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Abbiamo parlato con Davide Toffolo del suo libro sulla Cumbia

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Quando fai parte di una comunità diasporica, cioè separata dal tuo territorio di origine, tendi a idealizzare la tua appartenenza alla tua terra d'origine, innescando un bizzarro fenomeno di auto-esotizzazione. "Siamo privilegiati, Sonia, siamo nati in Occidente," mi ha detto qualche settimana fa un amico, anche lui latino ma cresciuto negli USA. "Non possiamo andare in giro a parlare delle nostre terre di origine come se ci avessimo vissuto, perché non è così." Vero. E quel che è peggio è che così facendo spesso finisci a enfatizzare gli stereotipi e le visioni che le culture e società dominanti hanno di quelle minoritarie, come la tua.

Odio essere la persona che specifica la sua provenienza prima di un discorso, proprio per questo motivo. In casi come quello che mi ha portata qua, a scrivere del nuovo libro di Davide Toffolo Il cammino della cumbia. Le circostanze di partenza erano però talmente sbagliate che non ho avuto molte alternative. “Sono cresciuta con questa musica,” non riesco a evitare di sbottare appena Toffolo, al telefono, fa per spiegarmi la storia della cumbia peruviana. “Da che ho memoria che in casa dei miei si ascolta solo huayno e cumbia. So com’è nata, so cosa si porta dietro.” “Anche la chicha?” chiede Toffolo. “Sì, anche la chicha. Siamo peruviani.”

Un po’ di contesto: Davide Toffolo, 53 anni, frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti e fumettista nel maggio 2017 assembla la compilation Istituto Italiano di Cumbia vol.1, nella quale propone una nuova onda di "italo-cumbia" ad opera di 9 gruppi provenienti da tutta Italia. Alcuni di questi hanno membri di origini latine ed è grazie alla loro presenza che Toffolo è autorizzato a tirare in ballo la dimensione diasporica del progetto, che in poco tempo diventa un collettivo. Peccato che la direzione artistica non sia in mano alla diaspora latino-italiana, ma a un gruppo di artisti italiani che vedono nella cumbia "il futuro della musica".

sul cammino della cumbia davide toffolo
L'artwork di Il cammino della cumbia di Davide Toffolo.

Sarebbe strano il contrario. Sul piano grafico il libro è efficace, e anche l’inventiva presa nella narrazione corale. Trovo però che questo aspetto sia secondario ai temi alla radice del progetto in sé, che vi ha portati a realizzare il libro.
Sento che sei molto diffidente in partenza, infatti. Questo qua è anche un libro divulgativo, se ci pensi: vuole divulgare cultura, in questo caso sulla cumbia. La divulgazione sulla cultura della cumbia, in gran parte è avvenuta anche attraverso del sito americano per il quale lavori tu. Ci sono infiniti articoli su Noisey che parlano di cumbia, sono bellissimi e sono fatti da nordamericani.

È questo il mio problema. Sei familiare con il termine “whitewashing?”
No, non conosco.

È un fenomeno in cui una realtà dalla qualsiasi natura—artistica, culturale, sociale, politica—di appartenenza non-bianca e non-occidentale, viene ripensata/resa appetibile da e per un pubblico bianco e occidentale. A me sembra che la vostra operazione sia un po’ questa, da lì la mia posizione critica.
Non saprei. Sai, forse questa è la cosa più importante e bella che ho mai fatto nella vita artistica, quindi per me è un po’ difficile essere oggettivo. Perché comunque prevede il rapporto con una storia enorme e con un territorio gigantesco, che non è una cosa da poco, né che ho fatto con leggerezza. Detto questo nel nostro progetto Istituto Italiano di Cumbia, ci sono tante voci di persone appartenenti alla diaspora sudamericana. In primis Nahuel Martinez, producer e DJ del gruppo, con cui ho viaggiato. Poi Kit Ramos, il cantante dei Cacao Mental, che è di Tingo Maria, Perù. Quando parlo di musica con lui, o ascolto la sua musica per me è una cosa grossa. Ci sono tante altre persone come me che sono affascinate da questa cosa. L’anno scorso c’era King Coya, che, ripeto, secondo me è un artista gigantesco, ma quando viene in Italia parla a 70 persone a concerto, non a trentamila.

Una volta, prima del viaggio, eravamo tutti in studio, noi Istituto e la sua band, e stavamo provando insieme. A un certo punto ho proposto: “Facciamo una canzone metà fatta da noi, metà da voi.” Ho proposto di prendere un pezzo de Los Pibes Chorros e riarrangiarlo, ma loro mi hanno detto di no. “La cumbia villera, resta villera.” E l’ho rispettato, perché è una cumbia nata nelle villas, le baraccopoli bonaerensi, e nessuno di noi veniva da là. Abbiamo optato per un altro compromesso, una combinazione di cumbia e rock nacional, ed è uscito fuori un pezzo che per metà parla di Buenos Aires e per metà di Milano. Io lo trovo un ponte culturale potentissimo. Ci si può chiudere,o avere dei ragionamenti acuti come quelli che hai tu rispetto alla realtà delle cose, che sono giusti. Mi ha fatto piacere parlare di questi argomenti con te, d’altra parte però stiamo parlando di un amore per una cultura, per una musica. Non ci vedo nulla di appropriativo. Ad ogni modo la musica è così: scappa. Secondo me c’è poco da fare.

Oltretutto a me interessa la cumbia nella sua variante italiana, perché continuo a essere convinto che stia prendendo sempre più piede. Alle presentazioni del libro che porto in giro per l’Italia, mi concentro proprio su quella, soprattutto nei dj e live set. La mia parte, in particolare, è solo di italo-cumbia. È una bomba, perché non l’ha ancora mai fatto nessuno.

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