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Gli italiani non hanno ancora capito il rap italiano

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In queste ore, dopo la tragedia della Lanterna Azzurra di Corinaldo prima del concerto di Sfera Ebbasta, si sta facendo la gara a chi la spara più grossa sul rap. Analisi dei testi, analisi dell’immagine come se fossimo davanti a dei Da Vinci da decifrare, analisi del pubblico. Per l’ennesima volta da quando il rap è tornato mainstream nel 2006 stiamo passando sotto il metal detector ogni minimo aspetto del genere per capire cos’abbia di sbagliato, nonostante la risposta più scontata sia una: niente.

Ma allora, posto che il rap è un genere “giovanile”—trovo potesse essere così negli anni Ottanta, agli albori, non dopo quarant'anni di vita, ma diamolo per buono—e posto che i canali mainstream fanno ancora fatica a dare spazio in modo qualitativamente notevole, perché in Italia non abbiamo ancora compreso il nostro stesso rap?

Se chiedeste a vostra madre di farvi il nome di un rapper, novantanove volte su cento vi risponderebbe "Jovanotti". Conosco molte teste dell’hip hop che in modo abbastanza innocente si sono avvicinati al genere con “Il Capo della Banda”, poi hanno capito che quella cosa lì era solo la punta dell’iceberg e sono andati avanti per volontà personale. Chi opera nel mainstream, spesso, tende invece a non approfondire.

wad dark polo
Wad e la Dark Polo Gang negli studi di Radio Deejay, cliccaci sopra per guardare l'intervista completa su YouTube.

Il fenomeno DPG è un esempio perfetto. Ormai è totalmente pop, lo conosce anche la casalinga di Voghera. Ma se escludiamo dal ragionamento contenuti prodotti dal settore per il settore, c’è qualcuno che abbia mai provato a spiegare seriamente perché quattro ragazzini di Roma Nord hanno cambiato lo strato mainstream del rap italiano? Senza che vi sforziate ve lo dico io, no. L’unico che in qualche modo ha provato a normalizzare la DPG, usando il tutto però anche come tornaconto personale, è stato Francesco Mandelli, che essendo completamente altro rispetto al mondo del rap, anche solo nell’apparire ha introdotto un pubblico a un determinato movimento.

Antonio Dikele Distefano è stato bravo, nel tempo, a costruirsi un bacino d’utenza enorme che era suo e solo suo. Ed è stato quello a permettergli di aprire un magazine (non solo quello, ma anche quello) e parlare di rap. Ma di nuovo: Esse, già Sto, parla di rap per chi ascolta rap. Eppure ha il pubblico di Ghali che si abbevera alla sua fonte, un bacino enorme di piccoli ascoltatori che sanno cosa stanno maneggiando e possono insegnarlo anche ai loro genitori.

Ma non si può pensare che sia il fan a educare le masse: la normalizzazione della cultura rap e la sua comunicazione a chi la considera qualcosa di distorto rispetto alla realtà deve partire da noi. Sarebbe bello se riuscissimo a smettere di far credere al Paolo Bonolis di turno che il rapper è quello con il cappellino storto che fa “yo”, perché è un attimo che diventi il figlio del Diavolo.

Tommaso è su Instagram.

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