C’è sempre un momento nella vita in cui uno sceglie qualcosa in cui credere. A volte si scelgono il caos o il nulla, altre volte la musica. Agli inizi degli anni Novanta, una parte sempre più consistente di giovani europei ha scelto di credere nel potere sovversivo della techno e in un certo modo di ballarla a oltranza sotto effetto di droghe. I raver si sentivano portatori di una nuova cultura inclusiva e anti-capitalista, destinata a cambiare le sorti del mondo, a costruire un futuro alternativo a suon di bpm accelerati ed empatogeni.
In Italia, agli albori, non si usava nemmeno la parola rave. Sui volantini c’era scritto techno non-stop 24 ore, techno party. Non c’erano video delle serate, fanzine particolarmente rappresentative della scena—a parte, forse, Torazine—o giornali che ne parlassero. A nessuno fregava niente di chi organizzava o di chi suonava. C’erano feste senza console, i dj erano spesso nascosti e se portavi con te una macchinetta fotografica c’erano buone possibilità che qualcuno si incazzasse. I free party, insomma, erano "un virus dentro la metropoli" in cui l’anonimato era un valore.
Alle prime feste non c’erano neanche i pusher. Era buona norma andarci già muniti di droghe per evitare che si creasse un business dello spaccio. Poi la scena, crescendo, è invece diventata sempre più legata alle droghe e per una serie di ragioni fisiologiche è lentamente deflagrata. Oggi il rave, in tutte le sue declinazioni, è uno dei format del divertimento. Ma come tutte le controculture si è svuotata di una parte della sua forza sovversiva originaria, scalfita dall’impatto dei mutamenti sociali e dal cambio generazionale.
A distanza di più di vent’anni, l’esigenza principale è quella di storicizzarla, di raccontare i valori di cui era portatrice per inserirla sempre più legittimamente tra le manifestazioni culturali del secolo scorso. Rave In Italy, uscito ieri per la casa editrice milanese Agenzia X, è una raccolta di testimonianze dirette di chi ha visto nascere questo movimento in Italia, in particolare a Torino, Roma, Bologna e Milano. L'autore, Pablito el Drito, aka Pablo Pistoiesi, è un attivista, dj e produttore ed è a sua volta un membro storico della scena rave milanese.
È un libro di facile lettura e allo stesso tempo utile per avere una consapevolezza della controcultura che stiamo celebrando quando ci ritroviamo alle sei di mattina con i bassi che ci rimbombano nella cassa toracica. È anche fonte inesauribile di etichette interessanti e nomi di producer sconosciuti. Io, da pseudo-digger quale sono, ho incontrato Pablito nella sua casa-studio-libreria armata di una certa gratitudine.
Una delle questioni ricorrenti nei racconti, infatti, era la difficoltà di procurarsi i dischi. Su molti non c'era nemmeno scritto il nome del producer. Alcune etichette corrispondevano a un numero di telefono, tipo la storica Fax . Oggi è impensabile.
Non c'era internet, c’erano a malapena i cellulari. Napster è arrivato nel 1999, vedi tu. Per comprare i dischi dovevi andare a Londra, o in qualche negozio sperando che avesse degli import decenti. A volte se eri fortunato potevi prenderli alle feste. Roba senza etichetta, materiale anonimo, di cui sapevi poco o nulla.
Molti degli intervistati parlano del fatto che la ketamina ha contribuito a uccidere la scena. Secondo te è così?
La keta l’hanno portata le tribe nel 1997. All’epoca era ancora legale, praticamente te la regalavano. La dieta del tipico raver degli albori invece era fatta di ecstasy, speed e acidi. Solo dopo sono entrate le altre droghe. Diciamo che, quando è arrivata la ketamina, le persone che ho intervistato avevano già quasi smesso di fare festa. Sicuramente non è una droga da party, ti porta ad andare in botta e a isolarti, ma i problemi sono stati vari. Se proprio vogliamo parlare di droghe, i danni grossi secondo me l'ha fatto l'abuso in generale. In particolare quello di eroina e cocaina, che in un primo tempo alle feste erano tabù.
Ho l'impressione che la cassa dritta sia diventata ufficialmente cool. Penso, per esempio, al festival Terraforma. Mi ha impressionata vedere un pubblico modereccio e molto giovane che ballava senza sosta a bpm sostenuti.
Di sicuro c’è una rinascita della techno anche in Italia, ci sono dei producer niente male. Il fascino della cassa dritta poi lo capisco benissimo, io stesso lo subisco da 25 anni. Da un certo punto di vista è normale. È il ritmo più facile da ballare, ti butta in uno stato di trance.
Secondo te, oggi, cosa è rimasto della cultura rave?
Partiamo dal fatto che i rave si fanno ancora, a Milano ne hanno recentemente sgomberati un paio. Io non ci vado quasi mai perché da appassionato di musica cerco più che altro l’innovazione. Il problema del rave oggi è la ripetizione. Negli anni Novanta invece la techno è stata dirompente soprattutto dal punto di vista estetico, è stata un cambio di paradigma totale. Andavi alle feste per meravigliarti. Per rispondere alla domanda, dove c’è una pratica di occupazione e autogestione che propone cultura per me c’è un rave. La logica del rave la crea una forza in espansione, che si tratti di musica, teatro, slam di poesie. Pensa alla realtà di Macao qui a Milano.
Al presidio contro la chiusura di Macao a Palazzo Marino però c’era un decimo delle persone che vengono alle feste ‘rave’.
Vero, però i partecipanti erano molto belli, giovani, liberi. E per alcuni aspetti sembravano molto più avanti di molti raver.
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