Quantcast
Channel: VICE IT - NOISEY
Viewing all 3944 articles
Browse latest View live

Vieni nella cameretta di Noisey agli I-Days

$
0
0

La nostra comunità di riferimento, quella di persone italiane che amano la musica e che sono più o meno millennial, è variegata e piena di sfumature, ma ci sono alcune cose che ci accomunano: l'attaccamento alla mamma, la simpatia per Liam Gallagher che alla fine è un bravo guaglione, e la cameretta. Non parliamo della triste doppia che condividete con un cane e il suo umano in una zona estremamente isolata della città, ma della stanza a casa dei vostri genitori con i posteroni alle pareti, le cartine nascoste (o dimenticate) in fondo ai cassetti e la TV scartata dai parenti da attaccare alla console per i videogiochi.

Così quando I-Days, che è il festival gigante che si svolgerà nell'area Expo di Milano dal 21 al 24 giugno, ci ha offerto uno spazio per organizzare alcune attività targate Noisey, abbiamo immediatamente pensato di trasformarlo in una cameretta in cui accogliere i nostri ospiti, che sarete voi lettori ma anche alcuni degli artisti che saliranno sul palco. Nella cameretta di Noisey ci sarà lo stereo per ascoltare la musica, il letto (rigorosamente singolo) per rilassarsi, ci saranno i poster e i giochi e un po' di gadget da rubare. E poi ci saremo noi, così possiamo fare The People Versus Noisey faccia a faccia.

I dettagli ve li comunicheremo più avanti, e ci saranno anche biglietti per l'I-Days in palio e altre figate, quindi scrivetevelo con il pennarello sul muro della cameretta così vi ricordate di seguirci.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.


Recensione: Lil Xan - TOTAL XANARCHY

$
0
0

Quando un genere musicale diventa preponderante quello che succede è che dopo una serie di esponenti più rilevanti e di uscite importanti arriva la marea degli epigoni. Si è visto un miliardo di volte, per esempio in Italia in questo momento lo stiamo vedendo dopo il successo di Calcutta, con un milione di progetti che cercano di fare la stessa cosa ma con meno talento, meno originalità, meno genuinità e in definitiva molto meno senso.

La musica che più ha sfondato le classifiche (e soprattutto gli streaming) negli ultimi anni a livello internazionale (e ormai anche a casa nostra) è sicuramente la trap, e a seguito di questa rivoluzione ora chiunque segua certi stilemi arriva in un attimo all’attenzione più mainstream, da zero a duecento in un paio di settimane.

Gli ingredienti sono più o meno sempre gli stessi: ragazzi molto giovani, look appariscente, successo su Soundcloud e YouTube, cadenza strascicata, basi elettroniche minimali, canzoni brevi, tatuaggi in faccia, testi ripetitivi, depressione, psicofarmaci.

L’ultimo di questa imbarcata è Lil Xan, di cui è appena uscito l’album di esordio, ed è davvero difficile trovarci elementi che lo distinguano da troppi altri. Anche perché ormai ne esce davvero uno nuovo a settimana, e ognuno con numeroni e gran fanfara: è difficile pensare che non sia una bolla destinata a esplodere.

Per carità, alcune cose funzionano (nel disco di Lil Xan per esempio il featuring di 2 Chainz è un fattore positivo, e quello di Charli XCX sicuramente un’ottima idea), alcuni di questi ragazzi sono bravi, in ognuno di questi album due o tre pezzi (in questo caso per esempio mi piace “Shine Hard”, con il contributo “pop” dei Rae Sremmurd) che si possono spingere in macchina o in un club ci sono, però (per citare uno dei titoli a cui un po’ tutti questi si ispirano) DS2 di Future è uscito tre anni fa e non ho idea di quanti dischi uguali a quello potremo ancora sopportare.

TOTAL XANARCHY è uscito il 6 aprile per Columbia.

Ascolta TOTAL XANARCHY su Spotify:


TRACKLIST:
1. “Who I Am”
2. “Wake Up”
3. “Tick Tock” featuring 2 Chainz
4. “Diamonds”
5. “The Man” featuring Steven Cannon
6. “Saved by the Bell”
7. “Moonlight” featuring Charli XCX
8. “Shine Hard” featuring Rae Sremmurd
9. “Round Here” featuring YG
10. “Basically”
11. “Deceived”
12. “Betrayed”
13. “Slingshot”
14. “Far”
15. “Betrayed (Remix)” featuring Yo Gotti and Rich The Kid

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

I My Bloody Valentine suoneranno al TOdays

$
0
0

Se oggi esistono chitarristi che pensano al loro strumento non come un mezzo per fare RUOCK ma come calcestruzzo per fissare assieme mattoni di suono, creare muri tanto violenti quanto morbidi, il merito è in gran parte dei My Bloody Valentine.

La storica band shoegaze capitanata dal rivoluzionario chitarrista Kevin Shields ha appena annunciato un'unica data italiana: il prossimo 25 agosto allo Spazio 211 di Torino per TOdays Festival. Si aggiunge quindi ai King Gizzard and the Lizard Wizard e ai War On Drugs, primi nomi confermati.

La loro discografia non è molto nutrita, solo qualche EP e tre album, ma il loro impatto è stato devastante. Il loro classico è Loveless, uscito nel 1991, che per una bella fetta di pubblico cambiò totalmente il modo di pensare la chitarra elettrica. Se lo ascoltate per la prima volta e siete dei chitarristi, sappiate che probabilmente vi verrà voglia di acquistare dei pedali.

Visita il sito del festival per acquistare i biglietti.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Tha Supreme è una promessa del beatmaking italiano

$
0
0

Dirò una banalità, ma non è facile fare musica davvero originale. Anche spezzettare e riassemblare è fare arte, così come rifarsi a una determinata corrente che si trova particolarmente evocativa o significativa. Faccio fatica, sinceramente, a trovare qualcosa che assomigli ai beat di Tha Supreme. Invece di scarnificarli nelle loro componenti, il producer di Roma avvita continuamente attorno alle loro spine dorsali forme e colori. Drop improvvisi e vertiginosi, ritmi in levare, bizzarrie sonore formano muri attorno a scheletri ritmici così pieni di angoli e interruzioni da risultare, ribaltandosi, sinuosi.

A soli diciassette anni, Tha Supreme è già stato preso sotto l'accogliente braccio di Machete: suoi, per esempio, sono i beat di "Perdonami" di Salmo e "GameBoy Color" e "La La La La La" di Dani Faiv. E ha pubblicato due brani in cui ha aggiunto all'equazione la sua voce, tanto frenetica e caleidoscopica come i suoni che le stanno sotto: "6itch" e "5olo". Oggi vi presentiamo in anteprima il suo nuovo video, che viene pubblicato da Avantguardia, cioè il collettivo di producer e beatmaker italiani capitanato da DJ Shablo. Lo potete guardare qua sopra.

La canzone si intitola "Night Cherry" ed è un brano che prima vi accoglie con gli occhioni rassicurante di un black mage di Final Fantasy, poi vi prende per mano e vi porta in uno zoo pieno di fiati dilatati. Abbiamo colto l'occasione per mandare anche qualche domanda a Tha Supreme, che ci ha risposto via mail. Qua sotto trovate l'intervista. Restate connessi per aggiornamenti sulle due nuove compilation di Avantguardia, Takeoff e Landing, fuori a breve su tutte le piattaforme.

Noisey: Quali sono gli effetti di un successo così precoce sul modo in cui pensi e sul tuo quotidiano?
Tha Supreme: Mi dà semplicemente tanta forza per continuare meglio di prima. Non è cambiato più di tanto a livello personale: sono sempre Davide. Sinceramente a volte fa un po' strano, tipo quando a sedici anni mi hanno chiesto per la prima volta una foto. Ho rivisto me stesso un anno prima... è stata una figata, ma anche una cosa strana.

Mentre la produzione contemporanea va molto verso il minimalismo—percussioni a mina, pochissimi suoni—nelle tue succede un sacco di roba. Come sei arrivato a sviluppare un gusto simile?
Molti pensano che io cerchi complessità nei beat per farli sembrare più fighi. La realtà è che sin da bambino ho sempre suonato, avevo già il ritmo nel DNA e credo di essere riuscito a trasmetterlo anche nei miei beat. Non faccio mai “giochi” col beat a caso, mi ci diverto spesso e si sente, ma seguono sempre il flusso del pezzo.

C'è inoltre un elemento di giocosità che si esplicita in ritmi in levare, suoni festosi o strambi. Quelli di "Lil Trapboy" e "Circus", per intenderci. Come sei arrivato a inserirli in ciò che fai?
Credo che ogni artista abbia delle immagini che lo ispirano a livello musicale, magari momenti impressi o anche solo foto o film. Non sempre, ma spesso magari non finisco di guardare un film perché una situazione mi ispira talmente tanto che devo farla diventare musica. Altre volte invece, quando voglio fare produzioni leggere come piace a me, immagino situazioni strambe da cartoni animati. È per questo a volte c’è come un’aria di giocosità nei miei beat.

Parlando con producer più anziani di te, che cosa hai notato di diverso rispetto al modo in cui lavorate?
Sinceramente poco e niente. Ho avuto la fortuna di conoscere dei producer fortissimi con molti più anni di esperienza di me e ho capito che è come se noi creativi parlassimo la stessa lingua. Sicuramente ho ancora troppo da imparare, ma comunque il modo in cui lavoriamo e i viaggi che ci facciamo sono spessissimo collegati pur avendo un bel distacco di età.

Quali sono le lezioni più importanti che hai imparato da quando la tua carriera è cominciata a tutti gli effetti?
La crescita che può fare un ragazzo che a 17 anni si trova dentro a un mondo del genere è esponenziale, sia a livello artistico che personale. Una delle lezioni più importanti l’ho avuta dopo aver visto che la situazione stava diventando grossa: ho capito che bisognerebbe ascoltarsi più spesso, senza perdere tempo. Se si ha qualcosa di grande dentro bisogna farlo esplodere.

Che cosa significa per te rappare, come su "5olo" e "6itch"? Te lo chiedo perché, così come nelle produzioni, anche con le parole vai velocissimo, in mille direzioni, invece di restare su un singolo ritmo.
Iniziare a scrivere sui miei beat non faceva parte dei piani, diciamo che è successo per necessità, forse per dare una voce vera e propria a quello che fino a qualche mese fa dicevo solo con i beat. “6itch”, per esempio, è stato il mio primo vero e proprio pezzo. L'ho scritto per sfogo e l’ho caricato su YouTube il giorno dopo senza aver nemmeno curato benissimo il mix: inaspettatamente è stato apprezzato tantissimo, allora ho deciso di caricarlo su Spotify finendo nel giro di una settimana nella top 50 Viral Italia con un lavoro fatto in nemmeno un giorno. A quel punto, anche se ero strafelice, pensavo che sarebbe stata la mia unica canzone e che si trattasse solo di uno sfogo. Poi col tempo è uscita “5olo” e non nascondo che ce ne saranno altre.

Domanda facile: che cosa ti sta gasando in questo periodo? E perché?
Vado molto a periodi, troppo forse. Magari un pezzo che una settimana fa mi gasava oggi non riesco a sentirlo. Però ultimamente sento un’energia pazzesca tra i giovanissimi in tutto il mondo e questo mi fa davvero felice. Smooky Margielaa e Bhad Bhabie sono le giovani promesse che mi stanno gasando di più ultimamente, la fotta è quella che serve, spaccano tutto.

Quali sono i tuoi punti di riferimento estetici? Oppure: come sei arrivato a prenderti bene con le cose vapor/post-internet/simili?
Lo stile che più si collega alla mia musica secondo me è quello. Quasi tutti i video che ho sul canale li ho editati io per far fare il mio stesso viaggio a chi si ascolta un mio beat. Non è nulla di eccezionale, ma nemmeno quelli sono fatti a caso o tanto per fare un video. Anche quelli fanno parte del pezzo.

Elia è su Instagram: @lvslei

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Guarda come si divertivano i giovani milanesi negli anni Ottanta

$
0
0

Siamo andati a cercarli nelle piazze e nelle strade del centro, nelle sale giochi sempre affollate dove regna la massima concentrazione.

Appena abbiamo sentito queste parole ci è sembrato di essere di fronte a un articolo di VICE, ma nel 1986. Caricato dal canale YouTube cronacavera, che sfortunatamente non ha niente a che fare con l'altra Cronaca Vera, questo video è la dimostrazione che tutti i discorsi su quanto i giovani d'oggi facciano schifo siano tutta aria fritta.

A dividere i giovani d'oggi da quelli del 1986 c'è davvero poco. Un tempo c'erano i pattini ai piedi, oggi le Off White x Nike Vapormax. Una volta ci si metteva il chiodo e si ascoltava il punk, oggi ci si mette il chiodo e si ascolta la trap. Ma per il resto le frasi dette da questi ragazzi potrebbero tranquillamente uscire dalla bocca di un diciottenne, ventenne, venticinquenne di oggi.

"Io vado al Rolling Stone, non perché la musica è buona ma perché ci sono le donne".

"A Milano si va prevalentemente a comprare giacche e sciarpe".

"Andiamo sui Navigli e beviamo un po' e ascoltiamo musica".

"Mi piace Brera per le sue ragioni storiche, i grandissimi scapigliati vivevano lì, poeti maledetti. E mi diverto, haha".

Ora avete qualcosa da fare vedere ai vostri genitori quando, alla prossima festività, si lamenteranno di quanto la vostra generazione sia senza speranza.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Un campeggio di metallari è stato scambiato per un suicidio di massa

$
0
0

Quando sei metallaro la tua idea di vacanza perfetta comprende freddo, gelo, fango, cieli plumbei, cime innevate e la natura più incontaminata. Lo so perché a sedici anni sono andato nelle campagne del Belgio a dormire in una tenda umida per vedere dal vivo i Blind Guardian, ma questa è un'altra storia.

Quella che state leggendo è invece la storia di tre amici metallari scozzesi che hanno pensato di passare qualche giorno in campeggio assieme ai loro figli e a Jazz, il loro cane. E ovviamente sono stati scambiati per un gruppo di persone che si volevano suicidare in massa. E sono stati "salvati" da sessanta persone. Senza che ce ne fosse il minimo bisogno.

La notizia è stata pubblicata da un giornale locale, l'Aberdeen Press & Journal. Il gruppetto è arrivato sulle sponde di un lago, ha parcheggiato, è salito su una barchetta e si è diretto verso un'isoletta dove sta un antico castello in cui Mary, regina di Scozia, venne imprigionata nel 1567 (effettivamente un luogo decisamente adatto per un campeggio metal). Ma un passante, probabilmente guardando le felpe dei Korpiklaani che avevano addosso, si è convinto che i nostri amici stessero andando a suicidarsi. Quindi ha dato l'allarme.

Le autorità hanno quindi agito seguendo questi passi:

1) Hanno mandato delle barche, dei camion dei pompieri e un elicottero a cercarli;
2) Hanno sfondato il finestrino della loro macchina in cerca di una lettera di suicidio;
3) Una volta trovati li hanno interrogati, convinti che ci fosse stato di mezzo un rapimento.

"È stata una serata davvero deliziosa. L'unico problema è che qualcuno ha pensato che avevamo bisogno d'aiuto", ha dichiarato uno degli uomini, Panadiotis Filis, un professore dell'università di Aberdeen. "Ci saranno state tra le 50 e le 70 persone a salvarci, anche se non avevamo bisogno di essere salvati".

C'è una lezione che possiamo imparare da tutto questo: gli scozzesi sono un popolo di gente che non ha paura di scatenare emergenze perché dei tizi vestiti di nero si dirigono verso un'isoletta su una barca. Grazie, Scozia!

Ah, dimenticavo: un altro degli uomini, David Henderson, insegnante di lingue, fa il cantante in una band black metal. Si chiamano Nyctopia. Potete ascoltare qua sotto il loro demo su Bandcamp ed entrare nei meandri del dolore più vero.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

La leggenda di Paul Kalkbrenner

$
0
0

Ultimo sabato d’inverno. Masada, a Milano. Dieci e mezza di sera. “Piovra, tu che sei un DJ: mi chiedono un articolo su Kalkbrenner. A me piace molto, ma non mi sento pronto per scriverne, cosa devo studiare?”
“Guarda, se vuoi ti presto un libro.”
“Su Paul Kalkbrenner?”
“No, no, non c’entra un cazzo con Kalkbrenner. Però potrebbe piacerti.”
“Ah. Grazie.”
“Però Kalkbrenner è un po’ il Moby degli anni zero. Secondo me te la risolvi così. Vado sotto cassa.”

E ci ho pensato, a questa cosa del Moby anni zero. Le premesse sono diversissime, il turbocapitalismo USA da una parte e la Berlino divisa da un muro dall’altra, ma effettivamente sono tante le sfumature che avvicinano i due musicisti, oltre al taglio di capelli. La gavetta, l’underground, l’esplosione e il riconoscimento ben oltre e ben al di fuori del proprio ambiente. Poi però basta sentirli parlare per trovare una frattura insanabile, e anzi, per farne un vero e proprio percorso con la stessa meta: il successo planetario, ma compiuto attraverso un percorso profondamente differente. Da una parte ci sono irrequietezza, eccessi, mancanza di autocontrollo, entusiasmo perenne, trent’anni di attivismo vegano e futurismo, oltre alla delusione di essere eterosessuale. Dall’altra, al contrario, ci sono abnegazione, fermezza e quasi isolazionismo da parte di un artista che quando crea si aliena dal resto del mondo, perché “il silenzio è fondamentale”. Paul Kalkbrenner, in buona sostanza, è un esempio lampante di quanto un artista possa essere intrinsecamente, incontrovertibilmente, incommensurabilmente tedesco.

Paul è sempre stato un predestinato, fin quando da ragazzino vide crollare il muro e iniziò ad ascoltare elettronica grazie agli americani che, volendo reprimere la propaganda sovietica, sostituivano alle stazioni radio moscovite un palinsesto tutto occidentale; una di queste nuove stazioni passava mixtape techno a tutte le ore, senza dare spiegazioni, l’importante era che i messaggi dei rossi non uscissero dalle porte del Cremlino. Lui aveva appena dodici anni, ma crebbe con davanti agli occhi le incongruenze e i paradossi di Berlino est, Berlino, l’Europa, l’occidente. È stato così che nei primi ‘90 ha iniziato a fare clubbing, e poi a mixare e mettere dischi per i locali di una città che cercava di rimarginare le proprie ferite a 120 colpi al minuto. È quasi paradossale che un paio d’anni fa a Rolling Stone abbia detto che per lui la techno è finita proprio in quel periodo, che dopo il ‘93 il genere perse il suo fascino, quando iniziarono ad arrivare “cose come 'Somewhere Over The Rainbow' e la canzone dei Puffi in versione techno”. Un discorso che ho sentito innumerevoli volte ma da parte di artisti di nicchia, spesso metallari indefessi che ricordano i bei tempi in cui ci si scambiavano le musicassette e che difficilmente con i loro lavori sono usciti dal circuito degli appassionati. Fa insomma abbastanza impressione leggere di un artista tra i più celebri dell’elettronica contemporanea, che riempie arene e il cui nome svetta sui cartelloni dei festival più importanti, che approccia la propria musica e il proprio lavoro con riverenza e lucido, consapevole oltranzismo.

Fotografia promozionale.

Non provare a chiamarlo DJ, perché Kalkbrenner ha smesso di lavorare alla musica altrui nel 1999: da quando uscì Superimpose su BPitch Control (etichetta di un’altra berlinese che negli ultimi venticinque anni ha detto due o tre cose in ambito elettronico, Ellen Allien), Paul si è sempre e solo presentato sul palco per suonare. Per questo la sua strumentazione ai live è particolarmente nutrita, per questo non lo vedi mai viaggiare con carrellate di vinili: da vero cultore della materia e del suono, per lui un concerto è tale solo se il suono viene costruito sul momento, se l’artista vive il momento della creazione ogni sera, su ogni palcoscenico, davanti a ogni pubblico. Un attore di teatro nell’epoca del cinema, un caso unico all’interno di una scena dove anche i produttori migliori sfruttano la dimensione live per mischiare il proprio materiale con quello di altri, il sé con l’altro da sé, Paul Kalkbrenner ha come unico obiettivo quello di sviluppare, rinnovare, modificare, esplorare nuove soluzioni ad ogni data, vivendo ogni giorno l’emozione del potere totale e assoluto sul proprio suono. Ecco spiegata la ragione per cui ogni volta che lo vai a sentire percepisci una sfumatura diversa, un colore nuovo. Quell’ombra che la volta scorsa non avevi notato, semplicemente non c’era.

Di ombre e sfumature poi, Paul ne fa una ragione di vita: tutto ciò che compone è suo, solo e soltanto suo, e quando entra in studio—rigorosamente ad anni di distanza dall’ultima volta, per riscoprire l’ambiente a ogni registrazione come fosse la prima—non ascolta niente altro. La musica è solo un output, non può mai essere un input. L’album che risulta dai mesi, a volte dagli anni di lavoro, deve necessariamente essere una sintesi di se stesso e questa catarsi interiore crollerebbe nel momento in cui un brano o anche solo un beat venisse inficiato da qualcosa o qualcuno di esterno. Ecco spiegato come sia possibile che uno dei nomi di punta dell’elettronica contemporanea non sappia praticamente nulla di elettronica contemporanea. E quel poco di cui sa non è che l’abbia soddisfatto particolarmente, vista l’opinione che ha dell’EDM: “sono bassi che droppano e champagne, ma non voglio criticarla troppo, ha un pubblico molto giovane, e immagino che quando a quindici anni andavo al Bunker in mezzo alle strobo fosse più o meno la stessa cosa”.

La scrittura e la produzione di Kalkbrenner sono processi fortemente isolazionisti, quasi alienanti, e non c’è spazio per niente e nessun altro. Dopo quindici anni di underground, l’approdo su una major come Sony è stata una nuova sfida: dal fare tutto da solo, coi propri tempi e le proprie modalità, al dover rispondere e rendere conto a qualcuno, soprattutto a livello commerciale. Perché è chiaro come il sole che ascoltare i brani di 7, da “Feed Your Head” a “One Million Days”, regali un’esperienza completamente diversa rispetto a Self o Superimpose. Il taglio dritto, asciutto e sincopato della cassa di “Queer Fellow” si è ormai disperso negli spazi accoglienti e dilatati di un’assimilabilità quasi pop, ed è difficile credere che tornerà mai. Eppure Paul ha mantenuto una sua coerenza: per lavorare a 7 ha avuto la possibilità di utilizzare lo sterminato archivio della Sony, finendo addirittura per campionare i Jefferson Airplane, ma non ha voluto nessun ospite. Anzi, l’unica critica mai espressa durante le interviste di quel periodo fu che aveva troppa gente attorno mentre lavorava.

Fotografia di Johannes Diboky.

Esiste tuttavia un’eccezione, a confermare la regola dell’eremitaggio musicale di questo berlinese: nel 2016, fresco del successo di 7, ha deciso di lanciare un’operazione speleologica, ricostruendo il suo passato musicale immergendosi in quei mixtape che ascoltava da ragazzino subito dopo l’unificazione: Back To The Future è una raccolta di materiale del periodo d’oro della techno, dall’87 al ‘93 (perché, dopo quel momento la techno è diventata commerciale ed è morta, ormai lo sai), ripescato nientemeno che da YouTube. Il primo e l’unico caso in cui Paul abbia mai modificato anziché creato da zero dal 1999 ad oggi. E per l’occasione ha messo tutto disponibile gratuitamente su SoundCloud. Niente Spotify, niente download a pagamento, niente royalties, Sony deve aver lasciato un discreto spazio di manovra al proprio artista perché potesse permettersi una cosa del genere. E lui, sempre in quell’intervista a Rolling Stone, si augura che questi mixtape vengano sparati “nelle casse di tutte le Fiat 500 e delle piccole Peugeot” durante l’estate, perché l’intento di questa operazione è solo e soltanto dare spazio e risalto alle origini di un sound ancora oggi così pivotale.

Questa non è stata che l’ennesima tappa di un percorso di diffusione e divulgazione della techno che Kalkbrenner ha intrapreso ormai più di dieci anni fa: dopo averla portata al cinema nei panni di DJ Ickarus in Berlin Calling (trampolino di lancio anche per il fratello Fritz, la cui voce modella le dune e i castelli di “Sky And Sand”, uno dei picchi di una grandiosa colonna sonora), l’ha letteralmente messa davanti alla nazione. E qui ritorniamo all’idea originale, al parallelismo con Moby non troppo naturale ma nemmeno esageratamente forzato. Perché se Richard Melville Hall dice di essere amico di Hillary Clinton e di avere contatti nelle agenzie di governo, Paul Kalkbrenner è stato incaricato nientemeno che dal proprio Paese di presiedere alla celebrazione per i venticinque anni della caduta del muro. E lui, rigorosamente da solo, è salito su un palco riempito solo dalla strumentazione necessaria per ricreare quelle atmosfere da zero, sotto lo sguardo della sua città e del resto dell’occidente, con un sorriso sicuro, per festeggiare. Nel 2014, sotto la Porta di Brandeburgo, la Germania intera ha ballato sulle note di “Dockyard”, quel “right here, right now” quasi programmatico, sbattuto in faccia al mondo in un momento di aggregazione unico, probabilmente incomprensibile per tutti noi che quelle cicatrici non le portiamo dentro.

Paul Kalkbrenner suonerà al prossimo I-Days Festival, che si terrà tra giovedì 21 e domenica 24 giugno nell'area Expo di Rho, appena fuori Milano. Se poi ti stiamo molto simpatici, ci sarà anche la Cameretta di Noisey, uno stand tutto per noi.

Acquista i biglietti per il concerto e scopri il resto della line-up del festival.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Recensione: Kamelot - The Shadow Theory

$
0
0

Gli anni in cui i Kamelot padroneggiavano perfettamente l’equilibrio tra il power metal più canterino e autoindulgente e gli arrangiamenti pomposi da finta orchestra sono passati da un po’, tanto che persino i video con il fermo immagine su YouTube caricati dai fan oggi sono poco più di un reperto archeologico. Eppure Karma (2001), Epica (2003) e The Black Halo (2005) sono ancora tre dei migliori album power di sempre, figli di una band in stato di evidente grazia.

Oggi di quella band rimane il solo chitarrista e fondatore Thomas Youngblood, visto che è recente la notizia dell’abbandono anche dello storico batterista Casey Grillo, ma nonostante le avversità il gruppo riesce a tagliare il traguardo nientemeno che del dodicesimo album in studio, il secondo su Napalm Records, ossia una delle quasi-major del mondo estremo. Problema: via via che il buon Tommaso Sanguegiovane porta avanti la sua creatura, ne sposta anche il baricentro verso le orchestrazioni pompose, l’iperproduzione e i fronzoli moderni che affliggono il metallo facile. Così The Shadow Theory viene presentato come un album che offre addirittura “inserti industrial”, quando in realtà si tratta di effettucci appiccicati là che molto (troppo) poco aggiungono ad un sound già più che distintivo e che certo non necessitava di ulteriori specificazioni.

Ora potrei partire con una filippica infinita sull’opportunità artistica di voler evolvere a tutti i costi piuttosto che portare avanti una formula vincente, scrivere quattromila battute su quanto raro sia trovare (soprattutto nel metal) gruppi in grado di sviluppare un discorso coerente e rilevante allontanandosi dal seminato, ma non lo farò. Mi limiterò a dire che il nuovo album dei Kamelot, pieno di tastierone, di archi, di effetti, di post-produzione e pure di coretti per bambini (“Burns To Embrace”) che manco gli ultimi In Flames - no, vabbè, non è vero, gli In Flames hanno fatto di peggio - manca di una cosa importantissima in un album power metal: di canzoni. Tutto scorre, tutto fila via liscio, ma alla fine non rimane niente. Nessuno spunto, nessun picco, nessun momento in cui mi ritrovo a canticchiare come un pirla senza accorgermene.

Forse il risultato peggiore per una band che ha dato e detto tanto, i Kamelot hanno pubblicato un album assolutamente insipido e trascurabile, un elettroencefalogramma piatto che sa di compitino da onesti mestieranti e niente più. Va bene che le hit non si trovano al mercato, ma stiamo parlando di un gruppo che riusciva a rendere accettabili anche i video più orrendi e pacchiani dell’universo tratti da album sottotono, tanto la materia prima era semplicemente superiore. Ed ora, nonostante Tommy Karevik riesca a non far rimpiangere eccessivamente l’ugola di Roy Khan, mi tocca ascoltare quasi un’ora di power metal senza nemmeno un pezzo da starnazzare sotto la doccia lavandomi le ascelle, preda della più grigia indifferenza.

The Shadow Theory è uscito il 6 aprile per Napalm.

Ascolta The Shadow Theory su Spotify:

TRACKLIST:
01. The Mission
02. Phantom Divine (Shadow Empire)
03. RavenLight
04. Amnesiac
05. Burns To Embrace
06. In Twilight Hours
07. Kevlar Skin
08. Static
09. MindFall Remedy
10. Stories Unheard
11. Vespertine (My Crimson Bride)
12. The Proud and The Broken
13. Ministrium (Shadow Key)



Chi va a un concerto degli Evanescence nel 2018?

$
0
0

Questo articolo è apparso originariamente su Noisey UK.

Quando eravamo adolescenti pieni di ormoni avevamo tutti dei modi per incanalare da qualche parte la nostra frustrazione. Chessò, provare a evocare il demonio da un libro antico trovato in soffitta. O scrivere poesie orribili in un diario, bruciarlo e gettarlo fuori dalla finestra. O lasciare che la tua amica ti facesse un buco al naso con una puntina alle tre di mattina di un martedì qualsiasi. Ed era ok, dato che buttare fuori rabbia e angoscia senza fare male a nessuno fa solo bene. O almeno, è quello che mi sono sempre detta.

Queste abitudini non scompaiono automaticamente con l'arrivare dell'età adulta, ovviamente. Ci sono un sacco di sottoculture i cui membri fanno cose un po' strane per divertirsi e per creare un senso di catarsi, e tra queste ci sono anche i goth—una delle più incomprese. A noi goth non piace pogare o incazzarci. Preferiamo dedicarci al lato più buio e teatrale della vita, restare tranquilli ed esprimerci senza vergogna in un contesto in cui non ci sentiamo giudicati. Ma qual è la cosa più goth che un goth può fare? Leggere poesie bevendo vino rosso in un cimitero in una notte di luna piena? Disegnare pentagrammi? Cogliere fiori accarezzando gattini neri? Piangere? Qual è?

Per rispondere a questa domanda sono andata fuori dall'Hammersmith Apollo di Londra prima di un concerto degli Evanescence e ho chiesto ai ragazzi e alle ragazze in coda qual era la cosa più goth che hanno mai fatto. Perché ogni adolescenza problematica ha bisogno di una colonna sonora, e chiunque sia cresciuto alla fine degli anni Novanta e all'inizio del nuovo millennio aveva a disposizione un'ondata di nu metal, goth ed emo per soddisfare ogni suo bisogno. Gli Evanescence erano forse il nome più in vista di quell'ondata—e lo sono anche oggi nel 2018, dato che hanno 22 milioni di fan su Facebook. Ce ne saranno alcuni che mi possono dare una mano a capire quale sia la cosa più goth possibile, no?

SKY, 25

Noisey: Hey Sky, sei piena di brillantini. Non è una cosa molto goth. Qual è la cosa più goth che hai fatto?
Sky: Ho dormito in un cimitero.

Oh. Dimmi di più.
Avevo tipo 17 anni. Era un compleanno e la mia compagnia era formata da goth, metallari e punk. Volevamo ubriacarci, ci siamo ubriacati. Eravamo troppo lontani da qualsiasi cosa per andare da qualche parte o andare a ballare. Quindi abbiamo deciso di bere al cimitero, e siamo finiti a dormire sulle tombe. È stato piuttosto illegale, ma abbastanza divertente. Faceva solo un freddo porco.

Ora che il tuo stile è cambiato un po', pensi che ci sia ancora in te un po' della goth che eri?
Certo! Niente si dimentica, fa tutto sempre parte di te. Posso mettere un girocollo anche se sono in completo, è sempre un modo che ho per esprimermi. Mi sono anche fatta un tatuaggio per gli Evanescence! Lo avevo mandato a Amy su Twitter e mi aveva risposto. Quando ero piccola ho cominciato a fare la truccatrice solo perché ero goth. Rossetto nero, ombretto nero. Mi sono rasata le sopracciglia, me le sono ridisegnate e mi sono resa conto che ero brava e mi piaceva. Ora è il mio lavoro, insegno anche.

Una carriera nata dal goth! Incredibile. Grazie Sky.

EMMA, 29 E VICKY, 33

Hey, sembrate piuttosto goth. Qual è la cosa più goth che avete mai fatto?
Vicky:
Mi sono fatta un piercing al clitoride in pausa pranzo. E poi sono diventata una body piercer.
Emma: La cosa più goth che ho fatto è stato andare a un raduno che durava tutto il weekend, a Whitby. Era un mare di nero.

Figo! Nient'altro?
Vicky: Penso che la cosa più divertente che tu [Emma] abbia fatto è stata quella volta che eravamo in stazione e tu eri vestita super goth. Piercing borchiati, roba del genere. E c'era questa signora che non riusciva a salire sul treno, aveva le stampelle e una valigia enorme. E lei le fa, con l'accento più inglese e posh possibile, "Amore, hai bisogno d'aiuto?"
Emma: Lei è rimasta pietrificata. Secondo me aveva paura che l'avrei buttata sotto al treno. Mi è sembrato che stesse per restarci.

È bello quando la gente si rende conto che sei gentile ed è tutta sorpresa.
Vicky: Sì, gli tieni aperta la porta e ti guardano come se stessi per derubarli.
Emma: Da piccola mettevo il mantello. Mia mamma me ne aveva fatto uno di velluto con intarsi viola, dato che tutti quelli che trovavamo nei negozi li avevano rossi. Santa donna. Mi hanno preso per il culo un sacco, ma io mi sentivo così drammatica. Camminavo, il vento soffiava, e il mantello mi svolazzava alle spalle. Non me ne fregava assolutamente nulla.

MARJORIE, 29 E GIOVANNA, 27

Noisey: Mancano tre ore al concerto e siete già qua. È la cosa più goth che avete mai fatto?
Marjorie:
No. Vengo da Curitiba, in Brasile, e c'era 'sto posto dove si trovavano tutti quelli che ascoltavano rock. E c'è stata una fase in cui ci vestivamo tutti goth—cappotti lunghi, trucco e tutto il resto. Io mi sono fatta fare un trench identico a quello di Neo di Matrix. Ci beccavamo, compravamo vino di merda e andavamo al cimitero, tipo gita.
Giovanna: Onestamente sono sempre stata una codarda, quindi non sono mai andata in cimiteri o roba simile. Ma mi sono sempre piaciuti i vestiti strani. Andavo a scuola alle 7 del mattino con una gonna lunga, anfibi... tagliavo le tende di casa per farmi le gonne dato che i tessuti erano incredibili.

Niente poesie, magia nera o roba simile?
Giovanna: No. Ti incuriosisce, ma poi quando ti rendi conto che è roba seria ti viene voglia di fare un passo indietro dato che non sai quello con cui hai a che fare.
Marjorie: Sì, avevo un sacco di amici presi bene con la Wicca, ma io non mi ci sono mai messa. È quella fase della vita in cui capisci bene quello che vuoi fare, ecco.

Giusto. Grazie ragazzi!

STEPH, 27 E SUA MAMMA, 58

Noisey: Hey voi, qual è la cosa più goth che avete mai fatto?
Steph:
Non saprei, non ho mai staccato la testa a un pipistrello con un morso o roba simile.
Mamma: Avere lei!

Non siete mai state a bere in un cimitero? Sembra una cosa piuttosto comune, a sentire la gente che c'è in giro stasera.
Steph:
No... una volta sono andata sull'isola di Wight, da sola, a vedere i Cure. È stato figo, e mi sono vestita da Robert Smith. E non mi piace viaggiare da sola, quindi mi sono sentita abbastanza ribelle.

Che cosa significa per te essere goth?
Steph:
Significa essere te stessa e sentirti a tuo agio nella tua pelle, seguire il tuo sentiero. Non ho mai conosciuto goth che erano goth perché lo erano i loro amici. È una cosa individuale. Ed è una figata!

Quando hai cominciato ad appassionarti all'estetica goth?
Mamma:
Non sei molto goth, no? Sei quella che sei.
Steph: Sì, mamma dice sempre che non sono molto goth. Va avanti così da quando ero piccola. Mi sono sempre piaciuti i piercing e i miei capelli sono neri naturali, quindi mi sembrava la cosa giusta da fare.
Mamma: Ed è sempre sveglia di notte!

Pensi che il goth sia morto?
Steph: Non direi, semmai si è evoluto. Come ha detto mamma, non mi definirebbe goth. Ma gli altri sì. Penso che lo stereotipo del goth satanista sia morto, sì, ma l'atteggiamento è sempre quello. Non devi per forza essere tutta in nero, puoi anche avere addosso dei colori. Si tratta di una cultura, non di uno stile.

Vero. Grazie!

DYLAN, 19, KAREN, 54, E CONNOR, 25

Noisey: Wow, due generazioni di eyeliner! Qual è la cosa più goth che avete mai fatto?
Karen:
Anni fa ero andata a un festival vicino a casa mia, non c'erano tanti goth in giro ai tempi. Io e le mie amiche ci siamo messe questi vestiti di pizzo tutti trasparenti, ci siamo sporcate di sangue finto e ci siamo messe delle zanne di plastica in bocca. Ti sto parlando degli anni Ottanta, eh! Ai tempi eravamo fuori di testa. Oggi sarebbe meno assurda come cosa.
Dylan: Io mi sono messo uno smalto nero, una volta. Niente di più.
Connor: Forse quella volta che ho perso i sensi e sono caduto su un pentagramma disegnato male per terra?

Oh wow. Che era successo, Connor?
Connor:
Troppo alcol.

Che cosa significa per voi essere goth?
Karen: Non mi definirei più così goth, ma ai tempi era un modo per esprimere me stessa, una trasposizione visuale del modo in cui mi sentivo. Per le donne essere goth significava poter apparire in modo diverso, essere indipendenti e non doversi aggrappare a gruppi di uomini. Nei primi anni Ottanta era incredibile essere una ragazza goth. Ed è grazie al punk se abbiamo potuto esserlo.

Pensi che il goth sia morto?
Karen:
No. Penso che sia tornato nell'underground, ma ogni tanto si fa vedere. La gente vuole abbracciare il loro lato oscuro, è molto sano. Non penso scomparirà mai.
Dylan: Penso sia qualcosa di troppo unico per morire.

Dylan, essendo cresciuto con una mamma così come paragoneresti la tua esperienza alla sua?
Dylan:
Sì, credo. Mi sento a mio agio vestito di nero. Spero davvero che il goth non muoia. Per certe aree della società, almeno per quanto riguarda la mia generazione, l'hip-hop è l'unica cosa che conta. Ed è raro incontrare persone come noi. Per la generazione di mia mamma era qualcosa di enorme, qualcosa di nuovo. Ma le novità sono sempre quelle che la gente trova più affascinanti

ROCKY, 29

Noisey: Ciao Rocky, qual è la cosa più goth che hai mai fatto?
Rocky:
Forse quella volta che sono andato a una festa di Halloween per goth? Mi sono divertito. Tutti erano vestiti in modo davvero serio. Nessuno era lì per scherzare. Che poi sarebbe quello che devi fare ad Halloween.

E che cosa avete fatto?
Siamo andati lì sporchi di sangue finto. Nient'altro.

Ci sta. E che mi dici della magia nera?
Ho studiato un po' il paganesimo e la magia nera. Quando ero giovane mi interessavano molto, ora non direi. Ma è stato interessante. Quella roba è diversa da come la gente la percepisce. Dietro c'è un senso di positività, di guarigione, di promozione della pace. Niente di male. Sono un goth piuttosto felice.

Il goth è morto?
Si vede meno in giro perché se dici "goth" a una persona media quella pensa roba tipo Satana, omicidi, suicidi, sacrifici animali. E non è così.

HANNAH, 23 E ASHLEY, 22

Noisey: Quindi mi stavate dicendo che vivete di fronte a un cimitero?
Ashley:
Sì! Andavamo a prendere del fish and chips e lo mangiavamo nel cimitero.
Hannah: E ci facevamo cacce al tesoro nei giorni di Pasqua! E ci prendevamo a gavettoni!
Ashley: Una sera siamo entrate di nascosto solo per stare un po' lì.

Piuttosto goth, niente da dire. Come vi siete sentite in quel momento?
Ashley:
Non saprei avevamo tipo 14 anni. Ma facciamo ancora roba simile.
Hannah: Vivo sempre lì, dall'altro lato della strada. E nel cimitero c'è una casa, e dico sempre che prima o poi la comprerò.

Che succede quando compri una casa che sta in un cimitero?
Hannah: Bè, in pratica vivi nel cimitero.

Ashley, pensi che farai qualcosa di più goth? O i tuoi giorni da goth sono ormai finiti?
Ashley:
Di solito per le dieci siamo a dormire. oggi è un'eccezione. Di solito sarei in camera mia con un bicchiere di rosso.
Hannah: O una tazza di tè. A guardare American Horror Story.

Che cosa significa essere goth per voi?
Ashley:
Mia mamma mi ha cominciato a far ascoltare gli Evanescence quando avevo otto anni, quindi sono la mia band preferita. Mi sono tinta i capelli di nero quando ero alle elementari, e da allora sono sempre rimasta convinta che tutto questo fosse la cosa giusta per me. Continuavano tutti a dirmi che era una fase, ma non è mai finita.
Hannah: Per me essere goth significa essere sua amica.

Che dolce!

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

La storia di "Tutti pazzi" dei Negazione

$
0
0

Molto spesso la gente comune pensa che mettere su una band sia un passatempo: caruccio ma inutile, seguito da urla come “andate a lavorare”. Soprattutto di questi tempi in cui l’ignoranza è abissale e i ragazzini preferiscono i microfoni e le basi prefabbricate su internet alle chitarre elettriche, l’idea che qualcuno possa cambiare la propria vita perdendo l’udito in una saletta è una follia. Mettete la testa a posto, fate i figli piuttosto che un disco, mettete su famiglia invece di un’etichetta: al massimo se popo popo volete suonare, mettetevi a fare trap o Itpop (ovviamente nel modo più banale possibile, così forse riempite gli stadi).

Ecco, i Negazione sono uno di quei gruppi figli del ruggire degli amplificatori degli anni ottanta che li ha resi una leggenda internazionale dell’hardcore italiano. Sono nati per esigenze esistenziali prima di tutto: suonare li ha salvati da un destino grigio spalancandogli invece le porte delle possibilità. Il loro esempio è stato virale Tanto che io, in prima liceo, li conobbi con Tutti pazzi, che il mio compagno di banco cantava a ripetizione. All’epoca non ascoltavo hardcore, semmai ero già al thrash metal, ma quella canzone mi fece recuperare il tempo perduto. E fu così che mi trovai nel pieno degli anni novanta a bazzicare la scena e torturare strumenti.

Magie delle porte della possibilità, per l’appunto; l’ex batterista storico dei Negazione, Michele Barone, grazie a loro si è innamorato di Berlino. È lì che abita ancor prima della caduta del muro, che ha vissuto in diretta. In occasione dell’uscita della seconda ristampa di Tutti pazzi e relativa presentazione/tributo in grande stile al Forte Prenestino di Roma, ho pensato a un’intervista incrociata fra la Germania e l’Italia con due grandi anime dei Negazione. Da una parte Barone, che sono andato personalmente a trovare nel suo "casato" in zona Kottbusser Tor davanti ad una lasagna autoprodotta; dall’altra lo storico cantante e, diciamolo, poeta Zazzo, vivente e operante a Torino, sempre attivo nel mondo dei dischi, che ha risposto celermente alle mie domande via Facebook.

Due stili diversi i loro: Barone risponde in maniera dettagliata, un fiume di parole e di aneddoti. Zazzo invece è più diretto, sintetico e chirurgico ma non per questo meno passionale, un po’ come i suoi grandi testi regalati ai Negazione. La band era anche e soprattutto questo: un potente assembramento d’individui peculiarissimi. Ascoltiamo quindi dalle loro parole cosa bolle in pentola.

Se non hai mai ascoltato Tutti pazzi, fallo ora cliccando qua sopra.

Noisey: Partiamo con la prima domanda: quali gruppi parteciperanno a questa kermesse?
Barox: Fra i più conosciuti ci sono i Senzabenza, band storica degli anni Novanta. I Wendy, i Tutti Felici, il gruppo che ho messo su io per l’occasione che in realtà è una sorta di reunion tra amici che si conoscono da più di trent’anni. In tre facciamo circa 160 anni di storia punk! Per fortuna che c’è un ragazzetto che canta che un attimino equilibra l’età. Poi ci saranno i Maximillian I°, con i quali farò una versione space noise di Tutti pazzi. Ci sarà anche Mario Spesso, grandissimo personaggio torinese, anche lui del giro hardcore degli anni Ottanta. Porterà una mostra di memorabilia dell’epoca: manifesti, flyer, dischi, foto e via dicendo. E poi Ilaria Beltramme che farà un reading del racconto Bernocchi punk del collettivo di Ostia Territorio Narrante.

Com’è nata l’idea della ristampa di Tutti pazzi? Nel cofanetto contenente la vostra discografia completa ce n'era già una. A che pro riproporla di nuovo?
Barox: L'idea della ristampa girava da un po' di anni. Abbiamo cominciato a parlarne io e Dario di Goodwill, un'etichetta specializzata in ristampe di gruppi HC anni Ottanta. Però non si era riusciti a trovare la quadra. Se devo essere sincero, non sapevo nulla del cofanetto con tutte le nostre ristampe. L'ho scoperto per caso. È stato curato dalla Contempo, storica etichetta fiorentina che allo stesso tempo è anche un negozio di dischi. Però visto che noi eravamo già in trattativa da molto prima, alla fine abbiamo trovato con i ragazzi dei Negazione una formula per proporre quest'altra ristampa.
Zazzo: Sì, la ristampa in realtà è una vecchia proposta di Michele. Quando l'anno scorso si è sviluppata l'idea di ristampare tutto il nostro materiale, partendo dal cofanetto, abbiamo recuperato anche questa visto che Michele, oltretutto, era stato uno dei fautori di quel disco. Inoltre so quanto sia ricercato (e costoso) quel pezzo, quindi era anche dare un'occasione in più a chi voleva avere solo ed esclusivamente quell'EP.
Barox: Lo abbiamo fatto anche per andare un po’ contro il mercato del collezionismo. Se vai a guardare su i vari siti tipo Discogs o eBay, vedrai che l’originale è quotato più di cento euro. Credo che dare la possibilità di comprare un disco che, a parer mio, è un po’ la pietra miliare della discografia del gruppo a una cifra onestissima sia stata una grande operazione. Ho notato una risposta ad ogni modo forte. Non credo che sia stata una casualità che nel giro di due o tre mesi abbiamo terminato le copie della ristampa. Chiaro, parliamo sempre di cifre abbastanza piccole. Però è anche una soddisfazione vedere un riscontro da parte delle nuove generazioni. Credevo che facendo questa roba qui venissero all’evento i dinosauri, miei coetanei che per una serie di motivi, magari avendo già l’originale consumato, vogliono assolutamente la ristampa. E invece.

Pensate che Tutti pazzi possa ancora rappresentare la freschezza incazzata della gioventù? Perché quello è stato un periodo molto particolare in cui voi vi siete non solo formati come persone, ma avete trovato l’unico modo, in quanto giovani del periodo, di dire qualcosa di importante ad alta voce.
Barox: Credo che il disco sia invecchiato bene. Erano quindici anni che non rileggevo i suoi testi e dovendo riguardarli in maniera dettagliata per la ristampa mi sono reso conto che un paio sono ancora attuali, nonostante il discorso sia molto anni Ottanta. Non vedo perché le nuove generazioni non dovrebbero identificarsi con quei contenuti. A parte il lato musicale, per cui comunque i Negazione come gran parte della scena HC italiana del periodo ha fatto scuola. Non mi sembra sia cambiato molto da allora, anzi. Secondo me la situazione è peggiorata. L'Italia è un paese in cui si tende a tornare indietro piuttosto che andare avanti. Non è una situazione di cui stare allegri, e noi all’epoca esprimevamo esattamente questo sentimento.

Zazzo: A giudicare dalla popolarità che ha ancora oggi, direi di si. Mi è capitato di sentire dischi dei più disparati generi, vecchi di trenta o quarant'anni, ma ancora attualissimi se non dal punto di vista musicale almeno da quello dei testi. Probabilmente il fatto di non utilizzare slogan o frasi fatte rende un testo attuale anche a distanza di tempo. Ma allora per noi era una scelta immediata e consapevole, quasi naturale e non certo per il futuro.

Il retro di Tutti pazzi.

Quanto c’è stata la prima presentazione al Fanfulla a Roma, si è potuto ascoltare interpretazioni dei brani del 7" a cura di svariati artisti che bazzicano generi diversissimi dall’hardcore dei Negazione. In realtà quindi era uno stile che riassumeva altre cose, influenzato da altri generi quali il funk, il soul, per fare un esempio.
Barox: Probabilmente era così. Tutti pazzi a parte la velocità e le chitarre distorte ha una base chiaramente funky, ma de che stiamo a parlà? Io ero completamente autodidatta, anche se poi effettivamente ero figlio d’arte perché mio padre suona la batteria. Il groove è sempre stato una caratteristica di famiglia. A quanto pare però Fabrizio, il batterista che mi ha sostituito, nel primo periodo ha avuto seri problemi a suonare quei pezzi. E ricordo che Tax, il chitarrista che era anche un po’ l’esecutore e il produttore delle musiche, all’epoca ascoltava già il primo rap. Avevo e avevamo un’idea della musica abbastanza ampia rispetto a quello che si ascoltava in quei giorni. Sai, il classico pezzo hardcore con due giri e basta!
Zazzo: In realtà all'inizio eravamo totalmente immersi nei suoni HC e punk. O almeno, erano i nostri ascolti preferiti. Nel tempo avremmo poi anche spostato la nostra attenzione su altre cose, trasformando musica e non solo con il passare degli anni. Il metal, il primo rap, il garage... Però l'idea che l'espressione di un gruppo sia il risultato di ciò che ascolta alla fine credo sia la lettura più giusta.

Invece a livello di gruppi hardcore veri e propri quali erano le vostre influenze?
Barox: Senza dubbio l’hardcore americano. Minor Threat, Black Flag, D.R.I., Hüsker Dü.
Zazzo: Black Flag, Circle Jerks, DOA, Faith, Void. I nomi sono noti ancora oggi. Particolare attenzione la dedicavamo all'HC di altri paesi. Tax aveva una rete di contatti molto fitta e spesso gli arrivavano dischi e cassette dai posti più sperduti. Finlandia, Brasile, Sudafrica, Giappone.

in autostop.

Raccontatemi un po’ del vostro primo tour europeo. Si parla di un leggendario Interrail.
Barox: il tour fu un’esperienza abbastanza importante per quanto mi riguarda. Siamo andati in tour utilizzando l'Interrail, quindi abbiamo avuto un mese di tempo per fare queste quattro o cinque date, non ricordo benissimo. Furono due a Berlino, una in un centro giovanile a Bielefeld, poi in Danimarca ad Horus e a Rotterdam. La cosa assurda è che io avevo appuntamento a Berlino con i Kina. Non so perché, ho deciso di partire prima. Io e un amico, io con i capelli rosa, tutto stracciato, l’altro con una cresta. È stata un’odissea arrivare a Berlino, ci abbiamo impiegato tipo tre giorni. Alla fine arriviamo a Kreuzberg, dove facevano base anche i Kina, e a me mi si è aperto un mondo. Arrivavo da una Torino che era di una repressione e depressione unica. Stiamo parlando di un periodo appena successivo a tutto quello che aveva a che fare col terrorismo. La polizia era abbastanza pesante con tutto quello che era un po' diverso. Venivi preso di mira e non ti lasciavano vivere. Era una città definita dalla FIAT, non c’era assolutamente nulla. Eravamo quattro ragazzetti, ci trovavamo in piazza, provavamo nelle cantine e ogni tanto capitava di organizzare concerti in questi centri d’incontro. Mi ritrovo a Berlino ed è una botta di colori, esplosioni di creatività. Il bastione delle case occupate a livello mondiale. Punk da tutte le parti, concerti come se non ci fosse un domani.

Deve essere stato una sorta di shock per te, in senso positivo.
Barox : Sì, certo. Comunque, dopo dieci giorni vado in treno a Bielefeld, raggiungo gli altri per suonare. Eravamo noi, i Declino, i Disorder e un gruppo svedese. Erano saliti punk da Milano e altri del giro toscano, e qualcuno sfonda il distributore di sigarette e le distribuisce in giro fra i punk. Arriva la polizia, partono gli scontri, si chiudono le porte, la polizia non entra, riusciamo a suonare. Da quel momento li siamo stati marcati dalla polizia, infatti il giorno dopo ci hanno scortati in massa per andare a Hannover. E lì un casino della madonna.

Non c'era nulla di autorizzato. C’era questa sorta d’incontro tra i punk che arrivavano dalla Germania e dal nord Europa, ma anche i nazi si erano dati appuntamento a Hannover. A un certo punto non si è capito più nulla. Scontri con la polizia, scontri con i nazi, arrestano Marco Mathieu dei Negazione, arrestano un altro tipo di Milano, si cancella il concerto ed io me ne torno a Berlino. Scarcerato Marco, che è rimasto una notte in cella, si riparte. Eravamo a Brema e dovevamo prendere la coincidenza per andare in Danimarca. Entriamo nel bar della stazione.

E che succede?
Barox: Non che fossimo così appariscenti: chiodi, giacche di pelle, pantaloni un po’ stracciati, niente di che. All'epoca non parlavo ancora tedesco, questa signora ci fa "Raus!" Era chiaro: "andatevene". Ma non si era capito il perché. E allora Marco la manda affanculo in italiano. Questa non capisce ma evidentemente coglie l'intenzione dal tono, quindi chiama la polizia, che arriva e ci caccia. Poi siamo riusciti ad arrivare in Danimarca senza problemi. Fu una bella avventura.
Zazzo: Non fu nemmeno un vero e proprio tour. Quattro date fissate e in mezzo un giro per l'Europa in treno. Ma fu la scintilla che fece partire tutto, perché da lì iniziammo a stringere amicizie e prendere contatti che, nel tempo, ci sarebbero serviti per girare mezza Europa e oltre.

Quando è iniziata esattamente la vostra militanza con i Negazione?
Zazzo: Ho iniziato i Negazione insieme a Marco. O meglio, cominciai a suonare con lui, una data unica a Genova con la nostra band di allora, gli Anti-stato. Subito dopo avvenne il contatto con Tax e Orlando, nostro primo batterista, entrambi provenienti dal 5° Braccio. Lì sono partiti, nel 1983, i Negazione come li avete conosciuti nei loro dieci anni di attività.
Barox: Io sono entrato nei Negazione un anno e mezzo prima di Tutti pazzi, quindi ho registrato uno split cassetta con i Declino. Per rimanere sul tema ecletticità: per un periodo c’è stata una drum machine al posto batterista. Chi è che usava le drum machine all’epoca? Forse solo l’italo disco, oppure l’elettronica di quel periodo.

Dopo l’hanno usata i CCCP, ma era già tardi. Addirittura quindi la usavate prima degli Slayer, che la vedono in formazione per i demo della Def Jam del 1985. O prima dei Big Black.
Barox: Durò poco, forse un concerto o due. Ma era comunque una cosa innovativa se pensi alle formazioni hardcore del periodo. Poi sono entrato io. A sostituire una drum machine. Forse è stato un segno del destino rispetto a quello che ho fatto dopo.

Dove è stato registrato Tutti pazzi, e come?
Zazzo: Lo registrammo a qualche chilometro da Torino, in campagna, nello studio dell'ex tastierista degli Arti e Mestieri, jazz-prog band degli anni Settanta. Ovviamente riuscire a spiegare le sonorità del HC punk ad un musicista che veniva da quell'esperienza non era cosa semplice. Provammo una sorta di produzione con Syd, voce dei CCM, che fallì per problemi più che altro logistici e temporali. I soldi eran pochi, ovviamente. Il tempo ancor meno. Passammo una notte intera a casa mia con Dumbo (Dee Mo, poi conosciuto come Speaker Dee'Mo) che ci curò la grafica, per riuscire a portare a termine la realizzazione della cover. Non fu semplice, ma ce l'abbiamo fatta.
Barox: Lo studio era così comodo che ero riuscito pure ad addormentarmi sul divano mentre gli altri ci davano sotto con le schitarrate!

Il volantino e il testo all'interno di Tutti pazzi.

Tutti pazzi è stato, oltre che un disco epocale, una tappa fondamentale della vostra storia individuale.
Barox: Grazie a questo disco sono arrivato a Berlino, e a distanza di venticinque anni ci vivo ancora. È un collegamento fra il passato e il presente, anche se ora magari non posso dire che mi riconosco completamente con quel genere musicale. È stato parte della mia storia, però ora propongo cose piuttosto diverse. Per una serie di motivi ho deciso di andarmene dai Negazione, senza traumi. Siamo rimasti in buoni rapporti. Volevo fare altro.
Zazzo: Avere fra le mani un prodotto—brutta parola, ma è per rendere l'idea—realizzato da te, dentro al quale ci sono le tue parole, le tue emozioni, i tuoi pensieri e la tua musica allora sembrava al tempo stesso un punto di arrivo e di partenza. E così è stato. Scrissi tutta la parte interna, quella che sta nel poster-copertina, mettendoci dentro quello che passavo e passavamo nella nostra città e nella nostra vita di diciottenni incazzati, circondati da una società molto diversa da quella che ci sta attorno oggi. Ma anche molto simile.

A proposito dei testi, all'interno nel disco è riportata una stesura di "Tutti pazzi” diversa da quella poi incisa. C’è una parte che poi è stata omessa in cui si parla di computer che cancellano cuori. Una roba molto cyberpunk, molto attuale. Come mai non fu cantata quella riga?
Barox: Credo che il testo si riferisca più che altro a un controllo globale. Chiaramente non c’è solo il discorso sulla tecnologia ma anche quello delle telecamere.
Zazzo: Questi sono i momenti in cui la memoria mi abbandona. Penso sia stata semplicemente un’esigenza di pezzo, metrica o quant’altro. O più semplicemente una dimenticanza. Registrai il pezzo così e così rimase.

I Negazione sono stati pionieri anche rispetto al noise o ad altre musiche estreme che sarebbero venute. Ritengo che diversi gruppi giapponesi vi abbiano rubato molto. Eravate coscienti di fare qualcosa d’innovativo o non ve ne fregava nulla?
Barox: Credi sia esagerato dire che sicuramente abbiamo scritto una pagina della storia della musica underground italiana? Quello che è ancora estremamente attuale a distanza di anni è l’attitudine do it yourself, che è fondamentale. Fondamentalmente i Negazione hanno lasciato l’idea che quattro ragazzi si possono inventare pseudomusicisti e scrivere una pagina della storia non indifferente. Magari più nel primo periodo, senza scendere tanto a compromessi, il che non è una cattiva cosa.
Per questo noi abbiamo deciso di riproporre la copertina di Tutti pazzi esattamente come l’originale. Nel cofanetto hanno cancellato la scritta "non pagare più di duemila lire" e tutta la parte interna in cui ci sono tutti gli indirizzi dell’epoca, sostituendoli con una foto. Io invece credo che una ristampa debba essere identica all'originale. La grafica della cassetta all’epoca era fatta tutta a mano, copy and paste del periodo, si passavano le ore nella copisteria ad assemblare e via dicendo. Puro artigianato DIY. All’epoca a Torino o ti facevi di eroina o facevi altro, dovevi fare altro. Nel nostro caso fortunatamente abbiamo scelto di far musica. Con tutti i limiti, perché eravamo gente che non aveva studiato, non era andata al conservatorio. Ma c’era comunque un approccio forte. E non è un caso che la gente ancora si ricorda dei Negazione.
Zazzo: Nel momento in cui suoni non ti preoccupi molto se stai influenzando qualcuno o meno. Il mondo degli anni Ottanta era tutt’altra cosa. Network costruiti con posta e telefono, possibilmente a scrocco. Oggi siamo molto più consapevoli di aver lasciato un segno. Di recente ho visto alcuni gruppi giapponesi rifare pezzi dell’HC italiano. So che per loro, al di là del punk, la cultura italiana è molto importante e seguita. È bello sapere che hai sparso un po' del tuo messaggio in giro per il mondo. È un’eredità, spero, di modo e attitudine, più che musicale e lirica. Un approccio alle cose della vita, prima di tutto. Anche se principalmente siamo stati un gruppo che suonava, faceva dischi e concerti e scriveva testi.

Pensate che Bandcamp, Soundcloud e tutte queste piattaforme in cui la gente propone le proprie cose in massa, teoricamente prodotte in maniera indipendente, siano invece i nuovi padroni della musica? In un certo modo si delega ad altri la diffusione delle proprie opere d’ingegno.
Zazzo: La rete è così. Prendere o lasciare. Non vedo modalità alternative come allora potevano essere le autoproduzioni o le distribuzioni indipendenti. Qui esiste un mezzo, utile e pericoloso. O ne stai totalmente fuori o lo utilizzi. Compromessi di vita che si sono sempre fatti, a partire dal lavoro. Anche se ti produci tu, metti in rete tu, crei uno spazio/sito tuo, in qualche modo sei sempre in mani altrui, e la tentazione di scegliere canali popolari è sempre forte, per arrivare a più persone. Anche se dietro a tutto questo non c'è la logica del successo e del denaro.
Barox: Alla fine va anche bene che ci siano possibilità, piattaforme che danno delle chance alla qualunque per esprimersi. Credo che la qualità faccia la differenza, no? Se senti per duemila volte lo stesso genere o la stessa musica e lo stesso giro, la gente dopodomani si sarà dimenticata di te. Oltretutto, esiste ancora un circuito che si muove esternamente a quello mainstream. E continuerà a esserci.

Un pensiero va al grande Marco Mathieu, il basso pulsante dei Negazione.
Zazzo: Quello che è successo a Marco la scorsa estate è stato un trauma per tutti, in particolare per me e Tax. Ora lui è lì, c’è ma non c’è. Sta in un letto racchiuso in una vita/non-vita e nessuno di noi può fare qualcosa per cambiare questa situazione. Ovvio che la sua persona e la sua personalità è sempre con noi, in tutto quello che facciamo, e che ci riporta a quei dieci anni vissuti intensamente insieme. E ai successivi in cui poi ognuno ha intrapreso strade diverse, ma non ci siamo mai persi di vista. Anzi.
Barox: Anche se non si legge tra le righe, fondamentalmente la ristampa è pensata per lui. Almeno, per quanto mi riguarda è così.

Una cosa appare chiarissima : nonostante tutto e tutti, i Negazione sono ancora i Negazione. Un’entità che esiste al di là dei loro elementi, una roba di cuore e cervello che sembra non avere età e ostacoli che tengano. Insomma, anche se intorno a noi sono tutti pazzi, è proprio vero : “lo spirito continua”.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Anche Noyz Narcos ha paura di morire

$
0
0

Alla fine della videointervista che abbiamo girato con Noyz Narcos, il rapper di Roma parla del fatto che Enemy possa essere il suo ultimo album. Si immagina nel futuro e fatica a pensarsi tagliente e furioso come è stato in passato, com'è adesso. È un sentimento rivoluzionario per Noyz, che attorno ad aggettivi come quelli che ho appena usato ci ha costruito una carriera leggendaria. Per la prima volta nella sua carriera, una sua intera opera è pervasa da un senso di dolore che si risolve in egual misura in aggressione e autoanalisi, attacco e difesa.

Difesa, intendiamoci: da se stesso, non dai suoi colleghi. La qualità delle barre di Noyz non è mai calata lungo il corso della sua carriera ed Enemy non fa eccezione. Credo ne fossero consci anche tutti gli altri rapper presenti su questo album, ed è bello immaginarli concentrati a scrivere strofe che non sfigurassero accanto a quelle del loro anfitrione. Franco126 sembra quello di "Triste" di Ketama, tetro come non è mai quando butta fuori i suoi pezzi con Carl. Luche disegna con la voce un elettrocardiogramma impazzito con picchi alla fine di ogni verso. Rkomi unisce sacro e profano, testa e pancia, cielo e terra: Coelho, figli di puttana, stelle e sangue, baccalà, ragnatele. Salmo sembra sprizzare felicità per essere sulla traccia assieme a un suo pari e, chissà se consciamente, conclude la sua strofa con una chiave di lettura perfetta per l'intero album.

Fino a quando il cuore non si spegne / Ricorda, queste merde sono morte da leggende

Ecco, la morte. Enemy è un album intriso del succo della fine. È mollica porosa pucciata nell'alcool, tanto dolce quanto stordente. Noyz si dipinge con il cielo stellato sulla testa e un bicchiere in mano, street apolide lontano da una casa—Roma, il quartiere—ormai cambiata per sempre, circondato da strade e geometrie urbane che non conosce. "Quaggiù al quartiere non c'è più un cane". "Ultimamente sto per conto mio / Fumo nubi perso nell'oblio". È sempre un mastino, Noyz, nella sua operazione di demolizione musicale. Ma è un mastino con il latte di suocera del tempo passato che, bruciante, gli scorre nel sangue.

Torna ossessivamente alle panchine, Noyz. "Perché inizia sempre tutto alle panchine / Perché è lì che trovi tutto, sulle panchine". In the panchine, far away from problemi. "Pischelli cresciuti sopra le panchine come noi". Ragazzini che sognano i suoi stessi sogni, assaggiano la sua stessa merda, sputano odio e amore in nuove barre che altri ragazzini renderanno eterne. "Resteremo vivi solo su 'ste tracce audio", dice. La fine si avvicina, l'eternità anche. "A vedè i morti stesi nelle bare / A quella roba c'ho reagito male". L'unica speranza è entrare nella testa e nel cuore di chi è ancora lontano dal traguardo, di chi spera ancora in un futuro pieno di possibilità.

Noyz sembra tanto affascinato dalla loro purezza, e pieno di nostalgia per quella che aleggiava in lui un tempo, quanto deciso a distruggere i loro sogni descrivendo la realtà di un presente marcio e di un futuro incerto. Con una singola eccezione: la tomba. "Steso sotto i cipressi sulle colline / Vieni dove ho le rime scolpite / Come tagli e ferite sulle panchine". Sine e Skinny portano il catafalco, Noyz grida all'universo il suo epitaffio. Ed è un capolavoro.

Noisey Meets Noyz Narcos uscirà la prossima settimana sul nostro canale YouTube, iscriviti e non perdertelo.

Enemy è uscito venerdì 13 aprile per Thaurus / Universal.

Ascolta Enemy di Noyz Narcos su Spotify:

Tracklist:

1. INRI
2. Sinnò Me Moro
3. Mic Check (feat. Salmo)
4. Casa Mia (feat. Luchè & Capo Plaza)
5. Sputapalline (feat. Coez)
6. Niente X Niente
7. R.I.P. (feat. Achille Lauro)
8. Vato Loco
9. Matanza (feat. Rkomi)
10. Borotalco (feat. Carl Brave x Franco126)
11. Mark Renton
12. Lone Star
13. Enemy
14. Training Day
15. Lobo

Elia è su Instagram: @lvslei

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Recensione: Ivreatronic - Il suono di Ivrea

$
0
0

Il suono di Ivrea: quale? Forse quello dello storico carnevale a base di pifferi e tamburi? No, affatto. O forse, tutto sommato, sì. Poiché anche se stiamo parlando di una compilation prettamente clubbara, qui di percussioni e tamburi ce ne sono a iosa, così come sgomitate di synth e paddoni da ripiglio post pasticca. Certo, volendo essere sinceri un titolo del genere può apparire presuntuoso (voglio dire, perché IL suono e non UN suono? Ce ne saranno mille altri di suoni ad Ivrea no? Almeno spero per lei). Ma ascoltando la compilation si nota che i brani scivolano nelle orecchie con una certa naturalezza e a volte anche in punta di piedi, qualità che mette in risalto l’operazione come qualcosa di sincero, fatto tra amici.

Ovvio, il fatto che ci sia Cosmo di mezzo (tra l’altro appare con una traccia) implica un certo traino mediatico: ma è il prezzo da pagare se in qualche modo si vuole puntare per una volta i riflettori su una scena piuttosto che sul singolo. Scena che appare preparatissima riguardo ai suoni del dancefloor, a volte originali a volte datati, ma in ogni caso comunque usati nel modo migliore, cioè quello di far ballare e basta mantenendo una personalità, classe e accuratezza certosina nell'equilibrio tra le parti.

Dico questo perché non è scontato: trattasi chiaramente di un disco che ascoltato in casa non rende come in pista, ovvio. Magari non hai voglia di sentire un certo andazzo per tutta la durata, magari ti rompi le palle e skippi. Per andare più a fondo della questione , però, me lo sono ascoltato dal cellulare, senza cuffiette, per vedere come buttava. Ebbene, alla fine si riesce ad entrare nel disco anche senza dover fare uso di subwoofer e ammennicoli vari come luci e discoball, poiché chi lo ha registrato si è posto la stessa domanda che mi sono fatto io: reggerà anche in altri contesti? E quindi per spezzare c’è una vasta gamma di variazioni sonore e a volte anche di sequenzine sintetiche random che portano il tutto, fortunatamente, da un’altra parte.

Fra i tanti ospiti, Daniele Gas già produttore di Gigi D'Agostino, come altrettanti debuttanti che però non sfigurano davanti ai veterani, anzi. Insomma una roba ben fatta, quasi come le famose arance d'Ivrea che dopo le battaglie si trasformano in energia rinnovabile. Come vedete, c’è un filo conduttore in ogni cosa.

Il suono di Ivrea è uscito venerdì 13 aprile per Ivreatronic.

Ascolta Il suono di Ivrea su Bandcamp:

Tracklist:

1. SPLENDORE - Palazzi Marega
2. SIERRA MORENO - King
3. PONY ESPOSITO - Afrinani
4. DANIELE GAS - Il Solco
5. COSMO - Nel Mezzo della Notte
6. FABIO FABIO - Domeniche
. ENEA PASCAL - Teon
8. BITCH VOLLEY - Magggica
9. EXIT - Aquagin
10. PROLOCO - Brontide

A Ivrea ci siamo stati poco fa a incontrare Cosmo, guarda l'episodio di Noisey Meets:

Stai fumando? Ascolta queste playlist di STILL e Lee "Scratch" Perry

$
0
0

Dai, sul serio, vi viene in mente una festa comandata che sia effettivamente divertente? Il Natale è ipocrita, la Pasqua piglia male, San Valentino è per i poveri di spirito e anche il 25 aprile e il primo maggio sono ormai ricoperti da un velo di tristezza a causa della situazione politica e lavorativa del Paese. L'unica festa comandata in grado di metterci un sorriso in faccia è ormai il 20 aprile, la festa della marijuana. C'è chi la celebra tutti i giorni alle 4:20 del pomeriggio, e a queste persone io dico: ci vediamo tra un'oretta.

Parliamo di questa cosa un po' in anticipo perché a Milano ogni anno in questo periodo c'è un festone chiamato 4.20 Hemp Fest, vera e propria esposizione internazionale della canapa, che ospita musica, arte, cultura, cibo e dibattiti sul tema della cannabis. Quello di quest'anno inizia oggi, 13 aprile, e prosegue fino a domenica 15, tutte le informazioni del caso sono sul sito. Noisey sarà presente a documentare la situazione e soprattutto a godersi i concerti.

Domani ci saranno i DJ set del capo del dub-noise The Bug e di Heith, artista ambient milanese che tra le altre cose è anche uno dei fondatori della sensazionale etichetta techno underground Haunter. Domenica Jim C. Nedd e Palm Wine ci faranno fare un viaggio in Colombia presentando il loro progetto Guarapo!, che riprende la moderna musica da ballo di Barranquilla, nel Sud del Paese, una specie di rave music a base di loop afrobeat.

Stasera, invece, suona il papà del reggae, il gran maestro del dub, il sacerdote della cannabis: Lee "Scratch" Perry. Il produttore giamaicano, scopritore di Bob Marley e autore lui stesso con i suoi Upsetters di alcune pietre miliari della musica reggae e dub, è famoso per i suoi live (letteralmente) incendiari e mistici. Prima di lui suonerà la nostra vecchia conoscenza STILL.

Abbiamo chiesto a Lee e a STILL due playlist da ascoltare mentre bruciamo un po' di fiori per staccarci dalla noia della vita milanese, e loro hanno risposto perfettamente. Quella di Lee Perry è carichissima, da Sativa assassina che ti fa ballare tutta la notte, mentre quella di STILL è una playlist da Indica, per chiudere gli occhi e sognare la Giamaica. Ascoltale entrambe qua sotto.

La playlist di Lee "Scratch" Perry per il 4/20

La playlist di STILL per il 4/20

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Ascolta la playlist della settimana con Bresh, Janelle Monaé ed Elysia Crampton

$
0
0

È il 13 aprile, cioè un giorno abbastanza primaverile, cioè non proprio il più adatto ad ascoltare quel capolavoro di crudezza che è il nuovo album di Noyz Narcos, Enemy. Ma non importa, perché è così bello che lo stiamo tutti ascoltando comunque. Questo però non ci, e vi, deve impedire di dare un'ascolto a tutte le cose belle uscite oggi e nell'ultimo paio di giorni. Ne abbiamo raccolta qualcuna per voi nella nostra playlist della settimana, che aggiorniamo regolarmente e dovreste proprio seguire.

Cominciamo con "Pynk", il nuovo singolo di Janelle Monaé e Grimes, un brano da far sentire a quelli che scrivono i successi pop in Italia per dargli una dimostrazione pratica di come si fanno brani che usano le chitarre in maniera contemporanea ma al contempo perfettamente orecchiabile. Si prosegue con Princess Nokia, che ha svoltato il suo sound con un mixtape emo rap, da cui vi proponiamo "Your Eyes Are Bleeding".

Andiamo poi in Sud America con l'elettronica ancestrale di Elysia Crampton, una delle nostre eroine qua a Noisey, con un brano stranamente cosmico e aperto rispetto a quello a cui ci ha abituati: si chiama "Oscollo". E restiamo in zona per dirigerci verso il Messico, dai ragazzi di N.A.A.F.I., che pubblicano sempre ottima musica: come "Audacious" di Debit, una caverna in forma elettronica tratta dal suo esordio Animus.

Si torna in Italia con Noyz, ma subito dopo c'è un'uscita a cui sareste dovuti stare attenti negli ultimi giorni: "Snake", il nuovo singolo di Bresh, prodotto da Nebbia e ottima conferma delle capacità del giovane MC genovese. Ci sono poi un po' di pezzoni dagli Stati Uniti: Nicki Minaj torna a fare quello che fa meglio, cioè la rapper cazzutissima, su "Chun-Li"; G Herbo ha pubblicato un remix della sua "Who Run It" assieme a Lil Uzi Vert; Saba, da Chicago, ha pubblicato un capolavoro di storytelling che non ha nulla da invidiare a quelli del suo mentore, Chance the Rapper. Abbiamo inserito il brano di apertura del suo nuovo album, CARE FOR ME, "BUSY / SIRENS".

E poi via, svolta improvvisa: c'è il pianoforte di Keith Kenniff, in arte Goldmund, con un brano tratto dal suo nuovo capolavoro di quiete Occasus. C'è l'elettronica di Rival Consoles, che ci ricorda con "Hidden" quanto sia sottile il confine tra ballo e contemplazione. Concludiamo con il folk / doom dei Wrekmeister Harmonies, che assomigliano molto all'ultimo Nick Cave (ed è un complimento), e con l'unico cantautore italiano che dovreste ascoltare oggi, cioè Caso, che con "Dente di leone" va a insegnare a tutti quelli che vogliono far musica italiana come si scrivono testi che non ti fanno venire in mente le parole, "Hey questa roba l'ho già sentita".

Ah, c'è pure un nuovo EP di Young Thug ma non c'è su Spotify. Quindi niente. Basta. Ci vediamo settimana prossima. Seguite la playlist! Bravi.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Suonare nei Siberia è fare autocritica

$
0
0

Da un po' di tempo a questa parte il mio profilo Facebook è subissato da richieste d'amicizia provenienti dalle persone di internet. Puntualmente le accetto, scorro il profilo, ci trovo solo meme & layer & post-ironia e sono costretto a togliere immediatamente il segui. Io non riesco a non essere sincero. Non ho mai parteggiato con le dichiarazioni invisibili che continuamente vogliono ribadire quanto i loro estensori siano vicini e distanti da tutto in modo indistinto. È per questo che sono stato colto da una folgorazione quando ho ascoltato per la prima volta i Siberia, un gruppo italiano dark pop che strizza l'occhio a una retorica un po' alla D'Annunzio mescolata con tappeti sonori un po' alla Diaframma (quando era Miro Sassolini a cantare, però) e Cure.

Si trattava di una boccata d'aria rispetto all'estetica sonora delle passioni tristi (vedi alla voce Coma_Cose) e degli slogan facili (vedi alla voce Calcutta). Per giorni ho ascoltato solamente Si vuole scappare, il loro secondo e ultimo disco uscito a Gennaio, traendone un senso di rinnovato benessere ad ogni ascolto. Per questo motivo, la settimana scorsa ho fatto una lunga chiacchierata con Eugenio Sournia (si pronuncia "Sournià", come Delacroix), voce e penna del gruppo, col quale abbiamo parlato di new wave e cattolicesimo per tener fede al progetto di una nuova epica del dolore che tenti di superare il minimalismo stanco degli Xanax su Instagram.

Siccome mi si è rotto il telefono, l'intervista è stata arrangiata utilizzando come telefono il telefono di casa di mia nonna, e come registratore il suo cellulare. Dopo una prima chiamata non andata a buon fine (non riuscivo a capire come inserire il vivavoce) fortunatamente riusciamo a portare a termine con successo l'intervista.

Noisey: Scusate il ritardo, ma ci dovrete fare il callo siccome il 4 Maggio suonerete a Roma e qui viene sempre tutto posticipato.
Eugenio Sournia: Veramente suoneremo a Roma il quattro aprile, domani.

(Silenzio. Vado a controllare su Facebook perché sono sicurissimo di aver ragione)

Avete ragione. Sapete perché mi sono confuso? Perché il quattro maggio qui a Roma suoneranno i Diaframma. Questa intro si è praticamente scritta da sola, no? Parto chiedendovi subito se il vostro nome vuole essere un omaggio al celebre disco d'esordio della band di Federico Fiumani.
In realtà, l'idea deriva dalla lettura di Educazione siberiana di Nicolai Lilin. Quando abbiamo deciso questo nome non conoscevo, colpevolmente, il disco dei Diaframma, e una volta scoperta l'omonimia il progetto era già avviato. Ma poi, in fondo, perché no? Ci sono forti analogie tra me e Federico. Amo molto il suo lavoro, sono fan dei Diaframma, e considero Siberia un bellissimo disco. Solo, non abbiamo mai voluto essere un gruppo di genere. Il nome vuole indicare una fascinazione per la Russia e una generica tendenza all'introspezione. Banalmente è anche un nome abbastanza corto, molto memorizzabile. Ci hanno anche proposto di cambiare nome, due o tre anni fa, però siccome non avevamo alternative valide alla fine decidemmo di tenere questo nonostante appunto l'omonimia. Al di là dell'omaggio, col tempo speriamo di scrivere la nostra storia.

Certo. Uno pensa quasi automaticamente all'omaggio perché fate una cosa assimilabile alla new wave a livello musicale, e Siberia è un caposaldo del genere in Italia.
Sì, la domanda è giusta. Per quanto io possa sostenere che il nome è stato ispirato da un'altra cosa, sicuramente ci sono delle analogie, anche territoriali visto che entrambi siamo toscani. Poi abbiamo avuto una chitarra in comune, per anni ho avuto lo stesso taglio di capelli...

"La new wave da liceale", come canta Rachele Bastreghi dei Baustelle in "Gomma".
In quel pezzo mi riconosco molto. Molti ci accusano di essere un po' derivativi rispetto ai Baustelle, ma io questa cosa la vedo come un complimento perché loro sono stati il primo gruppo che mi ha spinto davvero ad ascoltare la musica italiana, mi hanno fatto innamorare della tradizione. Da liceale ascoltavo solo musica in inglese. Sono stati un punto di passaggio importante, e anche loro sono toscani. Abbiamo un retroterra culturale comune perché in Toscana la new wave si respira, i nostri concerti sono anche pieni di trentenni-quarantenni affascinati da questo clima.

Ma, ti ripeto, ora come ora non vogliamo essere in alcun modo un gruppo di genere. Vogliamo cercare di evolverci. Il nostro primo album cercava di riprodurre un certo suono, già col secondo disco abbiamo modernizzato il nostro approccio. Mi auguro che il prossimo disco sarà ancora diverso.

Fotografia di Francesco Levy.

Vi ho citato i Baustelle perché appena vi ho sentiti vi ho immediatamente accostati per una certa cura nei testi. Ci ho visto anche una magniloquenza tipica della letteratura novecentesca, alla D'Annunzio per intenderci.
Sono d'accordo. Io quasi non mi considero un musicista, mi considero soprattutto un autore di testi. Che è quello che ho sempre voluto fare. Da quando scrivo canzoni ho quasi smesso di scrivere poesie perché una cosa del genere è più facile farla da dietro ad un microfono piuttosto che pubblicando raccolte, senza contare che poi è molto più divertente. Quello che faccio ce l'ho nel sangue... ho studiato lettere, mio padre suonava in una band new wave.

E se ti dicessi di dirmi un poeta particolarmente formativo per te?
Ungaretti. Nel vecchio disco lo cito esplicitamente, tipo in Cara Francesca; addirittura, senza nemmeno farlo apposta, ho preso alcuni suoi versi e li ho copiati e incollati nelle canzoni credendoli miei, e invece non erano miei manco per niente! Con Si vuole scappare ho cercato un po' di modernizzare la scrittura. Volevo andare un po' incontro alla "scena", a quello che sta succedendo. Il linguaggio sta andando in un'altra direzione. Sicuramente è giusto andare avanti e mantenere le cose belle, ma è sciocco precludersi la possibilità di parlare direttamente e schiettamente ai tuoi coetanei.

Chi altro pensi che abbia influenzato la tua scrittura?
Sicuramente John Keats, del quale ero proprio fan tipo ragazzina urlante. Poi sicuramente Montale, figurati che io mi chiamo Eugenio perché mia madre voleva un emulo di Montale. E poi stranieri, per esempio Rainer Maria Rilke. O Puškin, anche nella prosa. Comunque ho una formazione abbastanza scolastica. L'unica cosa che mi preme è dire che non mi piace tanto l'Ungaretti che si studia a scuola. Il mio preferito rimane quello del tardo periodo, quello più vivo e più umano, quello della raccolta Il dolore. È ispirata alla morte del figlio in Brasile per appendicite. Bellissima, di una tristezza inenarrabile.

La vostra etichetta, Maciste Dischi, pubblica i lavori di nomi come Gazzelle e Canova. Voi invece fate dark pop, una definizione vostra che stride molto col roster dell'etichetta al punto da suonare quasi come una presa di posizione.
Siamo in Maciste prima di Gazzelle e Canova. Il nostro primo disco è uscito nel 2016, parecchio prima dei progetti che poi hanno dato tanta visibilità alla nostra etichetta. Maciste è stata fondamentale. Credo che per le band ci sia una sorta di timer: se le cose non cominciano a diventare serie entro qualche anno da quando cominci, poi subentrano un po' di stanchezza e scoramento. Il manager di Maciste, Antonio, ci ha instillato una grande volontà di fare questa cosa con più serietà. Siamo riusciti a evitare di impantanarci nell'amatorialità, rischio sempre presente per una band di provincia come siamo noi, che veniamo da Livorno. Per quanto riguarda la nostra diversità dagli altri: penso sia giusto spartirsi il terreno di caccia, diciamo così. Facciamo sport e campionati diversi, usiamo linguaggi totalmente diversi. Penso che sia un talento anche riuscire a parlare un linguaggio semplice e quotidiano. Noi ci divertiamo a rompere le scatole al terreno del pop tradizionale, ma aspiriamo comunque a piacere al maggior numero di persone possibile. Non vogliamo confinarci in una nicchia, anche perché non siamo né dei musicisti particolarmente tecnici che si basano solo su questo né dei nuovi De André. Cerchiamo di fare delle belle canzoni. Sono molto democristiano!


Leggi anche:


Penso sia giusto non prendere posizioni troppo nette per quanto riguarda la musica.
Queste posizioni te le puoi permettere quando hai dimostrato qualcosa, e noi non abbiamo ancora dimostrato niente. Quindi ti direi: andiamoci piano.

La semplicità può essere difficile quanto la complessità.
Sì, te lo dico con convinzione. Quando il mio manager ci dice di scrivere una canzone pop io spesso non ci riesco. Ho come un filtro che non riesco ad eliminare.

Io penso che il pop sia un'arte a sé. Fosse facile fare la melodia accattivante che ti rimane in testa al primo ascolto, fosse facile fare gli ABBA o i Ricchi e poveri... e invece ci vuole un talento speciale per assemblare certe cose.
Sono d'accordo. Si può essere complessi partendo da un livello culturale di base e da un talento discreto. Unire semplicità e genialità richiede una abilità fuori dal comune. Poi non è che tutto l'itpop sia geniale, eh: anzi, secondo me il grande guaio è che si è rapidissimamente codificato in alcuni stilemi. Quindi si è giunti davvero ad una proliferazione di uscite veramente, veramente simili, che lo stanno logorando con molta velocità. La creazione di un canone è la morte di un genere.

Io la stanchezza che dici tu l'ho avvertita con gli ultimi pezzi di Calcutta. Appena li ho ascoltati, ho pensato: basta retorica delle piccole cose, torniamo alle cose più grandi, cerchiamo di andare oltre il quotidiano. Voi invece siete molto lirici, se vuoi molto sfrontati.
La magniloquenza è un tratto della mia personalità, è sia il mio più grande pregio che il mio più grande difetto. Nella scrittura e nella vita. Secondo me dobbiamo non abbandonare, ma piuttosto unire la poetica delle piccole cose alla retorica delle grandi. La vita ha un po' entrambi gli aspetti, siamo tutti uomini che mangiano vogliono fare l'amore e ubriacarsi ma siamo anche tutte persone con un'anima e dei bisogni più intimi.

Scrivi molti pezzi d'amore. La tua magniloquenza ti crea problemi anche sentimentalmente, immagino. Io, per esempio, sono una persona molto pesante.
Stai sfondando una porta apertissima. Guarda, in passato di più. Io ho un'educazione molto cattolica, e...

Ne ero sicuro.
Quando ero piccolo cercavo di tenere questa cosa tra le righe perché non è esattamente sexy, ecco. Però mi sono reso conto che è una cosa che fa parte della mia personalità, che mi ha dato un punto di vista molto particolare sulla realtà. Ho sempre vissuto l'amore con grande slancio, ho sempre voluto trovare la donna della mia vita. Unito questo a Keats, Ungaretti e così via, puoi immaginare queste povere figliole quante canzoni e poesie hanno dovuto sopportare. Poi ho avuto la mia buona dose di calci in faccia che mi hanno reso più realista.

Fotografia di Matteo Casilli.

Questa tendenza ad innamorarsi spesso penso sia una specie di malattia. Gaber, in un'intervista a proposito de "Il dilemma", dice a Giovanni Minoli che l'innamoramento fulmineo implica o consegue da una certa debolezza dell'uomo, da una sua incapacità di trasferire le cose sul piano progettuale, e collega la cosa alla libertà sentimentale degli anni Settanta.
Qui emerge tutto il cattolico che è in me, sono molto d'accordo. È un grande difetto che ho io come le persone della mia generazione. Ma non solo, vedi Fiumani, a cui una donna dura due tre anni. Io vorrei evitare, ecco. Ho sempre cercato di cantare un amore che fosse costruttivo, non una fiammata. Come in "Laura": Un'alba che nasca da queste macerie. "L'amore non è guardarsi l'un l'altro, ma guardare nella stessa direzione" è una frase che cito spesso, anche se a volte sembra di una banalità sconcertante. Io spero che l'amore cantato nelle mie canzoni si avvicini a questo. Sicuramente nei miei pezzi non c'è l'amore sessuale, ma c'è molta sensualità. Come in "Cuore di rovo".

Niente maledettismi alla Piero Ciampi.
Secondo me Ciampi è un grande artista, sto iniziando a capirlo da poco. Da ragazzino ero molo affascinato dal maledettismo, che poi mi fece allontanare molto dalla fede perché è comunque affascinante scoprire la morte, Eros e Thanatos, no? Entrambi ti rivoluzionano la vita. Di Ciampi mi piace tanto la verità, la sincerità con cui parla dei moti dell'anima dell'uomo creativo. Anche io vorrei dire la mia verità. Col tempo spero, nel corso degli anni e dei dischi, di riuscire a tirare fuori anche delle verità più inconfessabili.

Anche la ragazza di "Cara Francesca" è una persona esistente?
No, forse è l'unica non ispirata a una persona reale. In quel periodo avevo letto alcuni libri sulla seconda guerra mondiale ed ero rimasto colpito da quanto si fosse disposti a dare la propria vita per un ideale in cui si credeva. Vedevo la mia inerzia, la mia inettitudine, e così ho scritto questo canto di speranza per la nostra incapacità di seguire con coraggio i nostri ideali. Francesca è ciò a cui si rinuncia per seguire le proprie idee, è un sacrificio volontario.

Il ritornello di "Nuovo pop italiano" è incentrato sul rapporto che uno può avere da ragazzino con la musica. Da piccoli si è tutti gnostici, col retaggio anni Novanta della musica che ti salva, della frase che ti salva. "Hai playlist di verità / nuovo pop italiano": tu ce l'hai ancora questo rapporto salvifico con la musica, nonostante la fede?
La fede è importante, ma la vivo con molta razionalità, è molto sepolta nel mio cuore, talvolta inaccessibile..

Pitigrilli diceva: il rapporto tra me e Cristo riguarda solamente me e Lui.
...e quindi nella vita quotidiana le mie sensazioni, le mie passioni, i miei sentimenti sono convogliati principalmente da altre cose. La musica è una delle cose che mi muovono. Io l'ho sempre vissuta come una cosa molto privata. Con questo pezzo volevo stigmatizzare le persone nei loro tardi vent'anni che vivono ancora un rapporto simile con le cose, questi finti maledetti un po' adolescenziali. Quando dico quella frase faccio riferimento a un atteggiamento tipo oddio Spotify ha messo la nuova canzone di Calcutta piango. Ognuno si commuove con la musica che gli pare, ma poi su internet vedi reazioni adolescenziali da persone da cui non sarebbe lecito aspettarsele.

Quanti anni hai?
Ventisei. Ci tengo a dire che quando punto il dito contro gli altri mi accorgo di averlo puntato contro me stesso, perché poi io sono il primo a fare queste cose. Questa canzone parla di costruirsi un personaggio vissuto attraverso gli psicofarmaci, attraverso la musica che uno ascolta, ma io in questo calderone mi ci metto in mezzo per primo e in maniera particolare.

Viviamo in un'epoca di estetizzazione del dolore nella quale ostentare il proprio star male è una cosa molto hip, molto fica, e anche questo mi sembra un retaggio degli anni Novanta.
Pensa anche alla svalutazione delle parole "disagio" e "ansia".

Sì, esatto, sono svuotate di senso. Stare male è uno status symbol, manca un'epica del dolore. Ho come l'impressione che siamo diventati incapaci di stare male per davvero. Lo xanax se lo prende mia nonna per dormire la notte.
Il dolore come una cosa seria, esatto. Tutto qui. Chiaro che poi diventa molto difficile perché, a furia di parlarne, qualsiasi argomento si svaluta. Ma ho conosciuto persone con forti problemi psichiatrici e quando vedo queste cose mi prudono le mani. Ci sono tantissimi motivi per stare male, è vero, ma sento che non è giusto banalizzare certe cose. Ed ecco perché il video di Nuovo pop italiano lo abbiamo fatto sul disturbo ossessivo compulsivo, per fare un piccolo tributo al dolore come una cosa seria.

Quello che non va su Instagram.
Però va comunque su YouTube. È un po' come Lo stato sociale che non si capisce mai bene se pensa quello che canta o no. Volevamo fare una maglia con scritto "Deloraze pane e vino", quindi vedi bene che alla fine, per quanto parti con le migliori intenzioni, per essere vendibile devi oggettificare queste tematiche. Nonostante il loro peso.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.


Gli antivaccinisti ce l'hanno con Jovanotti

$
0
0

Ieri sera, durante il suo concerto alla Unipol Arena di Bologna, Jovanotti si è preso un momento per parlare al suo pubblico di vaccini. "Io posso andare a fare una ricerca su internet ma c'è gente che ha dedicato una vita allo studio delle malattie", ha detto. "Sei d'accordo con me che ci si affida a quelli che ne sanno di più?", chiede a qualcuno nel pubblico.

Un breve video dell'accaduto, condiviso dalla pagina Rete Informazione Vaccini assieme a un ringraziamento al Jova, ha ovviamente fatto arrabbiare molte persone. Molti dei commenti dei no-vax sono stati cancellati dalla pagina, ma a loro testimonianza restano gli interventi della pagina stessa, che li prendono in giro con riferimenti vari a big pharma, censura, dittatura e tutto il classico campionario dell'ideologia antivaccinista.

Dato che il complottismo sopravvive però a ogni cosa, eccovi qua sotto qualche post, commento e tweet atto a darvi un'idea delle reazioni che l'intervento di Jovanotti ha scatenato. Prima di leggerli vi consigliamo di dare un'occhiata alla copertura di VICE sui vaccini, di farvi spiegare dal medico divulgatore scientifico Roberto Burioni come sono nate le teorie del complotto sul legame tra vaccini, autismo e industria farmaceutica e di dare un'occhiata, per esempio, a questo studio in cui i benefici dei vaccini sono dimostrati seguendo il metodo scientifico.

Cominciamo da un video che accusa Jova di non essere più "antisistema" e ficca dentro riferimenti deliranti a Galileo postato da un tizio che ha un profilo Facebook il cui URL è "facebook.com/radioautismo.org". I commenti sono tipo "Un altro venduto del sistema", "è chiaro che per i soldi farebbe morire milioni di bambini" e il mio preferito "Ha partecipato ad un incontro segreto di cui facevano parte anche le case farmaceutiche (LO HA RIVELATO LUI IN UN VIDEO) le quali PAGANO BENISSIMO! Perché hanno scelto lui? Sarà bastato un altro algoritmo!! Venduto infame!"

Qua un tizio fa una gag modificando il testo di "Sono nato fortunato":

Sono cominciati i richiami a togliere il like alla pagina del Jova:

Informare x Resistere, la discarica complottista dell'internet italiano, genera commenti tipo "Grandissimo pezzo di merda: sei un essere indegno! Vergognati! Vai a vedere tutti i poveri bambini danneggiati dai vaccini e fatti x sempre schifo, luridissimo verme venduto!":

Sperando che questa nuova ondata di odio a casaccio si esaurisca presto, ci risentiamo alla prossima teoria complottista.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Guarda anche:

Non c'è nessuno come Beyoncé

$
0
0

Questo articolo è apparso originariamente su Noisey US.

Dov'eri quando Beyoncé ha suonato al Coachella 2018? Magari eri accampato fin dalla mattina a ridosso delle transenne e stavi cominciando ad avere dei dubbi, scomparsi nel momento in cui la sua ombra ti ha sfiorato mentre lei strisciava sulla passerella durante "Partition". Magari eri in salotto a guardarla in streaming, urlando verso lo schermo e abbracciando i tuoi amici mentre la silhouette delle Destiny's Child si stagliava sul palco. O magari ti sei ritrovata a piedi nudi sul prato, senza i tuoi amici, a cercare di risalire la collina contro la corrente di centomila persone che non avevano occhi che per lei. È quello che è successo a me mentre iniziava quello che è probabilmente il concerto più atteso della storia del Coachella, sabato scorso.

Scalza, sola e con il cellulare che non prendeva non è esattamente come avevo in programma di godermi il concerto di Beyoncé. Io, come ogni buona discepola, avevo passato tutta la giornata a prepararmi a quel momento – avevo fatto un pisolino, bevuto molta acqua, scelto una pelliccia coordinata con quella delle mie amiche e fatto stretching ascoltando Lemonade in repeat.

Nelle ore precedenti, in assetto da guerra, armate di birre, parliamo delle Haim mentre occupiamo il nostro posto nel beer garden del palco principale. Poi, naturalmente, tutto va in malora. Nell'area VIP ci sembra di essere dentro un feed di Instagram e decidiamo di spostarci. Io giro un angolo e le fibbie dei miei sandali decidono di mollare la presa dalla suola. Non ho scelta, devo togliermi le scarpe. Quando ritorno in posizione eretta la mia squadra si è dispersa, trasportata dalla corrente. In pochi minuti, passo da essere Miss Perfezione a Quella Ragazza Messa Male al Coachella.

Poi Beyoncé sale sul palco. È un momento che tutti attendono da due anni. Scende da una piramide color giallo limone e ottone, una corona appoggiata sui suoi capelli mossi dalla brezza - come se avesse cominciato a soffiare solo grazie alla sua presenza. Dietro di lei svolazza un mantello di lustrini con l'effigie di Nefertiti, la Grande Sposa Reale, regina egiziana famosa per una rivoluzione religiosa. Per lei c'era un unico, solo dio: il Sole. Sul palco ci sono dozzine di persone. Ballerini, cantanti, musicisti che per le seguenti due ore andranno a creare il più grande spettacolo nella storia del Coachella.

La salva di ottoni di "Crazy in Love" annuncia l'arrivo della regina mentre io guardo da lontano. La folla copre ogni punto del mio campo visivo. È lì che capisco che non importa dove sei o con chi sei. Anche se non sei davanti al main stage, anche se non sei nemmeno al Coachella, sei comunque a vedere Beyoncé dal vivo.

Questo concerto in realtà è iniziato nel 2016. È nato dagli imprevisti della vita, quando Beyoncé ha dovuto rimandarlo perché era incinta di due gemelli. Ogni altra donna, specialmente se di colore, sarebbe stata licenziata mancando un'opportunità del genere. Avrebbe perso il treno. Sarebbe stata sostituita. Ma Beyoncé ci ha fatto aspettare e, con il lusso di un anno extra per prepararsi, sapeva esattamente che occasione si trovava davanti.

“Grazie a Dio sono rimasta incinta", ha detto alla fine del concerto. "Così ho avuto tempo per sognare tutto questo".

Beyoncé arriva sul palco super carica. Si toglie il mantello e rivela il suo outfit: short di jeans e una felpa gialla con lustrini, stivali di pelliccia e quei capelli bellissimi. Senza perdere tempo, si lancia nel meglio di Lemonade e Beyoncé. Io sono seduta per terra e mi sto facendo aggiustare la scarpa con dello scotch da un tizio che poi scopro aveva accompagnato Bey e Jay in una visita guidata dell'area del festival. È il momento in cui sono più vicina a Beyoncé in tutta la nottata. "Formation" squilla lontana. Sono di nuovo in piedi e sto correndo.

Foto di Kevin Winter

Beyoncé, fortunatamente, si prende il suo tempo. A differenza dei suoi ultimi tour, lascia perdere i medley con 30 secondi di ogni hit e si concede di eseguire le canzoni nella loro interezza, aggiungendoci riferimenti a Kendrick, Sister Nancy, J Balvin, Juvenile e Nina Simone. Presenta versioni leggermente rimescolate di inni totali come “Formation”, “Diva” e “Baby Boy" – tutte arricchite da un esercito di ballerini in calzamaglie color limone, la loro comunicazione incentrata sulle pelvi. Bey ci entra dentro con il suo sguardo, salta su una gru e resta sospesa sopra la folla, poi entra in modalità dominatrice con una tutina di lattice attillata. Le donne vicino a me sembrano spiritate. Penso a poco prima, quando alcuni amici maschi parlavano di non capire l'hype che circonda Beyoncé. "Forse è tipo il rap per noi", ha detto uno di loro, e penso che ci sia un po' di verità in questo. Beyoncé dà all'identità femminile ciò che il rap dà a quella maschile: autostima, solidarietà e arroganza per chi nel corso della storia non vi ha avuto accesso.

Le parole di Chimamanda Ngozi Adichie tuonano dalle casse:
Insegniamo alle ragazze come farsi da parte, come farsi più piccole.
Diciamo alle ragazze: puoi avere ambizione, ma non troppa.
Dovresti puntare ad avere successo, ma non troppo successo, altrimenti potresti minacciare l'uomo.
Insegniamo alle ragazze che non possono vivere la sessualità nel modo in cui lo fanno i ragazzi.

Nelle due ore del suo concerto Beyoncé ci porta a New Orleans (“Crazy in Love”), in America (“Lift Every Voice and Sing”), all'opera (“I Care”), alle scuole medie (“Soulja”), nelle profondità del mal d'amore (“Me, Myself, and I”), in cima alle classifiche (“Single Ladies”). È un momento culturale, uno spettacolo storico che sembra tanto significativo per lei quanto lo è per noi. Ci ringrazia per averle permesso di essere la prima donna nera headliner del Coachella. Ringrazia tutte le donne che hanno aperto porte per farla arrivare lì. Tiene tutto in famiglia: gli unici ospiti sono suo marito, sua sorella e le donne che hanno dato il via insieme a lei alla sua ascesa, Kelly Rowland e Michelle Williams. Le Destiny's Child. Ci ricorda che nella musica non importano le mode o il genere che suoni ma la tua esperienza, le tue origini.

Dopo il concerto ho sentito alcune critiche. "È stata troppo pomposa". "Ha esagerato". Verso la fine sul palco è salita una squadra di percussionisti che hanno suonato sotto a una pioggia di fuochi d'artificio. Nello stesso momento, il pubblico ha cominciato a disperdersi. Per alcune persone lo show di Bey è stato troppo. Come ogni altro suo dettaglio, era tutto pensato. Quando si tratta di Beyoncé, la tua unica opzione è stare a sentire quello che ha da dire. Non puoi evitarla. Se proprio, puoi provare ad allontanarti.

"Preferisco la delicatezza", mi dicono. Ma Beyoncé ce ne ha regalata eccome—il modo in cui ha mosso le sue dita assieme ai piatti del beat di "Partition". Le ballerine che si sono lasciate cadere a terra durante la cover di "Strange Fruit" di Nina Simone.

Una delle critiche che vengono più spesso mosse a Beyoncé è il suo essere troppo perfetta, un prodotto pulitissimo adatto a essere venduto: essere una pop star, in pratica, con tutte le accezioni negative che provengono da un atteggiamento di superiorità nei confronti delle logiche commerciali. "È stato come se mi stessero provando a vendere qualcosa", mi ha detto un'amica il giorno dopo il concerto.

C'è un elemento di verità nelle critiche che analizzano il capitalismo femminista di Beyoncé. Ma la verità è che il riavvio culturale che rappresenta può realizzarsi solo se viene commercializzato su larga scala, in modo sfarzoso e spavaldo. Beyoncé è una luce nel buio per chiunque si sia mai sentito diverso. Non si tratta del Coachella che abbandona il rock per abbracciare il pop ma dell'amplificazione di una voce così che possa diventare così forte che tutti la possano sentire. Anche chi è a casa e sta guardando il concerto in streaming perché non può permettersi il biglietto del festival, anche i fan che vivono in provincia e in campagna e possono sperimentare l'idea di "alternativo" solo andando a fare una gita da Urban Outfitters. Coachella è il festival più grande del mondo, e il concerto di Beyoncé è sembrato una cerimonia al suo interno, una premiazione a tutti gli effetti—dedicata a tutti noi. È stata la serata più grande che potevamo concepire.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Anche 6IX9INE ha deciso di regalare soldi ai poveri

$
0
0

Da quando Drake si è messo a regalare soldi ai bisognosi nel video di "God's Plan"sembra che fare beneficienza sia diventato il passatempo preferito della scena rap statunitense. Prima XXXTentacion ha dichiarato che Drake aveva copiato una sua idea, perché ovviamente se è beneficienza è importante farla prima degli altri, e ha poi spronato i suoi colleghi rapper a seguire il suo esempio.

Ora a salire sul carrozzone dei soldi regalati ai poveri c'è anche Tekashi 6IX9INE, un rapper che ha seriamente bisogno di migliorare la sua reputazione dato che, vi ricordiamo, è stato condannato per essere apparso in un video in cui una ragazzina di 13 anni veniva molestata. Questo non gli ha impedito di diventare famoso inventando fantomatici "messaggi" nella sua musica, in realtà ricolma di banalità machiste senza alcun valore artistico, e a quanto pare neanche di affiancare a un pezzo tutto melodico un video in cui regala soldi a persone bisognose in un quartiere povero di Puerto Rico.

Per i primi due minuti e dieci del video 6IX9INE si fa bello in mezzo a tette e culi a casaccio, sta in piscina e si staglia contro il tramonto mostrando tatuaggi e gioielli. Poi l'inquadratura passa in una baraccopoli, dove si mette a consegnare banconote da 100 ad anziani e bambini fino alla fine del clip, mentre la telecamera lo segue con attenzione. Prima è tutto perfetto, tutto in HD; poi la risoluzione diminuisce, tutto si quieta. La beneficienza non è mai qualcosa di negativo, ma quando diventa uno spettacolo pop è necessario farla con tatto. Drake ci ha provato. 6IX9INE ha proprio fallito.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Leggi anche:

La band black metal messicana che ha fatto arrabbiare Dio

$
0
0

C’era una volta, in una galassia neanche troppo lontana chiamata California, una band che tentava la via del successo con un demo dal nome Santisima Muerte ispirato al sound ruvido e gramigno di Archgoat e Blasphemy. All’interno di quei dieci minuti e spicci, registrati su cassetta ad una qualità di suono pari più o meno a quella del trapano del tuo vicino di casa la domenica mattina alle sette, faceva sfoggio di sé un novero di piccoli capolavori titolati “Pacto Satánico”, “Castración Bestial” (“Santa Maria, desmadre de Dios / juega con la verga de nosotros / los pecadores…”) e altre hit annunciate. La band si chiamava Morbosidad, e nell’anno di grazia 1994 non aveva idea di quanto Dio se la stesse prendendo a male.

Qualcuno lo chiama war metal, altri si limitano a considerarlo un misto particolarmente lo-fi di black e death metal, altri ancora si accontentano più correttamente di etichettarlo come la più inascoltabile delle derive del metal estremo, fatto sta che i Morbosidad erano dei pionieri dell’involuzione musicale. Mentre il black iniziava più o meno a diventare comunemente accettato (per quanto possa essere comunemente accettato il black metal) e il death era ormai un genere affermato (per quanto possa essere un genere affermato il death), questa particolare commistione di velocità, rabbia, pessima qualità esecutiva e blasfemia originata dalle peggiori putredini del pianeta non riusciva minimamente a sganciarsi dal circuito underground, poco importa che ci fossero alfieri di tanta finezza perfino a Singapore. Purtroppo per lo storico frontman Tomas Stench, appena la band iniziò ad interrogarsi su come raggiungere un livello commerciale superiore rispetto al sottoscala del diner Tex-Mex all’angolo, la prima devastante batosta si abbatté sui Morbosidad: appena due settimane dopo le registrazioni di Santisima Muerte, Yegros, il batterista, perse la vita. Saltando in aria. In sala prove.

A quel punto il buon Tommaso Tanfo mise tutta la baracca in pausa per qualche tempo, e comprensibilmente: se a vent’anni ti esplode un amico in sala prove pochi giorni dopo aver registrato una canzone in cui dici un sacco di cose poco carine alla Madonna, due o tre domande te le fai. Ma la forza di Satana si rivelò dirompente e inarrestabile almeno quanto la voglia di Tomas e compagni di fare casino, e nel 1998 il messicano trapiantato negli States ci riprovò, con una formazione parzialmente rinnovata, del nuovo materiale, ma esattamente la stessa opinione su Dio e sulla Chiesa. Da allora e per i successivi dieci anni i Morbosidad portarono sobrietà e buongusto in giro per il mondo, pubblicando un quantitativo abnorme di materiale rivoltante, suonando nei peggiori scantinati delle peggiori bettole e rilasciando interviste in improvvisati backstage parlando di come lo spagnolo nel metal suoni più evil. La profondità concettuale continuava ad oscillare tra un Profana La Cruz Del Nazareno e un Sexxxual Blasphemous Krucifixxxion, ma era proprio per questa incorruttibile, inattaccabile coerenza che gli si voleva bene. Finché non successe di nuovo.

Nel 2009, ancora una volta il batterista, Saul “Goat Destroyer” Martinez, cadde dal terzo piano di un edificio, sembrerebbe a causa del crollo di un parapetto, batté la testa e morì sul colpo, lasciando una moglie e un figlio in fasce. Questo fatto scosse abbastanza l’underground metallaro, che nonostante gli atteggiamenti esagerati nasconde un sacco di cuori d’oro, e si arrivò addirittura a (tentare di?) organizzare degli eventi benefici per la famiglia di Goat Destroyer promossi da oscuri personaggi della scena messicana. Ma nemmeno il secondo lutto fermò i Morbosidad, che per altri dieci anni andarono avanti a suonare le loro sconcezze percorrendo il continente americano da cima a fondo.

Tra una data in Guatemala e un’altra a El Salvador, il tempo però è passato anche per Tomas Stench e la sua ciurma, che dopo un live album registrato in Brasile dall’esplicito titolo Muerte De Cristo En São Paulo e il quinto disco in studio Corona De Epidemia, ha annunciato che è arrivata l’ora di appendere le borchie al chiodo. È di poche settimane fa la notizia che il cantante chiuderà una volta per tutte la bara in cui i Morbosidad troveranno riposo, con la consapevolezza di aver lasciato in eredità al mondo un sottobosco rancido e maleodorante di gruppi in qualche misura influenzati dalla propria improbabile, lurida, grottesca e divertentissima musica.

Dopo dieci split, cinque album dal vivo, quattro EP, cinque dischi in studio e due lutti, i Morbosidad metteranno una fine al loro carico di blasfemia e strafottenza. Nella speranza che riescano ad arrivare sani e salvi al pensionamento di fine anno, puoi seguirli su Facebook.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Laibach non segue le tendenze, le crea

$
0
0

In un certo senso i Laibach hanno fatto in Slovenia quello che i CCCP facevano in Italia. Entrambi hanno scelto di provocare utilizzando un'estetica legata a un regime totalitario. Messa in modo estremamente semplicistico: una band italiana come i CCCP si ispirava all’estetica comunista sovietica, cosa potevano fare i Laibach per dare fastidio nella Jugoslavia di Tito?

Esatto, riprendere un immaginario militarista che fa pensare al fascismo.

Bene, aggiungeteci la loro capacità di non uscire dal personaggio in quasi quarant’anni di Laibach e una serie di dichiarazioni che giocano con i paradossi come: “Noi siamo fascisti tanto quanto Hitler era pittore”, e capirete che è semplicissimo fraintendere la loro visione politica. Un esempio su tutti è questo sketch del comico John Oliver — sì lo stesso comico che ha "smontato" le elezioni italiane qualche settimana fa — in cui si parla della loro trollata definitiva.

Tornando ai paragoni, la trollata definitiva per i CCCP è stata eseguire il loro rifacimento dell'inno sovietico "Ja Ljublju SSSR", dentro il Palazzetto dello sport di Mosca davanti ai soldati dell’Armata Rossa, nel 1989. Dopo di questo traguardo, la loro missione poteva dirsi compiuta, come ha ricordato Giovanni Lindo Ferretti: ”Era l’apoteosi della storia dei CCCP. Usciti di lì, i CCCP non avrebbero potuto dare più nulla. Dopo aver cantato a Mosca, con addosso i postumi di una sbronza colossale, nel mezzo di uno spettacolo secondo me straordinario, con i militari in piedi durante 'A Ja Ljublju SSSR'; che altro potevo chiedere?”.

I Laibach, al contrario dei CCCP, però, non hanno smesso di esistere dopo la caduta del Comunismo. Forse proprio l’avere persistito per così tanti anni e il non rubare riferimenti estetici da un solo regime reale o immaginario, ha portato i nostri verso nuove vette di trollaggio a tema totalitatario.

Ad esempio, nel 2015 hanno suonato in Corea del Nord, in occasione del settantesimo anniversario della liberazione dall’occupazione giapponese della penisola, esperienza da cui è stato tratto il documentario Liberation Day. Forse sono solo io a trovare un lato troll nel pensare a un qualche comitato culturale del regime giudica i Laibach appropriati per tenere quello che di fatto è stato l'unico concerto rock nella storia della Nord Corea.

Liberation Day è stato proiettato a Palazzo Grassi a Venezia, in attesa del concerto dei Laibach che si è tenuto a Punta della Dogana all’interno della seconda edizione del festival Set Up. Sono andato ad assistere alla loro esibizione e ho avuto uno scambio mail con la band. Gli ho chiesto di parlare della Corea del Nord — poco prima delle dichiarazioni di apparente distensione dei rapporti tra il Paese e gli Stati Uniti. Non ho chiesto nulla sulla loro canzone che celebra i whistleblower — e in questo caso ho fatto malissimo perché poco dopo è scoppiato lo scandalo di Cambridge Analytica.

In compenso, ho cercato di tirare fuori l’attitudine positiva del mondo dei Laibach — quando c’è. In realtà credo anche che il collettivo mi abbia preso per il culo in maniera molto sottile proprio per questa richiesta, ad esempio, citando tra virgolette nelle loro risposte una serie di espressioni un po’ ingenue che ho usato nelle domande. In ogni caso, ecco cosa ci siamo scritti.

laibach live set up punta della dogana venezia
Laibach live al Set Up, Punta della Dogana, Venezia. Foto di Matteo De Fina.

Noisey: Cosa significa l’espressione "ingegneri dell’anima umana" con cui vi siete sempre definiti?
Laibach: Apparentemente, l’espressione è stata coniata da uno dei più grandi romanzieri russi, Yury Olesha, durante una discussione con Stalin tenutasi a casa di Maxim Gorky, ed è stata successivamente utilizzata da Stalin durante il suo incontro con gli scrittori in preparazione del primo Congresso degli Scrittori dell'Unione Sovietica nel 1932, in cui ha dichiarato: ”La produzione di anime è più importante della produzione di carri armati... E quindi alzo il bicchiere a voi, scrittori, ingegneri dell'anima umana”. Più avanti, l'espressione è stata ripresa da Andrei Zhdanov e si è sviluppata nell'idea di Realismo Socialista. Nel 1982, abbiamo giudicato questo termine come il più appropriato per descrivere il lavoro svolto dai Laibach. Non ci consideriamo artisti e crediamo anche che quella di artista sia una definizione superata per definire i produttori di narrativa estetica e realtà virtuali.

Siete cresciuti e avete iniziato a fare musica in un paese comunista. La vostra attività musicale è continuata anche dopo la caduta del Comunismo. Avete suonato nella Corea del Nord per il progetto di Liberation Day. Quali sono, secondo la vostra esperienza, le differenze nell'essere creativi e nel lavorare sotto un regime comunista rispetto a quello capitalista? In particolare, ci sono aspetti positivi?
In base alla nostra esperienza, produrre arte sotto un regime comunista aveva un impatto sociale e un'importanza molto maggiore rispetto a quello dell’arte sotto un regime capitalista, nel caso in cui questa raggiungesse il suo pubblico — e in Jugoslavia, in generale, ci riusciva. Invece, nello stesso periodo, in Occidente, l’arte era prodotta principalmente per la classe agiata e l’intellighenzia. In seguito, la cultura pop ha cambiato in modo significativo questa distinzione ma, come effetto collaterale, ha anche causato una notevole banalizzazione dell'arte. In un certo senso, era più facile essere creativi come artisti sotto l’influenza della censura comunista che sotto i diktat di un mercato capitalista: anche se l'intenzione non era necessariamente quella, tutto veniva inteso come una sorta di metafora del comunismo e gli artisti si divertivano a creare i propri meta-linguaggi poetici con i propri significati. Dato che l'arte nei regimi comunisti era valutata come "più importante della produzione di carri armati", gli artisti avevano generalmente uno status privilegiato nella società — fintanto che la loro posizione antiregime non era troppo palese.

Cosa ne pensate dell'attuale situazione di tensione tra Stati Uniti e Corea del Nord? Conosciamo gli aspetti negativi della situazione, vedete un qualche possibile sviluppo positivo della situazione o esiste un modo di leggere quello che sta succedendo in senso positivo?
Ebbene, la tensione tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord è in realtà il fattore di stabilità per entrambi i regimi. Ufficialmente, questi due paesi sono ancora in guerra tra loro ma, nel 1953, hanno firmato un armistizio che mirava ad assicurare la completa cessazione delle ostilità tra le due parti fino al raggiungimento di una soluzione pacifica definitiva. Il regime nordcoreano è il risultato della Guerra Fredda e della politica geostrategica dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Fino ad oggi, la penisola coreana (e soprattutto la Corea del Nord) è fondamentalmente prigioniera della dottrina Truman, che ha deciso che non può esistere una Corea unita, perché non sarebbe nell'interesse né degli Stati Uniti né della Cina, diventata anch’essa un attore importante dopo la Seconda Guerra Mondiale. La divisione tra i due paesi (e il regime estremamente militarizzato nella Corea del Nord) si adatta meglio agli interessi americani perché può essere usata come scusa per una forte presenza militare statunitense nella regione (in prima analisi controllare la Cina e il commercio nel Mar Cinese orientale). D'altro canto, a sua volta, la Cina preferisce avere una "zona cuscinetto" tra di sé e la Corea del Sud (dominata dagli Stati Uniti) e, di certo, non sarebbe entusiasta di un nuovo potere economico e politico coreano ricongiunto come suo diretto vicino. Anche il Giappone non lo vorrebbe perché la Corea del Sud sta già creando dei grossi grattacapi in termini di competitività alla sua economia. Di fatto, gli aspetti negativi della situazione tra la Repubblica Popolare Democratica di Corea e gli Stati Uniti sono in realtà gli aspetti su cui concentrarsi se si vuole dare una "lettura positiva" della situazione.

Cosa ne pensate della situazione politica europea? Anche in questo caso, conosciamo tutti i problemi che stiamo attraversando, ma vi chiedo se vedete un qualche possibile sviluppo positivo della situazione o un aspetto positivo in quello che sta succedendo. Secondo voi, si sta muovendo qualcosa di buono in Europa?
L'intera crisi dei rifugiati e l'incapacità dell'Unione Europea di affrontarla efficacemente dimostrano la miseria del sistema istituzionale europeo, che non è riuscito a creare un'azione comune e coordinata per risolvere completamente questo problema in modo umano. La Brexit invece è una bizzarra vittoria autodistruttiva del populismo democratico, se non direttamente il risultato della dittatura della democrazia. Questa è un'altra prova che la democrazia in quanto tale non è necessariamente una garanzia per un futuro migliore e più stabile. E poi la vicenda della Catalogna in Spagna, e la Grecia... L'Europa sta commettendo un errore dopo l’altro e la domanda da porsi è quanto può andare avanti questa situazione prima che tutto si trasformi in una catastrofe sociale e politica totale. L’Europa va costantemente a pezzi, ma sembra che, al tempo stesso, il suo andare a pezzi sia la modalità del suo costituirsi [gioco di parole che fa riferimento alla loro canzone "Europe is Falling Apart" N.d.R.]. E ogni volta che cerca di ricostituirsi, riesce a fallire ancora meglio.

C'è innanzitutto bisogno di una vera rivoluzione culturale, economica e politica; la vera illusione è pensare di poter raggiungere gli obiettivi di giustizia sociale, stabilità finanziaria e sostenibilità ambientale mantenendosi entro i parametri del sistema capitalista globale. Dopotutto, le cause reali della povertà della popolazione non risiedono nella corruzione di qualche centinaio di politici o nell'avidità di qualche migliaio di banchieri, ma nelle dinamiche strutturali che in primo luogo consentono e premiano tali comportamenti. La crisi attuale non può essere risolta con una regolamentazione o "interventi chirurgici" di qualsiasi tipo ma solo con la trasformazione in un sistema completamente diverso. Quindi, ci auguriamo sinceramente che l'idea di un’Europa unita possa essere salvaguardata. Non l’Europa fredda della tecnocrazia politica e delle banche di Bruxelles, che opera secondo il dogma neoliberista, ma un'Europa fondata su un progetto emancipatorio condiviso.

In Corea del Nord avete suonato i brani di The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente), un musical molto noto nel Paese. Se doveste suonare ad un grosso evento commemorativo simile a quello della Nord Corea in Italia cosa suonereste?
Intendi se l'Italia fosse (ancora) qualcosa come la Corea del Nord? Sarebbe divertente! Noi amiamo le marce militari e le marce funebri italiane. Di sicuro, eseguiremmo la nostra canzone "Cari amici soldati" e la nostra versione di "Mama Leone", che incarna così bene lo spirito italiano che ci si dimentica facilmente che in realtà l'autore originale della canzone è il compositore tedesco Drafi Deutscher. Forse potremmo eseguire anche canzoni di Domenico Modugno, Adriano Celentano, Robertino Loreti o Rita Pavone, o probabilmente Verdi, Puccini... sicuramente c'è molto materiale stimolante tra cui scegliere.

In Volk avete interpretato l'inno italiano. Ci sono altri brani italiani che vi piacerebbe interpretare? C'è qualcosa che vi piace della musica italiana?
Naturalmente ci piace il pathos, il carattere spaghetti della lingua italiana [qualsiasi cosa significhi questo riferimento sinestetico, N.d.R.], ci piace lo sfumato della musica, ma ci piacerebbe anche reinterpretare alcune delle idee musicali di Russolo e Pratella. Qualche anno fa, abbiamo quasi realizzato una versione di "Insieme" di Toto Cutugno... Sarebbe bello anche studiare Berio da un po' più da vicino, ma anche vecchi maestri come Scarlatti, Vivaldi, ecc.

Vi va di consigliare ai nostri lettori della musica dalla Slovenia?
Ci sono delle grandi ballate popolari antiche in Slovenia che vale la pena di ascoltare. C'era anche della bella musica pop registrata negli anni Cinquanta e Sessanta, ispirandosi abbondantemente alla musica italiana dello stesso periodo. Tra gli anni Sessanta e gli Ottanta si trova musica per zither molto originale, quasi drone, e della musica popolare vocale scritta ed eseguita dalla band Miha Dovzan. Abbiamo collaborato con loro per una nostra versione di una loro canzone, chiamata "Take me to Heaven", realizzata per il film Iron Sky.

Also Sprach Zarathustra e Spectre sono due lavori che incarnano due delle vostre anime, quella colta e sperimentale e, nell'altro caso, pop e rock. Come cambia il vostro modo di lavorare in questi due ambiti? Cosa li accomuna invece?
Il metodo non cambia, lavoriamo sempre collettivamente. Solo il processo è diverso ed è sempre innescato da elementi e contesti diversi presi da angolazioni diverse.

Che rilevanza ha Così parlò Zarathustra nella situazione che sta vivendo il mondo oggi?
In quanto uno dei fondamenti dell'esistenzialismo e alla luce dell'ideologia politica e sociale dominante della nostra epoca, basata sulla moralità al servizio dell'economia della classe dirigente e fortemente infettata dal nichilismo, tutti i temi principali di Nietzsche trattati nel romanzo di Zarathustra sono sicuramente importanti e di grande attualità.

Il vostro mondo musicale ha un'identità fortissima, tuttavia è aperto anche ad influenze esterne che vengono assimilate nel vostro stile. In Spectre, che è uscito qualche anno fa, avete inserito elementi EDM. Perché proprio l'EDM? Cosa vi ha colpito in quel genere in particolare? Quale stile musicale attuale sarà il prossimo ad essere assimilato all'interno del vostro mondo?
L’EDM non è una novità per Laibach; già nel 1982 avevamo chiaramente affermato nel nostro manifesto che i ritmi industriali, ripetitivi e disco sono uno dei fondamenti del nostro mondo musicale. Se segui le nostre uscite dal 1985, puoi trovare un sacco di canzoni che utilizzano suoni e ritmi elettronici diversi.

Se pubblicaste oggi un nuovo album di canzoni, avrebbero elementi trap?
Probabilmente no. Perché Laibach non segue le tendenze; noi le creiamo.

Qual è la vostra definizione di humour? Che ruolo ha lo humour nel vostro linguaggio?
Noi amiamo l'umorismo ma nell'arte apprezziamo quelli mortalmente seri, che non sanno stare a uno scherzo.

Qual è la vostra definizione di kitsch? Che ruolo ha il kitsch nel vostro linguaggio?
Il kitsch è la maschera della morte ed è onnipresente. Anche in Laibach.

Qual è la vostra definizione di cool? Che ruolo ha la coolness nel vostro linguaggio?
Chet Baker e Thelonious Monk sono i due pilastri della coolness in musica e J. B. Tito era la definizione di coolness in politica. La coolness gioca un ruolo importante nella nostra musica? Probabilmente no, ma forse in futuro potrebbe.

Ultima domanda da sfigato. Sono un grande fan dei Beatles, so che lo siete anche voi. C'è qualcosa che vi piacerebbe dire a Paul e Ringo se aveste l'occasione di incontrarli?
In realtà abbiamo una connessione diretta con Paul McCartney, perché uno dei nostri collaboratori è un amico stretto della sua seconda moglie, Heather Mills, quindi ha avuto la possibilità di incontrare e parlare con McCartney più volte. Tra le altre cose hanno anche parlato della versione di Laibach dell’album Let It Be, che McCartney ha trovato molto divertente e apparentemente ha usato come introduzione dei concerti durante uno dei suoi tour.

Federico è l'investigatore dell'assurdo per Motherboard. Seguilo su Twitter.

Segui Noisey su Instagram e Facebook.

Viewing all 3944 articles
Browse latest View live


<script src="https://jsc.adskeeper.com/r/s/rssing.com.1596347.js" async> </script>