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Recensione: Quavo - Quavo Huncho

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I problemi dei Migos, se di problemi vogliamo parlare, sono arrivati dopo Culture del 2017. Sia tra i fan che tra gli addetti ai lavori, in molti hanno cominciato a criticare una certa sovraesposizione, una produzione numericamente esagerata che finisce con l'essere una stanca ripetizione della stessa formula, protratta fino all’inverosimile.

All’inizio dell’anno infatti è uscito Culture II (e ora pare sia addirittura in arrivo un terzo capitolo): un mattone di 24 tracce per quasi due ore di durata. I Migos sono molto forti, e sono tra i migliori a fare quello che fanno. Hanno a tutti gli effetti codificato un genere e, per un certo periodo, sono stati il tema caldo del momento. Però è anche vero che, non essendo propriamente Stevie Wonder o Prince, un tipo di sovrapproduzione di questo tipo diventa una mappazza pesantissima soprattutto se c’è il sentore che spesso, a fianco di cose indubbiamente più potenti e riuscite, si tratti di scarti, di pezzi che potevano tranquillamente essere tagliati per ottenere un risultato migliore.

Alla fine del 2017 Quavo ha pubblicato un disco in collaborazione con Travis Scott e anche quello, nonostante produzioni molto convincenti, non ha esattamente infiammato la critica, che ha parlato soprattutto di una ripetitività e di un sentore di pilota automatico inserito da parte dei due rapper. Ora arriva il primo vero e proprio album solista del rapper di Atlanta (noto in Italia anche per un featuring sull'ultimo disco di Sfera Ebbasta, che ne ha spiegato l'origine in un'intervista su Radio Deejay), ma le cose non sembrano migliorare.

L'intro lascia sperare in direzioni inedite, ma è una speranza che poi viene disattesa. A fianco di alcune cose interessanti infatti siamo di fronte al solito problema, che peraltro si acuisce con il passare del tempo vista la crescita della mole di uscite. Per fare qualcosa che lasci ancora veramente il segno, cosa di cui i Migos sicuramente potrebbero essere capaci, forse avrebbero bisogno di lasciar passare più tempo e di selezionare di più il materiale. Sono in molti che hanno interpretato questo disco di Quavo invece (nonostante i featuring anche di peso, come si addice a quella che è ormai a tutti gli effetti una superstar internazionale) come poco più che una raccolta di pezzi scartati dal progetto madre, e sicuramente con la sua aria da “generalismo trap” fa venire poca voglia di riascoltarlo.

In mezzo al generale anonimato musicale e testuale, è interessante notare che di QUAVO HUNCHO si sia parlato soprattutto per il testo di "Big Bro", che conterrebbe un dissing allo scomparso Lil Peep: "Pensi di farti di Xanax ma è Fentanyl / Pensi di vivere una vita da rockstar ma ora sei morto". Le barre hanno scatenato un'enorme discussione nella scena americana, mandando addirittura nei trend su Twitter l'hashtag #fuckquavo. Quavo ha poi placato la discussione con un suo tweet: "Lil Peep è una leggenda, una vera rockstar, non parlerò mai dei morti, credo in Dio e prego Dio ogni giorno [...] RIP A TUTTI QUELLI CHE HANNO PERSO LA VITA PER UN'OVERDOSE". Ma intanto le views, i click, i commenti, le pagine - insomma, l'esposizione mediatica - erano aumentati.

Il grosso problema, che riguarda in generale il mondo dell'industria musicale di questi tempi, è che queste problematiche toccano soltanto la critica e gli appassionati, non il grande pubblico e soprattutto non gli artisti e “la macchina”. Viviamo in un quadro generale in cui, molto semplicemente, per un discorso di numeri conviene fare uscire un sacco di roba. Per monetizzare sugli streaming, mantenere alta l’attenzione, l'hype e le cose da condividere sui social, in un circolo vizioso che genera valore economico e immateriale anche a prescindere dal risultato artistico. E pazienza se ci troviamo sempre più sommersi da musica inutile.

QUAVO HUNCHO è uscito il 12 ottobre per Quality Control.

Ascolta QUAVO HUNCHO su Spotify:

TRACKLIST:
1. Biggest Alley Oop
2. Pass Out (feat. 21 Savage)
3. Huncho Dreams
4. Flip The Switch (feat. Drake)
5. Give It To Em (feat. Saweetie)
6. Shine
7. Workin' Me
8. How 'Bout That?
9. Champagne Rosé (feat. Madonna & Cardi B)
10. Keep That Shit (feat. Takeoff)
11. Fuck 12 (feat. Offset)
12. Lose It (feat. Lil Baby)
13. Rerun (feat. Travis Scott)
14. Go All The Way
15. Lamb Talk
16. Big Bro
17. Swing (feat. Normani & Davido)
18. Bubble Gum
19. Lost (feat. Kid Cudi)

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Quando Eminem è quasi diventato campione del mondo di Donkey Kong

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Anche se i colossal Marvel sono campioni di incassi al botteghino da circa dieci anni, ogni tanto qualcuno ci tiene a ricordare che le vecchie roccaforti della cultura nerd sono diventate parte del mainstream. Avete sentito il pezzo di Eminem per Venom? Tralasciando il fatto che sia un pezzo pieno di versi senza senso in cui Em parla di temi importanti come Filet-o-Fish del McDonald's, è piuttosto strano constatare come un uomo di 46 anni compiuti ieri e uno dei migliori rapper in circolazione riesca a incastrare tranquillamente riferimenti ad alieni e mostri di fantascienza in un suo pezzo ("Became a Symbiote, so / My fangs are in your throat, ho"). Ogni volta che succede qualcosa del genere—tipo quando Ty Dolla $ign canta delle tartarughe Ninja o robe simili—mi chiedo: quindi tutti i nostri idoli sono dei nerd giganteschi? E noi con loro?

A fare chiarezza su questo punto è arrivato un tweet del rapper Juiceboxxx, che poneva una domanda interessante: "Dove ti trovavi quando hai scoperto che Eminem era uno dei più forti giocatori di Donkey Kong al mondo?" La risposta è, almeno nel mio caso, a casa a scrollare un venerdì mattina qualunque.

Ad ogni modo, per chi non lo sapesse, stiamo parlando di uno dei videogiochi più importanti della storia: prodotto da Nintendo, fu al suo interno che comparve per la prima volta un idraulico baffuto dal nome Mario. All'inizio pensavo fosse uno scherzo, ma Eminem suona sempre così incazzato che sarebbe anche credibile come gamer. Nessuno si stupirebbe a vederlo prendere a pugni una tastiera o a lanciare un joystick contro il muro. Dopo una rapida ricerca su Google ho scoperto che c’è effettivamente un fondo di verità nelle parole di Juice. Eminem è davvero fortissimo a Donkey Kong.

Nel 2010, nell’era più folle dei social media, Eminem aveva condiviso una foto su Twitter di una schermata di Donkey Kong con un punteggio pazzesco di 465.800 che DonkeyKongBlog (una fonte decisamente affidabile) avrebbe piazzato tra i primi 30 punteggi mai ottenuti in in tutto il mondo. Il primo in assoluto, al momento in cui Eminem postava quella foto, era di 1.000.000. In un video su YouTube un altro giocatore ci mette circa un’ora per raggiungere un punteggio simile a quello di Eminem. Secondo The Verge i migliori giocatori si allenano migliaia di ore per riuscire a battere i record, quindi è probabile che anche Eminem abbia trascorso molto tempo davanti al video prima di raggiungere quel punteggio.

Ovviamente, visto che ha postato solo una foto e non un video in diretta, il risultato di Eminem non è in alcun modo verificabile ed è per questo che il suo nome non appare in nessuna classifica ufficiale. Ma per chi vuole credere a lui e a quello che scrive sui social—perché dai, chi mentirebbe su una cosa così nerd—è bello immaginarlo tra i più abili gamer a livello internazionale.

In un'intervista rilasciata in quel periodo Em aveva parlato della sua ossessione per Donkey Kong e altri videogiochi retro, che aveva tra l'altro già rivelato nel testo di "Despicable": "Like Donkey Kong, I'm bonkers, bitch". A fargliela partire, dichiarò, era stato il documentario King of Kong, che racconta nel dettaglio una delle più grandi rivalità della storia dei videogiochi: quella tra Steve Wiebe e Billy Mitchell, che barò per ottenere il suo storico record di un milione di punti. "È un contrasto perfetto," dice Eminem del film. "L’eroe e il cattivo." Implicitamente, lascia intendere la sua propensione a tifare per Mitchell—come confermato nel suo primo tweet su Donkey Kong nel 2009, dove metteva in guardia Wiebe, minacciandolo di essere sulle sue tracce.

Negli anni, la gente ogni tanto ha tirato fuori questa storia, tra cui anche St. Vincent in un’intervista. Ma Eminem stesso non ha più parlato della sua passione per Donkey Kong, e forse, immaginiamo, ha smesso di giocarci. Nel frattempo la concorrenza si è inasprita. Il suo punteggio del 2010 oggi gli varrebbe soltanto un misero 133esimo posto, e in vetta alla classifica c’è un tizio di nome Robbie Lakeman con 1.247.700 punti. Un traguardo quasi irraggiungibile anche per Em, che ora è impegnatissimo a combattere i suoi hater sulla scena pubblica comprando pagine intere di pubblicità per infangare i suoi detrattori.

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Questo articolo è comparso originariamente su Noisey US.

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Guarda il Chicoria che recensisce 'Paninaro 2.0' del Pagante

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Questa settimana abbiamo deciso di far uscire il Chico dalla sua zona di comfort e di proporgli un album un po' fuori dalle sue coordinate: Paninaro 2.0 del Pagante. Il trio milanese è la perfetta versione in musica del tamarro di provincia, in fissa col motorino truccato e in gita a Milano alla ricerca di sushi&coca, ma che effetto faranno alle orecchie di un rapper di strada della capitale?

Lo potete scoprire nel video qua sopra. A quanto pare il Chicoria è rimasto perplesso su alcuni aspetti, ma anche molto affascinato dalla Gintoneria di Davide e soprattutto da MYSS KETA (l'abbiamo avvisata di questo video e lei ha sinceramente risposto "ADORO!"). Chissà che non sbocci una collaborazione tra i due.

Fateci sapere che cosa ne pensate e su quali altri dischi vorreste sentire l'opinione del Chico tramite commenti e DM su Instagram e su Facebook.

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Tutti i dettagli del nuovo album di Lil Peep

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Un nuovo album ufficiale di Lil Peep è in dirittura d'arrivo. Si intitolerà Come Over When You're Sober (Part Two) e sarà quindi il seguito del suo album di debutto, uscito nel 2017. Uscirà il 9 novembre.

L'annuncio è stato dato da sua madre Liza Womack con un post su Instagram. "È quello che tutti ci saremmo aspettati da Gus", ha scritto. "Grazie a @smokeasac per aver messo il cuore e la sua anima in questo progetto per gli ultimi mesi. L'arte di Gus è una parte essenziale dell'estetica dell'album. È un piacere poter guardare i suoi disegni, colorati e spiritosi, sul disco in vinile e sulle altre versioni fisiche. Credo che il vinile sia assolutamente fantastico. È stato disegnato e preparato con cura".

Lil Peep è morto a novembre 2017 per un'overdose all'età di 21 anni. Da allora sono state pubblicati alcuni suoi brani inediti, tra cui "Spotlight" con Marshmello e "Falling Down" con XXXTentacion.

Qua sotto trovate la copertina e la tracklist ufficiale dell'album mentre qua sopra potete guardare il video del suo nuovo brano "Cry Alone", girato a maggio 2017.

come over sober part 2 peep

01 Broken Smile (My All)
02 Runaway
03 Sex With My Ex
04 Cry Alone
05 Leanin’
06 16 Lines
07 Life Is Beautiful
08 Hate Me
09 IDGAF
10 White Girl
11 Fingers

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Recensione: Sheck Wes - Mudboy

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In queste settimane cercavo un brano che rappresentasse quello che sentivo dentro, in cui rispecchiarmi, che dicesse quello che volevo dire io. E finalmente l’ho trovato con “Fuck Everybody” di Sheck Wes, soprattutto dopo essere stato costretto ad ascoltare il disco dei Subsonica per poi sentirmi dire che la mia recensione era "impubblicabile" (ahem). Ma in fondo è andata bene così: il rapper di Harlem, al suo album debutto dopo l’exploit del singolo "Mo Bamba", dimostra una freschezza e incazzatura rare in un prodotto con ambizioni “mainstream” (il nostro è un protetto di Kanye West).

La voce di questo ragazzo figlio di immigrati senegalesi, che rifiuta l’utilizzo dell'autotune, è quella ruvida e stonata (nel senso di stoned) di chi non racconta storie o sogni, ma la cruda realtà di una condizione eternamente ghettizzata a cui si resiste, fra le varie cose, rappando.

Così Sheck Wes poggia le sue corde vocali bruciate su basi incastrate, con batterie sbarattolanti e a volte completamente swinganti, a volte con tastierine cheap, a volte con sequenze ossessive, a volte con un piglio da darkettone, a volte usandola per giochi sonori e linguistici quasi ai confini della lallazione, passando in maniera schizofrenica dalle filastrocche a veri e propri scandagli esistenzial-ritimici di stile afrotribale.

Non solo, ma certe volte sembra che imiti l’andazzo di un autotune, come se facesse prima le melodie con quell’attrezzo e poi le ri-registrasse senza. A proposito di melodia: c’è o non c’è? Come no, a pacchi. Troviamo il nostro capace di una vena melodica non indifferente, che anche qui non segue il gregge della trap oggi in voga per cercare di andare da qualche altra parte, una parte che è l’antitesi del sistema in cui si trova comunque ad operare, una contraddizione nella contraddizione.

A volte le basi si perdono addirittura in momenti psichedelici squagliati in cui il disagio rotola da una parte all’altra del disco come un pan in un paio di altoparlanti, sembrando la versione trap di qualche brano storico dei Clouddead, oramai trasfigurato.

Altre volte troviamo delle intuizioni che sarebbero state bene in un disco di Madonna degli esordi, mescolando tutto in un marasma mentale evidentissimo. Dal fango alla luce insomma, la luce di una possibile star. Viene però dalle grate grigie di una fogna: cosi’ vicina quanto forse irraggiungibile, che ci fa gridare ancora ancora ed ancora “BITCH!!!”.

Mudboy è uscito il 5 ottobre per Interscope.

Ascolta Mudboy su Spotify:

TRACKLIST:
1. Mindfucker
2. Live Sheck Wes
3. Gmail
4. Wanted
5. Chippi Chippi
6. Never Lost
7. WESPN
8. Kyrie
9. Mo Bamba
10. Burn Slow
11. Jiggy On The Shits
12. Fuck Everybody
13. Danimals
14. Vetements Socks

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Cosmo ha vinto

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"Ho lottato contro me stesso e ho vinto" dice Cosmo in (appunto) "Ho vinto", programmatico spartiacque dell'ultimo album Cosmotronic e perno di tutto il progetto inaugurato ormai un anno fa col singolo "Turbo" e ora agli sgoccioli. Proprio in quel "me stesso", sono condensati non tanto i limiti personali dello stesso Marco Bianchi, quanto quelli, più ingombranti, che derivano delle aspettative che la sua figura aveva finito col suscitare nel pubblico.

L'avrete letto ovunque: il prossimo 2 febbraio, in una grande festa conclusiva, Cosmo farà un concerto al Forum di Assago, a Milano. Una roba da 11mila spettatori, quindi, e tanto basta per farsi un'idea della popolarità raggiunta durante quest'ultima stagione partita dai club e arrivata in uno dei templi della musica pop. A fronte di tutto ciò, però, verrebbe facile pensare a una svolta paracula della sua musica, a un qualche ammiccamento al pubblico più generalista, visto che il Forum non si conquista certo da solo. E invece no.

Proprio per questo è interessante osservare come Cosmo sia riuscito a "vincere", partendo proprio dal passato. Dicevamo delle aspettative della difficoltà a "farsi capire" dal proprio pubblico, e questo non è certo un problema nuovo per lui: già coi Drink To Me, mai troppo amati e ancora neanche rivalutati, aveva faticato a far arrivare agli spettatori il suo messaggio; anche l'esordio solista di Disordine si era perso un po' nell'indifferenza. Non a caso, col successivo L'Ultima Festa si era giocato, in maniera neanche tanto implicita, la carriera. Come a dire: o la va o la spacca.

Ed era andata, altroché. Recuperate la cassa dritta e la forma-canzone canonica e assestati i testi su un mood più leggero di Disordine (che a tratti partiva davvero per la tangente), ma comunque ricercato e suggestivo, il disco aveva finito col lanciarlo nell'olimpo dell'indie/itpop e quindi fra gli alfieri della nuova musica italiana, con la title-track come tormentone estivo e perle come "Le voci" e "Un lunedì di festa" a fare il resto.

È chiaro allora quanto, in quel "me stesso", ci fossero le aspettative che lo volevano ancora a lavoro su un altro L'Ultima Festa, perché tanto i dischi li avrebbe venduti comunque, i concerti sarebbero andati bene, tutto era già collaudato, ecc.

Ma Cosmo, come dice lui stesso, "ha vinto" perché ha agito da sé, prendendosi il Forum tramite un progetto nuovo, con confini a un primo impatto spiazzanti, ma ora assolutamente vincenti. Ha alzato l'asticella tenendo fede alla propria volontà di "solo farci ballare", ha rincarato la posta in gioco; ma più che una crescita lineare la sua è stata un'evoluzione coraggiosa e radicale che ne ha investito l'immagine a 360 gradi, verso zone ancora inesplorate nell'Italia mainstream tutta, prima pure che nell'indie.

Da dove partiamo? Dai dati di fatto, da quel Cosmotronic che è in primis un disco libero che non si nasconde dietro un dito, in cui "tutto ciò che era stato" viene immolato sul dancefloor in nome di inedite commistioni ad alto tasso di improbabilità. Se da sempre, infatti, era chiara la natura ibrida di Cosmo - cantante e producer, popstar e clubber - qui i due aspetti sono emersi davvero, ora per fondersi fra loro e ora per affermarsi in maniera del tutto autonoma.

Ci sono "Turbo" e "Quando ho incontrato te", singoloni da air-play decisamente più "spinti" rispetto all'elegante synth-pop precedente, più eccentrici e scollati; c'è l'ibridazione con l'elettronica, che passa per le varie "Animali" e "L'amore" fino a liquefare la classica forma canzone; c'è tutta la seconda parte (il "secondo disco"), in cui Cosmo lascia fuoriuscire senza freni tutta la passione per la club culture, la techno e le sonorità acide, amplificata anche dalle recenti esperienze di Ivreatronic e qui in pasto a un pubblico che, storicamente, si è sempre collocato fuori da quelle sonorità. E poi, ovviamente, ci sono anche tanti linguaggi intermedi sviluppati senza pregiudizi: dal cassone dritto alle zarrate ("Tristan Zarra", appunto), da quel che resta della canzone d'autore all'itpop. Insomma, un disco padre (più che figlio) di un'epoca in cui lo snobismo sta dissolvendosi insieme alle barriere fra generi, ma non per questo un lavoro banale, o facile da digerire.

È proprio la zarrata spudorata che insieme alle incornate di "Turbo" e "Quando ho incontrato te" segna un altro azzardo rispetto al passato, investendo anche i testi (e non starò qui a ripetervi l'importanza che hanno i testi nell'indie italiano) e, più in generale, tutta la comunicazione intorno al personaggio. Perché basta leggersi un attimo le liriche per capirne la direzione: spirito cazzone, flussi di coscienza tanto liberi quanto sconclusionati e un linguaggio talvolta persino "volgare", comunque sfacciato, sboccato e teso a un'autocelebrazione aggressiva. Un atteggiamento nuovo, insomma, nichilisticamente opposto a quello più sobrio de L'Ultima Festa (e di una certa parte della canzone italiana in generale), ribadito anche dall'adozione di un look decisamente sopra le righe e di una comunicazione senza filtri, sincera fino all'arroganza (il suo Instagram parla chiaro), scorretta, che tanto funziona nell'hip-hop ma che nell'indie e nel pop non ha mai attaccato, anzi.

Se già questa rotta conteneva in sé il rischio di non essere recepita dal pubblico, è comunque nella traduzione dal vivo che Cosmo ha deciso di giocarsi davvero le sue carte. Ed è lì che, più di tutti, "ha vinto".

cosmo live fabrique
Cosmo live al Fabrique di Milano (foto di Kevin Spicy)

Dove l'album, infatti, aveva assottigliato i confini fra generi, il tour di Cosmotronic va direttamente a distruggerli, con uno show enorme (luci, laser, costumi e trovate sceniche) in cui il parterre diventa un dancefloor e il concerto una festa di quasi sei ore, con DJ set firmati Ivreatronic in apertura e chiusura al live vero e proprio. Live che, fra cassa dritta e coriandoli, ti obbliga a ballare per tutta la sua durata, mentre tiene stretto fra le mani un filo di spessa continuità fra i vari momenti, come fosse un unico grande live set, un festival itinerante che mescola il clubbing, il nuovo elettro-pop di "Turbo" e la psichedelia di un classico come "Le cose più rare". E poi, ovviamente, un Cosmo scenico e libero come mai, che balla e dialoga come una popstar, fa crowd-surfing come una rockstar, si mette curvo e concentrato sui suoi strumenti come un producer.

Le perplessità, di fronte a un live tanto nuovo, ibrido e distante dai canoni dei suoi frequentatori, più vicino a una "serata" che a un concerto pop, erano sostanzialmente due: quanto tempo avrebbe impiegato uno spettacolo del genere a "ingranare" e come avrebbe reagito il pubblico, solitamente abituato ad altre situazioni, ad altri ritmi.

Il trionfo di Cosmo è passato soprattutto da qui, e potremmo stare ora a menarla su come il pubblico si sia calato bene nel contesto; per ora, basta dire che il 2 febbraio questo spettacolo partito in punta di piedi dai club di tutta Italia si chiuderà al Forum, davanti a più di diecimila spettatori.

Sarà la consacrazione di un progetto che ha portato il pop italiano, prima ancora che il suo autore, su un nuovo livello, frutto del coraggio di fondere ed esplorare sonorità, linguaggi e situazioni che qui da noi sembravano un tabù. C'era tanto da perdere, in partenza, e il rischio che una svolta tanto nuova non venisse capita; ed è proprio per questo che Marco Bianchi, alla fine, ha vinto.

Patrizio è su Instagram.

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Médine, il rapper musulmano che voleva solo suonare al Bataclan

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"Quando non sapevo come ci si sentisse a essere pagati per la propria arte
E la mia povertà era il mio lavoro a tempo pieno
C'era solo una cosa che trasformava il dolore in pazienza:
Tutto quello che volevo era suonare al Bataclan."
- Médine, "Bataclan", 2018

Fondato nel 1864, il Bataclan di Parigi ha ospitato sul suo palco generazioni di artisti. Esibirsi lì è un onore per qualsiasi artista, ma il rapper francese Médine lo voleva così tanto che ci aveva anche scritto una canzone su quanto gli sarebbe piaciuto. Il bello è che ce l'aveva fatta a organizzare un concerto su quelle assi. Le prevendite erano andate così bene che ne aveva già annunciato un secondo.

E poi, qualche tempo dopo, un post: "Dei gruppi di estrema destra hanno organizzato proteste con lo scopo di dividerci. Non hanno esitato a manipolare le famiglie delle vittime e di riaccendere il loro dolore. In segno di rispetto a quelle stesse famiglie e per garantire la sicurezza, i concerti sono annullati".

È che Médine è un rapper musulmano, come i terroristi che hanno ucciso 90 persone al Bataclan a novembre 2015. Non lo aveva mai nascosto nei suoi testi, che lui inquadrava nella grande tradizione della satira francese: diceva "Crocifiggiamo i laici sul Golgota come Gesù", vero, ma lo aveva fatto nel contesto di una canzone pensata per mostrare l'ipocrisia e le contraddizioni di un certo laicismo islamofobico. Ma tutto questo, ai politici che avevano cominciato a dargli dell'estremista, non fregava nulla. Loro vedevano solo parole come "Jihad" e "Fatwa".

E Médine voleva solo suonare al Bataclan.

medine bataclan video
Uno screenshot dal video di "Bataclan" di Médine, cliccaci sopra per guardare il video.

Nato nella città portuale di Le Havre, Médine rappa per raccontare l'esperienza della comunità islamica in Francia, la più grande d'Europa. Si potrebbe dire che fa conscious rap, che scrive rime per dare voce a chi non trova orecchie che lo vogliano ascoltare. Ma non sarebbe sbagliato usare parole come "street" per descrivere la sua musica, forte di una furia espressiva e un gusto per le battute taglienti. I suoi testi di Médine, come ha fatto notare il Guardian in un pezzo d'opinione sulla vicenda, non possono essere letti in maniera oggettiva. Vivono in un'intersezione tra affronto, confessione, rabbia e ironia, narrati da un musulmano credente che soffre per il modo in cui la sua fede e la sua cultura vengono dipinte nella sua nazione.

Nel 2017 Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Front National, aveva messo la questione islamica al centro della sua campagna elettorale. A partire dall'attentato alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo di gennaio 2015, la Francia era stata bersaglio di una serie di attacchi a sfondo estremista che avevano inasprito il già precario rapporto tra la popolazione e la frammentata comunità islamica. Date queste premesse, l'annuncio del concerto di un rapper musulmano proprio nel luogo cardine dell'attentato più grave della storia moderna francese non poteva non diventare un caso nazionale.

La polemica attorno al concerto di Médine ha avuto inizio a giugno, poco dopo l'annuncio della data, quando un utente su Twitter postò un'immagine del testo di un suo vecchio brano intitolato "Don't Laïk", remix di "Don't Like" di Chief Keef. Giocando sulla vicinanza tra "like" e "laïcisme", la canzone procedeva per attacchi e ironie diretti ai "laici" francesi e faceva riferimento a questioni controverse come la poligamia, il velo e la macelleria halal. Il tono era canzonatorio e aggressivo: "Ci date dei porci maschilisti perché abbiamo più donne? Bé, voi votate politici che tradiscono le loro compagne. Vi lamentate che rubiamo? Bé, applichiamo la sharia, cominciamo a tagliare le mani".

Già attorno all'uscita del brano Médine aveva voluto mettere in chiaro i suoi intenti:

"È importante fare una distinzione tra laicismo e laicità. Il laicismo è una versione traviata della laicità. La mia critica è mirata esclusivamente a questa deriva, che si fa vanto del concetto di uguaglianza stigmatizzando il religioso. La laicità sembra essere una delle soluzioni per una quieta convivenza, se applicata con rigore. [...] Gli agnostici e gli atei non sono presi di mira in questo pezzo, crederlo e farlo credere ad altri è disonesto. E nemmeno il cattolicesimo, che fa parte delle vittime di questo laicismo. È opportuno e necessario andare oltre il carattere provocatorio per capire il significato di fondo di queste parole, che vogliono soprattutto riunire.[...] La provocazione è utile per individuare alcuni fenomeni perversi, tutti i tipi di fondamentalismo, e ha lo scopo di metterci in guardia. I miei pezzi fanno parte di questa tradizione di opera caricaturale che esagera volontariamente le rappresentazioni per cogliere il contenuto a volte assurdo e contraddittorio."

Insomma, Médine voleva denunciare il clima di islamofobia per cui qualsiasi musulmano veniva dipinto come un "nazislamista" e per farsi ascoltare scelse di farlo nel modo più controverso possibile. Ma lo aveva fatto dicendo una frase come "Crocifiggiamo i laici come sul Golgota", in riferimento al colle dove secondo la Bibbia venne crocifisso Gesù. Come ha ricostruito Le Monde, è proprio da quella frase che diversi politici cominciarono a criticarlo, sostenendo che un suo concerto al Bataclan sarebbe stato un affronto alla memoria delle vittime dell'attentato di novembre 2015.

medine bataclan
L'invito a una manifestazione contro Médine postato da una pagina Facebook fondata per condannare il suo concerto al Bataclan.

Il primo a toccare la questione fu il presidente del partito repubblicano Laurent Waquiez, che twittò indignato: "Al Bataclan la barbarie islamica ha costato la vita a 90 nostri compatrioti. Meno di tre anni dopo, ci si esibirà un individuo che ha cantato "crocifiggiamo i laici" e si presenta come parte di una "teppaglia islamica". È un sacrilegio nei confronti delle vittime e un disonore per la Francia." Poco dopo arrivò anche Marine Le Pen, che accusò Médine di incitare al fondamentalismo islamico. Venne presto organizzata una petizione per chiedere l'annullamento del concerto, alimentata da una vecchia immagine di Médine legata al suo secondo album Jihad (ci arriviamo) che venne falsamente presentata come parte della locandina del concerto.

Médine si difese dicendo che ovviamente condannava gli "spregevoli" attentati. Accusò l'estrema destra di aver sfruttato le sue canzoni per scopi politici distorcendone il senso e di aver strumentalizzato il dolore delle vittime e delle loro famiglie. "Lasceremo che l'estrema destra detti il programma delle nostre sale da concerto, la nostra libertà d'espressione?", scrisse. Il Bataclan scelse di non annullare la data nonostante i numerosissimi messaggi di protesta che vennero postati sulla sua bacheca.

Le associazioni che rappresentavano i sopravvissuti ebbero reazioni di diverso tipo: "Ricordiamo che anche il Bataclan è stato tra le vittime dell'attentato ed è completamente libero di gestire la sua programmazione. La nostra associazione non fa censura, resterà apolitica e non permetterà a nessuno di strumentalizzare la memoria delle vittime a fini politici, come in questo caso", scrisse Life For Paris. "Per noi è stata una scelta un po' goffa", dichiarò invece l'associazione 13onze15. "Lasciamo in pace le vittime, non hanno chiesto di essere coinvolte in tutto questo", aggiunse un loro ex presidente.

"Dopo Daesh, anche i terroristi di estrema destra hanno preso sotto le loro mire il rapper Médine // 'Abbiamo provato a renderlo ma il ragazzo è sempre in vacanza o in tour...'". Una vignetta satirica postata da Médine su Instagram.


Sotto accusa finì anche il titolo del secondo album di Médine, pubblicato nel 2005: Jihad, la più grande sfida è contro se stessi. I giornali italiani hanno puntato molto forte su questo punto, rendendo Médine uno spauracchio. Il Giornale lo ha descritto come "il rapper che canta la Jihad", lo stesso hanno fatto Il Tempo, Leggo, La Stampa. Mauro Zanon del Foglio lo ha definito "rapper filo islamista", traducendo i suoi testi senza contestualizzarli con le dichiarazioni a proposito dello stesso Médine.

L'idea dichiarata da Médine era quella di riappropriarsi del termine "Jihad" nel suo senso più nobile, non in quanto "guerra santa contro gli infedeli" ma come determinazione a vivere una vita virtuosa e diffondere il messaggio dell'islam. "Che tu sia bianco, magrebino o dall'Africa nera, ascolta la mia storia", rappava, chiedendo all'ascoltatore di "capire il suo pensiero, almeno in una canzone". Ma le sue parole più pacate o progressiste, come quando si lamentava per l'assenza del diritto di voto per le donne in molti paesi islamici, sono state cancellate dalla forza esplosiva delle sue dichiarazioni più controverse.

Dato il clima che si era creato, cancellare il concerto è probabilmente sembrata l'opzione migliore a Médine. L'ha definita una "scelta difficile" e disse che lo aveva fatto per "allentare la tensione", ma ovviamente il gesto è stato subito inquadrato come una vittoria dai suoi detrattori, con la Le Pen in prima linea.

Per uno strano caso del destino, Médine aveva scelto proprio "Bataclan" per ringraziare i locali che non avevano ascoltato le polemiche sorte in passato a partire dalla sua musica, permettendogli di esibirsi invece di cedere alle critiche dei suoi detrattori: "Un grande bacio ai locali francesi che non hanno ceduto alle polemiche / Il pianoforte non ucciderà mai il pianista, anche se non gli piace la musica", aveva rappato. Ma la sua storia si è incrociata con quella del suo paese nel modo sbagliato: invece di diventare la voce della sua gente, Médine è diventato il rapper terrorista, violento, barbuto che ha osato volersi esibire lì dove dei criminali hanno ucciso degli innocenti, su quel palco così bisognoso di rinascere diventando un simbolo di unione e uguaglianza.

Médine aveva spiegato il senso di "Bataclan" con uno stato su Facebook: "Nel 1999 il mio fratello Alassane, detto Sals'a, rappava 'Il mio obiettivo è fare il Bataclan / Non restare a guardare clan che si battono'. Quel locale è un simbolo per noi e per gli artisti che lo considerano il miglior contesto in cui esercitare la nostra passione". E invece stasera quel palco resterà vuoto, per la felicità di chi ha avuto paura di Médine e ha scelto di attaccarlo e usarlo per affermare le proprie insicurezze invece che di provare a capirlo, a parlarci, a mettersi nei suoi panni. Quelli di un ragazzo che voleva solo, davvero, suonare al Bataclan.

Grazie a Giulia Fornetti per l'aiuto con le traduzioni dal francese.

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Le tre migliori uscite di oggi

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Ogni venerdì escono un sacco di cose nuove e ve ne consigliamo tre ogni settimana. Ovviamente non possiamo metterci tutte le cose strane che ci piacciono sennò verrebbe fuori una playlist da cinque ore, ma quelle qua sotto vi permetteranno sicuramente di passare un buon weekend fuori dal conforto del vostro Release Radar.

Per il resto, c'è sempre la playlist della settimana di Noisey su Spotify.

Future & Juice WRLD - WRLD On Drugs

Ok, è l'ennesimo album di trap al sapore di cognac, bibite, caramelle, erba e medicinali vari, e probabilmente contiene troppe canzoni. Ormai lo sappiamo come funziona. Ma Future è uno dei pochi pesi massimi della scena di Atlanta che ancora riesce a farci drizzare le antenne dopo le recenti delusioni dei suoi vicini di casa dei Migos, e poi qua sulla traccia con lui c'è l'ultimo piccolo grande della scena, Juice WRLD, in una collaborazione fulminea (secondo un tweet di Future, i due erano in studio appena due giorni fa). Vale un ascolto.

Flohio - "Wild Yout"

Segnatevi questa data perché ho la sensazione che sia come quando è uscito il primo album dei Velvet Underground (leggenda vuole che Brian Eno al riguardo avesse dichiarato: "non hanno venduto molti dischi, ma chiunque ne avesse comprato uno poi ha formato una band"). Flohio è una rapper di Londra Sud e finora non abbiamo sentito molto parlare di lei, ma oggi ha sganciato questa bomba chiamata "Wild Yout" su Spotify che ci ha fatti saltare sulle sedie come la prima volta che abbiamo ascoltato, boh, Skepta o quello che vi pare a voi. Se tutte le ragazze che l'ascoltano non iniziano a rappare come delle belve assetate di sangue, non sappiamo più come convincerle.

Empress Of - Us

Vi siete già innamorati quest'autunno? Non ancora? Meno male, perché adesso potete vivere la magica esperienza di usare il nuovo album di Empress Of come colonna sonora per i vostri primi appuntamenti. Un disco dolce, leggero, che gira intorno a semplici immagini di vita di coppia appoggiate su ballonzolanti beat, molto vari e ariosi, roba che ti viene voglia di organizzare una festicciola su un tetto di Brooklyn per salutare il caldo che se ne va.

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Idea regalo per Halloween: il dildo con la faccia di Marilyn Manson

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A quanto pare Marilyn Manson crede che non ci siano abbastanza sex toy a tema sul mercato. Per rimediare, il god of fuck ha messo in vendita un (leggermente inquietante) dildo griffato Marilyn Manson sul suo negozio online ufficiale, e giusto in tempo per Halloween! Il Marilyn Manson Official Double Cross Dildo & Bag è un dildo di silicone lungo poco più di 20 cm e largo quasi 4 cm con la base a ventosa. Oh, e ha il volto di Manson dipinto sulla punta (sulla testa?) del dildo! In caso avessi dei dubbi sulla sicurezza del prodotto, la descrizione specifica che la vernice non è tossica e che il silicone è ipoallergenico. Il colore "potrebbe sbiadire con l'utilizzo ripetuto", quindi, ecco... non dateci troppo dentro, immagino.

Manson ha annunciato il prodotto su Instagram, scrivendo "Immagino che questo sia... Halloween. #dickortreat". L'ultimo album del nostro anticristo preferito s'intitola Heaven Upside Down, ovviamente. Compra il Dildo Doppia Croce Ufficiale di Marilyn Manson qui e facci sapere quanto costa la spedizione, perché... ehm... interessa a un mio amico.

La versione originale di questo articolo è stata pubblicata da Noisey AU.

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Siamo stati al concerto di Ghali a Torino

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Alla fine Ghali ce l’ha fatta: dopo Album e un centinaio di date in discoteche e festival, è riuscito a passare “dai palazzi ai palazzetti”, come recita uno degli slogan del suo nuovo tour. È infatti da pochi giorni iniziato il suo primo tour ufficiale, le cui date si svolgeranno lungo tutta la penisola, ma appunto solo ed esclusivamente in palazzetti. E dopo una “data zero” al Palabam di Mantova, che a quanto mi dirà poi Ghali è stata vissuta come una sorta di “prova generale”, è il concerto di questo sabato al Pala Alpitour di Torino la prima data ufficiale.

Un tour ambizioso, che scommette di riempire interi palazzetti, anche se si svolge in un periodo artisticamente freddo per Ghali. Sono infatti già passati un anno e mezzo dall’uscita di Album, quattro mesi dall’ultimo singolo, "Zingarello", e quasi un anno dall’ultimo grande successo, "Cara Italia", uscito a fine gennaio. Aspettiamo a capire se la scommessa avrà successo: a oggi l’unica data sold out è quella di Milano, mentre alla data zero si sono registrate circa 2300 presenze su 6.200 di capienza: un’accoglienza numericamente un po’ freddina, anche se tutti i resoconti sono stati d’accordo nell’affermare che lo show fosse di alta qualità.

La struttura dello spettacolo è ambiziosa tanto quanto la scommessa di riempire i palazzetti, e forse è stata ideata proprio con questo scopo. È infatti concepito come un vero e proprio spettacolo più che un semplice concerto, con un fil rouge narrativo intorno alla storia della vita di Ghali e al suo rapporto con l’amico immaginario Jimmy, famoso già come simbolo della Sto, e accompagnato da video originali, dialoghi in tempo reale con una voce che rappresenta Jimmy e la presenza di una band con due coriste.

ghali torino pala alpitour alessandro bosio
Ghali al Pala Alpitour. Foto di Alessandro Bosio.

È con queste premesse che arrivo a Torino. Nessuno ha dubbi sulle capacità come performer di Ghali, spanne sopra buona parte dei suoi colleghi proveniente dalla scena trap, ma basteranno le sue capacità a sorreggere uno spettacolo così ambizioso? E poi: quale sarà il suo pubblico? Sarà pronto a gestire un intero palazzetto?

Prima dello spettacolo Ghali incontra noi giornalisti per una tavola rotonda. È vestito Gucci, il brand che gli fornisce anche gli abiti di scena. Ci saluta, e si siede su un divano davanti a noi, ostentando tranquillità. Qualcuno gli chiede come mai è così calmo: “se mi agitassi sarebbe ancora più difficile”, risponde sorridendo. Io gli faccio per prima cosa una domanda un po’ banale: cosa si prova a cantare in un palazzetto, essendo passato subito dalle discoteche a questo? Lui mi risponde che anche se gli faceva un po’ paura, è stato quello che aveva in mente da un po’, anche perché “quando suonavo nelle discoteche c’era sempre un sacco di gente che restava fuori”. Faccio notare che secondo me la sua vocazione da palazzetto, la sua vocazione pop, si notava fino dal tentativo non riuscito con la Troupe d’Elite. Ghali è d’accordo, e allora gli chiedo se è a suo agio a non avere più davanti a sé soltanto il classico pubblico di adolescenti e giovani adulti che hanno i suoi colleghi, ma anche molte famiglie con bambini. “Io non voglio che succeda quella classica cosa per cui in macchina il papà e il figlio litigano su che musica mettere. Io voglio che la mia musica metta d’accordo tutti”.

A proposito di questo, quando qualcuno gli chiede se lui si ispiri a Michael Jackson. “Michael vive in tutti noi, in tutti coloro che lo hanno ascoltato”, dice, ma semmai si sente più affine a Disney: il suo spettacolo è concepito per evocare “nostalgia ai più grandi e stupire i più piccini”. Quanto allo spettacolo, concepito insieme a Giò Forma e The Perseverance, Ghali spiega che la parte narrativa è concepito come un addio ad Album, prima di chiudersi in studio a registrare nuove canzoni, e come un viaggio attraverso la sua vita che parte dalla fuga di sua madre dalla Tunisia per cercare una vita migliore in Italia fino ad arrivare alla vita di Ghali nel presente. Gli chiedo se pensa un giorno di andare a suonare in Tunisia o nel mondo arabo, dove è molto ascoltato, tanto quanto (se non più) che in Italia. Ghali mi dice che questo spettacolo è facilmente traducibile, e che gli piacerebbe molto portarlo nel mondo arabo, ma non solo: anche per il resto del mondo, perché “è uno spettacolo universale”.

Qualcuno chiede se pensi che in questo periodo, durante il governo Lega-5 Stelle, il suo tour possa avere un significato anche politico, visto che in scaletta ha messo anche il "Salvini Freestyle" del 2015. “Eh certo, hai mai visto un ragazzo tunisino, che viene dalle case Aler di Baggio, arrivare a fare tutto questo? Certo che ha un significato di questo tipo”. Allora gli chiedo se veda un incremento del razzismo in Italia. Mi risponde senza esporsi troppo: “penso che quando alcuni personaggi fanno uscite di questo tipo [razziste], i poverini, nel 2018, sono loro. Sono cose che andranno a sparire naturalmente, che stanno già sparendo”.

ghali live concerto pala alpitour torino tour
Ghali al Pala Alpitour. Foto di Alessandro Bosio.

Finisce il tempo dell’intervista, e andiamo a disporci sugli spalti. Piano piano il Pala Alpitour si riempie fino a circa due terzi: gli organizzatori dichiarano di aver venduto circa 8000 biglietti, con prezzo medio piuttosto alto, intorno ai 35 euro. Il pubblico è per gran parte composto da giovanissimi, per lo più accompagnati dai genitori. Anche l’urlo “Ghali! Ghali! Ghali!” che nasce dagli spalti quando si spengono le luci, che sembra provenire da un coro di voci bianche, conferma questa sensazione.

Il concerto si apre con un video introduttivo dal sapore cinematografico, in cui Ghali incontra uno sciamano che pronuncia il suo nome; poi cade come in trance, e noi vediamo delle riprese che sembrano provenire da un video di Lettieri, ma invece che la Napoli di Liberato abbiamo Tunisi, per poi finire con una vera clip di Ghali da bambino. A quel punto inizia il concerto: Ghali, grazie a dei teli che lo circondano a 360°, appare circondato dalla pioggia: quando questa finisce inizia Lacrime, e il pubblico è già in visibilio.

In questa parte del concerto sul palco ci sono solo lui e DJ Dev che lo accompagna. Le canzoni che seguono sono "Optional", un medley con "Cazzo Mene", "Vai Tra" e "Sempre me", "Bugiardi Freestyle" e "Pizza Kebab". Nel frattempo fa il suo ingresso Jimmy, come voce fuori campo che fa da un lato da spalla comica a Ghali e dall’altro sembra cercare di metterlo in difficoltà, e di rammentargli le difficoltà che hanno affrontato nella loro vita. Sullo schermo dietro Ghali, quando parla con Jimmy, è proiettato un cielo stellato. Il tutto ha effettivamente un sapore piuttosto disneyiano. Cosa che forse un po’ stona con alcuni suoi testi un po’ crudi, ma non troppo con il personaggio di Ghali, che si è certo dato una ripulita (per piacere anche alle mamme, potremmo dire), ma che dopotutto fin dall’inizio della sua carriera solista aveva scelto come mascotte proprio Jimmy, un personaggio della sua infanzia.

La scenografia, i giochi di luci, i video e il BlackTrax – un sistema di tracciamento che permette a Ghali di spostarsi liberamente sul palco automaticamente seguito da luci e telecamere – sono davvero stupefacenti: è proprio un bello spettacolo, in senso estetico e visivo.

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Ghali al Pala Alpitour. Foto di Alessandro Bosio.

A questo punto, durante un intermezzo musicale arabeggiante che fa da preludio a "Wily Wily", entrano sul palco le due coriste, Nadia Guelfi e Jennifer Vargas Antela, e la band, composta da Gianluca Ballarin alle tastiere, Leonardo Di Angilla alle percussioni e Luca Marchi al basso. Durante l’intervista Ghali aveva preannunciato “molti miei colleghi hanno provato a fare cose con la band sotto, ma spesso snatura i loro pezzi. Invece in questo spettacolo funziona bene, perché sono arrangiamenti semplici, di quattro elementi”. Devo dire che Ghali non l’ha sparata, ma in effetti la presenza di una band strumentale non snatura i suoi pezzi, anzi, all’ascolto non si rimane minimamente spiazzati: i pezzi suonano come se fossero stati concepiti così.

Dopo "Happy Days" arriva l'unico ospite della serata, Capo Plaza, per "Ne è valsa la pena". Poi si prosegue con il resto della scaletta fino a chiudere con "Ninna Nanna" (durante la quale Ghali scende dal palco per raggiungere le prime file) e "Cara Italia". Lo spettacolo si chiude con un altro video, in cui riappare lo sciamano, completando così il filone narrativo.

Il pubblico è in visibilio. Lo spettacolo è stato davvero coinvolgente, e a livello tecnico eccellente, sicuramente nell’ambito del mondo trap ad oggi insuperato. C’è da dire che Ghali, da quello che si può intuire, cerca di fuoriuscire dall’ambito rap/trap da cui è nato per cercare di rivolgersi a un pubblico il più ampio possibile. E forse non è un caso che dopo alla data zero di Mantova avesse affermato che “pure Stromae è partito dal rap”: sperando, per quanto mi riguarda, che non si lasci andare a tentazioni sanremesi, staremo a vedere dove lo porterà questa strada. I presupposti per un vasto successo di pubblico, in ogni caso, ci sono tutti.

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Recensione: MØ - Forever Neverland

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“MØ è l’artista danese che si è piazzata più in alto nella classifica settimanale di Billboard dal 1961 ad oggi”. Va bene che le grandi hit internazionali del pop danese sono “Barbie Girl” e “Witch Doctor” (o magari qualcosa con un sacco di falsetto di un signore pittato di bianco e nero), ma c’è comunque un innegabile interesse attorno alla figura di Karen Marie Ørsted da quando Diplo e i suoi Major Lazer l’hanno portata sul tetto del mondo con “Lean On”.

Forever Neverland è il secondo album della scandinava e tenta clamorosamente di surfare la lunghissima scia del pezzo dei Major Lazer e DJ Snake. Nel suo debutto No Mythologies To Follow (2014) c’erano un sacco di rimandi electro e una forma pop tutta nordica, figlia dei Knife di Deep Cuts, di Lykke Li e di tutta quella gente che da decenni intasa le classifiche nell’Europa delle socialdemocrazie ma di cui noi meridionali ci stiamo accorgendo solo in tempi recenti; questa volta MØ cerca di mantenere quell’impianto e di aggiungere spudoratamente un layer di commerciabilità internazionale.

Via quindi a una serie di collaborazioni che non fanno dell’incisività il loro marchio, ma che rendono vendibile Forever Neverland a qualunque latitudine e da entrambi i lati dell’Atlantico: l’immancabile Diplo per il lato danzereccio (“Sun In Your Eyes”), Charli XCX per i brits (“If It’s Over”), Empress Of per i latini (“Red Wine”). E il risultato migliore, come troppo spesso in questi casi, è quando MØ non cerca di strafare e si concentra sulle cose sue (“Beautiful Wreck”, “Trying To Be Good”), con semplicità e molto poco alle spalle della sua voce. E comunque, a parte una bella voce e un’impostazione volutamente sciatta che sembra voler ricalcare l’autotune che va tanto di moda di questi tempi, il risultato non va oltre il discreto.

Il limite di queste canzoni è quello di voler essere troppo presentabili: uniformi, uguali e formalmente indistinguibili l’una dall’altra, funzionano benissimo per un ascolto passivo, ma poi ti ritrovi ad ascoltare “Purple Like The Summer Rain” ("California, you're aware that everybody wants ya, yeah / Just like my old crush, yeah, he was something else / Now I found my love in California, ya") e non puoi fare a meno di strabuzzare occhi e orecchie al pensiero dell’ennesima pin-up che arriva sulle spiagge assolate dal freddo paesino del nord, sorta di Factory Girl versione globalizzata. E insomma, da una popstar danese nel 2018 ti aspetti un po’ di più che non il wow-effect per le spiagge assolate. Non pretendi Sharin Foo, ma certo qualcosa che vada oltre la poetica hollywoodiana, che quella l’hanno già decostruita da vent’anni.

Morale della favola: niente maturità artistica per la trentenne danese, solo un’ottima voce non supportata dalle giuste idee. Poi se i Major Lazer riusciranno a mettere insieme un’altra “Lean On” spero tantissimo che la facciano cantare a lei, perché ne uscirà senza dubbio un’altra mina. Però Forever Neverland è un disco inoffensivo, che spara a salve, e MØ deve decisamente trovare degli argomenti migliori per dare significato alle sue canzoni, per ora perfettamente amalgamate al pop più generico. Il che significa che scalerà sicuramente le classifiche e non dovrà mai preoccuparsi dell’opinione di gente come me.

Forever Neverland è uscito il 19 ottobre per Sony.

Ascolta Forever Neverland su Spotify:

TRACKLIST:
1. Intro
2. Way Down
3. I Want You
4. Blur
5. Nostalgia
6. Sun In Our Eyes
7. Mercy feat. What So Not, Two Feet
8. If It's Over feat. Charli XCX
9. West Hollywood (Interlude)
10. Beautiful Wreck
11. Red Wine feat. Empress Of
12. Imaginary Friend
13. Trying To Be Good
14. Purple Like The Summer Rain

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Nitro è il primo rapper italiano su Colors

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Colors è un canale YouTube che ci ha regalato grandi momenti di fotta con live in studio di gente come, boh, tanto per dirne qualcuno: Mykki Blanco, Kali Uchis, 070 Shake, Mac DeMarco. Il format è semplice: c'è una stanza tutta dipinta di un colore, un microfono, e un cantante che ci canta dentro.

Finalmente è arrivato il turno di un italiano di partecipare a questa vetrina internazionale con due milioni di follower: su uno stiloso sfondo color oro, Nitro Wilson ha prima sparato una delle sue tracce più cattive, "Passpartout", e poi è passato al nuovo singolo, mai sentito prima, "Lucifero". Il cambio di mood rispetto al precedente è straniante e irresistibile: il pezzo ha una gran botta soul e ha fatto sculettare tutta la redazione oltre che, a leggere i commenti, più o meno chiunque abbia visto il video.

Nel post su Instagram con cui ha presentato l'impresa, Nitro si è detto "onoratissimo" di essere stato scelto e ha dichiarato che Colors è "il migliore show di YouTube", cosa che in qualità di ideatori di The People Versus abbiamo preso un po' sul personale. Scherzo.

Guarda il video in cima al post e continua a supportare la scena italiana.

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Cinquanta sfumature di Jamie xx

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Club to Club Festival torna anche nel 2018. Abbiamo deciso di presentarlo con quattro articoli che raccontano quattro dei migliori artisti del cartellone di quest'anno. Abbiamo cominciato con Blood Orange, continuato con Aphex Twin e l'ambient/romanzo di Leon Vynehall. Terminiamo con il profilo dell'artista di punta di venerdì, Jamie xx, uno dei producer che hanno dato forma al suono inglese contemporaneo. I biglietti per Club To Club 2018 sono in vendita.

Ci doveva essere qualcosa di davvero speciale alla Elliott School. Non può essere un caso che dalla stessa scuola siano usciti continuamente e per quasi mezzo secolo musicisti di livello tra il notevole e il super-mega-wow. Peter Green dei Fleetwood Mac, gli Hot Chip, i Maccabees e pure Herman Li dei Dragonforce quando non era impegnato a suonare un assolo di sette minuti al doppio della velocità necessaria salvo poi doverlo tagliare per farlo stare in un video, e tanti altri ancora hanno camminato nei corridoi dell’istituto di Putney, a sud ovest della City. C’è però un tipo di musica in particolare che ha beneficiato degli alumni della Elliott, ed è affascinante notare come sia tipicamente lontanissima da qualsiasi ambito studentesco o scolastico: la dubstep. Perché dalle aule di Putney arrivano nientemeno che Kieran Hebden, che passerà alla storia come Four Tet, William Bevan, che passerà alla storia come Burial, e James Thomas Smith, che passerà alla storia come Jamie xx. Che è un po’ come dire l’uomo che ha reso possibile la dubstep, l’uomo che le ha dato forma compiuta e il ragazzo che la sta portando nel futuro.

Per quanto io mi sforzi di apprezzare gli xx (nota a margine: indovina che scuola hanno frequentato Romy e Olly? Bravo), non riuscirò mai a trovarli così geniali come tanti li ritengono. Sono bravi, sono interessanti, hanno anche permesso dei remix assolutamente improbabili ma zarri da Dio, eppure mi danno l’idea di una gabbia all’interno della quale il vero genio del trio si rinchiude. Le basi degli xx sono tra le cose più giuste del pop-tronico degli ultimi dieci anni, ma rimangono sospese, un po’ velleitarie e un po’ frammentarie; l’ultimo minuto di “Fantasy” che ti molla lì, impietosamente, sull’orlo delle lacrime, “Islands”, che sembra sul punto di crescere ed evolversi in qualcosa di assolutamente indimenticabile, ti abbandona sul ciglio di qualsiasi cosa avrebbe potuto diventare. xx era un album con un sacco di spunti, ma ho sempre pensato che troppo pochi di questi avessero trovato reale concretizzazione, che i beat di Jamie, sempre sul punto di esplodere verso la fine di un pezzo, fossero stati tenuti al guinzaglio.

Un paio d’anni dopo, l’ancora giovanissimo produttore ha dato prova di grande duttilità mettendo mano a un intero album di Gil Scott-Heron, remixandolo e pubblicandolo appena due mesi prima che delle mai confermate ma probabili complicazioni dell’HIV costringessero il cantautore americano ad abbandonare questo mondo. Anche come tappeto per spoken word e concetti importanti i paesaggi sonori di Jamie si dimostrano perfettamente all’altezza, e We’re New Here raccoglie consensi tra i fan dell’electro, tra i fan della musica impegnata e anche tra quelli che passavano di lì più o meno per caso che sono andati a sbattere sul remix di “New York Is Killing Me”. Eppure ancora una volta Jamie è al servizio di qualcuno, esattamente come è al servizio dei Radiohead, di Four Tet e di tanti altri ancora. Il mondo si sta rapidamente accorgendo di lui, ma lui sembra essere un ragazzo molto normale, oltre che intelligente: suona, si fa conoscere, ma non esagera, non si atteggia a grande star e soprattutto non ha fretta di lanciare la propria carriera in solitaria. È “solo” all’alba dei ventisei, ben sei anni dopo il debutto degli xx, che sgancia la bomba clamorosa.

jamie xx in colour
La copertina di In Colour di Jamie xx. Cliccaci sopra per ascoltarlo.

In Colour è un prontuario dell’elettronica giovane contemporanea, un inno alla trasversalità come pochi se ne sono sentiti ultimamente. È un album per i clubber, perché c’è un beat in ogni canzone ed è facilissimo tirare fuori versioni dancefloor da qualunque pezzo con ottimi risultati. È un album per i romanticoni, perché ci sono i toni soffusi e sognanti, a tratti malinconici. È un album da ascoltare con gli amici, e infatti Jamie ospita Oliver Sim e Romy Madley-Croft, gli altri due terzi degli xx, ed è tutto comfy e accogliente. È un album moderno, anzi attuale, tanto che su “Good Times” spunta addirittura Young Thug. Ma soprattutto In Colour è l’album che infarcisce la dubstep di cose altre: hebdenismo (Four Tet è un altro dei mille ospiti di Jamie, e i suoi echi sono ovunque lungo tutta la durata dell’album), cultura pop distorta e filtrata alla maniera IDM un po’ creepy tipo Aphex Twin (il video di “Gosh”, tra ragazzi asiatici ossigenati e neri albini, fa passare in secondo piano i campionamenti della BBC), e poi le venature pop siringate negli umori di Burial. Basta la sola “SeeSaw” per avere una sintesi di tutto quanto: Four Tet la co-produce, Romy e quindi gli xx alla voce, Burial come orizzonte, la forma-canzone come mezzo di espressione.

Quando ho sbattuto contro In Colour la prima volta non mi aspettavo di uscirne così tanto a pezzi: qui c’era tutto quello che gli xx promettevano, ma faticavano a compiere. Curiosando qua e là, spunta un’intervista del solito Guardian che chiarisce il punto: è lì che Jamie dice di quanto un album solista lo abbia costretto a portare a termine il proprio lavoro, di come si diverta un sacco a iniziare a lavorare a dei pezzi e allo stesso tempo faccia una fatica incredibile a finirli. Ed è una condizione lampante, la puoi quasi respirare nei dischi degli xx, ma non in In Colour. Qui lo spettro è completo, i colori ci sono tutti, anche se Jamie dice di non sentirsi completo senza i suoi amici e che è per questo che in tutti i suoi lavori solisti ci sarà sempre lo spazio per una stanghetta della X.

Forse Romy e Olly lo aiutano ad esprimersi, certo lo fanno sentire tranquillo, lui che è così schivo e lontano dallo stereotipo della celebrità. Eppure non riesco a togliermi il pensiero che questa comfort zone lo trattenga dallo scavare a fondo, dal far emergere quella dancehall melancholy che lo identifica in maniera così forte. In Colour si accomiata con “Girl”: “I want your love / Give me your love” per quattro minuti di dolcezza profonda in salsa dub, effettati, rimescolati, sciolti e ricostruiti. Potresti pensare che sia un caso, finché non leggi la confessione a cuore aperto: Jamie dà il meglio di sé quando è infelice. “...Mi aiuta. Non è che mi sforzi di pensare a cose tristi, ma… il fatto è che faccio musica per essere felice”.

Jamie xx sarà a Club To Club venerdì 2 novembre insieme ad Avalon Emerson, Beach House, Iceage e Peggy Gou. Acquista i biglietti sul sito del festival.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine. Seguilo su Instagram.

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Recensione: Future & Juice WRLD - WRLD ON DRUGS

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"Sono in studio con Juice, abbiamo fatto abbastanza mine che possiamo uscire con un tape questa settimana". È così che lavora Future, d'impeto. Una notte, una manciata di beat e lo sciroppo che serve per tirare le sette di mattina. Finché il cervello riesce a tirare fuori parole, finché c'è ancora lingua da spremere.

Un buon punto per cominciare a entrare in WRLD ON DRUGS è "7am Freestyle", che rivela l'orario della sua nascita nel titolo. La voce di Juice non è cristallina come al solito. Se è lì in studio con un gigante come Future è proprio grazie a lei, che butta fuori dalla gola in dolci melodie con una naturalezza invidiabile. Ma la scorrevolezza di "All Girls Are The Same" o "Lucid Dreams" non è neanche un'opzione nella melma del primo mattino. "Oggi non ho mangiato ma mi sono preso un perc / E ho pregato Dio che non mi facesse stare male", rantola Juice. È facile immaginare Future guardarlo, sorridente, come un professore di fronte a un alunno diligente.

È proprio questa dialettica a rendere WRLD ON DRUGS un mixtape da non perdere in mezzo al marasma di uscite che definisce la scena hip-hop contemporanea. Future—l'unico trapper di Atlanta ad aver sempre scosso le fondamenta del suo palazzo di progetto in progetto, l'unico a essere riuscito a coniugare nei suoi flow opulenza e dolore senza cadere quasi mai nella mera autocelebrazione—aumenta di una dimensione la portata artistica di Juice, obbligandolo a mollare le sue storie d'amore tossico e a perdersi nella nebbia degli eccessi.

"Ho detto a quella bitch che non c'è way around it, tipo Future / E poi ho scoperto che ieri si stava facendo Future" rappa Juice su "No Issues", cristallizzando il misto di reverenza e cameratismo nei confronti del suo anfitrione che trapela dal tape. Se fossero calciatori, Juice e Future sarebbero punte associative capaci di migliorarsi reciprocamente le performance: basti notare le simmetrie strutturali di "Jet Lag" e "No Issues", l'apice corale del ritornello di "The World On Drugs". Un'attenzione al dettaglio che non si interrompe nemmeno quando i due sono soli sulla traccia, come testimonia la ripresa che Future fa della dichiarazione "And all the love I got for Atlanta, I got the same for Chiraq" al termine delle due strofe di "Afterlife".

A rendere memorabile WRLD ON DRUGS è l'evidenza del contesto in cui è stato creato. Juice e Future sono palesemente nella stessa stanza a scrivere insieme, mettersi alla prova, spingersi al limite. E così i featuring, solitamente pensati per diversificare i progetti, risultano i brani più deboli del lotto. Nicki Minaj, Gunna, Young Scooter e Yung Bans intervengono con strofe trascurabili, mentre Young Thug si difende con una buona dose di dadaismo esilarante (e la tengo in inglese: "I got 10 chains on me, ho, I ain't got nothin' against 2 Chainz"), Lil Wayne inietta romanticismo nella gelida "Oxy" ("Dormiamo tipo su un'isola da qualche parte alla Galapagos / Qua in alto siamo soli, teniamoci per mano, Geronimo"). Ecco, "Oxy": ascoltarla significa esporsi alla qualità che distacca Future dal resto della marmaglia trap di Atlanta. Lungo il corso dell'intero brano la sua voce si fa un rantolo acuto, quasi fastidioso: un gesto che contiene tutta la sua voglia di continuare ad ampliare il suo spettro sonoro di progetto in progetto, come fa in maniera quasi continuativa ormai dai tempi di Beast Mode.

I mixtape collaborativi spesso restano nella memoria collettiva come divertissement, pastrocchi nati da nuove amicizie che vengono ascoltati per il peso dei nomi coinvolti più che per l'effettiva qualità del contenuto: pensiamo a Drip Harder di Lil Baby e Gunna, a Huncho Jack, Jack Huncho di Quavo e Travis Scott, allo stesso What A Time To Be Alive di Future e Drake. Sebbene abbia momenti di stanca—soprattutto i featuring, come dicevamo—WRLD ON DRUGS fa invece convivere irruenza e progettualità, mettendo in mostra le qualità dei suoi autori. Juice non sembra più un ragazzino ferito, libero di fare lo zarro come non ha mai potuto fare; Future riscopre la sua vena iper-melodica ("Astronauts", "Fine China", "Shorty") e, come non succedeva dai tempi della doppietta FUTURE / HNDRXX, sembra divertirsi sulla traccia invece che usarla come un confessionale.

WRLD ON DRUGS è uscito venerdì 19 ottobre per Epic / Interscope.

Ascolta WRLD ON DRUGS su Spotify:

Tracklist:

1. Jet Lag (feat. Young Scooter)
2. Astronauts
3. Fine China
4. Red Bentley (feat. Young Thug)
5. Make It Back
6. Oxy
7. 7 AM Freestyle
8. Different (feat. Yung Bans)
9. Shorty
10. Realer N Realer
11. No Issue
12. WRLD On Drugs
13. Afterlife
14. Ain't Livin Right (feat. Gunna)
15. Transformer (feat. Nicki Minaj)
16. Hard Work Pays Off

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Recensione: St. Vincent - MassEducation

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Annie Clark, in arte St. Vincent, è sempre stata precisa: ogni due o tre anni un album, a cadenza regolare da ormai più di un decennio. L’anno scorso Masseduction non sembrava un’eccezione alla regola formale, ma una volta ascoltato si rimaneva piuttosto scombussolati da quanto il pop cantautorale della cantante si fosse spinto ancora oltre.

Da Marry Me a Masseduction è passata tanta acqua sotto i ponti di St. Vincent quanta ne è passata sotto quelli di Iron & Wine tra The Creek Drank The Cradle e Beast Epic. Pure il colore caldino e rosino degli ultimi tempi è simile, in contrasto con l’ocra o il grigio del decennio scorso. In più però Annie ha aggiunto il fluo dei neon e il leopardato di un abitino succinto, andando a scardinare la tradizione che ha sempre visto il suo viso pulito in copertina, e il risultato è un album divertente, divertito, provocante e provocatorio. Perfettamente in linea con il percorso evolutivo St. Vincent, assolutamente lontano dal core sonoro da cui St. Vincent è partita.

In quest’ottica stupisce e allo stesso tempo non stupisce trovarsi pochi mesi dopo davanti a MassEducation, versione alternativa di Masseduction, che di colpo perde tutti i neon e i colori accesi e i culi leopardati in copertina per mettere la nuova St. Vincent in mano alla vecchia St. Vincent con il supporto di Thomas “Doveman” Bartlett (che oltre che con Yoko Ono e i National ha collaborato proprio con Iron & Wine nel momento della sua svolta). Il risultato è un collage in ordine diverso delle dodici canzoni di Masseduction (qui manca l’interludio “Dancing With A Ghost”) letteralmente spogliate di qualsiasi orpello. La fotografia in questo senso è paradigmatica: Annie è nuda, di schiena, e ti guarda attraverso un filtro appannato, che ti permette di individuarla, di capire che è lei, ma non di metterla a fuoco.

MassEducation è un disco di sola voce e piano, registrato a quanto pare in appena un paio di giorni prima ancora che Masseduction fosse pubblicato, nel periodo tra la conclusione dei lavori e la stampa dell’album.

Clark dice che MassEducation non è stato preparato, è semplicemente uscito, e l’umore che lo permea è proprio quello di una serata in cui si ritrovano due amici, lei parla e lui ascolta, e riescono ad affrontare qualsiasi argomento in modo onesto e appassionato: luoghi, situazioni, rapporti, ricordi, e ciascuno di questi viene discusso con un registro diverso, perché Doveman è bravo e offre una varietà non indifferente. “Masseduction” è ancora suadente, “Pills” è ancora una critica ironica e plateale, “New York” è ancora malinconica e struggente, eppure tutto avviene in modo diverso, a luci spente, con un’intimità che è sempre stata lì, ma prima era nascosta dai neon e dagli arrangiamenti sbarazzini e sbrilluccicosi.

Ne rimane che MassEducation è St. Vincent denudata di tutto ciò che non era strettamente essenziale, in una versione di se stessa che richiama gli esordi con la delicatezza e la maestria della maturità cui è arrivata in tutti questi anni. Una deviazione che dà corpo a uno dei mille percorsi possibili che Anne Clark avrebbe potuto intraprendere se qualcosa fosse andato diversamente.

MassEducation è uscito il 12 ottobre per Loma Vista.

Ascolta MassEducation su Spotify:

TRACKLIST:
1. Slow Disco
2. Savior
3. Masseduction
4. Sugarboy
5. Fear The Future
6. Smoking Section
7. Los Ageless
8. New York
9. Young Lover
10. Happy Birthday, Johnny
11. Pills
12. Hang On Me

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Ascolta la registrazione in cui XXXTentacion confessa i suoi crimini

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Pitchfork ha ottenuto una registrazione di XXXTentacion, ucciso a giugno 2018, in cui parla dei crimini di cui era accusato e per cui sarebbe dovuto essere processato. Avevamo già riassunto i dettagli del caso: X era accusato di avere picchiato la sua ex-ragazza, all'epoca incinta, di averla strangolata, tenuta prigioniera e di avere corrotto dei testimoni.

Nella registrazione, che risale a ottobre 2016 e di cui potete ascoltare un estratto, X dice:

"Ho reso un'altra persona la fonte della mia felicità ed è stato un errore fin dall'inizio, no? Ma lei ha sbagliato, ogni volta, fino ad ora. Finché non ho cominciato a farle il culo [fucking her up, ndt], fra. Ho cominciato a farle il culo perché aveva fatto un singolo errore. E da lì è cominciato il ciclo. Ora ha paura. Quella ragazza ha paura per la sua vita. E lo capisco."

In un'altra parte dell'audio X dice "Ucciderò quella puttana se proverà a scherzare con me". Le persone con cui sta parlando non sono state identificate, ma dicono a X che non può passare del "tempo in privato" con la sua ex e provano a tranquillizzarlo quando lui gli dice di avere avuto pensieri suicidi.

X parla inoltre di una rissa in cui avrebbe accoltellato otto persone per spiegare ai suoi interlocutori il motivo per cui la sua ex ragazza avrebbe paura di lui. "Ha visto 'sta merda, lo sa", dice. Ma cosa? "Mi hanno messo sul giornale per aver accoltellato della gente. Quanta ne hanno messa? Hanno detto che erano tre, erano otto". La notizia è stata confermata da Pitchfork, che ha fatto risalire il fatto a gennaio 2016. Un testimone aveva dichiarato alla polizia di avere visto "un maschio di colore con dei tatuaggi in faccia che brandiva un coltello".

Pitchfork scrive di avere ottenuto la registrazione, che dura 27 minuti, dalla corte dove si sarebbe dovuto tenere il processo a X. Secondo la corte, sia per l'accusa che per la difesa la registrazione era considerata come una confessione e sarebbe probabilmente stata la prova cardine su cui si sarebbe basato il processo.

Elia è su Instagram.

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Lil Yachty ha ancora molto da dimostrare

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Vi ricordate la compilation della Quality Control uscita l'anno scorso? Si chiamava Control the Streets Volume 1. C'erano su Lil Yachty, Nicki Minaj, Travis Scott, Cardi B, i Migos, Young Thug, Gucci Mane e Lil Baby. Ma giuro che anche con una pistola puntata alla tempia non saprei dirvi il titolo di una canzone di quel progetto. "Blow Like a Whistle" con Quavo e YRN Lingo? Sì, l'ho sentita... forse. Boh. Magari c'era Ty Dolla $ign da qualche parte? Chissà. Mi è scivolata addosso.

La Quality Control, etichetta dei Migos, è l'etichetta rap più influente degli ultimi cinque anni ma non è nota per curare molto sulla quantità del materiale che pubblica. Vi ricordate quando è uscito Culture II dei Migos e tutta la stampa musicale ha fatto notare che magari non c'era bisogno di un progetto di un'ora e venti per 24 canzoni? E che l'attenzione si era spostata dalla qualità alla quantità dato che agli artisti, per discorsi di hype e guadagni dagli streaming, conveniva buttare fuori un sacco di roba? Ecco, stiamo per ricascarci dentro dato che dopo il noioso QUAVO HUNCHO arriveranno anche album solisti di Takeoff e Offset, in attesa di Culture III, programmato per la prima metà del 2019.

Il piano della Quality Control è quindi questo: vogliono saturare il mercato, hanno paura di dire ai loro artisti che potrebbero anche tagliare qualche pezzo e gli piace molto sparare nel mucchio. Ed è un modello di business più che decente nell'era dello streaming, ma c'è da dire che applicarlo a Lil Yachty potrebbe essere dannoso per il futuro della sua carriera. Il suo nuovo LP, Nuthin' To Prove, è uscito venerdì proprio per Quality Control. Un anno e mezzo fa eravamo tutti convinti che fosse il futuro della musica e nel frattempo lui ha pubblicato due album: Teenage Emotions e Lil Boat 2. Il primo era pieno di figate che andavano oltre il concetto di genere musicale: c'era un po' di trap scadente, certo, ma in mezzo a brani creativi ed esuberanti che confermavano il potenziale del loro autore. Lil Boat 2, invece, era solo trap scadente.

nuthin 2 prove yachty
L'artwork di Nuthin' 2 Prove di Lil Yachty. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Date queste premesse, Nuthin' 2 Prove è quasi un sollievo. Ha dentro un sacco di beat super glitchati e dissociazioni ambient che ricordano le atmosfere sognanti del suo vecchio mixtape Summer Songs 2. I featuring non sono un peso, a parte la trascurabile "Who Want The Smoke" con Cardi B e Offset, e Yachty se la gioca bene sulla traccia contro Juice WRLD, Lil Baby, Gunna e Playboi Carti.

Resta il fatto che c'è un sacco di materiale trascurabile attorno a quei pezzi. Quando Yachty cinguetta felice le sue filastrocche trap è nel suo elemento naturale, mentre quando tira fuori il petto e fa il duro non sembra né a suo agio né convincente. Il primo brano, "Gimmie My Respect", dovrebbe essere un colpo di avvertimento ma sembra lo spruzzo di una pistola ad acqua. "Riley From The Boondocks" vorrebbe essere una dichiarazione d'intenti e invece sembra che Yachty stia parlando nel sonno. "I'm The Mac" sembra cantata da un fattone che cerca di gridare al telefono e contiene una rima rivoluzionaria come "pussies" / "pussy".

Fatico a capire perché Yachty si sbatta a fare pezzi del genere, canzoni in cui non sembra nemmeno divertirsi e fa palesemente fatica a tirare fuori roba da duro. Un esempio è "We Outta here", in cui rappa "Your boyfriend a maggot / Prolly is a…", cioè "Il tuo ragazzo è una larva / Probabilmente è un..."—la frase si dovrebbe concludere con "faggot", cioè "frocio", cioè una parola di cui l'intera scena rap ha appena parlato per il casino scoppiato tra Eminem e Tyler, The Creator. Divertente, eh?

Questi momenti finto-crudi di Nuthin' 2 Prove sono tra l'altro piuttosto strani dato che Yachty ha fatto successo negli Stati Uniti e nel mondo soprattutto per la sua capacità di scrivere musica felice e spensierata. Il suo faccione compare in un sacco di pubblicità americane, ma non perché i brand stavano cercando un clone meno capace di 21 Savage che avesse voglia di vendere lattine di Sprite. Forse volevano il tipo che rappava "È stata la positività a renderci famosi" e piace tanto ai ragazzini.

E allora da dove vengono fuori le canzoni che rovinano Nuthin' 2 Prove? Se non hanno senso a livello commerciale, allora forse Yachty è davvero ancora rintanato nel suo mondo, seppellito nella fossa che i suoi primi critici gli avevano scavato. Forse sta cercando di impressionare i puristi del genere, chi lo aveva attaccato perché—oddio—faceva musica spensierata e senza pretese.

Ma immaginiamo un universo alternativo in cui a Yachty non deve davvero dimostrare niente a nessuno e può fare quello che gli pare. Allora Nuthin' 2 Prove sarebbe un album di nove pezzi. Avrebbe al centro le emozioni di "Forever World", collaborazione con Trippie Redd, e un pezzo ballabile come "Worth It", una "Nice For What" dolce come un sorbetto. Conterrebbe l'efficace "SaintLaurentYSL", la bruciante "Fallin' in Luv". Ci sarebbero "Everything Good, Everything Right," "Next Up," e la malinconica "Yacht Club" con Juice WRLD. "Get Dripped" con Playboi Carti sarebbe ancora lì. "Stoney", una tenera canzone d'amore ambient pop senza pretese, starebbe benissimo dov'è ora, cioè alla fine del progetto.

E questo LP tagliuzzato non sarebbe comunque perfetto. Lil Yachty ha 21 anni e sta ancora capendo quale sia la strada migliore da prendere. Parlerebbe comunque troppo di sesso orale, nello specifico di quello che riceve. Farebbe ancora battuta infantili e scriverebbe ancora qualche barra debole. Ma magari si renderebbe conto che fare il duro non è roba sua. E crescerebbe, diventando l'artista che tutti sappiamo può essere. Quello che ribalta le convenzioni del rap con un sorriso, gioca con il pop più zuccheroso, si perde in intermezzi ambient e collabora solo con artisti che condividono la sua visione. Nuthin' 2 Prove, per come è, ci insegna solo che Yachty ha ancora bisogno dell'aiuto di qualcuno se vuole scrivere il capolavoro che sappiamo può scrivere.

Una versione di questo articolo è apparsa originariamente su Noisey US.

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Guarda Noisey Meets Ernia

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Questo momento per Ernia ha superato ogni aspettativa. Certo, le sue aspettative non erano alte: assicurarsi l'ingresso gratuito alle feste. Ora guarda gran parte della scena rap italiana dall'alto con il suo nuovo album 68.

Lo abbiamo portato al bar per farci due chiacchiere sul successo, sul rapporto con i suoi fan e sul ruolo della sincerità nel rap. Guarda il video qua sopra e iscriviti al canale YouTube di Noisey Italia.

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Roshelle è la rapper di cui abbiamo bisogno nel mainstream italiano?

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Il 2018 è l’anno in cui, in qualche modo, l’Italia si è resa conto che c’era un gap quasi incolmabile tra l’underground e il mainstream. Se, al di là del livello che non discuteremo in questa sede, nei meandri del rap non da classifica c’era una dignitosa rappresentanza di rap al femminile (penso a Loop Loona e Leslie su tutte), i vari Sfera, Gué, Ghali, ecc. non avevano un corrispettivo femminile che permettesse alla sempre più ampia fascia di pubblico under 18 femminile di riconoscersi in qualcuno e non sentirsi appellata come “bitch” ogni due secondi.

Così, più o meno da gennaio, sono emersi molti tentativi di colmare questa lacuna, di trovare il volto di donna giusto da piazzare davanti a un microfono. Il problema, finora, sembra essere la spontaneità: complici i produttori invadenti e la diffidenza del pubblico, i progetti finiscono per subire pesanti influenze da parte di agenti esterni. In parole povere, è difficile che il ghostwriting (neanche troppo ghost) venga digerito bene in un ambiente in cui anche i colleghi uomini oltreoceano (o in Italia, basti pensare a Fedez), vengono accusati e calunniati se c’è anche solo il sospetto che tutte le rime non escano dalla stessa penna, ovvero quella di chi canta.

Non che ci sia nulla di male nel famoso "prodotto costruito a tavolino" (stiamo parlando di music business), ma è una cosa che fa storcere il naso se si vuole introdurre una persona come primo esponente di un determinato genere. È un attimo che la figura della rapper risulti quasi un'imposizione per un pubblico fortemente maschilista che non vede l’ora di poter fare qualche coro imbecille appena ne ha occasione.

roshelle tutti frutty singolo cover
La copertina di "Tutti Frutty". Cliccaci sopra per ascoltare la canzone su Spotify.

Roshelle, in tutto questo, è la risposta. Per quanto ora possa suonare come una bestemmia, nell’epoca dei social e dell’esposizione 24/7 a 360 gradi, anche X Factor vale come “gavetta”. E dunque Rosh la sua gavetta se l’è fatta: si è fatta le sue cover, come in un piano bar di provincia, ha rispettato e onorato il contratto che lega chi esce da un talent con dei brani in inglese le cui sonorità ricordavano un po’ Drake, un po’ The Weeknd, mentre tutti continuavano a dire “oh, ma se ha cantato così bene Nicky Minaj sul palco di XF, perché non la fanno rappare?”.

Roshelle ha un immaginario molto forte, molto colorato e soprattutto molto spontaneo. Ora, so che le teste dure potranno nuovamente storcere il naso, ma, ripeto, non stiamo parlando di underground, stiamo parlando comunque di mercato musicale, in cui tutto (o quasi) ha una patina di pettinato, in quanto prodotto commerciale e commerciabile, oltre che artistico.

“Tutti Frutty” è il primo brano in italiano di Roshelle, un personaggio così forte che è un peccato che finora abbia cantato solo in inglese in un mercato, quello italiano, in cui di base il pubblico non saprebbe tradurre “the pen is on the table”. A livello testuale c’è ancora molto da lavorare, per quanto faccia sorridere “Duck my sick” che ribalta lo stereotipo tipicamente machista del parlare del proprio cazzo e quell’inflessione napoletana che sembra un riferimento a Liberato, e anche lei ha degli autori (Andrea Spigaroli, anche lui scuola XF) che però non c’entrano molto con il mondo rap.

Ma soprattutto il motivo per cui questa trappata risulta credibile è perché, in qualche modo, era attesa: Roshelle l’ha presa alla lontanissima, mentre tutti le dicevano “guarda che puoi essere la nostra Nicky Minaj”, lei cantava, in inglese. A quasi 3 anni dall’uscita dal talent arriva con un brano prodotto da Don Joe in cui rappa, evolvendo in maniera naturale e facendo scoppiare la bolla dell'hype. Forse è presto per dire che abbiamo trovato la nostra Cardi B, ma sicuramente con Roshelle è arrivata una rapper donna italiana mainstream da seguire con attenzione.

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I Sxrrxwland cantano storie di vampiri materialisti

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I Sxrrxwland (si legge Sorrowland) sono un trio romano di musica trap composto da Giovanni Vipra (prima voce), Gino Tremila (direttore artistico, seconda voce), Osore (produttore).

Il materialismo dei Sxrrxwland è venato di sconfitta, come una condanna dalla quale non ci si può smarcare. I Sxrrxwland sembrano essere il punto insieme di arrivo e di non ritorno della trap, intesa come musica che abbraccia il realismo capitalista: dalla loro terra futuribile, venata di dolore, i Sxrrxwland piangono sulle macerie di un capitalismo sfiancato, sono i portavoce della classe disagiata, “troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle”. Li ho intervistati.

I Sxrrxwland presenteranno dal vivo il loro album Buone maniere per giovani predatori alla serata Asian Rave, organizzata da Asian Fake e Linoleum in collaborazione con Noisey al Rocket di Milano venerdì 26 ottobre. Per entrare in lista a prezzo ridotto registrati a questo link.

sxrrxwland buone maniere per giovani predatori
La copertina di Buone maniere per giovani predatori. Cliccaci sopra per ascoltarlo su Spotify.

Noisey: Buone maniere per giovani predatori, uscito per Asian Fake, è il vostro primo disco. Trovo che abbia una sensibilità pop molto spiccata. Siete soddisfatti del risultato finale?
Sxrrxwland: Sì. Con la nostra musica cerchiamo sempre di proporre qualcosa che sia ascoltabile o condivisibile, se non di facile ascolto. Cerchiamo di rendere complessità popolare: la comprensione delle nostre opere può avvenire su più livelli, ciascuno può recepirle fin dove la sua sensibilità riesce ad arrivare.

Il vostro pezzo preferito di questo disco?
Forse "Eli Lilly".

Mi fate lo spiegone?
Vipra: Un giorno ho scoperto questo nome, "Eli Lilly", che è un farmaco per la schizofrenia, e ho chiamato Gino dicendogli: facciamoci un pezzo sopra. Eli è un nome maschile che suona come un nome femminile, ed oltretutto è un nickname perfetto per Instagram: queste due cose insieme mi piacevano molto. Abbiamo costruito il pezzo intorno a questa metafora: le persone si ingeriscono l’una con l’altra come se fossero pillole. Le consumano in modo totalmente disinteressato. E quando una ragazza guarda il mio profilo Instagram, è perché è pronta a farsi ingoiare. Io parlo proprio di questo egotismo vuoto, senza senso, una cosa frustrante e squallida, che però c’è e non si può ignorare; e neanche demonizzare, perché entrano anche in gioco dei meccanismi neurologici. Non è che puoi dire: “che schifo, se mi faccio una sega vengo”. Sarà pure una cosa effimera, ma non per questo è meno reale, tangibile. Anche prendere un antidepressivo è una costruzione della scienza chimica, però l’effetto è concreto. Lo stesso vale per l’approvazione sociale, che è il motore della musica italiana: gli artisti parlano tutti del proprio cazzo. Quanti artisti in meno ci sarebbero, in Italia, se le pischelle lasciassero di meno i fidanzati?

I Coma Cose cantano: “Musica italiana? Te la spiego: lei lo lascia, lui va in para”.
Pure Fabri Fibra lo dice in "Squallor": pensano di essere depressi ma li ha solo lasciati la fidanzata. Il punto è che quando si parla di certe cose, in generale, c’è una certa ombelicalità, un certo... ripiegarsi su sé stessi.

Quindi dici che parlare di depressione è, in un certo senso, una cosa solo speculare all’ostentazione morbosa della prima ondata di trap.
Sì, perché sempre di guardare il proprio cazzo si tratta. Noi cerchiamo di fare una cosa un po’ più complicata, proviamo a rendere le nostre esperienze personali dei paradigmi delle dinamiche umane. Il modo in cui le cose hanno una umanità, una vita, una caducità... è una cosa che ci ammazza.

Non ricordo dove ho letto: la tristezza è superficiale quando una parola giusta di qualcuno può bastare a salvarti.
Le persone confondono i concetti di “depressione” e “dinamica emotiva presa in modo tragico”. Essere depressi è un’altra cosa: significa non volersi alzare dal letto, non aver voglia di scrivere. Quando sei depresso, vuoi morire e basta.

La depressione ha più a che fare col realismo capitalista che non con una storia d’amore finita male.
Vipra: Sì. Il punto è che... quando il realismo capitalista mostra un limite, ti deprimi. Hai un’aspettativa, ti scontri con la realtà capitalistica e stai male. Noi siamo tutti nati negli anni Novanta e alla televisione ci dicevano costantemente che eravamo tutti speciali, ma non era vero un cazzo. Pensa i ragazzini del 2000 quanto sono facilitati in questo.

Nascono disillusi in partenza.
Sì, ce l’hanno nel DNA la rassegnazione, ci sono immersi come noi ma in compenso lo sono da subito.

Noi siamo nati con la testa di fuori, poi siamo stati schiacciati sotto piano piano. Oggi le cose estetizzate sono più semplici, o comunque più vicine e raggiungibili: vivere con un io osservante sempre presente, che schiaccia like di continuo alle nostre auto-rappresentazioni, è molto facile. Vipra, come dici in "Facebook": “Ti senti famoso t’ha scritto una troia”.
Vipra: Ci tengo a specificare che quando dico troia non è un giudizio morale, sessista. È una fotografia di squallore x che ho scattato nel momento in cui mi sono reso conto che, per “fare musica seriamente”, mi sono lasciato alle spalle tantissime cose che prima, per me, avevano un valore. La verità è che le cose non resistono molto spesso ad un percorso così tortuoso e ricco di sacrifici come quello della musica. Quando te ne rendi conto, la reazione naturale è quella di dare validità a qualsiasi approvazione arrivi, da ovunque arrivi. Avrei potuto dire: “ti senti famoso e la tua fama è di cartone”, solo che la stessa immagine non sarebbe stata tanto forte. Tutto questo, la fama eccetera, è una specie di metadone.

E se vi chiedessi perché fate musica, allora? È il discorso del rimanere, del “lasciare un’impronta”?
Vipra: Mi piacerebbe lasciare un’impronta, certo. Però... la verità è che non potrei fare altro. Ci ho anche provato, eh, ma niente. Nonostante sia difficile e non ti dia alcuna certezza, so che non potrei fare altro. Ecco.
Tremila: Per quanto mi riguarda, la realtà è molto banale e semplice: fare musica è molto appagante. E, in generale, creare cose mi risolleva fisicamente e anche psicologicamente. Sento un sacco di endorfine nel corpo quando faccio qualcosa in un modo che mi piace e che funziona. È una cosa che mi placa un sacco di... boh.

Demoni?
Tremila: No, pensieri estremamente dedalici che s’incastrano in delle cose lunghissime: quando creo delle cose e li incanalo bene, poi spariscono.

Allora qual è il problema? La paura della bomba, che sia quella atomica o quella del riscaldamento globale?
Vipra: Ogni secolo ha avuto la sua bomba, solo che prima magari si chiamava peste. Il problema, diceva un amico, non è guardare la vita quando sei vivo, ma guardarla nel suo complesso. Se pensi che la vita è soggetta ad una corsa verso l’entropia, allora... le cose diventano terrificanti. E io guardo sempre la vita da questa prospettiva totale. Aspetto la bomba in una giostra già di per sé terrificante.

La vostra musica dunque parla di rassegnazione, o forse più precisamente di assuefazione. Possiamo uscirne?
No. Dovremmo smettere di essere umani, svincolarci dalla nostra condizione. In ogni caso tristezza sarà sempre un business, come la morte. È vero che è facile “arrendersi”, ma la nostra tristezza non è arrendevole. Anche un soldato può continuare a combattere sapendo di star facendo una cosa inutile, senza per questo però rinunciare a farla.

Avete nominato la morte. Vi spaventa?
La morte mi spaventa, ma non abbastanza da essere disposto a rinunciare alla mia condizione di essere umano, caduco e mortale. Perché quello che c’è dall’altra parte è ancora peggio.

Porterete in giro dal vivo questo disco?
Vipra: Sì, venerdì suoniamo al Rocket di Milano, alla prima serata Asian Rave, e facciamo una prèmiere con tutti i pezzi del disco, alcuni come sono usciti e altri in versione diversa, da live. Questa estate siamo stati fermi a lavorare al disco, e siamo molto contenti di ritornare a suonare.
Tremila: Per me il live è una cosa estremamente terapeutica, una performance prima di tutto fisica. Mi purifica da un sacco di stress, e cose che mi stanno addosso. Non ho per niente ansia da prestazione, ma una volta sceso dal palco crollo a dormire. Comunque, cantare a dei volumi anche abbastanza alti delle nostre esperienze è molto bello.

Dove arriveranno i Sorrowland?
Non lo sappiamo, ma non abbiamo fretta. I nostri risultati dimostrano che possiamo prenderci il tempo necessario per fare quello che vogliamo con calma. Comunque stanno cominciando a fare i meme su di noi, da Diesagiowave a Hipster Democratici.

Allora siete quasi arrivati, dai. Ultima: se doveste dare una definizione di Sorrowland, quale sarebbe?
Tremila: Una tristezza che non si lamenta.

Matteo è su Instagram.

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