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Satana! Edonismo! Illuminati! Sadomasochismo! Ecco il nuovo video di King Dude!

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Il nuovo album di King Dude, Sex, è stato uno dei nostri album preferiti del 2016, e ne abbiamo anche fatto una bella premierona. The Dude—meglio conosciuto come TJ Cowgill, e da non confondersi con l'altro Dude ,quello dei Coen—si sta preparando a passare qualche mese a prendere a calci i palchi di mezza Europa, Ma prima di partire ha voluto regalarci un nuovo, grande documento visuale da accompagnare a un suo brano. 

Il pezzo è "Sex Dungeon USA" ed è una bellissima dimostrazione dell'edonismo luciferino tipico del nostro amico Dude. Sono solo due minuti di sporco rock 'n' roll o poco più, passano veloci come un urlo e sono accompagnati da una fantastica sequenza di porno vintage, robaccia da riviste sporche anni Settanta, piramidi e massoneria. È una piacevole deviazione dal solito stile del nostro, che ci ha abituati a una sorta di dark folk ubriaco da far tremare le ossa. Trovate il tutto qua sotto, e sappiate che è ovviamente NSFW (perché quando troverete del porno sadomaso non NSFW fateci un fischio).

King Dude sarà in Italia il 2 giugno, al Titty Twister di Parma.

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Perché "Mad World" suonata in maggiore suona come un incubo distopico?

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A questo mondo ci sono verità oggettive. I cani sono belli, le banane fanno schifo (forza, avete qualcosa da dirmi?). Un'altra è che la canzone più triste di sempre è "Mad World" dei Tears for Fears, poi coverizzata da Gary Jules nel 2003 e aiutata a diventare quello che è oggi dalla colonna sonora di Donnie Darko.

"Mad World" è un pezzo deprimente per due ovvie ragioni. La prima è il testo, che è una bella presa male ("i sogni in cui muoio sono i migliori che ho mai fatto" potrebbe essere sia un verso di "Mad World" che il vostro stato di MSN di dieci anni fa), e la seconda è che la musica del pezzo è fatta di accordi minori che, suonati al pianoforte, sono tranquillizzanti più o meno come una morte incombente. E forse è questo quello che vi piace ascoltare, nel caso nessun problema. 

Ma anche senza pensare alle vostre preferenze in fatto di presa male musicale, potremmo—credo—tutti essere d'accordo nel dire che se cambiassimo gli accordi di "Mad World" da minori a maggiori avremmo un miglioramento a livello emotivo. Forse così "Mad World" diventerebbe un pezzo meno inquietante e orrendo. Forse. Forse.

Ovviamente ora vi sarete resi conto che "Mad World" suonata in maggiore è la canzone più terrificante mai concepita, e potete ringraziare Yaog, il nostro amico YouTuber qui sopra, per tutti gli incubi che farete le prossime sere. 

Yaog produce una serie di video intitolata Will It Sad in cui prende canzoni super felici e le rende ballate strazianti. Per "Mad World" ha fatto il contrario, ma mi piacerebbe che Yaog sapesse che si è spinto troppo oltre. La sua versione del pezzo è la colonna sonora a una terrificante realtà distopica in cui l'intera umanità è stata lobotomizzata. Buona fortuna a tirarvela fuori dalla testa. :-)

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Se avete speranza nell'R&B, ascoltate il nuovo pezzo di JMSN

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Certo che sentire dov'è arrivato oggi JMSN, musicalmente parlando, fa un po' strano. Le sue prime cose erano sintetiche e decadenti il giusto—azzarderei gotiche, data la fascinazione del nostro per le croci rovesciate, il sangue e il suo torso bianco e scheletrico—da qualificarlo come una piacevole stranezza nel panorama R&B americano, perlopiù popolato da maschi muscolosi con voci d'angelo (ba-dum-tss!) impegnati a cantare dolcemente del loro pene in tiro. Ma a partire dal 2013, anno di pubblicazione del suo JMSN (The Blue Album), Christian Berishaj ha cominciato a lasciar perdere il sangue e il buio e ha cominciato a guardarsi indietro, musicalmente parlando. 

Tra il Blue Album e il successivo It is., JMSN ha abbandonato completamente le produzioni per passare a una live band che accompagna la sua voce con bordate di sano blues, funk e soul. E oggi vi facciamo sentire in anteprima il secondo estratto dal suo nuovo LP, Whatever Makes U Happy, che uscirà il 28 aprile per la sua White Room Records.

Il pezzo si chiama "Where Do U Go" e lo trovate qua sotto. 

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Il futuro dell'elettronica è in Egitto

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Al Cairo, la capitale dell'Egitto, l'unica cosa che si sente per le strade è il mahraganat. È un genere di musica elettronica nato nelle parti più povere della città—un'enorme metropoli in cui vivono quasi 20 milioni e mezzo di persone—negli anni della Primavera Araba, a partire dal 2011. Il mahraganat, che significa "festival" in arabo e a volte viene chiamato "electro chaabi", è diventato parte integrante della cultura urban egiziana: è un miscuglio assurdo di ritmi locali e rap autotunato che manda gli egiziani fuori di testa. È percepito come qualcosa di controverso da parte della scena locale, ma ha un indubbio potenziale creativo: è musica da matrimoni urbani, un ricettacolo di slang, il sottofondo delle acrobazie di breakdancer locali e un'ottima scusa per mettersi in testa delle creste assurde.

Una delle figure fondamentali della scena mahraganat è Mahmoud Refat, fondatore dell'etichetta locale 100Copies. Non è un personaggio di spicco del genere—le sue radici sono nell'heavy metal e nell'elettronica sperimentale. Ma Refat vide il potenziale del mahraganat già nei suoi primi anni, tra il 2011 e il 2012, e negli ultimi tempi ha collaborato con artisti locali come Sadat, Islam Chipsy con i suoi EEK e Filo, lavorando come loro produttore, ingegnere del suono, esibendosi anche assieme a loro e organizzando concerti mahraganat a livello globale. 

Tutto questo per dire che siamo andati a trovare Refat agli uffici della sua etichetta al Cairo per parlare dei pezzi migliori a cui ha lavorato negli ultimi anni—pezzi che, tra l'altro, gli hanno permesso di essere ormai economicamente indipendente. Anche se la 100Copies è nata come un progetto underground (il nome viene dall'idea di stampare solo, appunto, 100 copie in CD di ogni album pubblicato), l'anno scorso l'etichetta si è spostata da un ufficio e studio al secondo piano di un palazzo del centro del Cairo a un enorme quartier generale vicino a piazza Tahrir. Il loro ufficio è al decimo piano e ha una vista clamorosa sulla città e uno studio dedicato. Lì, Refat ci ha raccontato la storia dietro alle sei produzioni mahraganat più importanti a cui ha lavorato negli ultimi anni, una serie di esempi per capire in che direzione sta andando l'elettronica nordafricana. 

1. Hysa, Halabessa and Sweasy - "Hitta Minni"

"Un elemento chiave del mahraganat, che abbiamo introdotto noi, è l'uso di elementi live nelle produzioni—principalmente sample di batteria registrati dal vivo. Abbiamo costruito una libreria di sample, e praticamente tutti i produttori più importanti l'hanno usata nei loro pezzi, negli ultimi due anni. Questo pezzo è diventato molto, molto famoso, è il primo in cui sono stati usati sample di batteria live ed è stato percepito come innovativo principalmente perché ha un BPM più basso.

Il beat è il nucleo del pezzo. Il beat deve essere il pezzo. Se hai un buon beat, puoi metterci sopra qualsiasi cosa—è ok. Poi, quando parliamo di mahraganat, dobbiamo fare attenzione all'elemento più "potente", al tiro e alla "botta" che il pezzo ti lascia. L'obbiettivo è fare roba sempre più casinara."

2. Sadat & Alaa Fifty - "Hooga"

"Anche le rime sono molto importanti, e diverse da tutto il resto che si sente in giro da queste parti. Pià sono sporche e assurde meglio è. Devi praticamente sembrare minaccioso. Più il tuo personaggio è spaventoso, meglio sei considerato al microfono."

3. Hysa & Halabessa - "T3arif"

"Usiamo l'autotune sia, ovviamente, per fare stare bene la voce sul pezzo ma anche come elemento fondante del mahraganat. È una questione di cinquanta e cinquanta, la necessità e lo stile. Dà una certa luminosità e una certa forza alla voce. I ragazzi che cantano non si vergognano di non aver studiato canto o roba simile. È più una cosa legata alle feste di matrimonio, alle cerimonie, a un sentimento di gioia e felicità."

4. Ahmed El-Sweasy - "Aznabto Ya Rabbi"

"Sweasy è un personaggio particolare, che non si limita a fare mahraganat. Canta molto bene, ed è la vera nuova rock star egiziana. Ha un side project in cui suona con un gruppo, li abbiamo invitati a produrre un pezzo qua in studio e allora abbiamo cominciato a collaborare. Ma senti che voce ha? Cristo. Ed è un ragazzo di strada, in tutti i sensi."

5. Islam Chipsy & EEK - "Kahraba"

"Chipsy è il re delle tastiere. È il miglior tastierista di sempre. Me ne hanno parlato e sono andato a vedere quello che faceva. Mi sono preso subito. Una mia amica si è sposata recentemente, non sapeva bene cosa fare e chi far suonare, e io le ho detto di prenderlo a suonare dal vivo. È stata una cerimonia davvero figa, in una bella villa un po' fuori dal Cairo. Lì ci siamo conosciuti veramente, gli ho detto che insieme avremmo fatto grandi cose, e lui, "Sì, sì, ovvio. Buonanotte, divertiti!" Qualche giorno dopo lo chiamo, gli chiedo se si ricordava di me, e ora sono il suo manager e suono la batteria con gli EEK."

6. Filo - "El Slek Lammes"

"Come posso dirlo senza sembrare stronzo? Fanculo le elite. Nessuno può decidere che cosa è "sperimentale", che cosa è "nuovo" o "diverso." La cultura giovanile è la cosa più importante, secondo me. È l'unica cosa a cui vale la pena lavorare per avere un futuro. Non mi importa ragionare in termini occidentali, di mainstream e non mainstream. Siamo qua, con due stanze. Veniamo qua e facciamo le nostre cose, il caso ha voluto che avessero successo e sono molto felice. È capitato che sono diventate anche una fonte economica, e ora abbiamo una compagnia con cui organizziamo un festival, e sponsorizzazioni per i nostri video. Ma continuo a lavorare con i ragazzi con cui ho sempre lavorato. Non cambio, la fonte rimane la stessa. Ma il punto è avere un'influenza, un impatto culturale: altrimenti che cosa vivo a fare, che cosa produco musica a fare?"

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Quella volta che una nave piena di synth è naufragata sulle coste di Capo Verde

Ryan Gosling da piccolo che balla la techno è una cosa molto bella

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Techno and Chill è un account di Instagram che fa esattamente quello che il suo nome suggerisce: posta video mega rilassanti con la techno di sottofondo. Come molti dei migliori account del nostro caro mondo, anche Techno and Chill propone dei video mashup stupidi—tra cui la scena del ballo di Pulp Fiction con un pezzo di Solomun come sottofondo, e un altro con dei tizi nudi al Burning Man come protagonisti. 

Se non siete già presi bene, allora che ne dite di un bel video del famoso attore Ryan Gosling, da bambino, che si spara un po' di sana techno nelle orecchie? Lo volete? Eccovelo. 

Eccovi il giovane Gos, tutto vestito di viola, con dei panta larghi leggermente anni Novanta—una sorta di ibrido prepubescente tra Prince ed MC Hammer. Mandatelo in loop, che è molto meglio di La La Land.

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YG e DJ Mustard hanno fatto pace

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YG è uno di quei rapper che sembra non fermarsi mai. A novembre ha pubblicato il suo ultimo mixtape, Red Friday, e allora aveva annunciato che ne sarebbe arrivato un altro nel 2017: il terzo capitolo della sua serie Just Re'd Up. E ora sono arrivati più dettagli: il mixtape di chiamerà Just Re'd Up 3: Know Your Worth e sarà prodotto interamente da—attenzione attenzione—DJ Mustard, cioè il produttore assieme a cui YG è diventato famoso. 

Dopo aver condiviso un'esaltante prima parte di carriera, culminata nella pubblicazione dell'esordio di YG My Krazy Life, Mustard postò un tweet in cui sosteneva di non essere stato pagato da Def Jam per il suo lavoro sull'album. YG rispose con un post su Instagram tutto in caps lock bello incazzato, e da allora—nonostante Mustard disse successivamente che il litigio gli era servito a capire come migliorare il loro rapporto, e che YG era suo "fratello"—i due non hanno più collaborato. Fino ad ora.

Qua sotto trovate il primo singolo tratto dal progetto, "Pop It, Shake It". È, nel suo piccolo, un viaggio nella storia dell'hip-hop: contiene infatti elementi della bounce di New Orleans (un genere nato verso la fine degli anni Ottanta, qua altre informazioni) e contiene parti vocali di Choppa, che nel 2002 spaccò tutto con la sua "Choppa Style." Ascoltate e sentitevi un po' più vicini a Compton.

Leggi: YG è il nuovo volto del rap impegnato

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Ci siamo fatti spiegare "Are You Going to Be My Girl" da Nic Cester dei Jet

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Inizia con un colpo di tosse. Il suono di una persona che si schiarisce la voce prima che facciano il loro ingresso un cembalo, una linea di basso rotolante e un riff di chitarra che, sì, assomiglia moltissimo a "Lust for Life" di Iggy Pop.

Quando si parla di pezzi ruock pieni di boria e machismo, non ce ne sono molti di più famosi di "Are You Going to Be My Girl" dei Jet. È memorabile, a un certo punto c'è lo stacco dove la band batte le mani e il testo parla di ragazze con alti stivali neri e lunghi capelli marroni: è un distillato di tutta la tracotanza degli Who e dei Rolling Stones, quarant'anni dopo, in tre minuti e mezzo di canzone. 

È una canzone che ha reso molte persone felici, altrettante ne ha fatte incazzare, ma soprattutto ha trasformato i Jet in superstar.

Naturalmente i Jet hanno scritto altre canzoni nel corso della loro carriera, ma "Are You Going to Be My Girl" è il pezzo che ha messo il quartetto di Melbourne sulla mappa e da quel momento è stato trasmesso dappertutto, da addii al celibato agli stadi, ai videogiochi, alle pubblicità in TV... e di recente anche sui palchi, visto che i Jet si sono riuniti per un tour australiano di spalla a Bruce Springsteen. 

Registrato ai Sunset Sound Studios di Los Angeles con il produttore americano Dave Sardy e uscito nell'ottobre del 2003, l'album di debutto dei Jet Get Born ha venduto tre milioni e mezzo di copie in tutto il mondo. "Are You Going to Be My Girl", composta dal chitarrista Cameron Muncey e dal chitarrista/cantante Nic Cester, è stato il primo singolo estratto dall'album, uscito nel 2003 in Australia e Regno Unito, e nel 2004 negli Stati Uniti. 

Il video in bianco e nero che accompagna la canzone, pieno di frange, pantaloni a zampa e silhouette femminili, finì per rappresentare il contributo australiano alla rinascita del rock di primi anni Duemila guidata da White Stripes, Strokes e Hives. La canzone fu anche utilizzate nelle campagne pubblicitarie globali di prodotti come l'iPod e l'iMac, e per la Vodafone.

Abbiamo contattato Nic Cester, che ora vive proprio in Italia, a Como, per farci spiegare un po' meglio la canzone che ha segnato la sua carriera.

Noisey: Di chi erano gli stivali neri e i capelli marroni?
Nic Cester: Non parla di una ragazza in particolare. Le parole che la descrivono sono state scelte per il loro valore fonetico, più che per il resto. La dizione era molto importante. 

È una canzone che esprime molta sicurezza e arroganza. Sono qualità che si possono applicare anche alla tua personalità di quei tempi?
Non direi che fossi particolarmente sicuro di me, semmai un po' timido. Non ero molto bravo con le conversazioni tra sconosciuti. Né allora, né adesso.

Cosa ricordi del processo di scrittura? Vi eravate resi conto di quanto potenziale avesse questa canzone? 
Ricordo che tentavamo di riprodurre quell'esaltazione che si sentiva in roba tipo gli Easybeats, i primi Stones e i primi Who. Ai tempi ascoltavo tantissima musica dei primi anni Sessanta. Non avevamo idea che così tanta gente l'avrebbe ascoltata. Volevamo soltanto scrivere un pezzo rock'n'roll per ballare.

Come funzionava ai primi tempi, quando suonavate regolarmente al Duke of Windsor di Melbourne?
Sono abbastanza sicuro che abbiamo suonato una prima versione del pezzo al Duke almeno una volta, era un po' diversa ma non ricordo in che modo. Ricordo soltanto che non avevo il testo e cantavo a caso sperando di saltarcene fuori. Credo che nessuno se ne sia accorto. 

Registrando il disco vi rendevate conto che alcune canzoni avrebbero avuto più successo di altre?
Beh, penso che ci rendessimo conto che alcune canzoni non erano poi così catchy. Ma forse no. Prestavamo la stessa attenzione a ogni pezzo. 

Come fu registrare la canzone con Dave Sardy?
Registrare il primo disco con Sardy fu divertentissimo. Tutte le canzoni erano già composte e avevano forti identità, quindi la registrazione fu molto diretta. Le suonavamo dal vivo da molto tempo quindi eravamo in grado di eseguirle alla perfezione. 

Avete suonato la canzone dal vivo a SNL nel 2003. A quel punto dovevate averla suonata un bel po' di volte!  
SNL fu una figata. Eravamo molto rilassati. Quelli dell'etichetta americana invece stavano impazzendo. Credo non ci fossimo resi conto della sua importanza. 

Com'è stato tornare a suonare dal vivo in Australia? La canzone è cambiata nel corso degli anni? 
I concerti sono stati fantastici, specialmente perché è passato così tanto tempo. Non penso che la canzone abbia subito alcun cambiamento. Anzi, forse siamo stati ancora più fedeli alle canzoni di quanto fossimo allora.

Quando "Are You Going to Be My Girl" uscì negli USA, a fine primavera del 2004, Get Born era uscito da ormai circa otto mesi, e non aveva ottenuto un grande successo commerciale, né particolare attenzione da parte dei critici. Quand'è stata l'espolosione?
È difficile ricordare precisamente che cosa sia successo. Non prestavamo particolare attenzione a quel lato della cosa. Per quanto ci riguardava era già un successo, nel senso che avevamo registrato un ottimo album e stavamo andando in tour in tutto il mondo. 

La canzone fu una delle prime usate nelle famose pubblicità Apple. Quanto pensi che questo abbia influenzato il suo successo? 
Quello fu sicuramente un momento critico. Un'esposizione globale di quelle proporzioni cambia certamente le carte in tavola. In particolare perché si trattava dell'iPod, il "nuovo" prodotto sulla bocca di tutti. 

I paragoni con "Lust for Life" sono fioccati fin dal primo momento. Hai imparato ad accettarli?
Li ho sempre accettati, la somiglianza è evidente. Direi che la nostra canzone si inserisce in una lunga tradizione di canzoni con quel ritmo. "Town Called Malice", "Can't Hurry Love", ecc. Ce ne sono tante. 

È una canzone per molti simbolo del party selvaggio negli anni Zero. Molte di queste persone ora hanno una famiglia e delle responsabilità. È un simbolo di libertà o di escapismo? 
Non saprei proprio cosa rispondere. Il mio rapporto con quella canzone è troppo intimo. 

Cosa ne pensi del fatto che questo pezzo sia considerato la tua canzone definitiva?
È una cosa che accetto, tuttavia non sono ancora pronto per la pensione.

Illustrazione: Ben Thomson.

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La lo-fi house è il primo genere nato da un algoritmo

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Qualche settimana fa Iran Ahmed, talent scout di XL Recordings, è apparso come DJ su NTS Radio, una stazione radiofonica online di base a Dalston, Londra. Il suo lavoro è tenere le orecchie aperte in cerca di musicisti sulla soglia del successo, ma il programma è una buona opportunità per mettere a frutto le sue conoscenze e far girare la musica che lo prende bene. "Il mio lavoro consiste nel trovare la prossima generazione di artisti dell'etichetta, persone tanto di talento quanto quelle che hanno definito il passato di XL," dice Ahmed nell'introduzione al programma. "Gente come King Krule, i Radiohead, Jai Paul... il programma che faccio qua ogni mese è un po' una distillazione delle mie ricerche, credo—le cose migliori che trovo in giro al momento."

Nel mix di Ahmed ci sono edit di esordienti illustri come Sega Bodega e Mal Devisa, ore di produzioni hip-hop ed elettronica zuccherosa e piena di bassi; ma il suo punto focale è la traccia che ha reso famoso il produttore inglese Ross From Friends, "Talk To Me You'll Understand", che Ahmed mette verso la fine. La particolarità di "Talk to Me" in quel contesto è che—in certe scene—era già una hit. Il suo primo upload su YouTube aveva già raggiunto oltre un milione e mezzo di visualizzazioni, ed è sembrato un po' strano che Ahmed la presentasse come qualcosa di nuovo. Di solito i tastemaker riconoscono il valore di un artista prima che l'internet gli regali attenzioni simili, ma il percorso che "Talk to Me" ha seguito per arrivare al mainstream potrebbe essere un segnale di una nuova modalità con cui scopriamo e ascoltiamo musica dance.

"Talk to Me You'll Understand" di Ross From Friends.

Nell'ultimo anno, il termine "lo-fi house" è diventato qualcosa di più di una parola usata da uno stretto circolo di nerd dell'elettronica, cristallizzandosi in un sound definito: è elettronica granulosa, equalizzata in modo tale da suonare come se stesse venendo letta dal nastro di una cassetta, piena di bassi e composta usando synth e sample piuttosto semplici. Seguendo questa formula, artisti come Ross From Friends, DJ Boring, DJ Seinfeld e molti altri hanno trovato il successo. Sono produttori che grattano via la grandiosità della storia recente della house fino a rivelarne la miscela di suoni che sta al suo cuore, facendola sembrare qualcosa di nuovo nonostante venga interamente dal passato. Pezzi come "Talk to Me You'll Understand", con i suoi accorti di settima e la sua cassa a un volume esagerato all'interno del mix, aprono in due la house fino a raggiungerne il cuore pulsante. Riescono a sembrare fresche come le cose della Trax, l'etichetta che—assieme allo storico Warehouse di Chicago—giocò un ruolo fondamentale nella nascita del genere ormai quasi quarant'anni fa.

Inizialmente, le attenzioni nei confronti della lo-fi house non erano particolarmente positive. I produttori venivano accusati di "non avere nuove idee", e il termine esisteva come una sorta di gag tra addetti ai lavori e appassionati del genere. Gli artisti esitavano quindi a distinguere il loro suono nascente dai continua delle sottoculture musicali di internet e da quello più tradizionale della house e della techno, quasi consci della tipica brevità della vita dei generi nati online. Mentre generi come la hardvapour fanno tutto il possibile per sentirsi unificati sotto una singola etichetta, la lo-fi house esiste in un'intersezione tra diversi stili con una grande storia, ognuno di essi più interessato alla creazione di ritmi durevoli più che a come sostenere il peso di qualche effimera categorizzazione modaiola. Ma la domanda resta una: come ha fatto "Talk to Me" a essere notata da una delle etichette più grandi di Londra, se le uniche attenzioni mediatiche che aveva ricevuto erano principalmente descrizioni sommarie e prese per il culo?

La lo-fi house è nata grazie alle pubblicazioni di etichette come L.I.E.S.1080p, che si sono dedicate al genere fin dai loro inizi, e ha trovato una sua casa nelle piattaforme del nuovo web, sempre più chiuso. I suoi principali sbocchi sono Slav, il canale YouTube che lanciò "Winona" di DJ Boring, e The Overload, una community su Reddit—ma il principale fautore della diffusione della lo-fi house è un altro: l'algoritmo che regola i video consigliati su YouTube. Anche dopo aver aperto video di pezzi molto lontani dal paradigma lo-fi house, mi trovo costantemente diretto verso le stesse produzioni distorte, non importa quante volte cancello la cronologia e i cookie, svuoto la cache, provo diversi browser e diversi account. La domanda da porsi è quindi: la lo-fi house è diventata qualcosa di più di un meme internettiano solo grazie a un pattern di raccomandazione? La conversazione è in pieno svolgimento, con articoli usciti su Bandcamp, Fact e Mixmag a notare la quantità di visualizzazioni fatte dai brani del genere ultimamente. Ma il merito è tutto di YouTube? 

"Winona" di DJ Boring.

Paul Covington, Jay Adams, e Emre Sargin, sviluppatori di Google e YouTube, hanno pubblicato nel 2016 un paper per una conferenza di settore in cui espongono le meccaniche base che guidano l'algoritmo che comanda i video consigliati. Con l'evolversi del sito e un progressivo allontanamento dal primitivo sistema di tag con cui YouTube era nato, gli sviluppatori ora si basano sugli input delle reti neurali artificiali proprie degli algoritmi basati sull'apprendimento automatico, o machine learning in inglese.

Oggi, l'algoritmo è composto da due reti neurali principali. Innanzitutto, "la rete dedicata alla generazioni dei candidati prende come input eventi dalla attività su YouTube dell'utente, e identifica quindi un piccolo sottoinsieme di un centinaio di video da un grande corpus," scrivono i ricercatori. Questo processo implica una sintesi, sia umana che artificiale, degli ID dei video guardati dall'utente, delle sue ricerche e di una serie di dati demografici presi da un ampio numero di imprecisate fonti. A quel punto, la seconda rete neurale "mette in classifica" potenziali video adatti "assegnando un punteggio a ognuno in base a una funzione-obiettivo desiderata." Usando un grande pool di "big data" accumulati grazie a statistiche come i tassi di click-through rate e i tempi di permanenza su ogni singolo video—e ulteriori statistiche basate sulla storia del singolo utente in questione—il sito presenta quindi una serie di video che presume l'utente possa gradire. 

L'artwork di Season 1 di DJ Seinfeld.

Ma perché questi algoritmi continuano a presentare gli stessi risultati? Il motivo potrebbe essere in parte il modo in cui l'apprendimento automatico modella l'interesse umano. Inserendo in un modello la percentuale di raccomandazioni guardate e quelle skippate, il sistema lavora costantemente per tentare di presentare all'utente i risultati più recenti e armonici con i gusti di un pubblico più grande possibile. Anche dall'esterno, è facile capire come la lo-fi house stia—come dicevamo—in una zona di intersezione tra i grandi insiemi che sono certe scene e certi stili. Parlo dei fan di lunga data dell'house come di una nuova generazione ormai insensibile allo zeitgeist proprio della vaporwave, entrambe categorie al cuore dell'utenza del genere. La lo-fi house ha semplicemente dato a chi ascolta elettronica una nuova vena di pezzi in cui perdersi. Ci sono dentro il downtempo dell'house balearica degli anni d'oro di Ibiza, l'austerità primitiva della techno e del synth-funk, richiami al recente revival della new age: la lo-fi house è un insieme di stili collassati in cui chiunque ascolti elettronica può trovare qualcosa di interessante. Forse questa sovrapposizione rappresenta un nuovo filone, inevitabilmente più populista, negli sviluppi del gusto condiviso; uno strano collasso dei legami che la lo-fi house ha con il proprio passato. 

Internet ha spesso aiutato la musica dance a uscire dai confini della propria esistenza discografica, spesso anonima e basata esclusivamente sulla produzione di singoli, ma al contempo i trend musicali nati sul web si sono fatti sempre più banali. La lo-fi house, allo stato attuale delle cose, è un interessante termine logico del fenomeno; è il primo "genere" cresciuto quasi interamente grazie alla piattaforma in cui sono stati piantati i suoi semi. Lo sviluppo dell'apprendimento automatico porterà probabilmente il processo di scoperta musicale a diventare molto più semplice e impeccabile di quanto potrà mai esserlo con dietro un essere umano, e la lo-fi house crea un precedente che ci può far capire come le cose potrebbero andare in futuro: una serie senza fine di video, proposti in autoplay, hit nate grazie agli algoritmi che stanno già cominciando a influenzare pesantemente l'industria musicale. Per ora, tutto quello che possiamo fare è cercare di stare al loro passo. 

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C'è un'artista con la sinestesia che dipinge le tue canzoni preferite

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Questo articolo è apparso originalmente su Broadly.

La maggior parte dei pittori si guadagnano da vivere dipingendo ciò che vedono, ma Melissa McCracken dipinge quello che sente. Ha 26 anni, viene da Kansas City, Missouri e ha la sinestesia, cioè un raro fenomeno sensoriale che colpisce circa il quattro per cento della popolazione mondiale. In pratica le risposte del cervello a stimoli differenti si mischiano le une con le altre, influenzandosi reciprocamente. Ci possono poi essere diversi tipi di sinestesia—quella della McCracken, che in inglese si chiama chromestesia, le fa vedere in modo spontaneo e involontario colori ogni volta che ascolta musica. Abbiamo parlato con lei del rapporto che ha con la sua condizione, di come la sfrutta per creare i suoi dipinti e del potere che la musica e i ricordi possono avere, quando si tratta di trovare ispirazione. 

Come hai capito che la maggior parte della gente non sente i colori?
Melissa McCracken: 
Credevo che la sinestesia fosse una cosa normale, come sentire odore di caffè ogni volta che entri in un bar. Me ne sono resa conto quando avevo sedici anni e dovevo scegliere una suoneria. Il mio cellulare era azzurro, e dissi a un amico che avrei scelto una "canzone arancione" come suoneria, dato che credevo stessero bene assieme. Lui mi sembrò decisamente confuso, ma non ne parlammo più. Poi, durante una lezione di psicologia negli anni del liceo, ho capito tutto. Non avevo idea fosse così strano. 

Devi chiudere gli occhi per vedere i colori? O "coprono" quello che vedi?
La sinestesia non interferisce con la mia vista in alcun modo, non è come prendere un allucinogeno. Semplicemente i colori restano lì sospesi, come se stessi immaginando o ricordando qualcosa. Non devo chiudere gli occhi, ma chiuderli mi aiuta a vedere meglio i colori.

"Life on Mars" di David Bowie.

Come hai cominciato a dipingere le tue canzoni preferite?
Ho sempre adorato i colori che vedevo, quindi cominciare da loro mi sembrava la cosa più naturale che potessi fare. Volevo fare qualcosa di astratto. Ho cominciato dipingendo ricordi di parti importanti della mia vita e pensando alle canzoni che associavo a quei momenti. Poi la gente ha iniziato a interessarsi della mia sinestesia, ed è così che è diventata il mio soggetto principale. 

Alcuni generi sono più belli, esteticamente parlando, di altri?
Credo di sì. La musica più espressiva, come il funk, è molto più colorata, con tutti gli strumenti, le melodie e i ritmi a creare un effetto molto saturato. Le chitarre solitamente sono color oro e fortemente angolate, mentre il pianoforte è più a venature e a singhiozzi, per colpa degli accordi. Dipingo raramente musica acustica perché una persona che canta con una chitarra non è un granché a livello visuale, e il country è una serie di marroni tenui e noiosi. La chiave e il tono hanno anche un impatto su i colori, dato che cerco di dipingere il "sentimento" alla base della canzone più che la canzone stessa. 

"Joy in Repetition" di Prince.

Le canzoni ti appaiono sempre allo stesso modo ogni volta che le ascolti?
Dipende su cosa mi sto concentrando. Se noto una linea di basso a cui non avevo mai fatto caso prima, tipo, qualcosa cambia, ma in generale resta tutto uguale. Se dipingo una canzone due volte e vengono fuori dipinti diversi è solo perché non puoi fisicamente mettere due volte la pittura sulla tela nello stesso identico modo. 

Chi ha la sinestesia vede gli stessi colori nelle stesse canzoni, o è una questione di percezione personale?
È tutto soggettivo, una volta ho incontrato un altro artista con la sinestesia e abbiamo provato entrambi a dipingere "Little Wing" di Hendrix per vedere che cosa ne sarebbe uscito, e sono venuti fuori dipinti completamente diversi. Anche lo stile è personale—per dirti, Kandinskij aveva la sinestesia ma le sue cose sono molto più geometriche delle mie. 

"All I Need" dei Radiohead.

Ti rifiuti mai di dipingere canzoni che ti vengono proposte? 
Voglio essere me stessa anche quando dipingo, quindi se non trovo interessante una canzone, sia livello visivo che emotivo, allora declino ringraziando. La maggior parte delle volte la gente è comprensiva, non vogliono farmi fare cose che non voglio fare. La parte migliore è il fatto che spesso scopro band che mi piacciono tramite i suggerimenti degli altri.

Ti piacciono certe canzoni per come sono esteticamente, o sono esteticamente belle perché ti piacciono?
È come chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina! Ho sentito dire che la sinestesia è una condizione altamente associativa. C'è chi "vede" le lettere e associa certe cose alle calamite a forma di caratteri che aveva sul frigo da piccolo, per dirti. Quando ero bambina i miei colori preferiti erano il rosa e il viola, e quindi le mie canzoni preferite di quei tempi hanno quei colori. Non sono sicura se sono stata io a crearmi quest'immagine, o se semplicemente ero spesso circondata da cose rosa e viola, o se è un miscuglio di tutto questo.

"Boy with a Coin" di Iron & Wine.

Dipingi solo canzoni o anche altri suoni?
Il suono non è stimolante come la musica. Solitamente vedo un breve lampo di colore che scompare subito. Ma per il compleanno di mia mamma ho dipinto il suono dei suoi passi. Ricordo il suono dei suoi tacchi quando rientrava a casa che sentivo da piccola, e lo trovavo molto confortevole (e viola). 

Hai mai incontrato altri ragazzi con la sinestesia?
Ho conosciuto una ragazza, all'università, che vedeva forme quando sentiva voci—ricordo che quella di suo padre era triangolare—e riusciva anche a sentire il sapore dei toni. Una banana era in do, tipo. Parlarle era stranissimo dato che posso capire il concetto dietro alla cosa ma la sua sinestesia era comunque assurda, per me. 

Negli ultimi anni Pharrell, Kanye West e Lady Gaga hanno tutti parlato della loro sinestesia. Pensi che sia una cosa positiva?
Certo. Chiunque abbia sperimentato la sinestesia la vivrà diversamente. Mi sono arrivate molte mail da ragazzi con la sinestesia che facevano fatica a convincersi che non ci fosse niente di sbagliato nel vedere colori mentre ascoltavano musica. Ed è bello che ci sia più sensibilizzazione riguardo alla questione, dato che è sempre bello sapere che non si è soli nella propria condizione. 

"For Emma" di Bon Iver.

"Karma Police" dei Radiohead.

"Time" dei Pink Floyd.

Tutti i dipinti sono di Melissa McCracken e compaiono per gentile concessione dell'artista. 
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Scopri la line up di Ortigia Sound System 2017

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La scena dei festival in Italia sta vivendo un momento estremamente positivo. Ogni settimana ne abbiamo almeno uno di cui parlare e altri dieci che snobbiamo perché siamo estremamente selettivi e vogliamo bene ai nostri lettori. Le situazioni interessanti sono moltissime, ma non tutte possono vantare uno scenario come quello dell'isola di Ortigia, patrimonio dell'Unesco e cuore della città di Siracusa, in Sicilia. 

Ortigia Sound System raggiunge quest'anno la sua terza edizione, e oggi annuncia una prima porzione della sua line up. Rientrando nella tradizione del festival, ospita artisti da ogni angolo del mondo allargando lo spettro della musica da ballare in varie direzioni diverse.

MOUNT KIMBIE (esclusiva italiana) I due producer londinesi stanno per pubblicare il loro terzo album per Warp e proprio oggi hanno lanciato il primo, stupefacente singolo: "We Go Home Together", con il featuring di James Blake. Guarda il video qua sotto:

SEVDALIZA (prima data italiana in assoluto) Nata in Iran ma cresciuta in Olanda, sta facendo parlare di sé in tutto il mondo per la sua musica affascinante, profonda e politica che coniuga l'elettronica contemporanea con il pop e l'R&B. Il suo primo album, ISON, uscirà prima dell'estate.

PAQUITA GORDON è una DJ che da anni fa ballare tutta Europa con i suoi set in cui tra techno e house compaiono contaminazioni soul, jazz, funk e disco.

PALMS TRAX, DJ/producer americano con base a Berlino ma il cuore tra Chicago, Detroit e lo spazio siderale.

AVALON EMERSON, autrice di incredibili collage sonori che mettono insieme il gusto per le stranezze della new wave con lo spirito da rave party.

OSS si svolgerà dal 24 al 30 luglio 2017. I biglietti in modalità early bird sono già disponibili sul sito del festival. Se questi nomi non bastano a convincervi che sarà una settimana di grande festa in un luogo splendido, ecco un video che racconta l'edizione dello scorso anno. Vi farà venire voglia di fare un bagno nel mare della Sicilia e di ballare fino a mattina. 

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Questo sito ti fa ascoltare la radio della polizia con un sottofondo di musica ambient

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Non è proprio una notizia nuovissima, visto che Youarelistening.to esiste dal 2010. Ma noi l'abbiamo scoperto oggi grazie a questo bell'articolo di FACT e ora siamo completamente ipnotizzati. A quanto pare il fondatore del sito, il californiano Eric Eberhardt, ha scoperto per caso che sintonizzarsi sulle frequenze radio della polizia e contemporaneamente ascoltare della musica elettronica aveva un effetto rilassante, rinfrescante e interessante tanto sulla musica quanto sul brusio delle forze dell'ordine. Così ha creato un sito che coniugasse le due cose.

Youarelistening.to è infatti un'interfaccia online tramite la quale si può selezionare una playlist di SoundCloud (o lasciare che sia il sito a selezionarla automaticamente) e un livestream di una radio di servizio (che può essere quella dell'LAPD o quella dell'aeroporto di Varsavia e tutto quello che sta nel mezzo): il sito mescolerà i due suoni in diretta.

Come constata Will Pratchard nell'articolo di FACT sopracitato, non si tratta del primo sito post-musicale dedicato a creare una colonna sonora per il rilassamento o la concentrazione degli ascoltatori (Rainy Mood, ad esempio, ma anche tutte le playlist di "suoni trovati" su Spotify), ma è il primo che invece di puntare all'astrazione, al portare l'ascoltatore fuori dal mondo, punta a metterlo esattamente al centro delle situazioni più frenetiche, ottenendo uno strano effetto tra il globale e il locale. Provalo qui.

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La musica elettronica è un complotto della CIA?

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Sei seduto? Siediti. Cerca di trovare una posizione rilassante. Vorrei che raggiungessi un livello di comfort paragonabile allo zen. Accendi qualche candela profumata. Mangia un mezz'etto di hashish. Sei rilassato ora? Bene, perché devo dirti una cosa maledettamente difficile da accettare. Mi dispiace. Perdonami padre, perché non so quello che faccio. Anche se in realtà, purtroppo, lo so benissimo.

Ok, vado: la musica elettronica è soltanto una cospirazione per far drogare la gente e tenerla fuori dalla vita vera. Non me lo sto inventando. Queste sono le parole di Micky24242, come riportate dal super-producer scozzese Hudson Mohawke. Lettore, credimi quando ti dico che sono rimasto tanto scioccato quanto te da queste parole. Senza dubbio deve trattarsi di un delirio dei tanti complottisti di Internet—un pazzo con il cibo incastrato nella barba e troppo tempo a disposizione. Già, sarebbe bello fosse così. Sarebbe bello poter ignorare questa terrificante realtà. 

Disgraziatamente, lettore, dopo giorni e giorni di ricerche, sono giunto alla conclusione che non è più possibile ignorare questa verità. Lo devi a te stesso. Micky24242 ha ragione. È tutto un complotto. Tutto.

Sì, hai letto bene. Tutto quello che ti è sempre piaciuto della musica elettronica e della club culture è, in realtà, un ingranaggio all'interno di una complessa macchina governativa creata esclusivamente per lasciarti, sì, proprio tu, l'ascoltatore, il clubber, in uno stato vegetale semi-permanente, il tuo unico desiderio un nuovo mix di DJ Nobu, una busta di tabacco Virginia non troppo secco e una pizza con il salamino piccante. 

Ridi se vuoi, ridi finché non vieni soffocato dalle tue stesse tonsille e aspetta che ti faccia la respirazione bocca-a-bocca. Mentre tu passi dal rosso vermiglio al viola melanzana, condividerò con gli altri tutto quello che so.

Nei primi anni Sessanta, alcuni agenti della CIA incontrarono i loro corrispettivi inglesi dell'MI6 in una stazione di servizio nell'entroterra del Belize, a circa 160 chilometri dalla capitale Belmopan. Mangiarono un piatto tradizionale a base di maiale arrostito e brindarono con boccali di Belikin, la birra locale in stile pilsner tedesca. I Pibil Four, come saranno conosciuti da qui in poi, erano i due americani Chad Tullock e Barnaby Raddlestein e i loro complici inglesi Reginald Trotter e Derek Perrin. Avevano deciso di incontrarsi in quel Paese dell'America Centrale per i suoi scarsi controlli alla frontiera. 

L'uomo che noi abbiamo identificato come "Derek Pirrin" (via Flickr)

La cena fu il risultato di diversi anni di preparazione intensa e pervasa dal panico da parte dei due servizi di intelligence. Gli anni Cinquanta avevano avuto Elvis che aveva creato gli adolescenti a forza di movimenti pelvici, e con gli adolescenti era nata la ribellione adolescenziale, e con essa arrivò il risentimento degli adulti, e con esso arrivò la consapevolezza che questi nuovi adulti non sarebbero stati particolarmente contenti dello stato del mondo. E questo, naturalmente, era inaccettabile.

Per catturare gli adolescenti e impedire che il loro fusto sottile si trasformasse in possente quercia con il passare degli anni, le oscure forze che dominano il mondo decisero di raccogliere tutto ciò che rende quegli anni un'età così speciale: la sperimentazione sessuale, le avventure con i narcotici e il fanatismo culturale. Il compito di Chad, Barnaby, Reginald, Derek e della loro vasta rete di colleghi era semplice: catturare l'attenzione dei giovani di tutto il mondo e offrire loro una soluzione desensibilizzante, che li lasciasse aperti a una vita di consumismo e sfruttamento. E fu lì, in quella stazione di servizio a 160 chilometri da Belmopan, davanti a un piatto di maiale arrosto e birra pilsner, che nacque la club culture. 

Il piano era in moto: per schiacciare ogni sembianza di ribellione adolescenziale, le agenzie avrebbero dovuto controllarla, trovando un metodo per sfruttare le orde di giovani che fosse fico, capace di far nascere una moda, che li seducesse e li conquistasse.

Il processo di infiltrazione fu quasi totale. Etichette discografiche, produttori di strumenti musicali, televisioni, riviste e compagnie farmaceutiche ricevettero tutte ingenti somme per propagare la popolarità della musica elettronica. L'obiettivo del Project Paradise, questo il nome in codice dell'operazione, era di creare un ecosistema in cui droghe e musica procedessero mano nella mano, risultando—se tutto fosse andato nel verso giusto—nel soggiogamento delle generazioni future. 

Non fu prima di metà anni Settanta che le cose iniziarono davvero a prendere il volo. La disco era stata costruita a tavolino e, come previsto, aveva ricevuto un'accoglienza calorosa dal pubblico verso cui era mirata. Discoteche cominciarono a spuntare in tutto il mondo, e il clubbing per come lo conosciamo oggi cominciò a muovere i primi passi. La punta di diamante del Project Paradise ai tempi era lo Studio 54. Il tocco da maestro fu quello di ottenere il supporto di grandi celebrità: la gioventù viene sempre sedotta dalla fama e, come tutti sanno, il primo amore non si scorda mai. Cavalli, cocaina e Andy Warhol sono state le armi più efficaci nel primo stadio dell'operazione.

Secondo le informazioni che abbiamo ricevuto, in questa foto sarebbe ritratto Barnaby Raddlestein, fotografato all'esterno di una discoteca (via Flickr)

La disco diede vita alla house che diede vita alla techno che diede vita a tutto il resto, e quando tutto il resto fu dato alla luce, il sogno che i Pibil Four avevano meticolosamente pianificato così tanti anni fa era diventato realtà. Ogni città del mondo aveva diversi locali notturni, e praticamente ogni distesa d'erba nel mondo occidentale aveva ospitato almeno un festival da tre giorni con vari palchi e una vasta selezione di stand culinari. Il piano aveva funzionato: milioni di persone erano caduti nella trappola della musica dance. 

Qual è stato, quindi, l'impatto a lungo termine del Project Paradise? Be', tanto per cominciare non staresti leggendo questo articolo senza di esso. Ma oltre a questa tragedia evitata, ci sono implicazioni ancora più serie e importanti, naturalmente. Ci hanno venduto una menzogna, e noi abbiamo abboccato come pescigatti. Idolatriamo e veneriamo i DJ come dei; spendiamo una fetta enorme della nostra vita e dei nostri soldi per sostenere un'industria concepita per privarci della nostra libertà; passiamo ore a scrivere insulti su internet a chi sostiene che il nostro artista preferito non sia bravo quanto sembra a noi. Hanno vinto loro. 

E i DJ sono loro complici. Skream? MI5. Nina Kraviz? SVR RF. Ti sei mai chiesto perché i Daft Punk portino quei caschi? Sono un'invenzione della Brigade de renseignement et de guerre électronique che amplifica le onde per il controllo mentale.

Quindi, la prossima volta che metterai piede in un capannone di sabato notte, tieni gli occhi aperti. Ricorda che tutto quello che dici e fai viene monitorato e registrato da ogni servizio d'intelligence del mondo. Sei parte del loro sistema ora, parte del loro gioco, parte della loro trappola infinita. 

La nostra unica speranza è di venire salvati da una piccola banda di ribelli—i palazzinari e i consigli comunali, determinati a eliminare la cospirazione internazionale del clubbing con ogni mezzo. Sfratti, ordinanze, burocrazia sono la nostra unica speranza. Nel frattempo, occhi aperti.

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Ascolta il nuovo episodio di Skate Muzik con Jeff Pang

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Lo Zoo York Mixtape è uscito nel 1997 e ha reso New York la Mecca dello skateboard, mettendo in mostra il talento di una generazione destinata a forgiare il destino di questa disciplina e composta, tra gli altri, da Jeff Pang, Peter Bici, Harold Hunter, Danny Supa e Robbie Gangemi. Nel quinto episodio di Skate Muzik (la cui storia vi abbiamo già raccontato) il protagonista è proprio Jeff Pang, che racconta i retroscena di un video che ha cambiato la storia di una sottocultura e la cui colonna sonora è stata registrata in presa diretta durante una puntata dello Stretch Armstrong and Bobbito Show, in onda su WKCR.

#ListenToSkateMuzik

Il compositore che ha fatto suonare i pianoforti da soli

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Hauschka è un compositore e pianista tedesco. Nel 2010, ha contribuito a una performance audiovisiva dal nome Ghost Piano: durante le varie performance, delle immagini venivano proiettate su un pianoforte bianco mentre lui, seduto allo sgabello, sembrava suonarlo. Ma le proiezioni sono cose complicate, interrotte dalle ombre degli oggetti e delle persone. Hauschka sarebbe dovuto svanire, per permettere al pubblico di vedere le immagini proiettate sul piano per intero.

E Hauschka, infatti, non era lì, su quello sgabello: era in un'altra stanza, a suonare un altro pianoforte, fuori dal campo visivo dei presenti. La sua presenza era solo un'illusione ottica, decisamente spettrale. Il "pianoforte fantasma", coerentemente con il suo nome, si stava suonando da solo. 

I pianoforti meccanici, o pianole, ebbero il loro picco di popolarità a metà degli anni Venti, ma divennero preso obsoleti con lo svilupparsi di nuove tecnologie di registrazione. Funzionano grazie a un meccanismo pneumatico o elettro-meccanico che legge schede perforate di carta contenenti spartiti pre-programmati, in modo che il pianoforte possa eseguirli autonomamente—un modo piuttosto insolito, e non del tutto pratico, per ascoltare musica. L'utilità dei pianoforti meccanici contemporanei, però, va oltre al mero playback. Per Hauschka, nato Volker Bertelmann, i pianoforti meccanici—equipaggiati in modo da poter leggere i MIDI—sono la base su cui si fonda la sua idea di one man band

"Era come se questo fantasma, questo piano i cui tasti si premono da soli, potesse essere la mia mente," mi dice Bertelmann al telefono da Berlino. "Decisi che non avrei preso degli strumentisti ma che avrei usato i pianoforti per creare i vari suoni, li avrei fatti suonare come una batteria." Hauschka usa inoltre la tecnica del pianoforte preparato, ideata da John Cage: in pratica si tratta di mettere oggetti trovati in giro all'interno di un pianoforte in modo da cambiare il timbro delle corde e farle quindi suonare come altri strumenti.

"La prima volta che ho sperimentato con cose simili fu ai tempi di Substantial, il mio primo album," mi dice. "Era il 2004 e vivevo in Galles. Stavo provando a creare suoni che sembrassero elettronici con strumenti analogici, volevo liberarmi dal portatile quando ero sul palco. Non volevo suonare il piano e lavorare a un computer contemporaneamente: quando sono davanti a uno schermo mi sento sempre come se fossi al lavoro. Quindi cominciai a mettere cose tra i martelletti e le corde del piano, tipo dei filtri ottici colorati e pezzi della confezione di una torta, e così creai il mio primo charleston al pianoforte."

Il pianoforte è già uno strumento-campione della polifonia—armonia, melodia e contrappunto possono venire eseguiti contemporaneamente, e può essere suonato anche a quattro, a sei mani. In questo modo lo diventava ancor di più, qualificandosi come un device interamente personalizzabile, una sorta di surrogato analogico di un sintetizzatore. "Mentre lavoravo ho immaginato che potessi quindi creare suoni diversi per ogni tasto, e così ho deciso di creare diverse preparazioni per venti, venticinque tasti senza però perdere la qualità del suono complessivo."

Lungo la sua carriera Bertelmann ha fatto qualche concerto usando pianoforti meccanici preparati, ma la sua idea di usarli per creare una one man band non si è manifestata realmente fino all'anno scorso, in cui è stato eccezionalmente attivo: ha composto quattro colonne sonore (tra cui quella per Lion, nominata all'oscar e scritta assieme a Dustin O'Halloran), due composizioni orchestrali, e ha completato le lavorazioni di un album solista, What If, in cui ha finalmente trovato un punto d'incontro tra le sue due fissazioni strumentistiche, i pianoforti fantasma e quelli preparati. 

Per What If Berkelmann ha composto musica per uno Yamaha Disklavier, inserendoci le sue composizioni in MIDI e registrando poi ogni singolo output. "Il che mi ha permesso di lavorare su ogni singolo tema o motivo separatamente dalle preparazioni, e di capire come tutto poteva essere messo assieme," mi spiega. "È stato un processo molto interessante. Di solito suono, qua stavo praticamente ascoltando un'orchestra."

Con le mani libere di adattare e modificare le sue preparazioni, Hauschka ha potuto quindi mischiare e accoppiare diverse trame sonore, suonare melodie aggiuntive e fornire supporto armonico ai suoi pianoforti fantasma. Ma la maggior parte del lato esecutivo è stata dei pianoforti meccanici. "Ho aggiunto un po' di colore qua e là—ogni tanto ho suonato un pezzo sopra a quello che facevano. Ma 'Constant Growth Fails', per esempio, è solo pianoforte meccanico e nient'altro."

Il video di "Constant Growth Fails."

"Constant Growth Fails," pubblicata come primo singolo da What If, è stata presentata assieme a un edificante video dietro le quinte, oltre che da un video diretto da Daniel Gray, le cui animazioni distopiche suggeriscono l'acuto framework concettuale dietro al disco. 

Gray ci mostra una mannaia e altri oggetti taglienti mentre perforano oggetti irriconoscibili, ingranditi troppo per essere identificati. A livello musicale, "Constant Growth" è un pezzo dalla grande verve. Diversi battiti nascono dal nulla e si incrociano, stabilendo delle fondamenta complesse su cui possono poi librarsi diverse melodie. Al loro arrivo i vari pezzi degli oggetti i tagliati vengono cuciti tra di loro, e nella rivelazione finale ci vengono mostrati oggetti quotidiani uniti a piccoli animali—una bambola con un pesce, una macchinina di legno con uno scoiattolo, una ciabatta con un serpente. Potrebbe essere un commento sulle conseguenze innaturali, persino imprevedibili di una crescita costante—sfortunatamente, un principio cardine di un mondo governato dall'industrializzazione. Il titolo dell'album gioca con queste idee, ed è pensato per essere messo prima dei titoli di ogni pezzo per creare delle domande. Ad esempio: "E se... la crescita costante fallisse?"

"Volevo solo porre queste domande che compaiono in modo naturale se pensi a come il mondo e la razza umana si stanno sviluppando," mi spiega Hauschka. "Ci sono problemi ecologici e climatici, ma nessuno li percepisce come qualcosa di urgente."

L'urgenza è il tema principale di What If, e la sua esecuzione è resa possibile dalle capacità bioniche del pianoforte meccanico. Le macchine possono suonare più velocemente e precisamente delle persone, e la velocità scomposta di un suono automatico aggiunge un'aria di impellenza al tono del disco. "Le cose stanno cambiando, è ovvio," nota Bertelmann. "Volevo trovare un legame personale con quelle domande che vorrei venissero in mente alle persone, quando si mettono a pensare alle cose del mondo. E se non riuscissi a trovare acqua? E se la crescita costante fallisse? Dove andremmo a finire?"

Bertelmann usa un processo associativo ogni volta che ha bisogno di attingere dal suo subconscio. Tiene due cartelle piene di appunti, una per i temi e una per la musica, e accoppia testi e canzoni tramite correlazione—"Constant Growth" e "linee di pianoforte frettolose", per esempio, o "piccole gocce di pianoforte su uno sfondo polveroso ed elettrico" e "I Can't Find Water."

What If proietta le osservazioni di Bertelmann in un futuro prossimo, a trent'anni da ora. È un album complementare, in un certo senso, al suo Abandoned City—lode alle città disabitate, uscito nel 2014. Entrambi sono infatti dischi che contengono visioni di un futuro teorico. C'è un sentimento di cui Hauschka ha parlato che mi ha colpito particolarmente, condiviso in un'intervista pubblicata poco prima della pubblicazione di quell'album: Bertelmann suggeriva che la sua scrittura si esplicasse come un equilibrio tra malinconia e speranza. 



"Direi che What If è uno sviluppo, sposta la mia attenzione dal mondo interiore a quello esteriore, e incorpora una visione del futuro," mi dice quando gli chiedo di quest'idea. "Anche se le città abbandonate hanno un passato, il loro futuro è piantato dentro di loro perché rappresentano uno stato-zero. Non sappiamo che ne sarà di loro."

Oggi non è inconcepibile, dato il torbido clima politico contemporaneo, immaginare un mondo a trent'anni da ora che assomiglia a una città abbandonata, pieno di pianoforti fantasma e nessuno a poterli suonare. Bertelmann suggerisce questa possibilità, e parla di una catastrofe che potrebbe riportarci tutti a un punto d'inizio: "Penso che la domanda principale da porsi, mentre guardiamo come tutto si sviluppa, sia: dove possiamo trovare speranza? Personalmente, credo sia generata dalla vita, dalla condivisione della vita con altri esseri umani. È lì che io la trovo."

Ed è questo, il nucleo del nuovo disco di Hauschka, e della sua opera tutta: la speranza e la bellezza nata dalle opportunità di condividere un'esperienza di vita. "Voglio svegliarmi al mattino e sapere che incontrerò qualcuno, avrò qualcosa da fare, andare da qualche parte," mi dice. "È per questo che faccio musica. Provo a generare un ambiente che faccia pensare la gente, che crei fantasie, che generi creatività—tutte cose che ti fanno venire voglia di muoverti, di agire."

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Siamo a un punto di svolta per i festival musicali in Italia?

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Qualche giorno fa abbiamo annunciato la lineup dell'Ortigia Sound System. L'esaltazione per il fatto che finalmente potrò vedere dal vivo la mia artista preferita mi ha riempito di endorfine e le endorfine, come tutti sanno, sono il motore della domande migliori. Nel mio caso la domanda è stata: come è possibile che una artista che non ha mai messo piede in Italia abbia accettato di farlo per la prima volta a un festival che si tiene nella parte più antica di Siracusa? Da qui a catena sono arrivata a pormi questioni ben più metafisiche: per esempio, prima ancora di avere qualcuno che ci suoni, come si fa a organizzare un festival in un paese in cui anche iscriversi al registro dell'ASL può farti venire voglia di trasformarti in Jamie Foxx in Giustizia Privata?

Per rispondere a queste e altre domande sono andata a Torino a trovare Germano Centorbi, one-man organizzatore di eventi con Kadmonia, parte del management di L I M e Niagara e co-organizzatore dell'Ortigia Sound System che mi ha raccontato cosa si intende con "nuova generazione" di festival in Italia, e cosa dovrebbe cambiare nel nostro paese prima che si possa veramente consolidare una scena di eventi musicali interessante e continuativa.

Noisey: Ogni dieci giorni in Italia viene annunciato un festival nuovo—l'ultimo che mi è comparso nella mailing list di Resident Advisor è in una masseria in Puglia, a giugno. È un segnale di una svolta, di un passaggio?
Germano Centorbi: Diciamo che sì, c'è un fermento nella creazione, ma effettivamente non so quanto i festival che nascono possano durare nel tempo. Probabilmente la preferenza accordata ai festival è dovuta al fatto che organizzare eventi singoli durante l'anno è quasi impossibile, per questioni economiche e di pubblico ristretto (e spesso di scelte sbagliate di direzione artistica e promozione) mentre il festival ti consente di lavorare con una line up ampia che può accontentare te e un pubblico più ampio, oltre che trovare appoggio da parte delle venues. La nascita di tutti questi festival secondo me rispecchia insomma un'esigenza di comodità, di tendenza.

E questo della difficoltà di organizzare eventi durante il corso dell'anno è un problema generale o solo italiano?
È abbastanza italiano, nel senso che si fa veramente fatica a creare un pubblico. Se vuoi che ti lascino organizzare un evento, devi assicurare una certa entrata in botteghino, e automaticamente ti limita. L'unica scena italiana è quella della musica indie nazionale. Con gli artisti internazionali è davvero difficile costruire un mercato, perché sono davvero pochi quelli che interessano al pubblico.

Quindi diciamo che organizzare un festival è un modo per circumnavigare, trovare un'alternativa alle difficoltà dei locali nel portare avanti una programmazione? E magari nel contempo sfruttare location alternative?
Diciamo che ci sono motivi diversi per cui si organizzano i festival, ma questo mi sembra uno determinante. Quanto alle location, mi fa piacere che tu ne abbia parlato, perché l'altra questione importante è che c'è anche voglia di sfruttare la bellezza del territorio italiano. Considera che un festival su più location e giorni ti permette una programmazione più varia. È il caso di Ortigia, che ha contesti differenti, e ognuno richiede di essere valorizzato dalla giusta programmazione artistica: giorno, notte, tramonto, mercato del pesce...

C'è da dire che tra i motivi per cui nascono un sacco di festival c'è che i festival fanno figo, e qui sorge un problema: molto spesso ai promoter sembra facile organizzare un festival. Ma poi questi festival quanto durano? Non voglio dare la colpa ai promoter, ma spesso si pecca di ingenuità quando non si considera che organizzare un festival vuol dire mettere insieme tantissimi elementi, il territorio, la regione, il comune, la politica e gli esercenti, la cittadinanza. Spero che con Ortigia riusciremo a metterli insieme tutti e durare nel tempo.

Ecco, questo è un punto che volevo affrontare con te. Soprattutto i siciliani sono molto protettivi nei confronti del proprio territorio—perché avete scelto un luogo suggestivo ma già "turistico" come Ortigia, e come avete fatto a non farvi fucilare dagli abitanti del centro?
Quanto alla seconda parte della tua domanda, non ce l'abbiamo fatta: nel senso che anche quest'anno il festival ha diviso la cittadinanza. L'ambizione è di riuscire a mettere d'accordo tutti (o quasi) come è avvenuto a Castelbuono [ dove si tiene l'Ypsigrock]. Comunque mi preme di certo quello che facciamo lo facciamo sempre discutendone prima con comune e vigili.

Il motivo per cui abbiamo scelto Ortigia è abbastanza banale: c'era un'esigenza nell'aria ma nessuno l'aveva intercettata. Il festival nasce come serata universitaria nel 2014, l'anno successivo si sviluppa come un "festival" di una sola giornata, ma più corposa, finché la terza edizione, quella dello scorso anno, si è sviluppata come un vero e proprio festival, su più giorni e con attività differenziate.

Rimaniamo un attimo sull'ambientazione dei festival: se penso per esempio al Terraforma, o a Ortigia, una cosa fondamentale mi pare essere l'integrazione della sfera artistica nella sfera ambientale. Una linea che, pensando alle possibilità offerte dall'Italia, potrebbe essere sfruttata bene, dato che oggi se voglio sentire la musica attacco Spotify e basta.
Insieme alla comunicazione, è la cosa più importante, nel senso che ora che l'interesse per l'artista non è più così principale, quando vendi un festival vendi una location—e avere posti come Villa Arconati, o la Sicilia, è fondamentale. Non solo, è uno dei motivi per cui gli artisti vengono a suonare in Italia. In fase di booking, quando devo convincere un artista a suonare, di sicuro in allegato inserisco una foto di Ortigia. La location è troppo importante in Italia, perché spesso il nostro non è un mercato interessante per gli artisti stranieri, quindi se vengono a suonare spesso e volentieri lo fanno perché c'è una location bella. Molti artisti di livello intendono l'OSS come una vacanza—alcuni mi chiedono di restare anche oltre la durata del festival, e noi cerchiamo di garantirlo per quanto possibile—ovvio è un costo, ma è soprattutto un investimento perché più si parla di Ortigia più il festival ne guadagna. Diciamo che a Torino non mi capita spesso che gli artisti vogliano restare così a lungo.

Il fatto di avere location così singolari implicherà però un grande lavoro sulla programmazione—e infatti uno dei ricordi che ci si porta sempre a casa da un festival, in positivo o in negativo, sono le "vibrazioni", il fatto di essere stato chiuso in una specie di guscio dove tutto, nel migliore dei casi, si amalgamava perfettamente. Come si crea una lineup, proprio a livello di coerenza con il territorio—e i tuoi gusti?
È un discorso che mi piace molto, perché la line up per quanto mi riguarda è costruita intorno al territorio e alla location. E ovviamente anche in base a quelli che non chiamerei gusti ma discorsi culturali tuoi, alla ricerca che stai facendo. Con Kadmonia opero su Torino, che è una città scura, che ha bisogno di un certo tipo di proposta culturale industriale: mettiamo Lotic.i A Ortigia Lotic non potrebbe mai suonare, perché il buio di Ortigia è diverso. Per cui l'anno scorso a Ortigia ha suonato Alfio Antico, che ha tanto buio, ma è un buio ancestrale. Il buio siciliano è legato all'origine dell'uomo, all'ancestralità del territorio, quello di Lotic è legato all'ultracapitalismo e ultramodernità, alla sua condizione di berlinese. Artisti così li vedo meglio a Milano o Torino—soprattutto a Milano. L'altro giorno è stata una goduria assistere alle performance di Yves Tumor, Amnesia Scanner. In Sicilia non avrei goduto allo stesso modo.

Quest'anno l'OSS avrà elementi legati al Medio Oriente, e stiamo provando ad aprire un discorso con diverse ambasciate, ospitandole al festival, perché la Sicilia è da sempre un luogo di influenze arabe e di incontri, nonché un territorio in cui arrivano tanti rifugiati—dobbiamo provare a dare voce a questi artisti, che trattano questi temi. E lo facciamo seguendo sempre una linea artistica che parla di pop, avant pop o elettronica contemporanea. La lineup insomma nasce in base a qualcosa che vuoi dire, e quello vuoi dire è sempre legato al territorio.

Un altro punto importante di molti festival nati in questi ultimi anni è, in accordo con l'importanza del contesto ambientale, anche quello della cura dell'ambiente—quindi diciamo una svolta "green" che parte dal Coachella e arriva al Terraforma.
Sì, credo che per il Terraforma è diventata una delle caratteristiche più importanti, anche se poi ci sono altri casi in cui è solo questione di immagine. Su questo a Ortigia siamo un po' indietro—perché be', il contesto è indietro. Ma cerchiamo lo stesso di fare cose che abbiano senso sul territorio, per esempio stiamo cercando di collaborare con Seashepherd, che opera già a Ortigia per prevenire la pesca dei ricci, creando magari dei nostri team di persone che vadano a pulire le spiagge e salvaguardare la pesca nei nostri mari.

Ecco, qui vorrei aprire invece una parentesi sul fatto che forse il più "noto" e amato dei festival italiani di un certo tipo è il Club to Club, che è in totale controtendenza con tutto quello che abbiamo detto finora—almeno per come si è sviluppato ultimamente.
Guarda, veramente il C2C è un'esperienza unica in Europa. Conta che quando lavoravo al festival, dopo l'annuncio di C2C15 hanno cominciato ad arrivarci messaggi che dicevano, qui in America non esistono festival come il vostro. Al Club to Club conta davvero in modo preponderante la musica. A vedere festival come C2C e Terraforma—non mi metto a citarli tutti perché rischierei di dimenticarne qualcuno—ma anche altre realtà come l'agenzia di booking Radar Concerti che fa un lavoro immenso da questo punto di vista, hanno un'attenzione smodata alla selezione musicale, potresti pensare che in Italia stiamo facendo un buon lavoro in quella direzione. E invece la stragrande maggioranza sono festival allineati in un certo tipo di circuito, con lineup tutte uguali.

Venendo alle note dolenti, vorrei che ci soffermassimo un attimo sulle questioni puramente monetarie. Come si trovano i soldi per un festival, quando in Italia i festival non sono ancora considerati un'industria—con tutti i disagi del caso, tipo assenza di dati, che rendono molto complesso farsi concedere per esempio prestiti dalle banche?
Sicuramente bisogna fare poco affidamento su istituzioni e fondi pubblici, nel senso che ci sono, ma per costruire un festival servono sponsor privati. Per questo marketing e comunicazione sono così importanti, perché devi comunque essere in grado di fornire qualcosa al di là del dato che non c'è. C'è però un problema però più profondo e che riguarda tutto il circuito italiano: ed è che la maggior parte degli organizzatori non considerano il proprio lavoro una professione. Anzi, molto spesso lo fanno come secondo lavoro, e non va bene—io capisco che fai fatica a farti uno stipendio con la musica, però sono sacrifici che vanno fatti, soprattutto perché ci vuole del tempo a raggiungere le persone che investono su di te. Se non investi anche cinque anni per dare dei dati a quelle persone, come pretendi poi che quelle persone vengano da te a investire? Allo stesso tempo non vorrei si pensasse che sono contrario a ogni attività fatta col solo scopo culturale e sociale. Penso solo che debbano essere sostenibili, per non morire

E non riguarda solo i festival: chi fa il promoter interpreta il suo lavoro come un hobby. E questo porta degli enormi svantaggi anche a chi il suo lavoro cerca di farlo bene. Perché un artista internazionale che arriva in Italia e viene alla tua serata, ma la tecnica non funziona o lo fai dormire in un brutto albergo, quell'artista non torna più in Italia e ne ha un brutto ricordo. Lo stesso vale per tutto il resto, ufficio stampa, produzione—quante volte si fanno i festival senza pensare alle coperture finanziarie necessarie! C'è proprio la tendenza a dire, "La grafica la faccio io internamente, la comunicazione la fa lui sempre internamente," Ma internamente stocazzo!

Mi sembra un ennesimo riflesso di un problema più diffuso in Italia, ovvero l'inesistenza dell'imprenditoria culturale, dell'idea che la cultura è splendida, ma che deve essere un'industria autosostenibile—e per forza di cose monetizzabile.
In Italia non esiste un mercato culturale, eccetto quello legato all'indie. Non mi piacciono festival già in partenza organizzati con un business plan per cui anche se vendono tutti i biglietti sono comunque in debito—e sono festival grossi, frequentati, magari con lineup immense. Ecco, quelli sono un danno enorme.

Questo è uno dei problemi più grossi a mio parere. Kadmonia, l'attività che porto avanti a Torino, nasce per quello, OSS vuole fare quello: un incontro tra una parte di business e cultura, e questo mi porta a scontrarmi una volta a destra e una a sinistra. Da noi se fai arte non puoi fare business, e viceversa—per questo io amo un festival come C2C, perché ti dà anche la dimostrazione che l'imprenditoria culturale si può fare anche in Italia.

Be', è lo stesso identico problema con i libri, i film, le serie TV...
Esatto, poi vedi Jeeg Robot o Gomorra e capisci che si può fare.E invece devono dire tutti che si è svenduto, è diventato popolare, non va bene. E invece no, è figo—può starti sul cazzo Sorrentino perché ha le immagini laccate, ma stiamo parlando di cinema di qualità e non di schifezze.

Torniamo all'Ortigia Sound System, nell'organizzazione siete in quattro e disegnare una lineup mettendo insieme quattro background musicali non deve essere facile. Come funziona la selezione?
C'è tanta discussione, poi non so dirti come ma riusciamo a venirne a capo, anche se a tratti sembra impossibile. Ognuno porta la sua influenza e si riesce ad arrivare a una decisione comune.

Tipo che quanta musica ascolti in un giorno?
Eh, sempre. Sempre.

I media dovrebbero svolgere un ruolo centrale sia nella promozione dei festival sia, più in generale, nella promozione musicale. Cosa che da più parti—e a ragione—si contesta che in Italia non avvenga. Che cosa abbiamo bisogno in questo paese, a livello mediatico, perché gli eventi musicali di qualità sfondino la barriera della "nicchia"?
I media hanno un ruolo fondamentale. Se si riuscisse anche a capire di cosa si sta parlando, e a innescare dei meccanismi per rendere i contenuti ancora più originali e portarli fuori dall'Italia, sarebbe davvero importante. Ecco, considera l'importanza che può avere un articolo esportabile per la promozione di un festival o di un artista. I media italiani se iniziano ad avere una buona ricezione all'estero possono aiutare gli artisti italiani a esportare la loro musica. Se crescessero, crescerebbe tutta l'industria musicale italiana.

Elena usa ancora Twitter, seguila: @ev_entually


Il cantante dello Stato Sociale ha fatto una cover di Bello Figo al piano

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Oggi Lodo Guenzi aka "il tipo dello Stato Sociale" ha fatto una cosa che ce lo fa stare un minimo più simpatico: ha fatto una cover al pianoforte di "InGiusto (SWAG POP) LEGENDARIO!!!" di Bello Figo, un deep cut della sua discografia che risale addirittura al 2012. 

Sentire le parole "Una figa, una figa strepitoss / Sono un figo, sono un figo strepitoss / Sono bello, e io t'orro giur' / Ogni volta che ti vedo sono felicio" uscire dalla bocca del Lodo ci fa precipitare in un vortice ironico dal quale probabilmente non riusciremo più a uscire, incapaci di renderci conto se nulla è più fatto sul serio o solo per fasse du' risate. Chi l'avrebbe mai detto che YouTube ci avrebbe offerto qualcosa di peggio delle cover rap col chitarrino? 

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Keith Ape sta per arrivare in Italia

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Come ben sapete, la trap non è solo cosa americana e italiana: c'è quella francese, quella tedesca, quella spagnola e—soprattutto, per gli scopi di questo articolo—quella nippo-coreana, che avevamo raccontato ampiamente in questo articolo. Siamo quindi felici di annunciarvi che Keith Ape, autore di quella hit internazionale che è "It G Ma"—pezzo potente più o meno come una collisione interplanetaria—sarà in Italia per la prima volta a fine aprile. Qua sotto trovate la locandina dei suoi due concerti, che si terranno a Roma e Milano. 

Vi consigliamo caldissimamente di presenziare se non volete poi pentirvi di esservi persi il più grande contributo della Corea al mondo dai tempi del tae kwon do, del kimchi e dei campionati professionistici di Starcraft e League of Legends

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Pitbull vivrà per sempre

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A Kingston, in Jamaica, un ragazzo del luogo con un cappellino con su scritto "BLESSED LOVE" osserva Pitbull mentre strofina il didietro di una ragazza che appare nel suo video, in un ristorante all'interno di uno dei due complessi di proprietà della famiglia Marley. Pitbull si è portato quella ragazza con sé dalla sua città, Miami, specificamente per il suo sedere. È fenomenale. Sporge dai suoi addominali piatti e dai suoi fianchi larghi; ha un po' di grasso sulle gambe, a prova che il suo sedere non è opera di qualche chirurgo plastico ma è un'eredità lasciatale dalla Florida stessa. "Perché Miami ha i sederi migliori?" mi chiederà Pitbull più avanti. "È molto semplice: è un melting pot in cui si incontrano molte diverse culture, il che crea anomalie genetiche. 

Pitbull è a Kingston per filmare il video del suo nuovo singolo, "Options", un featuring con Steven Marley. Ha dei pantaloncini, una camicia nera a maniche corte e delle scarpe Fila—un outfit che mia madre, che ha passato la sua adolescenza in una roulotte nella Florida del sud, definirebbe "formale". 

Finita di girare la sua scena, Pitbull esce di corsa dal ristorante e sale su una moto gialla. Un'altra ragazza si siede dietro di lui, e Pitbull parte. Un pickup rosso gli sta di fronte. Diversi cameraman e il suo fotografo personale, Greg Watermann, cercano di restare in equilibrio nel cassone del pickup. Watermann—che è alto e magro e ha lunghi capelli grigi, prodotto di quel mondo del rock che definisce Pitbull una "rockstar" in tutto e per tutto—si china e si intrufola tra i cameramen, fotografando il suo boss. Più tardi mi spiegherà, "Pit dice—è una bella citazione—che è come fare uno shooting senza fare uno shooting."

Ci sono diverse motociclette della polizia attorno alle nostre auto, e ci accompagnano fino al cuore di Trenchtown, il leggendario e poverissimo quartiere dove Bob Marley è nato e cresciuto. Le strade sono popolate di capre selvatiche, piccioni e cani. Le case sono fatiscenti, hanno tetti di lamiera e muri fatti di diversi tipi di legno. I loro abitanti cominciano a rendersi conto della presenza di Pitbull e fanno per inseguirlo. Una ragazza ha addosso una maglietta un po' sporca con su scritto, "No worries, Hakuna Matata." Pitbull la guarda, passandole di fronte.

"Voleva girare qua in quartiere," mi spiega il manager di Pitbull, Michael Calderon. "Dovevamo girare 'Options', e la scena sarebbe dovuta essere su una spiaggia. E lui ha detto che non voleva farlo, che voleva girare in Giamaica, con la famiglia Marley, che voleva essere per strada. Perché? Perché crede fermamente che camminando per strada potrebbe sentire qualcosa—potrebbe sentire una canzone."

Data la sua percezione pubblica, Pitbull come grande uomo di cultura potrebbe essere un concetto strano. Ma chi vive in Florida ha capito da tempo la complessità dietro al suono e ai testi di Pitbull. In parte è perché sono nato lì che sono qua con lui oggi. Qualche settimana prima il suo management mi aveva chiamato, offrendosi di pagarmi il viaggio da Los Angeles a Kingston e una stanza d'hotel. (Ho accettato, a patto che né Pitbull né il suo team mi chiedessero le domande dell'intervista prima di farla.) Pitbull guarda sollo VICELAND, CNBC e Bloomberg, mi spiega il suo team. Voleva essere intervistato da un corrispondente di VICE, preferibilmente cresciuto nella Florida del sud. Io sono il profilo perfetto. Quando sono arrivato sul set in Giamaica mi ha dato il benvenuto saltando fuori da una roulotte bianca, come la canottiera che aveva addosso. Mi ha stretto la mano, mi ha tirato a sé—come ci salutiamo in Florida—e ha gridato, "Facciamo la storia, baby! Dale!"

I suoni e la cultura della nostra città giocano un ruolo centrale nell'ultimo album di Pitbull, uscito il 17 marzo. È un misto tra i suoi classici pezzi da festa e il pop degli anni Ottanta (l'equivalente musicale dello spandex che avvolge le curve di molti floridiani), con allusioni alla sua infanzia difficile negli anni Ottanta e ai conflitti della politica contemporanea. L'ha chiamato Climate Change, nel bel mezzo della crisi del riscaldamento globale che sta colpendo, in particolare, la Florida. Il livello del mare si sta alzando, e la Florida del sud ha già visto delle alluvioni; in tutto questo, il governatore Rick Scott ha negato l'esistenza del cambiamento climatico. 

"Ovviamente c'è un messaggio dietro a tutto questo," specifica Pitbull. "Ho fatto Global Warming e Globalization, e ora è il momento di Climate Change."

Il titolo dell'album, ovviamente, ha un doppio significato. Sono più di dieci anni che Pitbull porta avanti un proprio cambiamento nel clima culturale, spingendo nel mainstream la musica latino-americana e la variegata e controversa cultura di Miami. Come ha detto Billy Corben, il ragazzo flordiano che ha diretto il documentario Cocaine Cowboys, "Pitbull sta a Miami come Walt Disney sta a Orlando... Vende il sogno: l'idea che Miami è questo melting pot di donne e lingue in cui si fa festa ventiquattr'ore al giorno, sette giorni su sette." E adesso Pitbull sta continuando la sua missione, mentre il presidente Trump sta tentando di attaccare tutto ciò che l'amministrazione Obama aveva fatto riguardo ai cambiamenti climatici e promuovendo un'agenda anti-immigrazione e anti-globalizzazione—idee antitetiche a quelle di Pitbull. Climate Change è il passo più radicale del grande piano di Pitbull il cui scopo è rendere la controversa cultura di Miami la principale forza culturale in America.

"Miami ha preso il controllo degli Stati Uniti, nello stesso modo in cui noi ci siamo presi gli Stati Uniti e il mondo," spiega Pitbull. "Pensaci: Miami è una delle mecche non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero, e ce l'hanno fatta, o ce l'abbiamo fatta, in circa quarant'anni. Nella metà del tempo in cui ce l'hanno fatta New York, Los Angeles e Chicago."

"Ce l'abbiamo fatta per merito di tutta la cultura che ci circonda. Siamo la piattaforma di lancio verso l'America Latina e tutti i Caraibi, ok—e penso che sia una qualità fondamentale."

Le rivoluzioni sono nel sangue di Pitbull. Sua nonna, la mamma di sua mamma, partecipò alla guerra rivoluzionaria di Cuba assieme a Fidel Castro. "C'erano quattro donne che andarono sulla montagna con Castro," dice. "Lei era una di quelle." Dopo essersi resa conto delle realtà del regime di Castro, nonna Pitbull si allontanò dai comunisti e grazie all'operazione Peter Pan—una missione che mandò 14,000 bambini rifugiati cubani a Miami senza accompagnatori adulti tra il 1960 e il 1962—mandò sua figlia, la madre di Pitbull, in Florida. Allora aveva dieci anni. Un altro dei suoi parenti, dice Pitbull, è stato prigioniero politico per anni a Cuba.

La vita di Pitbull è stata molto diversa, ma viene da una famiglia chiaramente ribelle. "Sono un rivoluzionario?" si chiede. "Assolutamente sì."

L'idea di un Pitbull rivoluzionario sembrerà assurda a chiunque non sia nato nella Florida del sud. Dopo aver firmato un contratto con la RCA nel 2009, Pitbull è comparso in pubblicità di birre e ha avuto singoli di successo in cui parlava di shot e di sesso in un "hotel, motel, Holiday Inn." La sua ascesa alla fama e il conseguente contraccolpo d'immagine sono andati in parallelo con il dibattito culturale su Miami-città. Il colosso culturale della città è la Art Basel Miami Beach, un'enorme fiera d'arte che ogni anno porta grandi collezionisti a Miami da New York, Dubai e Parigi. L'anno scorso, il Whitney Museum of American Art si è rifiutato di includere artisti nati in Florida nella sua biennale del 2017, ed è la quarta edizione di fila che questo accade nonostante l'innegabile centralità di Miami nel mondo dell'arte. È una circostanza familiare per Pitbull, con GQ che l'ha definito uno dei 25 rapper peggiori di sempre (assieme all'ex marito di Britney Spears, Kevin Federline), e gli snob del rap lo deridono dandogli del venduto. "Sono un ragazzo di Miami, e quindi mi sento sempre un po' attaccato," ammette. "Parto sempre svantaggiato, e quindi combatto e lavoro sempre più duramente."

Pitbull non è nato con un paio d'occhiali da sole e un completo bianco addosso. I suoi primi anni sono in forte contrasto con la sua impeccabile immagine pubblica, e oggi i floridiani parlano di Pitbull in termini mitici, come se fosse una sorta di Ercole di Miami. Sentire lui e i suoi amici più stretti raccontare la sua storia non fa che rendere più vivida quest'impressione. "Guardi quello che Pit ha passato, i quartieri in cui ha vissuto e quello che ha fatto, e ti rendi conto che in pratica ce l'ha fatta," dice il suo amico Joshua "Whiteboy" Gallander, che lo conosce fin da quando era piccolo. "Pit è davvero il prescelto."

"Sono un ragazzo di Miami, e quindi mi sento sempre un po' attaccato. Parto sempre svantaggiato, e quindi combatto e lavoro sempre più duramente."

La storia è questa: nel 1980, uno spacciatore di coca cubano, Armando Perez, conobbe una ballerina, Alysha Acosta, a un topless bar di Miami. Andarono a letto assieme e nove mesi dopo, il 15 gennaio 1981, lei diede alla luce il bambino che un giorno il mondo avrebbe conosciuto come Pitbull. "È andato tutto bene," mi dice lui. "Cazzo, devo trovare quel bar!" In un'intervista del 2015, rilasciata ad Howard Stern, Pitbull racconta che Acosta indicava le stelle nel cielo di Miami e diceva a suo figlio che un giorno sarebbe stato una di loro. È un racconto perfetto, ma bisogna ricordare che Pitbull è cresciuto in un periodo turbolento, lontano dalla Miami Beach delle fiere d'arte di oggi. Nel 1981, il suo anno di nascita, il New York Times riportò che Miami era la città con il più alto tasso di omicidi al mondo.

"Quando avevo cinque, sei anni ero nel mezzo dell'ondata di crimine che aveva colpito Miami, ma non me ne rendevo conto," ricorda Pitbull. 

Suo padre e i suoi amici si guadagnavano da vivere spacciando. Da piccolo, Pitbull accompagnava suo padre per i bar di Little Havana, dove lui lo obbligava a mettersi in piedi sui banconi e recitare a memoria le poesie politicizzate del poeta cubano José Martí. Quando Pitbull arrivava all'ultima parola, gli spacciatori e i signorotti della droga locali esplodevano in un applauso. "È la prima volta in cui mi sono reso conto di quanto le parole potevano essere potenti," ricorda. "Ma più che ogni altra cosa, quelle poesie che recitavo parlavano tutte di libertà, parlavano di gente che combatteva, che combatteva per quello in cui credeva, voleva capire la propria cultura e dare un valore alla propria vita."

Per gran parte della sua infanzia, Pitbull non ha avuto una quotidianità con suo padre, che aveva cominciato ad abusare delle droghe che spacciava fino a perdere tutti i suoi soldi. "Cacchio, odio mio padre", Pitbull ricorda di aver detto a sua madre quando aveva dodici o tredici anni. Lei lo corresse: "Tu non odi niente. Può non piacerti tuo padre, ma non hai avuto l'opportunità di conoscerlo. È un uomo molto speciale. Ha un grande cuore. È solo malato."

Nella maggior parte delle sue interviste, Pitbull definisce sua madre "un cazzo di genio" che non è riuscita a esplicitare il suo potenziale per le circostanze politiche che hanno accompagnato la sua infanzia. Una volta arrivata in America, Acosta non vide sua madre per sette anni. "Per dirla terra terra, l'esperienza di vita di mia madre l'ha davvero mandata a puttane," dice Pitbull. Per evitare che suo figlio avesse il suo stesso destino, Acosta andava di porta in porta a vendere contratti della TV via cavo, acqua filtrata e prodotti Avon. Pitbull sedeva sul sedile passeggero nella sua Ford Pinto del 1982 e la accompagnava sul lavoro. "Faceva così caldo che le cosce ti restavano appiccicate ai sedili," ricorda Pitbull. "È con lei che ho imparato a vendere."

In quei lunghi viaggi, Acosta parlava a suo figlio del riscaldamento globale, lo incoraggiava a investire in internet e ad ascoltare audiolibri di auto-aiuto. Un giorno, mise su una cassetta di Tony Robbins, un relatore motivazionale. Pitbull si arrabbiò. 

"Non voglio ascoltare 'sta merda," disse.

"Hai pagato tu questa macchina?" rispose lei.

Pitbull chiuse la bocca e ascoltò Robbins. "La storia che mi è sempre rimasta in testa è quella del colonnello Sanders di KFC," ricorda Pitbull. "Gli dissero mille no, ma poi riuscì a vendere quella ricetta. E ci sono persone che a malapena reggono un rifiuto. Pensa cosa significhi reggere mille rifiuti!" Oggi, Pitbull collabora con Robbins in alcuni dei suoi seminari. 

Anche l'ascesa alla fama di Pitbull è una di quelle storie che potreste sentire su una cassetta di Robbins, ma Pit è convinto che sarebbe finito come suo padre se non avesse conosciuto un barbiere, Eddie. "È una componente chiave," dice. "Eddie è quasi un angelo, nella mia vita."

Quando andava al liceo, Pitbull ebbe dei problemi con la legge. (Non mi vuole dare troppi dettagli.) Un giudice lo condannò a fare ore di servizi sociali; lui entrò nel negozio di un barbiere e chiese al titolare, Eddie, se poteva spazzare per terra per completare le ore che gli mancavano. Eddie gli parlò, da ragazzo di Miami a ragazzo di Miami: "Senti, ti faccio fare queste ore, ma se questo giudice dovesse leggere il mio nome ti chiederà di me," disse, a quanto ricorda Pitbull. "Solo, stai attento a dirgli che non mi conosci, e che non è chi pensa io sia." E così Pitbull fece. 

Un giorno, mentre spazzava per terra, Pitbull sentì un cliente dire che sapeva rappare. Questo si mise a fare un freestyle, e quindi Pit rispose con un suo verso. Il negozio scoppiò. "Che cazzo?", disse Eddie, facendo sedere Pitbull. "Aspetta un secondo, amico." Gli impedì di cazzeggiare in quartiere e, da quel giorno, Eddie cominciò ad andare a prendere Pitbull a scuola e lo portava direttamente al negozio. "La cosa peggiore che puoi essere, nella vita," gli disse Eddie, "è un talento sprecato."

Nel giro di poco, Pitbull si stava sbattendo per essere notato nella scena rap locale. Nel 2000 Luther Campbell, faccia dei controversi 2 Live Crew, lo scoprì. Campbell, che la gente del luogo chiamava Uncle Luke, stava cercando un protetto cubano-americano. "Avevo letto un articolo sul giornale che parlava dell'ulimo censimento degli Stati Uniti, e di come i latino americani sarebbero diventati sempre di più in tutto il paese," scrisse Campbell sul Miami New Times nel 2011. "Pensai che sarebbe stata una buona idea, da un punto di vista economico, sviluppare un artista latino."

Le stazioni radio locali lo ignoravano, ma Pitbull sviluppò una strategia per far passare i suoi pezzi su Power 96, la stazione pop e hip-hop principale in città. "Quando fanno una trasmissione dal vivo da un club, andiamo lì", disse, stando a quanto ricorda il suo manager Michael Calderon. Ogni sabato, Pit e Calderon stavano addosso ai DJ del Club Deep e del Mad Jack, due discoteche locali, e gli passavano le ultime cose di Pitbull. Piano piano, Power 96 cominciò a passarle regolarmente. 

Fu TVT, l'etichetta floridiana che stampò Kings of Crunk di Lil Jon & the East Side Boyz, a pubblicare l'album di debutto di Pitbull, M.I.A.M.I., nel 2004. Su quell'album ci sono pezzi pensati per il club—quando andavo alle medie a Fort Lauderdale, o "Fort Liquordale" come lo chiama lui, tutti si strusciavano al ritmo della sua "Culo" ai balli della scuola—ma anche brani in cui Pitbull parla di crimine e dell'esperienza cubano-americana. "Non solo mio padre spacciava roba / Si faceva la roba che spacciava," rappava in "Hustler's Withdrawal." "Ora mio padre non ha un cazzo."

Due anni dopo fu il turno di El Mariel, il suo secondo album, che prese il nome dal disastro umanitario conosciuto come l'Esodo di Mariel. La crisi esplose nel 1980 dopo che il dittatore cubano Fidel Castro aveva fatto deportare 125 mila cubani, molti presi da ospedali psichiatrici e galere, in Florida. "Fu un enorme disastro umanitario, per un po' c'erano queste tendopoli spuntate sotto l'autostrada, come in Scarface", spiega Corben, il regista di Cocaine Cowboys. "Era estate, a Miami, sotto una cazzo di autostrada!" Pitbull riempì El Mariel di ospiti come le star dell'hip hop di Miami Trick Daddy, Lil Jon e Trina, rinforzando il proprio ruolo nella città. Al contrario di quanto molti pensano di lui, Pit si è formato come artista in una scena hip hop autentica, nella quale era più famoso per denti d'oro e treccine che per gli abiti su misura. Il successo, però, ha portato ulteriore successo. Quando Pitbull pubblicò Planet Pit nel 2011, che include la sua hit "Give Me Everything", registrata in collaborazione con il producer house olandese Afrojack, Pit non fu più soltanto un rapper di Miami, diventò una pop star globale.

Dopo la sua trasformazione da Mr. 305 a Mr. Worldwide, Pitbull promuove l'immagine della città con l'annuale Speciale di Capodanno a Miami trasmesso su Fox, investe nelle aziende tecnologiche locali e si è anche comprato una percentuale di Miami Subs, il fast food dove ha scritto molti dei suoi primi testi. Per molti fan, il suo dedicarsi agli affari mentre la sua musica diventa sempre più commerciale potrebbe sembrare un modo di vendersi, ma è un concetto che non funziona in Florida perché è uno stato senza dinastie di ricchi (per contestualizzare, quando la mia famiglia mi portava in vacanza a Palm Beach, pensavo che Donald Trump fosse un aristocratico per via di tutto quell'oro nella villa di Mar-a-Lago). La Florida è unica nella sua accoglienza agli immigrati e celebra l'impegno dei nuovi arrivati che cercano di dare una vita più facile ai propri figli. Come dice Pitbull in "Can't Have", tratta da Climate Change: "Prima lucidiamo scarpe / Poi ci compriamo il negozio di scarpe / Prima facciamo i panini / Poi ci compriamo il ristorante / Prima facciamo le pulizie / Poi ci compriamo tutte le case della via / Mica male per un pugno di immigrati".

Pitbull ha rivendicato tanto la parte di sua madre quanto quella di suo padre, un mix di etica affaristica da migrante e stile da trafficone. Pitbull fa festa, ma a differenza di suo padre sa quando fermarsi, perché ha ereditato il buon senso della madre. Investe la sua fortuna invece di comprare yacht. Come uomo d'affari, però, ha imparato dagli amici trafficanti del padre. Molti di loro avevano investito nel settore immobiliare, in modo da rendere più difficile al governo la confisca dei loro beni, e Pitbull ha fatto lo stesso (i broker finanziari sono i "trafficoni definitivi", secondo lui). Ha anche fatto cose positive per la città di Miami, aprendo la scuola privata di amministrazione sportiva SLAM nel suo vecchio quartiere.

Gli abitanti della Florida sanno che Pitbull è rimasto fedele alle proprie radici grazie ai riferimenti nelle sue canzoni che il resto degli Stati Uniti coglie raramente. Per esempio, il suo primo successo del 2009, "I Know You Want me (Calle Ocho)", cita il festival annuale di Calle Ocho, una sagra pan-americana che si svolge nelle strade di Little Haiti. Due anni fa, Pitbull ha anche pubblicato un album in spagnolo intitolato Dale, guadagnandosi anche un Grammy. 

"Ecco perché è così famoso tra i latinos, perché comprende la storia dei cubani negli USA e usa riferimenti che tutti noi possiamo cogliere", fa notare la critica musicale Julianne Escobedo Shepherd, che ha difeso Pitbull su Deadspin e sul New York Times. "Ha pubblicato un album interamente in spagnolo che nessuno dei suoi fan non-ispanofoni si è cagato, il che è davvero irritante, visto che è un album strepitoso. Non credo che si stia prostrando per l'uomo bianco come pensano gli hater". 

Climate Change contiene influenze dalla maggior parte dei gruppi etnici di Miami, dai cubani ai giamaicani ai turisti canadesi che passano l'inverno in città. I suoi ospiti (Jennifer Lopez, FloRida, LunchMoney Lewis, Joe Perry, Ty Dolla $ign, R. Kelly e Leona Lewis per citarne alcuni) riflettono la varietà della città.

Per lavorare sull'album, Pitbull ha girato il mondo insieme al DJ Edwin Phenom, che gestisce il sito DJ City e il canale Sirius di Pitbull, Globalization. Un giorno, mentre si trovava su aereo, Pitbull ha deciso di mettere a tutto volume la pop star anni Ottanta Pat Benatar, la cui musica compariva spesso in Miami Vice quando lui era bambino. "Adoro Pat Benatar", dice Pitbull enfaticamente. "Adoro anche la storia del video, con lei che è una fuggitiva in cerca di se stessa e l'amore è un campo di battaglia. Mi sento allo stesso modo". Ha mandato a Phenom una delle sue tracce e gli ha chiesto di trovare qualcuno in grado di interpretare il ritornello di "Love is a Battlefield". Che ospite potrebbe essere in grado di raggiungere quella nota?, Phenom ricorda di aver pensato. Risposta: la cantante canadese di "Hideaway"Kiesza.

Potrà sembrare una scelta inusuale per un ritornello di Pitbull—tra la sua reputazione virale e la sua cresta rossa, Kiesza sembra quasi una Robyn canadese—ma Pitbull usa la sua voce nella strana e affascinante traccia "We Are Strong". Kiesza apre la traccia cantando a squarciagola il refrain di "Love Is a Battlefield" su un tappeto di suoni elettronici, poi Pitbull usa la sua strofa per commentare le elezioni del 2016: "Non ci si può fidare dei dibattiti presidenziali / La politica vuole solo ingannarti". La bizzarra giustapposizione porta alla mente immagini di criminali in locali bui colorati dai neon, la tendenza di Miami a mandare a puttane le elezioni politiche (vedi il 2016 e il 2000) e turisti canadesi in muta sulla spiaggia.

Quando Pitbull ha registrato il verso "dal più alto grattacielo di Tokyo" su "Feel This Moment", si trovava letteralmente nel più alto grattacielo di Tokyo. 

Pitbull scrive le canzoni in un quaderno speciale con quattro penne molto costose. "Ognuna significa qualcosa per lui", spiega Phenom. "Una gliel'ha data un amico di famiglia, un'altra un partner in affari molto speciale". Dopo aver scritto una strofa, Pitbull la trascrive sul computer e la manda via email a  Phenom, che la inoltra a un producer che compone le strumentali (alcuni ritornelli sono scritti dai producer, altri da Pitbull stesso). Pitbull poi registra le canzoni con il suo studio portatile all'interno di una camera d'albergo o su una barca, perché trova che gli studi di registrazione siano perdite di tempo. Quando Pitbull ha registrato il verso "dal più alto grattacielo di Tokyo" su "Feel This Moment", si trovava letteralmente nel più alto grattacielo di Tokyo.

Tra tutte le canzoni di Climate Change, il primo singolo "Options" è quello che riassume meglio la missione di Pitbull di catturare la cultura variegata di Miami e portarla alle masse tramite la musica popolare. "'Options' ha una certa atmosfera, con quella chitarra acustica pizzicata", mi dice Marley seduto nel salotto di casa del suo defunto padre, Bob Marley. "Musicalmente, be', tantissimi giamaicani emigrarono in Florida, quindi negli anni Ottanta la Florida era letteralmente satura di gente dei Caraibi. E l'incrocio di queste culture è tutto lì, nella canzone". 

Marley conobbe Pitbull tramite il loro amico comune Whiteboy, che a sua volta fece amicizia con Pitbull nel 1996, e andava a scuola con Ky-Mani Marley. Attraverso i party di Ky-Mani, finì per fare amicizia con il resto del clan Marley. Whiteboy coordinò le riprese del videoclip nei due complessi di proprietà dei Marley in Giamaica. 

"Hanno una grande energia", dice Whiteboy dei due monumenti di Kingston. "Nessuno ha mai filmato qui". Un complesso consiste dello studio di registrazione Tuff Gong, una stamperia di dischi e un ristorante. L'altro è la casa di Bob Marley, che sua moglie, Rita Marley, ha trasformato in un museo. Sembra più uno studio cinematografico in miniatura che una residenza. Una statua di Bob Marley con un leone campeggia davanti alla casa, e un muro altissimo con un imponente cancello circonda l'entrata. C'è un murale che recita: "SECONDO UOMO NERO PIÙ SEXY DI TUTTI I TEMPI SECONDO TIME MAGAZINE BOB MARLEY". È il simbolo vivente di ciò che Bob Marley è riuscito a conquistare—uscire dalla povertà e rendere il reggae un genere di massa—prima di morire a soli 36 anni. Che è l'età attuale di Pitbull, il che rende il piano di conquista globale dell'artista di Miami plausibile e non così impossibile da realizzare.

Pitbull è conquistato dalla storia musicale di queste mura. Attraversa con lunghe falcate un corridoio giallo tappezzato di dischi di Bob Marley dentro agli studi Tuff Gong, urlando: "Diamoci dentro, stronzi!" Poi si rivolge a un membro della troupe: "Dov'è il signor Chow?"

Chow è stato l'ingegnere del suono di Bob Marley per gran parte della sua carriera. Secondo una video-intervista che rilasciò a la Casa del Reggae, Marley lo incontrò in Inghilterra durante le registrazioni di Exodus. Rimase impressionato dal talento di Chow e lo portò con sé in Giamaica, dove vive tuttora. Pitbull corre a trovarlo in una sala di registrazione ricoperta di legno. Ormai anziano, Chow ha i capelli radi e la barba grigia. Porta una camicia azzurra troppo larga per la sua stazza minuta. Attorno a lui sono disseminati i simboli delle conquiste della famiglia Marley: una serie di Jamaican Music Award incornicia la finestra, e un libro per bambini intitolato Little Aeni and the Case for Reparations copre parte del mixer.

Pitbull si vanta del fatto che Chow accetti raramente di apparire in video.

"Perché hai accettato di apparire in ["Options]?" gli chiedo.

"Non volevo", dice Chow. Poi si accarezza la barba. "Sono uno Jedi!"

"Bob Marley non ha mai registrato qui", spiega Marley passandosi la mano tra le treccine. "Era di proprietà dei cinesi e non gli permettevano di registrare... La storia, ai tempi, prima che papà diventasse famoso, era che qui ci registravano e lui faceva l'autore. Un giorno c'era qualcuno qua, e [Marley] si presentò qua con una canzone, e loro non lo fecero entrare dal cancello. [Marley] disse: 'Un giorno questo posto sarà mio'".

"E ora qua faremo una canzone che toccherà il mondo intero", dice Pitbull.

Verso la fine delle riprese, Pitbull e Marley sono fuori dalla casa con la troupe. Rappano vicino alla statua di Bob con il leone. I Most Bad Ones, la squadra di ballerini di Pitbull, guardano da sotto un tendone bianco insieme a tre bambine piccole, due nere e una bianca. Ballano sul ritornello di Pitbull e Marley, e mentre una di loro batte i piedi a terra le sue scarpe si illuminano. Dopo che il regista chiama "stop", Pitbull corre dalle bambine. "Mr. Worldwide!", urlano. "Mr. Worldwide!"

Foto di Greg Watermann, per concessione di Pitbull.

Mitchell Sunderland è il più grande esperto americano del lato oscuro della Florida e giornalista di lunga data per Broadly e VICE. Seguilo su Twitter.

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La colonna sonora di Eternal Sunshine of the Spotless Mind è un capolavoro di empatia

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Colonne sonore bellissime è la serie di Noisey che parla di colonne sonore bellissime. Qua gli altri episodi.

Eternal Sunshine of the Spotless Mind
arrivò il 19 Marzo 2004 nelle sale statunitensi, prima di sbarcare nel nostro Paese con un celebre quanto sciagurato adattamento del titolo (che conosciamo tutti, e che sarebbe meglio bypassare) qualche mese dopo, a ottobre. Il film è diventato manifesto emotivo delle generazioni a venire, capace di smistare drama e romanticismo in uno sviluppo della trama dai contorni completamente innovativi, con una fortissima componente psicologica come perno centrale. Per il buon Charlie Kaufman rappresentò la consacrazione del sorprendente quanto unico stile di sceneggiatura, agli occhi dell'industria hollywoodiana che lo aveva già ammirato in Essere John Malkovich; per il pubblico un punto di riferimento per un cinema emozionale di estrema introspezione, che vide nella forza delle idee, nell'estrema abilità registica, nella concatenazione degli eventi del racconto una luce nuova.

In questo scenario, la musica giocò un ruolo molto importante. Per Gondry, la ribalta era arrivata anche grazie alle decine di videoclip musicali girati negli anni addietro—tra i suoi clienti, Rolling Stones, White Stripes, Björk, Chemical Brothers, Radiohead e Daft Punk (se ve lo state chiedendo, sì, proprio "Around The World"). Una componente che aveva accresciuto il valore della sua carriera, e che lo premiò anche nel momento in cui fece la scelta che avrebbe cristallizzato le sorti di ESOTSM.

La colonna sonora fu affidata a Jon Brion, che aveva lavorato a stretto contatto con Paul Thomas Anderson, per Boogie Nights, Magnolia e Punch-Drunk Love, e che da lì a poco sarebbe stato quasi automaticamente associato al film di Gondry, reo di aver saputo realizzato con ogni probabilità uno dei migliori score del nuovo millennio. Un effetto calamita, da ascrivere ad un linguaggio affascinante e meticolosamente in linea con gli effetti del montaggio, che tocca esattamente le corde per diventare imprescindibile. Alla fine, ai Grammy riceverà solo una nomination, il che è quasi certamente un crimine.

Jon Brion.

Il suo merito è stato quello di aver fatto diventare il film, nel nostro immaginario, un tutt'uno con quelle melodie soffici e trasognanti che entrarono perfettamente in simbiosi con il mood della pellicola, e che ne definirono ancora meglio i caratteri predominanti. L'empatia che è possibile provare con i protagonisti scaturisce da un perfetto incastro di tonalità melanconiche, dai colori a volte nitidi e luminosi, altre pesantemente opachi, per enfatizzare nel nostro ascolto la travagliata evoluzione dei loro stati d'animo. Si alternano archi, piano e strumenti a fiato che estremizzano la densità di afflizione, rimorso, dolore, desiderio, passione, amore. Tutto, in ordine completamente sparso, esattamente come il complicato processo attraverso cui va incontro Joel, sotto i nostri occhi, e nella ricostruzione del personaggio di Clem, attraverso i suoi ricordi.


Ma qui, a differenza dei salti temporali del film, cercheremo di andare con ordine. L'introduzione, con il rilassato tema iniziale (durante il quale vediamo Joel alzarsi dal letto, già inconsapevole della notte trascorsa), si propaga fino al dialogo del protagonista, tra sé e sé, di quella insolita mattina. 

Non sono andato al lavoro oggi. Ho preso un treno per Montauk. Non so perché. Non sono un tipo impulsivo. 

Non siamo immediatamente stimolati al punto da capire quanto ci sia dietro la sua confessione, ma sarà questione di attimi.

Per metterci a nostro agio con il mood di ESOTSM, si manifesta molto presto nella composizione di Jon Brion il carattere nostalgico e sentimentale dei brani. Clementine saluta Joel dalla finestra, dopo averlo appena conosciuto, la mattina stessa sulla spiaggia di Montauk, invitandolo a farsi vivo al più presto per telefono. "Phone Call" ci guida con estrema facilità nel binario della suggestione emotiva che il protagonista sta provando. Il suono avvolgente ci conforta, diventa quasi nido di una felicità in divenire, celata da qualche parte nel suo subconscio, futura preda della cancellazione. Sarà, non a caso, replicata nella scena del lago gelato, poco più avanti, e nel ricordo della bambola che Clementine collegava ai suoi irrequieti trascorsi infantili. Ma è una felicità estemporanea, che andrà rincorsa, conquistata, costi anche rincorrere ricordi che ci sono stati tolti da un computer, in maniera irreversibile.

Nella scena seguente, balziamo nelle tonalità scure, tetre che il reverse narrativo della sceneggiatura comincia a tessere. Joel sta guidando per tornare a casa per prepararsi, controvoglia, a subire il trattamento della Lacuna Inc. Piange disperato in macchina, perché ha deciso di cancellare Clementine dalla sua memoria, dopo aver scoperto che lei aveva preso la stessa iniziativa qualche giorno prima, per rimediare al brusco epilogo della loro difficile storia. 

La celeberrima cover di "Everybody's Gotta Learn Sometimes" di Beck dei Korgis suona dall'autoradio ed è certamente il pezzo che ruba la scena, comparendo al palesarsi dei titoli iniziali (nel preambolo alle scatole cinesi con cui giocherà di continuo il film), e tornando in quelli di coda. La sintesi perfetta del significato insito nell'intera trama, l'inno al rapporto d'amore dei due protagonisti, pieno di rammarichi e rimpianti, sliding doors e what if

A volte, tutti dobbiamo imparare.

Nonostante le difficoltà, non c'è niente che possa separare questi due pezzi del puzzle, che vediamo decomporsi—e poi, dopo mille peripezie, ricomporsi—accompagnati dalle parole del pezzo. Abbiamo ottenuto il primo elemento di rottura, la cui entità ci verrà svelata man mano più avanti, mentre apprendiamo che lo stato psicofisico del protagonista è in condizioni pessime. Inizierà il progressivo rewind, il rovescio degli eventi che lo hanno condotto fin lì, e ci arriveranno simultaneamente le sfumature più cupe e tristi della sua situazione mentale.

Il down emotivo dei fiati in "Postcard" risuona mentre Joel legge la notifica arrivata agli amici Frank e Carrie da parte della Lacuna. "Collecting Things" è invece lo sfondo della conversazione con il dottor Mierzwiak, che cercherà di spiegargli come comportarsi per inizializzare il processo. Quest'ultimo pezzo ripete in chiave minore le note di "Phone Call," proprio in un battito opposto a quello con cui era apparsa nel ritorno alla loro notte speciale (che scopriremo essere il loro re-incontro)—perché bisognerà fare i conti con una realtà e un presente che parlano di tutt'altro. 

"Row," che accompagna le memorie del piccolo Joel sotto la pioggia, rappresenta forse il pezzo dal sapore più dolce. Tramite un pianoforte, ci mette in contatto con la parte più vulnerabile e suggestionata, ancora estremamente presente nella sua personalità. Il contrasto che avviene dopo, in "Down the Drain," è per questo ancora più lancinante: durante la fuga di Joel e Clementine tra un ricordo d'infanzia e l'altro, la procedura di rimozione viene ristabilita, causando una decisiva inerzia negativa al suo tentativo di sabotarlo. C'è, poi, il tema di "Strings That Tie To You," in cui lo stesso Brion canta, utilizzato nella versione strumentale, chitarra acustica e piano, in "Elephant Parade," durante il ricordo della parata degli elefanti a Manhattan—una tra le ultime tracce felici che il percorso a ritroso rimuove. Intanto Mary ripete i versi della Lettera di Eloisa ad Abelardo di Alexander Pope (che il titolo del film riprende), comprimendo in pochi istanti una nostalgia immensa. 

In sequenza, poi, arrivano i momenti più ricchi di trasporto del film, e la musica riesce davvero, pienamente, ad accentuarli: "Bookstore," nella scena della libreria ("Ricordati di me, fai del tuo meglio"), è un ensemble di archi che tocca le nostre debolezze, mentre ci rendiamo conto che dietro sta per svanire tutto. "Peer Pressure," durante il crollo della casa a Montauk insieme agli ultimi ricordi, accompagna il dialogo che segna l'addio definitivo a tutto ciò che era stato, a ogni tumulto della storia. Ci sentiamo sconfitti dalle stesse emozioni che provano i personaggi nel loro déjà vu. Percepiamo tutto ciò che quell'addio, pur essendo già avvenuto, pur essendo frutto del subconscio di Joel, ha significato. 

Vorrei essere rimasto. Davvero.

Ma il twist finale (profetizzato proprio nell'apice della nostra distruzione emotiva, con "Ci vediamo a Montauk") ci riconduce a una possibilità. Le strade di entrambi si riconcilieranno, pur estremamente scombussolati da quanto è accaduto, senza che se ne possano rendere conto. Cercheranno, a fatica, di confrontarsi, per poi mettere da parte la ricerca del significato del loro passato.

Joel rincorre Clementine per i corridoi del palazzo fino a farla desistere dalla fuga, perché tutto quello che non riescono più a ricordare, che di loro è stato parte, varrà comunque la pena essere vissuto. Tutti quanti dobbiamo imparare, prima o poi—parole il cui eco segnerà un nuovo, migliore, inizio anche per loro. Riparte la cover di Beck, durante i titoli di coda, che ricompone il puzzle che avevamo lasciato prima.

La colonna sonora di Jon Brion arricchisce il concetto e la resa del film in una simbiosi straordinaria tra immagini, trama e veste sonora. Il compositore americano è riuscito ad acutizzare ogni aspetto che la pellicola, già ad alto tasso di emotività, poteva rendere esperienza totalizzante, scandendo come un metronomo i momenti che definiscono una delle migliori storie del cinema moderno. Ha rappresentato un prezioso lavoro artistico in grado di uscire dall'ordinarietà che la musica, in molti film della nostra epoca, sembra soffrire (probabilmente solo quelli con soundtrack a cura di John Williams, negli ultimi decenni, hanno avuto una combinazione altrettanto ben assortita—basti pensare alle theme di Jurassic Park e Harry Potter). Ha creato una dimensione a sé stante.

Non è semplice, per un compositore, mettere a fuoco così deliberatamente i punti fondamentali di una narrazione e far parlare i suoni. Per di più senza estremizzare, senza adattarsi a temi e sensazioni in maniera grossolana,ma captando alla perfezione le istantanee dei dialoghi e del ritmo del racconto. Entrarvi in contatto tanto bene da migliorarne gli stessi caratteri ha permesso a questa colonna sonora di lasciare un segno destinato a durare. Ed è il motivo per cui ci verrà subito in mente, anche solo leggendo da qualche parte il titolo del film, anche solo analizzandolo per motivi diversi. E se per caso state leggendo questo articolo senza averlo mai visto, è solo un altro ottimo motivo per provare a convincervi. 

Giovanni scrive di musica per AuralCrave. Seguilo su Twitter:@storiesonvenus.

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Le recensioni della settimana

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

THE BUG / EARTH
Concrete Desert
(Ninja Tune)

Se vi piacciono i fumetti, saprete che spesso quando due megasupereroi collaborano insieme, tipo, che ne so, Batman se la fa con Superman, a volte salvano il mondo e viviamo tutti felici e contenti, altre volte è una delusione. Nel caso specifico l'incontro fra questi due giganti, ovvero the Bug e Dylan Carson, il capoccia degli Earth, sulla carta suona interessante. Ci informiamo sulle tematiche e lì un pochino viene da dire "che palle 'sta distopia, stiamo ancora a parlare di Hollywood?"—però alla fine si sente che cercano di scollarsi di dosso le loro rispettive cifre per cercare qualcosa di nuovo. Qualcosa di nuovo che, ahimè, non esce fuori. In alcune parti, addirittura, sembra copino gli Heroin in Tahiti di sana pianta, ma che possiamo farci? D'altronde nessuno nasce imparato. Non è un disco da insufficienza (alla fine "Snakes and Rats" salva un po' tutto, diciamolo... anche se sembra un ritorno alla witch house fuori tempo massimo). È un disco di due supereroi che si mettono insieme per combattere i cattivi. Che poi ci riescano o meno è un altro conto.
PENGUIN CATWOMAN

LIL UZI VERT
LUV is Rage 1.5
(Atlantic / Warner)

Io non avevo mai cagato troppo Lil Uzi fino a poco fa, sapete? Ok, spaccava tutto coi Migos in "Bad and Boujee", "Ps & Qs" era ok, e finita lì. Poi il mio amico Aaron mi ha scritto le seguenti parole: "Dio santo, dovrai parlarne comunque di questa nuova ondata di brani di Uzi. 'XO tour Llif3' ha la stessa ambience di un brano dei Nirvana o di Wavves quando era in botta Nirvana, se vogliamo allargare lo spettro culturale pur senza dover usare quegli strumenti e materiali, dunque al contrario dei vari peep, eccetera. Per me straordinario." E niente, dopo qualche settimana credo di aver capito quello che intendeva. Sarà un pippone mio, ma in quel pezzo c'è un dolore clamoroso. Quando Lil Uzi canta " All my friends are dead / Push me to the edge" sempre più alto, lamentoso e disgregato fino a perdersi in una sorta di latrato dolorante mi emoziono fortissimo. E poi si mette pure a parlare di come la tipa di cui parla nel pezzo dice che sia pazzo, e lui minaccia di farsi saltare la testa, e parte con una tirata ai 250 all'ora sui suoi antidepressivi che esplode in un "Ti prego, xanax, manda via il dolore"—il tutto tenendo sempre un flow riverberato, colorato e fibrillante. Morale: Lil Uzi Vert è il nuovo Conor Oberst, ma senza la sfiga.
ZUPPA IN THE CROCKPOT

COLOMBRE
Pulviscolo
(Bravo Dischi)

'Sti dischi dei nuovi cantautori italiani hanno almeno un aspetto positivo: durano poco. Otto canzoni, venticinque minuti. Questo qui, a differenza di Gazzelle del quale ci siamo già occupati la settimana scorsa, non ha nemmeno arrangiamenti divertenti, è proprio una rottura di cazzo totale, nonostante il carellismo wanna-be di "Dimmi tu" e il theremin (o quello che sembra un theremin) di "T.S.O.". Se Gazzelle non ha nessuna personalità ma ha almeno dei pezzi che possono funzionare, questa roba qui fa rimpiangere il triste indie pop di inizio millennio, ed è tutto dire. La cosa più notevole del disco è il featuring di Iosonouncane (in una specie di "Questione di feeling" dei poveri), che speriamo di cuore non si faccia traviare da questa ondata e si ostini a fare dischi con più o meno la stessa melodia vocale per tutto l'album (come accadeva in Die) a dimostrazione che non gliene frega un cazzo - e che continui invece a puntare sulla musica, i suoni, gli arrangiamenti. Cose rispetto alle quali è un fuoriclasse assoluto, che 'sti tizi non vedono neanche con il telescopio.
JACOPO SALVATI

DANE LAW
r.bit
(Genot Centre)

In Repubblica Ceca, guidata da Ondřej Lasák e Wim Dehaen, si nasconde una piccola, straordinaria, label: Genot Centre. Nonostante un catalogo che conta appena una decina di uscite - tutte su nastro - ha già avuto a che fare con qualcosa nell'ordine di un capolavoro o, almeno, è quanto sembra a chi scrive "l'altro" Persona del 2016, quello a nome Bryce Helm.
L'attività dell'etichetta non si ferma a Bandcamp e, al contrario, ha già organizzato una lunga serie di particolari eventi live, tutti site-specific e spesso dilatatissimi nel tempo; al punto da prevedere la colazione nel prezzo del biglietto.
L'ultima uscita di Genot Centre è r.bit di Dane Law, una vecchia conoscenza Quantum Natives, e, forse, trattasi di un altro grande risultato. Nel corso dell'album l'autore rielabora a piacimento il materiale originale degli Orbital, piengandolo fino al limite estremo di una muzak senza vergogna; torcendo la struttura ritmica del materiale originale al punto di rottura. Ad accompagnare e completare l'uscita, poi, si segnala un'esperienza VR ad hoc a cura di Reaper Death Seal Corp
Va beh, un album figo di un'etichetta figa (che, stando a uno dei label master, ha in serbo qualche altra uscita importante, prossimamente. Per esempio un nuovo lavoro di Aghnie, un altro dei campioni 2016, per chi scrive).
VLADIMIRO LUTTAZZI

ZU
Jhator
(House of Mythology)

Confesso che da giovane andavo spesso a vedere gli Zu dal vivo, poi ho smesso perché mi annoiavano. Non ho mai comperato un loro disco, quindi immagino non mi si possa definire proprio un loro fan, però riconosco che siano sempre stati una colonna portante, soprattutto nel divulgare la musica italiana "altra" fuori dalla penisola, su questo non ci piove. Musicalmente sono cambiati e questo è un passo avanti, ma, nonostante la citazione dei Coil come punto di riferimento, il post rock pende come una spada di Damocle. Al solito, l'album è farcito di una caterva di ospiti di cui potremmo anche fare a meno, che mi ricordano un altro tipo di Zu, ovvero Zucchero. Che vi devo dire, la sensazione rimane quella di tanto tempo fa: bravi, ma dopo un po' che palle. Lo dicevano Tozzi, Morandi e Ruggeri: si può dare di più senza essere eroi, non me ne vogliano gli antichi egizi.
PREPUZIO PRIATORE

RAYS
S/T
(Trouble in Mind)

Ragazze e ragazzi, benvenuti all'edizione 2017 di Un Disco per l'Estate. Se sentite la vostra anima lentamente sfuggirvi, risucchiata dal buco nero della moderna società capitalista, ma non avete ancora perso il senso dell'umorismo e la voglia di ballare sotto il sole, braccia nude e cuori in alto, gambe ad angolo e goffi movimenti testa-spalle, l'album d'esordio dei californiani Rays è perfetto. Per essere gente che milita in campioni del punk rock misantropico come Life Stinks e Violent Change, con questo album mostrano una sensibilità pop superiore alla media. Si tratta di un disco davvero impressionante, certo, dal suono un po' vintage, ma quando ci sono le canzoni si può perdonare una certa sensibilità retrò: i fantasmi di Television Personalities, Desperate Bycicles, Modern Lovers e Tall Dwarfs scorrazzano allegramente nel parco giochi dei Rays. Ma forse l'ho descritto in modo troppo bidimensionale: per quanto l'atmosfera sia decisamente leggera, ci penseranno le dissonanze tra chitarre e organo, le voci tremolanti e i testi a tratti insicuri e paranoici ad alimentare il poetuccio maledetto che abita nei vostri giovani cuori.
G.I.R.L.F.R.E.N.

MIKE WILL MADE-IT
Ransom 2
(EarDrummers / Interscope)

Prima che veniate a lasciarci le buste infuocate con dentro la cacca davanti alla porta della redazione vorrei mettere in chiaro che lo sbrattino qua sopra non è dato dalla qualità delle produzioni dell'ottimo Mike Will, né dalle strofe scritte dai 327193612 rapper che il suddetto ha coinvolto nel suo primo album in studio. È dato dal seguente fatto: perché un album di un produttore diventi qualcosa di più di un simpatico passatempo e/o fonte di $oldi deve avere qualche elemento attorno che lo renda significativo per una scena, un genere, una città—qualcosa. Tipo, Novecinquanta è un classico perché ha cristallizzato un movimento allora in totale fermento in un mega-album collaborativo come mai se ne erano sentiti in Italia, cementando al contempo la figura di Fritz come grande producer. Ma Ransom 2 che senso ha per Mike Will? Ci dice qualcosa di più su di lui o sulle sue produzioni? Ci racconta la sua Atlanta in un modo nuovo e originale? Lo fa raggiungere un livello più alto? Un cazzo. È solo una scusa per mettere insieme un botto di rapper e fargli fare dei versi ok, o molto ok, su produzioni ok, o molto ok.
BALORDO DELLA CRICCA

CATERINA BARBIERI
Patterns Of Consciousness
(Important Records)

Caterina Barbieri, dopo un paio di anni di live in cui si è fatta notare un po' in tutta Europa, arriva finalmente alla sua prima uscita in LP con questo doppio su Important Records (che attraverso la sua tape-label Cassauna aveva già pubblicato il suo precedente Vertical), etichetta che già di per sé è una garanzia e, come se questo non bastasse, con il pesante endorsment di Alessandro Cortini. Strutture ipnotiche, algoritmi, sottili cambiamenti atti a perturbare la sicurezza data da quello cui ti aveva abituato nei minuti precedenti, il lavoro dell'artista di origine italiana ha come scopo quello di mettere in contatto con strati di coscienza sepolti e che forse abbiamo dimenticato. Ha bisogno - indubbiamente - di attenzione, ma questa viene sicuramente ripagata dal lavoro di Caterina, sospeso tra momenti di sperdimento e quelli di riconoscimento di sé, per un disco di grande fascino, che ricorda niente di meno che l'andamento delle vite di noi tutti. E che in questo, nonostante le sonorità aliene, si rivela anche sorprendentemente molto umano.
CARLO CRACCO

CJ RAMONE
American Beauty
(Fat Wreck)

Se il numero di ascolti di "Rockaway Beach" e "Glad To See You Go" fosse il criterio secondo cui viene affidato il copyright del nome Ramone alle persone, sono sicuro che i veri fan dei fratellini di Forest Hills avrebbero già strappato i gradi al giovane CJ da anni. Un disco come American Beauty è un vero e proprio disastro: rockismo reazionario senza nemmeno la cosa bella del rock reazionario, ovvero i riff—sostituiti da fotocopie di fotocopie dei, beh, tre accordi alla Ramones, masticati e rimasticati e cagati e ricagati dal grande signor Creosote del pop punk anni Novanta. Se l'idea che ha CJ di innovazione e stimolazione dell'interesse del pubblico è l'agghiacciante ballata wannabe springsteeniana con quei piruli country da fucilazione che è "Before the Lights Go Out", il suo livello di ambizione artistica è veramente imbarazzante. Questo è un album che andrebbe messo su un razzo e sparato al centro del Sole, e la cosa più deprimente è che in Italia, ultimo bastione del fanatismo ramonesiano più mentalmente chiuso, avrà più successo che in tutti gli altri paesi del mondo messi insieme. 
GIANGI LO STRAIGHT-HEAD

PALLBEARER
Heartless
(Profound Lore)

Gli Americani, diciamocelo, sono esseri immondi. Da Scientology a Trump, passando per Hollywood e i fast-food, ce la mettono tutta per confermarsi ogni volta un po' più imbecilli. Poi però, tra un rilancio dei combustibili fossili e un'esportazione della democrazia, spuntano i Pallbearer. Al terzo disco, è ormai il caso di dire che che i ragazzi di Little Rock sono il miglior prodotto dell'Arkansas dopo Johnny Cash, superando con distacco concorrenti diretti e agguerriti come le paludi del Mississippi, John Grisham e Bill Clinton. Ed è forse proprio l'Arkansas a dover essere esorcizzato attraverso tutta questa tristezza, questo disagio insostenibile, questo doom struggente. "Perché, Dio, ci hai fatto nascere in Arkansas? Fossimo stati in California oggi saremmo felici, saremmo diventati i Blink 182. E invece ci hai piazzati qui, nel deretano del mondo." Meno male che invece i Pallbearer sono nati nel mezzo del cazzo di nulla, così anziché andare alle feste in piscina hanno iniziato a suonare, anziché crescere felici e spensierati sono venuti su tristi e sconsolati, anziché diventare i Blink 182 sono diventati i Pallbearer.
AGRICOLTORE PLUMBEO

GEOTIC
Abysma
(Ghostly International)

Vi piace stare al sole in maglietta in pausa pranzo, stendervi su un'aiuola e sentire i raggi cuocervi il viso mentre fate finta di non pensare al riscaldamento globale che ucciderà brutalmente i nostri figli, eh? Anche a me, molto. E quindi sono in costante ricerca di musica che mi faccia sentire proprio così: abbastanza rilassato e felice da ignorare le imminenti catastrofi geopolitiche internazionali. Tipo, l'ultima volta mi è capitato con l'ultimo di Bibio, che sembra un disco degli Allman Brothers e di Pat Metheny e degli ABBA ma tutto fruscioso e carezzevole. E invece stavolta mi è capitato con Abysma di Geotic (che è Baths), che vi permetterà con la sua elettronica tutta quieta e al limite del ballo di risparmiare quei 100 euro che avevate messo da parte per andare alle terme come i vecchi che state diventando e sentirvi ugualmente belli distesi e stiracchiati. Prego.
IL FRINGUELLO

AJATTARA
Lupaus
(Svart)

C'era una volta un uomo che cantava in due gruppi splendidi. Poi, un giorno, deciso a dare una svolta alla sua vita professionale, quell'uomo abbandonò entrambi i progetti per concentrarsi su qualcosa di suo, qualcosa di personale. Problema: quel qualcosa di personale ne uscì una cacata. In pillole, la storia di Pasi Koskinen. Il risultato è che gli Amorphis e gli Shape Of Despair si ritrovarono senza cantante e che lui nel giro di qualche anno decise pure di chiudere baracca con gli Ajattara, salvo riesumarli proprio in occasione di questo Lupaus. Come preventivabile, potevamo tutti farne a meno: nove brani che non passano più, con meno personalità del mio comodino Ikea seminuovo e dalla retorica vecchia e stanca. Lucifero qua, Belzebù là, preti fetenti di su, ammazziamo tutti di giù, quaranta minuti di satanismo in tempi medi che lasciano del tutto indifferenti, non mordono mai, non stupiscono mai, non interessano mai. Sei anni di quiescenza e lontananza dalle scene evidentemente non hanno portato grande ispirazione al buon Pasi, che pure di cose molto belle nella vita ne ha fatte diverse. Non con gli Ajattara, però. La Finlandia ha di meglio da offrire.
CAMPO DELLA MONOTONIA

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