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Recensioni

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Ogni Settimana Noisey recensisce le nuove uscite, i dischi in arrivo e quelli appena arrivati. Il metro utilizzato è estremamente semplice: o ci piacciono e ci fanno sorridere, o non ci piacciono e ci fanno vomitare.

LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA
Terra
(Cara Catastrofe)

Ne parliamo, sì: io amo la più bella che cazzocuore colmo di gratitudine, dio posso amare Volo. Fototette, gentilezze non sospette… sono terrona: fare l'amore nei container tra i file di ricordi era più plausibile. Per sempre passato di moda come Le Supercazzole, non stiamo parlando di Calcutta. Era lui l'uomo di punta, una grande esplosione di parole raffinate, lavora non solo nella musica. Cose bellissime. Prima era di moda ascoltarlo, come andare a cercare lavatrici sotterrate in Siberia da animalisti feroci, mi ha rotto il cuore e me lo ha riaggiustato, mamma mia che magone. Lenti cantautoriali, tribali movimentati, addirittura sentimentali. Brava e bella una canzone di Appino, mi ammazzo da sola. Scrivere e riscrivere e camparci pure. Io le ho sempre capite le sue canzoni, l'urgenza punk: ha le palle di portare avanti un progetto cantautorale serio. Se non vi piace potete evitare di farne un post. Uno dei pochi che ancora sa scrivere, cioè vorrei vedere quello che scrivono loro. Siete voi la causa dei miei ansiolitici.
CUT-UP DI COMMENTI DA DIESAGIOWAVE

SIX FEET UNDER
Torment
(Metal Blade)

Qualcuno dica a Chris Barnes di fermarsi. Basta. Stop. Non se ne può più. Non ha mai saputo scrivere musica, e questo non è mai stato un mistero, ma non ha nemmeno mai saputo circondarsi di gente in grado di farlo, o quantomeno in grado di comporre musica che avesse un capo e una coda per i 6FU. È inutile che continui a cambiare musicisti di accompagnamento,  Torment è l'ennesima schifezza partorita da un uomo che, se non avesse prestato l'ugola ai Cannibal Corpse della prima ora, nessuno si sarebbe mai filato manco per sbaglio. Un disco noioso, piatto, inutile, senza personalità, che sembra una produzione da etichetta brutallica indonesiana, di quelle che si trovano ai festival, alle bancarelle, nei cestoni delle offerte a 2€. E se anche fosse una produzione indonesiana da cestone a 2€, farebbe cagare lo stesso. Insomma, un album brutto, di una banalità disarmante, di cui non si salva assolutamente niente. È persino difficile scriverne, perché non c'è assolutamente niente da dire, se non che fa schifo. Astenersi, provoca incontinenza.
ALESSIO LANCIARAGNATELE

HERVA
Hyper Flux
(Planet Mu)

Nelle note di presentazione si scrive, in soldoni, che Herva è uno di quelli che stanno riprendendo in mano il linguaggio IDM: io non sono d'accordissimo. Nel senso che sì, è vero, ad ascoltarlo tornano in mente i virtuosismi di gente, ahimè, dimenticata dai più come Astrobotnia, ma l'italiano ha una sua poetica personalissima che dell'IDM prende solo il lessico, non la grammatica. Perché poi ti ritrovi anche paesaggi algidi, scansionati, o simil-field recordings rumorosi, ma che non vanno mai a sbrodolare fuori dall'ottica compositiva, mai—fortunatamente—intricati quanto nell'IDM che fu. Anche quando si butta nell'acid gli esce il pop e quando fa il pop gli esce roba super futuristica che a volte sembra pure Haswell, ma in versione umana. Ecco, mettiamola così: Herva è "la scansione dell'IDM". Esce fuori qualcosa che dipende dallo scanner: il suo. E mi pare che sia ben tarato perché l'IDM diventi, in fondo, un mero ricordo del passato.
PAPPEX TRIM

FEEDTIME
Gas
(In The Red)

Niente cognomi, niente effetti, niente lettere maiuscole, niente piatti sulla batteria, niente abiti particolari, niente giri di parole nei testi. Gli australiani feedtime possono essere tranquillamente considerati il gruppo più diretto e privo di fronzoli del rock'n'roll da quando esiste il punk. Spesso il chitarrista rick feedtime non usa nemmeno gli accordi, preferendo abbozzare i propri riff con un bottleneck metallico che fa suonare il tutto ancora più distorto e primitivo (tecnica notoriamente omaggiata da Mark Arm in brani leggendari come "Sweet Young Thing Ain't Sweet No More"). Sono passati vent'anni dal loro ultimo disco, Billy, ma in Gas li ritroviamo esattamente come li abbiamo lasciati: la chitarra romba come un reattore, il basso martella rockabilly ridotto ai minimi termini, la batteria è solida come un'incudine, la voce di rick è sempre più roca e cavernosa. I feedtime rimangono i campioni mondiali del rock'n'roll minimalista. È così che immagino il rombo della motocicletta che Alan Vega sta cavalcando all'inferno.
BRIGATA ANTI-MAIUSCOLISTA

WHY?
Moh Lhean
(Joyful Noise)

Passare dal fare alt-hip hop del futuro a simpatici dischetti indie pop era già una scelta abbastanza discutibile, per qualcuno imperdonabile, però va riconosciuto a WHY? che almeno per un po' ha avuto le canzoni. Elephant Eyelash, una volta accettato il cambio di direzione, a volerlo accettare, era un bel disco, ben fatto, con ottimi pezzi. Poi le cose hanno cominciato a peggiorare pian piano. Alopecia era meno bello ma ancora accettabile, con Eskimo Snow si cominciava a raschiare il fondo (anche il fatto che per ogni disco ormai pubblicava a parte anche i demo non è che fosse un ottimo segnale), e Mumps, Etc. insomma… potremmo anche fare finta che non sia mai uscito. Questo Moh Lhean è meglio del precedente, non è male, ci sono belle canzoni. È un disco assolutamente carino. Ma ben poco aggiunge alla carriera dello zio Yoni, e ha veramente quel sentore da sempre la stessa roba. Insomma, sarebbe anche ora: cLOUDDEAD tornate insieme, vi ricordate di quell'epoca che fu?
PERCHÉ?

EARTHEN SEA
An Act of Love
(Kranky)

La Kranky è una di quelle etichette che solo perché mettono la loro pecetta sulla copertina di un disco ti fan venire voglia di sentire quello che c'è dentro, soprattutto se sei una di quelle persone che si esaltano a sentire delle bordate di suono ripetersi uguali a sé stesse per quaranta minuti di fila. An Act of Love è il prodotto di un tizio, Jacob Long, che faceva hardcore a Washington D.C., suonava il basso nei Mi Ami (non il festival, la band) ed è passato dall'art rock e poi dalla house per finire oggi a fare un ambient ibridato con una minimal di quelle che farebbero scendere una lacrimuccia di gioia a Moritz von Oswald. E non so quale sia la concezione di "amore" di Long, ma se fossi una donzella sarei molto felice di lasciarmi sedurre dai suoi riverberi infiniti, conscio che dietro c'è una persona che ha attraversato tutto lo spettro sonoro prima di realizzare che poteva dire tutto con due elementi primordiali come quiete e tensione.
CARLO DI GONZAGA

SCORPION VIOLENTE
The Stalker
(Bruit Direct)

È il ritorno del duo synth punk francese più inquietante degli ultimi dieci anni. Dopo un periodo di pausa in cui non possiamo che immaginare i due componenti Scott Scorpion e Toma Überwenich rinchiusi in qualche manicomio criminale, scaricano una tonnellata di mattoni su vinile sotto forma di EP per l'etichetta parigina Bruit Direct, responsabile anche del loro primo EP Rome Violente risalente al 2010. In questi cinque anni di reclusione i due devono essere stati torturati e sedati con sostanze dagli effetti inimmaginabili, perché la loro musica è diventata se possibile ancora più oscura e terrificante. Sul lato A abbiamo i dieci minuti di "The Wound", traccia strumentale che potrebbe fungere da colonna sonora a film come la trilogia del Dr. Mabuse, con un beat inconcepibilmente lento, droni scricchiolanti e lame di synth che tremolano nella notte. Voltato il disco ci troviamo davanti a due pezzi cantati, "The Stalker" e "The Knife", che tingono il minimal synth alla Suicide di rosso sangue alla Brainbombs.
MITE DOUX

SLAGMAUR
Thill Smitts Terror
(Osmose)

Tornano gli Slagmaur dopo ben otto anni di assenza; probabilmente, dopo aver visto la calorosissima accoglienza di pubblico e critica per i cugini svedesi Terra Tenebrosa, General Gribbsphiiser e compagni si sono decisi a tornare in studio e riprendere le fila del discorso da dove lo avevano abbandonato. Indossate ancora una volta le maschere, in una complessa gestazione durata quasi due anni, i Norvegesi compongono un'altra manciata di canzoni che di black metal propriamente detto mantengono solo la cupezza e qualche lontanissima e nebulosa origine, probabilmente passata dalle parti di Nattramn e dei suoi arti amputati. Il ritmo è compassato, sempre sotto controllo, quasi marziale, e le chitarre sono perennemente rivestite di effetti, riverberi e droni industrialoidi, ad accompagnare voci e registrazioni e overlay vocali che possono significare qualsiasi cosa. L'immaginario deviato vorrebbe, tra le altre cose, rimandare alle fiabe della tradizione nordeuropea filtrate da un'ottica perversa, ma è difficile dare indicazioni precise, visto che la band non ha quasi mai rilasciato interviste. A noi rimane un disco impenetrabile ed estremamente affascinante, disturbato quanto basta da togliere il sonno agli psichiatri più distaccati.
ZAMPA DI PORCO

ED SHEERAN
÷
(Warner)

Due anni fa il mio amico Tommaso, relativamente preso bene, mi ha fatto vedere il video che vi ripropongo qua sotto. 

Questo, ragazzi, è il celeberrimo cantautore e popstar Ed Sheeran che canta un suo pezzo per strada, tutto megaveloce megabravo a cantare e rappare e suonare. E niente, da quando ho visto quel video non riesco a non pensare che la dimensione naturale del nostro Ed è esattamente quella. Insomma, il tizio roscio megasimpa che fa prendere bene tutti alle feste, il raro caso di tipo così bravo con la chitarra che non resta da solo sulla spiaggia a fare due accordi mentre gli altri limonano ma riesce pure lui a mettere la sua lingua nella bocca di qualcun altro a fine serata. Una persona che fa musica complessa e per cui si è sbattuto un sacco, ma senza grandi ambizioni. E invece è diventato una popstar, infrangendo così la mia fantasia tutta genuinità, cuori caldi e vendette dei nerd—un po' come se al posto di Justin Timberlake, Drake e Bruno Mars ci fossero i tizi che imparano a suonare "Sweet Child O' Mine" su due chitarre contemporaneamente. E non so voi, ma io voglio tenere questa realtà alternativa distopica il più lontano possibile dai miei timpani.
YNGWIE MALMSTAIMALE

ØKAPI
Pardonne–moi, Olivier! 
(Off Label/Broken Silence)

Ritorna il mago della plunderphonia italiana, ovvero Økapi, e lo fa ancora una volta con un'operazione di montaggio e smontaggio di roba classica. Con Opera Riparata agiva sul concept de "l'opera rotta" concepita da Munari, tagliando e cucendo arie liriche. Adesso invece si butta su Olivier Messiaen, del quale stacca e incolla tutta la produzione musicale, suddividendo il tutto secondo un catalogo ornitologico tutto suo (Messiaen stava in fissa per il canto degli uccelli e cercava di tradurli sulla partitura). Un'operazione del genere potrebbe essere rischiosissima, ma a differenza di Fennesz con Mahler (omaggio di cui mi hanno detto un gran... Mahler, perdonatemi la facezia), Økapi riesce ad entrare in punta di piedi nel mondo di Olivier, mescolandolo al suo: mondo fatto di una brina condita con beat spezzati elettronici, squisitamente e delicatamente plunderphonici, appunto. D'altronde l'umiltà della cosa è evidente fin dal titolo: molti musicisti che pensano di fare i fighi rifacendo celebri nomi del passato hanno molto da imparare, diciamocelo.
LUCRIAMO PASSEROTTI

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FILOQ si è fatto remixare

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Filippo Quaglia, o FILOQ, ha iniziato a prendersi bene con i sample attorno ai quindici anni, mi dice: "Avevo una tastiera/campionatore con i suoi bei floppy disk e con la mia band dell'epoca provavamo a capire ed emulare goffamente Girls Against Boys e Brainiac. Sicuramente la vera folgorazione mi è arrivata con Endtroducing..... di DJ Shadow." Glielo sto chiedendo perché il suo ultimo album JazzCrash è stato costruito su una serie di sample jazz registrati dal vivo, andando a costruire una sorta di elettronica frammentaria e schizofrenica, una microhouse meno cerebrale—e oggi vi facciamo ascoltare la sua versione remixata. 

"Io amo fare remix, sentire i remix, suonarli, è sempre un nuovo punto di vista. Ogni volta che sento qualcuno che mi remixa mi stupisco di dove potevo andare e non sono andato, di quante strade ci siano," mi dice quando gli chiedo quale sia il suo rapporto con i remix. Filippo nota inoltre come JazzCrash potrebbe essere considerato di per sé un album remix: "Nessun musicista ci ha veramente suonato dentro ma ho preso io pezzi delle performance di tantissimi jazzisti, sia da dischi che dall'archivio del Fringe in the Box del Torino Jazz Festival, e li ho composti per arrivare qua. Adesso mi piaceva l'idea che il gioco andasse avanti anche per altre mani."

"Ogni musicista coinvolto in questo disco era chiaramente libero di fare tutto quello che voleva," conclude Filoq parlando del rapporto che lo lega ai produttori che hanno rilavorato i suoi pezzi, "Li amo tutti e li ringrazio per l'amore che hanno messo nel fare musica con la mia musica. Ma forse il remix che più mi ha colpito è stato uno dei primi ad arrivare, quello di Nularse, che dai miei sample ha costruito una vera e propria sua nuova canzone." 

Potete ascoltare JazzCrash: Remixes & Outtakes qua sotto. Le rilavorazioni sono a cura di MNL, Frank Agrario, Mangaboo, Tarick1, Skankii, Nularse, DJ Fede, Dalo e Dioguardi.

FILOQ suonerà il 10 marzo a Roma all'interno di Manifesto Festival e il 21 aprile a Torino per la rassegna HeyDays di Jazz Re:Found. 

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Che cos'è diventata la Dark Polo Gang?

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Illustrazione di Yara de Freitas. Seguila su Instagram e Facebook. 

Negli ultimi mesi sono successe molte cose che hanno sfidato il mio livello di comprensione della realtà, e fatto capire che dare una spiegazione un minimo logica a tutto ciò che vedo, leggo e penso non è oggettivamente possibile.

Tipo: credevo che la società—proprio a livello globale—stesse lentamente ma inesorabilmente andando verso un'evoluzione culturale vagamente progressista. L'esempio me lo dava il fatto che esprimere valutazioni 'reazionarie' o 'conservatrici' sembrava ormai suonare rischioso, in qualche modo, lontano dal concetto di modernità—tanto da arrivare al punto che persino le multinazionali hanno cominciato a produrre promo inclusivi a sostegno di temi come—esempio—i diritti civili.

Invece Trump, Brexit, la Francia, l'Olanda, Le Iene. Avevo sbagliato, e devo ancora capire dove.

Allo stesso modo, mentre poco più di un anno fa mi spostavo verso il locale milanese che stava per ospitare il primo concerto della Dark Polo Gang, credevo stessimo convergendo—e in pochi—per cercare di capire essenzialmente due cose: primo, di cosa stessimo parlando da settimane; secondo, a quale livello di ironia si stava posizionando il nostro ascolto delle loro canzoni. 

Invece non sono neppure riuscito ad entrare. Ed erano—eravamo—tutti abbastanza seri.

Da allora sono cambiate molte cose e la mia percezione di Dark Polo Gang—che all'epoca rimbalzava dall'apprezzamento per le strumentali di Sick Luke alla curiosità per il filone italiano che da "Cavallini" in poi ha preso piede come un pianeta che segue la sua orbita circondando una Air Jordan 11 incandescente.

Il primo concerto della Dark Polo Gang.

Da quel giorno hanno cominciato pigramente a circolare i primi spiegoni su cosa fosse questa cosa senza mai riuscirci pienamente, passando persino dalle pagine del Corriere della Sera: i loro testi sono stati oggetto d'analisi più o meno serie, oscillando dal "mi fanno tenerezza" al paragonarli all'incedere "anti-narrativo" di Bret Easton Ellis.

La verità, però, è che ancora oggi è difficile darne una definizione: Noisey qui è stata tra i primi a incontrarli per capire da che persone provenissero versi come "Vuoi fottere la gang? Non fa bene alla salute come troppa carne rossa," e ancora adesso quell'articolo è l'101 per i novizi. Dovendo spiegare il grado zero della Dark Polo Gang per chi legge quest'articolo e non li conosce, però, si potrebbe cominciare dalle basi dicendo che la DPG sono quattro ragazzi romani—Side, Wayne, Tony Effe, Pyrex, più il producer Sick Luke—che fanno musica trap (qualsiasi cosa voglia dire) mescolando elementi della scena americana a un racconto del tutto personale della propria figura pubblica, e improntato a concetti come lusso, inside joke, fare cose con la droga e coi soldi, chiamare la gente nei video usando delle scarpe come telefono.

Questo loro modo di essere, elevato alla N sia nei testi che nei video, li ha portati ad avere una vasta schiera di fedelissimi appassionati e una frangia di hater piuttosto nutrita che ormai valica il tracciato stesso degli appassionati di rap: è un odio che va al di là della musica, ed è fatto di quella stessa materia che potreste esperire se vi fiondaste sulla bacheca di "Sesso, Droga e Pastorizia" per scrivere pubblicamente che vegano è bello.

Comunque sia, sono cosciente del fatto che una definizione del genere non basta a spiegare niente di loro, né di ciò che sono diventati dopo quattro mixtape (?), uscite pubbliche discutibili, esordio in Rai, sgravate sui social e accuse di razzismo: arrivati al marzo del 2017, con un un nuovo album (?) in uscita (Twins) e un singolo di lancio ("Spezzacuori") che ha già superato 3 milioni di visualizzazioni su YouTube con un'estetica tutt'altro che pacificante, potremmo decidere sia arrivato il momento di farsi alcune domande.

Tipo: perché il mio amico che studia per diventare notaio, non ha mai ascoltato rap in vita sua e li conosce solo attraverso i meme di pagine come questa, ha insistito per andarli a vedere ai Magazzini Generali—dove peraltro hanno fatto il pienone? E perché li ascolto anche io? Perché felpe e cappellini vanno sold out a pochi minuti dal lancio? Cos'è davvero la DPG? E soprattutto: cos'è diventata? Ho cercato di fare delle ipotesi. Magari ci arriviamo.

SONO DEI RAZZISTI?

Voglio partire da questo elemento per chiarire alcune cose: parlare della DPG pubblicamente, da un certo punto in poi, è diventato un tabù. Questo perché in almeno un'occasione Tony Effe l'ha combinata grossa.

Non si tratta del solito dibattito sul sessismo nel rap o sull'uso della parola con la N da parte di chi non abita nei quartieri brutti di Atlanta. No: una persona ha proprio dato della scimmia a un ragazzo ghanese, e poi ha rimosso il video—era una story su Instagram, girata mentre i cinque stavano viaggiando verso Milano. Il tutto è successo perché—pare—Bello Figo avrebbe rifiutato un'esibizione di beneficenza con loro.

Da quell'episodio in poi la loro natura meta-ironica—e tutto sommato innocua—è stata presa (giustamente) sul serio, portando tanti su Facebook (specie nel giro della critica musicale) a chiedere di evitare di "propagandare" i loro contenuti parlandone, e a fare ammenda per averlo fatto precedentemente. Per riassumere: non dare spazio ai razzisti.

Alla fine sono usciti fuori con un video in cui Pyrex—peraltro di origine afro-americana—chiede scusa per tutti. "Ha parlato prima di pensare: tutti noi sappiamo che Tony chiaramente non è razzista, però quelle parole non vanno dette perché io stesso me le sono sentite dire." Side—in pratica il rappresentante delle istanze anti-militariste e anti-atlantiste nel parlamentino della DPG—si è fatto tatuare il simbolo della pace sulla tempia come pegno.

Il gesto resta. La domanda pure. Sono razzisti?

Probabilmente no, nel senso che azioni del genere sono un'inaccettabile goliardia da stadio priva di senso—quello che Tony chiama "fratellino" è NERO!—comunque da censurare. Ma forse in qualche modo bisogna arrivare al concetto stesso di "razzismo", per vedere se c'entri o meno qualcosa con questo episodio. Qualche tempo fa erano persino riusciti a far incazzare gli omofobi con dei baci tra i membri e frasi come "Sono frocio per mio fratello." E allora?

Non lo so: so solo che tutto quello che li riguarda mette a dura prova la mia capacità d'analisi di ciò che ho dentro e intorno a me, che tutto quello che hanno fatto e faranno non potrà non prescindere da questo dibattito, e che probabilmente sono ormai diventati altro da sé. Ma cosa, esattamente?

SONO DEI MUSICISTI?

Malgrado tutto, al di là della cronaca, nonostante le critiche a testi e musiche, io ascolto la Dark Polo Gang. Conosco tutte le loro canzoni, e li ritengo una delle cose musicalmente più interessanti del panorama italiano—nel senso più ambiguo e diagonale del termine. Ma non so dire esattamente perché, né perché lo faccio.

Ecco a voi la base italiana più bella degli ultimi anni.

Da qualche tempo vorrei scrivere un articolo soltanto per potergli mettere il titolo "Ho cercato di capire perché ascolto la Dark Polo Gang anche se ho una laurea in economia" ma non saprei cosa scrivere, e forse è proprio quello il senso: ho davvero capito quello che vogliono fare? O forse non c'è davvero niente da capire? Perché le persone che stimo per acume si dividono fra chi li ritiene quasi geniali e chi vomita dal naso solo a sentirli nominare? E perché cerco di mantenere una dieta culturale presentabile ma quando parte "Sportswear" comincio a muovermi come un bonobo?

Partiamo da due presupposti: uno, le basi di Sick Luke. Sono abbastanza nuove senza inventarsi niente. Indovinano quasi sempre il tiro. Sono ballabili. Da lì ad apprezzarle il passo è veramente breve—specie se poi guardando Sanremo ci facciamo piacere una canzone solo perché suona più veloce di quella di Al Bano, ha i piatti in levare ed è presentata da una persona a caso con meno di 95 anni.

Secondo: le critiche sulla tecnica, il fatto che "non chiudono le rime" e che i loro testi non hanno alcun senso—sono un tema su cui sarei pronto a dibattere per settimane, e che sono sicuro mi porterebbe a toccare il concetto stesso di "musica": serve a ballare? Serve a veicolare messaggi? Sono rumori in ritmo? È tutto? O nulla? Boh.

Mi starei solo facendo altre domande "base" sull'esistente. Eppure il loro adattamento in italiano di espressioni in inglese ("Stare alti" per dire di essere "high" dopo aver fumato; o i "gioielli malati addosso" per tradurre "sick" nel senso di "figo"), e la continua autocitazione meta-narrativa, ne fanno qualcosa di genuinamente nuovo, che mi porta continuamente a chiedermi come gli possa esser venuto in testa di dire o fare certe cose, per quanto probabilmente prive di significato—sto giustificando il fatto che mi piacciano, in pratica.

Quindi sì, la DPG è—quantomeno—musica. Ma forse. "Forse", perché loro stessi, di sé, danno un'altra definizione: hanno un'ossessione malata (e piuttosto comune, per la verità, in un certo respiro musicale degli ultimi mesi) per il farsi definire rockstar e per il prendere le distanze da concetti come rap e freestyle, e in generale per il rifiutare la musica come mezzo per fare i soldi (i dischi sono in free, non sono su Spotify) e compiere il loro destino—qualunque esso sia. "Non siamo musica," "Noi siamo i soldi". Cosa cazzo sto ascoltando, allora?

SONO DEI MEME?

L'ascesa della trap italiana, per un ampio campione anagrafico cha va dai 12 ai 25 anni (diciamo), è coincisa temporalmente con quella dei meme in Italia. Non è un dato buttato lì alla cazzo: tutta la scena viene ormai declinata attraverso battute più o MENO divertenti, e i gruppi Facebook, i profili Instagram e i canali YouTube a tema ormai non si contano più. Il meccanismo schizza, però, quando si arriva alla DPG—sia che la si apprezzi, sia che la si detesti.

Da una parte, infatti, esistono diversi gruppi online—a volte in attriti fra loro—in cui si parla di DPG in un linguaggio per iniziati e il cui unico scopo è rendere memabile cose, foto, citazioni che sono (o che addirittura potrebbero essere) loro. Dall'altro, però, l'idea stessa di DPG—e tutto quello che portano a rimorchio—è diventata materia prima raffinatissima per alcune delle pagine più popolari (e a trazione bomberista) degli ultimi tempi.

Il materiale con loro sicuramente non manca: basta mettere in contraddizione le cose che dicono o fanno nei video con ciò che effettivamente sono, o citare i vari episodi di cui sono protagonisti, per diventare immediatamente dei meme—anche solo calandoli nel vissuto quotidiano, o riprendendone i video sui social.

"Ho una borsa da duemila piena di fatture"

Allo stesso modo il loro essere continuamente provocatori, e il seguente feedback negativo, sono il propulsore ideale per l'affermazione di questa "versione" della DPG. Risultato: più fama, più hater, ancora più fama, ancora più hater.

Fino a farli diventare totalmente altro da sé: tipo quando il loro nome viene usato da dei troll per creare gruppi Facebook a sfondo sessista, o riempire di commenti negativi e insulti le pagine dei ristoranti, per venire poi segnalati da SELVAGGIA LUCARELLI—che ormai li ritiene una specie di anonymous del trolling.

Probabilmente la loro esistenza stessa è una specie di meme: la loro vita—stando alle storie Instagram—è fatta di giornate in cui fumano blunt in giro per il Rione Monti e recitano slogan fino all'ossessione. Il loro immaginario è super-riconoscibile in termini estetici (jeans skinny e strappati, Nike slacciate ai piedi, portamonete legati alla cintura, bandane). Il linguaggio è un susseguirsi di parole e formule codificate, sia nei testi (il "777", "se non parli di soldi non ti sento"/"sto fumando [nome della varietà di erba]") che nel linguaggio colloquiale ("bufus", i cuoricini, i "piskelletti dark", l'uso eccentrico degli aggettivi quel/quello/quella e del "suffisso" way).

"Carlo Cracco sei un buffone"

È tutto replicabile, ed è tutto 777: se te lo tatui—diceva Tony Effe in un'intervista a Hip Hop Tv—non sei un coglione, o uno che c'è rimasto sotto: sei "famiglia". Quindi adesso la DPG è anche un clan?

SONO UNA COSA NON DEFINIBILE CHE FA CAPO AL PIÙ GENERICO CONCETTO DI "STILE"?

In quella stessa intervista, Tony dice che "Dark Polo è principalmente moda. Poi anche altre cose." Se li segui sui social, raramente li vedi provare pezzi o registrare qualcosa in studio. Più facile è trovarli in giro per negozi a comprare vestiti, o a dire cose in compagnia di stylist che ne curano le uscite pubbliche, o seguire le varie settimane della moda come ospiti di firme del settore.

Quello a destra non c'entra nulla.

Se da un parte l'ossessione per lo "swag" è comunque un tratto distintivo di questo tipo di rap, e più in generale un'aspirazione molto più comune nei teenager di adesso che non in quelli di qualche anno fa, dall'altra nella Dark Polo Gang trova la sua esemplare esasperazione—un'esasperazione che parte dal lanciare una piccola linea di moda al parlare con una pochette di Gucci e portarla a fare un giro.

L'attenzione per la GVNG, nei confronti della moda, tocca queste vette: ognuno di loro ha uno stile ben connotato—e che in qualche modo si addice alla musica—e tutti insieme hanno attraversato varie fasi, che li hanno portati dall'agganciare dei pon pon rosa ai pantaloni ad esser definiti la "Rome new creative generation." "Sai che siamo la moda," dice Tony in "Sportswear".

Guardandoli bene ci si accorge sempre del fatto che la base di partenza è sì quella della moda street presa dalla scena trap americana, ma che quella stessa traiettoria a un certo punto si allontana dalla strada principale, portandoli a fare scelte estetiche e accostamenti del tutto inediti o eccentrici.

Insomma, così come non riesco a trovare dei loro simili negli USA dal punto di vista musicale, allo stesso modo è difficile capire quali siano i canoni estetici di riferimento. Anche qui, come per la produzione musicale: o siamo al cospetto di uno slancio genuino, creativo e a suo modo geniale, o non dobbiamo capire nulla perché non c'è nulla da capire. Grazie mille ragazzi.

SONO UNA NUOVA FORMA DI SERIE TV IN CUI LE PUNTATE SONO LE GIORNATE DELLA LORO VITA?

A tal proposito, in genere basta dare un'occhiata a una loro foto—concentrandosi su status, taglio di capelli, vestiti o robe che fumano—perché chi li segue con una certa regolarità capisca a quale epoca risalga. Sono loro stessi a definire queste cesure temporali con l'espressione "season", anticipata dal nome dell'album in uscita o appena uscito (per esempio adesso è piena "Twins season": ora lo sapete).

Questa era "dark season"

Su Instagram aggiornano quotidianamente i fan con cinque stream diversi che spesso si intersecano fra di loro: dalla loro prospettiva, riusciamo a vedere giornate oziose e irregolari che concorrono alla creazione del loro immaginario, ma al di fuori di questo c'è tutto un mondo che li segue, riprende, registra e riversa in rete, pronto a raccontare una puntata inedita della loro vita.

Le loro esistenze fuori dal palco—o almeno la loro percezione—sono note almeno quanto quella musicale, se non di più: la diretta Facebook dopo il casino post-concerto di Brescia è ormai un must per chiunque approcci all'argomento da zero ("Scusa in ginocchio", "Piacere Dylan", "No lame", "Belli freschi"), così come il "People Versus" di Noisey, dal quale sono nati i primi meme.

"... ... Comunque tutto è connesso…"

L'esempio migliore di come la fama della DPG—in un modo o nell'altro—resti in piedi a prescindere (o nonostante) la musica risale però a qualche settimana fa, a causa di uno degli episodi più noti che li coinvolge negli ultimi mesi, e che sta contribuito a far girare il loro nome sui social. E cioè quando un ragazzo romano ha pestato Side alla fermata del tram, e pubblicato il video su YouTube.

A quel punto status e meme correlati hanno cominciato a circolare a velocità folle, tanto da portare una pagina Facebook (che sta seguendo tutta la vicenda) a organizzare un rematch della rissa con tanto di montepremi da 5mila euro in palio: non importa che siano dei musicisti, che facciano dei video, che macinino anche un po' views, perché la rappresentazione della loro vita cominci a viaggiare a prescindere dal resto, e più velocemente. Si scagliona a tappe, un'uscita musicale dopo l'altra, un video amatoriale dopo l'altro, nel contesto di una nuova "season": una serie tv che va in onda ogni giorno, coi suoi personaggi secondari (Gallagher, Kiko, Vegeta, Traffik, le Dark Chicas) e di cui ogni album è una nuova stagione.

MA COSA CAZZO SONO?

"Se non conoscete la Dark Polo Gang allora siete vecchi," esordisce il rapper Amir su RaiDue, introducendoli per la prima volta al grande pubblico televisivo. Ci vengono presentati come i cavalli di razza di una società—d'estrazione prettamente romana—medio-borghese ma in senso moderno, come i figli della noia che non conoscono legge e decenza e che pensano "solo a farli," mentre dietro di loro—muovendosi per le strade di Roma—una schiera di ragazzini adulanti li segue in giro a fare shopping. Ma è così? Sono davvero i rappresentanti di un'epoca? O di una generazione?

O sono un divertissement per iniziati, che ne apprezzavano il dadaismo (tra mille virgolette) e la cifra ironica? Se è così, per quale ragione una felpa arancione con tre "7" disegnati sopra è andata sold out in pochi minuti? A chi è sfuggita di mano, la situazione? Quello che ho capito è che ogni volta che si parla di loro, di qualsiasi cosa si tratti, sembra sempre si debba prima capire il senso dei concetti di base dei quali discutiamo—che siano la musica, i soldi, lo stile, il rap. Che è una cosa preoccupante e avvincente allo stesso tempo.

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C'è stato un lungo periodo della mia vita in cui la mia band preferita erano i Behemoth. Se non li conoscete, sono un gruppo death metal polacco che suona come una lingua viscida che vi tira giù con sé verso l'inferno. Li scoprii con "Slaves Shall Serve", che ad oggi è una delle canzoni che più mi fanno venire voglia di sfinirmi dando spallate a un muro in cartongesso mentre intono inni ai signori occulti che possiedono la mia anima. È per questo che il mio capo, Mattia, ha deciso che devo parlarvi del video che trovate qua sotto—e non posso certo tirarmi indietro da un compito così gioioso.

Il video si intitola "Seal Metal" e, dopo l'incredibile hit del gatto giapponese che suona la batteria con il fuoco nei lombi, è un nuovo capitolo della conquista dell'heavy metal da parte del regno animale. Signori miei, eccovi qua:

Tra tutti gli animali, le foche sono piuttosto metal dato che vivono nei ghiacci eterni che abbracciano il nostro pianeta da tempo immemore. Al contempo sono piuttosto pacioccose: questo gli aveva impedito finora di scalzare i caproni e gli squali bianchi dal ruolo di animale più grim e frostbitten del circondario. Questo video, però, le incorona regine del metallo pesante dato che dimostra incontrovertibilmente quanto un paio di zampe sbattute contro una pancia gonfia possano essere più cattive di due bacchette percosse con veemenza contro delle pelli. Per oggi è tutto, ci vediamo alla prossima puntata di video buffi dall'internet.

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I Cold Fell mettono in musica tutto il gelo del Nord

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Il grigio, freddo e piovoso Nord dell'Inghilterra è da sempre un simbolo di degrado urbano e rovina economica—una reputazione che deriva da secoli di avversità, ma che è anche un po' ingiusta. Ho passato un bel po' di tempo lassù, e voglio essere la prima a sfatare il mito della sua uggiosità—guardate i Pennini, o il Lake District! Tuttavia, i mancuniani Cold Fell sono interessati unicamente a quelle tasche di dura e grigia disperazione. 

Irwell è la prima vera uscita per la band capitanata da Laurence Taylor, già noto ai lettori di Noisey per le sue imprese con i Caïna. Qui, Taylor fa puramente da cantante con Karl Sveinsson e Giovanni Infantino alle chitarre, Callum Cox alla batteria e Oliver Edward Turner al basso. La loro visione del black metal è più ortodossa di quanto ci si potrebbe aspettare, fatta principalmente di attacchi diretti e atmosfere plumbee e paludose, arricchite da uno spesso strato di putrido death metal. La paranoica e strisciante "Folly (Health and Glory)" è un ottimo esempio delle loro doti atmosferiche, mentre la canzone seguente è pura e incontaminata furia black metal.

Nel complesso, è un disco eccellente, composto e registrato nel corso di quattro anni. Come ha detto Taylor, "Il nostro obiettivo, come band, era di creare un black metal diretto e aggressivo ma originale senza sbandare in territori di 'avanguardia' autoindulgente—l'ampia gamma di influenze dovrebbe risultare evidente per gli esperti di black metal e affini. Concettualmente, l'album tratta i fatti meno piacevoli della vita, sullo sfondo nero fumo della provincia settentrionale e delle città in declino". 

Ora lavatevi la faccia coperta di fumo nero, mettete un buon tè sul fuoco e premete play qua sotto. L'album è disponibile direttamente dall'etichetta italiana Argento Records.

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La biografia dei Suicide è la biografia di New York

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"Nessuno, men che meno Alan Vega e Martin Rev, può dire con esattezza il giorno, la settimana o il mese in cui l'entità Suicide si fuse fino a prendere vita..."
Kris Needs

I Suicide sono una band senza tempo: per questo motivo, senza nessun tipo di specifica ricorrenza, ho chiuso da poco il libro di cui vi sto per parlare e che li vede assoluti protagonisti. Trattasi di Dream Baby Dream di Kris Needs, conosciuto come uno dei principali biografi di George Clinton, Joe Strummer, Blondie, Cramps, New York Dolls e mille altri. Uno che, insomma, sguazza da sempre nel mare delle star-outsider, occupandosi di personaggi che rappresentano in particolare le contraddizioni della cultura pop. 

La biografia è uscita nella sua versione italiana il 2 dicembre scorso, licenziato dalla premiata ditta Spittle in collaborazione con Goodfellas, e non mi frega niente di averla letta in ritardo; poiché il contenuto è particolarmente frizzante e avvincente, quasi fosse una storia d'azione. Si tratta di un excursus della storia dei Suicide che va dagli albori fino all'ultimo respiro, con dettagliati episodi che fanno luce sulla formazione individuale di entrambi i membri della band e sui primi esperimenti musicali solisti. Il culmine si raggiunge nel momento in cui i Suicide si trasformano finalmente in un simbolo, un'icona di una fetta di umanità che cerca di liberarsi dalle catene con cui il mondo turbocapitalista l'ha legata. 

Dopo i difficili inizi, la fama del duo è aumentata esponenzialmente col passare degli anni e con l'inasprirsi di un certo tipo di conflitti; la loro musica è diventata talmente aderente alla situazione, quasi una spietata colonna sonora, che il primo album Suicide potrebbe essere tranquillamente uscito nel 2000 invece che nel 1977, e American Supreme era già proiettato in una profetica junk era del 2020 (per questo, probabilmente, meno capito). 

Come tutto ciò sia stato possibile è ben spiegato nel libro: soprattutto nell'analisi del contorno in cui Martin Rev e Alan Vega operavano. A differenza di molti altri scritti del genere, Needs approfondisce in modo chirurgico, fino a dilungarsi, non solo le bio degli artisti in questione, ma anche degli amici, dei manager, finanche delle mura in cui operavano (il leggendario CBGB, il Max's, passando per il Palladium e gallerie d'arte connesse) in quanto personaggi e luoghi principali e non semplici comprimari nell'evoluzione della band. E, inevitabilmente, c'è un'analisi al vetrino degli artisti e musicisti che gravitavano nella loro orbita, che poi era l'orbita di New York. 

In effetti, la biografia dei Suicide sembra la biografia di un'intera città. New York, negli anni Settanta/Ottanta abbandonata al degrado e molto lontana dal luogo hip che è oggi, rispondeva alle politiche oppressive dei conservatori con un potenziato senso di sperimentazione e libertà espressiva, e con il coraggio di chi non ha nulla da perdere. E i Suicide non avevano veramente nulla da perdere, se pensiamo che il primo album uscirà ben sette anni dopo la loro effettiva fondazione: una "gavetta" che tale non fu, visto che il ragionamento dei due si sviluppava più in termini di happening a lungo termine, se non permanente, che verso il mero successo discografico. Ricordiamo le esibizioni al limite dello scontro frontale e dell'autolesionismo stile tragedia greca dell'età industriale, cosa per la quale i Throbbing Gristle, probabilmente, sono loro debitori. 

Nei primi anni Settanta tutto ciò sembrava qualcosa di alieno, e, direi, grazie al cazzo: gli unici che all'epoca smanettavano con circuiti auto costruiti e drum machine erano i Kingdom Come e i Silver Apples, e nemmeno loro, pur non essendo estremi quanto i Suicide, venivano considerati dal mercato mondiale. Figurarsi che impressione dovevano fare Vega e Rev, che all'inizio al posto delle batterie usavano i feedback degli amplificatori!  

D'altronde i Suicide furono in anticipo su tutto: a parte il synthpop, il post punk e la new wave, i nostri traghettarono tutti direttamente verso il power noise, cosa che può confermare chi li ha visti negli ultimi gig in cui era ancora viva la buonanima di Vega. Ma l'attitudine era chiaramente rock, quindi non solo legata alla musica elettronica e contemporanea che pure masticavano (il bazzicare di Rev con i dischi di Stockhausen e compagnia bella è ben documentato). La passione dei due per il feticcio del juke box, per il doo wop, per i generi che in qualche modo venivano dalla strada e portavano all'integrazione razziale, romanticamente idealizzando un riscatto possibile dalla povertà con l'amore non disdegnando anche messaggi subliminali, è quella che ritroviamo in ogni produzione dei nostri. Produzione che, tesa fra l'apocalisse e una sensualità quasi sacrale, aveva a sua volta dei padri: il discorso performativo che elimina la barriera fra pubblico e artista sul palco è mutuato da Iggy Pop e dagli Stooges, lo straniamento iterativo da band come Question Mark and the Mysterians, la cui "96 Tears" non fece impazzire solo i Suicide ma anche, ad esempio, gli Stranglers moltissimi anni dopo. Per non parlare poi della scuffia per la musica classica nell'ultimo periodo, in cui Martin Rev s'ingozzava le orecchie di Pergolesi e Vivaldi. 

In effetti, la storia dei Suicide è una storia, come già detto, di musicisti che s'incontrano e si scontrano, di personalità che bene o male vengono a contatto come mosse da un destino superiore. La cosa assurda, infatti, è che i Suicide divideranno il palco e avranno contatti con personaggi diversissimi tra di loro: da Elvis Costello (il quale li incitava sempre a scatenare rivolte quando loro aprivano per lui di modo che, personaggio singolare, non dovesse suonare) ai Ramones, cui l'etichetta di "punk" mal si addiceva una volta al cospetto dei nostri due eroi. I Suicide, infatti, si autoproclamavano punk molto prima del tempo (nel 1970, quando la parola non significava altro che "codardo", "femminuccia" o veniva usata come epiteto offensivo verso gli uomini gay), come documentano i flyer con scritte tipo "punk mass" di cui si facevano fieramente vanto. 

Quindi vediamo come in un caleidoscopio i Suicide passare per mode e modi, da un genere musicale all'altro e da un personaggio all'altro. Basti pensare a Peter Crowley, che passerà dal ruolo di VJ dei Velvet Underground a promoter dei Suicide stessi, o a Tony Williams, leggendario batterista di Miles Davis, al quale Martin Rev chiederà lezioni di musica intrufolandosi direttamente in casa sua avendo scoperto che erano vicini di casa. Ecco, il jazz in tutte le sue forme, da Monk al free passando dallo stesso Miles (che si vocifera fosse in platea durante qualche loro concerto), sarà una delle grandi passioni dei Suicide. Rev jammerà continuamente con alcuni dei migliori musicisti jazz della città affinando quelle capacità di composizione "al volo" che renderanno celebre il modus operandi dei Suicide, oscillante fra la composizione di getto e le registrazioni fatte in mezzo secondo, mantenendo però il perfezionismo e la cura del dettaglio di brani che crescono e si arricchiscono di pathos e trovate sonore a ogni nuova esecuzione, tanto che nell'ultimo periodo i nostri avevano direttamente abbandonato le prove. 

L'attitudine street dei due era talmente radicata che nulla poteva scalfirli anche durante quello che poteva essere il "boom delle stranezze": in piena no wave furono letteralmente i mentori di Lydia Lunch, ma non entrarono a far parte della storica No New York, troppo estremi anche per una simile operazione. In piena era punk furono avvicinati da Malcom McLaren che voleva prenderli sotto la sua ala, ma i due lo allontanarono con gentilezza. Con i camerini pieni di ragazzini tipo i Soft Cell (quindi tutta la nuova generazione del tecnopop), non goderono però dei frutti economici di quella moda, anzi ebbero i proverbiali problemi di distribuzione all'uscita di quello che è il loro capolavoro di accessibilità mista a disturbo ovvero Suicide: Alan Vega and Martin Rev

Come già detto in altre occasioni, i Suicide avevano fan apparentemente impensabili come ad esempio Rick Ocasek dei super mainstream Cars, loro produttore dal secondo disco in poi, che appunto nei Cars porterà quel gusto per la provocazione e per le voci recitate e cariche di erotismo che erano il marchio di fabbrica di Alan Vega. O ad esempio Bruce Springsteen, con il quale condivisero ascolti gomito a gomito (gomito alto, perché il Boss sgattaiolava via dal suo management con i due teppisti armati di bottiglie di whisky) nello stesso studio, talmente fanatico che nei suoi concerti è sempre rimasta fissa la cover di "Dream Baby Dream" (ma addirittura nella reiterazione di "Born in the USA" possiamo intuire ripetuti ascolti di "Rocket USA"). 

Un discorso di strada che è influenzato anche dall'architettura, che sia quella di Soho o di qualche altra zona della Grande Mela in cui trasuda il vissuto dei corpi che ci abitano: lo stesso crollo delle torri gemelle dell'11 settembre diventa un discorso in cui è la città in quanto tale a urlare il suo dramma. Dice Alan: "I resti degli edifici erano forse la cosa più orribile che io abbia mai visto nella mia vita. Era come una scultura che nessun essere umano al mondo avrebbe potuto concepire". Una simbiosi urbano/umana insomma, un po' come il binomio guerra/arte in cui l'una è incorporata e poi sputata dall'altra, in un battesimo del fuoco atto a scongiurare il ritorno di qualsiasi Vietnam, che è appunto uno dei primi concept alla Taxi Driver che ha da sempre accompagnato il duo. 

Lo stesso discorso della "performance noise che diventa opera d'arte", della guerra dei suoni ora sdoganata in tutte le gallerie d'arte, è in un certo senso una loro idea: se poi pensiamo che le sculture fatte di rifiuti postatomici di Alan Vega adesso magari le vediamo fare da qualche pischello con alle spalle il gallerista paraculo che poi le infila nella Biennale di Venezia, allora capiamo quanto fossero avanti. Se non se lo sono inventato, è indubbio che abbiano annusato l'aria risultando contemporanei in tutte le ere: basti citare anche i Pansonic, che senza i Suicide avrebbero sicuramente problemi d'identità—tanto numerose sono le loro collaborazioni con Vega da diventare quasi un'altra band, a parte. Insomma, la lettura di questo libro ci consegna una storia avvincente che potremmo citare per ore, fatta anche d'incredibili sofferenze come la morte di Mari, compagna di Martin Rev e collaboratrice fissa nelle sue ultime opere e la malattia di Alan Vega, che purtroppo lo porterà a lasciare questa valle di lacrime. 

Certo, a volte si rasenta l'agiografia, soprattutto verso le ultime pagine: ma è un difetto che concediamo a un libro che ci ricorda ancora una volta come i veri loser alla fine sono quelli che indicano la strada. Perché la strada, loro, la conoscono bene. Buona lettura e "sognate, baby, sognate".

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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Guarda il tributo video di P. Diddy a Notorious B.I.G., a vent'anni dalla sua morte

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Ieri era il ventesimo anniversario della morte di Notorious B.I.G., ucciso mentre si trovava a Los Angeles. La sua importanza per l'hip-hop tutto è leggendaria: i suoi due album in studio, Ready to Die e Life After Death, sono due dei dischi più celebrati della storia del genere e continuano a essere fonte di ispirazione per ogni giovane MC. Il suo successo ha permesso alla Bad Boy, l'etichetta di Puff Daddy, di diventare l'istituzione che è oggi—e ieri proprio Diddy ha postato un tributo video a Biggie.

"Quest'anno è stato come un ritorno alla sobrietà," dice Diddy nel video. "Abbiamo vissuto vent'anni delle nostre vite senza una delle persone che, in gran parte, le rendeva tali. È grazie a Biggie se le nostre carriere sono leggenda. Ha dato da mangiare a un sacco di famiglie, ha fatto ballare milioni di persone, ne ha fatte sentire bene altrettante."

Diddy saluta poi la mamma di Biggie, Voletta Wallace, i suoi figli, Faith Evans, e i fan che li hanno supportati in tutti questi anni. E conclude con un "Il tempo guarisce tutte le ferite, ma questa è ancora aperta."

Trovate il video qua sotto. 

Fotografia via Instagram. 
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È uscito un nuovo album di Go Dugong, a sorpresa

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Go Dugong
, uno dei nostri produttori italiani preferiti, ha appena pubblicato un nuovo album a sorpresa. Siamo quindi piuttosto felici. Si intitola (Indian) Furs, ed è basato su una serie di field recordings effettuati durante un viaggio del Giulione nazionale in India nel 2016 ("Tra i villaggi del Rajasthan, le rovine di Uttar Pradesh e le mangrovie del Kerala", dice un comunicato stampa).

(Indian) Furs arriva due anni dopo il suo ultimo album, Novanta, ed è il primo capitolo di una serie di album basati sulle registrazioni d'ambiente. Siamo molto curiosi di sapere quali saranno le sue prossime destinazioni.

Potete ascoltare l'album per intero qua sotto, e scaricarlo gratuitamente a questo link. È materiale molto ipnotico e avvolgente, molto più di quanto Go Dugong abbia prodotto finora. 

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L'ultimo mese di programmazione del DalVerme è una cazzo di bomba

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I pochi metri quadrati del circolo DalVerme di via Luchino dal Verme 8, Pigneto, Roma Est, sono un cerchio sacro per gli amanti della musica underground, di confine, sperimentale, chiamatela un po' come vi pare. Ne abbiamo già parlato in passato: il locale di Toni Cutrone (è Mai Mai Mai) e dei suoi soci è stato la culla di uno dei fenomeni più importanti per la musica dello Stivale in questo millennio, quello che è stato definito Italian Occult Psychedelia. Ma è stato anche un rifugio e un punto di riferimento per una scena di stramboidi e sperimentatori a livello globale.  

Ora, dopo anni di conflitti e battaglie legali con vicinato, questura e comune della Capitale, DalVerme rinuncia al proprio spazio nella via omonima a partire dal 31 marzo. L'annuncio ufficiale è stato dato via Facebook e, a parte sfogare la frustrazione per il trasferimento forzato, in pieno spirito DIY e di unità che contraddistingue la scena romana, invita i supporter del locale a godersi un ultimo mese di programmazione per "rendere questa chiusura una festa che sia degna della tanta, tantissima bellezza che ha attraversato il circolo e che il circolo stesso ha generato". 

Ed effettivamente il calendario degli eventi straborda di concerti, DJ set e performance strepitose. Qualche nome? Partiamo dalle leggende di Roma Est Hiroshima Rocks Around, Mai Mai Mai, Holiday Inn, Cascao & Lady Maru, Maria Violenza e arriviamo a ospiti del calibro di Rainbow Island, Von Tesla, Movie Star Junkies. E giovedì 16 marzo ci sarà anche un DJ set curato da Demented Burrocacao a tema Italian Folgorati! La redazione di Noisey sta già consultando le offerte di Flixbus (la redazione di Noisey è molto povera). 

Consulta il calendario dell'ultimo mese di programmazione al DalVerme e ricordati di sostenere le piccole realtà della tua città tutti i giorni, perché quando arrivano gli appelli e le petizioni spesso è già troppo tardi. Noisey augura allo staff del DalVerme e a tutta la comunità che ci gira attorno un futuro pieno di possibilità e non vede l'ora di annunciare il suo ritorno. 

Illustrazione di Simone Tso.

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Abbiamo chiesto ai Los Campesinos! di fare una classifica dei loro album

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Rank Your Records
 è la serie di Noisey in cui chiediamo a musicisti di ripercorrere la loro carriera mettendo i propri album in ordine di preferenza.

I Los Campesinos! sono uno dei pochi gruppi con un punto esclamativo nel nome a non essere completamente defunti assieme a MTV: Brand New. Si conobbero nel 2006 all'università di Cardiff e furono una delle band il cui nome in quegli anni era sinonimo di "indie pop", anche grazie al successo esplosivo della loro prima hit "You! Me! Dancing!". Oggi sono ancora qua, a girare il mondo con il loro disagio, principalmente grazie a una forte capacità di reinventarsi continuamente e a una comunità di fan sfegatati.

Fin dai loro inizi, c'è stata una dicotomia al cuore dei Los Campesinos! I loro testi contengono riferimenti ad argomenti teoricamente molto distanti come il calcio e la letteratura, e sanno essere sia sinceramente poetici che pesantemente autoironici. Anni e anni fa gli venne appiccicata un'etichetta fortemente categorizzante come "twee" (presumibilmente per il loro avere voci femminili, uno xilofono e nessuna traccia del tragico machismo che dominava l'indie rock di quegli anni), il che li aiutò a farli riconoscere da un pubblico ampio ma con il passare del tempo si è rivelato essere un ostacolo—dato che dopo il loro primo album si sono dati a una sorta di pop sperimentale e malato. In parte prigionieri del suono che li ha portati alla fama, eccezioni all'interno del mainstream indie rock, sono arrivati a un punto in cui devono sempre stare attenti a mantenere l'equilibrio tra la passione che i loro fan provano per la loro musica e le loro esigenze creative.

Il loro sesto album Sick Scenes è uscito a Febbraio, e abbiamo incontrato Gareth e Tom Campesinos! per riflettere sugli undici anni che hanno passato ad essere, come si auto-definiscono nella loro biografia di Twitter, "la band preferita della tua ex".

5. Hello Sadness (2011)

Ciao Gareth e Tom! Allora... i vostri album. 
Gareth: Se dobbiamo partire dal peggiore, allora dobbiamo iniziare da quello che stavamo suonando dal vivo quando Ben Gibbard è venuto a vederci.

Tom: Il nostro produttore, che vive a Seattle, porta sempre le band con cui sta lavorando a vederci quando capitiamo da quelle parti. Una volta è venuto con Owl City.

Gareth: Eravamo nel backstage prima del concerto e a una certa ci compare davanti Ben Gibbard, e siamo tutti megafan dei Death Cab for Cutie, quindi abbiamo cercato di salutarlo come se fosse la cosa più normale di sempre. L'unica cosa che ricordo veramente è che aveva bevuto un sacco di latte di cocco, ed eravamo nel 2012, quindi non è che in quegli anni il latte di cocco fosse ovunque come oggi. E devo dire che da allora lo stimo ancora di più. 

Vi ha detto se gli piacevate?
Gareth: Non ricordo esattamente se disse qualcosa su di noi, ma se sei nel backstage di un altro gruppo a bere il loro latte di cocco devi per forza essere gentile. Quindi non mi sarei fidato troppo di qualsiasi complimento avrebbe potuto farci.

Ho riletto un po' di recensioni di Hello Sadness e molte dicevano che era uno dei vostri album migliori, ma che era arrivato in un periodo in cui l'indie stava iniziando a perdere il suo fascino. Che ne pensate?
Tom: 
Per come la vedo io, Romance Is Boring era una sorta di bordello massimalista in cui avevamo provato a sperimentare con un sacco di stili diversi, forse anche troppo in certi momenti, togliendoci quindi un bisogno che sentivamo profondamente. Hello Sadness era un tentativo di ottimizzare ogni cosa. Stavamo cercando di trovare un modo per far sembrare sofisticata la convenzionalità, ma alla fine il risultato è stato un po' spento, a tratti. 

Gareth: Sono d'accordo sul fatto che fosse un tentativo di fare qualcosa di più adulto. È il nostro album che parla più esplicitamente della fine di una relazione e ci va giù pesante—anche troppo pesante, a riascoltarlo adesso. Ma era tutto quello che riuscivo a scrivere, in quel periodo. Non è stato un errore pubblicarlo così com'è perché non potrebbe essere stato diverso. Ci sono un sacco di pezzi che adoro—"By Your Hand", "Hello Sadness", "Baby I Got the Death Rattle" è ancora una delle mie preferite. Ma penso che l'errore sia stato non inserire nell'album alcuni pezzi che avevamo scritto.

C'è un pezzo, "Tiptoe Through the True Bits", che abbiamo messo in free download qualche tempo dopo, che penso sia davvero bello, e un altro, "Allez Les Blues", che abbiamo messo su un sette pollici. Togliendo un paio di pezzi dal disco e mettendoci quelle due sarebbe un album diverso, un po' più bello. Io mi sentivo troppo sconfitto e giù di morale. La sezione centrale del disco, in particolare, arranca un po' troppo. Siamo sempre stati bravi a scrivere pezzi veloci e pezzi lenti, se scriviamo qualcosa a velocità media facciamo fatica a esserne contenti... "Life Is a Long Time" è il pezzo centrale di quell'album, ed è uno dei nostri pezzi preferiti di Rob, e le canzoni dei Los Campesinos! preferite di Rob sono sempre indubbiamente le peggiori. 

4. Hold On Now, Youngster… (2008)

Parliamo della parola "twee". Non ha senso, o no?
Gareth: Probabilmente sto per riscrivere un attimo la storia in modo da sembrare leggermente meno odioso, ma: abbiamo registrato quattro pezzi, abbiamo fatto un demo, l'abbiamo caricato su internet, la gente si è presa bene e ci sono arrivate delle offerte per registrare un album. Improvvisamente avevamo una sorta di seguito, senza aver fatto poi molto per ottenerlo. Erano gli anni del boom di Myspace—e credo che ad oggi non sia più esistita una piattaforma altrettanto efficace per permettere ai gruppi di lanciarsi—e ci sono volute solo un paio di persone a dire "sono una band twee pop" perché io dicessi, "Sì! Certo!", perché mi sembrava bello già solo il fatto che qualcuno avesse un'opinione su di noi. Poi credo di essermi convinto troppo della cosa, a un certo punto. Non mi piace dirlo, ma se non lo dicessi si noterebbe la sua assenza: un pezzo come "International Tweexcore Underground", che è orrendo, e voleva essere sarcastico, ma ha un certo punto ha smesso di esserlo... Siamo stati noi a lasciare che ci venisse appiccicata l'etichetta "twee". Non sono sicuro sia mai stata giusta per noi, ma è stata una categorizzazione che ha fatto il nostro gioco... e insomma, è andata bene così. 

Tom: Quando abbiamo cominciato sembrava che il rock stesse tornando ad essere il genere più rivoluzionario di tutti, e noi volevamo quindi essere il meno maschi e machi possibili. L'obiettivo era quello, indipendentemente da qualsiasi definizione ci potevi attaccare. Ormai è passato così tanto tempo che non ci penso neanche più. Possiamo parlare di quello che eravamo, ma sono troppo vecchio per discutere di generi. 

Gareth
: Un tempo la parola "twee" mi dava fastidio, e ci sono un sacco di interviste che ho fatto che lo dimostrano, ma ora sono solamente grato del fatto che ci siano persone che parlano di noi. Resta che non è la parola adatta a descrivere i nostri album più recenti, è un'inaccuratezza. Sarebbe come dire che facciamo trance. 

È strano, no? Perché i vostri testi parlano di morte, disperazione e masturbazione, non esattamente tre argomenti "carini". 
Gareth: Sì. Ci sono alcuni testi di quegli anni in cui sto recitando la parte dello scrittore di testi twee. Quando la gente ha iniziato ad ascoltarci ho iniziato a fare caso alle aspettative che si erano create attorno a noi, e ho provato ad accontentarle per un certo periodo, anche magari solo di quattro, cinque mesi. Fortunatamente le parti peggiori di quel periodo non sono mai finite su disco, e sono molto felice che sia andata così. Ho scritto testi volutamente zuccherosi e pretenziosi, ma penso che sia un periodo finito ragionevolmente alla svelta, anche se molti potrebbero non essere d'accordo con me.

Come vi fa sentire ascoltare Hold On Now, Youngster… quasi dieci anni dopo che è uscito? Vi prende un po' male o avete solo bei ricordi di quelle canzoni?
Tom: Una volta che un pezzo è scritto per me è chiuso, almeno a livello emotivo. Suonarlo dal vivo o farci qualsiasi cosa in seguito è già una sorta di ricostruzione forzata di quelle emozioni. Tutto diventa nostalgia, una volta che è stato scritto. Ma sono grato che quell'album sia piaciuto. Mi piace che sia un po' imbarazzante, perché in fondo erano le uniche canzoni che avevamo scritto. Da lì in poi sapevamo che ci sarebbero state persone che avrebbero ascoltato quello che scrivevamo, ed è stato un po' quel passaggio che hanno i bambini dopo che si vedono per la prima volta in uno specchio: il loro modo di pensare cambia. Ogni pezzo è una fotografia del punto in cui ci trovavamo in quel momento. Non ho quasi più problemi con quelle canzoni. È come quando a diciotto anni guardi le foto di quando ne avevi quattordici e ti sembrano orribili, ma ora che ho trentadue anni posso guardare le foto del me adolescente senza impazzire di vergogna. 

Gareth: Sto guardando la tracklist ora e direi che ci sono solo tre o quattro pezzi che non mi piacciono veramente, ma devo dire che la mia voce era terribile. Cantavo come un'altra versione di me stesso, non come me stesso. Non credo che quello sia mai stato il mio "vero" cantato. 

Ho sentito una voce bastarda, lanciata da voi, che il testo di "You! Me! Dancing!" sia in realtà "It's poo! It's wee! And there's wanking!" ("È cacca! È pipì! E ci sono seghe!"). Confermate, per favore.

Gareth
: Probabilmente sono le parole che Neil ha cantato negli ultimi cinque anni.

Tom: Io e Neil abbiamo fatto un patto decidendo di cantarla così, è durato tipo quattro concerti e poi ha smesso di essere divertente. 

3. We Are Beautiful, We Are Doomed (2008)

Chiariamoci una volta per tutte: questo è un EP o un album?
Gareth: Lo abbiamo definito un EP per motivi contrattuali, così da poter pubblicare un altro album su Wichita. Volevamo fosse un EP, originalmente, e poi alla fine abbiamo scritto più canzoni di quello che pensavamo.

Tom
: Penso che sia ancora il discorso sul twee di prima, non sapevamo bene che cosa fosse. 

Gareth
: Ho fatto arrabbiare un sacco di gente, negli anni, continuando a insistere che fosse un EP. Ma ormai anch'io mi incazzo quando sento un fan di lunga data dire, 'In realtà è un EP', perché voglio poter dire 'la mia band ha pubblicato sei album', non 'la mia band ha pubblicato cinque album'. Ci fa sembrare in attività da più tempo! Ormai per me è un album. 

Tom
: È quasi un sollievo parlarne, perché mi sto rendendo conto che non mi importa di quello che la gente dice dei nostri album. È quasi una terapia, per me. 

Gareth: L'abbiamo registrato solo quattro mesi dopo l'uscita di Hold On Now, Youngster…, e in quel periodo volevo che la band passasse sotto riesame quasi immediatamente. Penso che  We Are Beautiful We Are Doomed sia palesemente "diverso". Ovviamente fa parte della stessa sfera musicale, ma credo che le nostre capacità, e la scrittura di Tom, si siano sviluppati piuttosto alla svelta dopo  Hold On Now, Youngster…

Tom: Avevo seriamente paura di non riuscire a scrivere più niente. E quella paura mi ha portato a scrivere il più possibile, e all'improvviso ci siamo trovati con un botto di canzoni pronte. 

Lo avete registrato con John Goodmanson, che ha lavorato con i Bikini Kill, i Death Cab for Cutie, le Sleater-Kinney... e da quella volta è diventato il vostro produttore di fiducia. Raccontatemi com'è lavorare con lui.

Gareth: Ha mixato anche Hold On Now, Youngster… perché ci rendemmo conto che i mix originali non stavano suonando come volevamo, quindi la Wichita ci diede l'opportunità di scegliere un produttore. E scegliemmo John perché aveva lavorato con le Sleater-Kinney, i Pavement, e aveva fatto il radio edit di  "Bandages" degli  Hot Hot Heat....

Ma va? 
Gareth: Per me la cosa più importante resta il fatto che l'abbiamo registrato dopo un tour degli Stati Uniti con i Parenthetical Girls, che sono una delle mie band preferite di sempre, ed ero felicissimo di poter passare tempo con loro. Mi sentivo piuttosto imbarazzato a suonare i pezzi di Hold On di fronte a loro. 

Imbarazzato dalle canzoni?
Gareth: Non dalle nostre canzoni, dal mio ruolo al loro interno. Dopo aver vissuto una cosa simile siamo entrati subito in studio e mi sono messo a scrivere nuovi testi, e loro erano una grande presenza. Siamo diventati amici, e sono diventati una grande influenza.

Quello stesso anno siete andati in tour con i No Age e i Times New Viking e avete suonato per la prima volta in Sud America. Possiamo dire che è grazie a quest'album se avete davvero iniziato a fare sul serio? 

Gareth
: Se devo essere onesto, penso che probabilmente abbiamo raggiunto il nostro picco di attenzione del pubblico con Hold On Now, Youngster…

Tom: È stata una discesa costante da allora, no? Ma in fondo abbiamo dovuto combattere per essere considerati credibili, poi abbiamo lasciato perdere, e ora è già solo bello il fatto che esistiamo. 

Gareth
: Penso che We Are Beautiful We Are Doomed ci abbia aiutati a riposizionarci, in base alle aspettative che c'erano su di noi. Ora che me lo ricordi, è stato strano essere stati gli headliner in tour con i No Age e i Times New Viking. Mi è sempre sembrato molto strano il modo in cui veniamo percepiti negli Stati Uniti, rispetto a quanto succede qua in Regno Unito. La stampa statunitense ci ha sempre considerati un gruppo molto britannico, mentre gli inglesi—e in particolare NME, a quei tempi—ci vedevamo come una band molto americana. Siamo in una sorta di strana terra di mezzo. Quel tour era stato molto divertente, e ci ha fatto molto bene essere circondati da band più rumorose di noi che hanno probabilmente contribuito a quello che siamo diventati dopo.

Tom
: Sì, sono stati un'influenza su Romance Is Boring. I Times New Viking avevano questi brevi pezzi pop super melodici e super rumorosi—ma anche raffinati, dato oltretutto che erano solo in tre. In pratica facevano quello che provavamo a fare noi, ma meglio. We Are Beautiful We Are Doomed è stato un album transitorio perché stato il primo disco in cui ci sentivamo a disagio. Era la prima volta che ci eravamo resi conto che cazzo, la gente avrebbe avuto un'opinione su di noi, e quindi dovevamo cominciare a pensare a come volevamo esser percepiti e a che musica volevamo fare prima di cominciare a scrivere altre canzoni. È stato davvero difficile. Ci sono sopra un minimo di avanzi di Hold On e un po' di altre cose che volevamo provare a fare, pezzi che avevamo semplificato. Non mi sembra uno dei nostri album migliori, tematicamente è quasi una compilation. È stato un po' messo assieme come è venuto.

Gareth: Una cosa che mi piace molto della nostra band è che non esiste una risposta standard alla domanda 'Qual è il tuo album dei Los Campesinos! preferito?' So che la maggior parte della gente risponderebbe 'Chi sono i Los Campesinos!?' o 'i Los Campesinos! mi fanno schifo', ma quando la fai a gente a cui piacciamo non ottieni mai sempre la stessa risposta. Un sacco di persone adorano Hello Sadness perché l'hanno usato come un oggetto terapeutico, per lasciarsi dietro una storia finita o altri momenti difficili. Probabilmente quello è stato il primo album in cui ho cominciato a parlar eesplicitamente di salute mentale e depressione, e so che a molti piace esattamente per quello. Ed è fantastico, ma è molto bello vedere che ogni volta che qualcuno fa una lista dei nostri album mettendoli in ordine di preferenza esce qualcosa di diverso. We Are Beautiful We Are Doomed è spesso il preferito di molti, però.

2. No Blues (2013)

Direi che questo è uno dei vostri album più ottimisti. Che ne dite?
Gareth: Sì, il che mi sembra strano dato che il motivo per cui non abbiamo messo No Blues in cima alla classifica è che in quel periodo stavamo tutti una merda. Mentre lo stavamo registrando la nostra etichetta stava perdendo interesse in noi, ci sembrava. 

Tom: Penso che avessero perso ogni interesse in noi. 

Gareth: Stavo provando a essere diplomatico. Non gli interessavamo più. E se sei in una band è bello avere qualcuno che fa il tifo per te, sia la tua etichetta o il tuo management, perché entri così tanto nelle canzoni che non puoi davvero renderti conto se sono belle o no. Dopo aver promosso No Blues abbiamo fatto, fai, dieci concerti al massimo. Per me è stata un'opportunità che abbiamo mancato. Abbiamo pubblicato solo due singoli, che non sono stati mandati alle radio. Continuavano a dirci che avrebbero organizzato un tour vero e proprio, ma poi non l'hanno mai fatto. Insomma, roba noiosa da industria musicale a cui puoi dare attenzione solo quando sei arrivato al tuo quinto album. 

Che cosa vi è piaciuto di quell'album, quindi?
Gareth: Stranamente, per me le registrazioni sono state il momento più bello. Siamo stati davvero fortunati a poter registrare in America, in Canada, abbiamo fatto Hello Sadness vicino a Barcellona, e poi siamo andati a Bethesda, nel Galles del Nord, per No Blues, e cazzo, è stata una figata. Stavamo in un cottage attaccato allo studio e ogni giorno uscivo di casa, andavo al Tesco Express, mi mettevo al pub, prendevo un paio di pinte e scrivevo. E poi tornavo a casa e il pomeriggio guardavo Tipping Point e The Chase [due programmi di quiz britannici, ndt]. Era la mia vita di tutti i giorni, ma con un motivo per bere di pomeriggio. Avevo smesso di fregarmene di quello che la gente pensava dei miei testi e scrivevo solo per me stesso. Mi sono permesso di essere tanto esoterico quanto volevo esserlo. Ma è stato un periodo rovinato dal fatto che non ce lo siamo goduti tanto quanto avremmo potuto. 

Tom: Per me quei pezzi non sono poi così rovinati da quello che hanno avuto attorno. Su No Blues funziona tutto molto bene; c'è una struttura narrativa. Normalmente, due mesi dopo che hai finito un disco ti viene da pensare 'cazzo, perché abbiamo fatto questo, perché non abbiamo fatto quello', ma per questo album non mi è successo. Non stavamo più provando a essere percepiti in un modo specifico, volevamo solo fare il disco che volevamo fare. 

1. Romance Is Boring (2010)

Perché pensate che questo sia il vostro album migliore?
Tom: Probabilmente è stato il nostro album più disagiato, e quello in cui abbiamo provato più duramente a dare tutto quello che potevamo fare. In gran parte era una reazione al fatto che venivamo definiti 'twee' e 'pop'—volevamo scrivere pezzi davvero aggressivi usando tempi strani. Non scriverei più canzoni come quelle, per come mi sento ora almeno, quindi quando le riascolto quasi non credo a quello che abbiamo fatto. È stato il disco su cui abbiamo passato più tempo. Ci sono un sacco di dettagli, è un disco molto complesso, è una sorta di indie-pop-prog o qualcosa di simile... Ci sono ancora un sacco di cose che mi piacciono, di Romance

Gareth
: Sì, ci abbiamo messo tre o quattro mesi a registrarlo, dall'inizio alla fine. È un album davvero denso a livello testuale, è pieno di parole, di riferimenti. È molto interconnesso. Mi piacciono gli album che funzionano a livello d'insieme, se parliamo di testi, piuttosto che a livello di singole canzoni, e Romance è uno di quegli album. Il primo singolo che pubblicammo fu "The Sea is a Good Place to Think of the Future", ed era la prima volta che facevamo un pezzo così lento e così emo. Quindi molte persone che non ci avevano considerato prima di allora hanno fatto un passo indietro e si sono chieste se in fondo potevamo piacergli. Lo metto in cima perché è stato il periodo in cui andavamo più spesso in tour, e mi sembra che in quegli anni siamo stati le versioni migliori di noi stessi. Ci sono un po' di pezzi che al tempo davamo per scontati e ora sono diventati dei pezzi di culto per i nostri fan.

Il suono dei Los Campesinos! è particolarmente "vostro". Per voi è difficile continuare a essere coerenti con voi stessi, dovendo al contempo fare cose interessanti e facendo attenzione a quello che succede a livello musicale? 

Tom
: Il nostro primo album era letteralmente quello che sapevamo fare, quello che è uscito—il suono è nato da quello. Chitarra, batteria, basso: era tutto quello che sapevamo suonare. La cosa più strana è che di punto in bianco diventa una carriera, e quindi devi scrivere un altro album, e chiederti perché lo stai facendo e come dovrebbe suonare. Ma noi non siamo mai stati "fighi", e penso sia un vantaggio. Non abbiamo mai dovuto preoccuparci delle mode. 

Qualsiasi cosa facciamo, che lo vogliamo o no, non è considerata commercialmente rilevante. Siamo outsider, lo siamo sempre stati, e forse è per questo che piacciamo alle persone a cui piacciamo. Ho sempre ammirato gruppi come i Pavement o gli Yo La Tengo: non hanno mai cambiato tanto il loro suono, e quando le tiri fuori tutti sanno esattamente come suonano, mentre oggi i gruppi cambiano genere quasi da album ad album. E quindi possono diluire le loro personalità. A me non dispiace avere un suono che ci definisce. 

Gareth: Io penso che Tom sia un genio e che possa fare quello che vuole, ma non sarebbero i Los Campesinos se lo facesse. È incredibilmente fuori luogo quello che sto per dire, ma per noi e per quelli a cui piacciamo davvero, i Los Campesinos! sono diventati qualcosa di più grande della somma delle loro parti, e non siamo nella posizione di poterli cambiare. Qualsiasi cosa facciamo "diventa" i Los Campesinos!, e provare a cambiarlo troppo significherebbe tradire la fiducia delle persone che hanno investito così tanto in noi. Le opportunità che i Los Campesinos! ci hanno dato, come persone e musicisti, sono infinite, e il rapporto che siamo riusciti a stringere con i ragazzi che vengono ai nostri concerti è travolgente. Quindi non mi sento davvero di poterlo controllare. 

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Noisey Mix: Kassett

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Kassett è Gavin Vanælst, belga, stanziato a Bruxelles ma originario di Antwerp, ed è l'autore dell'emo-mix di quest'oggi. Emo perché, come Gavin mi spiega, "non è un classico mix da dj, ma un tentativo di raccontare una storia. In questo mix c'è tanta musica di amici a me carissimi, e di persone che ammiro. La cosa più importante per me è l'emozione." Vista la tendenza generale a confezionare sempre qualcosa di iperballabile e d'impatto, questo non può che essere un ottimo inizio.

Assieme ai soci Doro e Samuelspaniel, Gavin ha fondato la label Midlife, che esattamente due settimane fa ha fatto uscire Sirocco, gioiellino firmato Samuelspaniel. L'ultimo suo lavoro, invece, è uscito lo scorso 5 gennaio su AMEN, label emergente viennese, si chiama Ocean Memory e riflette un po' il concept del mix, alternando beat in HD post-club, ad arpeggi e atmosfere alienoidi. Si tratta del suo quarto album dal 2014, e le precedenti release vedono come protagoniste la stessa Midlife e Drlrl Records.

La ricerca di Gavin non è solo sonora ma anche visiva/digitale, e difatti oltre a producer è anche visual artist—la splendida grafica di OM è opera sua. Il 2017 sarà un bell'anno per Midlife, e, come sottolinea in questa recente intervista il producer belga, sarà meglio tenerla d'occhio.

Sonia è su Twitter: @acideyes.

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A$AP Rocky ha remixato "Chanel" di Frank Ocean

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Anche se in Italia i programmi radiofonici dei grossi artisti americani non sono proprio il nostro primo pensiero, dovete sapere che Frank Ocean ne cura uno su Beats 1, la radio ufficiale di Apple. Si intitola Blonded ed è piuttosto strano: nel primo episodio, per esempio, Frank ha lasciato le redini della selezione ad altri DJ e non è comparso nemmeno per un attimo. Questa settimana, il programma consisteva in un nuovo pezzo, "Chanel", ripetuto dall'inizio alla fine per 18 volte.

In mezzo alle ripetizioni, però, c'era una piccola chicca. Più o meno dopo tre quarti d'ora è stata trasmessa una versione del pezzo con un verso di A$AP Rocky, che è stata ripetuta solo una volta nei restanti quindici minuti. Ma dato che siamo sull'internet e l'internet non dimentica, eccovi qua sotto la versione con Rocky. Il suo verso inizia attorno a 3:40.

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Oltre il sentimento: la canzone neomelodica di Anthony Ilardo e che cosa ci dice di Napoli oggi

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Secondo David Foster Wallace, la musica country scrausa—quella piena di sentimentalismi d'accatto—nasconde un lato esistenzialista da non trascurare. "La nostalgia, il romanticume, sono solo una patina [...]. Tutto il pathos e il sentimento che esprimono servono a parlare della mancanza di qualcosa di molto più basilare."

Ecco: in una certa misura posso dire che penso lo stesso della musica neomelodica napoletana. Tutto quell'immaginario fatto di relazioni fra pseudo analfabeti funzionali che si emozionano per un jeans attillato, fanno le penne con il booster davanti al seminterrato in usucapione in cui abita la minorenne per cui nutrono sentimenti stilnovisti, e si dannano per un amore interrotto da una condanna per reato contro il patrimonio, nasconde una trasmissione del malessere esistenziale molto diretta. Sono sentimenti e sensazioni intime piuttosto vaghe ma profonde, quelle cucite nelle trame dei testi neomelodici.

Per questo ho deciso di intraprendere un percorso interpretativo attraverso le opere più rappresentative della musica neomelodica contemporanea, analizzando i lavori di vari artisti di questo genere.

Ho deciso di partire da Anthony—nome d'arte di Antonio Ilardo—diventato famoso a livello nazionale per aver accompagnato musicalmente il momento in cui Tonino Spiderman viene drammaticamente sparato nello stomaco da suo zio in Gomorra.

E vorrei iniziare proprio da questo brano, "E Chiammalo", per farvi capire di cosa sto parlando. L'ho ascoltato molte volte, e devo dire che anche mentre sto scrivendo non sono riuscito a inquadrare perfettamente il plot narrativo che vorrebbe presentare. Non si capisce bene se a parlare è un amante che suggerisce alla tizia che si scopa di chiamare il fidanzato per fare pace, se al contrario è una specie di proto-cuckold che spinge la propria donna a chiamare l'amante, o se è semplicemente il racconto in terza voce di una violenza domestica fra fidanzati fedifraghi.

E chiammalo sta vot faccio ij o nummer
Appicecat è inutile
Pecchè già saje ca te ven a cercà
Lui ama te
E pure tu ce tien
Si legge nei tuoi occhi
ca tu nun te fir e stà

Nonostante questa confusione, però, il sottobosco di emozioni che trasmette è piuttosto chiaro: questa dicotomia fra attrazione e repulsione, emancipazione e attaccamento, orgoglio e rimorso che tutti hanno sperimentato nella vita. È perfetta per sottolineare la scena in cui il nipote insolente viene ucciso dalla stesso uomo che probabilmente gli aveva regalato Emilio Il Meglio per la comunione.

Anthony è una specie di Mastour della musica melodica napoletana: classe 1989, il suo primo album—E Guagliuncelle—è uscito nel 2003, quando aveva 14 anni, tanto che a inizio carriera era noto come Piccolo Anthony. Si è presentato mettendo in apertura una cover di O'Sarracino di Carosone: una scelta che a posteriori non sembra casuale, perché il leitmotiv di Anthony—a differenza di autori come Alessio, che fanno della propria figura l'unico motivo di attrazione—è sempre stato quello di rappresentare idealmente uno dei classici figli di Napoli. Di nascondere il proprio talento narrativo dietro una certa iconografia.

E non solo per i capelli piastrati e le maglie a righe zigrinate, che raccontano di pomeriggi passati nei baretti di Chiaia o di trasferte a Riccione d'estate con le Bikkembergs false per concupire delle vrenzole senza freni inibitori alla Villa delle Rose, ma per una narrazione piuttosto classica che lo ha accompagnato nei suoi testi. Che però lascia spazio a tutto il repertorio espressivo neomelodico.

Prendiamo ad esempio il brano "Nu Pate Carcerato", tratto dall'album L'Oroscopo del Cuore: è un pezzo classico del panorama neomelodico, che racconta la tragicità di avere dei parenti di varia natura al gabbio. Quasi banale. Ma è proprio la stereotipia narrativa che rivela tutta un'altra serie di sentimenti da comunicare. In questo caso, il senso di abbandono che si prova quando ci si sente messi da parte da coloro di cui ci fidavamo. Questo vuoto di vicinanza, solitudine esistenziale, e mancanza del senso di amicizia che trasmette la strofa:

Tu nun te a preoccupà papà
Nun te putess abbandunà
Comm hann fatt già e cumpagn
Ca tu creriv frat a te

In qualche modo segue il "principio dell'iceberg" di Hemingway: i tre quarti della narrazione sono sempre sommersi. Noi ascoltiamo il lamento del figlio che ha il padre in carcere, ma il focus del pathos è rivolto verso quest'uomo, che è stato abbandonato dai suoi amici. E noi la vediamo quella rapina con pistola scaccia-cani alla SNAI finita male, con qualche infame che se l'è cantata. La vediamo.

Anthony è un esempio perfetto per descrivere la proprietà commutativa dei testi neomelodici tradizionali. Quasi un classico del settore: la sua carriera, partita così presto, si è impregnata di questa capacità di evocare sentimenti complessi tramite immagini retoriche banali.

Ma vediamo un attimo come è costruita questo quarto di iceberg di banalità. Analizziamo adesso la struttura del testo del pezzo "Esplosione d'Amore". C'è tutto il repertorio retorico dei rapporti romantici della musica neomelodica: una stanza d'hotel affittata per consumare la passione, i vestiti di lei che cadono "come per magia", la trasmissione sensoriale basata sul merletto linguistico—"sient forti i tuoi respiri mentre esplodi dentro me", la tenerezza ostentata—"lasc stà o' trucc, si' bell già accussì"—il tradimento come espediente per indicare una libido incontenibile—"nun ce l'andare a raccuntà, a chill che nu' sape che stai 'cca". È un pezzo reperibile in qualsiasi altra discografia neomelodica.

Ragazze con i capelli frisè e le zeppe sportive da velociraptor, guaglioni "malamente" di quartiere in canottiera con l'ascella commossa e il cuore appassionato che subiscono i giudizi della comunità, suocere ipertiroidee che si oppongono a relazioni nate nel rione, finti invalidi che si struggono d'amore: c'è tutto un sostrato immaginario che le canzoni di Anthony evocano senza nominare mai, che fa parte di uno stereotipo regionale e cittadino. E lo fanno in modo talmente tradizionale, da risultare incisivo.

E poi c'è la cifra stilistica: quel vibrato lamentoso da muezzin che ha reso celebre il cantato di autori come Mario Merola. Una tecnica che Anthony ha seguito in molti brani all'inizio della sua carriera.

Insomma: Anthony è riuscito a trasportare nella contemporaneità tutti i topoi narrativi e stilistici del classico neomelodico. Sfrutta le componenti più conosciute, per rinnovare i messaggi che trasmettono.

Il suo ultimo album, N'ata parte 'e me, è uscito lo scorso febbraio. E mantiene tutta questa tradizione. Brani come "Nu Grammo E Core", "Te Vase e Te 'Mroglia", "Almeno Ce Staje Tu" si inseriscono tutti nella cornice che ho cercato di sintetizzare. 

Si può dire, insomma, che Anthony abbia fatto sua la lezione delle tre R di Mark E. Smith: Repetition, Repetition, Repetition. Ed è questa la sua forza.

Foto via Facebook.

Niccolò scrive per VICE e ora ha finalmente realizzato il sogno di una rubrica tutta sua su Noisey. Congratulati con lui su Twitter: @NCarradori.
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Buon compleanno Macro Beats

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Questo giovedì al Biko di Milano si festeggia il decimo compleanno di Macro Beats, la label di Macro Marco, che per l'occasione riunirà sul palco tutto il roster dei suoi artisti.

Nel corso degli anni Macro Beats si è sempre dimostrata una delle realtà con più a cuore le  regole non scritte del sacro gioco dell'hip hop e ha lanciato una serie di artisti che va da Ghemon e Mecna per arrivare a Davide Shorty.

Per avere una piccola panoramica sull'evento (dettagli qui) abbiamo fatto una breve chiacchierata proprio con Macro Marco, che mentre girovagava per l'Europa ha deciso di darci in esclusiva un dubplate inedito per i 10 anni di Macro Beats su cui figurano Ice One (che ha ripreso il beat di "Quelli che benpensano") e Don Diego.

Noisey: Da cosa nasce l'esigenza di mettere insieme un contenuto così?
Macro Marco: In realtà l'idea del dubplate è una cosa che viene dal mondo del reggae e che mi sembrava figo e molto personale riportare nel mondo del rap. Diciamo che l'unione di questi due mondi, che mi rappresentano di più, è una bella formula e mi sembrava figo portarla avanti. Tra l'altro è un discorso che si ripresenterà durante i set delle varie varie feste che faremo in giro per l'Italia.

Com'è trovarsi a festeggiare il decennale della propria creatura?
Ci sono due sentimenti contrastanti: da un lato c'è l'invecchiare che fa sempre paura e ci si ritrova, un po' spaesati, a pensare che effettivamente il tempo è volato, anche se è un po' un luogo comune. Dall'altra c'è il peso della mole di dischi che sono stati fatti in questi dieci anni che mi riportano alla realtà e mi fanno pensare che sì, è passato un sacco di tempo, però abbiamo fatto tante cose fighe.

C'è più nostalgia o voglia di proseguire nella direzione segnata?
Nostalgia in realtà poca, anche se a guardare indietro ce n'è sempre un po', specialmente legata a periodi e momenti particolare. Più che nostalgia direi che c'è un po' di boria, di orgoglio, legato a ciò che è stato fatto: un percorso importantissimo per me e per gli artisti della label. Non vedo questi dieci anni come un punto di arrivo, ma più come un punto di ripartenza verso il futuro, sperando di poter continuare a fare la musica come l'abbiamo fatta fino ad ora: cioè senza badare troppo alle dinamiche discografiche, anche se suona strano detto da un discografico.

Se tu dovessi scegliere un momento, senza badare troppo alla nostalgia, che racconti meglio degli altri questi dieci anni, quale sarebbe?
Forse l'uscita da un trittico di dischi che sono E poi all'improvviso impazzireIl tempo necessario e Disco inverno, rispettivamente di Ghemon, Kiave e Mecna. Oltre a essere dei prodotti riusciti, è stato bello poter tirare fuori i dischi delle persone che avevano creduto da subito nel progetto. È stato un momento cruciale, perché è stato bello poter mettere i loro nomi sulla mappa in maniera abbastanza definitiva. Penso che quello ci abbia dato un po' lo slancio che ci ha fatto credere di poter fare questa cosa seriamente.

Foto via Facebook.

Partecipa alla festa di Macro Beats giovedì 16 marzo all'arci Biko di Milano.

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Questo artista russo ha costruito un sintetizzatore alimentato a sangue

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Ok, forse abbiamo trovato il synth più incredibile del mondo. 

L'artista russo Dmitriy Morozov (aka ::vtol::) ha costruito uno strumento simile a un sintetizzatore, che però funziona a sangue. Sì, sangue. Quello del suo creatore, nello specifico. 

Secondo un articolo comparso su Billboard, Morozov avrebbe prelevato da se stesso 4,5 litri di sangue, poi l'avrebbe diluito con acqua distillata, glucosio, citrato di sodio e altre sostanze per dare corrente allo strumento. Il sangue è conservato in contenitori-batteria che riproducono "gli esperimenti elettrici del XIX secolo".  

Morozov ha presentato lo strumento con un lancio ufficiale nella galleria d'arte Kapelica, in Slovenia, lo scorso dicembre. Durante la presentazione, Morozov ha prelevato altri 2,5 litri di sangue per alimentare la corrente diretta che, secondo le testimonianze, ha alimentato lo strumento per ben otto ore. 

Secondo Billboard, Morozov ha dichiarato che questa creazione deriva dal suo "desiderio di creare uno strumento ibrido tecno-biologico... [che sia], in tutto e per tutto, me, che usi la mia vitalità per creare suoni elettronici".

Questa non è la prima volta che Morozov mescola tecnologia, biologia e strumenti musicali. Nel 2015 l'artista aveva creato musica ambient utilizzando le radiazioni.

Guarda un video del sintetizzatore di Morozov qua sotto.

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Either/Or di Elliott Smith non è mai stato solo una mazzata deprimente

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Elliott Smith registrò "King's Crossing" verso la fine del 2003, ma erano già quattro anni che la suonava dal vivo. Però fu solo nei suoi ultimi mesi, caratterizzati da una serie di concerti che riuscivano a essere ugualmente trascendenti come dolorosi in base al suo stato di salute, che la sua sorellastra, Ashley Welch, e la sua ragazza, Jennifer Chiba, cominciarono a rispondere alle sue parole. Alla fine del secondo ritornello del pezzo, Smith se ne esce con un verso devastante: "Datemi anche solo una buona ragione per non farlo." E la Welch e la Chiba rispondevano: "Perché ti vogliamo bene!" 

Ci sono video e bootleg di quelle performance, con Smith che canta il verso e le due voci femminili che provengono da fuori l'inquadratura, come se stessero forando una sorta di rumore bianco. Ce n'è uno che continuo a guardare, quello registrato il 31 gennaio 2003 all'Henry Fonda Theatre di Los Angeles. "King's Crossing" fu la prima canzone che Smith suonò quella sera. Balbettava e biascicava le parole con un senso del ritmo traballante, faticava a tenere ferma la mano mentre suonava—un ingranaggio rovinato a grippare una macchina complessa.

E poi, l'urlo: "Perché ti vogliamo bene!"

"King's Crossing" fu l'ultimo pezzo che Smith registrò, il 12 ottobre 2003. Nel suo pezzo essenziale sugli ultimi giorni del cantautore, Liam Gowing scrive di quella sessione ai New Monkey Studios. Smith registrò la sua parte vocale e poi chiese a Chiba di registrare il suo verso: "Perché ti voglio bene." Glielo chiese spontaneamente, lì sul momento. Nove giorni dopo, confuso dai narcotici che aveva ricominciato a prendere, dalla sua dieta e dalle medicine che gli erano state prescritte, Smith si suicidò. Era a casa sua, a Los Angeles, e la causa del suicidio fu il ritorno di quello che sembrava essere un trauma legato alla sua infanzia. 

"King's Crossing" comparve su From a Basement on a Hill, il suo album postumo. Era il brano centrale del disco, ed era terrificante: cominciava con una serie di voci ululanti che lasciavano poi spazio a un valzer funebre, mentre il testo raccontava di insulti rivolti al protagonista del pezzo da parte di Babbi Natale scheletrici e marionette inquietanti. Quando finalmente compare, la voce di Chiba è così bassa nel mix che l'unico modo per sentirla è mettersi un paio di buone cuffie e alzare il volume al massimo. A meno che ci proviate davvero a far caso, sentirete solo la voce di Smith rispondersi da sola: "Allora dai, fallo." 

Tutto questo è diventato parte del mito di Smith. La maggior parte dei suoi necrologi contenevano anche quella richiesta d'aiuto, in tutta la sua rassegnazione; la ricerca di un motivo per restare al mondo, e l'assenza di una risposta. Qualche settimane dopo la sua morte, Ted Leo parlò con Jon Dolan di SPIN dell'accaduto. "Molti dicono che è una merda, ma che ce lo si aspettava." Elliott Smith, che aveva chiesto retoricamente un motivo per non uccidersi ma stava pensando di farlo seriamente, l'aveva finalmente fatto. Ma per Leo non era tutto così semplice: "Come fa un suicidio a essere inevitabile? Pugnalarsi il cazzo di cuore non è inevitabile," disse. 

Venerdì 10 marzo la Kill Rock Stars ha pubblicato un'edizione rimasterizzata e lievemente espansa del terzo album di Smith, Either/Or. La ristampa in sé non rivela niente di nuovo. Ha dentro qualche decente versione dal vivo e una manciata di take alternative—tra cui l'unica essenziale è "I Figured You Out", scritta in un periodo in cui Smith era fissato con i Big Star e eventualmente regalata a Mary Lou Lord. Negli ultimi anni, poi, non sono mancate collezioni che sono ben riuscite a omaggiare lo Smith meno istituzionale: New Moon, pubblicato nel 2007, un'interessante raccolta di rarità; la colonna sonora di Heaven Adores You, che aveva un'aura biografica, leggermente inquietante nella sua intimità; e Alternative Versions for Either/Or, uscito nel 2012, che conteneva una versione sorprendentemente spoglia di "Angeles" e una "Alameda" particolarmente tormentosa. 

E nonostante questo, a vent'anni dall'improbabile ascesa di Smith al mainstream—fu proprio Either/Or a convincere Gus Van Sant a ingaggiare Smith per Will Hunting, Genio Ribelle—questa ristampa è un promemoria essenziale della sua speranza inespressa. Sotto alla malinconia, Smith stava combattendo con il suo passato con gli occhi rivolti al futuro. Either/Or non fu solo una pietra miliare dell'inevitabile marcia di Smith verso una morte prematura. Fu il momento in cui, sia in quanto musicista che essere umano, riuscì ad accettare il suo potenziale. Dopo quell'album, Smith non sarebbe mai più riuscito a scrivere nulla che potesse anche lontanamente avvicinarsi, a livello tematico, alle parole che la Chiba cantava, sommersa dal rumore, in "King's Crossing.

Prima di ogni altra cosa, Either/Or parla di dolore. "Speed Trials" è un sussurro sofferto, essenzialmente un tributo alla futilità: un pezzo che parla di quella che sembra essere una corsa ma è in realtà stasi. "La presa elettrica non è uno shock abbastanza forte," canta Smith, provando a scuotersi via dall'inerzia che lo domina. Tutto quello che riesce a fare è uscirsene con un "piccolo sorriso," tutto tranne che permanente. Le labbra tornano protagoniste in "No Name #5", sotto forma di un "dolce, dolce sorriso che sta per svanire del tutto." Non è solo la felicità a essere effimera, su Either/Or; Smith sembra pensare con gli stessi termini anche alla sua fisicità, alla possibilità delle sue azioni. "Ballad of Big Nothing" lo grida a chiare lettere: "Puoi fare quello che vuoi, quando vuoi / Puoi fare quello che vuoi quando non c'è nessuno che può fermarti." Insomma, che senso ha fare qualcosa? 

I temi fondamentali dell'album—l'indecisione, l'incuria, l'ironia soverchiante—sono presi in prestito, così come il titolo dell'opera, da Søren Kierkegaard. Il legame è così forte che qualcuno ha persino scritto un paper universitario sull'argomento. Un Aut-Aut (Either/Or, in inglese) è un dilemma a cui non è possibile sfuggire; quello del filosofo danese è, in fondo, una manifestazione dell'inevitabilità che pervade i pezzi di Smith. "Impiccati: te ne pentirai! Non impiccarti, te ne pentirai ancora. O che t'impicchi o che non t'impicchi, te ne pentirai in ogni caso," scrisse Kierkegaard. Nelle parole di Smith, "It doesn't mean a thing." Il rimpianto è una conseguenza inevitabile di ogni azione e ogni decisione, in Aut-Aut come in Either/Or

Se ci fermassimo a questo, Smith potrebbe passare per un esteta, un grande romantico, un Romeo brufoloso in un remake di Baz Luhrmann. Un pezzo brutalmente auto-lacerante come "Alameda" sembra confermarlo: nessuno gli ha spezzato il cuore, dice, è lui che se l'è rotto da solo. Ma Either/Or non soccombe a una simile semplificazione. "Between the Bars" ne è la prova: una canzone d'amore scritta al contrario, un racconto della sua relazione violenta con l'alcool che rivela quello che Smith crede essere il suo senso. 

Continua a bere, baby, resta sveglio tutta la notte
Con le cose che potresti fare, che non farai ma che forse farai,
Con quello che potresti diventare, la persona che non vedrai mai,
Con le promesse che farai, che resteranno promesse. 

Insomma, il sorriso sta svanendo, ma il potenziale continua a manifestarsi. "Il piacere delude, la possibilità non delude mai," scrisse Kierkegaard. "Between the Bars" è un pezzo completamente malinconico, a un primo ascolto—la bottiglia parla a Smith delle "persone che era" e che ora "non vuole più attorno." Ma non racconta un bere-per-dimenticare quanto un bere-come-rivoluzione-personale, un abbattimento selettivo delle personalità passate che Smith non riesce più a sopportare. L'alcool, almeno, le "terrà ferme."

Più di qualsiasi altro pezzo di Either/Or, "Between the Bars" coglie Smith in un momento specifico, sospeso nel tempo. Un attimo in cui sceglie di interrompere il suo passato grazie alla forza di volontà, e facendolo si rende conto di avere una possibilità. "Quello che potresti diventare, la persona che non vedrai mai," sono parole che potrebbero essere state pronunciate dall'esteta che parla nella prima metà dell'opera di Kierkegaard, e invece sono di uno Smith che smette di pensare alla permanenza del suo sorriso e comincia ad accettare la possibilità di un futuro imprecisato, e quindi a sperarci. Su "Either/Or"—la canzone, scartata dall'album ma pubblicata più di dieci anni dopo in New Moon—Smith canta proprio di questa sospensione temporale, accompagnato da un Hammond e da una melodia luminosa: 

A volte vengo rimbalzato dal passato,
A volte da un futuro che ho già vissuto.
Campione o rogna, aut-aut. 


Il futuro di Smith si sarebbe rivelato essere tragico. Smith cominciò a suonare "King's Crossing" dal vivo nel 1999, un paio d'anni dopo l'uscita di Either/Or e solo qualche mese prima che la sua esibizione agli Oscar lo facesse diventare qualcosa che non avrebbe mai immaginato di poter essere. Il potenziale si rivelò essere un terrificante atto finale, e nei suoi tre album successivi Smith se ne convinse sempre di più. Ma in Either/Or era il Travis di Paris, Texas: il suo film preferito. Proprio come lui, aveva faticato ad accettare il suo passato e a dimenticarsi delle sue identità passate; aveva provato ad aiutarsi con l'alcool e, in qualche modo, era finito a parlarsi allo specchio, ad aprirsi completamente sia a sé stesso che ai suoi ascoltatori. 

Alla fine di Either/Or, però, c'è il pezzo più caldo e adorabile mai scritto da Smith. "Say Yes" è un pezzo segnato dall'insicurezza e dall'angoscia, ma trova una forza immensa nella sua natura contraddittoria. No, Smith non ama una ragazza: ama "il mondo attraverso gli occhi di una ragazza"—perché il vero esteta non accetta di morire e basta. Il sorriso non vuole andarsene; lei "è ancora lì, il mattino dopo." È Travis, che se ne va dall'hotel con Ry Cooder in sottofondo, insicuro del suo prossimo passo ma coinvolto e rinvigorito dalle possibilità nascoste nell'incertezza. È l'esteta di Kierkegaard, è i suoi discorsi sulle virtù del potenziale. Proprio come faceva la frase seppellita nel mix di "King's Crossing", Smith si ricorda solo per un momento che niente è definitivo. 

Fotografia: Andy Willsher / Getty Images.
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Ascolta il mix di College e vinci quattro biglietti per Electro Weekend

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Electro Weekend è il festival elettronico del Mame Club di Padova giunto alla seconda edizione, e quest'anno gli ospiti promettono di farvi ballare con il diavolo. Infatti protagonisti della serata di venerdì 31 marzo saranno i goth americani Cold Cave e Drab Majesty, mentre sabato 1 aprile vedrà sul palco il duo anglo-berlinese Lebanon Hanover e, in chiusura, il producer synthwave francese David Grellier, al secolo College, famoso per il suo lavoro nella colonna sonora a forti tinte anni Ottanta del film Drive. 

Proprio Grellier ha selezionato e mixato per Noisey alcune hit che comunicano alla perfezione quel senso retrofuturistico tra l'euforia e l'inquietudine che è il suo marchio di fabbrica. Si va da Peter Gabriel a un frammento della colonna sonora di Twin Peaks, viaggiando nel tempo tra synthoni anni Ottanta e puro pop di domani. Sentite qua:

Ma il mix non è l'unico regalo: avete anche la possibilità di vincere ben quattro (4) (QUATTRO) abbonamenti per l'intero festival. Basterà scrivere una mail a festa@vice.com con oggetto FATEMI ANDARE ALL'ELECTRO WEEKEND entro venerdì 17 marzo. Lunedì 20 ci metteremo in contatto con i vincitori. 

Chi non fosse così fortunato da vincere i biglietti, può sempre acquistarli in prevendita qui

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Ascolta due freestyle inediti di Notorious B.I.G.

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La settimana scorsa, la comunità hip-hop ha celebrato la vita e la musica di Notorious B.I.G. nel ventesimo anniversario della sua morte. Diddy ha incoraggiato i suoi fan a mandargli i loro versi di Biggie preferiti e ha registrato un video-messaggio in suo onore; Hakeem Jeffries, membro del congresso di New York, lo ha onorato in un discorso in parlamento. Ora, il DJ inglese Tim Westwood si è unito alle celebrazioni con un piccolo grande regalo a tutti noi: dei versi di Biggie mai pubblicati prima, sotto forma di due freestyle.

Trovate il video qua sotto. Il primo freestyle è un botta e risposta con Craig Mack, ex rapper di casa Bad Boy, registrato nel 1995. Il secondo risale al tour promozionale che Biggie fece a Londra per promuovere il suo secondo album, Life After Death. E che dire, speriamo che Westwood apra più spesso il suo archivio di musica rap rarissima e fighissima un po' più spesso. 

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Hard Dik Dik

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L'ISOLA DI WIGHT è la trattoria legata a noi Dik Dik, e prende proprio il nome di un nostro intramontabile successo. È un piacevole locale nella più vicina periferia milanese, Buccinasco, in mezzo al verde della campagna, dove poter trascorrere una divertente e rilassante serata che comprende una buona cena e tantissima musica. Molte volte anche insieme a noi.

Questo agghiacciante spot direttamente dall'inferno della ristorazione di provincia era la prima cosa che si leggeva aprendo il sito ufficiale dei Dik Dik fino a qualche tempo fa. Oggi, invece, campeggia più opportunamente una celebrazione del loro cinquantesimo anniversario, forse per restare in scia agli eterni rivali Pooh. Il sospetto viene, perché in realtà il gruppo debutta nel 1965. 

La differenza è che i Dik Dik, forse in virtù della loro scialuppa di salvataggio a forma di ristorante, non hanno evidentemente le ambizioni da cofanetto ultralusso dei quattro orsacchiotti e ripiegano su un album-polpettone con rifacimenti e ospiti come Elio e le Storie Tese, Zampaglione e via dicendo, non brillando certo per originalità. Ma siccome tale raccoltone è uscito i primi di dicembre e pare che nessuno se lo sia cagato, facciamo giustizia e continuiamo i festeggiamenti (tanto abbiamo già due anni di ritardo, che sarà mai) riproponendo un articolo che scrissi nel lontano 2014 sulla band, oggi sparito dalla rete, un po' come loro. Perché anche stavolta si ricordi quello che poteva essere e che, ancora oggi, non è.

La storia dei Dik Dik potrebbe essere una perfetta sintesi del percorso culturale delle sottoculture giovanili italiane: da capelloni in preda a schitarrate forsennate e "fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire" al verde della campagna, buone cene, momenti di relax per dimenticare lo stress quotidiano da liberi professionisti annoiati. Insomma, un epitaffio dei favolosi anni sessanta. Vero è che i Dik Dik non sono mai stati identificati come un gruppo di ribelli in cerca di un mondo diverso (sfido, entrarono nel magico circo del pop dalla porta principale, ottenendo un'audizione grazie alla raccomandazione di un tale cardinal Montini, noto al grande pubblico come il futuro papa Paolo VI), ma nel loro seno cova una trasversalità a volte sottintesa, poco sottolineata dal giornalismo musicale. Il quale invece, ahimè, da sempre tende ad associarli a gruppi easy listening tipo i Collage e compagnia cantante. 

Lo spirito di questa rubrica però ci spinge a fare luce su una band che è stata la cartina al tornasole dei costumi del nostro paese, anche e soprattutto nei suoi flop commerciali. Per chi li conoscesse solo come degli anziani in giubbotto di pelle e chitarra acustica senza cavo che cantano in televisione il classico "Sognando la California" (cover dei Mamas and Papas) per qualche trasmissione amarcord, è importante puntualizzare che i Dik Dik (nome di un'antilope africana) sono stati il primo gruppo per cui Battisti abbia mai scritto qualcosa (il retro "Se rimani con me", quando Mogol era ancora lontano) e probabilmente una delle sue prime backing band in assoluto. 

Non del tutto beat, non del tutto pop e soprattutto non del tutto originali (quasi tutti i loro più grandi successi sono, infatti, cover di gruppi stranieri, come da tradizione italiana dei Sixties, oppure scritti dalla premiata ditta Mogol-Battisti), nei primi anni Settanta svoltano drasticamente verso l'ibridazione con formati canzone sperimentali, tanto che arriveranno a farsi addirittura padrini del punk/hard rock italiano. Dite che è impossibile? Seguiteci con attenzione.

Negli anni Settanta hanno un exploit magistrale col brano dedicato al celebre festival dell'isola di Wight, un'altra cover che ha, se non altro, il merito di essere divulgativa del movimento hippie, movimento del quale il leader e chitarrista Pietruccio si sente ancora parte, nonostante i capelli corti. La cosa buffa è però che nessuno nella band, tantomeno Mogol, autore dell'adattamento, è stato al festival, così come nessuno di loro, pare, all'epoca fosse stato in California. La massa non ci fa caso e continua a comprare i loro singoli, ma dal '65 al '72 non c'è ancora traccia di un album, se si escludono raccolte di 45 giri con qualche inedito. Il fatto è spiegabile con un'astuta quanto logica idea di base, cioè andare sul sicuro: ma le ambizioni dei Dik Dik sono un po' diverse.

Frequentando infatti il laboratorio Battistiano era difficile—se non impossibile—rimanere fuori dal prog rock, che ad esempio i Formula 3 toccavano con mano sapiente proprio nel '71. I Dik Dik, quindi, l'anno dopo, provano a tirare fuori un disco dalle sonorità nuove, sulfuree, con ampio uso di synth e un concept su un viaggio nel corpo di una donna. È Suite Per Una Donna Assolutamente Relativa. I testi, deliranti, sono di Herbert Pagani, uno dei terroristi della canzone italiana. L'album è veramente indigeribile sul piano commerciale, ma interessante su quello dell'ibridazione col pop. Sembra quasi più vicino alla new wave che alle sonorità beat del passato, grazie anche all'aiuto di Natale Massara, autore nel '71 di un disco di libraries pieno di rumoracci e noise chitarristico proto-Sonic Youth chiamato Politica. Ecco perché il prodotto non avrà alcun riscontro di pubblico e la critica storcerà il naso. 

A questo punto sarebbe stato bene perseverare, ma i nostri temono di perdere la terra sotto i piedi ed eccoli sfornare un nuovo rassicurante singolo, "Viaggio di un poeta", che li rimette in piedi a livello commerciale. Non che i nostri fossero lontani da pruriti sperimentali anche prima: ricordiamo, infatti, nel '69 un paio di pezzi singolarissimi, ispirati sicuramente dalle sperimentazioni underground di Oltremanica. "Paura", lato B di "Vendo Casa", ne è un esempio: un hard rock plumbeo con un ammasso di sintetizzatori random stile Brian Jones di Their Satanic Majesties Request e testi fra il paranoico e il divertito. Oppure "Sheila", un ballatone in odor di Stelle di Mario Schifano che probabilmente narra di una disavventura del leader Pietruccio, che è lui stesso a confessare candidamente in un'intervista: "A fine anni '60 ho vissuto per un anno su un camper, da solo, depresso per essere stato mollato da una fidanzata. Un giorno ho incontrato un tizio che mi ha fatto provare una droga psichedelica, l'LSD. Ho guidato da Milano a Bologna e mi sembrava di pilotare un aereo". 

Vero è che proprio nel '65 furono convocati da Fellini, un altro avvezzo alle allucinazioni, e affiancati a Stelvio Cipriani per la colonna sonora di Giulietta degli Spiriti. Dalle session uscì un brano, "Belfagor", che non fu utilizzato a causa della scena relativa, troppo spinta per passare la censura.

Logico quindi che i Dik Dik puntassero ad allargare lo stato di coscienza della propria musica. Se i pezzi proposti al grande pubblico rimangono orecchiabili, è vero però che lati B e collaboratori di volta in volta coinvolti tentano di percorrere strade diverse dall'usuale. Nel gruppo subentra infatti Roberto Carlotto, meglio conosciuto come Hunka Munka, mago dell'elettronica e per vari anni al servizio di band prog rock inglesi: il nuovo arrivo odora di sperimentazione, pop malato e di collaborazioni con Ivan Graziani (presente nell'album d'esordio del tastierista, vera perla del genere in Italia), ma nella sua vocalità c'è anche qualcosa che ricorda il cantato di Lallo, la voce solista simbolo dei Dik Dik. Eccolo quindi portare il suo sgranato suono di Hammond a livelli parossistici nel singolo "Piccola mia" del 1973, che vede in formazione anche il batterista dei seminali The Trip, prima addirittura negli Osage Tribe di Battiato. Cucciolo—questo il suo alias—ricorda il passaggio alla nuova band come una mossa scomoda: "In effetti io personalmente riscontrai qualche contestazione allorché entrai nei Dik Dik come batterista, finita l'esperienza con gli Osage. Mi dicevano che ero un traditore, che andavo a suonare delle porcherie. Il binomio musica/politica è stato disastroso, perché in quell'epoca la politica ha portato solo dei casini". 

I Dik Dik tentano quindi pochi ma efficaci innesti di underground in territorio ultraleggero, facendo incazzare un po' tutti. Sono quasi una specie di asilo pop per musicisti dal passato radicale, come se tenessero dei terroristi in casa proteggendoli dalla polizia. Ma nulla avrebbe potuto far pensare alla svolta punk. Il giro di boa è dato in questo caso dall'ingresso di un nuovo tastierista e di un nuovo chitarrista: anche stavolta entrambi vengono dal prog, ma da quello duro. Il tastierista Joe Vescovi sempre dai celebri The Trip, e Roby Facini dagli Acqua Fragile, in cui era anche (tanto per cambiare) passato anche Vescovi. Quest'ultimo aveva anche rischiato l'ingaggio nei Rainbow di Richie Blackmore, come racconta in un'intervista a Filippo Casaccia: "[A Blackmore] piaceva il mio modo di suonare, ma per lui non ero abbastanza hard. È stato proprio quello a farmi diventare più hard, solo che poi non ero con una rock band ma con i Dik Dik". Come dire, dai Dik Dik ai Night Fudge il passo è breve. 

Siamo nel '78 e i nostri si prendono delle libertà: il lato B del singolo "Strani fili" è una cavalcata glam hard rock di Vescovi, strumentale e massiccia, mentre il lato B del singolo "Vuoto a rendere" dell'80 ("Mamamadama") è nientepopodimeno che un brano contro le forze dell'ordine firmato da—udite udite—un insospettabile Giorgio Faletti, prima dell'exploit paraculo/sanremese/destrorso di "Minchia, signor tenente" e prima di diventare romanziere a tempo pieno. 

"La marcia in più è sempre nella struttura armonica: tre accordi". Non sono i Ramones a parlare, ma Petruccio: dal beat siamo nel punk. L'etichetta è la prestigiosa Ariston. Sulla copertina del 45 i Dik Dik sembrano dei barboni schifosi che non si lavano da giorni, con le facce dure. Vanno in tour con Umberto Tozzi in Sudamerica e—a dispetto di tutto e di tutti—il loro opening sembra un misto fra i Thin Lizzy e i Kiss, con tanto di mega assolazzi fregati ad Ace Frelhey, magliette stracciate e fomento post pippata. Insomma, pare proprio che i Dik Dik siano impazziti. 

Puntuali arrivano le accuse di cavalcare una moda, ma in questo caso sono da rispedire al mittente, considerando che sono i padrini—ancora una volta dopo la famosa "Isola di Wight"—dello sdoganamento di una sottocultura in campo mainstream. Infatti tutti i brani del primo disco dei Decibel di Enrico Ruggeri, chiamato per comodità Punk, sono firmati da loro; non perché ne siano effettivamente gli autori, ma perché Ruggeri e co. non sono ancora iscritti alla Siae. Non contenti, sono proprio i Dik Dik in persona ad affidarli al produttore Sandro Colombini per il lancio definitivo, poiché alle sue spalle come fantomatico "musical supervisor" c'è proprio Joe Vescovi. 

Del resto, prestare il proprio nome a questi brani controversissimi (ricordiamo "Col Dito" contro le femministe e "Papa rock", per ironia della sorte contro lo stesso simbolo di fede che aiutò i Dik Dik ad avere successo, brano prevedibilmente censurato) non è un gesto così inconsulto per loro: il retro di "Strani fili" di cui sopra—"Hard stuff"—infatti è stato scritto da Vescovi nel '76 in piena esplosione punk. Negli anni Ottanta, la vicinanza con i Decibel emerge anche dal singolo "Laser vivente", che li vede esibirsi con occhialoni alla Vibrators (o alla Ruggeri), testi sull'orlo del surreale e un Vescovi capellone che manco un deathmetallaro svedese, per un brano che si avvicina alle escursioni pop/wave della band milanese di "Vivo da re" (con tanto di citazione dei Supertramp di "The Logical Song" e degli Stranglers riveduti e corretti). 

A causa della casa discografica di turno, che non ha voglia di rischiare su una band dai successi così incostanti, i Dik Dik saranno costretti a limitarsi alla pratica dei singoli fino a diventare un terzetto: guarda caso con l'allontanamento degli elementi più disturbanti, ovvero Vescovi e Cucciolo. Il canto del cigno del gruppo fu uno spettacolo con Dario Fo, L'opera dello sghignazzo, per il quale i Dik Dik avrebbero interpretato brani con testi, guarda caso, adattati da Zappa, Patti Smith, Nina Hagen, David Bowie: il gruppo si spaccò rispetto alla linea da seguire e non si ricompose più. 

A questo punto la discesa negli inferi della musica "da sagra dell'anguilla in umido" sarà definitiva, con i membri restanti che scoprono nuove passioni—Pietruccio addirittura comincerà a scalare le vette più alte del mondo—e tramutano il marchio Dik Dik in una furbastra macchina per scucire soldi a nostalgici curiosi. Sono stati proprio questi ultimi, con la loro faciloneria, a uccidere definitivamente la portata punk della faccenda. "Mi viene da ridere quando sento dei favolosi anni '60", dice Cucciolo nel suo sito ufficiale. "Tutti i gruppi italiani di quegli anni non sapevano suonare, a parte i Ribelli e i Quelli. Quindi favolosi fino a un certo punto. Nei primi '70 invece c'era un'atmosfera strana, ma bellissima. E circa la droga, quando abitavo a Genova il massimo che ci capitava erano le canne, solo pochi si facevano di LSD e eroina. In ogni caso rimane per me un'esperienza bellissima, che ancora rimpiango". Parola di rocker. 

Ma le generazioni, si sa, cambiano: in futuro, una volta spariti i rimastini degli anni Sessanta, l'amarcord potrebbe partire proprio da lì. Da quei Dik Dik rinnegati, zozzi, ribelli finanche a se stessi.

Un grande grazie a Tim Small che mi ha permesso di riproporre questo scritto, originariamente apparso sulle pagine di L'Ultimo Uomo. Long live amicizia.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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Un'esplorazione del sito di musica nascosto del Corriere della Sera

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Come spesso mi capita, stamattina ho fatto delle ricerche su Google. Solitamente cerco argomenti interessanti e all'avanguardia in modo da essere costantemente aggiornato sullo stato del mondo—cose come hyperloop, come costruire un rifugio antiatomico e che cos'è la dark polo gang. Oggi però ho deciso di fare qualcosa di diverso, cioè leggere che cosa scrivono i grandi quotidiani italiani di musica. È una cosa che dovrei fare più spesso per essere come Manuel Agnelli e quindi restare vicino al paese reale, dato che tendo troppo spesso a trovare conforto dalle brutture del mondo nella mia bolla fatta di longform di The FADER, editoriali di The Quietus e grandi inchieste di Dagospia. Dopo una breve consultazione del settore "musica" di Repubblica ho cercato "corriere musica", e mi è comparsa di fronte la seguente pagina. 

E niente, mi sono sentito un po' come quando il grande archeologo Howard Carter aprì, nel 1923, la tomba di Tutankhamon scatenando una terribile, terribile maledizione. Avevo di fronte il sito di musica nascosto del Corriere della Sera, in tutto il suo splendore. Mi sono quindi armato di borraccia, retino per farfalle, scarpe comode, mi sono messo in tasca una barretta spaziale con cereali, mandorle e prugne e ho cominciato a esplorare.

Come ogni archeologo della rete che si rispetti, comincio la mia avventura cercando di capire a che periodo risalga la pagina che mi trovo di fronte. In fondo scopro la scritta "2010", anche se sono piuttosto sicuro che l'origine del sito sia decisamente più antica. Analizzo poi la proposizione con cui si apre la sezione. 

Sempre più spesso il «download» delle canzoni sui siti dei musicisti viene esteso a interi brani o addirittura a tutto il cd. Con vari mezzi che consentono l'ascolto sul sito, a volte anche con i video e in qualche caso anche con Mp3 da scaricare. Ecco le segnalazioni di Corriere.it per una colonna sonora da ascoltare sul vostro pc.

Desumo che qualcuno, nella redazione del Corriere della Sera, sia stato incaricato di scrivere queste parole. Penso al signor Franco, arzillo cinquantasettenne appassionato di musica, che cerca di spiegare al mondo questa diavoleria chiamata "download". È convinto che le canzoni si scarichino dai siti dei musicisti, nonostante l'iTunes store italiano fosse attivo dal 2004, e che sia possibile applicare lo scaricamento addirittura a tutto il cd. Poi si dimentica completamente la sintassi e, dopo un punto fermo, scrive Con vari mezzi che consentono l'ascolto sul sito, a volte anche con i video e in qualche caso anche con Mp3 da scaricare, che è una frase che non ha alcun senso per chiunque 1) ami la lingua italiana e 2) sia anche solo lontanamente vicino a concetti come "streaming" e/o "YouTube", entrambi già decisamente celebri nell'anno di nostro signore 2010. 

Ad ogni modo, passiamo alle segnalazioni di Corriere.it per una colonna sonora (di cosa? a cosa?) da ascoltare sul nostro pc. Chiunque sia stato responsabile di questa pagina ha ben pensato di inserire quelle che crede essere "le hit" in un jukebox, così che sia ben chiaro che stiamo per ascoltare musica, vera, come quando da giovane metteva la moneta nel mangiadischi e ballava con la Giovanna, la più bella del paese, sulle note di "Ti ricordi" di Pupo. Do quindi un morso alla mia barretta con cereali, mandorle e prugne e schiaccio sulla prima hit: "Thinking About You" di Norah Jones. 

Qualcosa sembra essere andato storto. Il jukebox mi ha portato al sito di Norah Jones, come promesso, ma non vedo—né, soprattutto, sento—alcuna hit. Vedo solo una pagina d'errore, nera come il livido che sta coprendo il mio cuore voglioso di pop e R&B. Chiudo il pop-up e ci riprovo, cliccando su "Goodnight Rose" di Ryan Adams. Sicuramente il Corriere non mi deluderà questa volta.

Refresho la pagina più e più volte, ma niente. Il grigiume di Chrome riempie il mio schermo e la mia anima. Sono sicuro che l'indirizzo DNS del server main.losthighwayrecords.com abbia contenuto un mp3 di Ryan Adams, in un passato remoto, ma inizio a temere che non sia più così. Tremando di paura, clicco sugli ultimi due link rimasti. Quello a "(You Want To) Make a Memory" di Bon Jovi mi porta alla home di Universal, dove il faccione di The Weeknd mi guarda beffardo. Quello a "Shout Out Loud" di Amos Lee mi mette di nuovo di fronte alla mia nemesi, il paginone grigio che mi informa di non essere riuscito a trovare il server contenente la mia dolce, dolce musica. 

Appena sotto il jukebox c'è una lunga serie di hit tutta da esplorare, ognuna con la sua scheda e il suo link. Le schede, fortunatamente, funzionano: si aprono in un pop-up e mi informano dei più succosi sviluppi dal mondo della musica mondiale. Scopro che Bon Jovi, il ragazzo del New Jersey, è tornato sulla strada, che gli Oasis hanno un nuovo album dal titolo "Don't Believe the Truth" e che J.J. Cale ed Eric Clapton hanno fatto un album dal titolo esotico e un po' di frontiera. Sfortunatamente, però, i link continuano a portarmi a pagine 404, homepage di etichette e vuoti deprimenti. Comincio a sospettare che la sezione musica del Corriere possa non essere il miglior modo possibile per avere una colonna sonora da ascoltare sul mio pc. 

Ma proprio quando sto per arrendermi, scopro un segno di vita. Spolvero con una piccola spazzola il link a "Mr. High & Mighty" dei Gov't Mule e il mio browser mi chiede dove salvare la canzone. Una lacrima di gioia segna il mio viso, rovinato dal tempo e dalle cicatrici di mille scavi. 

Dopo un secondo di attesa, sul mio Desktop c'è uno scintillante file .wax, che il mio pc mi informa essere un "collegamento Windows Media Audio". Dato che sono un archeologo preparato sto effettuando la mia esplorazione su un portatile con su Windows 8—quando clicco sul file, il rassicurante profilo di Windows Media Player riempie il mio schermo con la promessa di qualche minuto di sano southern rock. Ma la gioia è fugace come il piacere della scoperta: un messaggio d'errore mi informa che è "Impossibile trovare il file", e che "Se si sta tentando di riprodurre, masterizzare o sincronizzare un elemento del Catalogo multimediale, è possibile che l'elemento faccia riferimento a un file che è stato spostato, rinominato o eliminato."

Scorato e sconfitto, decido quindi di chiudere definitivamente la sezione Musica del Corriere della Sera e lasciare che riposi in pace, lontana dalle complessità del mondo moderno, felice oasi in cui per ascoltare musica bastava avere un pc e un mouse con il quale cliccare su un apposito link selezionato personalmente da un giornalista professionista i cui gusti comprendono artisti dall'età media di 67 anni. Finisco la mia barretta con cereali, mandorle e prugne e mi rannicchio in un angolo della redazione, a contemplare l'inutilità di ogni mio gesto e la futilità della mia passione per la musica. Ancora un giorno senza hit, ancora un giorno senza gioia. 

Consiglia delle hit a Elia su Twitter: @elia_alovisi
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