIORNO"

Frank Siciliano ha una di quelle voci suadenti e un po' maldestre, quelle perfette per accompagnare le mattine - anche se l'acqua emotiva di cui è in buona parte composto, come tutta quella del mondo, si muove grazie alla luna. "Buongiorno", pezzo d'apertura del suo unico album, è la pace di un riabbracciarsi all'alba. (EA)

DARGEN D'AMICO - "SMS ALLA MADONNA"

Per quanto mi riguarda la più bella canzone d'amore mai scritta perlomeno da quando esiste l'amore. Il ritornello, nella morbidezza dei suoi accostamenti di consonanti, è la rappresentazione fonetica della sensazione che si prova quando abbracci la tua metà da dietro e affondi il tuo volto scheggiato nei suoi capelli: è successo un pasticcio totale, una creatura mi ha scippato il cuore, la prego Signore forse lei, per favore, riesce a farselo ridare.

In questo caso impossibile per me non citare la risposta che mi diede Dargen D'Amico in persona quando, anni fa, gli ho chiesto in chiusura di un'intervista per chi fosse "SMS alla Madonna" (che per la cronaca ho dedicato a ogni donna della mia vita): "Nome e cognome? Come sempre capita per le persone, per lo meno per quelle che vivono una vita reale, ci sono dei contatti che ti fanno scaturire un brano. In quel periodo c'era un contatto con la realtà, ma non credo che le canzoni siano delle fotografie di esseri umani, sono più che altro dei ritratti di paesaggi all'interno dei quali ci sono anche degli esseri umani. Se le vai a guardare non saresti in grado di riconoscere nemmeno le persone, perse nel paesaggio. In quel caso però sì." (FN)

CARL BRAVE - "CAMEL BLU (FEAT. GIORGIO POI)"

"Camel Blu" è una canzone che, immagino, sarà stata scritta a tardissima ora da un Carl appena rincasato e in pessime condizioni psicofisiche dopo una notte pesante ma già agrodolce a ricordarla: ha proprio il sapore della nostalgia di una cosa appena passata, magari passata da dieci minuti. Però la dedichiamo lo stesso. (MC)

CLUB DOGO - "LLCD (LADIES LOVE CLUB DOGO)"

Quando pensi di esserti perso "l'unica", la "the chosen one", ti ascolti questa e ti rendi conto che per fortuna ti innamorerei di mille altre stupende, il tuo cuore verrà scippato per l'ennesima volta, la tua nave naufragherà ancora, e ti commuoverai risentendoti nelle parole spezzate pronunciate da un volto morbido mentre se ne va—ancora—per l'ultima volta. (FN)

BONUS, DATO CHE NON C'È SU SPOTIFY: CLAVER GOLD - "LA CICALA"

Frammento di ventricolo risalente a quando me ne fregava ancora qualcosa di quello che dicevano nei pezzi rap. Scritta bene, forse troppo, cheesy e sentita. Di base la roba che mi ascolto quando le tipe non mi scrivono per più di 12 ore. "Dall'alto si scruta il mare del timore mi guiderà l'amore, ma qui non c'è timone." (FN)

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Dieci anni di 'L'amore non è bello' di Dente

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Confessioni è la rubrica di Noisey in cui scriviamo perché ad alcuni di noi piacciono le cose che non vi piacciono.

Dente è stato il primo artista che ho intervistato nella mia vita. Nel 2010 ero in quinta liceo e a un certo punto successe che un giornale locale offrì a ragazzi come me la possibilità di passare pomeriggi in redazione a scrivere gratuitamente articoletti su quello che succedeva nella mia eccitante provincia. Io mi ci tuffai sopra, chiesi di potermi occupare di cultura e quando Dente si presentò in città per un concerto non mi lasciai scappare l'occasione di andare a fargli delle domande.

Chissà che ricordi ha Dente di me pischello alla mia prima uscita giornalistica di sempre. Io non ne ho, se non che portai con me il mio amico Tommaso con la scusa che doveva "fare delle foto" - strategia applicata poi anche nel 2013 per fargli incontrare Alex Turner degli Arctic Monkeys prima del loro concerto a Ferrara. Però sicuramente sarò stato un fuscello al vento, dato che le sue canzoni mi smuovevano tutto dentro.

L'amore non è bello è uscito dieci anni fa, il 14 febbraio del 2009, giorno di San Valentino. Me ne sono accorto solo stamattina, quando Dente ha ripostato su Instagram quella copertina: una coppia che si bacia sulla metropolitana gialla di Milano, prima che - mi piaceva immaginare - la frenata del vagone li stacchi. È che quelle canzoni erano puntaspilli, morbide ma piene di fili puntuti, proprio come l'unico amore possibile per il me diciannovenne.

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Dente, foto promozionale dell'epoca.

Dente identificava chiaramente la destinataria delle sue parole, come si fa dai tempi della Commedia. Si chiamava Irene ed era definita per negazione: "Questa donna non è una donna / Questa donna è un miracolo", esordiva il disco. Pareva fosse venuta dal cielo e, come Cristo, sapeva morire e poi rinascere, moltiplicare i baci invece che i pesci. Ma era anche carne, dato che gli occhi l'ardivan di guardare eccome. Non era un essere umano, Irene. Era un contorno sacro di donna da colorare con i pastelli del cuore, e le canzoni che la cantavano una serie di giochi infami.

Al loro interno Dente restava in perfetto equilibrio tra livore e affetto, con l'impressione di un sorriso stampato addosso anche in caso di sconfitta - una possibilità più che reale nella sua mente, ma non che la cosa lo frenasse. Lo spiegava bene in soli 52 secondi di pianoforte ballonzolante, da cabaret, che si concludevano così: "Nella gioia e nel dolore / In salute e malattia / Faccio la cazzata più grande che ci sia / Mi fido di te".

All'epoca avevo avuto una sola, lunga relazione. Era cominciata a quindici anni completamente a caso, per un incontro tra biciclette nella mia via di casa, e in quel momento era già praticamente finita. Non potevo quindi mettere la faccia di tante lei su quelle che Dente mi suggeriva. E allora ci immaginavo dentro quelle future, e già pensavo al momento in cui tutto sarebbe finito ancor prima che cominciasse.

Quell'intervista la feci a marzo, e a giugno incontrai una persona perfetta per intrufolarsi nei pertugi dietro alle strofe di Dente. In particolare quelle di "Sempre uguale a mai", canzone che già allora mi faceva tremare e oggi che la riascolto dopo anni ancor di più. La teoria che esprime è semplice: dire per sempre è inutile, perché è dire una falsità, e allora tanto vale dire mai. Ma ce n'è anche la dimostrazione: una lei che torna "in auge", come "una moda, una mania", e una relazione che è un saliscendi.

A fregarmi, di quel brano, furono due cose: una era il suo incedere, una passeggiatina sul prato, mano nella mano tra chitarra, pianoforte e batteria; l'altro era il fatto che Dente dicesse "Io che ti ho sposata senza anelli / Ed eri bianca / E avevi tante cose per la testa / E poi ricordo avevi tutti gli occhi illuminati / E mi leggevi tante poesie". E che a quel "bianca" io ci mettevo una lettera maiuscola all'inizio, e che quegli occhi erano belli davvero.

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Dente, foto promozionale dell'epoca.

Quella storia finì all'improvviso in uno spegnersi tragico e buffo. Proprio come "Sempre uguale a mai", che inciampa su se stessa e si sbuccia le ginocchia per lasciare posto alla maldestra chitarrina di "Finalmente". Ma nei novanta giorni precedenti le canzoni di L'amore non è bello mi regalarono un amore adolescente, totalizzante, incapace di concepirsi come pausa di gioia dalle brutture del mondo da quanto è avvitato nel profondo del legno del cuore. Fu una relazione stupida come quella di "Vieni a vivere", un solo sonno assieme che avrei voluto rendere plurale: "Voce piccolina / Come sei bella la mattina / Chi lo sa", mi faceva eco Dente.

Da allora Dente è cambiato e io l'ho perso di vita. Ha cominciato a fare musica meno sussurrata, ha scritto un libro per bambini, va in tour con un poeta e non fa nuova musica da tempo. Ma posso testimoniare che L'amore non è bello è stato un disco fondamentale per me e per la musica italiana. Incise il nome di Giuseppe Peveri su un'immaginaria lastra di cantautori italiani capaci di lasciare il segno su una parte del loro paese e fu tra i primi dischi figli di quell'epoca a macinare numeri per cui era legittimo usare la parola "successo".

Lo fece, oltre che per il suo contenuto, perché uscì al culmine creativo quell'interregno che abbiamo chiamato indie italiano, nell'anno in cui il gruppo di artisti che si era costituito più o meno attorno a La Tempesta Dischi aveva irradiato per la prima volta la sua forza espressiva su una piazza gremita a Ferrara. E così aveva le persone che avevano i miei anni di essere parte di un tutto, emotivo e artistico, di cui potevano andare orgogliosi.

Più che de L'amore non è bello in questo articolo ho parlato di me, dato che mi sarebbe impossibile scriverne in maniera acritica. Mi sono sempre piaciute le canzoni coi finali tristi, così come le quarte pareti che vengono giù, e mi è sempre piaciuta una lei - a quei tempi più che mai. Il fatto che dalla sua uscita siano passati dieci anni, e che io non me ne fossi accorto fino a stamattina, mi ha fatto rendere conto di una cosa: quelle canzoni hanno funzionato davvero su di me. Perché in esse trovavo conforto, dato che mi promettevano che sarebbe tutto finito ma che ne sarebbe comunque valsa la pena. Oggi sono un decennio più vicino alla fine di tutto, e ho conosciuto tante piccole fini, ma nessuna di essere mi ha ancora convinto del contrario.

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Come MACE e Ckrono sono finiti nelle favelas con MC Bin Laden

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Ci sono delle ragazze che twerkano vicino a un cane che si rotola nella polvere, mentre dall’altra parte un ragazzo fa voguing in mezzo a un circo di moto truccate in impennata e dai tetti dei palazzi si calano writer su piattaforme rudimentali per ricoprire i muri di pichação (un tipo di graffiti assolutamente unico che si trova soltanto nelle metropoli brasiliane). Al centro di tutto questo caos stanno MACE, Ckrono e MC Bin Laden, e sorridono soddisfatti.

mace ckrono mc bin laden vroom vrau

La scena è puro realismo magico, il sogno latinoamericano del 2019, ed è anche il video girato da Martina Pastori e Anna Adamo per “Vroom Vrau”, il nuovo singolo dei due producer italiani MACE e Ckrono con la voce del re del baile funk paulista MC Bin Laden.

MACE è uno dei più prolifici beatmaker italiani, responsabile di hit come “Pamplona” di Fabri Fibra e “Chic” di Izi tra le altre, ma è anche fondatore di Rrriot e un DJ specializzato in funk, house e altra musica da club, e ultimamente ha passato molto tempo in tour in Asia, Australia ed Europa. Ckrono è un producer e DJ italo-giapponese che ha base a Milano (dove ha fondato la club night Balera Favela con Go Dugong e prp), ma anche lui gira il mondo con la sua valigia di dischi.

mace ckrono mc bin laden vroom vrau

Ckrono e MACE mi hanno raccontato la storia di “Vroom Vrau” davanti a un caffè nel bar di fronte alla nostra redazione. I due si sono incontrati in tour in Giappone e hanno legato parlando delle loro recenti fisse musicali, tra le quali condividono quella per la musica urbana delle metropoli brasiliane. Così, tornati a Milano, sono entrati subito in studio per registrare una traccia ispirata ed è venuto fuori questo ibrido da favela italiana, con le percussioni impazzite, le basse profondissime e una fisarmonica pazza. Tramite alcuni scambi e contatti è arrivato alle orecchie di MC Bin Laden, che si è preso benissimo, così appena il cantante brasiliano si è trovato in Italia per una data, ha colto l’occasione per andare in studio coi due e metterci la voce.

ckrono mace mc bin laden vroom vrau

Poi è stato il turno degli italiani di andare in Brasile per girare il video, ma soprattutto per suonare a due grandi feste funk: una era Resistencia, organizzata da OMULU, una selvaggia festa di strada; l'altra era il compleanno di MC Bin Laden, in pieno stile pop star latina, in una opulenta villa con piscina in compagnia di VIP della musica e della televisione, con tutti i cliché del caso.

“Siamo arrivati il giorno dell’elezione di Bolsonaro”, mi raccontano. “Appena scesi dall’aereo, tutti si sono attaccati ai cellulari per controllare l’esito delle votazioni”. Ovviamente, atterrare a San Paolo per girare un video rap nelle favelas proprio nel momento in cui si instaura un governo di estrema destra che si propone di risolvere i problemi di povertà del paese a colpi di polizia militare non era esattamente l’ideale.

mace ckrono mc bin laden vroom vrau

“Eravamo un po’ nervosi all’idea di entrare nella favela”, continua MACE. “Ma il fatto di essere con un musicista famoso e rispettato come MC Bin Laden ci ha garantito che tutto andasse nel migliore dei modi. Ci hanno aperto la strada, che era bloccata da macchine parcheggiate, e l’hanno richiusa dietro di noi”. “A quel punto dovevamo solo stare attenti a non suonare il funk del quartiere sbagliato”, aggiunge Ckrono ridendo.

ckrono mace mc bin laden vroom vrau

Il funk, mi raccontano, è la lingua musicale che unisce tutta la città. Alla festa di compleanno di MC Bin Laden, tra i super ricchi e le star (e molti sostenitori del nuovo Presidente, per la sorpresa dei due italiani) si balla il funk; tra gli abitanti delle favelas si balla il funk; alla radio passa il funk, in TV pure; anche nei localetti con i musicisti tradizionali si sentono quei ritmi, che le forme più moderne di musica hanno adottato da danze tradizionali come il forró.

Attorno al funk si raccolgono padroni cinici e giovani idealisti esponenti di una resistenza che passa anche per le feste clandestine, meticce ed estemporanee. E un grido di libertà può anche suonare come un motorino truccato che impenna: vroom vrau!

Tutte le foto sono di Anna Adamo.

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Il disco dei C'Mon Tigre è perfetto per far l'amore—e non pensare a Salvini

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Quando i C’Mon Tigre spuntarono dal nulla nell'Italia del 2014 con un ottimo disco d’esordio e delle identità protette dall’anonimato, la realtà era piuttosto diversa da com’è oggi: per intenderci, il PD di Matteo Renzi prendeva il 40% alle elezioni europee, mentre l’altro Matteo proponeva referendum per chiedere l’indipendenza della Lombardia.

In quel tempo apparentemente così lontano le loro sonorità iper-contaminate non volevano comunicare un messaggio politico ma rendere omaggio a quel Mediterraneo che ai C’Mon Tigre ha dato natali e ispirazioni. E lo straordinario video di "Federation Tunisienne de Football," realizzato dall’artista Gianluigi Toccafondo con più di 5000 fotogrammi disegnati a mano, ne è ancora oggi un perfetto esempio. Le immagini di una partita a piedi nudi sulla sabbia, tra elefanti e evocazioni dell’Africa più calda e profonda, accompagnano suoni che poco hanno a che vedere con l’occidentalissima musica mainstream e ricordano più le sperimentazioni world di artisti come Gonjasufi e Sons of Kemet.

Negli ultimi cinque anni il Mediterraneo ha cullato con le sue acque le migliaia di vittime di una strage silenziosa. È diventato terreno di scontro tra la disumanità del populismo e la speranza di chi sceglie di affrontare un mare così familiare e ostile per provare a cambiare il proprio destino. Probabilmente neanche in Racines, uscito oggi in un'Italia sull’orlo di una crisi di nervi con un titolo che significa “radici,” c’è la volontà di comunicare un messaggio politico, ma viene spontaneo leggerlo come un promemoria delle coste dalle quali veniamo. Racines è un viaggio sonoro e tematico praticamente inedito in Italia: l'unico riferimento che viene in mente—sebbene parta da presupposti diversi, cantautorali—è l'Iosonouncane di DIE. Ascoltarlo fa venire in mente due parole, cioè "respiro internazionale", ma nella loro accezione corretta: un disco che attingere da una contemporaneità frammentata e meticcia e la trasforma in qualcosa di nuovo, non un disco di genere cantato in inglese.

E poi, a differenza del disco d’esordio, Racines è un’opera intima, carnale, a tratti caldissima, che in più di un suo passaggio sembra pensata per fare l’amore: non a caso, si apre con “Guide To Poison Tasting,” che il duo-collettivo ha definito “una canzone che parla di sensualità, di quanto il sapore della pelle di un corpo eccitato sia tossico come un veleno [...] un omaggio ad una delle nostre ossessioni più grandi.” È una canzone lenta, erotica, in cui le parole taste e love vengono ripetute come un mantra accompagnate da bellissimi fiati. Qualora non fosse ancora sufficientemente chiara l’ispirazione dietro al pezzo, il video ufficiale del brano è stato creato a partire da scatti di Harri Peccinotti, fotografo erotico e autore del calendario Pirelli del magico biennio 1968-1969.

Quella con Peccinotti non è l’unica collaborazione stellare del disco: Racines esiste anche in una versione in vinile con un libro che ad ogni brano accosta un particolare modo di vedere il mondo, e tra i numerosi artisti coinvolti ci sono il fotografo Boogie e il pittore Mode 2. La ricerca dei C’Mon Tigre è quindi musicale, visuale e geografica: la tracklist vede ospiti alcuni tra i jazzisti più interessanti in circolazione, e in “Underground Lovers” fa la sua apparizione l’inconfondibile flow di Mick Jenkins. Il rapper di Chicago si conferma un Re Mida dei featuring, così come già dimostrato con i BADBADNOTGOOD, Kaytranada e altri nomi eccellenti, ed è bello ritrovarlo in un disco italiano dopo la collaborazione con Santii (già M+A): non è affatto scontato vedere una realtà nostrana aprirsi a incontri musicali di questo livello e non ho davvero voglia di accontentarmi di Sfera e Quavo.

La prima immagine che mi viene in mente se penso a Racines è un calendario dell’avvento: le ispirazioni polimorfe e le sorprese musicali spuntano come cioccolatini ed è impossibile prevedere cosa succederà nella traccia successiva. Il risultato è un altrove sonoro che sfugge a qualsiasi etichetta e attraversa i generi: per rendersene costo basta ascoltare l’inaspettato electro di “808”, il retrogusto cinematografico di “As Tu Été À Tahiti?” o il sound à la Josh Homme di “Behold The Man”—primo dei video estratti, con i suoi quattro minuti surreali e fantascientifici diretti dal video artist Sic Est. Insomma, quando esce un disco come questo sono banalmente, semplicemente e inevitabilmente contenta. Racines dei C’Mon Tigre è intenso, ricercato, geograficamente e musicalmente tentacolare, perfetto per fare l’amore con il mondo, il tuo partner o chi vuoi tu.

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La copertina di Racines dei C'mon Tigre, cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.
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