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Hello, sono un coglione

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Stamattina ho interrotto la mia quotidiana rassegna stampa per andare a leggermi qualche articolo delle riviste online di psicologia (purtroppo nessuno particolarmente illuminante) che riuscisse a spiegarmi perché, nell'anno 2015—dopo che le ideologie sono andate a fanculo e i leader intellettuali sono stati spazzati via dall'artista di strada Banksy—sentiamo la necessità di invadere gli eventi Facebook con slavine di puro nulla. Cosa che è successa con le tette della Ratajkowski, con Boiler Room Napoli, e ora sta succedendo con Adele

Non penso che gli eventi di un social network che andrebbe perlopiù utilizzato per svago siano sacrosanti, ma la facilità con cui si forma una massa a-critica attorno a qualsiasi molecola di merda mi spaventa e mi lascia senza parole. Anzi. Fa parlare direttamente la parte di me stessa che è nata settant'anni fa, quella che detesta le tag sui muri, che crede siano una specie di malattia della società, ed è convinta che l'inutile pisciatina di questo genere sia l'equivalente digitale di una tag sui muri, ossia la cosa meno sensata che un cervello e una mano umana possano fare. 

Forse queste cose succedono perché c'è un desiderio molto forte di far sentire la propria voce, soprattutto in una realtà infettata dai social network in cui qualsiasi opinione del singolo può facilmente essere affossata e diventare un numero, un puntino, uno status tra mille status, un #jesuischarlie dimenticato dopo pochi giorni? Forse le persone che scrivono ad Adele sono mosse dal desiderio di ostentare la propria creatività, la propria originalità? In questo caso, il problema di questo strabordare di opinioni sarebbe, in parte, generato dalla caduta della quarta parete del giornalismo, ovvero dalla nascita e proliferazione del giornalismo digitale, questo, per intenderci: il figlio degenere del gonzo journalism. Indipendentemente dalle considerazioni su cosa sia una "buona" scrittura, sta di fatto che arrivare ad esprimere una propria opinione su un blog è abbastanza semplice, e che, soprattutto secondo il modello Facebook, l'opinione condivisa e condivisibile sia alla base del successo di un post e, di conseguenza, del suo autore. 

In uno studio pubblicato lo scorso anno, Expressing the “True Self” on Facebook, si parla di come ci siano qualità che noi vorremmo emergessero nella nostra vita quotidiana (il cosiddetto "true self") ma che non riusciamo a tirare fuori. Per molti motivi, Internet e il social network ci permettono di dare un'idea potenziata, diciamo "truccata" di noi stessi, che è quello che succede più o meno ogni volta che adorniamo il nostro "self" con gattini, musica, commenti politici, meme o selfie al cesso per farlo diventare un "true self" coi controcazzi. Gli autori di South Park sono abbastanza consapevoli di questa tendenza, tanto che costruiscono un intero episodio, The Hobbit, in cui le ragazze della scuola che caricano su Internet selfie in cui ci han dato dentro di photoshop sono considerate le più tope. Come a dire: oggi le conferme psicologiche di cui abbiamo bisogno le troviamo molto più volentieri nella realtà social che in quella reale. 

Ed è più o meno questo procedimento psicologico che sta dietro al debordare di vere personalità che, ultimamente, invadono a grappoli foto, eventi e personaggi in quello che è diventato una specie di Giochi Senza Frontiere dell'umorismo. E così il social network mostra a pieno uno dei due lati della medaglia, rendendosi catalizzatore di una frustrazione condivisa per cui si senta il desiderio che il nostro "io pimpato" sia prima di tutto notato, poi considerato simpatico. La cosa triste è che questa frustrazione è completamente fine a se stessa, perché effimera (la quantità di post sullo stesso evento fa sì che venga presto dimenticata, a meno che non si riutilizzi un fake vecchio di mille anni come quello della minaccia di uccidere un animale) e totalmente self-oriented. Ne è la prova il fatto che Adele, in questo caso, è irrilevante: la maggior parte di chi scrive non ha molte nozioni su di lei (le si scrive di trovarsi un fidanzato, quando basta leggere una qualsiasi intervista recente per venire a conoscenza del fatto che la signora è pure diventata mamma) e nemmeno è interessata ad averne. In fin dei conti è diventato tutto autopromozione, tanto che ora hanno iniziato a postare sull'evento di Adele anche marchi (vedi i fazzoletti Tempo) o pagine di artisti come Emma Marrone o Gianni Morandi, grandi social media manager presso se stessi. 

Stupidamente, avevo creduto che il "flash mob" fosse il fondo dell'umanità. Poi è arrivato il termine "virale," "viralizzare" e ho iniziato a pensare che il cervello-internet avesse iniziato a ragionare con gli stessi concetti con cui, un tempo, ragionava il cervello anti-internet, quello per cui un virus era, come nella vita reale, qualcosa da cui difendersi. In questi ultimi tempi, però, sono gli utenti Facebook a rendersi virali, ossia a diventare, volontariamente, parte di un virus che invade angoli random di Internet. Non che ci sia qualcosa di male ad essere un virus, soprattutto in casi come questi, fastidiosi e inutili non molto più di questo link. Il problema è quando l'immediatezza della reazione-viral a qualche fenomeno di Internet attecchisce su concetti di entità leggermente diversa, come gli attentati a Parigi, rischiando di rendere meme—un simbolo, con tutto il pericolo che i simboli si portano dietro—privo di significato l'adesione a un non-concetto che la viralizzazione ti tira addosso.

Lasciando da parte le considerazioni deontologiche, l'impressione, guardando questo caso dall'esterno e con quell'occhio moralizzatore della me stessa nata settant'anni fa, è che ci troviamo di fronte a un quantitativo immenso di tempo e sforzi sprecati. Quanti grandi scrittori ci sono, là fuori, che non hanno miglior piattaforma che un evento Facebook per esprimere i loro pensieri, e che triste pensare che queste penne, quando l'evento diventerà l'ennesima esplosione social dimenticata, dovranno trovare un'altra discarica dell'internet su cui esprimersi. Noisey è in costante ricerca di collaboratori e sul sito di VICE Italia c'è una sezione dedicata alle posizioni di lavoro aperte. Non lasciate che siano i buchi neri di Internet a inghiottire la vostra voglia di emergere. Rendete un servizio alla società e unitevi alla squadra. 

Segui Virginia su Twitter: @virginia_W_

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