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Cinque dischi per capire la musica atonale

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Non so cosa sia successo nelle vostre rispettive bolle durante l'estate, ma la mia notizia preferita degli ultimi mesi è che a Berlino è stato deciso di usare la musica atonale per cacciare i “balordi” e gli “antisociali” dalle stazioni della metro. Le motivazioni? Ce le esprime il portavoce della società ferroviaria tedesca Friedmann Kessler: “Poche persone trovano bella la musica atonale e la maggior parte la considera qualcosa da cui rifuggire”. Una dichiarazione inaccettabile, tantopiù che proprio a Berlino si svolge l'Atonal Festival (non che tratti proprio di musica atonale, però vabbè). Fortunatamente la autorità locali hanno fatto un passo indietro, ma devo lo stesso intervenire.

Cominciamo dalle basi: quello atonale è un metodo di scrittura inventato dal compositore Arnold Schoenberg che rivede fortemente le certezze della tradizione musicale occidentale, ma non le nega come molti vorrebbero farci credere. Lui stesso lo spiega chiaramente nel suo Manuale d’armonia, anno 1911: ”Atonale [letto in termini negativi] potrebbe significare soltanto: qualcosa che non corrisponde affatto all'essenza del suono. Già la parola tonale viene usata in modo non giusto, se la s'intende in un senso esclusivo e non inclusivo. Solo questo può essere valido: tutto ciò che risulta da una serie di suoni, sia attraverso il mezzo di riferimento diretto ad un solo suono fondamentale oppure mediante connessioni più complicate, forma la tonalità”. Come vedete, lo stesso Schoenberg negava decisamente l’etichetta stigmatizzante affibbiata al suo sistema: questo prevede semplicemente che non ci sia gerarchia nelle scale musicali, che nessun suono prevalga sull’altro, dovendo giocoforza inserire maggiori dissonanze, che sbriciolano i luoghi comuni del “bell’ascolto” forzato a favore di qualcosa di realmente inedito (ma anche molto vicino alle musiche etno-primitiviste, quindi tutto sommato universale) che sarebbe più propriamente definibile pantonalità, tonalità multipla, che atonalità, cioè assenza di tonalità. Un bel po' di immaginazione in più, in sostanza.

La spinta di Schoenberg è stata fondamentale per aprire la strada alla musica sperimentale di tutto il mondo, da quel momento fino a oggi. Per cui il fatto che “non piaccia a quasi nessuno” è storicamente errato, anzi, impossibile non notare negli act alternativi di successo e giocoforza nella new wave (che ha sempre avuto un pubblico consistente nelle classifiche) questo tipo di suggestioni. Senza musica atonale non sarebbero esistiti gli Einstürzende Neubauten, David Bowie, né il goth, manco gli assolazzi metal degli Slayer o i campionamenti cacofonici dei Public Enemy, le allucinazioni dei Goblin, le orchestrazioni bizzarre di Zappa, la fusion di Allan Holdsworth, né Sun Ra e le sue rotte stellari. Esatto, perché il free jazz è praticamente un’evoluzione di questa pratica con l’aggiunta del ritmo, per non parlare della psichedelia o del noise, che usa spesso questo linguaggio sviaggione con l’aggiunta dell’effettistica. Così come non sarebbero neanche esistite certe colonne sonore spiazzanti e tipicamente futuribili di cui fortunatamente la nostra generazione si è cibata tramite film di fantascienza: la musica dello spazio profondo, dell’eterno futuro e quindi del presente, del mistero dell’esistenza che è bello proprio perché oggettivamente inquietante come lo è il piacere, ma non angoscioso come vogliono farci credere. Glenn Gould, preveggente, diceva che non sarebbero stati i coevi dell'atonalità a poterla apprezzare, ma i posteri (cioè noi). Tutto sommato i nostri eroi non fanno nient’altro che schiudere più porte alla "armonia celeste".

In realtà la mia irritazione (anche se all’inizio ci ho riso, però poi anche no), è cresciuta esponenzialmente dopo un mio enorme errore di valutazione. Infatti, a una bancarella al mare, ho acquistato un libro che mi sembrava interessante: il titolo recitava furbescamente Dodecafonia e Armonie Celesti, l’autore è Andrea Frova, un fisico che evidentemente ha tempo da perdere in quisquilie che gli competono parzialmente. Leggendo la presentazione sul retro, sembrava un libro in cui si cercava di capire come mai l’atonalità e la dodecafonia (che ne è lo sviluppo effettivo, disciplinato dalla regola di usare dodici suoni che non devono essere mai ripetuti nello spartito) non abbiano avuto diciamo un successo “di massa". È una questione che a me interessa molto, dato che la musica dodecafonica e atonale la metto quando faccio la doccia e per me ascoltarla è la cosa più normale del mondo, per cui non capisco chi non la capisce (ma poi che vuoi capire in fondo? Ascolta e basta, le orecchie le hai per quello).

Non potevo invece sospettare che l’autore portasse avanti una filippica stratosferica su quanto sia perfetta la musica tonale occidentale (ovviamente con un malcelato razzismo per tutti i restanti sistemi del resto del mondo, a cominciare da quelli microtonali) con tanto di dati scientifici sulla percezione dell’orecchio umano, quasi fosse un comandamento divino inattaccabile nonostante oramai ci bombardiamo di suoni assurdi senza crepare (anzi, ce la fanno prendere anche superbene) e invece la dodecafonia sia una cagata basata su calcoli freddi che tolgono calore ed espressività alla musica rendendo l’ascolto “sgradevole”. La soluzione di questo ometto rispetto ad una migliore fruizione della musica contemporanea sperimentale è il ritorno, appunto, a questa cazzata delle “armonie celesti”, cristo, il mito di Pitagora, quando lo sanno tutti che la scuola di Pitagora si è sbriciolata con la scoperta dei numeri negativi, nel momento in cui non sono riusciti a misurare tutta la natura coi loro metri.

Ecco, diciamo che l’atonalità è quest’oggetto non misurabile con i metri di una dottrina tonale data per certa, e i tribuni di questa dottrina anche oggi continuano invece a legittimare insensatamente e comunque le sue macerie, come appunto fecero i Pitagorici che decisero di mantenere segreta la scoperta della loro sconfitta. Ma noi ce ne fottiamo di loro (il libro poi l’ho usato per fermare una gamba del tavolo da pranzo che ballava) e andiamo tosto ad ascoltare quelli che sono alcuni dei miei top five atonali di sempre che ascolto per fare colazione.

Arnold Schoenberg - Pierrot Lunaire (1912)

Per farvi capire quanto sia “ostica” la musica atonale, vi dico solo che comprai il CD di questo capolavoro quando facevo la prima superiore. Entrai a Messaggerie Musicali e mi comprai Still dei Joy Division, il primo dei Loop e Arbeit Match Frei degli Area. E poi vidi il Pierrot Lunaire: ero troppo curioso di sentire questa fantomatica musica atonale che tanto sembrava aver sconvolto le coscienze musicali dell’epoca. Ebbene, l’apertura che recita “Den Wein, den man mit Augen trinkt”, ovvero “il vino che si beve con gli occhi” è rimasta per sempre nel mio cuore ed è una delle cose più belle che mente umana abbia mai partorito. Potrei azzardare che qui Schoenberg anticipa di molto il rap nell’utilizzo del “canto parlato”, usato qui per la prima volta, che porta l’antico recitar cantando in un’altra direzione, tipicamente espressionista, piena di una potenza quasi magica. Ma ci ritrovo anche molta della fascinazione “tossica” del dark e più avanti dell’emo-core. Da quel momento è diventato uno dei miei dischi preferiti, tanto che potrei uccidere qualcuno se non fosse d’accordo con me: d’altronde il protagonista è un poeta allucinato, quasi schizofrenico, che si tormenta e che s’immagina assassino, quindi anche proto-punk.

Anton Webern - Sei Pezzi Op. 6 (1909)

Il mio rapporto con Webern risale a un periodo della mia vita, credo appena finito il liceo, in cui non facevo altro che ascoltare a stecca la Passacaglia Op. 1, la Sinfonia Op. 21, i Cinque Pezzi Op. 10 e questo, il mio preferito. Ovviamente intervallandolo con dosi massicce di Throbbing Gristle. Perfetta colonna sonora di una minaccia incombente: quella del “nuovo che avanza”, di un’Italia che mette il freno a mano e ritorna indietro di mille anni. In tutto questo, l’opera distopica di Webern (che della triade dodecafonica rispetto a Schoenberg e Berg era il più rigoroso applicatore delle regole) cade a fagiolo. Ti strappa le budella, ti avvolge nel terrore di un futuro disastrato e marziale che viene a prenderti a casa per farti fuori, ma ti da anche gli strumenti per resistergli, per esorcizzare la dura realtà facendone suono. Un disco meraviglioso che non dovrebbe mancare nei vostri scaffali, soprattutto perché dice molto di più sullo stato del capitalismo e sulla distopia che stiamo vivendo oggi rispetto ai mocciosi della moderna HD che ancora puzzano di latte.

Alban Berg – Lulu (1937)

Non so se vi ricordate l’omonimo disco di Lou Reed. Ebbene, quella collaborazione con i Metallica gli costò più di una critica, tanto che i fan duri e puri urlarono allo schifo assoluto e al punto più basso della carriera del rocker. In realtà, col passare del tempo, Lulu di Lou Reed è un perfetto spaccato di caos lacerante e, appunto, del punto psichico più basso che uomo possa raggiungere rispetto alla propria dignità, per cui l’interesse non era tanto a fare qualcosa di comodo, ma di fare proprio lo schifo. L’ispirazione gli viene proprio dal soggetto della Lulu di Berg, una stupenda messa in scena lirica contro la morale borghese, piena di assassini, suicidi, ossessioni sessuali e vitalismo assoluto: storia di una donna di strada irresistibile che in pratica tiene per le palle tutti a causa del suo “violento archetipo femminile” che non può essere contenuto in nessun modo. L’opera di Berg è talmente un missile esplosivo lanciato su Marte che addirittura, mancando dell’orchestrazione del terzo atto a causa della prematura scomparsa di Berg, lo stesso Schoenberg, scelto per completarla, disse che non ce l’avrebbe fatta a causa della sua maestosa complessità. E a chi vorrebbe semplicità rispondo che le cose semplici non esistono: anche per fare un Do maggiore bisogna prima imparare come mettere le dita sulla tastiera. Poi, una volta che lo sai fare, diventa semplice. Per cui l’opera di Berg per quanto mi riguarda scorre fiera come se le partiture fossero di zucchero filato, accompagnando i miei pomeriggi autunnali passati magari con un bel cannone in bocca.

Ruth Crawford Seeger – Nine Preludes for Piano (1925-26)

Autrice di cui pochi comuni mortali conoscono le gesta nonostante sia una delle compositrici americane più importanti di sempre (d’altronde fa comodo pensare a un machismo atonale, per cui meglio non si sappia che la “sensibilità femminile” l’atonalità la sentiva sua eccome), scrisse questi meravigliosi preludi negli anni Venti. Sono composizioni che ricordano un Satie che si rivolta in un sonno amniotico perdendo completamente la bussola. Una pioggia di gocce di rugiada che diventano note di piano deliziose, a dimostrare che l’atonalità può essere più ascoltabile di un Lieder di Brahms. Ispirata per lo più dal lavoro di un altro genio totale, Alexander Scriabin, la nostra eroina, nella sua carriera, farà incetta di cluster, contrappunto dissonante (sviluppato da Henry Cowell, un altro bel capoccione) ed eterofonie. Insomma, una tosta: Maria Anna Mozart (che Amadeus riteneva il vero genio della famiglia) sarebbe stata fiera di lei.

Anthony Braxton – Trio and Duet (1974)

Si tende a credere che atonalità e dodecafonia siano roba per austriaci dalla pelle di latte: invece no. Già con il La (ovviamente non in scala) del gigante Charles Ives, in vita sabotato a causa delle sue arditissime composizioni, ci fu un grande interesse a contaminare la materia con la cultura musicale afroamericana, senza timore di contraddizioni. Proprio questa commistione ha creato la poetica di Anthony Braxton. In generale viene considerato come un grande musicista jazz, ma non si limita a questo. Si tratta, anzi, di uno dei più grandi compositori afroamericani di sempre. E proprio per questo, la sua peculiarità stilistica è sempre stata quella di approfondire questo mix tra la musica afroamericana e l’atonalità e finanche la musica elettronico-aleatoria (tanto che scrisse un pezzo intitolato “To composer John Cage”, proprio per essere chiari), ma appunto per questo relegarlo al free jazz sarebbe riduttivo. Lui stesso si rifiuta di chiamarsi musicista jazz e molti del mainstream jazz per tanto tempo, prima della consacrazione, l’hanno snobbato proprio per il suo grande interesse per la musica d’avanguardia europea. Dunque, nella sua sterminata produzione, prediligo questo disco, poiché vi sono affezionatissimo, avendolo trovato a pochi euro in una bancarella tra un LP di Pupo e uno di Mietta e vedendo, tra gli altri, la preziosa partecipazione di Richard Teitebaum alle elettroniche. Mettete da parte gli standard contenuti nel disco, per quanto eccezionali, concentratevi sui brani originali. Dopodiché potrete pescare nel suo repertorio: vi accorgerete che l’atonalità e la dodecafonia sono il suo pane, che da lui masticato diventa incredibilmente blues, incredibilmente attuale e probabilmente è uno dei pochi ad aver tenuto alta la bandiera anche quando la dodecafonia sembrava arenatasi contro la diga dei suoi detrattori, per questo citiamo il suo lavoro nonostante si sia fuori del periodo d’oro dell’atonalità. Perché questa ha ancora un posto nel mondo, finanche oggi: basti pensare a quello che esce da etichette come la Mego e affini. Soprattutto, Braxton dimostra che Schoenberg era più funk che mai, altro che assenza di ritmo.

E quindi chi dovrebbe spaventarsi davanti all’atonalità? Il nocciolo della questione semmai sta nella mancanza di educazione, non tanto culturale quanto emotiva: gli anaffettivi di questi anni Duemila sono molti e anche in musica, ovviamente. Stiamo tornando indietro verso un totalitarismo algoritmico dei gusti, incapace di mettere in discussione le proprie certezze e in cui si ha paura di provare emozioni da qualcosa che non ci si aspetta. Ovvio che se tutti nel mondo avessero ascoltato solo roba atonale o dodecafonica già in fasce, nelle metro per cacciare i ladri userebbero i classici della classica "mainstream", tipo "Per Elisa" di Beethoven. Che in effetti dopo un po’ che la senti, visto che oramai la mettono negli ascensori e nelle segreterie delle aziende telefoniche quando vorresti bestemmiare per la bolletta alta, ti urta pure i nervi, per cui l’esperimento potrebbe riuscire molto meglio. L'esercito USA utilizzava il metal estremo con i prigionieri di guerra. Ma, chessò, il verso di un orso non è un'idea migliore?

Dunque non vedo l’ora di andare a Berlino in qualche stazione e sfasciare ogni cosa mi capiti a tiro insieme a questi “balordi” finalmente a loro agio, novello Alex di Arancia Meccanica, godendo fino in fondo della “musica degenerata” che tanto fece incazzare, guarda un po’, Hitler. E che ancora, a quanto pare, rimane una delle esperienze più contro che il nostro mondo abbia mai prodotto: la musica di chi non ha paura e, per questo, spaventa chi ci vuole paralizzati.

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