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Kink Gong ha registrato un album in una barca

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Laurent Janneau, in arte Kink Gong, è uno di quei musicisti il cui lavoro parte dalla fissa (o necessità) per l'archiviazione di suoni, di tutti i tipi, per le suggestioni generate dai diversi tipi di musica e dal colore acustico "concreto" di luoghi differenti, contesti differenti, vite differenti. Non a caso, Janneau ha una formazione e una carriera come etnomusicologo, e negli ultimi quindici anni ha lavorato prevalentemente nel sud-est asiatico (Cina, Laos, Vietnam, Mongolia...), e ha raccogliendo le musiche di quei paesi in delle uscite discografiche autoprodotte o rilasciate da Sublime Frequencies

Quando fa dischi suoi è decisamente "materico", usa le conquiste tecniche dell'elettroacustica per ricavare delle qualità armoniche o disarmoniche inusuali da strumenti "poveri" tradizionali (come gong, scacciapensieri e derivati), dalla sua voce e oggeti che strumenti non sono, riarrangiando poi i suoni ricavati dopo avere tagliuzzato le registrazioni a dovere, per creare lunghe composizoni da ascolto assorto. Il suo ultimo lavoro, Erhai Floating Sound sta per uscire in formato cassetta per le nostre vecchie conoscenze di ArteTetra.  Si tratta della versione stereo di un pezzo originariamente edito in quadrifonia e in formato video, registrato da Janneau dentro una barca sul lago Erhai a Dali, in Cina, insieme all'amico e collaboratore Julien Clauss. I due hanno fondamentalmente "suonato" lo spazio, facendo entrare e uscire continuamente suoni dalla loro strumentazione in modo da generare una specie di musica continua e in perenne cambiamento.

Noi vi presentiamo in anteprima assoluta tre estratti dalla tape, che esce a fine mese.

 


Sia è una delle artiste più importanti al mondo

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Sia Furler, descritta dalle parole dell'amica e collaboratrice Brooke Candy.

La prima volta che ho incontrato Sia ero praticamente ancora un'homeless. Abitavo in questo lurido squat punk con circa altre quindici persone, niente acqua calda, sporcizia dappertutto. Sia mi aveva trovata su Instagram e mi aveva chiesto di incontrarla in questo ristorante vegano, e lì sono andata. Avevo queste trecce lunghissime, mentre lei era vestita in maniera molto semplice, era molto bella. 

Lei ha questa presenza che, sulle prime, mi ha intimidito. Il motivo iniziale del nostro incontro era che lei voleva scrivere una canzone per me, cosa che poi si è trasformata in un progetto più serio, in cui voleva essere l'executive producer del mio primo album, aiutarmi a ottenere un contratto discografico e un management onesto, e soprattutto aiutarmi a creare le mie cose da un posto in cui ci fosse amore e un'attitudine mentale positiva. Dopo il nostro primo incontro, si è subito presa cura del mio progetto, e quando dico che si è presa cura intendo che mi ha aiutato a mettere a posto ogni singolo aspetto della mia vita.

Innanzitutto ha sempre supportato le mie idee, cosa non del tutto scontata, dato che le mie idee sono abbastanza radicali, suppongo. I miei visual sono pesantini. Molte persone non vogliono entrare in quei territori, non vogliono mettere alla prova i propri limiti—vogliono rimanere al sicuro. Mi rendo conto che io faccio un brutto effetto a queste persone, le spavento. Se spaventi i membri della tua casa discografica e questi ci tengono a farti sapere che temono i tuoi estremismi e vorrebbero che tu abbassassi i toni, la prima cosa che ti viene da fare è mettere in dubbio la solidità delle tue idee e, in generale, il tuo punto di vista sulle cose. Ti verrebbe la tentazione di cedere alle loro richieste e buttare via tutto ciò che hai costruito. Sia, invece, mi ha tenuto lì, mi rassicurava: "I tuoi visual sono perfetti," mi diceva. "Stai facendo tutto come si deve." Mi ha aiutato a tenere salda la mia fiducia, che è una cosa fondamentale, soprattutto quando ti stai buttando nelle acque del mainstream. Per poter fare pop, avevo bisogno di partire da una base sicura.

Sia è una persona molto precisa, veloce e razionale, quando ci lavori insieme. Guardarla fare qualcosa è come guardare un artista all'opera. Non ci pensa su, va con il suo flusso di coscienza, un metodo che mi è stato di grossa ispirazione. È una delle donne che al momento, nel panorama pop internazionale, stanno in prima linea per cambiare le cose in maniera radicale. Anche FKA Twigs, in un certo senso, sta facendo qualcosa di analogo... Oppure penso a quello che, da molto, fa Björk. Tutte loro rispettano l'arte, e sembrano agire da una prospettiva più profonda. 

Il disco su cui abbiamo lavorato insieme mantiene la forza nel messaggio, anche se il suono è più raffinato. Quando lo descrivo, parlo di pop profondo, qualcosa all'intersezione tra Luscious Jackson, Smashing Pumpkins e Madonna. Le melodie sono pulite e leggere, ma il messaggio mantiene il suo peso. Questa è la musica che voglio fare: qualcosa che renda felice chi l'ascolta, che metta addosso a chi l'ascolta la voglia di portare in giro un po' d'amore, un po' di luce su questo Pianeta. Viviamo in un'epoca buia, e ne abbiamo bisogno. Mi fido di Sia e mi affido ciecamente alle sue mani se si tratta di raddrizzare un po' le storture del mio sound per fare in modo che il mio messaggio possa diffondersi su larga scala, arrivare a più persone possibile. Penso che sia una mossa furba e che fosse giusto farla. Perché io ho effettivamente qualcosa da dire, e nel momento in cui avrò la piattaforma per cui sto lavorando duro, potrò usarla per far sentire la mia voce, e la mia voce sarà effettivamente ascoltata. 

Il cammino verso la fama è molto buio. Molto strano. Sia vuole produrre arte, ed è stata intelligente e fortunata a trovare un modo per eludere alcuni aspetti bui della fama e utilizzare quell'elemento di mistero per portare il suo messaggio. Se ci pensi, chi altro sta facendo lo stesso, nel pop? Nessuno nasconde la propria faccia. Verso la fine degli anni Novanta, c'erano i Gorillaz, versioni animate di se stessi, che avevano idee simili, ma in pochi hanno raggiunto questi livelli di successo con una dissimulazione del proprio volto simile a quella che mette in atto Sia. Ha cercato il modo di eludere la fama, perché non ha mai voluto essere famosa. Il modo in cui Sia ha utilizzato il proprio successo, il modo in cui lavora coi media e con il pop in generale è un modo completamente nuovo. È una nuova strada che sta già aprendo le porte ad altre donne, sta permettendo loro di liberarsi da quelle orrende barriere create dalle aspettative e dagli schemi imposti da altri. Ecco quello che trovo meraviglioso in lei, la strada che anch'io voglio seguire. Ha trovato il modo per fare musica come vuole lei, per fare i suoi visual. Si è creata la sua nicchia. 

Sia mi ha salvato la vita e non sarei quella che sono oggi, senza di lei. Per me è un sacco di cose: una sorella, una madre, un'insegnante. Non ho mai avuto una donna così nella mia vita, figuriamoci una che riesce ad essere tutte queste cose insieme. È un modello per me. Mi ha fatto dei regali importantissimi: la gratitudine e la calma. Mi ha insegnato come mantenere un equilibrio mentale e cercare di essere felice. È una persona come ce ne sono poche, e sono onorata di avere l'opportunità di lavorare con lei. 

Ci sono anche molti aspetti di lei che in pochi conoscono: tutto il lavoro che fa per i diritti animali e per altre associazioni senza scopo di lucro. Ha un grande cuore, e in pochi forse lo vedono per intero. 

La cosa più importante, però, è che Sia è una dei pochissimi musicisti che sono riusciti a portare nel mondo del pop una scena artistica realmente contemporanea, una scena musicale realmente alternativa, una prospettiva completamente diversa. Questo è un lavoro difficilissimo da fare, e bisogna che le rendiamo onore al merito.
Sia, per me, è un'icona. 

 

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50 Cent si sta auto-trollando sulla questione povertà

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Immagine via Imago

Per la maggior parte delle persone, andare in bancarotta sarebbe un motivo di disperazione: verrebbe da vergognarsi o da cadere in depressione. Ammettere la propria disfatta economica è solitamente associato anche a una sorta di sconfitta sociale, ad un fallimento non solo personale, ma pubblico. Senza contare quant'è dura divincolarsi tra le maglie burocratiche di tutte quelle procedure amministrative. Certo, in molti sarebbero sull'orlo di una crisi di nervi, con una montagna di debiti così grossa sulla propria testa. Molti, ma non 50 Cent. 50 Cent sta reagendo molto bene al fallimento economico, talmente bene che risponde alla malasorte con un sorrisetto sardonico. 

Sembra che, nonostante tutto, a 50 Cent diverta ancora parlare di soldi. Sappiamo tutti che l'umorismo è quello che ci salva quando siamo sull'orlo del baratro, e lo sa bene anche il signor Cent, che se la ride, e anche molto, con l'aiuto di un sacco di soldi (finti) e un sacco di filtri Instagram. Curtis James Jackson III ha sempre utilizzato Internet in maniera leziosa (pensiamo ad esempio al suo dissing con Meek Mill, sempre via Instagram, in cui 50 ha dato fondo alle sue doti di photoshopper), ma nemmeno ora che ha tutti quegli ufficiali giudiziari e creditori alle calcagna il nostro 50 ha perso il senso dell'umorismo, anzi: il suo Instagram è diventato una delle cose più divertenti e irriverenti nei confronti dell'economia mondiale che abbiamo mai visto. 

Qui, ad esempio, mangia un panino di soldi: 

 

A photo posted by 50 Cent (@50cent) on


Il grado di ironia dei suoi troll post cresce ogni giorno sotto gli occhi di tutti, tanto che è diventato quasi impossibile per noi comuni mortali renderci conto della reale gravità della situazione. Il giudice che ha gestito la sua procedura di insolvenza sembra essere altrettanto confuso dal comportamento per così dire strafottente del signor Cent, tanto che gli ha chiesto di spiegare in tribunale da dove provengano tutti i soldi che mostra con fierezza sui propri social. 

50 ha chiarito: i faraglioni, fasci e mucchi di denaro che sfoggia sono in realtà solo denaro falso, quello che viene utilizzato anche nei video musicali o ai suoi concerti. Nonostante le circostanze, non sembra che 50 Cent voglia cedere: la povertà non lo ha reso certo più modesto. E a quanto pare ha anche spiegazioni valide per le sue scelte: "Solo perché mi impegno a mantenere alto il mio nome e il mio marchio, non significa che stia mentendo in materia di insolvenza." 50 Cent è un po' come quel tuo compagno di classe che riusciva a passarla liscia, mentre tu ti beccavi una nota anche se passavi il fazzoletto a quello dietro di te. 

E rieccolo su Instagram: 

 

A photo posted by 50 Cent (@50cent) on


Per qualsiasi altra star del rap, la bancarotta avrebbe significato la caduta di un impero di carta—della stessa carta falsa con cui probabilmente l'aveva edificato. Ma non per 50: "Non so spiegarmelo, ma la gente continua ad amarmi. Ero in tribunale oggi, e tutto quello che ho sentito è che intorno a me c'era un sacco d'amore. Mi hanno fatto domande sui miei soldi e ho risposto che non ne ho, ma se volete qualche M&Ms ve ne do volentieri!" — Tradotto: non gliene fotte proprio un cazzo. 

Per vostra informazione: 50 Cent ha presentato la sua istanza di fallimento la scorsa estate, in risposta ad una causa di sette milioni di dollari intentata contro di lui—per ragioni strategiche, come lui stesso ha ammesso. Pare che 50 sia stato accusato di aver pubblicato un sextape senza aver avuto il permesso dal protagonista, e senza nemmeno avergli dato un centesimo per il suo contributo. Non è stata una mossa geniale, c'è da dire. Ma il nostro 50 agisce in maniera talmente ignorante che alla fine non gli si può dire nulla. Sarà pure un coglione, ma è un coglione durissimo!  

 

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Alla fine non ci sono molte cose, in questo mondo, davvero in grado di urtare l'ego di 50 Cent. Questa auto-accettazione ignorantissima del suo grado di povertà, e la sensazione che non gliene freghi un cazzo di ciò che pensano gli altri, lo rendono un idolo quasi più di quanto fosse prima. Se non fosse per quella bazzecola delle frodi e del sextape pirata sarebbe quasi una divinità pagana. Comunque sia, dopotutto ha ancora i suoi 50 cent.
 

 

A photo posted by 50 Cent (@50cent) on

 

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Il generatore automatico di testi de I Cani è terribilmente veritiero

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Nella nostra carriera di rosicatori ai margini dell'industria musicale italiana, abbiamo litigato già un paio di volte con Niccolò Contessa, salvo poi redimerci tramite le clementi parole del Chicoria a commento del suo ultimo album. Sempre nei nostri anni di militanza contro i testi strampalati delle canzoni italiane ci siamo scontrati con i testi dei Subsonica, con i testi di Max Pezzali e con i testi dei Verdena. Alla fine abbiamo trovato pure un generatore automatico dei testi dei Verdena (davvero molto accurato).

La scoperta di oggi, però, va accreditata a Francesco Scida, ed è il generatore automatico di testi de I Cani (la band). Qui sotto alcuni esempi, ma è meglio che vi divertiate da soli, perché sono testi molto masturbatori, quindi non vorremmo disturbare la vostra fantasia. 

 

Grazie Francesco, continua a generare queste cose belle per noi.

 

Il nuovo grime inglese viene dalla Polonia

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Foto di Agnieszka Uzieblo

Da immigrante polacco arrivato in Inghilterra negli anni Novanta, a dieci anni, ho perso velocemente la mia identità polacca, evitando di parlare la mia madrelingua in pubblico o anche solo di pronunciare il mio nome alla polacca. Certi immigrati assimilano la cultura inglese dominante più di altri. 

Era una questione di complesso di inferiorità: quando la maggior parte della tua famiglia si porta dietro storie di vita dietro la Cortina di Ferro, il desiderio per le merci consumistiche e la cultura "progressista" offerta dall'Occidente, poi quando entri finalmente a far parte di quello stesso Occidente è facile lasciare che il tuo orgoglio nazionale venga seppellito da quello che ti circonda e accettare di essere definito in un certo senso dalla cultura britannica.

A ogni modo, molto è cambiato rispetto agli anni Novanta, e la Polonia è stata occidentalizzata a tal punto che la "latteria-bar" tipica del periodo comunista è diventata oggetto di nostalgia hipster in città come Varsavia, Cracovia e Łódź. È tornato un certo orgoglio polacco, non solo in patria ma anche nelle comunità polacco-britanniche, e questa cosa è molto evidente agli eventi di hip-hop polacco in UK, dove i rapper si ritrovano a sputare barre indirizzate ai quasi un milione di polacchi che abitano nel Paese.

La questione dell'assimilazione è sempre pertinente per i migranti, ma particolarmente interessante nel contesto della nuova onda di rapper ed MC polacchi, che vivono e producono musica sul suolo britannico. Li ho visti per la prima volta in apertura a pesi massimi dell'hip-hop polacco come Slums Attack, Paluch, JWP e Kaczor in posti come Londra e Manchester. A forza di concerti, mi sono reso conto che questi piccoli rapper polacchi con base in Gran Bretagna stavano creando una scena tutta loro, rappando in polacco e in inglese, passando di stile in stile, collaborando con musicisti inglesi e facendo il tutto esaurito in varie città.

 Hedo Jackinabox by Grzegorz Rusin

Hedo Jackinabox è un rapper che viene da Chorzów, nei dintorni di Katowice, che è arrivato dopo che la Gran Bretagna ha aperto le frontiere ai nuovi stati membri dell'UE, poco più di dieci anni fa. Ha iniziato costruendo beat su Fruity Loops, assorbendo velocemente l'influenza del grime perché "tutti gli MC qua attorno lo facevano". Ora lavora con producer come Demondubz e Flash G e rappa in inglese con tanta facilità che non riusciresti a distinguere il suo accento da un MC nativo. "Non sono un patriota", mi dice, quando gli chiedo se affronta i problemi socio-politici degli immigrati polacchi con la sua musica. Fa musica grime con produttori britannici anche se, paradossalmente, i suoi fan sono perlopiù polacchi. 

Se prendiamo in considerazione il contesto economico, si spiega perfettamente che i rapper polacchi immigrati in UK si ispirino al grime. Il grime, come l'hip-hop in passato, significa creare musica in modo più economico possibile per il massimo profitto, mettendo insieme minimali beat sul proprio computer di casa, e sputandoci su rime secche e dirette. Non sorprende che i giovani venuti dalla Polonia—dove i programmi scolastici di musica tendevano verso generi tradizionali come musica classica, balletto, opera e folklore—siano rimasti affascinati da un approccio accessibile e casalingo alla musica, che non avesse a che fare con appartenenza di classe o di istruzione.

Tuttavia è interessante vedere come questi MC polacchi trapiantati in UK stiano interagendo con il genere. Forse a causa della storia di occupazione del territorio polacco, o per via del loro status di immigrati, hanno una sensibilità particolare rispetto all'appropriazione culturale. Nel 2012, un rapper polacco residente a Londra di nome HudyHary ha pubblicato una diss track indirizzata al grande nome dell'hip-hop polacco Pezet, rimproverandogli di aver definito il proprio suono grime. HudyHary ha "passato anni di studio per beccare la giusta vibrazione, non potevo fargliela passare liscia così". Il sample sulla traccia viene da "Morgue" di Wiley.

HudyHary chiama la propria musica grime polacco, sostenendo di meritare questa definizione essendo "grandemente influenzato dal suolo grime old school UK". Aggiunge che "quando ci sono rimasto sotto con questa roba, non conoscevo nessun altro MC polacco, ma ci ho messo poco a trovarne su YouTube. MC tipo Powietrzny, Wuzet, FS Dan e Miszigen, e producers tipo Dirty Buttons e The Glitsch".

Ma la lingua polacca, caratterizzata da parole lunghe e suoni aspri, è meno adatta al rap dell'inglese, specialmente a 140bpm. Per cui, come dice HudyHary, l'influenza del grime sulla versione polacca riguarda più l'etica, l'attitudine. "È la competitività, mettere in mostra la tua bravura come MC, mostrare carisma sul mic—è questo che conta". Per cui quando rapper come Yarkee, HudyHary e Hedo Jackinabox aprono per le star hip-hop polacche, fanno i grossi, si provocano e si scontrano tra di loro sul palco in modi che ricordano ampiamente un set UK grime. 

Non sorprende che il pubblico reagisca in maniera principalmente positiva a Londra, secondo HudyHary, anche se, aggiunge, a fine concerto il pubblico è quasi sempre tutto dalla sua parte dovunque si trovi. Viste le dimensioni contenute dei locali (cento-duecento persone), i live sono sempre piuttosto intimi, ma quando chiedo che cosa sperano di ottenere in futuro gli MC parlano di organizzare rave in stile Eskimo Dance. Tuttavia, con grande umiltà, prevedono che ci vorrà almeno un decennio perché la scena maturi prima di arrivare a quel punto.

Questa stima prudente sembra adeguata se prendiamo in considerazione il fatto che le collaborazioni tra star polacche e musicisti grime inglesi conosciuti si contano sulle dita di due mani. Popek, uno dei rapper polacchi più conosciuti nel Regno Unito, ha lavorato con Wiley, JME, Krept and Konan e Big Narstie, ma si tratta di un'eccezione alla regola. La musica di questi rapper sarà anche in grado di fare il tutto esaurito, ma non si traduce in ascolti o in vendite, è più un'esperienza live che un click su Soundcloud. 

Eventi di questo tipo, però, cominciano a prendere piede. A Manchester, il rapper e stilista polacco Michał "Yarkee" Jarosz ha fondato una stazione radio online con annessa serata nei club cittadini, Free City, in cui ospita i migliori talenti della bass music mancuniana. Dice che il suo obiettivo è di "far avvicinare il popolo polacco alla cultura inglese", dicendosi rattristato da come alcuni "si isolano dalle altre comunità". La sua casa di moda, Save The Vinyl, è indossata da star locali come Jonny Dub, Levelz e Madam X.

Ma c'è anche una grossa divisione tra i gusti di questa nuova ondata di MC e producer e ciò a cui è abituato il pubblico polacco nel Regno Unito. Sia Hedo Jackinabox che HudyHary vedono con disprezzo l'idea di rappare sul fatto di essere polacchi e preferiscono focalizzarsi sulle battaglie quotidiane di valore universale. Per HudyHary tutto si riduce al fatto che non ha alcuna intenzione di ritornare a vivere nel suo Paese d'origine. "Qui mi sento un essere umano, non un immigrato", dice.

Questa mentalità è in aperto contrasto con quella dei tanti polacchi che si trasferiscono in Gran Bretagna prevalentemente per lavorare, lasciando la propria famiglia e la propria identità ben radicate nella loro casa natale. Per queste persone, i tradizionali gruppi hip-hop polacchi sono quelli che contano, non il grime. Concerti in cui hanno la possibilità di cantare liriche di protesta come “Mój Jest Ten Kawałek Podłogi” (“Questa è la mia parte di terra") di Mr Zoob, coverizzata dal gruppo hip-hop stagionato Pokakontaz, che riceve sempre un'accoglienza trionfale da parte dei fan. Eventi come questi, tipo quelli organizzati da X-Side Music, sono promossi unicamente in lingua polacca per assicurare ai polacchi un luogo sicuro, in cui si possono ritrovare tra la propria gente ed esprimere sentimenti di rabbia contro lo sfruttamento e la xenofobia, cosa che eviterebbero di fare da altre parti per paura di ripercussioni negative.

HudyHary & co.

Eppure, a certi concerti, questo melting pot di vecchia e nuova mentalità, di resistenza e di assimilazione, è costretto a fondersi, ed è questo che rende gli eventi hip-hop polacchi così interessanti da osservare al momento. Non solo per i polacchi, ma anche per i britannici, come per esempio lo staff del locale che osserva dalle quinte, o i locals che sono andati per curiosità e all'improvviso sentono passare "Eskimo Riddim" di Wiley tra un coro in polacco e l'altro.

Magari non se ne rendono conto, ma si tratta dei pochissimi testimoni britannici della nascita di un nuovo sound anglo-polacco, un sound che sta sgomitando per trovare il proprio posto nella società britannica, la cui posizione di costante evoluzione sta creando il terreno fertile perfetto per far crescere un messaggio profondo, che affronti questioni di identità o che dia vita a collaborazioni improbabili. Se il matrimonio tra hip-hop polacco e grime sboccerà in un genere duraturo è ancora da vedere, ma il seme è stato piantato grazie ad alcuni MC lavoratori, appassionati e tecnicamente capaci: il meglio della gioventù polacca. 

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James Blake ha pubblicato un nuovo pezzo con l'MC inglese Trim

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Se siete affamati di roba nuova da James Blake, state sicuramenrte già seguendo il suo periodo da ospite fisso di BBC Radio 1. Il mese scorso ci ha regalato la nuova "Modern Soul" mentre l'altroieri il nostro crooner/producer preferito ha mandato in onda "RPG," una collaborazione con l'MC grime inglese Trim.  

Mentre "Modern Soul" era un classico pezzo alla Blake, questa "RPG" è frenetica e pulsante, si contorce attorno alle rime gelide di James. Il duo aveva già dato manifestazione di sé qualche anno fa col nome Trimbal, cantando sui brani prodotti da Blake "Confidence Boost" e "Saying." Non è ancora chiaro se questo pezzo finirà nel nuovo album Radio Silence, l'anticipatissimo seguito di Overgrown annunciato lo scorso anno. A dire il vero, ancora non si sa molto di cosa conterrà l'album, ma si mormora che vi appariranno sia Justin Vernon che Kanye West. 

Potete ascoltarla qua sotto, ma non perdetevi neanche "Evening Fell Hard For Us," vecchia rarità di Blake suonata mercoledì durante lo stesso show

Andrea Domanick is the West Coast Editor of Noisey. Follow her on Twitter

Noisey Mix: Chino Amobi

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Foto via.

Dall'ultima volta che abbiamo parlato, Chino Amobi di cose ne ha fatte. Innanzitutto ha lasciato Richmond e gli Stati Uniti ed è volato in Europa, per un tour primaverile che vedeva come prima tappa il Sonic Acts di Amsterdam, dove assieme a Angel-Ho e Nkisi ha bombardato il Paradiso a nome NON Records. La label apolide di recente ha cambiato nome in NON Worlwide, negando di fatto l'idea di territorialità intesa come appartenenza, ed estendendo il proprio impegno verso una dimensione in cui tempo e soprattutto spazio perdono di significato. 

Dopo Amsterdam Chino si è spostato in Germania, dove ha suonato allo showcase di Janus al Berghain di Berlino, con Lotic, Lorenzo Senni, Kablam ed Elysia Crampton, poi è andato in Polonia, a Varsavia, dove invece ha suonato con B.YHZZ—ascoltatevi questo suo ultimo mix bomba per Unreal—poi ancora in Repubblica Ceca e infine se ne è tornato a Berlino. Stasera suonerà ai Corsica Studios di Londra per Oscillate Wildly con Nkisi, Why Be, Kamixlo, Uli K, M.E.S.H. e molti altri di Janus/Bala Club; se abitate là abbiate il buon gusto di andarci per favore, fatelo per noi. Se non abitate là non c'è problema, abbiamo trovato il modo di compensare la mancanza di date italiane nel tour di Chino con un minimix riassuntivo delle sette sue nuove produzioni da lui rilasciate—tranne una—negli ultimi sette giorni, come tributo ad alcune grandi capitali europee (visitate o non).

"Si chiama semplicemente EU Mix, perché racchiude queste tracce originali registrate durante il mio tour qui, ispirate dalle città da cui traggono il nome," mi spiega. Venti minuti in cui l'alienazione e il caos diventano materia viva e resistente, fatta di esplosioni grottesche di beat e vocals tanto distorti quanto decontestualizzati, che cementificandosi tra loro creano un composto organico nuovo, ben lungi dall'essere rassicurante. Sta a voi farne buon uso, NON-cittadini.

Tracklist:

01. London ft Even Ifekoya

02. London II

03. Malmo

04. Milan

05. Warszawa - Chino Amobi w/ Summertime acapella (remix) - King ISIS by B.YHZZ

06. Berlin

07. Rotterdam

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NON TODAY, NON TOMORROW, NON FOREVER.

Tatuarsi il testo di una canzone è una pessima idea

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Proprio lì sotto, da qualche parte. 

I tatuaggi, incredibile a dirsi, sono permanenti e una volta fatti vi accompagneranno più o meno per tutta la vita. Non vi stiamo dicendo nulla di nuovo quando ribadiamo l'importanza di una scelta ben ponderata e se, dopo qualche anno, potete fare finta di non esservi mai fatti la frangia come un membro di riserva dei Bring Me The Horizon, sarà un po' più difficile far finta di non avere un tatuaggio con una loro canzone stampata sopra. Il significato dei tatuaggi, poi, è un altro argomento affascinante e che meriterebbe una trattazione, soprattutto quando volete esprimere concetti come "SONO LIBERO" o "MI PIACE LA NATURA" o "LA MUSICA È BELLA". Tutte cose comprensibilissime, ma forse incidersi sulla pelle un pezzo di canzone, un albero dentro un cuore o altri soggetti discutibili come un uccello che vola libero non è la scelta più saggia. Una possibilità tra le più scelte, quando si decide di farsi un tatuaggio, è di incidere un bel verso di canzone, solitamente attraverso lettering orrendi e poco interessanti. Se avete in mente, prima o poi, di fare una cosa del genere, forse dovreste prima guardare la nostra bellissima gallery e poi riconsiderare le opzioni a vostra disposizione, soprattutto per non rovinare la giornata ad un altro povero tatuatore che pensava di aver scelto il lavoro più figo del mondo:

La frase romantica di un famoso crooner, ad esempio Bon Iver

L'amore è una roba proprio importante, cavolo. Naturalmente nessuno vuole tatuarsi il nome dell'ex fidanzata / ex-fidanzato su un braccio avvolto da un cuore infuocato, ma tutto quel dolore che si è verificato durante un certo periodo della nostra vita dovrà pur avere una sua espressione tramite inchiostro, o no? Immagino sia questo il processo mentale che spinge alcune persone a incidersi un verso di una canzone romantica per far capire quanto sono #profonde e #tristi. Un verso di una canzone è qualcosa di comodo, non è come scriversi su un braccio LA VITA FA SCHIFO (che tra l'altro ha una dignità infinitamente superiore), è qualcosa che potete esibire in pubblico a una festa e riuscire comunque a conoscere nuove persone. Allora si prende un cantante famoso, qualcuno come Bon Iver, non troppo mainstream, non troppo nerd, non troppo vecchio, qualcuno che possa piacere sia a vostra madre che a un sedicenne anoressico. E invece no, ora sapete che è un'idea di merda, quindi non tatuatevi mai un verso di "Skinny Love". Evitate "Skinny Love" accuratemente.

Testi dei pionieri del rock o di vecchi gruppi punk

Vi capita mai di vedere quelle belle magliette con le scritte di qualche gruppo post-rock nelle catene di negozi come H&M o Urban Outfitters? Sono sicuro di sì, anche io ne ho un paio nell'armadio. Mi piacciono quelle magliette, se inserite nel giusto look e con un pizzico di ironia possono anche essere considerati capi di abbigliamento accettabili. Quello che non capisco è perché un essere umano con funzioni cognitive normali dovrebbe decidere, ad un certo punto, di trasformare la sua pelle nel tessuto accogliente per una stampa di H&M. No, il vostro tatuaggio dei Joy Division non vi fa sembrare un po' maledetti e un po' introversi, ma vi fa sembrare solo un'altra stupida margherita su uno stupido prato durante la stupida primavera.

I testi ambigui

Questo tatuaggio di un testo dei Placebo, tratto dalla canzone "Every You Every Me", lo mettiamo a simboleggiare quella categoria di testi ambigui che, se proprio volete esprimere il vostro gusto per la musica, ma non sapete quale canzone scegliere, vi aiuterà almeno a restringere il campo. 

A proposito di ironia che non fa ridere, qualcuno lì fuori ha un tatuaggio di Elio e Le Storie Tese? Perché il mio Google non è stato abbastanza potetente per trovarne, ma sono sicuro che esistono.

Testi automotivazionali

Volete essere uno di quegli esseri umani così banale da non avere nemmeno interesse nei confronti del banalissimo testo che ha scelto di tatuarsi? Perfetto, fanculo la canzone allora, estrapolate una piccola frase come il tizio qua sopra e via: correte a farvela incidere. "Je ne regrette rien", ecco cosa descrive bene la vostra personalità e le difficoltà che avete dovuto attraversare per arrivare al punto in cui siete adesso. Oppure un bel "All You Need Is Love", qualcosa che vi renda attraenti anche agli occhi dell'invitato più stupido della festa. Sì, questo è il modo migliore per esprimere la propria interiorità in modo non verbale. Una scelta valida, per concludere, è anche "Baby let's rock".

I testi della vostra band preferita

Spesso i tatuaggi raffiguranti il testo di una canzone della band preferita della persona che decide di inciderseli non hanno tanto a che fare con la canzone in sé, piuttosto con la band. Nel caso questa fosse la vostra pessima scelta, avete diverse vie per renderla ancora più pessima: la prima è tatuarvi qualche testo oscuro su un b-side di metà anni Novanta, la seconda è andare sul sicuro con uno dei loro testi preferiti e la terza, e più di merda, è quella di tatuarsi il loro logo, soprattutto se si tratta di un fungo o altre brutture simili. 

Il vero problema è che, chi lo sa cosa passa per la testa della band, a un certo punto potrebbero svoltare verso l'EDM come i Coldplay, oppure decidere di fare un cambio di rotta ancora più drastico e mettersi a scrivere solo testi nazi. E voi che cazzo fareste a quel punto?

Testi non allocati

Una nuova vetta della banalità è scegliere una di quelle frasi che tutti i cantanti pronunciano, prima o dopo. Forse un modo di dire come "Ti amo" sarebbe così banale da risultare post-ironico, quindi meglio affidarsi a qualcosa come "Live fast, die young", che va bene anche per un sacco di sottoculture, oltre che essere della lunghezza giusta per adattarsi ad ogni tipo di torace. Un'altra ottima scelta potrebbe essere "I Could not Care Less", che potete riferire a vostro piacimento agli Atoms for Peace (per i fan di Thom Yorke), ai Cardigans (se il vostro nemico ha più tatuaggi di voi) o ai No Angels (se volete liberarvi di qualcuno).

Citazioni ovvie e spiegate per bene

La situazione opposta è quando invece di una quote generica e malleabile ne scegliete una super precisa ma, preoccupati che qualcuno possa comunque fraintendere, decidete di includere il nome di chi l'ha pronunciata. Nonostante si tratti di una citazione precisa e puntuale, questo non vi mette al riparo da un'eventuale intervista in cui il vostro cantante preferito confessa di averla scritto mentre era ubriaco e prima di scoparsi un asino. Non che sia già successo nel corso della storia, ma potrebbe succedere. E in quel caso non vogliamo la responsabilità di non avervi avvisati per tempo.

Testi inseriti su uno sfondo visivamente appagante

Un ottimo modo per tatuarsi un bel verso di una canzone, senza dover per questo rinunciare ad un meraviglioso motivo grafico ornamentale, è di far esplodere quel verso in un marasma di colori. Se qualcuno canta di amore, potete costruire intorno alle parole un gigantesco cuore. Se qualcuno canta di un muro, ecco che sarà la vostra pelle ad essere fatta di mattoni. E se il testo parla della vita, non so... Potreste tatuarvi un uccello, che comunque è un simbolo di libertà, oppure una nuvola o qualcosa così. Ed ecco che il cerchio si è chiuso e siamo tornati al problema iniziale.

 


Sticazzi di Trainspotting, la colonna sonora più anni Novanta è quella di Batman Forever

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La locandina ufficiale

Sono cresciuto negli anni Novanta: nella mia bat-cameretta, accanto ai poster dei 3 Colours Red e di Gwen Stefani appesi al muro, avevo chiaramente un A4 con la locandina di Trainspotting, rubata al cinema di zona. Non avevo nemmeno visto il film e già l'avevo messo lì accanto al faccione di Skin degli Skunk Anansie. Pensavo che fosse una figata perché ero stato bombardato mediaticamente, e perché gli attori sulla locandina erano abbastanza sexy. La credibilità della mia cameretta era decisamente aumentata da quando avevo Trainspotting con me. Poi l'ho visto ed effettivamente non era niente male.

Ora il film di Danny Boyle ha vent'anni e tutti i britannici lo osannano come una delle pietre miliari della cultura giovanile di quegli anni, anche perché la sua colonna sonora—a quanto dicono—"ha definito ciò che era figo negli anni Novanta" e "fornito una fotografia perfetta del 1996". Ma quel gruppetto di musicisti capelloni che contribuirono alla sua colonna sonora non erano gli anni Novanta che ricordo. Il tributo di Boyle a Irvine Welsh probabilmente avrà colto alla perfezione quell'epoca per altri, ma non per me. 

Ora provate a togliervi tutti quei pregiudizi e pensateci un attimo. Partiamo dalla considerazione che un tempo, prima di iniziare a far cagare, i Brit Awards avevano anche il premio per "Miglior Colonna Sonora". Poi, nel 2001, tale premio scomparì—probabilmente perché tutti sapevano che non ci sarebbe stata gara contro American Beauty. Prima di allora, nel 1995 aveva vinto Pulp Fiction, e nel 1997 Trainspotting. Tra questi due giganti, però, c'era una gemma nascosta, un tesoro che è stato ingiustamente eclissato e sottovalutato. Parlo del vincitore del 1996. Parlo, cari lettori, di Batman Forever.

Ci sono parecchie differenze tra la colonna sonora di Trainspotting e quella di Batman Forever. Trainspotting aveva un pezzo borioso di uno dei periodi peggiori dei Blur ("Sing"), oltre ad una traccia di Damon Albarn adornata da trombette scoreggianti. Gli altri pezzi erano ben lontani da ciò che usciva dalla florida scena elettronica del periodo: ad esempio c'era uno dei brani più corti e insulsi che i Leftfield abbiano mai tirato fuori dalle loro tastierine ("A Final Hit"). Fatto salvo per la hit agrodolce dei Pulp, l'impareggiabile "Mile End", tutte le altre grandi perle della soundtrack sono classiconi vintage: "Lust For Life" di Iggy Pop (1977), "Perfect Day" di Lou Reed (1972), "Deep Blue Day" di Brian Eno (1983), "Temptation" dei New Order (la versione del 1987) e la copia carbone degli Sleeper di "Atomic" dei Blondie (1979).

A parte il cameo di Carol “KYO” Leeming’ nell'immancabile traccia trance by Bedrock, la colonna sonora di Trainspotting’s è abbastanza monocorde. In teoria dovrebbe definire un'epoca di profonda transivione musicale, in pratica dà l'idea che prima degli Underworld, tutta l'inghilterra stesse ascoltando solo chitarristi bianchi, urlando cori da stadio sulla birra tra un pezzo e l'altro.


Official film poster

Per quanto i personaggi di Trainspotting abbiano fatto del bene, umanizzando una generazione di emarginati, sono pochi quelli che hanno passato gli anni Novanta a ripescare supposte d'oppio dala peggiore toilette di scozia o a festeggiare storie di droga andate bene mettendo "Born Slippy" nel jukebox. Per come la ricordo io, ascoltavamo rap e R&B—sparato da praticamente tutte le radio—tornando da scuola, per poi andare a casa a guardare video di rock alternativo su MTV2, ci sbronzavamo in segreto ascoltando l'ultimo disco degli Offspring, non dando retta ai nostri fratelli maggiori che cercavano di convincerci che The Joshua Tree fosse una specie di capolavoro. Più di ogni altra cosa, ricordo l'onnipresenza di Seal. Dov'è la memoria storica di tutto ciò? Ve lo dico io: in un vecchio e polveroso jewel case con sù la faccia Val Kilmer mascherato con le orecchie a punta.

In generale, gli anni Novanta sono stati uno strano periodo per Batman. Il lavoro sul personaggio di Tim Burton lo aveva reso oscuro, sinistro e da incubo, specialmente nel secondo film. In Batman Returns c'era una scena in cui il Pinguino strappava il naso di un tipo a morsi, al look da dominatrix di Catwoman mancavano giusto un paio di mutilazioni per renderla uguale ai Cenobiti di Hellraiser, e Christopher Walken sfruttava tutta l'ampiezza della sua attaccatura per sembrare ancora più inquietante. Fu quasi un sollievo vedere Joel Schumacher, regista di St. Elmo’s FireThe Lost Boys, riportarlo su territori più family-friendly, da cartone animato con atmosfere camp e colorate. Dopotutto eravamo già a metà degli anni Novanta, un Bruce Wayne incupito nella sua tetra villa, come prostrato davanti a un altarino di Robert Smith, non andava più bene. Basta con Michael Keaton, Danny Elfman e gli effetti speciali realistici: ecco Val Kilmer, Method Man, Jim Carrey, e Tommy Lee Jones con uno scadentissimo trucco viola su mezza faccia.

Fondamentalmente il film strappò Batman agli adulti lettori di fumetti cattivi per restituirlo ai bambini. Batman Forever, era un film che potevi andare a vedere per rilassarti e prenderti bene, pieno di azione scema, di colori vividi e quasi psichedelici, con una estetica davvero fumettosa. Non c'erano i mugugnii anti-capitalisti di Tom Hardy né spettri di Liam Neeson col pizzetto. A nessuno interessava vedere un polpettone noir pseudo-filosofico e di destra, lungo tre ore, il cui messaggio finale è che il filantropismo vittoriano è meglio di qualsiasi progresso sociale. Ci interessava vedere Jim Carrey che fa il matto con la calzamaglia verde e Nicole Kidman nei panni di una donna forte e intelligente che abusa del Batsegnale per un paio di minuti di innocente flirt sul tetto. E volevamo una colonna sonora che catturasse lo spirito dei tempi.

E l'abbiamo avuta. C'erano pezzi pop-punk (gli Offspring con la cover di "Smash It Up"), alt-rock psichedelici (i Flaming Lips con "Bad Days"), emo (Sunny Day Real Estate), slowcore (Mazzy Star), rap della east-coast (Method Man), e R&B (Brandy). Per essere una roba pettinata di Hollywood, finì anche per fare un lavoro bat-tastico nel promuovere talenti britannici trascurati da Trainspotting come i bristoliani Massive Attack, la scozzese Eddi Reader e gli irlandesi The Devlins. Poi ovviamente c'era "Hold Me, Thrill Me, Kiss Me, Kill Me" ovvero una delle tre canzoni degli U2 che non fanno mortalmente cacare.

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Ma il momento più alto, ovviamente, è il magnifico Seal’s con la sua epica "Kiss From A Rose", uno dei pezzi di soul inglese più famosi di tutti i tempi. Grazie alla spinta commerciale di Batman Forever, questa incredibile power ballad è oramai radicata nella nostra coscienza collettiva. L'ha coverizzata chiunque: da band metal finlandesi ai peggio concorrenti di talent show. Anche se le flessioni vocali di Seal sono inimitabili, urlare “Baaab-ehh!” con lui è divertentissimo sia che siate sbronzi o sobri. È una roba che unisce le genti in una pace globale. Persino l'assolo di OBOE è da paura.

Mentre per la carriera di molti degli artisti coinvolti, la OST di Trainspotting è stato il picco della loro carriera, per molti dei musicisti più trendy inclusi in Batman Forever, il futuro riservò grandi cose. Quel disco aiutò Nick Cave a trasformarsi da oscuro cantore dell'undereground a musicista rispettato e istituzionalizzato che collabora persino con Kylie. E non credete a quello che vi dicono: non è stato solo Trainspotting a risuscitare la carriera di Iggy Pop. Le basi le aveva già gettate Michael Hutchence con la sua inquietante cover di "The Passenger", registrata per—indovina un po'—Batman Forever.

In conclusione, Trainspotting non ha "definito" gli anni Novanta. Non era nemmeno ambientato negli anni Novanta. Una vera “istantanea del 1996” ve la dà un loscoe zarro pezzo di Method Man, non una profonda e ironica canzone di Damon Albarn. Oltre a ciò, Trainspotting non è neanche riuscito a lanciare una nuova era per il cinema britannico e liberarci dalla tirannia dei grandi budget hollywodiani. Ha solo generato film del cacchio come Twin Town, con Ewan McGregor nei panni di un poco convincente eroe romantico, e la carriera di progettista di carrozzoni per le olimpiadi di Danny Boyle. Il futuro non ci ha regalato un cinema inglese coraggioso e indipendente. Che ci piaccia o no, il futuro ci ha dato solo robe da geek senza vergogna, reboot infiniti e convention piene di cosplayer. Per cui smettiamo di menarcela che abbiamo scelto la vita, perché in realtà abbiamo scelto un maxi-televisore del cazzo con cui guardare Batman Forever.

Guarda il trailer del folle film di Adam Green

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Quando abbiamo visitato il set di Aladdin di Adam Green nel 2014 ci è sembrato di essere catapultati in un tunnel di colori, cose surreali e divertimento. Green è un sognatore istrionico, un anti-eroe folk che è stato accuratamente descritto da VICE com "uno di quei rari visionari che trasuda genio da ogni poro". Il suo ultimo film è stato un esperiemento keta-dadaista registrato su un iPhone con la partecipazione di Macauley Culkin, e con questi precedenti non siamo certo disposti ad entusiasmarci per la prima cazzata.

A gennaio abbiamo pubblicato il primo mini estratto esclusivo del film Adam Green's Aladdin e oggi siamo pronti a regalarvi un trailer ufficiale, da cui si può già capire la stramberia della trama, della colonna sonora e in generale di tutto il lungometraggio. C'entrano qualcosa un'insurrezione, un'esecuzione e una sedia fatta di asparagi e, per ovvi motivi, ci siamo innamorati della poca musica che si sente (e che Adam Green porterà in giro in un tour separato, che purtroppo non farà tappe in Italia).

Adam Green’s Aladdin sarà disponibile in mondovisione a partere dal 12 maggio, ma già ora non avete alcuna scusa che vi permetta di non sedervi per tre minuti davanti a questo trailer e godervi una delle menti più brillanti e strambe che ci siano in circolazione.

Green stesso ci ha fatto un elenco di 12 cose importanti che potete trovare nel trailer, da cui ha escluso due frasi degne di nota come “I only take cocaine to go to Brooklyn” e “If we had sex would that be ironic?”, che noi avremmo comunque volentieri incluso.

1.  Le tette di carta-pesta.

2.  Io (Adam Green) che faccio la parte del cantante indie rock drogato, festaiolo e un po' depresso di nome Aladdin, che sta per essere scaricato dalla sua etichetta Zintendo Records.

3.  La famiglia disfunzionale di Aladdin, composta da Emily (Alia Shawkat), la sorella gemella avventurosa e idealista di Aladdin e Nathasha Lyonne nei panni della loro mamma da sit-com lasciva.

4.  La decadente Princess Barbara, recitata dall'attrice/modella/musicista Bip Ling.

5.  Il leggendario pittore Francesco Clemente nei panni del Genio metafisico Mustafa, che è l'interfaccia di una stampante 3D.


Francesco sulla destra

6.  Jack Dishel, il genio comico che ha creato la serie YouTube virale :DRYVRS che interpreta due ruoli, il Sultano ossessionato dalla tecnologia, che è un tiranno perverso e buffone e Jack Dishel, the comic-genius creator of viral YouTube show :DRYVRS starring in two main roles - the technology-obsessed Sultan, who’s a perverse and tyrannical buffoon. E lo sfuggente, ma buono Zio Gary, che rivela ad Aladdin di una lampada nascosta in una grotta.

7. Il debutto di un attore emergente, ma di grande talento, che si chiama Macaulay Culkin, nei panni di Ralph, il carismatico leader dei Magical Americans, un esercito di ribelli che si oppone al Sultano.

8. Andrew Van Wyngarden degli MGMT nei panni del Guardiano della Lampada (è un ologramma).

9. Har Mar Superstar nei panni del British Druggie Guy.


Har Mar, il secondo da sinistra e Devendra Banhart alla sua destra

10. Zoe Kravitz nei panni di un minatore red-neck con un desiderio molto speciale.

11. Un sanwich alla merda.

12. Un piccolo ascolto di alcune delle canzoni che ho scritto per la colonna sonora e che saranno contenuti in un disco a parte, che uscirà assieme al film. Il disco sarà un'opera folk-funk.

Ecco il cartone animato di Skrillex che stavate aspettando

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Skrillex è tipo la persona perfetta da mettere in un cartone animato. Lo avevamo capito dai tempi di Ralph Spaccatutto, e ci è stato confermato dal suo nuovo video con Juaz e Fatman Scoop, "Squad Out!" Il video è diretto da Adam Fuchs, che in precedenza ha lavorato con Flying Lotus e Neon Indian. Nel video, gli avatar animati di Skrillex and Juaz impazziscono a causa di una versione elefantesca di Fatman Scoop che li tortura a colpi di suoni assurdi e scene improbabili.

I Death Grips hanno pubblicato un nuovo video da 32 minuti

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I Death Grips non sono mica tanto a posto, ma del resto è una delle loro migliori qualità. Ieri il gruppo ha messo online un nuovo video intitolato "Death Grips Interview 2016". Dentro ci sono i Death Grips che suonano dal vivo e immagini di una loro intervista con Matthew Hoffman. Soltanto che l'audio è una traccia puramente strumentale. Visto che si tratta dei Death Grips, non viene fornito alcun contesto alla musica, anche se, vista l'uscita di "Hot Head" e l'annuncio del prossimo disco Bottomless Pit da qualche parte all'orizzonte, si potrebbe trattare di un raw mix strumentale del disco. La cosa che conta, comunque, è che suona come una manata in faccia da diverse tonnellate.

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Dopo aver visto il nuovo video dei The Body non saprete più che cos'è la felicità

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Foto per gentile concessione degli artisti.

Sulla carta—prima di premere play—i The Body sembrano presentare il proprio nichilismo in bocconi facilmente digeribili, con titoli di canzoni, titoli di album, slogan da t-shirt. I due tizi barbuti responsabili del casino, Chip King e Lee Buford, sono davvero bravi a tirare fuori dal nulla titoli di dischi incredibilmente sconfortanti e distopici; ricordiamo grandi hit della disperazione come I Will Die Here e The Cold, Suffocating Dark Goes On Forever and We Are Alone, e collaborazioni deprimenti come Nothing Passes e You, Whom I Have Always Hated. King e Buford amano chiaramente la propria arte e adorano fare musica con i loro amici, band come Thou, Krieg e il coro Assembly of Light, ma non lo indovineresti mai basandoti soltanto sul puro disagio della musica che producono. È una strana contrapposizione, eppure funziona bene—a volte troppo bene. C'è da chiedersi come riescano a uscirne e a sfuggire a quell'enorme carico di oscurità dopo averle conferito una vita fatta di frequenze basse e urla stridule. Forse non ci riescono proprio.

Il nuovo, abrasivo full-length dei The Body No One Deserves Happiness è davvero il più estremo, però, dal punto di vista del buio perpetuo delle sue atmosfere. L'album è pieno di momenti power electronics, dei famosi ululati sofferenti di King e delle melodie vocali angeliche di Chrissy Wolpert del coro Assembly of Light, e ha un incedere da animale ferito. Le radici della band rimangono ben piantate nel doom fangoso e nel drone, ma ora sono seppellite da così tanti strati di disagio che è difficile anche classificare questo album come "metal"—è soltanto musica estrema, soprattutto estrema, estremamente estrema. 

Se pensate di essere in grado di sopportarlo, premete play sul video di "Two Snakes" qua sotto, e rendetevi conto che a partire dal 18 marzo No One Deserves Happiness (su Thrill Jockey).

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Chiedi chi erano gli Stadio

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"Intervistatore - Praticamente per farvi conoscere dalla grande massa del pubblico avete sfruttato un attimino il cinema di successo..
Marco Nanni - Ti fermo subito: non è servito per conquistare il pubblico. Qual è la cosa che ci è servita di più per farci conoscere dal pubblico? È stata?
Ricky Portera - Cosa è stata?
M.N. - Cos’è stato che ci ha fatto conoscere?
R.P. - Aaah…Sanremo?
M. N. - Eh, per forza."
(Stadio, 1985 all’uscita di “Chiedi chi erano i Beatles” — Intervista a Radio Studio 104)

Come promesso, oggi parleremo degli Stadio, freschi di trionfo all’ultimo festival di Sanremo. Proprio in questi giorni stanno iniziando un tour teatrale per promuovere il nuovo album, Miss Nostalgia. Non è un disco di cover di Fabri Fibra come potrebbe suggerire il titolo, ma una nuova raccolta d’inediti attualmente al settimo posto dei dischi più venduti in Italia (!).  Risultati incredibili se pensiamo che la canzone vincitrice, ovvero “Un giorno mi dirai” è un copia e incolla di frasi musicali fatte, rubate a Battisti (incipit fregato a "Il Mio Canto Libero" ),  Baglioni (il bridge qua è inculato a “Lettera”), per non parlare delle microcitazioni Vascorossiane sparse, quasi da cover band, e dell’arrangiamento finto-rock-pompatone alla Modà. Vabè, che possiamo pretendere, quando anche Patty Pravo (alla sua veneranda età) gonfia labbra e pezzi e cita Battisti ("Cieli immensi"... e annamo sù...)? Questo passa il convento nel 2016, non a caso il coautore del brano degli Stadio è questo tizio qua, che a mio parere vanta un curriculum da criminale di guerra

Al contrario, gli Stadio in passato sono stati autori di pregio, che spesso tentavano la spallata al pop italiano con un’attitudine coraggiosa: d’altronde, com’è noto, iniziarono la loro carriera in qualità di backing band di Dalla nell’ostico Anidride Solforosa, arrivando poi alla formazione definitiva proprio con lo storico live Banana Republic, nel cui film un Gaetano Curreri (voce e leader della band) appena arruolato ai cori e alle tastiere dirà la sua sulla canzone italiana in questi termini: "De Gregori è un ottimo poeta, musicalmente mi piace forse meno". Ed è vero, perché a differenza di Francesco, agli Stadio interessava moltissimo sperimentare con le sette note, pur tenendosi dentro un impianto popolar/coatto: già dal nome, trovato da Dalla, rappresentano qualcosa di ovviamente anti intellettuale, ma allo stesso tempo culla di fantasisti. E, infatti, nel primo album troviamo sia sferzate di rock elettrico (“Chi Te L’Ha Detto?”) un pezzo meraviglioso come  “Un Fiore Per Hal”,  via diversa al kraut italiano tanto da essere stato coverizzato addirittura dal nostro Polysick, che ne tesse da sempre le lodi. O come brani sulla “vita spericolata” ante litteram, con dentro parolacce (“Grande Figlio Di Puttana” è scritto, infatti, nel 1981, un pezzo dedicato da Dalla al loro guitar hero Ricky Portera, uno dei migliori manici del rock italiano e bad boy senza se né ma).

E si che essendo tutti  “Bologna-based”, anche Vasco si troverà a bazzicarli; tanto da coltivare un’amicizia solidissima con Curreri, il quale non solo sarà una delle colonne portanti della Punto Radio fondata da Rossi, ma firmerà molti dei suoi successi futuri arrangiando i primi due dischi (in Ma Cosa Vuoi Che Sia Una Canzone addirittura ci saranno ben tre Stadio a partecipare) e in particolare l’evergreen “Albachiara”. A dirla tutta, anche Portera più avanti donerà “Una Nuova Canzone Per Lei” a Vasco: di conseguenza il Blasco sarà uno dei più gettonati parolieri degli Stadio ( sempre avvezzi a svariate collaborazioni in questo senso). Basti pensare al successo generazionale di “Acqua E Sapone” dell’83, pensata per la colonna sonora del film omonimo di Verdone ma prima di tutto per essere un esempio di technopop italiano ancora oggi poco ortodosso (inizio minaccioso, sviluppo subdolo, nessuno spazio per le chitarre, tematiche al limite della pedofilia).  

Gli Stadio però non sono solo questo: nel primo album fanno debuttare un ancora acerbo Luca Carboni ai testi, che appunto nel successivo La Città Delle Donne dell’84 firmerà la quasi totalità dei brani (nello stesso anno Curreri gli produrrà il primo album solista). Dei talent scout d’eccezione quindi: proprio con Carboni gli Stadio tenteranno i primi due approcci con Sanremo, ovviamente fallimentari. Nell’84 con l’anti-sanremese "Allo Stadio" (canzone che tratta del genere “public places”, due ragazzi che decidono di scopare sul prato durante un concerto rock!) e nell’86 con la sempre sottovalutata “Canzoni Alla Radio”, che come già dicemmo qui è invece da considerarsi come uno dei più grandi brani italiani di sempre. In entrambi i casi, gli Stadio si piazzano ultimi. "Ironia della sorte"? C'è forse da riflettere su questo recente primo posto?

Ebbene, gli Stadio nel frattempo rimangono il fedele motore di Dalla e dei suoi correlati (nella fattispecie Ron): ma alla fine dell’ 84, a poca distanza dall’esperienza sanremese, gli viene proposto di incidere un Qdisc. Si trattava di un mini-album di soli quattro brani, formula ideata dalla RCA per sconfiggere una delle tante crisi del disco e per rivolgersi anche alle tasche meno abbienti. La canzone traino di questo EP darà il titolo all’intero progetto: trattasi della fondamentale “Chiedi Chi Erano I Beatles”. Oramai entrata nella storia della canzone italiana. Il  suo testo è opera del grandissimo poeta Roberto Roversi, storico collaboratore del Dalla periodo “trilogia politica”, che si firmerà con lo pseudonimo di Norisso. È proprio a seguito del divorzio con Roversi che Lucio partorirà la sua opera più riuscita, Com’È Profondo Il Mare: nonostante il poeta rivoluzionario non accetti questa svolta a suo dire più “di massa” che di popolo, i due continuano ad avere rapporti strettissimi, tant’è che Dalla propone a Curreri di musicare una poesia del nostro. L’impresa sembra impossibile, non si tratta di roba a rime baciate. Curreri tentenna, ma Dalla quasi lo costringe, sente che è il momento giusto per gli Stadio: ci vedrà lungo, precedendo di alcuni anni le operazioni di Battisti con Panella (ovvero musica dal testo e non viceversa). È vero che “Chiedi Chi Erano I Beatles” è conosciutissimo e fu il primo hit importante, ma il resto del Qdisc assolutamente no: a dirla tutta anche il brano principe è sovente analizzato a casaccio, quando invece la sua portata emozionale è tanto violenta da rasentare l’irrazionale. Vediamo quindi  cosa bolle in pentola.

La title-track vale l’acquisto del disco: musicalmente c’è un Curreri in stato di grazia che riesce a tradurre con efficacia il misto di smarrimento, malinconia, commozione e follia latente del testo, con un arrangiamento tipo “demo di Purple Rain”. Molti hanno parlato di questo brano liquidandolo sbrigativamente e in maniera reazionaria come una canzone sulla generazione dei Beatles vs. quella degli anni oOttanta, allo sbando e priva di valori, alla quale era necessario "insegnare con tutte le cose non solo a parole". In realtà il testo di Roversi parla di un futuro molto più lontano, in cui la storia si è persa, i giovani riescono a malapena a ricordare l’olocausto nucleare, con l’agghiacciante verso “Dopo le ferie d’agosto non mi ricordo più il mare / Fatico a spiegarmi le cose / Per restare tranquilla scatto a mia nonna le ultime pose”.  Chi ascoltava i Beatles sono i nonni, non i padri... forse addirittura i bisnonni. Come anche ne “il motore del duemila” Roversi si rivolge ai ragazzi del futuro in preda all'HDADD e ai selfie, per cui i Beatles non sono NESSUNO se non un mero prodotto commerciale d’epoca e quindi nullo è il loro presunto messaggio rivoluzionario (da qui l’insistere sul tema, cosa che negli anni Ottanta della seconda giovinezza beatlsiana era inspiegabile, mentre ora cominciamo a capire).

Nel video, infatti, la protagonista è una ragazza colpita da allucinazioni del passato: in primis un Curreri che sembra uscito da un film comico degli anni venti, in un freddo ambiente che sa tanto di anni Ottanta quanto di futuro postmoderno, dominato da sale giochi e professori nostalgici ancora in fissa con i super8. Lei arriva a distruggere a colpi di mazza da baseball il presente (ovvero la cena di Natale) col gran finale della perdita di se che può portare alla libertà che poi è come la morte: “Di notte sogno città che non hanno mai fine / Sento tante voci cantare / Nuoto fra onde di sole cammino fra il cielo e nel mare”. Chi erano mai questi Beatles? Davvero una domanda che oggi come oggi è di difficile risposta e fa di Roversi un genio profetico che ancora rimpiangiamo.

Notare un geniale cameo di Dalla nella sala giochi al minuto 2:31


Che un EP nato per capitalizzare un ultimo posto a Sanremo trovi al suo interno una canzone che avrebbe sbancato tale manifestazione è quasi un paradosso. Roversi butta subito giù il carico da cento, per cui il secondo brano del lato A ha un altro colore e ridimensiona tutto. Stavolta ai testi c’è Luca Carboni, che dipinge un quadretto leggero su un vedovo di periferia innamorato di una signora. Come per rispondere ai giovani di “Chiedi Chi Erano I Beatles” i nonni non hanno problemi a rinascere dalle disgrazie e a ricordarsi le cose fondamentali della vita, tanto che limonano anche se devono “Scambiarsi le rughe in una 126”. Il pezzo è al novanta percento elettronico, un mood iniviale alla Dalla (che tra l’altro appare nei cori non accreditato, prima di adottare il soave nick di Domenico Sputo) e poi virare verso uno spezzato powerfunk con schizzi di guitar synth suonati da Tony Rampotti (che curiosamente nello stesso anno registra e missa la colonna sonora di Conan Il Distruttore) e i mallets del PPG di Paolo Venditti (fra gli altri, già ingegnere del suono per Processione Sul Mare di Toni Esposito). Il lato A si chiude con un senso di ottimismo, bilanciando bene l’esistenzialismo iniziale.

Ed ecco partire il lato B, che inaspettatamente contiene ben tre brani. Finiranno tutti nella colonna sonora de “I Due Carabinieri” di Carlo Verdone: sorte che avranno anche altri pezzi degli Stadio, quasi a scadenza regolare. Ovviamente non ci troviamo di fronte a una colonna sonora, bensì a dei pezzi che vivono di vita propria. Il primo, “Vorrei”, vede al testo la collaborazione fra Dalla e Carboni. Inizia con una classica spianellata cantautorale per arrivare a un’atipica canzone d’amore carnale “dei giovani”. “No non voglio l’erba / Voglio solamente… niente” non perdiamo tempo a farci i cannoni, dimmi di sì, facciamolo ora.”Vorrei che invece della strada ci fosse la tua pelle / E a casa non tornare più”: un lento che sotto l’apparente romanticismo ha un’anima rock, e, infatti, esplode quasi subito grazie ai chitarroni metallari di Portera e le descrizioni “piccanti” del testo. Nonostante Curreri abbia la rassicurante faccia del figlio del panettiere, gli Stadio non sono certo dei bravi ragazzi, menchè meno Dalla e Carboni… e si sente.

"Ba...Ba...Ballando " è invece il più dinamico del lotto, fra il New Romantic più sintetico, i Police di Regatta de Blanc e il funk bianco metronomico. Anche qui Carboni è in zona sensuale: descrive una situazione di un tipo che cerca di conquistare la sua lei in discoteca, ma non è in grado di lasciarsi andare sulla pista perché il suo unico pensiero è... indovinate? Con il verso “Mi chiedo tu come fai / Non hai mai letto Hemingway / Non sai niente non sai” e i suoi cori da (appunto) stadio, il brano rischia quasi di diventare un inno delle “macchine desideranti”. Tra l’altro Impreziosito da un solo di sax del jazzista Maurizio Giammarco, prima del suo ingresso nei Lingomania.

È il momento della chiusura “alla Stadio”: “La mattina” è un pop rock saltellante aperto da una sezione fiati "finta come la vita", in cui Dalla e Carboni descrivono tipici scenari di disagio metropolitano con l’ironia amara che li contraddistingue. “O pago i debiti o cambio città / Mi infilo in bocca il tubo del gas” e via dicendo . “Guardalo là c’è uno stronzo che fa il bagno, chissà”, si arriva addirittura a cagarsi sotto nella vasca? Può essere, considerato che il tipo fantastica che arrivi un cameriere a portargli il pranzo mentre sorseggia champagne a mollo... Forse non è proprio quello che si dice una persona lucida, anche perché passa metà della giornata a letto. Canta Ricky Portera dividendosi il ritornello con Curreri, terminando il lavoro in maniera frizzante, fresca, come minimo sopra le righe. Sarà però l’ultimo disco con la formazione originale.

Infatti, nel giro di pochi anni gli Stadio si sfaldano: il primo ad andarsene è il tastierista Fabio Liberatori, stufo della vita on the road, seguito a ruota da Ricky Portera poco dopo il fortunato tour di Dalla in America. Sarà proprio lo strappo con Dalla a consegnare agli Stadio al pop più generalista: Curreri è deciso a non sacrificare il suo progetto e a far sparire dall’immaginario collettivo l’etichetta di “backin' band di Lucio Dalla”, sempre impegnata in ogni suo tour. Risultato: subito dopo questo illustre divorzio, nei primi anni Novanta, anche il bassista Marco Nanni lascerà la band non senza rancori, entrando a far parte degli Skiantos (ricordiamo che Freak Antoni scrisse per gli Stadio la quasi autocritica “Incubo Assoluto”). Lungi dal trovare un assetto stabile, ben presto anche i sostituti decideranno di mollare la band per entrare nel team di Dalla, entità che rappresenta per i nostri eroi una pesante eredità (la loro svolta sanremese è stata tutto una dedica e un omaggio al Vate, d’altronde): se non che, a tutt’oggi, gli unici veri Stadio sono Curreri e il batterista Giovanni Pezzoli. Nonostante tutto, gente che è sopravvissuta a pesanti ictus ed è rimasta in sella al pop italiano anche quando si dava per scontato che sparissero; ma con un curriculum come il loro un’ipotesi del genere rimane sicuramente tale, anche per gli illustri collaboratori come Roversi, che continuerà a scrivergli cose. L’unico problema è che, a fronte di questa controversa vittoria sanremese, molti giovani si chiederanno “Chi Erano Gli Stadio?” Anche perché la canzone regina era stata precedentemente  (e secondo noi giustamente) scartata. E forse la risposta è proprio in uno dei loro brani: “Grandi però / Che grandi figli di puttana!”. 

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Breve storia degli italiani che cantano (male) in inglese

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Nel 2003, Pierpaolo Capovilla affermava che l’idea di usare l’italiano per i suoi testi non lo aveva mai sfiorato. “Cantando in inglese con una sola frase di poche parole puoi dire un sacco di cose. Con l'italiano no.” Parlava di maggiore flessibilità della sua “metrica musicale”, e si diceva al contempo “non interessato” al fatto che la gente potesse non comprendere i suoi testi: gli One Dimensional Man si erano creati una fanbase che “sapeva i testi a memoria”, e quello importava. Definiva i suoi “testi d'amore, non l'amore malato alla Nick Cave, piuttosto qualcosa di più vicino a Tom Waits. Parlo di cose che possono accadere a tutti. Divorzi, separazioni.” Nel 2003, Pierpaolo Capovilla sbagliava l’ordine delle parole in una domanda in inglese nel testo di "Tell Me Marie", con un bel “why you don't talk anymore?” e un ulteriore “Why God wasn't watching over you?”.  

Nel 2009 Pierpaolo Capovilla sosteneva che cantare in italiano è “bello, perché finalmente chi ci ascolta comprende ciò che dico: è l'unico modo per arrivare al cuore delle persone.” Parla di immediatezza della nostra lingua, definisce l’inglese “un media fra ciò che pensi e ciò che dirai”, e dice di “sorridere” quando sente dire che “fare rock in italiano è difficile”. Nel 2016, Pierpaolo Capovilla parla in ogni intervista di quanto la musica sia un fatto sociale ed usa la parola “Pasolini” più delle congiunzioni. Quella nel gusto e nelle opinioni di Pierpaolo Capovilla è un’evoluzione personale ed artistica sul cui valore non entreremo nel merito, non oggi almeno. Le domande che ci poniamo sono, invece: che cosa significa e ha significato cantare in inglese in Italia? E quali sono gli effetti pratici di queste scelte?

Penso che in questo caso l'emulazione giochi un grande ruolo: ascoltiamo tutti o quasi molta musica cantata in inglese, e quindi ci viene naturale imitarla, prenderla come esempio. È alla fonte del luogo comune “l’Italia arriva sempre tardi”: con i nostri tempi, assimiliamo forme musicali extra-nazionali e ci facciamo qualcosa. L’origine di questa struttura sta però nella pratica, tipicamente e storicamente italiana, di reimpacchettare (o quasi) brani stranieri per venderli al nostro pubblico generalmente poco cosmopolita. Limitandoci all’inglese, pensiamo anche solo agli anni Sessanta, quando i Dik Dik cantavano “Sognando la California”, o l'Équipe 84 interpretava “Bang Bang”. L’Italia del boom un po’ imitava i maestri inglesi e americani e un po’ se ne lasciava ispirare, e il risultato furono un movimento beat italiano coi controcoglioni e una delle scene progressive rock più prolifiche e rispettate del mondo (a cui torniamo tra poco). A questo si univa un fenomeno oggi quasi impensabile: artisti stranieri si lanciavano sull’allora fiorente mercato discografico italiano, ed erano loro a cantare nella nostra lingua. 


I The Trip con Gianni Boncompagni e Raffaella Carrà in RCA, nel 1970.

Gli inglesi Rokes, che scoprirono di piacere agli italiani dopo un concerto improvvisato a Torino in cui suonarono solo cover, ne sono stati forse l’espressione più forte. Ascoltare oggi i loro brani non può che far sorridere: il loro è un beat piacevole ma formulaico, ed è impensabile che un gruppo con un accento simile oggi possa vendere 5 milioni di dischi. Ma all’epoca funzionavano da dio, a tal punto che Gianni Boncompagni (Discoring, Non è la RAI) e il talent scout Alberigo Crocetta (che ha scoperto, tra gli altri, Patty Pravo) ci riprovarono, adescando i Primitives a Soho e portandoli al Piper di Roma con risultati qualitativamente e commercialmente altalenanti. Resta che chiamare il proprio primo singolo “Yeeeeeeh!” e iniziarlo con le parole “I tuoi ochi sono fari abbalianti, io ci sono davanti! Sì!” è una cosa adorabile. Altri esempi di successo ci sono comunque stati: lo statunitense Rocky Roberts (“Staaaasera mi butto…”), il canadese Paul Anka (“Ogni giorno” la sapete, dai), il franco-italo-libanese Herbert Pagani. Queste strutture di emulazione e ibridazione cross-nazionale, per quanto limitanti, avevano un loro fascino—e ce l’hanno ancora oggi: una sorta di sbiadito, piacevole ricordo di un tempo in cui la musica era ancora un campo libero in cui non esisteva una lingua dominante, e Brassens era un’influenza legittima tanto quanto Guthrie. 

Un passaggio fondamentale per lo sviluppo di un cantato inglese in Italia fu lo sviluppo della sopracitata scena progressive rock e, nello specifico, la pubblicazione di una versione in inglese di Felona e Sorona delle Orme da parte di Charisma Records, già casa di Genesis e Van Der Graaf Generator. Fu l’etichetta stessa a contattare il gruppo, e le rilavorazioni dei testi in inglese furono curate da Peter Hammill, proprio dei Van Der Graaf. Seguì a breve giro la Manticore, etichetta di Emerson, Lake and Palmer, che tirò a sé il Banco del Mutuo Soccorso e la Premiata Forneria Marconi. Ci si aspettava un meritato successo internazionale per quelle che erano verosimilmente promesse del genere di pari qualità ai loro equivalenti britannici. E invece. Ci furono sì concerti, tour, copie vendute. Ma, ancora oggi, il prog italiano è considerato un’entità a sé: affascinante, di qualità, interessante, unica. Ma qualcosa di, appunto, “italiano”—una definizione che lo esclude dal canone del genere. Sarà una cosa da poco, ma cercate Le Orme e il Banco su Spotify e chiamatemi se riuscite ad ascoltare uno dei loro album in inglese (la PFM c’è, stranamente).

Tra i motivi di questa non-esplosione non ci fu, ovviamente, la musica in sé. Il punto è che il prog è un genere in cui l’elemento lirico è tradizionalmente complesso e concettuale in cui il rischio-pretenziosità è costantemente dietro l’angolo. Brevemente: siamo buoni tutti a (cercare di) scrivere in inglese canzoni d’amore, ma raggiungere la profondità semantica di un "In the Court of the Crimson King" non essendo nati almeno nel Regno Unito è praticamente impossibile. Ma anche normale: gli anni Settanta furono un momento di grande evoluzione musicale, e con la diversificazione del tessuto sonoro si ampliarono e infittirono i relativi costrutti testuali, e conseguentemente aumentò il livello di scrittura necessario per fuggire alla mera copia di un modello preesistente. Un secondo punto fondamentale è il caro vecchio valore dell’opera originale rispetto alla sua rielaborazione. Hammill non aveva tradotto i testi delle Orme, li aveva riscritti da zero. E il contributo di Peter Sinfield ai testi della PFM fu fondamentale per non far storcere subito il naso ai madrelingua, ma non fu abbastanza. Se ci pensiamo, snaturare così tanto e su così tanti livelli il significato originale di un brano non ha alcun senso—nemmeno a livello commerciale, a meno di parlare di pop.

“Impressioni di settembre”: a destra il rifacimento, a sinistra l’originale, feat. errori di spelling dei siti di testi fatti male.

Un ascoltatore italiano preferirà sempre una “Impressioni di settembre” ad un suo rifacimento intitolato “The World Became the World”. Questo perché  1) di una rilavorazione non ce ne facciamo niente 2) scrivere nuovi testi per brani già esistenti (o adattarli con cambiamenti strutturali) causa non solo significative differenze testuali rispetto all’originale, ma anche una forte perdita di direzione, una ramificazione nebbiosa all’interno di una discografia. Una PFM che suona brani in due lingue, magari in base alla nazione in cui si trova, perde identità. Facendo un salto temporale e sonoro: i Rammstein, che sono riusciti a diventare famosi in tutto il mondo mantenendosi assolutamente teutonici usano sì l’inglese, ma solo per scelta artistica (e per sfottere gli americani). A tutto questo si aggiunge l’effetto “Se mi lasci ti cancello”: un nuovo titolo pensato in un momento diverso da quello della concezione dell’opera, atto solo a convincere un nuovo target. Infine, la pronuncia: per tutto l’aiuto che Hammill e Sinfield potevano dare a livello testuale, le voci e gli accenti di Mussida o Tagliapietra o chissàchi restavano inesorabilmente latini. E fidatevi che un inglese si accorge se a cantare non è un madrelingua—o comunque una persona fortemente allenata e/o ben formata (se a quest’ultima parte vi si è accesa in testa la parola “Scandinavia” va tutto bene). 

Un bagliore di speranza nell’uso dell’inglese in Italia fu ed è, credo, l’opera di Franco Battiato. Cito una sua intervista dell’anno scorso: una giornalista canadese gli chiede perché ha tradotto in inglese solo alcuni brani di Apriti Sesamo, il suo ultimo LP. Battiato risponde: “L’adattamento, quando riesce, lo faccio volentieri. Se non riesce, non lo faccio.” Il suo è un riconoscimento dei propri limiti, una debolezza resa forza. Lasciando stare gli esperimenti di gioventù (Foetus si rifà alle logiche del prog di cui sopra), Battiato fu il primo a rendersi conto di come il suo inglese consciamente e decisamente scalcagnato potesse arricchire il proprio immaginario artistico, già spiccatamente internazionale e cross-culturale a livello tematico e sonoro. Questa logica si palesa chiaramente nel testo della celeberrima  “Cuccuruccucù”: una serie di madeleine esperienzial-linguistico-musicali in cui il citazionismo diventa medium di espressione sentimentale. Il suo finale, per quanto mal pronunciato e con qualche parola al posto sbagliato (“Liiikee juuust a womaaaan…”), assume la funzione di una scatola dei ricordi musicale, un pastiche creativo in cui non è l’accento di Battiato che importa ma ciò che sta dicendo: i titoli delle canzoni che ha sempre ascoltato e che gli hanno lasciato qualcosa dentro, pronunciati come l’italiano che è. 

Lo stesso approccio si ritrova nell’opera di Giuni Russo, che Battiato aiutò a rendere grande (assieme a quel genio creativo che fu Giusto Pio) rendendosi conto di quanto le sue capacità vocali potessero accompagnarsi ad una poetica mondiale come la macchina di Volponi e quindi umanistica, ad un incrocio linguistico reso accessibile il giusto da poter risultare popolare. “Good Good-Bye”, ad esempio, intavolava un gioco in cui l’inglese era usato col contagocce, e solo per esprimere le parti più amare del testo. “Una Vipera Sarò” aveva le “trifonie dei mongoli”, “Keiko” usava il giapponese. Ma le speranze della Russo si infransero contro le logiche economiche perpetrate da Caterina Caselli, patron della sua etichetta CGD, che perseverò nel cercare di farla uscire con delle nuove “Un’Estate al Mare” fino quasi a tagliarla fuori dal mercato discografico dell’epoca. E poi, bastoni su bastoni tra le ruote: su tutti, l’esclusione da Sanremo 1984 in favore della ben più commercialmente gestibile Patty Pravo. Che—notiamo—cantava sì anche in inglese, ma quell’inglese che avrebbe aperto un nuovo grande periodo, definito dall’inglese maldestro e malridotto dell’italodisco e dell’euro-pop più embrionale.

E proprio questa progressiva distinzione tra “lingua straniera come strumento espressivo” e “lingua straniera come strumento commerciale” sta al cuore dell'evoluzione della musica italiana, a partire dagli anni Ottanta. Iniziamo da Londra. È lì che, nel 1977, Raffaele Riefoli (che probabilmente avete sentito nominare come “Raf”) fonda i Café Caracas assieme a Ghigo Renzulli, poi ideatore dei Litfiba. Insieme fanno ska-punk, e lo fanno già in barba a qualsiasi definizione di genere: il loro primo singolo contiene un rifacimento di “Tintarella di Luna” di Mina e un brano in inglese dallo sgrammaticatissimo titolo “Say It’s All Right Joy”. Dopo aver suonato di supporto ai Clash a Firenze (sticazzi, tra l’altro), il gruppo si scioglie. Renzulli incontra Gianni Maroccolo, con cui fonda i Litfiba e, tramite la figura di Pelù, è tra i primi a fare post-punk e new wave in italiano (e altre lingue, saggiamente usate con il contagocce—vedi il francese in “Paname”).

Raf, invece, usa un brano in inglese dei Café Caracas, “Self Control”, come singolo principale del suo primo album solista. A permetterglielo è l’incontro con Giancarlo Bigazzi, produttore e membro degli Squallor. “Self Control”, a livello sonoro, è pura new wave, italo-pop: e se ne accorge l’americana Laura Branigan, che nel 1984 ne fa una cover, trasformandola in una hit europea: per fare il trucco è bastato aggiustare l’accento italiano di Raf e cambiare qualche parola un po’ storta nel testo. Il brano originale ha comunque il suo discreto successo, e porta con sé due fenomeni contrapposti. In negativo, l’usa-e-gettabilità del prodotto musicale, che vide negli anni Ottanta un’esplosione enorme sotto forma di one hit wonder improponibili (vedi Sabrina Salerno che nel 1987 arriva in classifica in UK con “Boys”, con un video le cui protagoniste assolute sono comunque le sue tette); in positivo, la nascita di un certo fascino dall’estero per l’italianità, la burinaggine del nostro accento e della nostra musica, il cui embrione stava nell’espansione dell’italo disco tramite l’opera di Giorgio Moroder e dei fratelli La Bionda

In quest’ottica, cantare in inglese male era diventato parte integrante del fare musica italiana. Il fatto che il testo di “Self Control” fosse una serie infinita di frasi coordinate e banalità non importava affatto: a noi sembrava comunque qualcosa di esotico, internazionale; gli stranieri si prendevano bene esattamente per l’italianità dell’interpretazione. E la stessa cosa valeva per “People From Ibiza” di Sandy Marton (che tra l’altro era croato, e tra l'altro è stato scoperto da Cecchetto): chissenefotte se la rima più sorprendente del pezzo è bad/sad, l’importante era che fosse un bellone simil-mediterraneo. Gli esempi sono tantissimi, a partire da “Masterpiece” di Gazebo e “Survivor” dell’italianissimo Mike Francis

Quello che permise ad alcuni degli artisti dell’epoca di avere un effettivo e duraturo successo fu la presa di coscienza che l’interesse nei confronti dell’italianità come burinaggine linguistica avrebbe, prima o poi, terminato il suo carburante commerciale ed espressivo (MA VA'?). E allora Raf si diede subito all’italiano con il suo secondo LP, e arrivò il grande successo in patria. E così fece Ivana Spagna, e così fece—soprattutto—Jovanotti, che ai tempi del suo esordio Jovanotti for President se ne usciva con barre di fuoco tipo “Pretty girls you don't stop / ‘Cause I'm Jovanotti, gonna make you rock” e comunque aveva successo: era in Italia, faceva l’italiano che cantava il rap in inglese, era così innocuo da poter andare in TV il pomeriggio: e che i testi fossero scritti con il dizionario tascabile non importava a nessuno. Ma fu il passaggio all’italiano a cementare tutti e tre come cantautori, e soprattutto a dar loro il benestare per la scalata al successo.

La cosa assurda è che, se ci pensiamo, il percorso linguistico intavolato finora si è praticamente ripetuto quasi identico un paio di piani sotto, a livello di underground, di """rock indipendente""" (ci metto tante virgolette perché sappiamo che non è riducibile a una definizione). Tantissime band di ogni genere hanno visto il loro pubblico aumentare esponenzialmente con un passaggio da un inglese semi-corretto e mal pronunciato all’italiano, fino a creare, ad esempio, quelle cose che ora chiamiamo “indie italiano”, e “scena emo italiana”. E questo passaggio non è avvenuto consciamente, almeno credo. Nessuno si è messo a tavolino, guardandosi occhi negli occhi con Capovilla per convincerlo che avrebbe dovuto cantare in italiano perché al nostro Paese serviva un nuovo vate. O forse qualcuno si è anche reso conto che per stare in questo Paese bisogna scendere a patti col suo provincialismo e con la voglia di sentirsi sempre a casa, soprattutto linguisticamente (se ci pensate, è lo stesso processo che ci porta ad essere i più forti del mondo quando si parla di doppiatori, mentre in tutto il resto del globo si convive più tranquillamente con l'idea che—hey—esistono anche prodotti culturali in altre lingue!). Ma lasciando perdere le elucubrazioni, può essere semplicemente accaduto che diversi artisti con un onesto seguito abbiano provato a usare la loro lingua, lasciandosi dietro le storture e le pronunce da quinta liceo, e abbiano visto che funzionava sia per loro come scrittori che per il loro pubblico, che finalmente iniziava a cantare i pezzi, a trascriverseli sul diario (e per diario intendo Facebook).  

Nei Novanta, la struttura di cui sopra è stata particolarmente evidente negli Afterhours. Dopo tre album in inglese arrivò Germi, e quasi immediatamente si iniziò a parlare di una prolifica scena alt-rock nazionale la cui coda lunga è formata, oggi, da quello che sappiamo. Ma, indipendentemente da giudizi di gusto, è evidente come il passaggio alla lingua natìa abbia avuto, e abbia tutt'ora, il potenziale di valorizzare contenuti lirici altrimenti voglio-ma-non-posso, e quindi portare ad un significativo successo discografico. A mostrare quanto i corsi e i ricorsi della storia siano un concetto sensato c’è il loro Ballads for Little Hyenas, rifacimento in inglese di Ballate per Piccole Iene. Venne pubblicato per One Little Indian e nacque con la supervisione di Greg Dulli degli Afghan Whigs, che già aveva curato la produzione dell’originale italiano. Un po’ com'era successo col prog rock, e con risultati molto simili: oggi Agnelli suona sì in giro per l’Europa—in acustico, in supporto proprio a Dulli, e a vederlo ci sono sempre solo un sacco di italiani (presi benissimo però). 

Ha quindi totalmente senso che, attorno al 2008, lo stesso passaggio linguistico abbia portato alla nascita di quel movimento eterogeneo che viene definito “indie italiano” e aveva allora una generale parvenza di freschezza, novità e valore artistico. Per fare un nome: nonostante fossero anni che usavano sia l’inglese che l’italiano, gli Zen Circus iniziarono effettivamente a venir fuori solo con i singoli di Villa Inferno e l’endorsement di Brian Ritchie dei Violent Femmes. Prima, i loro testi erano un campo minato linguistico: il loro secondo album aveva addirittura un pezzo con un errore di spelling nel titolo ("Sneacky Behaviour"), anche se ora sul sito ufficiale hanno corretto l’errore. Ma chiamare un brano “Figlio di puttana” era molto più efficace che usare un “Motherfucker” qualsiasi: e così il successivo Andate Tutti Affanculo venne quindi percepito come un disco sincero e personale, audace ed esperienziale nel suo sbandierato, ironico qualunquismo. 

Lo stesso ragionamento si può applicare a Dell’Impero Delle Tenebre del Teatro degli Orrori, o tornando a qualche anno prima ad In Circolo dei Perturbazione: entrambi album che marchiarono la nascita di registri stilistici riconoscibili e particolarmente confortevoli per l’ascoltatore. Se devo prendermi malissimo perché la tipa mi ha lasciato mi trovo meglio a cantare “Agosto è il mese più freddo dell’anno” rispetto a “I've heard you scream your pain in vain / Alone, away from home”. Allo stesso modo, un Capovilla che al posto di “Stasera mi sbronzo di brutto e alla fine mi sdraio per terra e dormo come un cane” avesse cantato “Tonight I’ll get fucked up, I’ll lie on the train tracks and sleep like a dog!” oggi sarebbe probabilmente a suonare alle due di pomeriggio al MI AMI. 

Con le dovute differenze, lo stesso passaggio lo hanno fatto i Fine Before You Came, verosimilmente esempio più fulgido e meritevole di quella cosa che chiamiamo “emo italiano” e sotto cui raccogliamo cose molto, molto diverse le une dalle altre. Il loro esordio Cultivation of Ease, per quanto visceralmente carico di significato, si scontrava con un uso dell’inglese piuttosto amatoriale, e li “limitava” (virgolette in quanto quello che sto per scrivere non è un limite di per sé) ad un pubblico relativamente piccolo, per quanto fedele. Questo fino all’uscita di Sfortuna, primo loro album in italiano, osannato generalmente come loro capolavoro e disco-di-partenza di un filone stilistico che ha sì creato un meritatissimo seguito attorno alla scena, ma ha contemporaneamente e involontariamente contribuito alla nascita di luoghi comuni stilistici e non. Concetti come “i pugni nelle tasche” e il “quando fuori piove”; lo scrivere i testi / tutti così, senza le maiuscole / e con le barre in mezzo; il definire i membri della propria band solo come “Gli xxx sono Nando, Franco, Piero e Giovanni”. Tutti FBYC-ismi che non sarebbero forse mai arrivati a così tante persone se Sfortuna si fosse chiamato Bad Luck (quanto suona meglio in italiano, tra l’altro? Tanto). Su scala leggermente minore citiamo anche i Gazebo Penguins: l’eco ottenuto da Legna mandò immediatamente nel dimenticatoio The Name Is Not the Named, i cui testi—se pensati in italiano—proponevano in fondo gli stessi temi che hanno fatto risuonare i Gazebo con così tanti ascoltatori. Per fare un esempio: “Ho dimenticato la mia valigia preferita / Tra i bagagli smarriti, al gate dell’aeroporto / Nel frigo non c’è niente di nuovo / E ora non posso più vivere nella mia città” diceva un testo di allora, tradotto in italiano. 

Restando in tema “cose HC e DIY”, dobbiamo citare un caso particolare: i Raein, che sono riusciti a diventar famosi in mezzo mondo cantando in un inglese inizialmente non impeccabile (e ciccando pure il titolo del loro secondo album: Il n’y a Pas de Orchestre al posto di Il n’y a Pas d’Orchestre) e sono passati all’italiano a carriera già lanciata. Come? Innanzitutto inventandosi un genere che avesse un appeal fortemente sonoro più che testuale. Un ascoltatore può sentirsi coinvolto da “Tigersuit” indipendentemente da ciò che il cantante dice—dato che l’unica parte del testo che si capisce chiaramente è “This is my tigersuit”. A volte infatti i loro testi, come quelli dei fratelli La Quiete, non vengono poi effettivamente cantati: vivono solo sulla carta, pura espressione letteraria. È una modalità espressiva che dimostra come la lingua possa non essere un fattore decisivo nell’effettiva risonanza culturale dell’opera di un’artista. I La Quiete possono cantare in italiano in Giappone come in Ucraina, e la gente sarà sempre lì, schiacciatissima, a muovere la testa. 

Senza la benevola foschia data dalle grida e dai chitarroni dello screamo, però, sono cazzi: e di gruppi italiani che si ostinano (o si sono ostinati) a cantare in inglese facendo sentire bene le loro pronunce latine ce ne sono a caterve. A meno di non trovarsi per fortuna tra le mani Jonathan Clancy, bisogna accontentarsi dell'italoglese di band come Giardini di Mirò, Klimt 1918, A Toys Orchestra, Julie’s Haircut, Super Elastic Bubble Plastic, Criminal Jokers (ma c’è anche chi lo fa bene, come ad esempio i Dags!). Tutte band che si sono sparate da sole nelle ginocchia auto-escludendosi in parte dai giochi e rimanendo in una sorta di limbo tra fama e anonimato, anche esaltate a livello di stampa ma inesorabilmente rimaste chiuse nella loro fascia media di ascoltatori, che probabilmente non si pongono nemmeno il problema della lingua. È come se in alcuni casi il provincialismo facesse comodo, e in molti si adagiassero in quella fascia per cui si finge semplicemente di voler varcare le barriere linguistiche per la comodità di non scontrarsi con i costrutti complessi della nostra lingua, quando l'intenzione di varcare le barriere nazionali probabilmente è concentrata sull'approdo al palco dello Sziget. 

Ed è un peccato, perché in questo modo si lascia che la ricerca linguistica nella musica cantata in italiano rimanga confinata a territori paralleli, come quello del rap, mentre tutto il resto è solo un replicarsi di grammatiche e metriche da canzonetta pop. 

Si ha l'impressione che i musicisti italiani ad un certo punto della loro carriera si trovino davanti alla drammatica scelta tra un italiano complesso, beffardo e che il più delle volte ti ritorna indietro a boomerang e la comodità delle sillabe sbiascicate in inglese. C'è una terza via, poi, che è simile a quella alla Battiato: un approccio che usi sì il plurilinguismo, ma in maniera funzionale ai propri limiti. Quando Pop_X canta in inglese, ad esempio, lo fa con una pronuncia un po’ così e dicendo cose molto semplici, ma non disturba, anzi, contribuisce al generale dadaismo musicale che crea in ogni canzone. Ed è proprio in quest’uso strumentale dell’inglese, penso, che possa stare oggi il suo valore nella musica italiana.

Ho l'impressione che, finché per i musicisti italiani l'inglese sarà una via di fuga dalla complessità espressiva nella propria lingua, finché ci ostineremo a provare a ricreare strutture a noi estranee, o ad esprimere in una lingua che non padroneggiamo veramente le nostre idee, la musica italiana continuerà ad essere la versione da discount dell’originale. Quando prenderemo atto del nostro reale livello linguistico e impareremo ad utilizzarlo in chiave migliorativa allora sì ci sarà l’opportunità di creare qualcosa di nuovo—e speriamo che questi casi coincidano a esempi di “musica italiana” con un potenziale respiro estero. Per avere dei Phoenix, o dei Tallest Man on Earth, o dei Kings of Convenience, o dei Notwist italiani* ci vorrà innanzitutto qualcuno che decida di non comportarsi più da provncia dell'impero, che emigri, ma non per andare a vivere a Little Italy, non so se mi spiego. 

Altrimenti, sarebbe il caso di concentrarci realmente sulle sperimentazioni fonetiche e liriche che la nostra lingua permette (non lasciamo che siano sempre e solo i fuoriclasse a farlo), perché uno dei motivi per cui il rap, ora, è quasi l'unico genere che è riuscito a risalire dall'underground è che non teme di scontrarsi costantemente con un'evoluzione verbale, oltre che musicale, in modo da rimanere aderenti alle evoluzioni narrative della nostra cultura.

* Se vi è venuto in mente di commentare “CHE MERDA, MENO MALE CHE NON CI SONO GLI X ITALIANI”: sono solo esempi di band con accenti e dialettica decenti se non ottimi con un onesto seguito in giro per il mondo.

 

Elia scrive per Rumore e gestisce il sito Traduco Canzoni. Non usa mai Twitter, ciononostante eccolo qua: @elia_alovisi


La storia di Joey Beltram, l'autore degli inni techno più famosi degli anni Novanta

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Da sinistra a destra: The Advent, Blake Baxter, Joey Beltram, Mr. G e Jeff Mills nel 1997 (Tutte le foto per concessione di Joey Beltram)

Se fate parte delle persone che si sono immerse nella proto scena dance underground di inizio anni Novanta vi ricorderete sicuramente di un pezzo che, come un fulmine a ciel sereno, si è schiantato sui timpani di tutti quanti. Il pezzo è "Energy Flash" e, pure se non c'eravate, vi assicuriamo che potreste tornare indietro nel tempo e scoprire che oltre a essere stato una delle pietre miliari nell'ascesa della cultura rave, è diventato un punto di riferimento per tutte le file di teste che hanno fatto headbanging sulla techno ruvida dalle periferie di New York City alle love parade di Berlino. Quel taglio, ruvido e muscolo, era frutto della mente di Joey Beltram, che all'epoca aveva diciannove anni, e gli è valso un pezzo nella storia della cultura rave.

Un quarto di secolo dopo Beltram è ancora un adepto di quelle sonorità che hanno lanciato la sua carriera e definito i confini musicali di una scena, ma si è anche un po' addolcito. Il suo ultimo singolo, "Together", uscito su Halocyan, è una spremuta delle sue convinzioni musicali, con un groove spoglio e nervoso che ti prende a calci dal primo all'ultimo secondo, ma è la scelta dei producer a cui affidare i remix che riserva qualche sorpresa, con tre nomi più facilmente associabili alle folle estive delll'EDM che alla techno. Lo specialista della jungle di OWSLA, Wiwek, Dim Mak Jewelz & Sparks e il veterano della big-room Laidback Luke. Un altro segno degli orizzonti più ampi a cui si rivolge lo sguardo di Beltram nel 2016, che  abbiamo raggiunto grazie a Skype qualche giorno fa per una chiacchierata. Curiosamente non si trovava rintanato in qualche bunker polveroso a Berlino, anche se ha ancora un appartamento in città, ma tra i confini bucolici del posto in cui vive al momento, nel nord di New York.

Anche questo può essere un indicatore del fatto che Beltram non è più il rigido technomeister che uno potrebbe immaginarsi, soprattutto perché fino a qualche anno fa era estremamente contrariato dall'idea qualche altro essere umano si mettesse a cazzeggiare con la sua musica: "Fino a quattro o cinque anni fa ero assolutamente contro qualsiasi tipo di remix della mia musica. Non volevo essere interpretato da qualcun altro, non riuscivo a capire quale fosse lo scopo di questa operazione", mi spiega con un accento da cittadino di NYC ancora molto forte. "Ovviamente il mio ragionamento era un pochino ipocrita, dato che nel frattempo compilavo ore ed ore di remix di altri artisti, talvolta ignorando completamente il messaggio che volevano comunicare. Ruotava tutto intorno a me. Ma ora sono un po' più adulto e soprattutto molto più rilassato. Ho imparato a guardare oltre la punta del mio naso".

Questo processo di apertura è durato trent'anni e Beltram ha iniziato la sua carriera nella sua cameretta/studio a preparare mixtape con qualche nota di hip-hop per i suoi compagni del liceo. "Nel 1985 ho scoperto l'esistenza di Vinylmania in città" ricorda, facendo riferimento al negozio-icona del West Village, giusto qualche blocco più a nord di Paradise Garage.

DJ Rush, Robert Armani, e Joey Beltram nel 1996

"Avevo 14 o 15 anni e non ero mai stato a Manhattan da solo. Mi faceva anche un po' paura, ma ci sono andato lo stesso". In quel periodo la musica house stava cominciando a filtrare da Chicago e iniziava a trovare consenso nelle selezioni di DJ come Larry Levan del Garage e Bruce Forest del Better Days. Joseph Longo, poi conosciuto come il mago della deep-house Pal Joey, a quei tempi lavorava da Vinylmania e ha accompagnato Beltram attraverso dischi come "Music Is the Key" di JM Silk, che alla fine è stato anche il primo disco house che ha acquistato. Tra le motivazioni della sua apertura Beltram cita anche il mix di Tony Humphries su Kiss FM, che gli ha fatto ascoltare per la prima volta un ritmo four-on-the-floor: "Tutto a un tratto, mi ha conquistato", mi dice.

La transizione di Beltram dalla house alla techno è derivata dal suo amore per i suoni più ruvidi: "Praticamente ero già in fissa col la techno senza nemmeno rendermente conto", ammette. "Nel 1985 e '86 molta della musica house era fatta semplicemente con due suoni e un beat di 909. Era roba molto basica, ed è quello che mi piaceva, ma a un certo punto hanno iniziato a spuntare accordi di pianoforte ovunque e tutto si sono schiantati sull'apparente necessità di inserire mood sentimentali nella musica. Nessuno faceva più quello a cui mi ero appassionato". Quando ha cominciato a produrre, nel 1989, Beltram ha voluto deliberatamente stare lontano da quell'ondata di roba melodica e si è subito avventurato verso riserve di suoni più cupi. "Volevo produrre delle tracce, niente di più: una bassline ed un beat, ma in modo un po' più crudo, un po' più lunatico e che suonasse moderno. Il pubblico emergente della techno ha trovato quell'esperimento interessante, e quindi mi sono visto catapultato in quel mondo".

Beltram in Spagna con The Surgeon nel 1997 sulla strada per La Real

I primi sforzi della sua nuova visione techno-oriented sono stati registrati sotto uno stuolo di pseudonimi e fatti uscire per label come Nu Groove ed Easy Street, hanno venduto un pochino e sono stati suonati nei club più avventurosi. Ma fino all'uscita di "Energy Flash" per Beltram non era ancora successo davvero niente ed è solo da quel punto in poi che è diventato un punto di riferimento per quelle sonorità, grazie in parte anche a Renaat Vandepapeliere, l'essere umano le cui iniziali hanno dato il nome alla label R&S (di cui potete approfondire la storia qui).

Vandepapeliere dopo aver fatto uscire una versione prodotta da Beltram di "Let It Ride", firmata con lo pseudonimo di Direct, l'ha invitato nel suo studio in Belgio durante l'estate del 1989 per provare a mettere a fuoco un'altra hit. "Ero un po' nervoso perché avevo paura di non riuscire a raggiungere i risultati che mi venivano chiesti", confessa Beltram: "Così avevo preparato qualcosa e l'avevo portato con me, così se le cose fossero andate male avrei comunque potuto aprire la borsa e salvarmi il culo. Alla fine andò tutto... Niente, tirai fuori la traccia che mi ero portato da casa, ce l'avevo su un registratore a nastro. Gli piacque. Quella traccia era 'Energy Flash'."

Joey Beltram, Renaat Vandepapeliere e CJ Bolland nello studio di R&S in Belgium nel 1990. Era la prima volta che Beltram lasciava New York.

Quel disco, uscito su R&S nel 1990, è diventato uno degli anthem di quella generazione di raver e la sua fama è stata più che cementata quando è stato scelto per la Transmat di Derrick May. "Ero un ragazzo nuovo del giro e all'improvviso avevo una traccia che usciva per due delle label più calde di quel momento", dice Beltram, con ancora una nota di incredulità nella voce: "Voglio dire, ero solo un ragazzetto del Queens! Quando sono tornato a New York dal mio viaggio in Belgio ero davvero un'altra persona. Credo di aver prodotto dieci tracce nella prima settimana dopo il mio arrivo e, subito dopo, ho deciso di tornare in Europa per un altro paio di mesi".

Una di quelle dieci tracce è l'altro spaccapista di Beltram, "Mentasm", prodotta con il suo amico d'infanzia Edmundo "Mundo Muzique" Perez e accreditata all'alter ego di questo duo: Second Phase. Secondo Beltram "Mentasm" per un attimo sembrava pronta a finire nel dimenticatoio per sempre: dovendo lavorare in MIDI tutto doveva essere salvato continuamente, ma Beltram e Perez, giovani e pigri, lo facevano molto raramente. Durante una sessione in studio stavano dando gli ultimi ritocchi alla traccia—in una versione che Beltram sostiene fosse "meglio, molto meglio, di quella che esiste oggi—quando un temporale ha fatto andare via la corrente e loro hanno perso tutto. "Ci siamo proprio detti ok, non riusciremo mai a rifarla. arrendiamoci qui", ricorda Beltram: "Ma alla fine ci abbiamo provato, ed è uscita la versione che conoscete tutti".

Quel pezzo, uscito anche su R&S nel 1991, è diventato importante per la scena rave tanto quanto "Energy Flash", ed è stato oggetto di una quantità di plagi e imitazioni così grande da dare vita ad una vera e propria corrente che prendeva nome di "hoover sound" per via della somiglianza con il rumore di un aspirapolvere. Quel tono radioattivo è diventato uno dei preferiti per generi nascenti come la drum & bass e l'hard house e le sue influenze si possono sentire ancora oggi. "Sono molto felice di 'Mentasm', e sono felice di aver creato quel pezzo con Mundo", dice Beltram: "Ma non sono un grande fan dell'hoover inteso come genere, senza offesa. In ogni caso essere uscito con una roba che ha ispirato così tanta gente è piuttosto fico".

Non ci sono molti artisti che riescono a buttare fuori una traccia che definisce un'intera scena durante la loro carriera, ma Beltram ci è riuscito due volte: "Se tu potessi fare quest'intervista al me stesso diciannovenne, probabilmente avresti davanti una persona convinta di essere fortissimo e incapace di sbagliare", mi confessa mentre ride.

Negli anni successivi Beltram si è concentrato su un flusso di release che indagavano le sonorità perfezionate nel 1990 per una serie di etichette tra cui Tresor, Warp, Drumcode, Harthouse e per STX, la sua stessa label. Nonostante questi dischi non abbiano avuto l'impatto culturale di "Energy Flash" o "Mentasm", è difficile negare il loro valore. Provate ad esempio ad ascoltare "Ball Park" del 1998 o "In the Ultra Drive" del 2003. Sono pezzi definiti ed efficienti, ancorati a pochi sample e synth elementari, in altre parole: materiale da rave nella sua forma più pura. Beltram sa quello che fa, e lo fa bene.

Pezzi come questi sono stati le basi per una carriera da DJ che l'ha portato dal Womb di Tokyo al Coachella. "Sono stato sempre impegnato, fin dall'inizio", mi dice, prima di regolare un po' il tiro: "Be', ci sono stati alcuni momenti meno interessanti e stimolanti degli altri, ma su trent'anni di tempo mi sembra abbastanza accettabile. Ci sono momenti della vita in cui vuoi soltanto fare qualcos'altro, quindi può essere divertente concedersi sei mesi di tanto in tanto e smettere di pensare alla musica".

Forse non replicherà più quello shock provocato dalla novità che i suoi primi lavori hanno messo in moto, ma in termini di prolicità Beltram sembra appena entrato in una parte della sua vita particolarmente fertile. Ha appena fatto uscire "Sirenator", una collaborazione con Umek, un remix per "Trumpets Of Death" di Raul Mezcolanza & Envel e c'è anche un altro remix per Marc Romboy in uscita. Un intero album firmato Joey Beltram è previsto per l'estate.

Beltram mentre suona a Tolouse in Francia, nel 2013

E, ovviamente, c'è "Together", di cui abbiamo parlato in apertura ed un banger a propulsione adrenalinica con la sua scia lunga di remix. Beltram sostiene di non aver puntato molto sul ritorno di fiamma da parte dei suoi vecchi fan, anche se potrebbe fare qualcsoa in quella direzione: "Mi piace ogni tanto inserire delle variabili in quello che faccio, anche se non è facile" dice un po' dispiaciuto. "Mi sono abituato alle critiche, anche quando uscì 'Energy Flash' ricevetti una serie di recensioni orribili, roba come 'Oh, è hardcore, è solo rumore'. Credo che il disco oggi sia tra i preferiti degli autori di quelle recensioni. Stesso discorso per 'Mentasm'. Le persone dicevano 'Questa è la fine della musica. Una vera merda'. Tutte queste critiche mi hanno fatto la pelle dura, sono pronto a tutto. E comunque, cosa potrebbe mai farmi una recensione?"

Quando gli chiedo dei suoi piani per il futuro mi dice: "Ho sempre fatto questa cosa, per tutta la vita fin da quando sono un teenager, ed è successo molto tempo fa. C'è sempre qualcosa che mi ronza in mente e che aspetta di essere trasformato in musica reale, non riesco a immaginare di vivere senza ascoltare quel ronzio". Dal primo momento in cui è entrato da Vinylmania e ha comprato una copia di "Music is the Key", Beltram ha capito di essersi infilato un tunnel che dura una vita ed è fatto da pareti di techno impietose: "Se produco una traccia che mi piace, allora farò di tutto per andare a suonarla in giro per la gente", mi dice con decisione: "Quindi non ho intenzione di smettere, e sarà così per molto tempo".

Le migliori uscite della settimana

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Ohibò, è lunedì. Questo significa che da almeno tre giorni (cioé da venerdì) le nostre orecchie sono piene di suoni nuovi di zecca, che vengono da dischi nuovi di zecca, ovvero tutta la roba di pregio che è arrivata nei negozi appena prima del weekend. Sarà per questo che arriviamo al lunedì ancora in botta dalle robe fenomenali che ci siamo ascoltati mentre non eravamo al lavoro? O forse abbiamo problemi di altro tipo? Comunque sia, queste sono le cose belle che potrete godervi almeno per i prossimi sette giorni. Poi sarà ora di fare il cambio.

 

Donato Dozzy - Squadra Quadra

Al sor Donato spesso gli piacciono i giochi da parole, o anche solo i titoli buffi che non vogliono dire un cazzo. Ricordiamo la nostra preferita "Sotto Ma Sotto" su Stroboscopic Artefacts. Mentre ora, per la sua nuova uscita su The Bunker New York (dove era già apparso insieme al fido Neel, con una live session che ti butta giù i muri), ha deciso per un bel Squadra Quadra, che è come dire "Banana Nana" o "Cane Pane" nonché "Albero Albergo". Speriamo vivamente che mr. Dozzy prenda in considerazione l'idea di usare uno di questi per battezzare una prossima uscita. Musicalmente che pensate che ci sia dentro sto 12"? C'è la Techno! Techno come la fa Dozzy, e se non sapete cosa questo voglia dire, be', avete un sacco di problemi nella vita.

 

Tony € Side - Crack Musica

Eccoli qua. Sapevamo che sarebbe arrivato il momento, però non avevamo bene chiaro quando. Tony F e DarkSide della Dark Polo Gang (con Sick Luke alla produzione) avevano già buttato fuori praticamente tutte le tracce migliori di questo disco, tranne una, "Mafia", di cui ovviamente ora c'è anche un video. Ecco, ora sono finalmente scaricabili tutte assieme (sì, ovvio che c'è pure "Cavallini") dal sito ufficiale della gang e possiamo pure metterli tra i dischi della settimana. Cacchio, ci siamo accorti ora che è già la seconda di queste nuove uscite a provenire da Roma, e che tutto sommato il gusto lirico della Gang è praticamente lo stesso di Dozzy, però a Cosa/Cose forse non ci arrivava manco lui.

 

Death Grips - Interview 2016

Come al solito non ci si capisce un cazzo. Si chiama "Interview" ma non è un'intervista, è lungo quanto un EP ma è un video di YouTube, e soprattutto Stefan Burnett non dice manco una parola. Boh. Comunque è appena uscito ed è una mina, per cui va bene così. Senza senso.

 

Taso - Cold Heath Vol. 2

Già il volume 1 di questa cosa era una bomba, il secondo rincara la dose. Taso è quello più squisitamente rap di Teklife, quello meno Rashad (RIP) e più Dilla (RIP). E infatti in questo nuovo EP c'è pure Gavlyn, ragazza californiana di grande talento, a prestare la sua voce per una delle quattro tracce, oltre che un featuring di Spinn che non ci sta mai male. Se cercate qualcuno che riesca a mettere un ponte fatto bene tra old school di classe, cinetica footwork, un bel po' di Ghetto House bella coatta e pure un po' di jungle (!!!), beh, Taso è il vostro uomo. Bella.

 

Le peggiori uscite della settimana

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Una cosa che a nessuno piace fare è ascoltare musica brutta, perché, per definizione, potremmo finire per passare del tempo in maniera spiacevole. Sì, sappiamo che stiamo facendo i captain obvious della situazione, ma certe volte è bene ripetere queste banalità nella vana speranza che qualcuno là fuori ci ascolti e la smetta di produrre musica brutta. Ecco, come di consueto, ecco a voi un bel compendio della roba che preferiremmo non avere ascoltato questa settimana.

 

Jeff Buckley — You And I

Puntuale come un attacco di diarrea dopo l'all sushi you can eat da sette euro, ecco l'ennesimo tentativo di spremere quattrini dal cadavere di Jeff Buckley. Dopo avere dato fondo a tutti i suoi scarti, b-side, live e demo registrate al cesso possibili, questa inutile nuova raccolta di inutilissimi "inediti" (quasi tutte cover di cui alcune già parecchio edite) arriva a tormentarcii con la consapevolezza che non è sicuramente finita qui. La madre ha infatti dichiarato "penso ad esempio a una versione ulteriormente ampliata di Grace." No. Basta. Per favore: Basta! Jeff Buckley in vita sua ha fatto un album. Uno. Uno solo. E diciamolo: per quanto sia bello non ha di certo cambiato le sorti della musica. Ci è comunque sufficiente ascoltare quello, senza doverci ritrovare in mezzo a un rito di zombificazione voodoo ogni volta che la vecchia deve pagare un conguaglio del gas.

 

Tre Allegri Ragazzi Morti — Inumani

C'è una sottilissima linea tra tra l'affrontare le culture diverse dalla propria con spirito di contaminazione, solidarietà e compartecipazione, per celebrare la creatività fuori dai confini e dai limiti personali... e il produrre qualcosa di offensivo e sgradevole, paternalistico che pare gridare "ma sì, mischiamo tutto che tanto è tutto terzo mondo". Che poi se le pretese sono quelle di lanciare messaggi di uguaglianza e antirazzismo, ci fai la figura delo fesso due volte. Questo disco ovviamente oltrepassa la linea... Verrebbe da dire "un po' alla Jovanotti", ma tanto sappiamo già tutti che c'è Jovanotti nel disco, per cui sarebbe ridondante.

 

L'Orso — Un Luogo Sicuro

Nessuno di noi ha asoltato il nuovo album de L'Orso. Non ci vogliamo così male. È proprio per questo motivo che lo abbiamo messo tra i peggiori dischi della settimana. Fate come noi: non ascoltatelo.

 

The KVB — Of Desire

Synthone analogicone gelido: check. Dum machine minimal-marziale: check. Melodia tormentata ma suadente: check. Giro circolare di basso pieno di chorus: check. Chitarra rumorosa che rieccheggia sullo sfondo: check. Gonadi degli ascoltatori e/o delle ascoltatrici: non pervenute. Cari KVB, oramai "c'avete fatto piatti come e' bambole." Quando vi viene qualche idea vostra, magari, fatecelo sapere.

 

Hudson Mohawke ha accusato Kanye e Drake di non avergli pagato i beat

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Ier sera Hudson Mohawke ha minacciato su Twitter di rilasciare un'intera cartella di beat realizzati per Kanye West e Drake, come risposta al mancato pagamento da parte di questi ultimi per il lavoro svolto. Quel tweet (lo screen è più in basso) è stato cancellato, ma i tweet successivi specificano come la famiglia di HudMo l'abbia dissuaso dal pericoloso leak—anche forti del fatto che non avrebbe mai avuto "10 milly" per le eventuali battaglie legali.

In un altro tweet, il producer di Glasgow va avanti e dice "Vi amo troppo per potermi permettere di finire in una battaglia legale senza motivo e compromettere l'uscita della mia musica," un sentimento che, dopo la ultraterrena collaborazione con Anohni di settimana scorsa, non potevamo che condividere.

Non è però detto che siamo del tutto al sicuro, visto il suo consiglio ai producer emergenti: "I rapper mainstream hanno meno senso degli affari di vostra madre."

 

Chicoria recensisce il nuovo album dei Tre Allegri Ragazzi Morti con Jovanotti

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Ciao a tutti e ben ritrovati alla mia rubrica “Chico of the Pops”. Per questo inizio di marzo, ho già avuto sufficienti gatte da pelare, ho beccato prima la febbre e poi come se non bastasse mi è arrivato anche un ascesso mostruoso e mi sono gonfiato come un pallone da calcio, anzi a dire la verità sembro più un uovo alla coque con gli occhiali e il doppio mento alla Maurizio Costanzo, per cui buona camicia a tutti, ma non chiedete foto mie per questo articolo, thank you.
Prima di parlare di questo album vorrei ringraziare Noisey perché ormai mi sta facendo venire l’orecchio da intenditore per le sonorità alternative e Indie rock della scena italiana, in effetti mi rimembrate quel sant’uomo che è Andrea il Gemello, poiché quando abbiamo iniziato a fare musica insieme andavo a casa sua e c’era questo mega scaffale pieno di CD post rock e tutti questi generi qui e li ascoltavamo insieme. Lui c’aveva ancora i capelli rasta e io ero già pelato, entrambi una laurea in marijuana... Diggin in the rock.

Comunque, a parte i bei ricordi di quando ero giovine, vorrei riuscire a presentarvi degnamente questi Tre Allegri Ragazzi Morti, perché dopo che ho letto qualche notizia sul loro conto scorrendo le pagine di Google, il mio rispetto per questo gruppo è salito assai. Qualche anno fa qualche rapper de Noantri diceva che avrebbe pisciato sulle major, poi però mica è stato mantenuto quest’atteggiamento, non si è stati coerenti. Ahia ahia!!! Sento già la scomunica da parte de Afrikaa Bambataa e Kool Herc in arrivo. 

Ecco invece i Tre allegri ragazzi morti secondo me c’hanno letteralmente cagato sulle major. Infatti dopo un solo album fatto con una major come la BMG Ricordi, nonostante fosse il primo album che riuscisse ad arrivare di più alle masse e a riscuotere interesse della critica, decidono di fondare una loro etichetta, La Tempesta Dischi, che oltre a produrre la loro musica, piuttosto prolifica e con sempre voglia di sperimentare nuove sonorità, è stata un trampolino di lancio per nuovi talenti che sono riusciti a raggiungere un loro successo. Diciamo che, in gergo di strada, si sono consorziati, hanno fatto il sindacato e si sono liberati dell’oppressore. Rispetto per voi.

Questo accadeva nel 2000, ma i ragazzi sono attivi sin dal 1994, l’anno in cui è stata fondata la band e già all’epoca facevano er foco autoproducendosi, io in quegli anni intanto, accantonavo lo skateboard per dedicarmi al writing.
Voce e chitarra del gruppo è Davide Toffolo che è anche un fumettista e che tra l'altro è colui che disegna le maschere del gruppo, poiché anche i Tre Allegri Ragazzi Morti hanno scelto er look no face, cioè sono sempre travisati da queste maschere disegnate a teschio e pure nelle interviste hanno sempre sfoggiato er teschio. Grandi, apprezzo assai, è l’idea che conta insieme alla materia musicale, rispetto all’immagine che il pubblico e la critica possa avere dell’artista in sé. Enrico Molteni, già conosciuto come solista e anche per… magari me sbajo, ma me so’ chiesto: aò ma che è la tua famiglia quella che fa il metadone, l’industria farmaceutica Molteni? E poi c'è Luca Masseroni che sta alla batteria. Questi tre sono la formazione di base.

L’album è strutturato in 11 brani, nei primi pezzi a parte il primo, prevalgono sonorità ska, reggae e in generale esotiche e questo mood già lo avevano cominciato a sperimentare in precedenza con Primitivi del futuro che è del 2010, almeno leggendo qualcosa su di loro e ascoltando qualche pezzo vecchio questo mi pare di capire, però poi proseguendo l’ascolto dell’album mi accorgo che c'è un ritorno alle loro radici punk rock, new wave. Già dal primo pezzo “Persi Nel Telefono” c'è un'eco di queste sonorità, per me qua il buon Toffolo ce l’ha un po’ con queste nuove generazioni protagoniste, dove sembra che tutti vogliano essere fotografi, fare le modelle e musicisti, mentre il buon Toffolo invece è un veterano, lo sa bene che certa vita mica è per tutti. Anyway, il coretto tu-ru-tu-tu è tremendo, non je l’appoggio troppo Maestro, ma è solo il mio umile parere eh!

Ok, nel secondo pezzo, che è pure quello con l’unico featuring del disco, c’abbiamo l’apparizione di un peso massimo della scena musicale italiana, er sor Lorenzo Cherubini che tutti conoscono cor nome de Jovanotti. YO! Ecco, io te vorei di una cosa a Jovanò, io te vojo bene, ma te la devo fa una critica: sei nato a Roma? Vor di che sei romano chiccoooo!! È dar 1966 che stai calpestando la crosta terrestre e nun t’è mai venuto in mente da fa ‘na canzone su Roma! Mo’ dove te sento cantà?? Su una canzone che è un'ode a Milano, ‘a capitale ben vestita. Ao, noi a Roma se stamo a chiede se c’hai un core e du’ sentimenti, ma proprio due de numero. Tra l'altro ieri notte c’ho avuto l’apparizione in sogno de Giulio Cesare, Bruto e Gabriella Ferri e tutti e tre erano concordi che n’offesa der genere va lavata solo che cor sangue e ner modo più classico: co’ la lama.

Tranquillo Jova, ce parlo io coi romani nun te preoccupà, anche perché pure a me piace tanto Milano, ma Milano è ancora quella da bere, st’armonica alla Manu Chao dovrebbe ricreà l’atmosfera da giungla urbana, solo che boh a me non me convinceva troppo, so gusti. E poi i giovani milanesi li vedo sempre attenti all’ultimo trend, st’atmosfera un po’ compagneros, volemose bene, hasta la victoria, me sembra un pò superata, Milano corre veloce e se stufa presto, così me sembra… Ah! un'ultima cosa, dopo che hanno citato la tangenziale, ho capito che Morena era stata rimorchiata su Corso Buenos Aires sì, ma era sesso a pagamento e forse in mezzo alle gambe c’era anche la sorpresa come nell’ovetto Kinder. Dopo che ho finito di scrivere quest’articolo, la mia collega Sonia Garcia mi ha fatto pervenire un disegno realizzato dal buon Toffolo che ritraeva nel suo pieno splendore esotico proprio la cara Sonia, allora con l’ennesima conferma ho pensato che questo è proprio un feticismo del nostro eroe, Toffolo c’hai visto giusto anche la Sonia Garcia ha la sorpresa incorporata, provare per credere.

 

Le rime più belle. La miopia di Sonia Garcia. #vice #noisey #eltofo #soniagarcia

Pubblicato da Davide Toffolo su Giovedì 19 novembre 2015

 

Ripartiamo con la traccia “E Invece Niente”, dove fra gli accenti dub analizzando il testo capisco che fa riferimento a una maturazione personale che avviene quando una persona finisce quella parte della vita definita giovinezza, in cui si è irruenti e si crede di conoscere il mondo e ogni cosa.

Il brano dopo è quello che mi è piaciuto di più di tutto il disco e tra l'altro mi ricorda un po’ “Where Is My Mind” dei Pixies. Più che altro il testo, mi ha proprio trasportato in quel prato dove corre Ruggero. M’avete commosso, il pezzo è veramente poetico. Ruggero è la voglia di non mollare mai, nonostante tutto, è la speranza, ao’ ve lo dico cari Tre Allegri Ragazzi Morti siete quasi riusciti a strapparmi la lacrimuccia. Avete spaccato.

“La Più Forte” è una canzone dedicata a una donna che chiaramente manda fuori di testa sennò non è una donna, e qui vorrei approfittà pe montà una “bicicletta” che è una delle attività ricreative più in voga al carcere, ossia: si prendono due individui e attraverso l’invenzione di maldicenze e con manipolazioni dei discorsi, si mettono uno contro l'altro solo per il gusto di vederli litigare, perché tanto al carcere non c è un cazzo da fare e in qualche maniera bisogna trovarlo un passatempo. Che ce frega se ‘sti due individui perdono er semestre perché hanno litigato, se so menati e le guardie l’hanno visti e l’hanno denunciati.

Dunque, secondo me in questa canzone ce sta un ber dissing ai Cani, oltretutto supportato da sto ritmo incalzante alla Black Sabbath. Sta tipa che è la più forte, riesce a parlare pure ai Cani con le giuste parole. Vojo dire, anche un bambino capirebbe che i Tre Allegri Ragazzi Morti stanno dicendo che i Cani sono duri di comprendonio e anche un po’ retarded. E io so’ sicuro che questi che provengono dall’alternative rock so’ dei veri gangster, mica come noi rapper che semo tutti dei fake. Secondo me questi già ner 1994 andavano in giro come una banda de Sons Of Anarchy, c’avete presente che spargimento de sangue potrei avè causato con questo articolo? Chi vivrà vedrà e sarà testimone nei secoli futuri. Anche perché se sa che I Cani mordono…

Proseguiamo con un bel consiglio immobiliare/logistico da parte dei ragazzi, in pratica ce spiegano che Pordenone sta a un passo dalla Luna e che quindi l’affitti so’ convenienti in quelle zone e secondo me fra un po’ ce fanno pure la stazione della funivia pe’ la Luna, quindi fra un po’ la zona sarà ancora più rivalutata e le proprietà saliranno di valore. È un buon investimento ‘na proprietà a Pordenone. A parte le valutazioni immobiliari, credo che in quei posti nei primi anni ‘90 si respirasse questo fervore musicale ed era una delle culle del punk rock, che è una colonna portante del background musicale dei ragazzi. Non importa il posto da dove si viene, ma se hai quella scintilla dentro e le giuste persone a supportarti, la Luna la puoi prendere ogni volta che vuoi. Gran bel pezzo, gli effetti sulla voce si sposano bene con la strumentale e creano atmosfera.

“C’era Una Volta Ed Era Bella” già come inizia ha vinto su tutto. L’immagine culto è quella di Toffolo che tiene per mano la ragazza e se rompe un braccio (che pesantezza de relazione!!), quello doveva essere il ritornello per me e al contrario quello vero non mi ha entusiasmato troppo.

Quando è partito il brano “i tuoi occhi brillano” mi è venuto in mente Jeffrey Dahmer, all’incirca sarà stato il 1980 che appena finito il suo turno di lavoro se ne stava in cerca di prede in qualche bar gay malfamato a Milwaukee, tra fumo di sigarette e whisky… addio addio amore mioooo.

Si lo so per dovere di cronaca ve lo devo dire: già ci sono stato in cura dallo psichiatra tranquilli! Il disco scorre intanto e continuiamo a viaggiare con queste sonorità rock un po’ anni 70 come nel brano “Libera” che ha un ritornello piuttosto orecchiabile e convincente. Nella penultima traccia ho sentito questo basso e queste atmosfere che mi hanno ricordato un po’ i Green Day, certo un appunto qui tocca fartelo Mister Toffolo, il ritornello de ‘na canzone che se chiama “Attacco”, disperato attacco, o potevi fa un po’ più incisivo, a Roma t’avremmo detto: ‘‘AO! Metticela un po’ più de flemma, che c’hai due de pressione?!” Siamo in dirittura di arrivo signori, la closing track è “Disponibile” e questi suoni credo siano l’ideale per concludere in bellezza.

Che dire, il cd è molto vario, esplora diverse sonorità pur mantenendo sempre una certa armonia e originalità da marchio di fabbrica. Il CD l’ho ascoltato con una ragazza e alla fine al novantesimo minuto ho fatto anche goal. Che dire, abbiamo apprezzato. Il target per quest’album me lo raffiguro in un trentenne maturo, ma non troppo, sinistroide, intellettuale-medio-colto con un lavoro precario e animali domestici al seguito, ancora in buona salute e che ci tiene a sentirsi fresco/giovane/adolescente.

Lo so me dovrebbero prende come supervisore ai sondaggi dell’Eurispes o all’Osservatorio de Pavia, ma poi non potrei sentì tutta questa bella musica e commentalla pe’ voi.  


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